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Italian Pages 423 Year 2013
UNIVERSITARIO /LETTERE, 1
CORRADO PESTELLI
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO e altri saggi su Leopardi e sulla famiglia Introduzione di Marino Biondi
www.polistampa.com © 2013 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 – 50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) [email protected] – www.leonardolibri.com ISBN 978-88-596-1180-6
Ai miei studenti, di ora e di sempre
Introduzione Universi leopardiani Studi di storiografia Marino Biondi
«Lungi da me il biasimare lo spirito di ricerca. Si cerchi, si esamini, si progredisca, si rischiari – ma tutto si faccia colla guida di una soda pietà» (Carlo Antici, Don Giuseppe Sambuga e un suo discorso, 1826)
Circa il giudizio sopra le Operette morali, che Ella mi comunica, che vuol ch’io le dica? Dirò solo che non mi riesce impreveduto. Che i miei principii sieno tutti negativi, io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran maraviglia, poiché mi ricordo di quel detto di Bayle; che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere. (G. Leopardi, lettera ad Antonio Fortunato Stella, Firenze 23 agosto 1827)
l’universo leopardiano di timpanaro Carlo Antici e Giacomo Leopardi, zio e nipote, come è evidente anche dalle parole che si leggono in epigrafe, da consanguinei interpretarono i ruoli opposti sulla mappa della cultura e del divenire politico. Una delle ragioni dell’interesse di questo libro sta nella storia di Antici, protagonista della Restaurazione italiana, un contributo importante anche alla biografia di una metà in ombra della mente e dell’animo di Giacomo Leopardi. La geografia italica, il «secol morto al quale incombe tanta nebbia di tedio», il «tedio che n’affoga», che rendono la canzone Ad Angelo Mai (gennaio 1820) documento di una disperazione storica, che non a caso la censura artigliò, hanno in Antici l’ideologo militante, il papista combattente, il restauratore non privo di audacia, di formazione e respiro europei. Il nuovo volume di studi leopardiani di Corrado Pestelli, studioso ben noto di Leopardi1 e curatore della nuova edizione della classica silloge leopardiana di Sebastiano
C. PESTELLI, Occasioni leopardiane e altri studî sull’Otto e sul Novecento, Introduzione di M. Biondi, Roma, Bulzoni, 1998. 1
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Timpanaro2, raccoglie una folta eredità di ricerche sull’autore d’elezione, che resta al centro di un’indagine scrupolosa e sostenuta da una fitta analisi di letteratura critica, di chiose, commenti, scrutini e sondaggi bibliografici. Tutta la leopardistica professa di Timpanaro (Parma 5 settembre 1923 – Firenze 26 novembre 2000)3 era stata raccolta nell’edizione critica di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (2011). L’edizione si basa sull’ultima ristampa del volume (1988), rivista dall’autore, e su quattro copie delle edizioni pisane Nistri-Lischi appartenute a Timpanaro, acquisite, come anche gli altri volumi, dalla Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa. Un’opera, che il curatore definiva a «canone aperto», un’opera che era anche altre opere, più di un libro, ma un territorio, un campo di concentrazione tematico e disciplinare, uno spazio di tensioni ideologiche, un’area critica di conflitti ed incroci. Tanto era complessa la personalità dello studioso, tanto quel suo libro, il suo più noto ed editorialmente fortunato, rifletteva quella complessità. Nel libro di Pestelli, studi leopardiani e studi sul leopardismo timpanariano sono fatti ruotare intorno alla sfera di quel libro storico di Timpanaro, divenuto un classico della storiografia non solo letteraria, ma anche, per certi aspetti, politica e ideologica nella seconda metà degli anni Sessanta4. Il saggio, premesso alla nuova edizione di Classicismo e illuminismo da Gino Tellini (Un libro necessario), è una guida preziosa, lucida e funzionale, alle non sempre facili peripezie della lettura cui quell’edizione rimanda. Non solo, le pagine introduttive di Tellini fermano al principio la eccezionalità dell’autore, su cui si è esercitato un tanto imponente, e oggettivamente arduo, lavoro di ricostruzione e di edizione. Offrono la sintesi indispensabile di una personalità dei nostri studi completamente fuori dai ranghi consueti e, insieme alle presenti pagine di chi scrive, si affiancano a conferire una doppia premessa a questi saggi che in gran parte da quell’edizione derivano. Al netto dei testi, sono i paratesti e le note di curatela a costituire il volume in una sua parte cospicua e centrale. Una monografia sul Timpanaro leopardista e ottocentista. Sulla sua personalità, scrive dunque Tellini: «Definirla versatile e complessa non basta, perché l’arduo connubio di scientificità e passione, di magistero non cattedratico e intransigente moralità, di fiducia nella cultura e abnegazione personale che nutre la vita e la scrittura di Timpanaro (lui, studioso di prestigio internazionale, che 2 S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe, a cura di C. Pestelli, Introduzione di G. Tellini, Firenze, Le Lettere, 2011 (siglato CI). Vd. la rec. di F. Arato, in «Belfagor», a. LXVII, n. 6, 30 novembre 2012, p. 747: «Un’edizione critica di un classico della critica: quando arriva il tempo per un lavoro simile? Mezzo secolo è sufficiente? O si tratta di un intervallo di decantazione troppo breve? C’è il rischio di una prematura ‘museificazione’?». Arato riconosce alla nuova edizione i caratteri della eccezionalità, «come eccezionale, sotto ogni profilo, era il suo autore.» 3 Una delle testimonianze più intense, poco dopo la scomparsa, non solo sulla personalità di Timpanaro ma anche del coté famigliare (il padre Sebastiano, storico della scienza e la madre, Maria Cardini, studiosa dei presocratici ed editrice del Sidereus Nuncius), fu resa da Luca Baranelli, dirigente editoriale dell’Einaudi, in un’intervista realizzata da G. Saporetti, alla quale aveva preso parte anche Fiamma Bianchi Bandinelli: Ricordiamo Sebastiano Timpanaro, in «Una città», n. 92, febbraio 2001. 4 Vd. l’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento, a cura di E. Ghidetti e A. Pagnini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005.
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ha scelto di esercitare il mestiere di correttore di bozze) non ha eguali nel panorama contemporaneo.»5 Sì, è stato un arduo connubio, e l’edizione del libro leopardiano e ottocentesco, vale a dire di una macchina interpretativa in cui si fondono acribia filologica, disegno storiografico di un’epoca, e giudizio politico sull’epoca e sugli autori, non fa che rivelarlo in ognuna delle molte pagine che la costituiscono. Scrive Pestelli, introducendo il secondo saggio del suo libro, Leopardi protagonista nella nuova edizione di “Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano”: «Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano è stato un libro, ma non un “oggetto”-libro; è stato un nucleo (e sia pure grande nucleo) trasversale e aggiornabile della saggistica timpanariana d’argomento ottocentesco, sul piano della concezione ideologica, linguistica, letteraria». Ed è stato e continua a essere in effetti un nucleo di irradiazione, quel libro del 1965, riedito con aggiornamenti e ampliamenti nel 1969, poi ristampato (1973, 1977, 1984, 1988), un contenitore dinamico e sollecitante di temi, problemi, interpretazioni, opzioni tanto autorevoli quanto pronubi di divergenze esegetiche e conseguenti polemiche. Nel 1980 aveva pubblicato un altro volume ottocentesco, Aspetti e figure della cultura ottocentesca, che era un libro di attivo complemento rispetto al precedente Classicismo e illuminismo, ma più quieto, di integrazione e raccolta di personaggi e figure del secolo leopardiano (Lucano tra Settecento e Ottocento, Francesco Cassi, il Foscolo filologo, Giordani e la questione della lingua, Angelo Mai, l’epistolario di Ludovico Di Breme, con ampia appendice di Note leopardiane), e con alcune grandi personalità della filologia e della storiografia ottocentesca e contemporanea (Domenico Comparetti, Theodor Gomperz, Piero Treves), mentre le ragioni storiche del materialismo (Considerazioni sul materialismo, Prassi e materialismo, Engels, materialismo, «libero arbitrio»), e altre lievitazioni teorico-polemiche (Lo strutturalismo e i suoi successori), erano confluite nel libro che portava quel titolo, Sul materialismo, edito nel 1970, riedito nel 1975, riveduto e ampliato nel 1997. Tutti titoli protagonisti di una stagione, in cui la critica letteraria era anche critica politica – ricordo che Sul materialismo si leggeva come un manifesto politico – e si poteva dare il caso non usuale che il marxista, forse più rigoroso e radicale della penisola, fosse un antichista e un filologo classico. Ha ragione Pestelli, che il volume Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano ha rivisitato e chiosato in ogni particolare, nel dire che non fu solo un libro, né tanto meno solo un libro di critica letteraria. Abbiamo detto che fu anche un libro politico, ma con una vastità di influenza, una poliedricità di influssi, che andavano dal presente al passato, un passato di secoli, poiché di quel passato, specie nella transizione fra Settecento e Ottocento, ridisegnava i contorni e riconfigurava posizioni, allineamenti, protagonismi. Riconfigurava ma anche scompaginava. Fu, in altri termini, una di quelle opere periodizzanti che segnano il cammino di una tradizione esegetica (Leopardi e il leopardismo), nel senso che la interrompono e la dividono, anche perché fanno dell’autore di riferimento non soltanto un poeta ma un’entità storio-
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TELLINI, Introduzione, in CI, p. VIII.
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grafica, una figura prima di civiltà culturale, pregna di sensi e di significati, che non ammette solo lettori (e ammiratori), ma seguaci (sul punto torneremo in seguito), simbolica di posizioni filosofiche (e politiche), di una modalità di essere e di stare nel mondo, e giudicare quel mondo e magari anche l’altro mondo. Ne scaturiva un Leopardi protagonista, in gran parte inascoltato, e testimone di un secolo che da lui, in una sua parte (non maggioritaria), riceveva l’impronta illuministico-classico-materialistica, un secolo che a sua volta si scindeva in un altro segmento temporale e autoriale (questo sì maggioritario o canonicamente condiviso), l’Ottocento di Manzoni e del romanticismo nazionale (e risorgimentale). Se ogni libro ha la sua storia, ma anche il suo spazio e il suo raggio di influenza, questo di Timpanaro, come scrive Pestelli, non può essere «dimensionato nei limiti e nella centrimetratura della propria res extensa di prima uscita, d’una pur nobile brossura cartonata, storicamente oggettuale e materialmente identificata una volta per tutte in un singolo, unico, irripetibile hic et nunc cronologico. E il concetto che di sé esso suggerisce è quello d’un laboratorio in continuo aggiornamento, come il tavolo e come la figura stessa del suo autore». Un laboratorio, come è anche in parte questo libro, di approfondimenti e focalizzazioni contestuali. Si avrà così anche un esempio della scrittura di Pestelli, in questa sua prova ultima, più che un critico, un chiosatore, uno scoliaste-glossatore, tanto minuto e analitico è stato il suo passo di interprete. In prima istanza è il Leopardi filosofo materialista a occupare il centro dell’indagine. Il Leopardi che dagli antichi apprende l’infelicità dell’uomo. Da Teofrasto, moralista empirico e mondano, nel marzo 1822 derivava la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. E in genere dalla speculazione postaristotelica, anche per la scoperta in casa Antici a Roma del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce dans le milieu du quatrième siècle avant l’ère vulgaire di Jean-Jacques Barthélemy, introibo ad alcune massime del pessimismo antico, opera la cui lettura fu avviata in quel soggiorno romano nel febbraio 1823, assumeva il testimone della comprovata infelicità umana, prima coperta dalla illusoria vegetazione di una natura benefica e materna, cognizione d’irreversibile stabilità e ordine del male (certificate nello Zibaldone all’altezza del 1826), infelicità già lucidamente nota ai filosofi e moralisti d’epoca ellenistica. Il punto di arrivo di questa evoluzione leopardiana, sempre nel solco della ricerca della verità, con le conseguenze messe nel conto di quella ricerca («La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane e il tempo e l’esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero. E chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane»), transitando da varie accezioni di illuminismo e postazioni autoriali di quello, sarà ciò che viene definito un “ultrailluminismo”, una scansione dei lumi che lascia a distanza Rousseau, corresponsabile filosofico della attrazione esercitata dalla natura, in seguito esautorato anche da questa funzione e praticamente espunto, e riaccoglie il Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbonne, con ciò che ne poteva conseguire sul piano dei rapporti con la natura, lo spettro verde e indifferente all’umano («Sta natura ognor verde»), ma rafforzato e umanamente coeso da una inedita pietas, quindi identificato al tempo della Ginestra X
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nell’alleanza di tutti gli uomini «confederati», «l’umana compagnia», contro il fato comune (il regnum hominis). Un «illuminismo per tutti», quello della Ginestra, secondo le parole di Timpanaro. Né sarà mai voltairiano Leopardi, perché troppo concentrato Voltaire sul suo dio orologiaio dell’universo, troppo razionalista e leibniziano nel suo teismo regolatore, e neppure le conclusioni del Poème saranno fatte proprie da lui6. Questo il centro dell’inchiesta che l’autore ha avviato da anni e che in questo volume, sulla scorta di un serrato confronto con gli studi e le note filologiche di Timpanaro, giunge ad altre conferme e a pregnanti apporti documentari. Nelle note vastissime, note narrative e supplementi di testo, non di mero servizio, e pertanto collocate in appendice a ogni singolo studio, il lettore troverà una specie di storia ragionata del leopardismo critico nella cultura dell’ultimo mezzo secolo. Le note pertanto fanno parte integrante del testo, ne sono una protesi per una costante consultazione. Il volume si compone di sei contributi, quattro di storiografia letteraria (Sebastiano Timpanaro e Pietro Citati) e due sul coté famigliare, il contesto degli Antici, nella figura dello zio Carlo, reazionario ma non gretto municipalista, stratega lucido e operoso ma di fatto ininfluente delle potenziali fortune di carriera del nipote, il Monaldoade, come da lui chiamato, nella fase di attaccamento al mondo del padre (altri studiosi, come si vedrà, dibatteranno diversamente il significato tra affettivo e ideologico di questo vincolo). «L’esultanza per il “non ascolto” di tali consigli da parte di Leopardi è, a scanso di fraintendimenti, massima», scrive Pestelli. E del resto il principale interessato da quelle premure e da tutti quei virtuali benefici, nella ben nota lettera da Roma al fratello Carlo del 22 gennaio 1823, aveva scritto: «Io lo lascio ciarlare come ho sempre fatto». E di «sogni e chimere di Zio Carlo», parlava nella successiva lettera al fratello Carlo del 5 febbraio 1823. Al marchese, detentore in proprio di un élan vital reazionario, non aveva giovato la comica agiografia del gesuita Antonio Angelini. I meriti sopravanzavano l’alterigia di casta, e pure l’ideologia attiva e intrigante, ma è la stima che faceva di Giacomo che a noi importa, anche nel suggerirgli letture, che altre se no, da Restaurazione: Chateaubriand, De Maistre, De Bonald, il primo Lamennais, che erano comunque un acquisto non da poco per una mente come quella del destinatario, avvezza per suo conto a secernere confrontare filtrare eliminare. Pestelli ha dedicato un volume all’Antici, intellettuale della Restaurazione, germanista ecclesiastico-temporalista, traduttore, dal tedesco e dal francese, di testi di dottrina, sacri, omiletici e storici (il luterano, convertito nel 1800 al cattolicesimo, Stolberg, autore di Vita e dottrina di Gesù Cristo e il vescovo teologo di Regensburg, Johann Michael Anton Sailer), con frequentazioni eccellenti (Napoleone, pontefici, re di Baviera), ma soprattutto fautore per Giacomo di un disegno spiritualistico in grande stile, da vincolare e sancire con una versione integrale di Platone, e un editore della capitale pontificia, il De Romanis, avrebbe provveduto alla stampa di quell’Omnia davvero sacramentale sotto ogni profilo, traduzione di tutti i dialoghi platonici, «nell’epoca della revanche spiritualistica e delle
Vd. A. FRATTINI, Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento, in Leopardi e il Settecento, Atti del I° Convegno internazionale di studi leopardiani, Firenze, Olschki, 1964. 6
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riflessioni cosmologiche sulla scia europea della religiosità schleiermacheriana», carta da visita per un Giacomo prelatizio e chissà forse cardinale7. Occasione perduta per una “carriera” che resta semplicemente per noi inimmaginabile, ma non perduta per il Platone. Se il Leopardi fanciullo, anche per gli insegnamenti del Sanchini, era portato a dare la palma del pensiero ad Aristotele, per quanto nel quarto quaderno delle Dissertazioni filosofiche non escludesse neppure Platone dall’essere con la sua dottrina morale consentaneo agli insegnamenti della «Cattolica Fede»8, poi si sarebbe messo di nuovo e diversamente sulle tracce di Platone, e ciò comportava sempre un progetto, nel 1825, al tempo della stesura dei Pensieri. Allo zio scriveva il 15 gennaio 1825: «Io vengo presentemente ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette morali scelte da autori greci dei più classici, fatta in un italiano che spero non pecchi di impurità né di oscurità». Il 5 marzo gli attestava la versione de «le tre Parenesi, ossia Ragionamenti morali d’Isocrate, l’uno a Demonico, l’altro a Nicocle, il terzo intitolato il Nicocle». Va da sé che la lezione platonica agiva su Leopardi attivamente e per altre strade, anche senza l’approccio sistematico e ideologico sognato da Antici, intellettuale organico della reazione temporalista. Platone, più di Aristotele, era nella musica delle Operette, e si insinua come uno spirito di grazia suprema in tanti interstizi dell’opera. È un compenso al mondo terrestre, alle sue durezze e infamità, un balsamo alle ferite della realtà. Si accompagna al materialismo, senza negarlo. Si compiace del sogno, e fin dell’illusione metafisica allo stato puro, senza catechesi alcuna di dottrine e filosofie. È poesia del pensiero, impalpabile gioia della forma, intima connessione fra il pensiero e la pratica poetica, su cui dovremmo interrogarci di più, evitando la mera deriva leopardiana verso la sola filosofia. Il platonismo, musica sintonizzata con le sfere del cosmo a vegliare l’infelice pianeta, con il carico leggiadro della sua ironia iperurania, è una delle più segrete e meravigliose risorse del leopardismo. Il presente corposo volume persegue sostanzialmente, pur tra non poche digressioni erudite, una linea di svolgimento della cultura leopardiana, intesa al raggiungimento della verità, al superamento e confutazione degli elementi che a essa si oppongono, dalla bellezza estetica connessa alla vista e alla prima fonte organica delle illusioni come autoinganni, all’antagonista palese ed esplicito, quanto decisivo, che altro non è che il falso. Anche il materialismo, in estrema sintesi, non ha altro scopo che questo, smascherare il falso. Non è una scelta speculativa fra le altre, una opzione surrogabile, ma uno strumento di rilevazione e rivelazione del falso (l’illusione umana, di essere quello che non è, di occupare spazi non suoi, l’antropocentrismo, l’illusione nelle sue molteplici e incalcolabili forme). La filosofia leopardiana è una procedura di svelamento progressivo dell’area della falsità e adulterazione filosofica. Se anche la bellezza è un falso che si lascia comprendere e ammirare, e con struggiC. PESTELLI, Carlo Antici e l’ideologia della Restaurazione in Italia, con Nota introduttiva di S. Mastellone, ivi, FUP (Firenze University Press), 2009. Sul traduttore, vd. Id., Carlo Antici traduttore di Stolberg e di Sailer, in «Rassegna della letteratura italiana», CXVII, Serie VIII, 1, gennaio-agosto 2013. 8 Il Leopardi e i filosofi antichi, in CI, p. 151. 7
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mento confutare, bellezza come l’amore (la donna inganno seduttivo), e come la poesia o evocazione lirica della realtà, lusinghe umanissime e infinitamente rimpiante (dunque il falso si può rimpiangere), il falso assume nella storia di Leopardi varie fattezze e connotazioni, e dalla natura-bellezza trasloca alle categorie dello spirito. Una delle quali è lo spiritualismo, conosciuto più essenzialmente e partitamente lontano da Recanati, nell’Italia cattolica e moderata del tempo, dominata dalla Chiesa come ordine temporale, il falso dell’illusione metafisica, dell’educazione religiosa, della rimozione autoritaria di ogni vitalità naturale e fisica (vita vitalis), quella configurazione di pedagogia e di costumi o ciniche usanze, di cui Leopardi fu il primo lucido e implacabile cronista-storiografo anche sul territorio di un’Italia che ancora non esisteva. Fino a inibirgli il sogno (lontano da Recanati io non sogno9). Scrive a questo proposito Pestelli che «il residuo non recanatese d’Italia, o del mondo, e sia pure con qualche significativa e parziale eccezione (Milano, Bologna, Pisa), non ha presso Giacomo maggior fortuna di Recanati.» Ma, a ben guardare, non è dato scampo, se anche nella natura la dinamica che la sottende vi è in prevalenza anticreativa, una dinamica terminale, distruttiva, fino a negarla intimamente. Da una parte la metafisica, che uccide la pulsione alla vita, o la umilia (la catechesi cattolica versata in pedagogia della Marca Picena, a fronte della virtù greca, dell’energia, dell’unica illusione compatibile con il destino, quella della gloria). Dall’altra una natura, la cui icona benevola, la cui immagine famigliare, anche irresistibilmente attrattiva e pure intensamente amata, viene smascherata in una progressione di letali accertamenti di verità ambientali (l’Islandese, con le marmoree leggi del gelo, data al 21-30 maggio 1824) e verità biologiche (la malattia, la vecchiezza, la morte, la terra ostile, la forza logoratrice della natura, perpetua industria di creazione-distruzione), e costituendosi in una persecutoria negatività epifanica, per mostrarsi infine scolpita nell’ordine funesto dell’universo. Il male è nell’ordine, titolo e materia di un libro leopardiano di Luigi Baldacci10. Nella scrittura critica di Pestelli, il lettore s’imbatte in un densissimo coagulo di tematiche, prevalentemente speculative e storico-filosofiche, ma anche storico-filologiche (l’insistenza sulla filologia testuale non solo come strumento e tecnicalità erudita in Leopardi, ma come un suo pensiero aggiunto, un pensiero ecdotico, affinato e reso più penetrante dall’ecdotica), e annesso un amalgama di argomentazioni sollevate da una bibliografia di possente rilievo esegetico, se si porta appresso non solo la bibliografia su un autore come Leopardi, ma, nel caso specifico, la sua illimitata biblioteca trasversale ai secoli, dall’antico alla modernità settecentesca, dal letterario e lirico allo scientifico e filosofico, con schierato il Boulevard des Lumières del materialismo filosofico (Bayle, d’Holbach, Nicolas Fréret, La Mettrie, in parte Voltaire, il patriarca degl’increduli, come lo chiamava Antici), a garantire l’architettura del metodo, insostituibile e sempre operante nella sua mente. Timpanaro era stato molto pre9 C. GEDDES DA FILICAIA, Fuori di Recanati io non sogno. Temi e percorsi di Leopardi epistolografo, Firenze, Le Lettere, 2006. 10 L. BALDACCI, Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Milano, Rizzoli, 1998.
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ciso e selettivo nel vagliare l’effettuale biblioteca settecentesca, letta e ideologicamente attiva, avvertendo anche che alcuni autori dei Lumi giungevano a Leopardi sui binari della reazione cattolica. Se erano documentabili lettura e influsso delle Ruines di Volney (Zibaldone, 4127 sg.), non risultavano letti direttamente La Mettrie, Condillac, Diderot, ed Helvétius, assente dalla Biblioteca Leopardi, citato in un Dialogo filosofico del 1812, poteva venire da uno di quei libelli11. Gli autori delle Lumières, in altro assetto bibliografico e critico ovviamente, appartenevano anche a Timpanaro, che si considerava un positivista, nel senso che riteneva il positivismo, da emendare in molti difetti e limiti, l’erede dell’illuminismo, almeno per quanto riguardava alcune questioni fondamentali di cui si era fatto carico: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Inoltre si doveva anche al positivismo e a suoi emeriti studiosi, Gaetano Trezza, Domenico Comparetti, Carlo Giussani, l’interesse rinnovato per Epicuro e Lucrezio. Timpanaro si era occupato di Paul Thiry d’Holbach (Le bon sens, tradotto nel 1985), e a quelli nominati si possono aggiungere sulla stessa scia il Cicerone del De divinatione (tradotto nel 1988) e la presentazione de La fortune des Rougon e La conquête de Plassans di Zola (1992-1993). Dal materialismo settecentesco al naturalismo-positivismo zoliano di fine Ottocento, fino a quando la Francia era stata, a suo avviso, la patria dell’illuminismo e del materialismo (che nel Novecento, secondo Timpanaro, avrebbe tradito, riposizionandosi sull’antilluminismo e su uno spiritualismo strutturalistico). La filologia, la cifra filologica (ricavata sia dal volume timpanariano del 1955 La filologia di Giacomo Leopardi, sia dall’edizione Le Monnier 1969 di Timpanaro e Giuseppe Pacella dei leopardiani Scritti filologici) si associa alla filosofia, non è uno strumento estetico (ancillare e preliminare alla sola poesia, al bello, tacciato anche come falso), ma il complesso delle tecniche di filologia, l’emendare, il congetturare, l’interpretare, sono un’ulteriore chiave di accesso alla verità. Filologia non come classicismo, o semplice e tautologico rapporto con gli antichi. Negazione dell’umanesimo nel senso dello stereotipo pur sempre vigente. Fermo restando che per lui Atene e Roma sono città dello spirito laico e libertario. Molto s’insiste su questa funzione epistemologica della filologia, come uso della ragione (la congettura come codicologia mentale), tanto da restituire nuovo vigore alla affermazione in primis giordaniana del Leopardi sommo poeta filosofo e filologo. Qui è il sommo filosofo e filologo ad avere tutto lo spazio e a essere ulteriormente documentato. Il Leopardi filologo, dopo il primo lancio giordaniano, è stata una conquista testuale e critica di Timpanaro (e Pacella). Ma la filologia, lo si è detto, fa parte intimamente della poesia e della filosofia, sia nel senso dell’unione di filologia e poesia, come in altri rappresentanti della tradizione umanistica italiana, sia dell’unione di poesia e filosofia, come sinergia conoscitiva dell’espressione artistica (il significato mai sacrificato al significante, la poesia filosofante, il pensiero poetante, da Spitzer ad Antonio Prete a Pier Vincenzo Mengaldo), per quanto dal punto estremo dello Zibaldone 26-27 giu-
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Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in CI, p. 118.
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gno 1821 al capitolo VII del Parini il percorso sia molto lungo, fra esclusione di compatibilità per «nemicizia giurata e mortale» e piena affinità. Intorno a Leopardi, ruotano riflessioni sull’uomo, la natura, la materia, la sofferenza, la felicità, l’esistenza e la vita. Come un parto gemellare, simbiotico sia pure nell’evidente antitesi, dolore e godimento fuoriescono dallo stesso ventre generatore della natura sensibile. Dette così sia pure all’ingrosso e in una sequenza lessicale, queste nozioni designano l’universo leopardiano ma anche l’universo timpanariano, del leopardista-marxista, del filologo antichista e filologo materialista12, come critico primo e privilegiato di Leopardi, che è il motore di tutto il suo Ottocento. La chiave d’accesso a un universo indagato nella duplice corsia di uno studio diretto di Leopardi e di un altrettanto massiccio studio dedicato al suo interprete ed editore novecentesco, è quella materialistico-sensistica, vale a dire la complessione teoretica del pessimismo fino alla sua estrema definizione. Si vuol dire che non solo Leopardi è l’autore di Timpanaro, ma che Timpanaro è lo studioso di Leopardi, per elezione e affinità («reciprocatio autorestudioso»), per consanguineità, ché nel sangue che scorre è la linfa del più autentico materialismo. L’Ottocento di Timpanaro (da Classicismo e illuminismo del 1965 a Nuovi studi sul nostro Ottocento del 1994) è leopardiano, il che significa un secolo neoclassico di minoranza, antiromantico e anche antimanzoniano, se il leopardismo, impavido e solitario, si profila come coevità polemica con lo spiritualismo e le sue illusioni. Sul concetto di minoranza, Timpanaro è tornato nella prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento, con una precisa e illuminante specificazione sulla attualità di Leopardi nel Novecento, fortemente ridimensionando quella presunta attualità: «Chi si sente suo contemporaneo (non solo ammiratore ma “seguace”) deve avere la consapevolezza di trovarsi in una posizione di minoranza». La distinzione fra ammiratore e seguace è di quelle sostanziali e dirimenti (seguace comporta ben altro tipo di adesione rispetto a quella estetica, e ben altra responsabilità, e certo pour cause Leopardi ha avuto e continua ad avere più ammiratori che seguaci). Il punto testé evocato è di quelli centrali, decisivi, anche non risolvibili, spesso mascherati, lasciati passare in giudicato senza essere mai stati enunciati (o denunciati) con la necessaria chiarezza. Qui Timpanaro sta dicendo che Leopardi non può essere fruito solo come poeta (ammirato), ma come filosofo, detentore di un pensiero forte (seguito pertanto sulle tracce e le conseguenze di quel pensiero). Un pensiero forte, non contrattabile, non rettificabile, non contaminabile, forte anche perché comprensivo di una visione del mondo, assai difficilmente ricevibile. Infatti se c’è una filosofia, un pensiero non recepibili da una società di massa, e da qualsiasi altra società (non si dice da élite, più o meno consapevoli e orientate, o ideologicamente schierate), sono la filosofia e il pensiero leopardiani. In un’Italia flessibile (nell’Ottocento e nel Novecento), Leopardi fu la mente più inflessibile che fosse dato registrare nella nostra cultura, distruttore non solo dei miti religiosi tradizionali, e dei miti del
V. DI BENEDETTO, La filologia di Sebastiano Timpanaro, in Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, a cura di R. Di Donato, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 1-89. 12
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progresso (vitali per una società, non solo borghese), ma anche dei miti umanistici, critico dei miti dell’immortalità (inanità della gloria, caducità delle opere, fine del tempo, dal Cantico del gallo silvestre al Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco alla Ginestra13). Sotto questo profilo, anche se si deve riaffermare il «valore sociale del vero»14, credo che Leopardi stenti ancora a essere compreso dalla massa dei lettori (non si dice dei critici), che vedono e amano in lui il punto focale dell’umanesimo (se la poesia è, magari ingenuamente, con l’umanesimo identificata). È stato detto che se l’Ottocento fu per Leopardi un secolo di mera appartenenza cronologica e anagrafica (i contemporanei biografati nel bel libro di Novella Bellucci15), il Novecento si sarebbe spalancato a quell’esule del tempo come il secolo leopardiano. Ma non è vero. Né è mai stato vero, tranne che in segmenti di coscienza critica che appartengono alla storiografia culturale. Il Novecento, che Timpanaro accusava di involuzioni mentalistiche e psicologistiche, ha continuato a coltivare molteplici vocazioni alla falsità, e ha aperto varie strade, teoriche teoretiche letterarie politiche sociologiche metodologiche, talune oscure e solenni, alla falsità e alla falsificazione, tanto che se si ipotizzasse un Leopardi nostro contemporaneo, la sua parola filosofica, il suo laicismo materialistico e antiprovvidenzialistico, il suo vertiginoso copernicanesimo mentale, resterebbero lettera morta, e la sua identità sarebbe semplicemente annullata. Il vortice dei messaggi culturali lo risucchierebbe in un’altra tipologia del nulla, quella della mediasfera. Dunque meglio riceverla, quell’eredità comunque non gestibile da nessuna società organizzata e pertanto basata sull’illusione di esistere e continuare a esistere, dall’Ottocento. Vogliamo dire che il leopardismo è una battaglia culturale praticamente perenne, e perdente. E di minoranze eroiche. Perché nessun secolo potrà essere leopardiano, sposare la consequenzialità radicale del suo pensiero, e nessuna società, tranne che nell’epilogo compassionevole della Ginestra. Il mostruoso cervello resta così in un angolo d’ombra. Né può liberare, sprigionare, la sua potenza nella circolazione culturale, può essere omaggiato dalla critica, dai convegni, dagli appuntamenti della calendarietà recanatese, ma non può agire, attivarsi, di fatto non può esistere. Il leopardismo filosofico viene accolto per convenzione, una convenzione accademica, lo sappiamo. Ed è da escludere che l’accademia italiana sia eroica. È il poeta che continua a essere amato, e io dico anche compreso. Un grande poeta dell’Ottocento che è forse anche il più grande poeta del Novecento. Non sarebbe male che un convegno recanatese affrontasse la questione. Spiritualismo è parola di largo spettro semantico, e temporale (oggi ne sussiste uno mediatico-tecnologico). Mario Rigoni ha giustamente osservato che «in un certo senso, tutta l’opera leopardiana non è che un commento al fenomeno della spiritualizzazione.»16 Così ampio quello spettro, se fra le illusioni prodotte dalla sua Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in CI, p. 130. G. BERARDI, Ragione e stile in Leopardi, in «Belfagor», XVIII, 1963, p. 437. 15 N. BELLUCCI, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996. 16 M. A. RIGONI, Romanticismo leopardiano, in Il pensiero di Leopardi, nuova edizione accresciuta, prefazione di E. M. Cioran, Nota di R. Bruni, Torino, Nino Aragno Editore, 2010, p. 131. 13 14
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matrice non vi è solo quella propriamente metafisica e trascendente, ma ogni altra illusione, ovverosia ogni scarto dalla verità, compresa l’illusione politica, e fra le illusioni, da profligare con l’arma spietata e derisoria del sarcasmo nei Paralipomeni, risulta essere anche il Risorgimento. S’immagini pertanto quale irradiazione di isolamento, e quasi potenza di diseroico maleficio (l’antiMazzini), conseguano in quel tempo e in quel contesto da una posizione come quella descritta. Vieusseux, che aveva commercializzato i Paralipomeni, scriveva a Ranieri il 2 dicembre 1843: «nessuno vuole; e quei pochi che li comprarono dicono di non aver potuto andare avanti nella lettura»17. In Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, Timpanaro, commentando due studi del Binni (Tre liriche del Leopardi, 1950; La poesia eroica di G. Leopardi, 1960), registrava il fatto che «l’ostilità al Leopardi pensatore, alle sue asprezze antispiritualistiche, aveva portato anche in sede propriamente estetica alla svalutazione degli ultimi Canti e dei Paralipomeni»18. Il Leopardi aveva pagato pegno al suo pensiero, o con le irose svalutazioni (Croce), o con l’imbonimento puramente idillico che era stato riservato alla sua poesia (il testimone integrale e innocente di questa tendenza fu Fernando Figurelli, con il suo libro laterziano del 1941, Leopardi: poeta dell’idillio). Nel mezzo ci poteva stare l’aureo equilibrio che Timpanaro ravvisava e garbatamente criticava nelle pagine della Storia garzantiana su Giacomo Leopardi di Natalino Sapegno (ammirazione per la poesia malgrado l’ideologia e la filosofia). Della sua avversione all’eclettismo combinatorio si dirà anche nel seguito di questa introduzione. Alla mente di Leopardi, che pure non si negava l’amor di patria19, la storia arrivava come una carovana di illusioni e ambizioni, un fuoco fatuo, spento e annientato nel dramma terrestre e cosmico che era la sua visione, sovrastorica e metastorica, una lungimiranza in cui si perdevano i fatti dell’empiria storicistica. Una visione che si sviluppa dal 1819 e poi sistematicamente dal 1823-24. Meglio una cosmicità di riferimento (cosmico essendo peculiare aggettivo leopardiano) che ridimensionava da sé, per la proporzione che instaurava con il tutto fuori dall’uomo, ogni atto, problema, gesto politico. Nichilismo se non subentrassero la renitenza al fato, la protesta vigorosa ed eroica, la social catena. Il suo era un pessimismo tutto pratico, sensistico-edonistico, se commisurato alla creatura senziente, estraneo a ogni dialettica, ma si ribaltava in una visione astronomica, in una storicità stellare, dove l’antropocentrismo si scompaginava e annullava nell’infinito (nella cattiva infinità della natura universale). Tutto si può dire che derivi da quel solco di verità, dal quale Leopardi non ebbe mai a derogare, e da una radicalità nel pensiero, che forse non si riuscirà mai ad assimilare integralmente, un pensiero non solo inattuale ma non ricevibile. L’illusione è forse una componente essenziale a far funzionare e muovere la quasi totalità delle cose umane. In altri termini la radicaR. BONAVITA, I «Paralipomeni»: storia del testo, in Id., Leopardi descrizione di una battaglia, a cura di G. Benvenuti, introduzione di M. A. Bazzocchi, ivi, 2012, p. 139 (Vicende editoriali). 18 CI, p. 111. 19 Leopardi e la patria, in Rigoni, op. cit., pp. 195-202. 17
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lità, vale a dire la consecutio effettuale di quella sul mondo, in accezione evangelica che coincide anche con la leopardiana, forse rettificata soltanto e a tratti dall’incontro umano, con il singolo essere portatore di umanità, quindi corretta unicamente dagli affetti, come rivelano le Lettere, molte delle quali calorose e appassionate, è tale da mettere il pensiero leopardiano in rotta di collisione con il suo secolo, e con qualsiasi secolo, poiché anche il nostro, pur interamente secolarizzato, è gonfio di illusioni. Eppure l’Ottocento di Timpanaro è leopardiano (e giordaniano), nel senso che la leopardistica timpanariana è una prospezione sull’intera ottocentistica dello studioso. Anzi dall’Ottocento leopardiano si irradia la critica che Timpanaro muove a un Novecento, che in filosofia, in letteratura, nelle scienze umane, dall’antropologia alla psicoanalisi20 allo strutturalismo, in politica (con le critiche al gramscismo e al togliattismo, per non dire al compromesso storico berlingueriano), e in genere nel suo costume di massa ispirato a un irrazionalismo totalmente fuori controllo e lontano anni luce dal modello timpanariano di società, viene respinto pressoché in blocco. Timpanaro restava fedele all’Ottocento, o meglio a un Settecento che si era trapiantato innervandosi nel secolo antiromantico. È la sua interpretazione dell’Ottocento leopardiano, ma anche una sua costruzione, di un secolo austero, severo, di forte moralità, che non ammette spontaneismi, estetismi, balsami dialettici, slanci non sanzionati dal durus sermo di una filosofia materialistica, filosofia anch’essa dell’esistenza ma remotissima dalle filosofie dell’esistenzialismo irrazionalistico (da Schopenhauer a Heidegger). Il timpanariano è un Ottocento di scuola classica ed educazione giacobina, senza romanticismo. Non si poteva non avvertirne il vuoto. Nella recensione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento di Piero Treves (1962), Timpanaro scriveva che romanticismo era stato fatto diventare sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», una specie di koiné, che aveva assimilato acriticamente personalità come Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo, che con il romanticismo avevano polemizzato e comunque con esso non potevano identificarsi21. In quella critica al romanticismo stereotipato, e reso generico contenitore, c’era anche il rifiuto delle caratterizzazioni epocali che, come scriveva nella prefazione al volume di singoli e individuali profili Aspetti e figure della cultura ottocentesca, tutto abbracciano e nulla stringono. Nel volume Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (1982; rist.: 1985) viene però smentita l’equazione romanticismo-reazionarismo («il Romanticismo non è affatto qualificabile, nel suo insieme, come un movimento reazionario»), ed è un recupero consapevole che corregge per lo meno il giudizio sul romanticismo italiano, ferma restando la sua valutazione negativa di quello germanico. Secondo Carpi, interlocutore critico tenace quanto
S. TIMPANARO, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1974; nuova edizione, a cura di F. Stok, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. 21 Appendice II, Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano (1963), in CI, p. 494. 20
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efficace nella controversia polemica22, l’antiromanticismo settecentesco e materialistico di Timpanaro sarebbe stato messo a dura prova già dal romanticismo postilluministico schlegeliano e schellinghiano (la Naturphilosophie). È in Classicismo e illuminismo, dove sull’antiromanticismo è fatto prevalere il filoilluminismo, che agiscono gli effetti di quella imponente rimozione. Che sia un secolo di minoranza, anche dal punto di vista dei valori di letteratura, lo dicono l’assenza di Manzoni, che, va pur detto, è fattore di squilibrio del quadro complessivo, e la discussa centralità, contigua a Leopardi per le ragioni di biografia e non solo, di Pietro Giordani e del giordanismo. A proposito del quale, Timpanaro ammetteva che il saggio su Le idee di Pietro Giordani, un vero antefatto e il più antico del volume, uscito su «Società» nel 1954, insieme agli studi sulla linea linguistica Cattaneo-Ascoli (su «Rivista storica italiana», 1961-1962), aveva sacrificato, ai fini di una prima urgente rivendicazione del valore della persona e dell’esperienza laico-giacobina, una linea di svolgimento e di concreta, empirica storicità, relativamente anche ai luoghi e ai tempi (la Parma illuministica prima della rivoluzione, dove era stato forte l’influsso del Condillac; la Cisalpina e il Regno italico, la Restaurazione)23. Con Giordani, personalità ottocentesche prese in considerazione per «spunti materialistici di pregnante verità» erano state Carlo Bini, Carlo Pisacane e Luigi Angeloni. Non a caso un prigioniero, e un rivoluzionario caduto sul campo. Forse bisognerebbe prendere atto che la nostra è una letteratura fatta anche di figure prime (Dante / Petrarca; Leopardi / Manzoni), che senza elidersi si contrappongono, identità di antitesi e dicotomie incomponibili. L’impronta di Timpanaro nel ridisegnare la mappa dei secoli, e di poggiare l’Ottocento sulla valorizzazione dell’appartenenza al fronte classico, fu forte e profonda, e non vi è dubbio che in quella forza e profondità sia e resista anche una misura della grandezza dello studioso. Una statura d’interprete che permane tale, anche quando quella mappatura ad altri lettori, e illustri interpreti, sia apparsa mutila, e non condivisa. Timpanaro aveva del romanticismo una concezione negativa, come fase di involuzione spiritualistica, di misticismo irrazionalistico e religiosizzante. Distingueva il romanticismo del «Conciliatore» da quello dell’«Antologia» e da quello di Mazzini. Ma gli sfuggivano o non prendeva in considerazione tutti gli enormi apporti che il romanticismo ha dato alla civiltà, che bene o male è ancora la nostra (che Timpanaro di fatto e conseguentemente rifiutava). Non accettava le linee classico-romantico o neoclassico-romantico (linea binniana), incredulo nelle concettualizzazioni combinatorie, sospettando
22 Umberto Carpi è scomparso il 6 agosto 2013. In un commosso ricordo dello studioso, Marco Santagata ha scritto: «Leopardi non era un suo autore (qualcuno ricorderà la polemica che negli anni Settanta lo vide contrapposto a Sebastiano Timpanaro) proprio perché a Leopardi, che pure guardava il mondo con straordinaria lucidità, siccome lo guardava dall’alto, mancava il sentimento della politica, la volontà di modificare la realtà e quindi non viveva il dramma della sconfitta (…). Gli autori e i personaggi di Carpi sono degli sconfitti politici, ma non dei vinti.» (M. SANTAGATA, Il paladino degli sconfitti, in «Il Sole 24 Ore», 18 agosto 2013). 23 Prefazione alla seconda edizione, in CI, pp. LXXXVI-LXXXVII.
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l’eclettismo e un certo luddismo della mera critica letteraria (senza filosofia), così come respingeva il gradualismo politico e il giustificazionismo storico. Ma su questo terreno di recusazione del romanticismo, ostico da condividere, come su tutte le tematiche dei suoi studi, dall’antico al moderno, fu sempre incline al dialogo e al confronto, in un commisurarsi tutt’altro che formale con studiosi che si chiamavano Cesare Luporini, Walter Binni, Bruno Biral, Gianluigi Berardi, Umberto Carpi, Piero Treves, Giuseppe Paolo Samonà, Claudio Colaiacomo, Gennaro Barbarisi, Franco Fortini, Giulio Bollati, Luigi Blasucci, Antonio La Penna, Mario Mirri, Lanfranco Caretti, Margarete Steinhoff, Luciano Della Mea, Carlo Alberto Madrignani, Sergio Sconocchia. Il dissenso, non però con tutti i nomi elencati che erano in grado diverso i suoi interlocutori più o meno abituali, emergeva netto in discussioni esemplari per civiltà, eredi di un costume settecentesco, veri e propri colloqui illuministici (anche per lettera), e in assenza di cautele accademiche, rarissimi per franchezza nei nostri studi24. Timpanaro rispettava gli interlocutori, e ne coglieva gli spunti per svilupparli, specie per quanto concerneva l’opposizione fra classicismo illuministico e romanticismo, che non voleva fosse intesa come categoriale e dicotomica (che Stendhal fosse stato, da illuminista, anche un campione di romanticismo, non era per lui una contraddizione). Solo non tollerava, da vecchio e severo positivista, quale pure sentiva di essere, avendo in sospetto il pronome di prima persona singolare, nella vita e negli studi, gli eccessi non infrequenti del narcisismo saggistico, le intemperanze arbitrarie, con tendenza ad attualizzare Leopardi e a trasferirlo in aure novecentesche, letterarie e filosofiche (per affinità varie e indimostrate), con accoppiamenti (Valéry, Ungaretti, Nietzsche, Heidegger), irrilevanti sul piano della storicità filologica, ma pericolosi e devianti. Allora Timpanaro era durissimo e sfoderava un’altra arma del suo repertorio di filologo marxista, il sarcasmo. Scrive a questo proposito Tellini: «Contro le infatuazioni, la franchezza del “dire pane al pane e vino al vino” si rivela arma appuntita e anche ironicamente irridente “per ‘rompere l’incantesimo’ e far vedere che l’imperatore di anderseniana memoria, da tutti elogiato per i suoi bei vestiti nuovi, in realtà è in mutande”. Chi ha consuetudine con gli scritti di Timpanaro, ne incontra molti non solo di incantesimi rotti, ma di imperatori in mutande.»25 Di «improbabili discendenze novecentesche, soprattutto nell’àmbito del pensiero negativo», aveva parlato Luigi Blasucci, in una recensione alle Lezioni leopardiane del Binni (1994), toccando il tasto di Leopardi maestro di negatività del nuovo secolo. In mente aveva, e forse idoleggiava, una comunità interpretante, e a essa offriva le sue resultanti, sempre in progress (postille, aggiunte, addenda), esponendole a una serrata discussione. Un esempio può essere fatto in relazione a quella che è una quaestio leopardiana: «Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della natura nemica dell’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più delicati nello studio
24 T. DE MAURO, Premessa a Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia, a cura di F. Gallo, G. Iorio, P. Quintili, Milano, Unicopli, 2003, p. 8. 25 TELLINI, Introduzione, cit., p. XII.
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dello svolgimento del pensiero leopardiano. Ciò che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp. 153-159) {nel capitolo III, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», «Cl. ill.» 1969 – N. d. c.} rimane, credo, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcune precisazioni e correzioni.»26 In questa dinamica di studio, Pestelli crede di intuire una delle ragioni per cui il filologo, autore de La genesi del metodo del Lachmann (1963), non si fermasse nella sua pratica di editore critico a un risultato conseguito una volta per tutte, all’«opus confectum di compiuta definizione testuale e editoriale: ipotetico esempio, Ennio, o Virgilio, edizione critica proposta come definitiva nel tale anno, sulla base dei dati documentari e codicologici a quella data disponibili.» Sono tutte, nel senso più alto, incompiute venture (su Ennio si era laureato con Nicola Terzaghi), o venture in compimento i libri di Timpanaro, i quali non vanno mai esenti per volontà d’autore, da revisioni e correzioni se non riedizioni. Non si figurava neppure Timpanaro il saggio compiuto e rifinito, la scrittura, o meglio lo scrivere, era il diagramma della ricerca, il suo veicolo, e queste, ricerca e scrittura insieme, non avevano una conclusione definitiva. Cesare Cases l’aveva visto chiaramente, nel nome di un sommo autore novecentesco. Che fosse o no d’accordo con l’amico, e spesso da hegeliano e lukácsiano non lo era, o non lo era stato, gli riconosceva di avere scritto pagine di storia culturale sempre illuminanti (altro che «ambizioni sbagliate di storico culturale ottocentesco e, peggio ancora, di “filosofo”»), per i riferimenti inediti, le dimostrazioni, i collegamenti, le nuove inclusioni, il punto di vista originale, fermo e intransigente, ma all’occorrenza anche mobile, dinamico e dialettico, purché la dialettica non fosse artificio meramente discorsivo, statico e combinatorio. E poi – concludeva – «c’è solo la via e non c’è la meta, per dirla con Kafka.»27 Non so se autore timpanariano, ma sicuramente grandissimo. In questo caso la ricerca originale, che aveva portato, a partire da Leopardi, a riscrivere l’Ottocento, era la via. Un’esperienza di accordo-disaccordo o sintonia-dissenso che è appartenuta a molti. «Una polemologia acuminatamente critica», sia pur forgiata di cortesia, è la definizione che ne dà Pestelli. Il quale invece non ha dovuto far lume su dissensi, né coevi né postumi, forse neppure episodici, in quanto ha fatto propria la posizione timpanariana senza apprezzabili distinzioni. Scrittura, questa di Pestelli, di specialista per specialisti, da leopardista non di complemento ma ferratissimo su alcuni versanti, dalla critica filosofica alla storia della filologia testuale alle biografie di famiglia e d’altri contesti e genealogie, di critica della critica e della storiografia, più ancora che di critica letteraria stricto sensu, restando a distanza (la bonne distance, concetto di Lévi-Strauss, che certo non era fra gli autori di Timpanaro, come i «grandi saltimbanchi di Parigi», strutturalista e modaiola) con il suo intatto e implicito carisma, il testo della poesia, la pagina qui
Nota del curatore e criteri della presente edizione, in CI, p. XLII. C. Cases a S. Timpanaro, lettera da Torino, 3 febbraio 1979, in Un lapsus di Marx. Carteggio 19561990, a cura di L. Baranelli, Pisa, Edizioni della Normale, 2004, pp. 282-283. 26 27
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s’allarga a macchia d’olio su alcuni temi particolarmente sentiti, e se ne impregna, quasi assumendoli autobiograficamente, con condivisione piena, senza remore e distinguo, che più di un consenso critico è adesione totale. È una coincidenza adesiva, senza margini, dell’autore del libro con l’oggetto di studio, che è anche il titolare del magistero leopardiano. La poesia si sa che c’è, brilla al cuore di tutto il sistema, data a priori e rispettata da tutte le inchieste storico-filologiche, ma resta al riparo dall’indagine, confermando come la critica leopardiana in buona parte si sia esercitata sull’imponente paratesto della filosofia28. E quei temi vertono sul materialismo antico e su quello leopardiano e sue componenti, nel binomio materialismo-infelicità, inseguendo le argomentazioni, da Timpanaro alla storiografia sul pensiero greco (Theodor Gomperz29, Jean Fallot30) – il Gomperz austro-moravo ebreo, antirazzista e non nazionalista dei Pensatori greci (1896-1909), rivalutato a fronte del neoumanesimo germanico dello Jaeger idealista di Paideia (1933-1944)31 – fino al marxismoengelsismo (Engels come coscienza antiidealistica e darwiniana di Marx), nei suoi elementi meno dichiarati quali l’individualità e la sofferenza biologico-animale dell’uomo, l’edonismo marxiano, verso derive che per essere talora obiettivamente digressive, pure non si dissociano dal tema e sono sempre di grande rilievo e spessore interpretativo. Si pensi alle note sull’epicureismo, come annullamento e liberazione dal tempo e dal suo inganno e affanno speculativo (sulla linea che sarà dello storicismo e dell’hegelismo), epicureismo come liberatore dalle pastoie del tempo (e della storia), teorico della renitenza ai fati superiori (l’antiprovvidenzialismo) perché negatore delle reazioni adoranti verso l’alto, l’alto che ci schiaccia (il lucreziano «namque omnes plerumque cadunt in vulnus», cadere dalla parte della propria ferita), ma soprattutto riscopritore del piacere puro, della sensazione uguale a se stessa, quindi del criterio del vero riposto nella sensazione, stabilendosi così il nesso tra verità e certezza sensibile. Pur essendo il piacere per Leopardi non un quid sperimentato, ma un ricordo o una speranza, o, come in A un vincitore nel pallone, nel Colombo, nella Quiete dopo la tempesta, una pausa fra i mali: «Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale». Un concetto, non un sentimento, e come tale non concerne mai il presente ma la concettualizzazione-categorizzazione di un piacere che è stato o che sarà: «Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.» (Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, 1-10 giugno 1824).
28 Vd. il recente saggio di esegesi poetica, con acute osservazioni sulla forma metrica (il settenario cantato a riscontro dell’arida filosofia), e note illuminanti sull’impronta stilistica, l’allegorismo, dell’antiromanticismo (e antisimbolismo), nel vol. di P. V. MENGALDO, Leopardi antiromantico, Bologna, il Mulino, 2012. Vd. anche Id., Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei “Canti” di Leopardi, ivi, 2006. 29 CI, pp. 428-471. 30 TIMPANARO, presentazione a J. Fallot, Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Torino, Einaudi, 1977, pp. IX-XXXI (a titolo Materialismo e infelicità, in Id., Il verde e il rosso, Scritti militanti, 1966-2000, a cura di L. Cortesi, Roma, Odradek, 2001, pp. 83-98). 31 Nota del curatore e criteri della presente edizione, in CI, pp. LVI-LVII.
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Il rapporto con Leopardi è infatti costantemente mediato, schermato dalla coltre delle interpretazioni, e si mostra nello stesso spessore della pagina, costantemente lievitata dalla storiografia di riferimento, chiamata a confrontarsi, a relazionarsi, in un viluppo a volte difficilmente districabile di citazioni, con la mole degli studi: che significhi la tradizione critica e la sua pressione su un autore di quella statura. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli e coinvolgere, per la parte di Timpanaro, della sua cultura politica e del suo metodo, anche la storia del marxismo teorico in Italia (e in Europa), nonché la sua battaglia da corifeo delle scienze della natura contro le scienze dello spirito. Ma, per restare a Leopardi e al raggio delle sue letture e opzioni da testi antichi, su un crinale tra letteratura filosofia e filologia, a proposito di testi epicurei greci e latini, se nell’edizione 1965 di Classicismo e illuminismo, si registra da parte di Timpanaro un «riserbo» leopardiano nei confronti di Epicuro e Lucrezio, l’edizione 1969 riconosce la ripresa lucreziana nella Ginestra. Altri, ma non Timpanaro, vedrà nell’«ignuda natura» dei morti nel Coro di Ruysch «l’optimum vitale dell’atarassia epicurea». L’epicureismo poteva essere sospetto come egolatria atarassica, deprivazione morale, ozio, in tempi di azione ideal-politica, più idonea, la condizione catastematica, alla Restaurazione, e consona ai suoi rifugi privati (i privati affetti), che a tempi di lotta e resurrezione. Ma per il restauratore Carlo Antici, il «gregge epicureo, che nega Provvidenza e vita futura, e nel fango dei sensuali piaceri il sommo bene ripone», non era che ciarpame di falsa sapienza. I Detti memorabili di Filippo Ottonieri sono espliciti in proposito: «Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica.» Analogo ragionamento, dall’epicureismo allo stoicismo, per sottese affinità, ché in tempi di «studi della virtù e della gloria» non si dà diserzione neppure del sapiente, Leopardi lo farà nel Preambolo al Manuale di Epitteto. Anche Orazio andrebbe preso in considerazione, almeno nell’ambito del dialogo con l’autore di Orazio e l’ideologia del principato (1962): «Risulta, in ogni caso, molto perspicuo, nelle pagine di La Penna, il contributo (dato da Orazio alla futura civiltà europea) alla fondazione d’una morale laica, ad un’autàrkeia criticamente vissuta, ad una visione della natura d’essenziale impronta immanente, tutta interna ai suoi laici e secolari circuiti. Il dialogo tra La Penna e Timpanaro, insomma, questo intendiamo sottolineare, è continuato nel tempo.»32 Un autore come Leopardi è un sistema astronomico in moto perpetuo che le interpretazioni come strumenti di avvistamento non finiscono mai di monitorare nei suoi spostamenti e registrare nelle posizioni di volta in volta assunte. Ci sono le fasi in Leopardi, come quella (breve) di letture dal Manuale di Epitteto (1825), dai Caratteri di Teofrasto (nello stesso anno), dall’Etica Nicomachea di Aristotele, dalla Farsaglia di Lucano, campione di titanismo sconfitto e di pessimismo cosmico-politico, e anche la lettura di Epicuro, al principio totalmente screditato (era sempre l’oraziano «Epicuri de grege porcum»), poi rivisitato senza più il pregiudizio cattolico delle Dissertazioni filosofiche (1811-1812) per il tramite delle Vite dei filosofi di Diogene
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Laerzio, lette nel novembre 1820, è avvenuta a fasi per la legittima suspicione che s’addensava su quel piacere separato ed egoistico. Anche quella lucreziana è una fase, e il riso freddo lucianeo (anche il contatto con lo scetticismo antico veniva dal libro IX di Diogene Laerzio), prodromo umorale dei sogni poetici e capricci malinconici delle Operette. La rassegnata decantazione, propria delle filosofie ellenistiche, etiche e timidamente pragmatiche (psicoterapiche), sembrava talora combaciare con gli umori arresi e frigidamente malinconici tipici di un tempo come quello della Restaurazione, ostile alle virtù dell’azione, e alla vitalità eroica (ammesso che una tale vitalità potesse resistere nel clima piceno, asfissiato da tonache onnipotenti, e in quella terra di morti che era l’Italia leopardiana). Donde un’oscillazione del lettore nell’opzione e condivisione a tratti e a fasi di letture e meditazioni dai classici minori, quelle psicoterapie dell’anima così vistosamente apolitiche, venuti al crepuscolo delle grandi filosofie. Come si vede non sono varianti formali, ma accostamenti e allontanamenti di orbite fra corpi celesti negli spazi della cultura antica e moderna. Ma bisogna dire che a stagliarsi progressivamente è poi anche un Leopardi riportato dalla totalità dell’esegesi a una sua integrità, e interezza, un autore che non si lascia separare al suo interno in una serie di voci, più o meno compatibili (il lirico, il filosofo speculativo, l’erudito classicista), né scindere nelle sue parti e disposizioni espressive e mentali. Il filosofo materialista, approdato alle sponde amare del vero, si accompagna e si vincola strettamente al filologo (essendo la filologia, lo strumento di ogni accertamento e verifica) e al poeta. Da anni Pestelli si è dedicato a una biografia intellettuale di quello che, come abbiamo detto, considera il massimo interprete del suo autore, Sebastiano Timpanaro, il filologo classicista materialista e militante politico di base, che a sua volta è divenuto l’altro autore in questo libro, se tre saggi gli sono destinati, il coprotagonista insieme e dopo Leopardi. Dal convegno di Tortorici, che data giusto dieci anni fa (agosto 2003), prese forma la nebulosa in espansione del suo universo timpanariano33. Il quale è descritto con largo investimento di documentazione. Leopardi al centro del volume timpanariano Classicismo e illuminismo, riedito con amplissimo commento, qui ripreso nel secondo saggio. Quindi anche il libro è il frutto di quel lungo lavoro di edizione che riproponeva il titolo principe della bibliografia leopardiana e ottocentista, dal momento che guidava l’Ottocento nella ricostruzione timpanariana. Si segnala ancora l’inedito capitolo sulle Postille ed annotazioni autografe di Timpanaro (di argomento non solamente leopardiano, in margine a due volumi di studi ottocenteschi e al volume collettivo, edito nel 1972, Per Giorgio Pasquali), che conferma la tensione autocorrettoria dello storico-filologo. Anche Sebastiano senior, fisico e storico della scienza, direttore della Domus Galilaeana di Pisa, e Maria Cardini Timpanaro, studiosa eminente della scienza greca, padre e madre di Sebastiano junior, sono da
33 Id., L’universo leopardiano, in Da Tortorici alla Toscana: percorsi della famiglia Timpanaro, a cura di P. de Capua, M. Feo e V. Fera, I, Atti del Convegno, Tortorici, Centro di Storia Patria 22-23 agosto 2003, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi umanistici, MMIX.
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Pestelli convocati per far toccare con mano una trasmissione genealogica di saperi (e di filosofie pratiche dell’esistenza), e indicare sulle scrivanie di casa Timpanaro, con Alcmeone, Empedocle, Eleatici, Pitagorici e Aristotele, cui bisognerà aggiungere i medici greci ed Epicuro, «lunghe e sistematiche permanenze» di esegesi materialistica. Una cultura di famiglia, rara nell’Italia dell’idealismo, del culto formale alla purezza lirica, dell’istintiva avversione alla scienza, anche là dove apparentemente, come nel futurismo tecnologico-idolatrico, la scienza mostrasse una qualche immagine di sé34. Leopardista di riferimento, in quanto più accreditato interprete del filosofo dell’antiteodicea e antiantropocentrismo, accreditato non si dice nel più formale gergo di accademica autorevolezza, ma in quanto il più affine al filosofo del radicale sbastigliamento umanistico, e della priorità della natura e struttura biologica su quella psicologico-mentale-spirituale, anche per quella deriva di materialismo appreso, verrebbe da dire, dalla nutrice prima della vita.
il leopardi di citati Con Il «Leopardi» di Pietro Citati, il volume si arricchisce di altri apporti, accogliendo una delle ultime rivisitazioni saggistiche, la monografia leopardiana edita da Mondadori nel 2010. Questa inclusione, sorprendente, va compresa in quanto può apparire in una posizione scomoda, priva com’è di requisiti filologici, accanto al nucleo-fortezza del timpanarismo. Da una parte la scienza leopardiana del filologo, dall’altra l’alta divulgazione del nostro più popolare saggista. «Dio, gli dèi, il fato, la fortuna, la natura», configurano, tutte entità ostili, il destino del poeta. E la biografia è anche un destino, da raccontare come si racconta il romanzo (vero) di una vita. Fuori dal tempo – ha detto Citati in un’intervista – Leopardi ha potuto conoscere tutti i tempi. Ed è fra i pochi grandi moderni (con Nietzsche e Baudelaire), moderni e antimoderni, perché «altrimenti sarebbero degli sciocchi progressisti». La contraddizione come «strada suprema per giungere alla verità». Con un duplice occhio, microscopico (alla Locke, nell’analisi delle Memorie del primo amore) e telescopico (Alla sua donna, 1823-1824). Questi, del destino e del ragionamento, sono due punti forti del saggio leopardiano, una sintesi di cui c’era bisogno. Come c’era bisogno di un ritorno alla poesia e a un tentativo di definizione compendiaria del poeta: «Invece di esaltare il poeta antico, Leopardi annunciava ed esaltava il poeta moderno, forse superiore a quell’antico che egli non era ancora diventato. Amava il fuoco, la furia, l’estasi, l’ammirazione contemplativa, la distanza, la naturalezza, la “sprezzatura”. I Canti sono tutti qui, in questa nuda enunciazione di qualità, e dopo un anno o due sarebbero diventati Alla luna, La sera del dì di festa, la canzone Ad Angelo Mai». La ragione per cui un’inclusione apparentemente singolare, in un libro costruito come questo (catafratto), di un saggio
34 Vd. il vol. di P. ANTONELLO, Contro il materialismo. Le «due culture» in Italia: bilancio di un secolo, Torino, Aragno, 2012, dove entrambi i Timpanaro, dal padre al figlio, vedono riconosciuto un ruolo significativo nella cultura scientifica e nella critica ai sofismi dell’idealismo.
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che si realizza non nell’acquisizione di dati documentari ma nella narrazione, nel flusso narrativo, sta proprio nel racconto largo, sapiente. Il sistema della malattia è descritto con una forza logica inconsueta e convincente, e avvincente. Non è solo una malattia, o una serie di morbilità, ma un sistema, che incide come un metodo sulle procedure conoscitive. Anche tramite la malattia, si conosce. E non siamo lontani da un’idea forte di Timpanaro, quando scrive, in polemica con la linea Tommaseo-Sergi-Croce, un lombrosiano Croce, che utilizza nella circostanza temi e argomenti positivisti, come quelli della vita strozzata che detta le condizioni al pensiero: «Bisogna invece riconoscere che la malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo, dell’infelicità dell’uomo come essere fisico.»35 La linea d’interpretazione crociana è quella che più si diffuse nella dimensione della letteratura europea, allorché Thomas Mann nel romanzo La montagna incantata (1924) mise in bocca a Settembrini, il democratico progressista, questa tirata risorgimentale e antileopardiana: «Lo storpio Leopardi, signori miei, provate ad afferrare la situazione nella sua interezza, sentiva soprattutto la mancanza dell’amore muliebre e proprio questo gli impedì di arginare l’intristirsi della sua anima. Impallidì ai suoi occhi lo splendore della gloria e della virtù, la natura gli apparve malvagia – e del resto è malvagia, stupida e malvagia, in questo gli do ragione – e disperò – terribile a dirsi – disperò della scienza e del progresso! È qui il tragico, ingegnere.»36 La malattia, la decadenza del corpo, inarrestabili processi biologici, costituiscono la barriera invalicabile dell’umano destinato a finire. Su questo terreno – lo stesso sul quale il Leopardi dello Zibaldone formulava nel pensiero del 2 gennaio 1829, la negazione della misantropia («la mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura») – Umberto Bosco, autore di un libro piuttosto famoso nella bibliografia leopardiana, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi, aveva innestato un’idea non priva di originalità: che fosse romantico l’urto disperato con questo muro della materia sempre e comunque «invincibile»37. «Il corpo di tutti – si legge in un frammento di Pindaro – segue la morte onnipotente». Romanticismo e materialismo: nella materia l’ostacolo insuperabile e la necessità naturale; romantico, per questo titano degno di pietà che è l’uomo, l’impulso a scontrarsi con la necessità, nella volontà titanica di piegarla, e ogni volta soccombere. Il titanismo può declinarsi in più significati: in questa accezione è ben altro da quello astratto, e appunto teatrale, dell’Alfieri, autore che pure su Leopardi esercitò un forte ascendente ma che ci appare, anche sul terreno che indicavamo prima, quello del destino umano e del titanismo della pietà, remotissimo e non più proponibile nelle sue pose e proclami di aristocratico trageda. Titanismo può significare anche fraternità umana (dal Dialogo di Plotino e di Porfirio, 1827). Il titanismo ha anche una accezione storico-politica quando sia qualificato come tensione rivoAlcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in CI, p. 127. T. MANN, La montagna magica, a cura e con introduzione di L. Crescenzi e un saggio di M. Neumann, trad. di R. Colorni, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 2010, pp. 144-145. 37 U. BOSCO, Titanismo e pietà in Giacomo Leopardi e altri studi leopardiani, Roma, Bonacci, 1983 (Firenze, Le Monnier, 1957). 35 36
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luzionaria (seguita, dopo il fallimento dei moti del 1821, dalla delusione storica, dalle cupezze dell’eroismo suicida nel Bruto minore, dicembre 1821, e dalla rassegnazione diseroicizzata ed epittetéa). Ma è ben chiaro – e qui torniamo a Timpanaro – che «L’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle romantico né una fumosa angoscia esistenziale: è (e il Leopardi se ne è reso conto man mano che diventava materialista) anzitutto un’infelicità fisica, basata su dati ben concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del piacere.»38 Se prima avevamo notato l’espulsione di Rousseau dall’opera leopardiana, qui il filosofo ginevrino risorge secondo Citati come testo di sensiblerie, ma solo il personaggio de Le Rêveries du promeneur solitaire, non il politologo e pedagogo del Contrat e di Émile. La rêverie rousseauiana è sinonimo di estasi di solitudine. Emerge nella ricostruzione citatiana una incommensurabile individualità, quella di Giacomo, anche se molte sono le persone, a cominciare da Monaldo che Citati vede e introduce al lettore come un personaggio da opera buffa rossiniana, spadifero e donchisciottesco, padre e madre per necessità, padrone per fictio, essendo Adelaide delegata al patrimonio, domina dei capitoli economici nel gran libro leopardiano, «carceriere amoroso» nel sistema figlio-palazzo-biblioteca, che lo hanno circondato e hanno vissuto con lui, anche di lui (la sorella Paolina), hanno afferrato un lembo della sua vita così genialmente arcana. E si sono salvati dall’oblio, per quanto sopravvivenza di servizio, comprimari nella biografia, ma pur sempre onorevole accanto a quel semidio della fama in letteratura. Il giudizio su Monaldo, padre affettuoso, è però negativo (e si concorda su questo punto, come ancora si vedrà in seguito), dove la negatività pertiene alla pervicace volontà di isolare Giacomo dal mondo. Una affettività autoritaria, a intermittenza condizionata dalla condotta del figlio, al quale non consentiva libertà di movimento e ne impediva l’azione vitale, non è configurabile come amore. Tuttavia uno studioso del calibro di Piero Treves – ipotizzabile che nel giudizio e nell’insofferenza per tanta disperazione entrasse anche la sua formazione anglosassone – era portato a criticare aspramente le posizioni monaldesche di Giacomo, vale a dire la chiusura ai tempi e la negazione di ogni progresso39. Come si vede, il nodo Monaldo non è da poco nella valutazione complessiva del leopardismo storico. Secondo Timpanaro, a cui si deve la prima attenzione per il cervello reazionario di Carlo Antici40, Monaldo non aveva esercitato un vero influsso sulla formazione del figlio (o tale influsso era stato sopravvalutato). Meno che mai era stata attiva di influenze l’inerte pedagogia dei precettori di casa Leopardi. È infatti significativo che il greco, lingua dirimente delle sue esplorazioni filosofiche, Leopardi lo apprendesse in autonomia e rapidamente, dall’anno 181341.
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sgg.
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CI, p. 130. P. TREVES, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, p. 471 TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1955, p. 146. Il Leopardi e i filosofi antichi, in CI, p. 151.
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La stessa biblioteca di Palazzo Leopardi, mitica roccaforte del sapere erudito, agiva a tal fine, sinergica all’amore del padre, a trattenere, conservare entro il paterno ostello, meraviglioso solo nella pratica poetica delle Ricordanze, confermando l’autarchia culturale di Recanati e della famiglia: «La biblioteca era una sorta di internet culturale dell’epoca, una fornitura di testi e di notizie pronta all’uso entro le mura familiari, e quindi foraggio di domesticità; una domesticità che domina assoluta.» Le città che ebbero su Leopardi una funzione importante nel conseguimento di nuovi punti di vista sulla letteratura (le conversioni) furono Milano (De Sanctis se ne era accorto), Bologna (anche per un clima umano di quella cultura) e Firenze, soggiorno estremamente istruttivo, non foss’altro che per l’attrito faticosamente diplomatizzato con il variegato modello Vieusseux, un arcipelago di cauti progressismi, un concentrato fattivo e operoso di spirito del secolo (comprensivo di una laicità borghese moderata e riformatrice e di un cattolicesimo liberale, doppiamente provvidenzialistico, distante e ormai estraneo al suo cristianesimo del dolore e della vanità42). Recanati restava il paradiso (l’eden dell’infanzia) ma anche l’inferno del dopo, primo teatro delle sue umiliazioni di giovane uomo. C’era stata una Recanati antica, e incorrotta, quella delle sue illusioni, che ne continuavano a fare il luogo dove si poteva sognare. Tutte le altre città, a cominciare dal viaggio fra i due luoghi contigui Recanati-Roma, avevano ereditato la caduta nel tempo storico di quelle illusioni. Roma si era poi perfezionata come il centro della congiura dei mascalzoni a danno degli onesti (per dirla con il Leopardi dei Pensieri). Romanocentrico era lo zio Antici, fratello della madre, che nel saggio di Citati viene castigato («odioso zio», «lo zio terribile», «presuntuoso, arrogante, sicuro di sé, insopportabile ficcanaso, molto più indelicato e indiscreto di Monaldo, che non possedette mai un ego così vasto»), ed era la testa più forte nel parentame, autoritario come Monaldo nel voler costruire la carriera del nipote. Ma un saggista scrive quello che sente o quello che vuole, e l’antipatia è pure un bello specchio in cui riflettere anche lo stile. È vero che Citati ha segretato alcuni meriti tecnici del marchese, ma aveva ben altro da raccontare ai suoi lettori che, almeno in una loro parte, probabilmente non sapevano neppure dell’esistenza di quel gentiluomo di Sua Santità, molto affaccendato in progetti temporalistici. Qui Pestelli, con tanti parenti più o meno ingombranti, ottusi o intelligenti, fra i piedi, la mette giù con molto buon senso: «Avere come congiunto un genio (più o meno “compreso”) della scrittura, e del pensiero, è un problema familiare. Certo, nell’affrontarlo, i Leopardi e lo zio Antici non si sono dimostrati superiori ai loro tempi.» Anche Citati approverebbe. E sì che c’era bisogno di pause alla fitta trama di analisi e bibliografie, e biografismi specialistici, per consentire ai lettori comuni (che poi siamo tutti alla fine) di avere una storia leopardiana che non sarà completa ma è intera come la sua vita. Un saggista dispone in quanto tale, per la sua libertà di movimento, di ingenti e preziosi giacimenti di lettura e Citati ha saputo sfruttarne alcuni al meglio (altri li ha ignorati, come i Paralipomeni). Perciò, chiudendo il dossier
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CI, p. 136.
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Citati, si conclude su uno dei pezzi di bravura del biografo, che non riguarda una figura dell’entourage biografico, ma l’amica silente di Giacomo, la compagna fedele (e vergine) delle sue notti, la luna, presente in chissà quanti componimenti, Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Bruto minore, Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi, Al Conte Carlo Pepoli, Il risorgimento, Il sabato del villaggio, il Canto notturno, Il Tramonto della luna: «La cosmologia lunare di Leopardi è quasi l’esatto capovolgimento e rovesciamento della teologia lunare classicocristiana […]. Quasi tutto quello che abbiamo visto scompare. Non c’è più, in Leopardi, l’immensa forza fecondatrice dell’umidità e della rugiada: non c’è rapporto con le maree, e le crescite e decrescite del nostro mondo. Scompare la mutabilità: la luna non ha cicli, né superfici diverse; non conosce le sfumature dell’iride, il ceruleo o il bluastro o il colore del vino o il verde o le macchie. È sempre candida, argentea, bianca, canuta, perché sta al di sopra o al di fuori del gioco dei colori che varia e allieta la terra. La luna non ha molti nomi, come nell’antichità classica, ma è sempre e soltanto la luna – la graziosa, la diletta, la cara, la tacita, la silenziosa, la vergine, la intatta luna. Non è la chiave della simpatia universale, e delle mediazioni e delle relazioni che stringono tra loro il nostro universo. E soprattutto non ha alcuna attività o funzione erotica. La luna è vergine; il suo raggio è verecondo. Tutto ciò almeno sino al Tramonto della luna, dove Leopardi, sul punto di morire, mutò la sua idea del cosmo».
parole al padre. il linguaggio degli affetti Un altro critico leopardiano fatto oggetto di una attenta lettura storiografica nel capitolo Leopardi, la famiglia e il classicismo romagnolo-marchigiano, è Pantaleo Palmieri, autore del volume Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi (Il Ponte Vecchio, 2001)43. Palmieri, leopardista stimato, è studioso serio, di scuola filologica (allievo a Bologna di Raffaele Spongano), scopritore e interprete di autografi leopardiani, esperto e brillante lettore nell’ambito delle attribuzioni (e disattribuzioni), come solo un conoscitore della materia, per consuetudine con il linguaggio del suo autore, è in grado di fare. Qui il punto del contendere (o del concordare) è però un altro. E il documento, il trattamento della bibliografia specifica, possono entrarci di sicuro ma ad avere un ruolo più sottile e alla fine decisivo sono, a mio avviso, la sensibilità e il proprio insindacabile sentire. Palmieri ha scritto un libro per riabilitare Monaldo come paternità e tempio di affetti sicuri e non effimeri, mai venuti meno, se l’ultima lettera dell’epistolario (Napoli 27 maggio 1837) è al padre, dal suo «amorosissimo figlio». Palmieri ne ha tratto un giudizio che si estende fin troppo e ferma lo scatto sulla positività della figura monaldesca, sul suo agire, sempre e comunque mosso da affetti. Il risultato è di consegnare a Monaldo un ruolo bonificato, in cui l’affetto, che nessuno discute, la fa da padrone (un affetto padronale), per circoscrivere lo spazio
Segnalo l’ultimo volume leopardiano di PALMIERI, Per Leopardi. Documenti, proposte, disattribuzioni, Presentazione di E. Pasquini, Ravenna, Longo, 2013. 43
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del figlio, e, in una parola dura ma che risponde a verità biografica, per sequestrarlo. Non c’è affetto che tenga per quella responsabilità. E il giudizio, che più conta, quello del figlio, la fuga (né ci si riferisce alla sola lettera della fuga, non datata ma della fine di luglio 1819, né alla lettera da Firenze del 3 luglio 1832 che alza il muro del non ritorno al «paterno ostello», o «bicoccaccia» che fosse), o la metodica distanza (fra sé e Recanati, fra sé e il mondo che Monaldo rappresenta), sono agli atti del leopardismo. L’abissale distanza di pensiero e sensibilità fra padre e figlio (dagli scellerati Dialoghetti all’insopportabile boria reazionaria della «Voce della Ragione») costringeva Giacomo alla «polisincerità», a sdoppiarsi in un automatismo forzosamente ipocrita, ricorrendo a una diplomazia che era solito allertare, per proteggersi, anche quando doveva vedersela dalle trappole vaticane. Era un’Italia tremenda quella in cui viveva, nera di pece, pericolosa, perché senza diritto, disperata e disperante. Si può capire, e apprezzare sul piano affettivo, il desiderio di Monaldo di tenersi quel tesoro di figlio, forse anche per tutelarlo dalle insidie del mondo. Ripeto, nessuno nega l’amore di padre in Monaldo. Del resto nel libro non c’è solo lui, ci sono i fratelli (Carlo, Paolina, Luigi, Pierfrancesco-Pietruccio), i parenti (il cugino Giuseppe Melchiorri), gli amici (Pietro Brighenti, Adelaide Maestri), molta e diffusa lingua di affetti, ma il nodo è il padre e su quello abbiamo fermato l’obiettivo. Fa eccezione la madre amministratrice, algida cattolica, alla quale Pestelli regala questa frase, relativamente all’opinione di Adelaide che un figlio salito anzitempo al cielo fosse da considerarsi una grazia: «anche la gioia “nichilista”, cristiano-negativa della filiale premorienza». Come dire, anche questo doveva toccare a Giacomo, la cui fuga da Recanati non fa che arricchirsi di moventi. All’amico Palmieri, data la nostra consuetudine, ho già espresso queste impressioni, che ho voluto anticipare per l’onestà espositiva che è dovuta al lettore, ma qui importa verificare l’interpretazione che di quella affettuosa lingua paterna dà Pestelli, il quale raccomanda alla comunità degli studi l’attenzione che riletture come quella di Palmieri meritano. Preso atto del «tenace garbo di documentata fondatezza», Pestelli accoglie molte delle argomentazioni e delucidazioni-accertamenti sul coté famigliare, fra i quali il superamento di un pregiudiziale antimonaldismo, e scrive quanto segue: «Certo, Leopardi rimane eroico, e per conto nostro anche ribelle, né viene rigettata, da questo solco di studi, la portata della sua critica al mondo e alla religione, alla società e agli uomini; ma un notevole contributo può provenire proprio dall’individuazione precisa della sua appartenenza a quel mondo, e diciamo pure a quelle persone: la sua scelta biografico-esistenziale, e soprattutto la sua filosofia, risulteranno, se non ci inganniamo, incertate, e meglio definite, da quello che si configura come un vero e complesso e contraddittorio legame con un ambiente reale in cui, nei modi ad esso peculiari, gli si voleva bene: non un’ottica di denegazione e d’annullamento dell’“antagonista”, del nemico, dell’avversario o del competitore, ma un’ottica che quello stesso antagonista recupera al suo effettivo ruolo, di padre (di questo spesso ci si scorda) e appunto d’esponente d’un mondo ideologicamente avverso a Leopardi figlio, di padre che ha opinioni e convinzioni radicalmente differenti da Giacomo, di padre che, in un certo senso, non ha previsto una simile e geniale evoluzione della sua progenie (e come avrebbe potuto, tanto più muovendo, o XXX
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meglio non muovendosi affatto da quelle coordinate di Marca pontificia, classicistica in accezione tradizionalista e insieme clericalissima?)». Il lettore, presa visione di tutte le carte, la Lingua degli affetti e Parole al padre, che hanno un calore innegabile, valuterà ruolo e funzione di Monaldo. Il libro affronta anche la questione dell’appartenenza di Leopardi alla Scuola classica di Romagna. Qui basterà affidarsi alle parole di un grande studioso: «Augusto Campana, ampiamente e inevitabilmente evocato in queste pagine romagnole, sosteneva che a tale scuola “si potrebbe iscrivere di diritto anche Giacomo; di solito non ci si pensa, solo perché era un grande”». Nel rispetto delle proporzioni di rubricate minorità (ma anche di personalità tutt’altro che minori come Bartolomeo Borghesi), non si potrebbe dir meglio. Campana scriptor della Vaticana aveva scoperto negli anni Cinquanta nove autografi di lettere leopardiane, su cui lavorò Timpanaro, che allo studioso romagnolo, nel ricordo dei seminari alla Normale pisana, dedicò il volume Aspetti e figure della cultura ottocentesca. Il cerchio ancora si stringe sul nome eponimo del libro.
carlo antici e la restaurazione Con il saggio Carlo Antici traduttore (1815-1830). La propensione per il romanticismo religioso tedesco della Restaurazione, s’apre un capitolo di storia del clericalismo armato nell’Italia della Restaurazione. Con l’intiera gamma semantica delle libertà, tutte va da sé libertine, a essere combattuta da una crociata di parole e di atti studiati e finalizzati allo scopo. Un rogo dei Lumi, «tenebrosa scuola di cultura», in un negativo fotografico delle Lumières. Il libro offre uno spaccato di storia della reazione cattolica (Stolberg, Sailer, Johann George Pflister, Jean Esprit Bonnet, Friedrich Hurter, Giuseppe Sambuga, Claude-François Nonnotte, Johann Oettl), una campagna di rilancio di demografia religiosa, una riorganizzazione della fede e del suo popolo su un piano di concretezza senza alcuna concessione all’estremismo religioso o a concezione «misticamente smodata e assetata di dantesco […] “trasumanar”», quale è raro leggere nei libri di critica e storiografia letteraria. Scorgiamo molto da vicino e nei particolari il contesto di cattolicesimo integralistico e fondamentalista nel quale è cresciuto, e dal quale si è disvincolato, Giacomo Leopardi. Un piccolo mondo antico (pre-rivoluzione francese), fra Marca Picena, Roma e agro laziale di possessi feudali. Un assetto da Santa Alleanza, dislocato nelle province italiche, se non fosse per la potestas residua del soglio petrino, mai però per la martirologia papale di Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti tanto oscurato (intimidito e umiliato) dagli eventi. L’Italia di Giacomo è un’Italia che piange (Canzone all’Italia). Quella dello zio Antici, refrattario a ogni piagnisteo o classico-petrarchesco compianto su desolazione di colonne e archi, che non a caso considera inutile il genere “canzone” del nipote, vorrebbe, a furia di omelie protocolli agiografie apologie prediche patristica allocuzioni discorsi (testi considerati utili nel mercato pontificio), risollevarsi sulle spalle dell’antico dominio dei Papi. Si legga questo elogio di Roma capitale del cristianesimo, cattolica ed ecumenica, che è davvero un abbraccio berniniano, nonché apostolico: «O Roma, che nelle cose alla Divinità, e ai sommi destini dell’uomo spettanti, sei la INTRODUZIONE - UNIVERSI LEOPARDIANI
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Maestra di color, che sanno! Gloriati pure, che ne hai ben d’onde, gloriati non tanto delle eccelse moli, e dei prodigi di ogni arte, quanto dei Chiostri e de’ Claustrali, che nel tuo seno racchiudi. Felice come sei sotto pacifico Principato, non invidiare altrui la sanguinosa gloria delle armi, le azzardose imprese di commercio, gl’interminabili raffinamenti del lusso.» Questa è teocrazia. Si legga dagli Avvertimenti paterni di Massimiliano I, tradotti e pubblicati da Antici nel 1828: «Ivi non si assegna come norma delle leggi la supposta volontà generale, ma l’eterna giustizia; ivi il potere si fa discendere da Dio, non conferire dagli uomini; ivi non si sottopone il Principe al giudizio dei sudditi, ma al Dominatore dei dominanti» (il paolino «Rex regum et Dominus dominantium»). E di una teocrazia si traccia la storia per i primi decenni del XIX secolo. Teocrazia è la fede in Dio eretta a struttura portante dello Stato e a criterio di verità, valido per il mondo intero. Nel duello ravvicinato fra Antici e Leopardi, si potrà constatare che ogni realizzazione letteraria del nipote (dalle Canzoni alle Operette) finirà per scontentarlo e del resto non c’è sponda, laica o religiosa, a ricevere un qualche sostegno o conforto dall’opera leopardiana. Da una parte «un’umanità di defedata caratura spirituale», causa la «grande piovra negativa di quello scellerato razionalismo miscredente e suscitatore di dubbi costituito dal Settecento illuminista.» Dall’altro una legione di cavalieri dell ’idealità cattolica, missionari secolari del suo resuscitamento. C’era un De Maistre in casa Leopardi, alla quale pur indirettamente afferivano anche due porporati (Tommaso Antici e Alessandro Mattei), e «lo zelo, di cui sempre arse in vita per il bene della Religione e dello Stato», fu celebrato a Roma ben oltre la sua morte. Antici fu un poligrafo dal ritmo sussultorio, scienziato politico con unzione divina, non solo difensore della fede, suddito fedele, ma qualcosa di più, profondo conoscitore delle strutture materiali e politiche dello Stato della Chiesa («Dominj Pontificj»), consigliere del principe, anzi del monarca assoluto che siede sul trono di Pietro. Antici, il controrivoluzionario, colto, ma con misura (non plus sapere, quam oportet!), poliglotta, intraprendente, insonne («e come sarebbe a noi permesso di sonnacchiare, mentre veglia, ed infuria lo spirito dell’errore?»). Un dogmatico operativo. Più sensibile all’ex opera operantis che all’ex opere operato. Un reazionario che aveva appreso dall’illuminismo del nemico, dalla sua pubblicistica, dalle sue tecnicalità di opinione, le procedure della lotta culturale e politica. Il suo fu mero illuminismo tecnico, volto ad altri fini, opposti, quelli del recupero e reintegrazione di una visione religiosa che l’illuminismo aveva abolito. Come i veri reazionari, anche Antici è stato un illuminista al nero, ma non perse tempo con le apocalissi e le palingenesi. Puntò sul da farsi, sulle riforme di struttura. Puntò sul potere e la sua rinnovata stabilità. Critico della “illimitata” libertà di stampa, Antici sarà negli anni Quaranta addetto al censura nello Stato Pontificio, dove si era appena spenta la mente incensurabile di Giacomo. «Si raccomanda, – si legge – individuandola come unica soluzione storica, “una abitudine (immedesimata colla vita) di tutto congiungere a Dio, di tutto vedere in Dio, di tutto volere in Dio, di tutto a Dio ricondurre. Se ha da rimpastarsi il mondo colla pietà, deve esso assuefarsi a scorger Dio dietro il sipario della natura”». Anche la natura veniva ricondotta a Dio («chiunque nella natura null’altro XXXII
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vede che la natura, è incapace di qualunque nobile sentimento»), su un terreno sensibile alla poesia e alla speculazione del nipote. Non un reazionario inerme, ma un rivoluzionario all’incontrario, con la testa girata, che convalidava il passato d’antico regime e lo spingeva a contendere il passo a ogni blasfemo pronunciamento di progresso, a tutti i nuovi “demonizzabili” reggitori politici. La testa girata di Antici ricorda in effigie i versi 54-58 de La ginestra: «il calle insino allora / Dal risorto pensier segnato innanti / Abbandonasti, e volti addietro i passi / Del ritornar ti vanti / E procedere il chiami.» Qui si trattava, secondo la parabola del barone Carl Ludwig von Haller, di armare la comunità cristiana, istruirla a una guerra. Il gregge della vinea Domini aveva bisogno di generali, e di una nuova disciplina. C’è in questo patrizio dai modi scarni e moderatamente benevoli (come nei suoi autori, francesi o tedeschi che fossero) un rigorismo antropologico, una virtus bavarica, un cattolicesimo prussiano. Le non infrequenti citazioni e i rimandi a Federico il Grande (glorioso anche per l’Antimachiavel) confermano la compatibilità teutonica dell’Antici. Una scorza anche molto terrestre, che guardava alla terra assai più che al cielo. Al «terribile volcano» (la Rivoluzione di Francia) si opponeva la stabilità, politica e terrena, di un Regno senza tempo. Alla felicità dei popoli conveniva la difesa del Trono e dell’Altare, e a questo fine il Platone che in Giacomo era musica delle sfere tornava nella veste strumentale del dottrinario politico (tra i «veri filosofi che sanno»). In Antici era anche la repulsa di ogni riformismo spirituale, di ogni, come si sarebbe detto, modernismo: «Siano lontani sempre da te quei superbi macchinatori di novità nelle cose divine, e le loro trame con poderoso braccio disperdi.» Tradizione, stabilità, immutabilità. Il sogno attivo di un potere eterno. Aggredito da barbari non privi d’ingegno (Voltaire, Diderot, Raynal, il sofista Rousseau, Mirabeau, Montesquieu), il legittimista si difendeva strenuamente ma contrattaccava. Antici contestava la “confusione”, la “multiculturalità divulgativa”, l’“allocutività illuministica”. Era sua tipica modalità la controffensiva. Certo leggeva i suoi autori, anche i francesi, nonostante la morigerata e ferrea germanofilia (Pascal, Bossuet, Mably, Bourdaloue, Massillon, Chateaubriand, De Bonald, Sant’Agostino), ma era la pratica della militanza che lo mobilitava. Che cosa pensasse dei filosofi politici, e più largamente degli intellettuali in politica, lo affidava a una massima del già citato plenipotenziario della sua fantasia autocratica, Federico di Prussia: «Che se avesse a punire una provincia ribelle, vi spedirebbe cotali sofisti a governarla». Si legga un brano di prosa anticiana, tratto dal commento ai Fatti e ammaestramenti più memorabili degli apostoli raccolti in lingua allemanna dal conte Federico Leopoldo di Stolberg, su un tema forte e corrente all’epoca come l’anticristo: «Il Demonio, di cui sarà organo, e ministro l’Anticristo ha già principiato a lavorare il mistero d’iniquità, che sarà allora ridotto al suo termine. Questo mistero egli lo lavora per le mani degli Eretici, e degli Increduli, e per le mani eziandio dei falsi Cristiani. Tutti costoro hanno già cominciata l’opera dell’Anticristo; quest’opera si anderà avanzando quanto più si anderà avvicinando il gran giorno, divenendo ogni dì più debole la Fede, e raffreddandosi la Carità. L’Anticristo porrà finalmente l’ultima mano al lavoro dei suoi ministri». Empietà, termine fra i più abusati. Cosa fa l’empio?: INTRODUZIONE - UNIVERSI LEOPARDIANI
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«fabbrica costituzioni per rovesciare i troni, ed introdurre la sovranità del popolo, cioè l’anarchia». Si potrebbe dire che fabbrica facsimili di democrazie. Lumi, ma non illuministici, invocava mons. Scavini per il Giubileo del 1826. Lumi, è su quelli che si batteva, scansionati secondo una graduatoria di razionalismo e materialismo, tra il logo Voltaire, Helvétius, d’Holbach, Kant, il «sofista di Koenigsberga», ma lì era lo spirito scristianizzante del tempo. L’immutato bersaglio del pensiero settecentesco. La porzione di Ottocento, investita da quest’onda di restaurazione, arriva a lambire la data del 1830. Forte delle ricerche su Casa Antici nell’Archivio recanatese Antici-Mattei, Pestelli riscatta, e non solo dai veniali castighi di Citati, lo zio Carlo, stratega per conto del nipote, ed «emblematico alfiere storico» del cattolicesimo, campione di legittimismo e traduttore nella data canonica del 1815 di un Saggio sul governo temporale del Papa. Riconsidera, con grande dovizia di documentazione (il testo a fronte delle note è solo la punta dell’iceberg), aggiunta al libro già edito, il ruolo della famiglia contigua e potente della madre. Offre un inedito spaccato di storia, e minutissima cronaca, del milieu aristocratico-cattolico, con le sue ricognizioni neotestamentarie e apologetiche, che sta accanto e intorno a Leopardi e accresce, per dislivello e dismisura, il miracolo di quella insorgenza noetica, per non dire della individualità poetica. Un mondo di abati, missionari, elemosinieri, gesuiti, prelati, eruditi, predicatori, quaresimalisti, apologisti, controversisti, membri di Propaganda fide, liturgisti e coreografi dei riti, filologi testamentari e comparatisti (protestantesimo / cattolicesimo), editorialisti («L’Amico della Religione e del Re», «Annali delle scienze religiose», «Giornale Ecclesiastico di Roma», «La Voce della Verità», «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura», «L’amico d’Italia», «Giornale di Francoforte», editori di opuscoli cattolici quale l’imolese Società de’ Calobibliofili). A cui si aggiunge una retrospettiva sull’anacoretismo e il monachesimo, foltissimo di nomi e identità sacre: Paolo l’Eremita, Antonio in Egitto, Ilarione in Palestina, i due Macari nella Libia, Pacomio nella Tebaide, Basilio nella Cappadocia, Ambrogio in Italia, Agostino in Numidia, Martino in Francia, Benedetto a Cassino, i Vallombrosani di Gualberto, i Camaldolesi di Romoaldo, i Certosini di Brunone, i Cisterciensi di Bernardo, i Premostratensi di Norberto, i Frati Mendicanti di Francesco, Domenico dei Predicatori, Pietro Nolasco dei Mercedarj, Alberto dei Carmelitani, Benizio dei Serviti, gli Agostiniani riuniti da Innocenzo IV, i Chierici Regolari, i Gesuiti di Ignazio, i buoni Fratelli a Giovanni di Dio, i Crociferi di Camillo, i Somaschi di Girolamo Emiliani, gli Scolopj di Calasanzio, i Barnabiti di Antonio, i Chierici minori di Adorno. L’eloquenza della lista e la Restaurazione in forma di elenchi. Un universo religioso risvegliato nella nuova crociata, con la virtù dei Claustrali rivalutata e arruolata nella battaglia. Infine gli aristocratici, come l’Antici, che s’accollavano l’onere di classe dirigente. Fra i più apprezzati (e ambiti) i convertiti, testimoni del disgusto del luteranesimo (il dio che è fallito), inteso senza mezzi termini come «un vero sistema d’incredulità, posato sulla stessa base degli altri sistemi d’errore, e il cui perfetto sviluppamento sarebbe la distruzione del Cristianesimo». I convertiti (come il principe Ferdinand Friedrich d’Anhalt-Coëthen, convertitosi nel gennaio 1826 con la duchesXXXIV
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sa consorte) venivano scherniti dai giornali tedeschi protestanti. Quasi un nuovo scisma. E una serie di decreti attuativi di ancien régime. La sezione dedicata alla complessa figura di Carlo è fra i contributi di sicuro valore documentario del libro. In tempi di fiera tempesta ed empietà delirante, Antici partecipava con coscienza di ruolo a opporre la diga del temporalismo agli anticristo che percorrevano l’Europa. Peculiarità di questo paladino della Chiesa di Roma era teorizzare come superiore a ogni altro il potere della Chiesa come Stato, fondato a prova su una durevolezza millenaria («l’edificio politico starà sulla rena»), annullando ogni effetto di illuminismo: «La filosofia del XVIII secolo è il velenoso frutto dello spirito delle nazioni d’allora universalmente corrotte, è una testimonianza in iscritto della cattiva propensione e delle storte opinioni del tempo». Nazioni che al plurale già declinavano la negatività di gentes pagane, in contrasto all’una e indivisibile. Ontologia ecclesiastica e perfetto integralismo: «È la religione che tiene in scacco e ammonisce i re che, se il divino decreto ha voluto la felicità dei popoli col vietare loro il congiurare contro i sovrani, questi ultimi devono sentire sopra di essi il rigore della legge e soprattutto l’incombente castigo di Dio; e la riaffermazione della gerarchia Dio-sovranopopolo è riscontrabile anche nelle sue conseguenze sulla vita del clero». Non solo e non tanto la tutela della religione, del credo, del sacro verbo, ma l’esaltazione delle prerogative dei pastori vaticani a guidare i popoli contro condottieri della tempra di un Bonaparte. Il tratto che distingue Antici è l’energia reazionaria dell’assalto (uno Sturm neocattolico), il senso dell’offensiva ideologica, non la pratica della difesa. Antici fu l’assertività della propaganda militante: gli ecclesiastici, molto più che eminenze grigie, erano i veri titolari della Reggenza degli Stati (e lo Stato papale come il più sicuro, oltre che più mite esattore fiscale – anche nella crociata il tema elettorale delle tasse – dato non corrispondente al vero se si pensa all’esazione tributaria in epoca di controriforma). A fronte dei balbettii della paura o alle laudatio agiografiche, e mentre la totalità dei suoi pari restava a presidiare tremebondo il portone di casa, sperando che non fosse violato dagli stupri di una storia mai tanto viva e frenetica come in quegli anni, Antici si sobbarcava oneri e onori del ruolo e della funzione derivati dal proprio primato sociale. Scrive Pestelli: «La superiorità non soltanto spirituale, ma materiale e storica che è riconosciuta al Papato, conferma quel generale protocollo teocratico che già il biografo gesuita Angelini aveva pur con il suo stile retoricamente increspato riconosciuto con chiarezza fin dall’opera d’esordio di Antici traduttore-saggista, un’opera non certo a caso cifrata sulla ratio strutturale, sociale, economica, tributario-fiscale, culturale, diplomatica, militare, e propriamente politica e internazionale, dello Stato per eccellenza, e “naturalmente” Stato monarchico, costituito dall’autorità, dal prestigioso aggetto spirituale, dalla “duplice” potestà vaticano-quirinalizia della Santa Sede, della Sede di Pietro.» Aggiunge infine questa nota originale: «Antici, insomma, esalta, da oratore-saggista convinto, il missionarismo come civilizzazione: una sorta, ancora, di concetto delle Grazie foscoliane nel quale la parte delle dèe è svolta dalla romanità cattolico-latina e dalla sua missione nel mondo.» Lettore forse occasionale del nipote, ma senza che ci siano mai coincidenze di visione o di accezione anche lessicale: «La “virtude / Rugginosa dell’itala natura” INTRODUZIONE - UNIVERSI LEOPARDIANI
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(Ad Angelo Mai, vv. 24-25) è la virtù delle memorie culturali classiche, non certo la virtù veicolata dalla tradizione cristiana e dalla funzione storica del Papato in Italia e in Europa […] e il “tedio che n’affoga” del v. 72 comprende ancora, pur come componente ormai tutt’altro che unica, il “tedio” della Restaurazione». Nella Biblioteca di casa Leopardi non molti erano i testi romantici tradotti che vertessero su temi di apologia. Uno di questi era il Génie du Christianisme di Chateaubriand. Testa aspra e forte, un esprit razionalistico, una sorta di cartesianismo teologico, lucidamente pragmatico anche nella pietà. Un raffinato e plurilingue controriformismo, sviluppato dentro un’Europa chiusa. Testa fredda, secondo il tacitiano, citato in exergo al Discorso del 22 giugno 1826 sugli ordini monastici, «sine ira et studio, quorum causas procul habeo». Ingegno politico di lignaggio metternichiano, intelletto calcolatore, diversissimo da quello del nipote avverso al «computar», ma intelligenza tuttavia, sia pure non vivida in quanto solo retrospettiva e cinicamente pro domo aristocratica, pro nobiltà del latifondo feudale, Antici fu il monaldismo evoluto, meno loquace e più fattivo, per nulla patetico o d’opera buffa, uscito al mondo dalla dimora e anche sottrattosi alle malie erudite del sistema biblioteca. Un personaggio che accanto a Giacomo riesce a creare, anche per merito di Pestelli che è andato a risvegliarlo negli archivi recanatesi, un effetto di chiaroscuro, ma non di indegnità. (Università di Firenze, 19 agosto 2013)
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Nota bibliografica
Dei saggi che compongono questo volume, il terzo, Postille ed annotazioni autografe di Timpanaro («Aspetti e figure della cultura ottocentesca», «Nuovi studi sul nostro Ottocento», «Per Giorgio Pasquali»), è inedito; il quarto, Il «Leopardi» di Pietro Citati, anch’esso inedito, è attualmente in corso di stampa nella «Rassegna della letteratura italiana», CXVII, serie VIII, 2-3 (luglio-dicembre 2013); diamo qui i riferimenti bibliografici degli altri capitoli: • il primo, L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro, è uscito, in forma ridotta, nell’opera collettiva Da Tortorici alla Toscana: Percorsi della famiglia Timpanaro. Atti del Convegno di studi (Tortorici, Centro di Storia Patria, 22-23 agosto 2003), a cura di Paola de Capua, Michele Feo e Vincenzo Fera, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici («Biblioteca Umanistica», n. 9), 2009, pp. 197-305; • il secondo, Leopardi protagonista nella nuova edizione di «Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano», riproduce con titolo autonomo, e con taglio delle istruzioni tecniche finali, lo scritto Nota del curatore e criteri della presente edizione, apparso in SEBASTIANO TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano. Nuova edizione. Testo critico con aggiunta di saggi e di annotazioni autografe, a cura di Corrado Pestelli, Introduzione (Un libro necessario) di Gino Tellini, Firenze, Editrice Le Lettere (collana «Bibliotheca», n. 52), 2012, pp. XXXVII-LXXIII; • il quinto, Leopardi, la famiglia e il classicismo romagnolo-marchigiano, è apparso come nota al Pantaleo Palmieri di Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, in «Italianistica», XXXII, 3 (settembre-dicembre 2003), pp. 487-493; • il sesto, Carlo Antici traduttore (1815-1830). La propensione per il romanticismo religioso tedesco della Restaurazione, riproduce, con pochi interventi rielaborativi, il secondo capitolo della Tesi di Dottorato, discussa nel 2007 all’Università di Firenze; ne è stata pubblicata una versione molto ridotta, con il titolo Il periodo 1815-1830. Le grandi traduzioni, nel mio volume Carlo Antici e l’ideologia della Restaurazione in Italia, con Nota introduttiva di Salvo Mastellone, Firenze, FUP (Firenze University Press – «Studi e Saggi», n. 81 –), 2009, pp. 1-129.
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L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro e altri saggi su Leopardi e sulla famiglia
I. L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro
In una bella relazione sulla lingua e sullo stile dei cosiddetti canti fiorentini di Leopardi e su Aspasia, Fiorenza Ceragioli individua sulla scorta d’un’importante citazione zibaldoniana del 18201 il concetto teofrasteo di bellezza come σιωπῶσα ἀπάτη, «tacito inganno», un concetto che si ripresenta al poeta di Aspasia offrendogli un’efficace definizione della ricaduta, sull’amante, della visione del κάλλος, della bellezza, che nelle righe immediatamente precedenti è detta più valida di qualsiasi lettera di raccomandazione2: Teofrasto definiva la bellezza σιωπῶσαν ἀπάτην (ib. [scil.: «Laerz. in Aristot. l. 5. seg. 18»] 19). Pur troppo bene: perché tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d’animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna. Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario, perché ἀπάτη non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all’effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente.
Dopo che A se stesso ha scardinato il sistema concettuale e linguistico dei canti fiorentini, con un fato recuperato al ruolo di donatore di morte, di «brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera», con Aspasia inizia il primo periodo napoletano di Leopardi, segnato da un’esigenza etica dichiarativa della nuda vacuità delle illusioni, in questo caso, ovvero in questo periodo della storia biografica e ideologica leopardiana, le illusioni legate all’amore per una figura reale di donna. Il classicismo napoletano di Leopardi consiste, insomma, anche nella ripresa di Teofrasto, oggetto di riflessione, insieme alla figura di Bruto, fin dagli anni giovanili, antecedenti alla stesura (marzo 1822) della stessa Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. La responsabilità dell’inganno esercitato dalla sfera della bellezza può sempre essere fatta risalire all’uomo, il quale attribuisce al mondo morale della donna una connotazione che è in realtà propria della sfera estetica. Ma la scissione che grazie a questo concetto si opera non è solo quella, a ben vedere scontata, fra bello estetico e bello morale. Quello che qui si scinde è soprattutto il preteso binomio fra bello e bellezza; ed è un punto sul quale sarà il caso d’insistere. Se il primo, come più volte ha già detto Leopardi, appartiene all’ámbito in qualche modo determinabile e padroneggiabile della convenienza, dell’adeguamento ad un canone accettato dalla generalità dell’umana fruizione, della pertinenza, della congruità con una serie di criteri magari giocabili con notevoli margini d’elasticità ma comunque assumibili in un
normativa dottrinaria passibile d’apprendimento e d’assuefazione, la bellezza invece pertiene ad una sfera comunicativa con il soggetto fruitore e si realizza tramite il mezzo d’una forma umana (o del suono, o del canto, se si tratta di bellezza musicale), privata della quale essa non produce affatto la stessa impressione. Proprio dagli effetti estetici della musica Leopardi trae motivo di stabilire non solo un paragone, ma anche una profonda e essenziale affinità tra l’azione della bellezza femminile e l’azione del suono sull’ascoltatore: «Raggio divino al mio pensiero apparve, / donna, la tua beltà. Simile effetto / fan la bellezza e i musicali accordi, / ch’alto mistero d’ignorati Elisi / paion sovente rivelar» (Aspasia, 33-37); e si legga, scegliendo fra i brani dello Zibaldone espressamente dedicati alla percezione della musica, quello del 10 settembre 1821 (1663-1666, con tagli): Ho detto altrove che bisogna distinguere nella musica l’effetto dell’armonia, da quelli del suono che non hanno a fare col bello, come non vi ha che fare il colore per se stesso, non trattandosi di convenienza. Ho detto che quello che ha di singolare l’effetto della musica sull’animo, appartiene in massima parte al puro suono […]. Frattanto egli [«una persona» non altrimenti specificata, che non apprezzava troppo la musica] notava che una stessa armonia eseguita in certi tali strumenti lo toccava vivamente, in altri niente affatto. Egli amava molto, e provava tutti gli effetti della musica, quando udiva suoni forti, di gran voce, strumenti arditi, orchestre numerose, e strepitose […]. Questo diletto era dunque nella sostanza dipendente dal suono, e indipendente dall’accordo, dall’armonia, e quindi dal bello. Il suono dà piacere all’uomo, perché la natura gli ha dato, o ha dato a noi (e ad altri animali) questa proprietà. Così i cibi dolci, i colori vivi ec. Tutto ciò non appartiene al bello, non essendo convenienza […] / Una notabile sorgente di piacere nella musica è pur l’espressione, la significazione, l’imitazione. Questo neppure spetta al bello, come ho detto in proposito della fisonomia umana. Or questo è di tanto rilievo, che una musica non significante non diletta se non gli intendenti, i quali si fanno mediante l’assuefazione, de’ particolari generi e fonti di piacere […]. […] gli animi non sensibili poco son dilettati dalla musica. Tanto è vero che il di lei singolare effetto non deriva dall’armonia in quanto armonia, ma da cagioni estranee alla essenza dell’armonia, e quindi alla teoria della convenienza, e del bello3.
Fra la serie costituita dall’«accordo», dall’«armonia», dal «bello», e quella rappresentata dal «suono», dalla «significazione», dalle «cagioni estranee […] alla teoria della convenienza», Leopardi istituisce una netta differenziazione, che separa, in via d’analisi, il bello dalla bellezza, la “teoria” della musica o dell’estetica femminile dal suono e dal canto, o dalla figura della donna. La bellezza musicale ed umana è da ascrivere al dominio del piacere, anzi del «puro piacere». E come tale essa può suscitare, provocare, vellicare secondo liberi e non preventivabili itinerari le sedi percettive del piacere stesso, del gusto, della sensazione; ma è proprio per questa ragione che al fruitore della sensazione s’apre un ingannevole pascolo di mitizzazione idealizzante di quella che non certo a caso è, già nel testo, solamente forma, figura d’una donna reale che è, nei fatti, il vero «mistero» («Vagheggia / il piagato mortal quindi la figlia / della sua mente, l’amorosa idea» – Aspasia, 37-39), come ben indica il tessuto semantico dei
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verbi dell’apparire («apparve», «Simile effetto / fan», «paion»), delle espressioni di contemplante desiderio («Vagheggia», «vagheggiare»), o dei verbi opinativi («confuso estima») (vv. 33-43). «Simile effetto / fan la bellezza e i musicali accordi»: si tratta di effetti speciali, che, se ben realizzati, risultano in tutto attendibili; ma sono sempre effetti speciali, un’oggettiva tecnica illusionistica che produce una serie di conseguenze per lo “spettatore” e non prevede, per il suo involontario autore (o autrice), nessuna punizione, come nessun premio per la creatività, per una verosimiglianza che è tanto maggiore quanto più abile e affascinante e seducente è quella finzione; è una finzione alla quale cooperano, in sé assumendola, l’occhio e l’orecchio umano (si ricordi la similitudine musicale), subendone pienamente l’influsso e in qualche modo legittimando il pascolo mentale, che di lì si forma, a base di «ambrosia e nettare» per raffigurate dee immuni da colpe se in realtà si trovano ad essere «fatte di carne e sangue»: «celeste beltà fingendo ammira», si dice del «garzone» nelle Ricordanze riguardo, in questo caso, alla vita futura (v. 76). Precisamente quella realtà carne e sangue, un binomio che sembra anticipare il materialismo che di lì a poco sottoporrà a critica la concezione idealistica degli hegeliani, non è potenzialmente indenne da rischi trasfiguranti, magari nella cifra d’un Eliso pagano incline a considerare e a sentire la bellezza umana e la bellezza melodica (non armonica) come indipendente e diversa dal «bello», e anzi formata e costituita dal puro piacere. È un concetto sensistico; la bellezza, insomma, attiva sulla base sensistico-edonistica un campo di non misurabili forze idealizzanti, attiva Platone (e lo stilnovismo, e una certa eredità petrarchesca) sull ’oggetto, sulla materia, sul corpus aristotelico dell’esperienza. Questo congegno di potenziale inganno agisce in modi diversi a seconda dell’età umana e della vicenda culturale del singolo intellettuale: «ingannato non già, ma dal piacere / di quella dolce somiglianza un lungo / servaggio ed aspro a tollerar condotto» (Aspasia, 86-88); eppure, quel «piacere», quella «somiglianza», proprio qui dimostrano il loro potere, in quanto conducono con sé, se non anche ingannano, perfino un intellettuale-filosofo di precoce disincanto, di precoce approdo alle virili e asciutte rive del materialismo pessimistico; a fortiori, l’ordigno estetico (e sia pure, non solo estetico) della natura ha a suo tempo potuto ghermire nelle proprie reti letterario-filosofiche un giovane dottissimo che, tramite la sua straordinaria grecistica (filologica, linguistica, criticotestuale, ermeneutica, letteraria), appariva possedere della stessa natura, concepita come riferimento consustanziale agli antichi, l’interno linguaggio, dalla percezione di panoramica culturale, del fenomeno di macrostruttura, fino alla minuziosa acribia chiosante del glottologo; semmai, in quella fase della storia del suo pensiero, la ratio studiorum di Leopardi non era ancora compiutamente “filosofica” (Rousseau, per parte sua, dava mano all’idoleggiamento della stessa natura rispetto ai frutti delle artificiali acquisizioni, alla civilizzazione, alla degenerazione che accompagna l’allontanamento dalla primigenia positività). All’epoca di Aspasia, invece, i «due concetti di natura», come dice Timpanaro, sono ormai da tempo maturati in Leopardi, sono una realtà. Oggetto d’un famoso dissenso con le posizioni di Sergio Solmi, ora consegnato ad un carteggio che rivela non esigui motivi di differenziazione tra il marxiano e leopardiano Timpanaro e uno studioso e letterato non certo alieno da sollecitaI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
zioni nietzscheane, i due concetti di natura sono, per il materialista, l’uno successivo all’altro, e il secondo sostitutivo ed esclusivo del primo, mentre per Solmi essi sono due concetti di diversa origine ma fra loro conviventi, nella stessa allusione ad antitetiche realtà, per tutta la parabola del pensiero e della produzione artistica di Leopardi. Della posizione critica di Timpanaro può essere fornito esempio (per citare un riferimento universalmente noto) nella foscoliana lettera da Ventimiglia dell’Ortis: la bellezza delle immagini iniziali è non solo contraddetta, ma ideologicamente fagocitata dal disvelamento della doppia faccia (non della doppia connotazione essenziale) della natura, e la seconda faccia, quella che non produce inganno perché negativa e distruttrice, prevale e unifica l’apparenza di duplicità in una sola immagine (e allusione) di pericolo, di ostilità, di morte. In Leopardi tale concezione pessimistico-materialistica assumerà, seguendo percorsi assai diversi da quelli foscoliani, caratteristiche di peculiare approfondimento e radicalità. Ed è questo, a nostro avviso, il “centro” (non l’inizio, beninteso) della concezione leopardiana di Timpanaro. Nel «secondo concetto di natura» è infatti possibile cogliere la virata decisiva nella stessa grecistica di Leopardi: si tratta del periodo 1823-1829, anticipato dalle osservazioni zibaldoniane del 1820 sulla “scoperta” di Teofrasto come filosofo “pessimista” dell’antichità, dapprima in tal senso ritenuto quasi unico, in séguito accompagnato nel 1823 dalla lettura romana del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce vers le milieu du quatrième siècle avant Jésus-Christ (1788) di Jean-Jacques Barthélemy, che gli squaderna molte espressioni, in chiave gnomico-sentenziosa, del pessimismo greco (Teognide, Pindaro, Sofocle, Euripide), dalla lettura di alcuni opuscoli plutarchei fra i quali l’apocrifa Consolatio ad Apollonium (fruita nella traduzione italiana di Marcello Adriani), dalla lettura dell’Ἀνϑολόγιον o Florilegium di Stobeo, dalla riflessione su importanti figure bibliche e dal relativo interesse per il pessimismo di Salomone, e, altresì, di Giobbe nell’Ecclesiaste4; è proprio il periodo che costituisce uno dei motivi che distaccano l’interpretazione di Timpanaro da quella del Luporini di Leopardi progressivo, nella quale, in effetti (e come più avanti si vedrà), non appare ben valorizzata quella fase di sostanziale disimpegno politico che presuppone un lucido e inversamente proporzionale impegno ideologico in direzione del cosiddetto pessimismo cosmico e del materialismo. Ma valga una doppia citazione dalla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte; parlando di Teofrasto, in pratica unico protagonista della «comparazione», Leopardi dice: E questa scienza universale non fu subordinata da lui, come da Platone, alla immaginativa, ma solamente alla ragione e all’esperienza, secondo l’uso di Aristotele; e indirizzata, non allo studio e alla ricerca del bello, ma del suo maggior contrario, ch’è propriamente il vero. Atteso queste particolarità, non è maraviglia che Teofrasto arrivasse a conoscere la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienza medesima (p. 408 Ghidetti, corsivi nostri). Oltre di ciò, non che i filosofi antichi lo celebrassero per averlo veduto più di loro, anzi per questo rispetto medesimo lo vituperarono e lo maltrattarono, e particolarmente quelli, tanto meno sottili quanto più superbi, i quali si compiacevano d’affermare e di sostenere che il sapiente è felice per se; volendo che la virtù e la sapienza basti alla bea-
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titudine; quando sentivano pur troppo bene in se medesimi che non basta, se però avevano effettivamente o l’una o l’altra di quelle condizioni (p. 409 Ghidetti).
Non realmente attendibile, in questo senso, un riferimento a La Bruyere, ai suoi Caractères: il “salmo” di quest’ultimo finì in gloria; il problema finale e determinante divenne quello della religione e della fede (anche se non lo era stato nella fase del primo concepimento e della prima stesura dell’opera). Timpanaro, con lucido coraggio, in Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi (raccolto nel volume Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano), unisce alle motivazioni propriamente filosofico-culturali della genesi del pessimismo cosmico e del secondo concetto di natura le ragioni dell’infelicità individuale e della stessa, disgraziata figura fisica leopardiana; un problema, quest’ultimo, che non può essere eluso in chiave intellettualistica né tanto meno spiritualistica; non può essere eluso mediante un generico riassorbimento in una problematica che sia soltanto storica o ideologico-politica, né può essere a piè pari saltato glissando come non esistesse: ben al contrario delle considerazioni e delle concezioni del cattolico Tommaseo, del positivista Sergi e più ancora dell’idealista Croce, Timpanaro sottolinea il carattere di «formidabile strumento conoscitivo» (p. 127), rilanciato a trecentosessanta gradi in una visione d’infelicità universale, costituito da una patologia e da una deformità fisica individuali che non sono, o non divengono, fonte di singolo sfogo lirico-intimistico o motivo d’afflizione biografico-privata. Il periodo elaborativo delle Operette morali (peraltro concepite sul piano del primo progettuale disegno fin dal 1821) attinge specificamente a questo laboratorio di riflessione e di progressive scoperte di pensiero, anche dove la linea delle acquisizioni leopardiane risulti a causa della composizione della paterna biblioteca incompleta e bibliograficamente “non professionale”; si veda, per restare nel nostro argomento, la mancanza dei tragici greci (ad eccezione d’un’edizione cinquecentesca di Aiace, di Antigone e di Elettra di Sofocle) e la mancanza d’una sufficiente documentazione sulla vera collocazione filosofica di Teofrasto, aristotelicamente empirista e «lieto» delle proprie scoperte: ma sarà esattamente l’aristotelismo, pur con il suo dualismo, a ben vedere ancor più grave di quello dell’idealismo platonico (perché «più sottilmente mascherato») «tra “principi” ed esperienza, tra logica e conoscenza empirica»5, a costituire pur sempre una «filosofia scientifica» (Classicismo e illuminismo, p. 170) da contrapporre a quella «artistica» del mai condiviso Platone (e così sarà del neoplatonismo, al di là dell’interesse oggettivo in tal senso più volte mostrato da Leopardi, e al di là dell’utilizzo dei relativi personaggi-filosofi; neppure la dialettica, come del resto le grandi visioni cosmologiche di Platone, sarà elemento realmente decisivo per le Operette). E importanti, come più oltre si vedrà, saranno i conti con l’aristotelismo di due diverse, ma non del tutto contrapposte Weltanschauungen materialistiche, come quella di Epicuro e quella di Marx. Dalla crescente convinzione materialistica di Leopardi, dalle letture che egli può effettuare dalle Vite di Diogene Laerzio, dalle sollecitazioni (pur realizzantisi in modo parziale) che gli provengono dai filosofi del relativismo (Diogene cinico, l’edonista-protagoreo Aristippo di Cirene – ma senza ἐγκράτεια, senza il dominio spiritualmente autonomo I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
delle passioni, residuo d’un Socrate da lui capovolto –, Sesto Empirico), dalla fruizione di alcuni grandi settecentisti francesi (Voltaire, Montesquieu – pur avendo da quest’ultimo mutuato qualche concetto antiepicuraico –, Fréret, d’Holbach) si forma come esito gradualmente conquistato ma coerente la seconda concezione della natura, con l’immagine di quest’ultima rovesciata rispetto al precedente «sistema» leopardiano: da termine filosoficamente positivo, che quasi non tollera biologica defezione senza danno da civilizzata barbarie del fuggiasco, ad apparato ostile e infelicitante, verso il singolo (vedi l’Ultimo canto di Saffo, ma anche, e sono esempi, la prima parte de La sera del dì di festa) e verso l’umanità e tutte le creature, create a smentita della creazione stessa, a tormento, consunzione e morte della propria materiale filiazione6. È il momento di ricordare, per chiarezza, almeno le opere in volume espressamente dedicate da Timpanaro, talvolta in chiave di singolo capitolo, a Leopardi: La filologia di Giacomo Leopardi; Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano; GIACOMO LEOPARDI, Scritti filologici (1817-1832); Aspetti e figure della cultura ottocentesca; Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; Nuovi studi sul nostro Ottocento (si aggiungano i rinvii leopardiani contenuti in Sul materialismo); si aggiunga la postuma raccolta, a cura di Luigi Cortesi, Il Verde e il Rosso, Scritti militanti, 1966-2000 7. Il saggio che meglio definisce quanto andiamo scrivendo è Natura, dèi e fato nel Leopardi (Classicismo e illuminismo, pp. 227-249): contro l’interpretazione di Sergio Solmi, vi si sottolinea l’inconsistente sopravvivenza delle allusioni alla natura, l’esigua persistenza della concezione positiva quando è ormai in tal senso maturato il secondo, irrevocabile concetto leopardiano. Il tema delle illusioni rivela che la stessa natura, se appare positiva, lo fa solo per inganno, e la colpa della caduta delle illusioni non è più dell’«uomo che ha distrutto la saggia opera della natura», ma della natura stessa, che delude dopo aver illuso: «Silvia e il poeta stesso rappresentano emblematicamente queste due possibili sorti dell’uomo» (p. 246). E nel Tramonto della luna «mille vaghi aspetti / e ingannevoli obbietti» (vv. 4-5) ben definiscono gli effetti speciali d’un grande meccanismo ingannevole, eppure efficacissimo (e illusionisticamente spettacolare) nel veicolarsi davanti agli occhi ed al pensiero degli uomini. In tal modo, anche la “scoperta” del pessimismo greco nel 1823 conferma, sì, la superiorità degli antichi, ma non più nel senso d’una vitalità di magnanime e gagliarde illusioni, bensì come loro priorità nella definizione d’una saggezza pessimistica; nell’avere, insomma, avvalorato un concetto che si è poi trasmesso, e più ancora avrebbe dovuto trasmettersi, alla cultura delle epoche successive (si ricordino in special modo il Tristano e l’inizio dei Nuovi credenti). Il male è nell’ordine, dunque; contro Rousseau, e contro, più in generale, coloro che incolpano dei mali gli uomini per le loro «anomalie», per i disordini apportati nel “buon” sistema della natura, il male è, appunto, già insito nello spietato ordigno naturale e nel suo materiale sistema, ed è anzi il peggiore dei mali perché è quello più irrimediabile: «sono le forze dell’ordine quelle che provocano il disordine», come scriverà Timpanaro nel contributo Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, ora raccolto nei citati Nuovi studi sul nostro Ottocento, p. 86; e se in quest’ultima citazione la sententia è applicata
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all’interpretazione della storia, non pare impossibile, in questo caso, una sua estensione ai meccanismi della natura. Appare realmente sottoscrivibile la conclusione critica di Timpanaro, ovvero l’individuazione di due concetti di natura derivanti da due fonti diverse del classicismo, da due filoni distinti d’origine illuministica: Rousseau e il Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbonne. Ed è significativo che il secondo concetto di natura segni, in certo senso, il “ritorno” del poeta e dell’intellettuale Leopardi da Rousseau a Voltaire, dall’illuminismo pervaso da un’apertura alla sensibilità protoromantica all’illuminismo razionalistico, ed anzi orientato su una considerazione pessimistica della natura e del reale. Se un rimedio vi è (e già arduo è ammetterne l’esistenza), esso non può consistere nella restaurazione degli «ameni inganni» contro la ragione, ma, piuttosto (e l’ultima testualità leopardiana lo suffraga e lo sostiene), in un «ultrailluminismo, che riconduca la società allo scopo per cui fu inizialmente costituita: l’unione di tutti gli uomini contro la natura» (Classicismo e illuminismo, p. 249). Senza cedere ad alcuna suggestione, si potrebbe asserire che nel monito presente nella Ginestra si può leggere un amaro, antiteleologico, ma convinto “infelici di tutto il mondo, unitevi”. Questa formulazione può, a nostro avviso, meglio di altre chiarire la differenza, sulla quale ritorneremo, tra marxismo e leopardismo in Timpanaro (binomio, non certo dualismo, sul quale si è fin troppo insistito): i «proletari» sono infelici (e quanto), ma l’infelicità naturale, biologica, oserei dire “scientifica” di ciò che è umano organismo è un dato costante (pur spesso studiabile nel proprio aggravamento attraverso le epoche storiche), un dato che accompagna l’uomo anche indipendentemente dalla struttura socio-economica che lo vessa e che lo tormenta, ed è un elemento costituzionalmente doloroso che lo accompagna e che lo accompagnerebbe persino «in una perfetta società comunista». I due avversari del vero sono dunque rappresentati, nella linea di svolgimento della cultura leopardiana, dalla bellezza (non dal «bello») e dal falso; non, dunque, un solo oppositore, bensì un antagonista immediato (il falso avvertito palesemente come tale) e un antagonista indiretto e non individuabile né confutabile a prima vista in quanto è proprio la vista, il primo dei sensi umani, ad essere soggetto d’autoinganno, d’autoillusione, d’autofrode, grazie all’induzione operata dalla bellezza estetica (ove per bellezza estetica si può intendere anche il sorgivo eroismo greco del personaggio, del guerriero omerico, il lineare urlo d’Achille tornato a battaglia a vendicare Patroclo); al termine costituito dalla bellezza si è già accennato; e l’altro termine può essere inteso come quel falso “volgare”, in certo modo frontalmente smentibile e sconfessabile, rappresentato dallo spiritualismo, dalla fede nel provvidenzialismo, nella metafisica, da ciò che, insomma, alla lucida coscienza ormai in pieno maturata di Leopardi si svela come “direttamente” falso: proprio le tendenze filosofiche contemporanee, quali lo spiritualismo superficiale e a buon mercato misticheggiante e di risibile struttura filosofica dei nuovi credenti napoletani, e prima ancora il moderatismo toscano che afferisce alla «Nuova Antologia», nella sua illusa, pur se generosa opzione risorgimentale compromissoria, di patteggiamento pseudorealistico e di bempensante ottimismo paternalistico-pedagogico, saranno oggetto di critica ironica, di demistificazione amaramente derisoria, fino al concettuale e raffinato dileggio. Belle I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
pagine leopardiane, nuova tipologia letterario-linguistica di versi, nuovo stile, tutto mirante alla demolizione sarcastica: lo spiritualismo lo viene a conoscere quando più a lungo, e da un certo momento per sempre, si trova lontano da Recanati, quando Leopardi può vivere di prima mano la non privilegiata esperienza delle piccole Italie cattolico-liberal-moderate, che hanno in lui, nello scorrere dell’epoca, il primo, precoce “storiografo” in chiave critico-negativa: il residuo non recanatese d’Italia, o del mondo, e sia pure con qualche significativa e parziale eccezione (Milano, Bologna, Pisa; si ricordi, per Bologna, il famoso saggio Leopardi e Bologna, in Appunti sui moderni di Dionisotti), non ha presso Giacomo maggior fortuna di Recanati. Se il falso è l’avversario esplicito, ed esplicitamente oggetto di contrapposizione polemica quali che siano i moduli formali adottati per contrastarlo e per combatterlo, la bellezza (dell’umana figura, della lusinga acustico-melodica, e, in forma non molto diversa, della natura, dell’evocazione lirica, dello stesso portato d’una tradizione poetica sostanziata dalla fruizione originale di varie letterature antiche e moderne) è invece un ostacolo ben altrimenti sottile e a suo modo infido, insidioso, inquietante, veicolo di significanza filosofica antifrastica rispetto alla sua percepibile emergenza epifanica, sia iconico-visiva sia sentimentale-memoriale. Proprio nel disvelamento degli “effetti speciali” operati da un infido e rovinoso regista d’inganni e non di creazioni (la dinamica naturale è in prevalenza anticreativa, quasi a smentita della radice φύσις – «è funesto a chi nasce il di natale»), da una natura apparentemente confortante, e che poi smascherata diverrà quella del dialogo con l’Ιslandese, quella del Canto notturno, quella del Tramonto della luna, quella della Ginestra, come anche nella precisa definizione della «seconda teoria del piacere» (nel Vincitore nel pallone, nel Colombo, nella Quiete dopo la tempesta), si può individuare, scrivevamo, il centro della leopardistica timpanariana. Oltre alla personale riflessione del poeta-filosofo, sono infatti i pensatori materialistico-edonisti greci (e non sempre i più grandi, non era necessario) e insieme alcuni illuministi francesi di dimostrabile lettura da parte di Leopardi ad avere aiutato in modo decisivo il capovolgimento d’un concetto fondamentale. Poco importa, crediamo, se tali filosofi – si parla dei greci – non coincidono se non di rado con quelli trattati ufficialmente dalla madre dello studioso, Maria Timpanaro Cardini, a sua volta grande studiosa che in nome della scienza greca (si era laureata a Napoli nel 1913 con Alessandro Olivieri) rifiutò di procedere oltre nel rapporto di sodalità d’arte con il celebre Tristan Tzara e con quel dadaismo che l’aveva con il nome di Maria d’Arezzo annoverata fra i suoi militanti creativi italiani; ciò che invece conta è che, come ben dimostra il volume del 2001 Tra antichità classica e impegno civile – eccezionale curatore e introduttore lo stesso figlio, che non ha poi potuto vederne la pubblicazione –, da Empedocle ad Alcmeone, dagli Eleatici e dai Pitagorici ad Aristotele, un’emblematica schiera della scienza greca è convocata per lunghe e sistematiche permanenze su una delle scrivanie di casa Timpanaro (fa parte di tale scienza coltivata a livello familiare, pur in base a differenti coordinate culturali, il padre, il fisico e storico della scienza Sebastiano Timpanaro senior); e si tratta proprio di quella scienza che, se si prescinde dalla peculiare connotazione degli Eleatici, e soprattutto dall’ambizione
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matematizzante e numerologica dei Pitagorici, sarà poi, in una serissima chiave sensistico-materialistica, il nucleo della rigorosa grecistica di Sebastiano junior (si ricordino le numerose citazioni mirate al recupero di Theodor Gomperz e dei suoi Pensatori greci, e soprattutto il contributo espressamente dedicatogli in «Critica storica», II – 1963 –, pp. 1-31, poi in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, pp. 387-443; nella grecistica troveranno particolare spazio, in stretto rapporto con gli studi leopardiani, i filosofi d’impronta pratica, morale). Il restauro del pensiero scientifico greco costituisce, in un Novecento italiano fin troppo marcato dalla prevalenza idealistico-crociana (e insieme, sul piano del canone letterario scolastico, da pervicaci retaggi liricizzanti d’origine carducciana), un elemento tutt’altro che scontato del quale meritoriamente Maria Timpanaro Cardini sosterrà sempre la penetrazione e la diffusione non solo universitaria, ma anche liceale (né si può certo dimenticare il Proclo del Commento al I libro degli «Elementi» di Euclide, del quale Maria Timpanaro Cardini cura introduzione, traduzione, commento e note)8. Si riprenda, ad esempio, la questione definitoria del nervo ottico in Alcmeone; lo storico dell’oftalmologia Julius Hirschberg, nei riguardi dello stesso scienziato greco, assume il punto di vista di Hugo Magnus: Per Alcmeone, la sensazione visiva, come ogni altra sensazione, è un fluido che scorre su e giù «come l’acqua in un tubo»; dunque nelle sue ricerche anatomiche su cadaveri di animali, se pure ne fece, egli sapeva già a priori quello che voleva e doveva trovare: un tubo, un meato vuoto. Ne è riprova il termine πόρος ch’egli adotta e mantiene per indicare la via di comunicazione tra l’occhio e il cervello. Mai avrebbe potuto accogliere l’idea che le sensazioni potessero arrivare al cervello mediante un condotto solido; sicché se anche egli vide effettivamente e riusci col coltello anatomico a isolare il nervo ottico, non poté esserne indotto ad altro che ad escludere che quella fosse la comunicazione cercata; la quale invece egli avrà creduto di riconoscere in uno qualsiasi dei vasi sanguigni esistenti nella cavità oculare.
È un passo della prosa di Maria Timpanaro Cardini studiosa; qui, come altrove, la grecista non si contenta affatto dell’opinione e delle conclusioni del Magnus e interroga Calcidio, in quel suo Commentario al Timeo di Platone, di cui riporta ampi passi in latino, tesi a mostrare come Alcmeone risulti allineato agli altri due scienziati della “triade”, Callistene ed Erofilo: «Fluere porro visum per oculum consentiunt tam physici quam etiam medici, qui, exsectis capitis membris, dum scrutantur naturae providam sollertiam, notaverunt ferri bivio tramite ignis liquorem» (Commentarius in Timaeum Platonis, Leipzig, Wrobel, 1876, § CCXLVII, p. 281). Alcmeone non ha dunque «preso per meati visivi due vasi sanguigni qualsiasi», altrimenti «Calcidio non avrebbe dovuto associarlo a Callistene e ad Erofilo, anzi, o tacerlo, o opporre questi a lui» (p. 65); Ma c’è un’altra e più importante considerazione da fare. Erofilo di Calcedonia, il celebre medico che con Ippocrate e Galeno divide la gloria della scienza medica antica, aveva nelle sue ricerche anatomiche scoperto e riconosciuto come strumenti della sensazione i sottili cordoni bianchi che dal cervello e del midollo spinale giungono
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fino alla superficie del corpo accompagnando i vasi sanguigni, e li aveva chiamati νεῦρα αἰσϑητικά, creando così la parola «nervi» nel senso tecnico che ancor oggi si usa. Ma il nervo ottico egli continuò a chiamarlo πόρος col termine adottato da Alcmeone, perché anch’egli lo considerò un meato attraverso il quale passava lo πνεῦμα αἰσϑητικόν; perché anche lui, non ostante la mirabile descrizione dell’apparato visivo tramandata da Calcidio, non superò la concezione antica della vista come fluido scorrente in un meato, e che ancora ai tempi di Calcidio era seguita […]. E allora ci chiediamo: se per gli Erofilei non si ammette incompatibilità tra la concezione di un πόρος per il passaggio del fluido visivo e l’identificazione del nervo ottico, perché per Alcmeone la prima dovrebbe essere un argomento per escludere la seconda? (ibidem).
Pasquali e Terzaghi, ma in séguito anche Augusto Campana, confermeranno, anche sul piano degli studî ufficiali, quella sicura e scientifica forma mentis d’una filologia classica di cui documentariamente il figlio della Cardini constata, già nell’ámbito domestico, non soltanto il valore di critica testuale in senso “stretto”, bensì il ruolo d’irradiazione gnoseologica plurima, in direzione di campi del sapere fra loro interconnessi: filologia, appunto, scienza, storia ideologica, filosofia9. Sulla base del materialismo, le letture leopardiane gli rivelano l’autore, il filologo, il filosofo più congeniale, ovvero, e soprattutto, il filosofo dell’antiteodicea, e, altresì, della priorità della natura e delle sue ragioni sull’uomo, della preminenza della struttura biologica sulla struttura psicologica, mentale, “spirituale” dell’umanità e dei suoi singoli individui; e il clima culturale del dopoguerra apre al generico socialismo antifascista la via della fondatezza, della documentazione testuale sui classici del pensiero rivoluzionario, da Marx ad Engels, da Lenin a Tročkij. Sarà un’ulteriore, decisiva acquisizione sul piano della coscienza materialistica, codificata questa volta sulla linea storica costituita dalle prospettive delle lotte del proletariato. E soprattutto materialistica sarà la lettura, da parte di Timpanaro, del marxismo e dell’engelsismo ottocentesco: dove la stessa dottrina marxista non appaia del tutto svincolata dall’antropocentrismo, e altresì non lo sia dalle impostazioni della dialettica hegeliana, sarà Timpanaro stesso a suscitare la discussione su ciò che manca, sotto il profilo materialistico, alla tradizione del pensiero marxista, a reclamare attenzione su un Engels trascurato per gran parte del Novecento, ad attingere (alla sua dotta maniera, con letture approfondite e con competenza che spazia dall’antichistica al mondo contemporaneo) al pensiero leopardiano e alla relativa visione del mondo, a ricordare la lungimiranza del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo riguardo alla nuova, antimaterialistica cultura che si sta affermando tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, una lungimiranza che costituisce una vera prospezione gnoseologica sul XX secolo. Non si perda di vista, nell’àmbito della grecistica e del materialismo, la chiave di pensiero epicurea, sul cui progressivo declino all’interno dell’evoluzione ideologica di Timpanaro si è forse troppo insistito; di contro a Cicerone ed al suo sensato scetticismo, al suo “buon senso” neoaccademico, lo studioso, il classicista materialista, avrebbe nutrito verso l’epicureismo una crescente diffidenza, dovuta soprattutto al carattere religioso che è ineliminabile da tale filosofia. Ma l’accesso epicuraico al
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mondo materialistico è e rimane in realtà uno dei fattori costitutivi dell’interpretazione timpanariana; Jean Fallot, studioso marxista legato da sodalità scientifica e amicale con Timpanaro, pone ad esempio il problema di quali elementi il materialismo post-aristotelico, nella declinazione filosofica epicuraica, aggiunga al materialismo anteriore. Il passaggio aristotelico si rivela in tale direzione comunque determinante, in quanto il πολιτικόν ζῷον dà a ciò che sarebbe potuto essere il materialismo epicureo tutto un altro senso, quello dell’amicizia, e i bisogni fisici proprio in quanto tali divengono non più l’espressione d’un àmbito umano individualmente definito, bensì i bisogni di un animale sociale; per Marx, a sua volta, Epicuro si definisce anzitutto come post-aristotelico, e l’uomo sarà animale politico purché a politico non si attribuisca il significato di politica generale, ma quello d’una socialità amicale, o almeno d’una cerchia di persone non ostili (dagli ostili l’epicureo cercherà di mantenersi a distanza). In modo ancor più radicale, contro il concetto di tempo, che rimanda sempre ad una religione, o al mito, o, nell’idealismo, alla secolarizzazione laica d’un vecchio ma sempre presente inganno spiritualistico, vigerà il concetto di materia; nessuna filosofia, infatti, come quella epicurea, caccia il concetto di tempo dagli orizzonti della riflessione speculativa, della riflessione di pensiero, e l’ipotesi di identità che così emerge, tramite la liberazione dalle pastoie dell’idea di tempo, vuol dire sensazione uguale a se stessa, è insomma il piacere puro. Come dirà Hegel, Epicuro, il perfetto uomo greco, incarna l’accordo del corpo con l’anima, non l’opposizione; in questo stesso senso, Fallot si sofferma, unendo il valore dell’ultima considerazione con quello delle precedenti riflessioni, sul lucreziano “Cadere dalla parte della propria ferita” (cfr. De rerum natura, IV, 1049: «namque omnes plerumque cadunt in vulnus»), cadere in genere verso l’alto perché ciò che ci ferisce, ciò che ci fa temere, si trova in alto. Noi dobbiamo invece, secondo una precisa indicazione etica, “non cadere” dalla parte della nostra ferita, non degenerare nella reazione adorante rispetto a ciò che ci fa soffrire, a ciò che ci ferisce, appunto, a ciò che ci addolora: «Non cadere dal lato della ferita, non trasformare in oggetto d’adorazione, di delizia amorosa, trascendente (amore di Dio, estasi dell’infinito) e nemmeno reagire». Qui ben s’intende per «reagire» non il concetto banalmente “positivo” di movimento ostile e contrario alla provocazione, ma piuttosto la “presa d’atto”, variamente concepibile come “religiosa”, d’un vettore di sofferenza per noi (e a noi esterno) che ci conduce, in certo modo allineandoci e assoggettandoci all’azione di tale vettore, ad ipostatizzare e a idolatrare la fonte stessa della nostra sofferenza, la causa che in alto risiede, l’origine dotata di superiorità metafisica, o almeno logica e cronologica, sulla nostra storicità. «Non reagire» significa dunque non incorrere nella trappola mitizzante riguardo alle scaturigini del dolore e, altresì, significa non dislocare il centro della propria sofferenza e del proprio pensiero nella dimensione fuorviante del tempo, ma, anzi, mantenere la misura della propria esistenza nella sensazione: «Se sono ferito e cado, cadrò dal lato della mia sofferenza, ma la filosofia può impedire la ferita o perlomeno la caduta, riducendo di grandezza la parte di realtà non riconducibile al pensiero, tutte le confusioni che derivano dal fare una cosa sola del tempo e della sostanza dei fenomeni, di noi stessi. Nella misura in cui ci identifichiamo non I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
col tempo ma con la sensazione, ci liberiamo dal tempo. Noi siamo vicini a noi stessi più con le nostre sensazioni che con le nostre azioni»; l’epicureismo può così definirsi una «grande filosofia dell’identificazione con se stessi», «la filosofia della sensazione illuminata dalla ragione»10. Ma si veda più da vicino il Fallot quale appare al Timpanaro di Materialismo e infelicità, nella presentazione di Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, ristampata in Il verde e il rosso (pp. 83-98); ne scaturirà, se non c’inganniamo, una serie di decisivi contributi ad una definizione dei precisi e imprescindibili punti di contatto (non solo delle decantate differenze) tra marxismo ed epicureismo e, più in generale, tra lo stesso marxismo ed una parte del materialismo antico: […] l’interesse per Epicuro “moralista” non deve far credere che Fallot condivida minimamente l’opinione, tuttora molto diffusa e forse prevalente, secondo la quale la grande stagione teorica del pensiero greco sarebbe terminata con Aristotele, e le filosofie post-aristoteliche denuncerebbero un affievolirsi di rigore filosofico e andrebbero valutate quasi esclusivamente come “psicoterapie” elargite all’indivividuo del mondo ellenistico, un individuo ormai isolato e spoliticizzato, suddito e non più operoso membro della polis. Nel respingere questa rappresentazione del pensiero ellenistico (che è solo parzialmente vera in ciò che afferma, ma falsa in ciò che nega), Fallot è d’accordo con quello che rimane il maggior motivo di validità della dissertazione giovanile di Marx. Gran parte del quarto capitolo (e precisamente le sezioni su Democrito ed Epicuro, sul piacere nella morale di Aristippo e in quella di Epicuro, sul rapporto tra Epicuro e Platone e Aristotele) è dedicata a mostrare come nell’epicureismo non vi sia uno stanco ritorno a Democrito e ai Cirenaici, ma un loro superamento, e come Epicuro non ignori Platone e Aristotele, ma faccia i conti con essi […]. Fallot mette bene in luce il carattere contraddittorio che, malgrado l’apparenza di solida sistematicità, presentava la filosofia aristotelica: un dualismo tra “principi” ed esperienza, tra logica e conoscenza empirica, più sottilmente mascherato dell’idealismo platonico, ma in realtà persino più grave (p. 101). Viene in mente ciò che osservava il troppo presto dimenticato Theodor Gomperz, il grande autore dei Pensatori greci, sul dissidio tra il “platonico” e l’“alcmeonide” nel pensiero e nella personalità di Aristotele. «Dopo Aristotele – dice Fallot – diviene evidente che l’idealismo era castrato, separato dalle sue fonti, e che soltanto una filosofia materialistica avrebbe potuto dare sostanza al discorso» (p. 101). Questa rifondazione del materialismo è precisamente ciò che compie Epicuro. «Era a partire dall’esperienza che si poteva trovare nuovamente una certezza non soltanto relativa a certe sfere dell’essere (come faceva Euclide). Epicuro colloca decisamente il criterio del vero nella sensazione, e identifica nuovamente verità e certezza sensibile (…). Tale è stato quest’uomo, il cui sistema ho visto con stupore che certi storici della filosofia si chiedono come sia potuto apparire in Grecia dopo quelli di Platone e di Aristotele, rispetto ai quali segnerebbe un incredibile regresso» (p. 105; ma tutto questo paragrafo è da leggersi con attenzione particolare). / Se, dunque, bisogna respingere ogni tentazione di “marxistizzare” Epicuro – e abbiamo già visto che in questa tentazione Fallot non cade mai –, si può anche, a questo punto, constatare senza forzature l’esistenza di due punti fondamentali che rendono, a dispetto di tutte le differenze, particolarmente interessante il pensiero epicureo per il marxista odierno. I due punti sono il mate-
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rialismo e l’edonismo. / Abbiamo visto come nel terzo capitolo di questo suo libro Fallot rivendichi con forza il valore del materialismo epicureo. / Nella sua opera più recente e tuttora inedita, Le matérialisme marxiste, Fallot, riprendendo osservazioni illuminanti sull’“animalità dell’uomo” e sulla priorità della natura sull’uomo che si trovavano in Marx e la questione delle macchine (pp. 212-214: uno dei paragrafi più vivi di quel libro) e in Sfruttamento, inquinamento, guerra (p. 179, con una misurata critica a Gramsci; p. 186), chiarisce bene come le notissime differenze tra materialismo antico (o materialismo moderno premarxista) e materialismo marxista non possano essere forzate fino al punto da cancellare i punti di contatto e da ricadere nell’idealismo (Materialismo e infelicità, cit., pp. 94-95).
La considerazione della componente biologico-animale dell’uomo, e insieme la focalizzazione della finalità pur sempre edonistica della morale marxiana, mirante in prospettiva alla felicità, si pongono quali fattori strutturanti e costitutivi, non accessori, del materialismo scientifico, che può in tal senso legittimamente rivendicare benemerenze nella convocazione in scena dell’uomo-natura, dell’uomo come «corpo organico»; e tale considerazione serve allo studioso anche in vista d’una corretta interpretazione e valorizzazione della teoria dei rapporti produttivi: Il materialismo marxista – è questo il suo “colpo da maestro” – si mette non dal punto di vista della produzione (che è ancora legata alla natura), ma da quello dei rapporti sociali che permettono agli uomini di produrre, e che sono rapporti di produzione. Tuttavia ciò non vuol dire che il materialismo marxista non parta più dalla natura, o estrapoli la società dalla natura. / Quando Marx scriveva nei Grundrisse che l’uomo non è solamente un “corpo organico”, definiva il rapporto tra l’uomo e un elemento diverso dal suo corpo organico, un elemento esterno al singolo individuo. Ma quella piccola frase presuppone (come del resto lo presuppone tutto il marxismo) che, se l’uomo non è solamente un corpo organico, ciò significa che è in primo luogo – come ogni altro essere vivente in quanto tale – un corpo organico. Disconoscere ciò non significa soltanto conoscere male l’uomo in ciò che ha di essenziale, ma non affrontare l’aspetto essenziale del marxismo, la nozione stessa di rapporti sociali di produzione e quelle, addirittura, di “rapporto” e di “produzione”, le quali definiscono ciò che l’uomo non è solamente. Altrimenti si darebbe una concezione idealisteggiante dei rapporti sociali di produzione, che equivarrebbe, correlativamente, a un’idealizzazione dell’uomo […]. E poco dopo: / Così la base materiale è sempre presente e non solo sottintesa: è il motore della soggettività delle masse, della trasformazione delle masse sfruttate in soggetto rivoluzionario. / Anche l’edonismo epicureo […] è ben diverso dall’etica, pur tutta terrestre e laica e antiascetica, del marxismo. L’ultimo capoverso del presente libro lo dice con tutta chiarezza. Ma c’è stato e c’è un modo di concepire il marxismo come una specie di etica del sacrificio e dell’eroismo, che, per quanto spiegabile con la durezza delle lotte affrontate e da affrontare, diviene la negazione stessa del marxismo se si concepisce il sacrificio non come provvisorio e strumentale, ma come permanente e costitutivo della morale marxista. Lo scopo della morale marxista (uno scopo che non può essere raggiunto se non attraverso gravissimi sacrifici e dolori) rimane pur sempre la Felicità: in questo il marxismo si ricongiunge con Epicuro e col pensiero “epicureo” del Settecento. / Fallot, anche nelle sue
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opere più propriamente marxiste, non cessa d’insistere, come abbiamo visto, sul motivo dell’“animalità” dell’uomo come fondamento, insieme, del materialismo e dell’edonismo marxista: fondamento insufficiente da solo, ma pur necessario e ineliminabile. Anche l’esigenza […] di una teoria marxista dei bisogni […] rimane sospesa nel vuoto se perde quell’ancoraggio materialistico-edonistico. Peggio ancora se si ignora del tutto l’esigenza stessa […]. Al termine di uno dei più interessanti paragrafi di Sfruttamento, inquinamento, guerra (p. 65), Fallot ribadisce: «Perdere il senso dei bisogni, essenzialmente fisici e biologici, degli esseri viventi presenti e futuri, è perdere la ragion d’essere del marxismo come scienza critica e rivoluzionaria». E aggiunge in nota: «Ragione per la quale un “marxismo” astratto e con pretese matematizzanti come quello di Althusser non ha più nulla a che vedere col pensiero di Marx». Il giudizio potrà apparire a qualcuno (non a me) troppo duro relativamente all’insieme dell ’opera di Althusser; ma è certamente giusto per ciò che riguarda il problema dei bisogni e del concetto di individualità umana del marxismo (ivi, pp. 95-97, con tagli).
Si perdoni la lunga citazione; ma i brani riportati attestano una notevole, e per nostro conto sempre determinante, possibilità di percorso dal materialismo antico al materialismo ottocentesco (il materialismo novecentesco non è un capitolo culturale immenso; neppure, e forse men che mai, in àmbiti dichiaratamente marxisti, secondo una costante deplorazione critica di Timpanaro). È anche in questi itinerari che si ritrovano l’amalgama, la simbiosi (non una paratattica, periclitante sommatoria!) del grecista e dell’ideologo marxista, del filologo antichista e del filologo materialista; e a nostro avviso, e pur con tutte le differenze del caso (talora sono differenze, soprattutto contestuali, macroscopiche), si tratta d’un percorso di richiamo a Leopardi che nella sua appropriata e peculiare definizione qualitativa, nella sua intrinseca indole essenziale, nella sua scansione di similari acquisizioni e di omologhe conquiste identificative e di formazione lettoriale (gli illuministi, i francesi del Settecento innanzi tutto, il Boulevard des Lumières materialistico, le vie d’un’Aufklärung in buona sostanza non voltairiana, anche se non antivoltairiana), pone sul nostro tavolo una vera reciprocatio autore-studioso, quasi un profilo, ma di luce e di ragione, non di ombra, che s’allunga nell’alter ego di settecentesco lignaggio ideologico. Non Leopardi quale “l’autore di Timpanaro”, bensì Timpanaro come “lo studioso di Leopardi”, il più vicino, il più identificato con la temperie culturale, ma anche operativamente tecnica e filologica, espressa da una punta avanzatissima del classicismo illuministico italiano. E, se è vero che il marxista-leopardista d’una fin troppo famosa e parzialmente autoironica definizione cerca in Leopardi l’elemento che appare meno dichiarato nel marxismo, la considerazione dell’individualità e della sofferenza biologico-animale dell’uomo, e quindi l’umana ricerca della felicità, dalle pagine fallotiane di Timpanaro s’evince un Marx tutt’altro che alieno dal pensiero riguardante l’uomo-natura, un uomo che è innanzi tutto natura, natura e materia: il Marx del Timpanaro “presentatore” di Fallot (ma anche il Marx di molti altri passi di Timpanaro) è un Marx materialista e risolutamente antihegeliano, e il celebre “trattino” che congiunge il marxista e il leopardista, qui, realmente si qualifica come trattino di unione. Si pensi che i saggi sul materialismo che poi comporranno l’eponimo volume (Considerazioni sul mate
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rialismo esce nel settembre 1966 nei «Quaderni piacentini», 28, pp. 76-97; Prassi e materialismo esce nell’ottobre 1967, «ivi», 32, pp. 115-126; Engels, materialismo, «libero arbitrio» nel novembre 1969, «ivi», 39, pp. 86-122) sono stati già scritti e tre volte pubblicati all’epoca (1977) della presentazione del libro di Fallot (Sul materialismo ha le sue prime due edizioni nel 1970 e nel 1975). Timpanaro, che già ha all’attivo le sue più rigorose pagine engelsiane, non esita per questo a riconoscere a Marx una fondamentale condivisione dello stesso interesse per la natura, benché meno sviluppato di quanto in séguito avverrà da parte dello stesso Engels, sopravvissuto all’amico e, per parte sua, alle prese con il contesto gnoseologico della cultura della sua epoca, ma anche in parte fruitore degli stimoli provenienti da tale quadro culturale. È la grande linea del materialismo filosofico, verificato in questo caso nell’accezione epicurea ellenica (ma significativamente Timpanaro più volte allude all’epicureismo settecentesco), a permettere di “recuperare” Marx alla sua connotazione più appropriata e più congrua, più qualificata e più peculiare: quella derivante dalla tradizione materialistica settecentesca, in sé aperta al riconoscimento storicamente critico delle ascendenze classiche greche e disposta all’opera elaborativa che tramite i grandi studi tecnici sulla struttura dell’economia capitalistica conduce alla formulazione del materialismo storico: in fondo, lo stesso Engels ha pur dovuto e potuto, e in qual misura, poggiare e basarsi sul solido “zoccolo” del materialismo storico per innestare l’itinerario di riflessione sul rapporto e sulla possibile saldatura fra il suddetto materialismo, in gran parte marxiano di concezione come tutti sanno, e le scienze della natura nella loro accezione terrestre-planetaria e più in generale cosmica. Già Leopardi ha accreditato una linea di riscoperta del materialismo antico senza per questo venir meno alla sua fondamentale base ispirativa costituita dal materialismo moderno, francese, settecentesco: non si tratterà del materialismo epicuraico, anche perché, forse, qualche tratto della filosofia del «giardino», come ad esempio l’importanza dell’asserzione materialistica di Epicuro in quelle coordinate storiche e culturali, in rapporto al provvidenzialismo degli stoici, in parte e in certa misura sfugge e non può non sfuggire allo stesso Giacomo; ma la figura, e come fondata, del filologo materialista, del grecista e del lettore dei filosofi della natura del Settecento, dell’autore degli adversaria critico-testuali e del filosofo fruitore della recente speculazione empirio-meccanicistica in epoca romantica, si delinea con discreti ma non sfumati contorni; ed è una figura che, nel segno d’una sostanziale consonanza ideologica, sagoma un profilo intellettuale che si addice a Leopardi come si addice al suo profondo studioso, al suo rigoroso, austero e limpido interprete. Leopardi quale motore dell’Ottocento timpanariano, è stato detto da Madrignani, e non solo dell’Ottocento; in effetti, lo studioso trova sì in Giacomo il grecista, già precocemente disposto a confutare gli Errori popolari degli antichi con quel misto d’orgoglio illuministico e di formazione cristiana d’origine familiare che caratterizza i suoi inizi letterarî; ma vi trova anche, e specificamente, il filologo di profonda competenza e di straordinaria acribia, tanto più segnalato in quanto figura assai rara nel panorama del primo Ottocento italiano, e tale che solo studiosi come Pietro Giordani, Amedeo Peyron, Bartolomeo Borghesi, Barthold Georg Niebuhr, ciascuno con la propria persoI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
nalità e ognuno nel proprio contesto umano e culturale, possono risultare come suoi validi contemporanei11. Né, con questo, s’intende rimarcare soltanto in chiave individualistica la genialità leopardiana; anzi, più d’ogni altro, Timpanaro ha sollecitato, già in buona parte promuovendola egli stesso, la ricostruzione intorno a Leopardi di tutto un ambiente culturale costituito da classicisti romagnoli e marchigiani e, nella stessa misura, da altri classicisti appartenenti a varie sedi italiane: valga riportare un segmento testuale di Timpanaro da Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Classicismo e illuminismo, pp. 115-116: Il Leopardi dialogò idealmente, sì, con questi grandi autori [«Hobbes, Rousseau, Voltaire, i grandi romantici…»], ma visse a contatto diretto (personale o epistolare) con ambienti italiani, che furono dapprima lo Stato pontificio (Recanati, cioè Monaldo col suo enciclopedismo illuministico-reazionario e le sue pose da ultra; il classicismo marchigiano-romagnolo, cioè Francesco Cassi e Giulio Perticari; Roma, cioè il poligrafo arruffone Francesco Cancellieri e lo zio Carlo Antici, reazionario ma non così grettamente municipalista come Monaldo: reazionario che sapeva il tedesco e voleva fare del nipote un campione della Restaurazione al livello europeo); poi Milano (cioè le scoperte del Mai che dettero impulso alla filologia leopardiana, e la battaglia tra classicisti e romantici, e l’amicizia col maggiore rappresentante del classicismo illuminista, Pietro Giordani, mentre il classicista reazionario Giuseppe Acerbi aveva súbito osteggiato il Leopardi); poi ancora, nel ’22-23, l’«antiquaria» romana, veduta questa volta da vicino nella sua meschinità; poi l’ambiente bolognese, di tranquille amicizie letterarie, che contribuirono a creare nello spirito del Leopardi un periodo di relativa distensione e adattamento alla realtà della vita; fino alle ultime esperienze, aspramente polemiche, del cattolicesimo liberale fiorentino e napoletano.
Anche così, ovvero in questo quadro precisamente italiano, legato e vicino alle varie realtà nelle quali Leopardi trascorse la propria “vita culturale” e che pure egli contestò e criticò in termini spesso memorabili, anche così si giustifica quella che talvolta è apparsa una dedizione non si dirà eccessiva, ma forse sotto qualche aspetto ipervalorizzante riguardo alla figura intellettuale di Pietro Giordani; per limitarci ai contributi apparsi in volume, elenchiamo i saggi che Timpanaro ha in modo espresso riservato allo scrittore piacentino: Le idee di Pietro Giordani12; Giordani, Carducci e Chiarini13 (i due saggi dànno inizio a Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano); Il Giordani e la questione della lingua, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca14; Ancora su Pietro Giordani, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana15; molti rinvii giordaniani sono a loro volta presenti sia nei volumi indicati, sia in La genesi del metodo del Lachmann16 e in La filologia di Giacomo Leopardi17; e, in Nuovi studi sul nostro Ottocento, vi sono Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani; Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli; Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846; Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente Bini)18. Giordani è stato di sicuro oggetto d’insufficiente considerazione, soprattutto in un canone letterario che ha visto prevalere le concezioni di De Sanctis e che ha relegato le figure dei classicisti e il loro ruolo in un àmbito marginale, e anzi, spesso, fastidiosamente laborioso nel dovere di lettura che
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impone agli studiosi. Ai classicisti, com’è noto (ma spesso si tratta di falso concetto), secondo tale linea pertiene la taccia di retrività letteraria e linguistica, se non anche ideologica. Giordani, in particolare, ha sofferto d’una svantaggiata contiguità amicale con Leopardi, di cui il Piacentino figura essere, anche grazie a qualche giudizio e a qualche non proprio felice “consiglio” o previsione artistica, l’amico d’inferiore caratura sul piano dell’intuito creativo e dell’acutezza ideologica capace di divinare gli sviluppi futuri. In realtà, ricorda Timpanaro, in Giordani Leopardi trova un intellettuale d’avanzate idee (anche sul piano linguistico) con il quale confrontarsi in scambio dialogico competente, epistolare e di persona, così scansando alcuni rischi impliciti in ogni esperienza autodidattica. E in effetti l’importanza e il valore di Giordani vanno difesi da operazioni riduttive ingiuste, che realmente potrebbero mettere in ombra la figura del grecista (fra i pochi, allora, in Italia) ammiratore della prosa erodotea come di quella dei primi trecentisti italiani, e in piena coerenza con queste opzioni linguistiche sostanziale avversario delle conseguenze della prosa di più esplicita marca formalistico-retorica (Isocrate, e in àmbito latino Cicerone e proprio quel Frontone amato dal primo Leopardi), così come potrebbero mettere in ombra il linguista che del purismo assume proprio gli elementi che ne preparano il superamento, ovvero la scelta della prosa cronachistica e di quella dei novellieri anziché la scelta delle valenze religiose del “canone”-Cesari, insomma del “canone” trecentistico di Passavanti e di Cavalca; né possono essere taciute le coraggiose aperture a un Seicento non gravato da stereotipe ipoteche baroccheggianti, ma concepito come secolo degli scrittori scientifici, in una linea che manifestamente s’estende alle citate letterature antiche: alla prosa lucida e piana, o tale avvertita, di Erodoto, fanno riscontro la ricerca e la proposta, anche didattica, del latino semplice, o, su un altro piano, della prosa tecnica, di Varrone, di Celso, di Gellio e delle Pandette, e, nel quadro degli storici, di Cesare e della sua scandita logicità testuale. L’innovatività linguistica di Giordani è visibile anche nella posizione riguardo ai dialetti, di cui egli sempre raccomanda lo studio, pur essendo contrario a una soluzione dialettale del problema linguistico italiano, e altrettanto visibile nelle concezioni pedagogiche, contrarie alla composizione in latino e alla traduzione dall’italiano in latino, fulcro dell’insegnamento retorico di molte scuole, soprattutto religiose. Più contraddittoria, e non per questo meno definita, è la posizione ideologica, aperta ad una sorta di egualitarismo democratico in certi suoi esiti ottocenteschi, ma generalmente attestata sulle iniziali coordinate, sul contestuale DNA politico del dispotismo illuminato settecentesco e del rigoroso laicismo scopertamente anticlericale, in linea con le idee culturali improntate al classicismo illuministico. Parma, città degli studi giovanili e quindi formativi di Giordani, conserva ancora, negli anni 1788-1795, l’eco della lezione di Condillac; e le lettere filosofiche all’ex professore Domenico Santi «mostrano un Giordani già sensista convinto, seguace di Charles Bonnet nel campo fisiopsicologico e gnoseologico, dello Stellini nell’etica sociale; mostrano anche che l’edonismo su cui egli basava la teoria delle passioni si colorava di tinte pessimistiche, che fanno pensare a Maupertuis e a Pietro Verri» (Le idee di Pietro Giordani, cit., p. 76). Ma, per seguire l’evoluzione del pensiero leopardiano-ottocentesco di Timpanaro, lo strumento più idoneo che si I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
possa offrire allo studioso è forse costituito dai Nuovi studi sul nostro Ottocento. In un libro di riposizionamenti e di precisazioni, di rettifiche e di provvisori autobilanci sul già detto, il lettore potrà seguire o rivedere nei suoi esiti più recenti la definizione critica del Peccato impossibile, del suo estremizzato spirito laico (che fa evolvere il giudizio di Timpanaro sull’anticlericalismo giordaniano in direzione d’un vero e proprio ateismo, sotto certi aspetti non inferiore come professione ideologica a quello di Leopardi) visto anche in relazione alle Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, e potrà altresì seguire la vicenda e i contenuti delle lettere al Papadopoli e gli incoraggiamenti alla pubblicazione di testi italiani dal Cinquecento all’Ottocento (ovvero, per Giordani, fino alla contemporaneità) rivolti a quell’apprezzabile figura di patriota greco-veneziano e filoitaliano; potrà constatare l’interesse che da Parma l’intellettuale piacentino mostra, in un periodo non facile della sua vita, per i moti del 1846 nella sua città, moti con i quali, a sua volta, Pietro Gioia solidarizza in nome d’un rinnovamento in chiave socialista, antiliberistica e antiborghese, della propria ideologia (notevole anche lo scorcio sulla polemica riguardante gli asili d’infanzia, contesi fra l’educazione laica e il desiderio di riconquista da parte gesuitica; degli asili d’impronta laica si occupa anche, a Pisa, la madre di Timpanaro, in un’illuminata opera di difesa dei diritti dei bambini poveri e della libertà di formazione culturale); e potrà, ancora, seguire Giordani e Carlo Bini (anch’egli fatto oggetto d’un ulteriore approfondimento dopo i “chiarimenti” contenuti in Antileopardiani) nella loro breve, non al tutto convinta (e nel Giordani neanche sicura) rispettiva adesione alla «Società dei raggi» e alla «Giovane Italia». Converrà per il momento non abbandonare la linea dei Nuovi studi del 1994, anche in chiave peculiarmente leopardiana. È infatti in quella sede che molte delle linee di studio del Timpanaro ottocentista, se non anche ideologo (ma non si dimentichi che è sempre presente il classicista, in specie in Epicuro, Lucrezio e Leopardi), trovano un loro approdo, pur certo parziale e segnato dall’ininterrotta ricerca di metodo, ma un approdo conseguito tramite l’ennesima serie di accessi specialistici, mirati, monografici o monografico-metodologici agli argomenti. Motivo conduttore di questo ulteriore volume edito da Nistri-Lischi nei «Saggi di varia umanità» è sempre la tradizione d’ascendenza illuministica, prevalentemente identificata, in àmbito di indagine ottocentesco, nell’ideologia del classicismo d’ispirazione materialistica. L ’Ottocento è e rimane, anche quando l’autore principale in apparenza arretra verso lo sfondo, l’Ottocento di Leopardi; e la precisazione non si configura affatto come scontata e concettualmente pleonastica, se si considera che Giacomo è oggetto di crescente individuazione differenziale e oppositiva rispetto alle troppe epoche, e ai troppi impropri compagni di strada, che gli sono stati evocati come contemporanei. L ’amore intellettuale, e soprattutto la razionale convinzione del filologo, dell’ideologo e dell’illuminista riguardo alle idee filosofiche e linguistico-espressive di Leopardi, passano in maniera preminente non dall’isolamento, ma dalla precisa focalizzazione della reale collocazione leopardiana nel quadro del suo Ottocento, della sua polemica coevità con le illusioni romantico-spiritualistiche, della sua acuminata diversificazione anche da quei potenziali spunti che condurranno alle declinazioni del pessi
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mismo irrazionalistico, da quello di Schopenhauer a quello, ben differente ma anch’esso distante dal Recanatese, dell’esistenzialismo. Un Leopardi, dunque, non guadagnabile alla sfera del novecentismo letterario e filosofico e degno d’essere sottratto e in qualche modo salvato, come meglio ancora si vedrà in séguito, da illecite operazioni attualizzanti. Nel capitolo dei Nuovi studi dedicato a Epicuro, Lucrezio e Leopardi Timpanaro pone alcuni punti fermi riguardo alla ricezione da parte del recanatese della filosofia, ma, anche, e soprattutto, dei testi epicurei, greci e latini. In Classicismo e illuminismo del 1965 lo studioso rilevava il prevalente «riserbo» nei confronti di Epicuro e del De rerum natura, mentre nell’edizione del 1969 riconosceva una ripresa lucreziana nella Ginestra (vv. 111-113: cfr. «Primus Graius homo etc.)». È l’inizio d’un dialogo scientifico con Mario Saccenti, Alberto Grilli e Paolo Mazzocchini19. Possiamo rinviare, per la trattazione analitica del rapporto Leopardi-Lucrezio (e LeopardiEpicuro), direttamente alle pagine dell’autore (143-197). L’approccio testuale ravvicinato conduce ad una osservazione delle diversità, degli elementi di separazione del pensiero materialistico dell’autore delle Operette morali dal pensiero epicureo del poeta del De Rerum natura. Si indicano, come dati qualificanti, la precisazione del rapporto fra ideologia epicurea ed effettive letture (più cospicue e attestabili le ultime, meno dimostrabile, in Leopardi, la prima), il legame fra De rerum natura, II, 48 (curaeque sequaces) e l’Inno ai Patriarchi, 66 («e le seguaci ambasce»), il dissenso da Giuseppe Pacella (le citazioni dal De rerum natura, opera posseduta da Leopardi, rinviano alla lettura diretta e non al Forcellini o ad altre fonti), la perplessità per un confronto tra la Storia del genere umano e De rerum natura, III, 78-80 (il taedium vitae leopardiano non è omologabile con la paura della morte in Lucrezio, poiché quest’ultima è un sentimento insopportabile che può accompagnare al suicidio). Èd è una suggestione nella quale sono incorsi Della Giovanna, Fubini, Gentile, Galimberti. Ma il taedium vitae, a sua volta ripetutamente presente in Lucrezio, non ha alcun legame con la paura di De rerum natura, III, 78-80, e non ha alcuna attinenza al tema del suicidio. A proposito d’un altro raffronto (autore il Mazzocchini) fra il Coro di morti del Ruysch e Lucrezio, III, 211-213, 939, 972-977, Timpanaro osserva che la mancanza di vita, la «ignuda natura» dei morti non può essere concetto filosofico omogeneo con l’optimum vitale dell’atarassia epicurea, né con l’assimilazione della sfera della divinità a quella del saggio, alla dimensione miniaturizzata del καλῶς ζῆν. Basta rileggere, di Epicuro, l’Epistula ad Menoeceum, 133, e Κύριαι δόξαι (Ratae sententiae), XV, 144, e XXI, 146; dalle Κύριαι δόξαι traiamo le seguenti citazioni: Ὁ τῆς ϕύσεως πλοῦτος καὶ ὣρισται καὶ εὐπόριστός ἐστιν, ὁ δὲ τῶν κενῶν δοξῶν εἰς ἄπειρον ἐκπίπτει. Ὁ τὰ πέρατα τοῦ βίου κατειδὼς οἶδεν ὡς εὐπόριστόν ἐστι τὸ ἀλγοῦν κατ’ ἔνδειαν ἐξαιροῦν καὶ τὸ τὸν ὅλον βίον παντελῆ καϑιστάν˙ ὥστε οὐδὲν προσδεῖται πραγμάτων ἀγώνων κεκτημένων20.
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I limiti della vita non esulano dall’umana conoscenza e l’eliminazione del dolore provocato dal bisogno è agevole a realizzarsi (εὐπόριστον): la serenità è conquistabile durante la stessa vita. Lucrezio e Leopardi si riferiscono, invece, alla dimensione della morte; non si è certo realizzata sovrapposizione di concetti diversi, ovvero di due accezioni reciprocamente eterogenee della securitas. E il «lieta no, ma sicura» (v. 5), come anche l’explicit (v. 32) del Ruysch, esclude del tutto la felicità, per i vivi e per i morti («Vivemmo», viximus, siamo morti): la felicità leopardianamente consiste (o consisterebbe, dati gli amari orizzonti storico-esistenziali dell’uomo) in una condizione di fervida vitalità che contempli l’anelito ad atti gloriosi, ad atti di magnanimitas, e dalla quale non siano rifiutati gli αγῶνες, le attività che annoverano la lotta e la competizione, proprio quelle da cui Epicuro ambisce a liberare la via al suo sapiente. Una lettura «giovanilissima» di Lucrezio avvenne comunque, prima ancora che l’autore finisse il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, e così vi furono «successive letture parziali, anche tarde». Anche Epicuro, tramite l’edizione amstelodunense (1692) delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, può essere stato concettualmente fruito da Leopardi, che è probabile abbia all’attivo almeno una lettura delle stesse Vite. Ed Epicuro vuol dire anche critica, segnata in Leopardi da inevitabili lacune lettoriali e informative, all’immagine vulgata dell’epicureismo; ci si riferisce all’apoliticità, al “pericolo” di sigillata chiusura egoistica (in selettiva cerchia amicale) insita nel pensiero epicureo, filosofia adatta all’età della Restaurazione (come è detto nell’Ottonieri), alla sua deprivazione morale e ideale, alla sua azione inibente sugli ideali stessi. Ma ancor più profonda appare la critica (potenzialmente irraggiata, come dimostreranno gli sviluppi del pensiero di Timpanaro, in un arco transtemporale) al mentalismo astratto e moralistico, all’illusione di autosufficienza e di indipendenza tetragona del σοφός rispetto agli accidenti esterni; la pretesa, irrelata monadologia individualistica, garantita dall’argine della dotazione sapienziale, è per Leopardi, come in una certa misura lo era stata per Cicerone, esposta a turbamenti esterni che assumono in questa direzione un valore determinante; viene qui recuperato un motivo centrale dell’etica teofrastea. Breve, invece, com’è noto, la fase epittetèa21. Lucrezio stesso, ricordiamolo, mostra una posizione ibrida, duplice, fra la brama partecipativa alla virtù rasserenatrice e pacificante della virtù epicurea nella sua potenzialità di superamento degli affanni procurati dalla storia e dalla natura, e un’acutizzazione del pessimismo, della consapevolezza del dramma terrestre e cosmico dell’uomo (benché in Lucrezio manchi e “debba” mancare, rispetto a Leopardi, la dimensione sistematica di tale cifra pessimistica). Non appare sostenibile, a Timpanaro, neppure l’assegnazione di Leopardi ad una linea “teologico negativa”, o gnostica (come ad esempio sostenuto da Galimberti); ma in questa fase del pensiero di Timpanaro (il contributo, che in séguito sarà notevolmente ritoccato, risale al 1988) preme maggiormente sottolineare la differenza tra il pensiero leopardiano e l’epicureismo, che, qui visto quale religione antiprovvidenzialistica, non per questo vien meno allo “statuto” di religione: perfezionamento di culto, non approdo ad ateismo conseguente: «Lucrezio ha scelto quello stile [lo stile enniano] perché il suo accostamento alla filosofia epicurea era un accostamento religioso alla salvezza, perché la sal
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vezza per lui assomigliava molto a un oracolo del divino Epicuro», secondo le parole di Antonio La Penna22. Il concetto di piacere è a sua volta, in Leopardi e negli epicurei, radicalmente differente; per Giacomo il piacere è un quid, oggetto di speranza o di ricordo (si veda il Torquato Tasso), e non è mai realmente pensabile nella dimensione del tempo presente; e se il piacere fosse in qualche modo concepibile, esso risiederebbe nell’enniana vita vitalis, non nella condizione catastematica; né v’è spazio, nel De rerum natura, per la seconda teoria leopardiana del piacere, per quella provvisoria pausa da una realtà di male o di pericolo che è presente in A un vincitore nel pallone, nel Colombo, nella Quiete. Altrettale differenza vi è nella concezione della morte, stato desiderabile e ricercabile in Leopardi, come avviene, ad esempio, nel Bruto minore, in cui essa è un atto accompagnato da filosofico e consapevole bagaglio di bestemmia di ciò che è divino; l’εὐσέβεια di Epicuro mira invece alla conquista d’una vita felice e all’abolizione culturale ed esistenziale del desiderio della morte, non al suo incremento e alla sua asserzione filosofico-naturale; altre differenze alle pp. 182-185. Conclude il saggio un Postscriptum dedicato alla discussione con altri autori di studi leopardiani: si ricordi (p. 196) la circoscrizione della serie di scrittori che hanno operato un influsso determinante su Leopardi (a proposito della concezione della natura e dell’antiteodicea) al Voltaire del Poème sur le desastre de Lisbonne (eccettuato il finale: «Les sages me trompaient, et Dieu seul a raison. / Humble dans mes soupirs, soumis dans ma souffrance, / Je ne m’élève point contre la Providence», e l’ésperance lessicalmente pronunciata)23, al d’Holbach del Bon sens e al Nicolas Fréret della Lettre de Thrasybule à Leucippe. Sul materialismo lucreziano come filosofia asciutta e austera, ma disposta a confidare nella diffusione della saggezza fra gli uomini, si possono rileggere le parole di Sainte-Beuve nei Premiers Lundis: […] on avait cru que […] s’était jeté en désespoir sur la solution d’Epicure, […] et que de là, dans quelques intervalles de fixité et de repos, il avait voulu enseigner à ses contemporaines la loi du monde, la raison de la vie, et leur montrer du doigt le sentier de la sagesse.
L’«analyse» è «assez semblable à celle que l’abbé de Condillac appliqua depuis à la sensation, ou Helvétius à l’amour physique»; e sempre Sainte-Beuve, nella propria ottica, indica la possibile funzione “nazionale” della poesia lucreziana: il pensait donc servir la patrie en guérissant les Romains de cette terreur chimérique, et en prouvant que la mort ne menait à rien; de là ces arides théories d’athéisme et de néant, toujours entremêlées de conseils probes, de consolations mornes et sévères.
E si noti che il pensiero «sans larmes» non è privo d’un suo fine, che è quello di trovare risposta a «toutes les questions» della cultura dell’umanità: Certains esprits amis de l’humanité, épouvantés de ses maux et de son délire, avaient eu recours aussi, comme le poëte romain, à cette philosophie austère et sans larmes
I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
qui se pique de voir les choses comme elles sont, qui se console de la tristesse de ses résultats par l’idée de leur vérité, et qui, faisant l’homme si petit en face de la nature, et osant pourtant le maintenir dans tous ses droits, ne manque certes ni de générosité ni de grandeur […]. Dans la philosophie, prenez Epicure (il ne s’agit pas ici de la vérité de son système), de même vous trouverez la réponse à toutes les questions sur la destinée de l’homme, de la societé, de l’humanité24.
*** Si venga all’attività propriamente e tecnicamente filologica di Leopardi; in questo campo, si devono riconoscere a Timpanaro meriti in buona parte istitutivi della stessa valenza disciplinare consistente nella storia della filologia e nel commento agli scritti e alle congetture critico-testuali del Leopardi studioso. Il volume La filologia di Giacomo Leopardi, fin dalla prima edizione del 1955, «si rivolge agli studiosi del Leopardi, agli storici della filologia e ai filologi classici». Questi ultimi, in particolare, «troveranno qui, citate e valutate, molte emendazioni e interpretazioni del Leopardi a testi antichi, per la maggior parte ignorate o accolte sotto altro nome dagli editori recenti»; «il Leopardi filologo: non “Leopardi e gli antichi”, non “classicismo e classicità nel Leopardi”» (Prefazione alla prima edizione, p. XI). E proprio l’attività filologica sarà qui indagata: non si tratterà d’una filologia ancillare e preparatoria rispetto alla poesia, non sarà un laboratorio tecnico da inevitabilmente indagare in vista di ariose e più fascinose panoramiche sugli esiti estetici e sulle suggestioni, sulle malie artistiche del poeta dell’Infinito; sarà, piuttosto, una filologia in sé considerata e restituita alla propria, autonoma dignità scientifica, razionale e disciplinare, il che non è poco per un autore, e un grecista e latinista qual è Leopardi, che agisce in condizioni singolarmente sfavorevoli sia sul piano storico-culturale (lo stato di scarsissimo “pregio” in cui allora sono tenuti gli studi filologici in Italia), sia sul piano personale (la serie di pesanti limitazioni informative alle quali è vincolato e per ragioni di luogo e per ragioni di qualità della paterna biblioteca). Né, certo, Timpanaro cade nel tranello di considerare la filologia come attività “centrale” in Leopardi: il poeta e il filosofo rimangono in tutto prevalenti (e in crescente misura nel corso del suo itinerario) come figure in cui si realizzano l’intellettuale illuminista e l’artista appartenente al classicismo. Ma la dedizione assolutamente congeniale all’esercizio filologico applicato a testi greci e latini, la sua cifra che nel tempo si affermerà come esplicitamente tecnica e razionalistica, “arida” (diciamolo pure se serve), il gusto degli adversaria specifici, micrologici, mirati e puntuali, precisi, non vaghi, non fumosi e generici ma sempre volti all’interpretazione e all’emendazione del testo, all’hic et nunc concreto dei singoli loci linguisticamente critici, l’acutezza delle congetture (congettura è codicologia mentale, se indotta ad alto livello), l’intuizione del metodo filologico professionistico quale si andava affermando nell’ecdotica tedesca e la relativa ammirazione “tecnica” per la dotta Germania (non per le fantasiose “ricerche” d’affinità etnica fra greco e tedesco, satireggiate nei Paralipomeni) depongono con attendibilità per un Leopardi filologo per virtù propria e con finalità pure e scientifiche, ossia per finalità filologiche peculiari e perseguite iuxta propria principia. Studiare Leopardi filologo
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non è dunque, o non soltanto, premessa alle conquiste del poeta, magari rintracciate nelle loro radici classiche, dai notturni omerici a quelli virgiliani, dagli idilli di Mosco all’ammirazione per la prosa greca tardo-antica, direzioni di ricerca, queste, validissime e già in parte magistralmente percorse; il filologo precoce, giovanissimo, non è, insomma, la mera premessa erudita d’un’attesa conversione al bello e poi al vero, ma è uno degli esiti più coerenti dell’iter d’un grande classicista che realmente conosce il greco e il latino (e questo non è scontato, nell’Italia d’allora) e che applica con profondo e sensato acume la propria razionalità ad un metodo d’indagine che innanzi tutto richiede proprio l’uso specifico della ragione. Leopardi è pervenuto da solo (pur con l’oggettivo aiuto contestuale d’un ambiente, arretrato, che egli supererà) ad un metodo simile a quello hermanniano, a una filologia che non impropriamente si può definire «formale»; e se lo stesso Timpanaro, nella prima edizione de La filologia, stabilisce una netta distinzione fra i primi lavori “eruditi” e i successivi lavori e note propriamente filologici (distinzione necessaria anche a contestare la falsa limitazione dell’attività filologica all’ingenua fase giovanile, con la conseguente perdita della fase migliore e più matura), nella seconda edizione egli accoglie l’obiezione di Antonio La Penna sull’«eccessiva svalutazione del lavoro sui Padri greci […]. Ora l’edizione che dei Padri greci e degli Scrittori di storia ecclesiastica ci ha dato Claudio Moreschini, e un suo articolo sul Leopardi studioso di patristica25 […], confermano che anche dal punto di vista filologico […] c’è da trarre da questo primo Leopardi più di quanto io avessi creduto. Perciò il cap. I risulta qui arricchito e corretto. E addirittura in gran parte riscritti sono i capitoli III (Gli studi sulla lingua latina), IV (Roma, 1822-23), VI (Considerazioni sulla filologia leopardiana); ma nessun capitolo è sfuggito a un’attenta revisione» (p. XII). Così la storia de La filologia di Giacomo Leopardi documenta anche la serie di fruttuose discussioni che si sono aperte fra gli studiosi su questo campo d’indagine in buona parte nuovo, nei contenuti e nel metodo. Ma si veda un passo della prosa di Timpanaro storico della filologia leopardiana, notando come, dal rilievo sul dato testuale, l’analisi del metodo impiegato per il Giulio Africano (metodo già individuato come appartenente a fase matura fin dalla prima edizione del 1955) sia condotta fino all’individuazione della richiesta di collazione di due codici vaticani (pp. 13-14): Ιn generale, tutti i concetti che si riferiscono alla critica del testo appaiono nel Giulio Africano chiariti e maturati in confronto alle opere precedenti. Nel Porfirio, per esempio, abbondavano ancora le note del tipo: «Θεόδοτος – Est qui legat: Διόδοτος» (p. 315 del ms.), «Παρέργῳ – Legunt alii: πάρεργον» (p. 317), senza una presa di posizione tra le opinioni contrastanti e, soprattutto, senza una chiara distinzione tra ‘variante’ (dei codici) e ‘congettura’ (degli editori); una distinzione che nelle vecchie edizioni cum notis variorum usate dal Leopardi non sempre era esplicita, e che, del resto, riesce sempre poco chiara al principiante. Nel Giulio Africano, invece, il Leopardi prende quasi sempre posizione: anche verso il Boivin, che prima di lui era stato l’unico a proporre buone congetture ai Cesti, il suo atteggiamento non è pedissequo: egli accetta, e con ragione, la maggior parte di quelle congetture, che nell’edizione del Meursius erano relegate in nota; ma altre ne respin-
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ge. Un passo, soprattutto, merita attenzione. Dopo avere insegnato uno dei suoi bislacchi modi di fare strage dei nemici lasciando loro da mangiare pani avvelenati, Giulio Africano (cap. 2, p. 117, 77 Vieillefond2) commenta: τοιοῦτον αὐτοῖς κόρον Ἐρινὺς προξενεῖ: «Tale sazietà (una sazietà, cioè, produttrice non di nutrimento ma di morte) offre loro, come dono ospitale, l’Erinni!». L’espressione vuol essere aspramente sarcastica, e trova conferma in altri passi di Giulio Africano. Il Boivin aveva corretto κόρον in μόρον, «morte», banalizzando l’espressione. Ribatte giustamente il Leopardi: «Sed vox κόρον, “satietatem”, longe majorem huic loco vim, elegantiamque suppeditat». Purtroppo nemmeno nella sua seconda edizione il Vieillefond si è persuaso della bontà e dell’efficacia retorica della lezione tramandata. / Divenutagli chiara, adesso, la distinzione a cui accennavamo, fra lezione tramandata e congettura, il Leopardi si accorge che sulla base della sola edizione fiorentina si lavora male, appunto perché essa non fornisce dati completi sullo stato della tradizione. Bisognerebbe risalire ai codici: ed ecco che, alcuni mesi dopo, egli scrive all ’abate Francesco Cancellieri per chiedergli le collazioni di due codici vaticani dei Cesti [e alla n. 29, a p. 14, Timpanaro precisa: «Lettera del 6 aprile 1816. Sull’autografo di questa lettera, ritrovato da Augusto Campana, vedi “Giorn. stor. lett. it.”, CXXXV – 1958 –, p. 619»].
Il passo è da considerarsi puramente emblematico, e solo del testo “in alto”; altra, più specillare prosa hanno le note, e così le appendici e gli Addenda del 1997. Ma riteniamo che esso possa essere sufficiente a ricordare la novità del tipo di applicazione scientifica ma anche calibratamente divulgativa che il filologo produce sul lavoro d’un altro filologo. Da tutto il volume (che già nell’edizione 1977 diviene contemporaneo di Sul materialismo – 1975 –, anch’esso alla seconda edizione, e della seconda ristampa – sempre 1977 – della seconda edizione di Classicismo e illuminismo) si evince il carattere non propedeutico, non subordinato né strumentale della filologia leopardiana rispetto alle grandi (e tali restano) conversioni poetiche e filosofiche. Timpanaro ha nel frattempo ricevuto importanti conferme della validità di quel volume del 1955; e già da tempo la definizione di «filologo», e in specie di «filologo formale» non poeta, non vocato alla divinazione genialmente intuitiva ma a una logicizzazione alla Hermann, incertante e analitica, linguistico-grammaticale, non è ascritta a nomenclatura “riduttiva”, bensì a connotazione costitutiva, nella sua autonomia disciplinare, del poeta di A Silvia: non certo a caso il primo impulso allo studio dei pensieri linguistici dello Zibaldone provenne da Giuseppe De Robertis, che poi accolse La filologia nella collana lemonnieriana da lui diretta; e a Domenico De Robertis si rivolge un periodo dell’ultima parte della prefazione del 1977, con il grato accenno a un invito, che vi era stato, alla ripubblicazione del volume ora laterziano negli stessi «Quaderni di letteratura e d’arte». Da questo libro, come da altri luoghi in cui Timpanaro se n’è occupato, scaturiscono importanti ricognizioni su figure di filologi e bibliotecari quali i citati Angelo Mai, Barthold Georg Niebuhr, Amedeo Peyron; si ricordi a questo proposito Aspetti e figure della cultura ottocentesca; soprattutto, per il Mai, si rammenti il capitolo a lui dedicato, pp. 225-271, comprensivo delle Appendici A (Sulle scoperte e pubblicazioni di palinsesti prima del Mai) e B (Indicazioni biblio
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grafiche sul Mai); il capitolo riprende «con varie correzioni e aggiunte» l’articolo apparso in «Atene e Roma», 1956, pp. 1-34. Non può essere disgiunto da La filologia («il capolavoro di Timpanaro», definizione di Vincenzo Di Benedetto) il volume di Scritti filologici di Leopardi del 1969, curato insieme a Giuseppe Pacella, appartato e competente sodale di Timpanaro e grande leopardista26. Qui più che mai si chiarisce, in linea con il volume precedente (ma anche successivo, viste le edizioni modificate de La filologia del 1977 e del 1997), il carattere realmente provocatorio e la novità d’acquisizione scientifica della parentesi del titolo, che segna al 1817-1832 gli estremi dell’attività filologica leopardiana: provocatorio, si badi, non solo per l’estremo finale, un 1832 già gravido di significati poiché dilata fino ai primi anni 1830 l’estensione dell’interesse filologico professo ed esplicito, quell’interesse di cui ancora troppo spesso molte storie letterarie mirano a liberarsi presto in vista dell’Infinito e della poesia, ma anche e soprattutto per l’estremo “iniziale”, quel 1817 che, in certo senso, postdata la fase filologica, sottraendo alla sua sfera, semmai, e trattenendolo nel rango della premessa, proprio lo stadio erudito giovanilmente ingenuo, ostensivo e incipitario. Si tratta d’una vera edizione, d’un opus magnum annoverato in una collana benemerita, un volume che ha carattere di esemplarità. Il metodo filologico classico trova in questa edizione una prosecuzione adeguata all’oggetto. Di fronte all’autografo la recensio si riduce all’acquisizione del manoscritto e alla sua lettura, e l’emendatio è ridotta ai casi di svista dell’autore. Intervengono le varianti, non solo in quanto correzioni di sviste, anche in quanto espressione di un cambiamento di opinione. Ma Pacella e Timpanaro sono andati molto oltre, hanno fatto nella sostanza una edizione storicizzante: il lettore è messo in condizione di apprezzare il talento filologico del Leopardi, e non solo in assoluto, ma con la possibilità di rapportare i suoi contributi alla cultura filologica del suo tempo. E non dobbiamo dimenticare la mole di lavoro che Pacella e Timpanaro hanno fatto nel leggere manoscritti di difficile lettura. La dedizione di Pacella fu a questo riguardo senza limiti, fino a una sorta di diretta sympatheia: parlando del grande recanatese, gli capitava di dire non ‘Leopardi’ ma ‘Giacomo’27.
Una tale realizzazione, sia per una lettura analitica e specialistica, sia per una lettura che privilegi l’esplorazione metodologica generale, va affidata (o riaffidata), per intero o per le sezioni d’interesse, alla fruizione diretta degli studiosi. Timpanaro deve subito avvertire che «non esiste ancora una tradizione di commenti a scritti filologici» (Prefazione, p. XVIII) e ribadire che in questi scritti «la filologia è soprattutto critica testuale (proposte di emendazioni o difese di lezioni tramandate) e interpretazioni di singoli passi di autori greci e latini: per i testi greci, che in molte edizioni di allora erano accompagnati dalla traduzione latina, la diversa interpretazione data dal Leopardi si configura, per lo più, come proposta di una diversa traduzione» (p. VIII). Si accampano in questo quadro, nella loro importanza, le scoperte che Mai va facendo in Ambrosiana (1814) e in Vaticana (1819). Proprio al Mai e al Giordani si rivolgono le prime lettere riguardanti i lavori filologici; la struttura costante delle Lettere al Giordani e al Mai contempla «una prima parte dedicata alla trattazione di un I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
problema generale, poi una serie di osservazioni critico-testuali a singoli passi […], infine un elenco di vocaboli nuovi che il Mai aveva tralasciato di notare, o di vocaboli che erroneamente il Mai aveva indicato come nuovi» (p. IX). Poi si afferma la propensione allo stile scientifico, propriamente filologico, dissertante, alla nota o alle note critiche fra loro separate, gli Adversaria. Quanto al «rapporto tra gli scritti filologici […] e gli appunti filologici che fanno parte dello Zibaldone», la distinzione fondamentale è quella di accogliere nei «pensieri» le osservazioni di carattere linguistico, e, nelle «schede sparse, invece, le note critico-testuali» (pp. X-XI). Giusta anche la decisione di «pubblicare tutto insieme il contenuto di ciascuna nota leopardiana, anche se in essa siano stati scritti, in tempi diversi, appunti filologici su autori diversi», nel rispetto, anche in vista della fruizione lettoriale, della «fisionomia di questi appunti leopardiani: quel tanto di disordinato e di miscellaneo che essi presentano è un loro carattere intrinseco che non deve andar perduto». Né possono mancare, non frutto d’orgogliosa autocoscienza dei risultati cui si è pervenuti, ma segno di volontà limpidamente informativa sui dati acquisiti dal proprio lavoro a beneficio della comunità degli studiosi, le probe dichiarazioni di risoluzione dei punti oscuri, di acquisito disegno della mappa, fin dove possibile minuta e particolareggiata (quindi «storicizzante», nel senso e secondo la giusta espressione di Di Benedetto), delle letture e dei riferimenti testuali e bibliografici leopardiani: Con la nostra edizione anche la parte filologica del Supplemento, finora nota solo frammentariamente, viene ad essere tutta pubblicata; ciò non toglie che, a nostro parere, possa essere anche utile ripubblicare in altra sede l’intero Supplemento, comprese, s’intende, le aggiunte agli scritti letterari (pp. XIII-XIV).
E ancora: Le nostre Note introduttive, le note alle singole osservazioni leopardiane, l’indice analitico e l’indice bibliografico permetteranno di individuare, di volta in volta, l’edizione usata dal Leopardi e di distinguere, cosa molto importante, ciò che il Leopardi vide direttamente e ciò che gli fu noto soltanto di seconda mano. Non molti sono, in questo campo, i punti rimasti oscuri. Le nostre ricerche potranno costituire un primo avvio per quell’indice generale ragionato delle letture compiute dal Leopardi (non solo di quelle filologiche), che sarebbe di grande utilità e che ci auguriamo possa essere presto intrapreso con la cooperazione di vari studiosi (p. XX).
Si noti, ad esempio, nella LETTERA DI GIACOMO LEOPARDI AL CH. PIETRO GIORDANI SOPRA IL DIONIGI DEL MAI, alle pp. 3-8 (e 10-14 quanto al testo leopardiano, che in tutto occupa le pp. 9-41), la dimostrazione della natura, opposta a quella di compendio, d’un’opera (una raccolta d’estratti scoperti in due codici ambrosiani)28 che, dapprima, il Mai ritenne parte dell’epitome della grande storia romana di Dionigi d’Alicarnasso, compiuta, sulla base d’una testimonianza di Fozio, dallo stesso autore. Qui, come anche in altri casi, La filologia e gli Scritti filologici si integrano necessariamente a vicenda. A Leopardi (non a Sebastiano Ciampi né, per diversi
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motivi, a Giordani – cfr. La filologia, pp. 33-41 e relative note) va il merito (oltre che dell’analisi e della traduzione – compiute nel gennaio 1817) dell’attribuzione di questi testi allo status di excerpta, non di prosa di compendio con relativi difetti e pregi, una prosa della cui ratio strutturale e linguistica essi assolutamente non partecipano. La LETTERA viene pubblicata soltanto dal Cugnoni nel 1878, mentre altri studiosi e editori avevano nel frattempo confermato la validità della tesi di Leopardi, ignari del loro predecessore, in qualche modo usurpando involontariamente il riconoscimento d’una priorità che era sua, anche, a rigore, rispetto ad Ennio Quirino Visconti (la LETTERA leopardiana è comunque, ufficialmente, del 7 luglio 1817): Ma la ragione dice da se che chi vuole per giusto motivo mettersi a questo lavoro per ordinario odioso e dannoso, dee prima di tutto impadronirsi affatto della materia che ha da ristringere, poi da questa tirare il succo, e fare di dir molto con poco (non già poco con poco), esprimere colle parole proprie i detti dell’autor suo più brevemente che questi non fece, levar via il non necessario, correr diritto al segno, e soprattutto aver l’occhio che dove ei tronca il superfluo non apparisca la piaga, e però questa saldar subito con parole adattate che rappicchino insieme le membra dell’opera […]; e come il traduttore dee fare ogni opera di parere originale, così anch’egli ingegnarsi a più potere di comparire autore e non compendiatore, almeno a prima giunta, e però sfuggir di copiare a parola a parola l’autor suo, o farlo di rarissimo, e non mai a lungo, perché è impossibile che i pezzi dell’opera grande stieno in giusta proporzione nella piccola, come non può chi copia un gran quadro in piccola tela, ritrarre senz’assurdità qualche figura della grandezza che questa è nell’originale. Così le istorie di Trogo furono compendiate da Giustino, il cui scritto chi leggesse senza sapere che fosse un Compendio, non così di leggeri se n’avvedrebbe; così Lattanzio compendiò le sue istituzioni, non già copiandosi perpetuamente ma ristringendo le molte parole in poche, e omettendo il non necessario (LETTERA, pp. 13-14).
E si veda, ancora, a p. 22: Nel Capo XXII. μετὰ τὴν ἐυχὴν μέλλοντα τοῦ παρεσκευασμένου πρὸς τὴν θυσίαν ἱερείου κατάρχεσθαι è tradotto dal Mai: «quumque precibus persolutis sacrificium esset inchoaturus.» Propriamente τοῦ ἱερείου κατάρχεσθαι vuol dire: «victimam ferire» o «libare», che ambedue questi significati può avere quel verbo, come prova il Buddeo. Vedete se non par copiato da questo luogo di Dionigi quest’altro di Arriano: (Exp. Alex. [Expeditio Alexandri] Lib. 2. c. 26. ): καὶ ἐν τοῦτο θύοντι Ἀλεξάνδρῳ και ἐστεφανωμένῴ τε καὶ ΚΑΤΑΡΧΕΣΘΑΙ ΜΕΛΛΟΝΤΙ ΤΟΥ πρώτου ΙΕΡΕΙΟΥ κατὰ νόμον, κ. τ. λ.
Dionigi e Arriano sono fra gli autori greci di maggior interesse per Leopardi. Anzi, Arriano ricorre nell’universo citazionale di Giacomo, fin da allora e con qualche oscillazione di giudizio, per poi figurare spesso, nello Zibaldone, come esempio di prosa greca nel complesso limpida e scorrevole (pur se meno fluida rispetto a quella dell’ammirato Senofonte), prosa di minore e d’imitatore, non priva al momento o nel passo opportuno di rinforzo retorico, ma pur sempre frutto di cifra linguistica attiI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
cista e atticista pura nella sua riuscita, se non nell’origine geografica dello scrittore. Arriano è inoltre oggetto d’interesse per aver scritto in attico la Ἀλεξάνδρου ἀνάβασις (appunto, l’Expeditio Alexandri) e in ionico, «per capriccio», la Ἰνδικὴ συναγωγή (Historia Indica). L’evidenziazione di maiuscole e minuscole, segno dell’esplicito interesse leopardiano per il dato grammaticale, precipuo in questo periodo, ma in ogni caso perdurante per tutta la carriera, giunge a distinguere e isolare nel segmento di testo la costruzione di κατάρχεσθαι con τοῦ ἱερείου (e a lasciare la determinazione aggettivale πρώτου in carattere minuscolo)29. A p. 50 inizia la trattazione del Frontone; è fin troppo nota l’ammirazione per l’“arcaicizzante” autore latino del Leopardi di quegli anni, un Leopardi “giovanile” che qui è riconoscibile: «Anzi io credo che i cultori dell’arti belle brameranno sempre che si scopra più tosto un’egregia opera d’un maestro sconosciuto che un’egregia opera di un maestro già da tutti conosciuto e studiato […]. Ed io per me non dubiterei di comperare, potendo, qualche ode d’Alceo o di Stesicoro o di Simonide con qualche ode di Pindaro, né di dare parecchie elegie d’Ovidio per qualcheduna di Callimaco, e due o tre commedie di Plauto per altrettante di Cecilio o d’Afranio». Si tratta d’uno scrittore che lo stesso Giordani riconobbe come vacuo retore, né, certo, una cifra autoriale superiore gli attribuisce lo stesso Timpanaro. Ma anche in questo caso le osservazioni leopardiane costituiscono una notevole restituzione di correttezza al testo d’autore, dopo alcuni fraintendimenti operati dal Mai. Nel maggio 1816 Leopardi invia al Mai la traduzione, il Discorso introduttivo e le note (e il Mai, nell’edizione frontoniana del 1823, si servirà in parte, senza citarlo, del privato lavoro leopardiano); la traduzione non soddisfa Giacomo, che destina i suoi fogli al cassetto, come egli stesso dice nella lettera, sempre al Mai, del 21 febbraio 1817; proemio e note, insieme ad altre osservazioni in séguito effettuate al testo di Frontone, dovrebbero servire per una dissertazione, che poi si scinde progettualmente in due lettere (destinatario Giordani), una di ordine “letterario”, rimasta incompiuta, e una di ordine “critico” (critica del testo), neanche abbozzata, e ciascuna con i relativi appunti. Il titolo conferma la primitiva volontà unitaria, ma la LETTERA non giunge mai a compimento; eppure le congetture e le annotazioni sono, al solito, molto interessanti e sotto certi aspetti più lessicalmente approfondite e sviscerate rispetto a quelle degli stessi editori tedeschi, che si sono, semmai, segnalati per il riordino, a paragone dell’edizione Mai, delle varie “parti” che la compongono. Il tedio di questo prolungato impegno frontoniano concorre, soprattutto nella parte «letteraria», all’interruzione della stesura; concorre, si è detto, poiché diverse e forse ancor più importanti cause sono intervenute a dirottare ad altre mete l’acuzie testuale e autotestuale leopardiana, a riprova della risonanza del dato filologico, o addirittura dell’appunto di lettera, in chiave di percorso storico-ideale e artistico del poeta: «Verum a perficiendo opere tum rei diuturnitas et fastidium tum prorsus immutata studiorum ratio, praeterea multa vitae meae incommoda me ut hactenus deterruerunt ita semper ut puto deterrebunt», si legge a p. 74 di Sopra il Frontone del Mai (LETTERA DI GIACOMO LEOPARDI AL CH. PIETRO GIORDANI SOPRA IL FRONTONE DEL MAI – Scritti filologici, cit.). I curatori ricordano a questo proposito l’«accenno» alla conversione
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letteraria «e ai vari motivi d’infelicità […] che trovano espressione nelle lettere al Giordani e negli altri scritti di quel periodo». E questa serie di riferimenti a Dionigi e a Frontone potrebbe essere ulteriormente ampliata; ma i dati forniti sono, credo, sufficienti a farci penetrare con un primo sguardo nell’officina filologica leopardiana e, altresì, nell’officina del suo studioso; in tal modo, l’esame ravvicinato, tecnico, minuzioso della cultura e dell’attività filologica di Giacomo, della sua cifra non gratuitamente erudita (dopo gli studi di Timpanaro e d’altri è diventato difficile continuare a definirla tale) acquista importanza e status di contributo di ridefinizione storiografica generale della figura di Leopardi. Così, il fruitore di questi studi entra in una costellazione bibliografica non più esigua, pur se molto in tal senso resta da fare; e importante è a questo proposito l’altro punto di riferimento fondamentale per gli studi filologici leopardiani: l’edizione a cura di Claudio Moreschini dei Fragmenta patrum Graecorum e degli Auctorum historiae ecclesiasticae fragmenta (1814-1815), ivi (stessa collana, V1 e V2), 1969. A proposito delle Osservazioni su Sincello, il «Chronicon Paschale» e il «Chronicon» di Eusebio (nell’Appendice dalle carte napoletane – MN XIII, 4), pp. 774-777, definite come «un confronto tra il testo del Chronicon di Eusebio del Mai, da una parte, e il Chronicon Paschale e la Cronaca di Giorgio Sincello, dall’altra», si rinvia alla citata edizione Pacella-Timpanaro degli Scritti filologici, pp. 205 ss. Di un autore universalmente noto e riconosciuto a livello internazionale (talvolta in modo ancor più chiaro di quanto ciò non sia avvenuto in Italia), anziché compitare leziosamente le tappe pubblicistiche fondamentali, sarà bene richiamarsi ai volumi d’àmbito editoriale pisano, sebbene scritti nella fase biografica fiorentina: sono i volumi che, da Classicismo e illuminismo ai Nuovi studi, segnano la produzione da Nistri-Lischi, con l’eccezione di Antileopardiani e neomoderati, sempre edito a Pisa dalle ETS, e sono, altresì, i volumi che che hanno fatto sì che Timpanaro fosse Timpanaro, per la maggioranza dei lettori. Adottando, come in parte già altra volta abbiamo fatto30, un’ottica retrospettiva che dai Nuovi studi e in questo caso dalla terza edizione di Sul materialismo riprenda le fila della leopardistica timpanariana (e leopardistica significa a dir poco una prospezione sull’intera ottocentistica dello studioso), non si può a meno di riconoscere che uno dei punti basilari, divenuto centrale, mantenutosi tale e variamente rielaborato nella diacronia culturale di Timpanaro, sia rappresentato dalla valorizzazione dell’appartenenza al fronte classicistico d’un Leopardi che è stato anche sotto questo profilo oggetto di dibattito e di diversa interpretazione da parte d’altri studiosi, a loro volta protagonisti della vicenda critica (non solo dell’italianistica) novecentesca. Subito emergono i nomi di Cesare Luporini e di Walter Binni, dell’autore di Leopardi progressivo e di quello de La nuova poetica leopardiana e de La protesta di Leopardi (ma entrano legittimamente nella considerazione critica anche Bruno Biral e Gianluigi Berardi)31. Con questi studiosi Timpanaro intesse la sua caratteristica, peculiare metodologia di dialogo, sostanziata di chiarezza e di cortesia, di limpida e ferma espressione del dissenso, accompagnata, e anzi spesso preceduta, da una pronuncia di non retorica stima per l’altro e per i risultati del suo lavoro; questi ultimi vengono valutati in una I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
sintetica e lucida rassegna delle benemerenze scientifiche e critiche oggettive nella leopardistica e nell’ottocentistica (come del resto avviene da parte di Timpanaro nell’àmbito della filologia classica). Tale connotazione del dialogare si pone quale autentico tratto caratterizzante della sua forma mentis, del suo calamus e del suo modus scribendi illuministici, quasi talvolta colloquiali e sempre perspicuamente allocutivi nei riguardi dell’interlocutore vivo e presente, come di quello libresco, accademico, saggistico o epistolare (si rammenti C. CASES-S. TIMPANARO, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. BARANELLI, II ed. riv. e corr., Pisa, 2005). Anche nel caso d’appassionate pronunce polemico-ideologiche, come a solo titolo d’esempio quella nei riguardi di Adriano Sofri32, di cui più sotto ci occuperemo, non vanno mai dimenticati la fondamentale, reale e sincera professione di rispetto per l’altrui pensiero, né il vero e proprio antiegoismo di Timpanaro, un antiegoismo primariamente connaturato e concepito come senso collettivo della comunità interpretante, al quale, anche in questo caso, molto afferisce e giova l’opzione culturale illuministica, come anche l’opzione filosofico-ideologica marxengelsiana. Quella di Timpanaro è una polemologia acuminatamente critica, non definibile banalmente come tensione di pensiero “tradotta” in forme amabili nel porgere linguistico, ma come vis intellettuale intimamente forgiata di cortesia, di amore razionale ed etico per il dialogo e per lo scambio di acquisizioni scientifiche, di risultati critici e di convinzioni e giudizi di valore, e insieme di comprensione umana per lacune o debolezze culturali di tanti interlocutori meno preparati del «filologo materialista», ma pariteticamente accolti in un dialogo nel quale il rigore, talora la severità, proprio in se stessi e in quanto tali, per concorde testimonianza istituivano nel corrispondente un titolare di posizione culturale, anche dove questa appariva discutibile; lo promuovevano insomma, soprattutto se giovane, al rango d’una reale dignità di destinatario di serio e amichevole colloquio. Il dissenso da Luporini è visibile fin da Classicismo e illuminismo (cfr. pp. 108-117 e passim); l’ottica luporiniana non poteva, almeno nella sua definizione del 1947, realmente approfondire il periodo di allentamento dell’interesse civile, di ripiegamento in se stesso del filosofo Leopardi, negli anni che vanno dal 1823 al 1829: quel periodo di ricerca d’adattamento e di saggio disincanto, di rassegnata decantazione della realtà, è vissuto all’insegna di Luciano e poi di Epitteto e della filosofia ellenistica, considerata quest’ultima sotto il profilo dell’etica e della pratica. E risultava allora difficile per Luporini ammettere una fase di riflessione a netta prevalenza di pensiero centrato sull’àmbito personale, e in definitiva apolitico. Altrettanto si può dire della mancata considerazione dei connotati autonomi del materialismo leopardiano, «incentivo al disimpegno politico», «almeno in un primo tempo», né ciò può meravigliare, visto che «molto meno facile e immediato era il compito di coordinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento politico-sociale progressista» (Il pensiero del Leopardi, in Classicismo e illuminismo, p. 133); Luporini traguarda la propria analisi all’individuazione del «progressismo politico-sociale», e il materialismo di quel periodo dell’evoluzione culturale e ideologica di Giacomo, nella sua lettura, si configura come una filosofia che adempie al compito di cerniera fra «il primo e l’ultimo Leo
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pardi»; ne risulta parzialmente depotenziata la fruizione luporiniana dei presupposti materialistici delle Operette, del loro protratto esercizio di lucida asciuttezza ideologica e stilistica. La constatazione può estendersi al modo non convincente in cui è stato recepito il pessimismo cosmico, la filosofia dell’«infelicità perpetua e insanabile dell’uomo», sempre considerato come dato importante, ma provvisorio, in nome d’una «non definitività del pessimismo leopardiano» (valutazione d’origine risorgimentale, già emersa in De Sanctis e in tal senso variamente ripresa, appunto, dallo stesso Luporini, da Biral e da Berardi). Ed anche il richiamo all’orizzonte della dialettica come possibile superamento del pessimismo «significa disconoscere il carattere tutto pratico, sensistico-edonistico del pessimismo leopardiano»: tale connotazione sensistica è destinata a superare, essa sì, ogni forma o riproposizione del provvidenzialismo, non solo di quello di marca religiosa, ma anche di quello d’impronta laicizzante, segnato da modelli d’eudemonismo immanente. E Leopardi in tal senso smentisce anche le prospettive provvidenzialistiche fiduciose in una felicità generale capace di riassorbire la stessa infelicità degli individui: Sotto questo aspetto, la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione umana «nel pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mondo e non di cambiarlo. Soltanto, per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economico-sociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica. Per il marxista, la forza condizionatrice della natura sull’uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di prologo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futuro) a mero oggetto di attività umana: l’«uomo storico» metterebbe sempre più in ombra, e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il Leopardi, la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido e combattivo (Il pensiero del Leopardi, p. 147)33.
L’accenno alla necessaria priorità d’una liberazione “materiale” e sensisticamente accertabile trova un notevole legame con l’influenza di Teofrasto (benché la lettura leopardiana dei Caratteri risalga al 1825); è quindi dall’Etica Nicomachea, è ancora da Aristotele che promana la sottolineatura del peso, del condizionamento decisivo e discriminante, per la felicità umana, degli eventi esterni, dell’«impero della fortuna», della «preponderanza» di quest’ultima sopra la «virtù»; e sempre l’etica aristotelicoteofrastea rimarca la presunzione d’una linea filosofica (non limitata alla sola antichità) che, come già si è avuto modo di dire, ha ritenuto sufficienti «la virtù sola o la sapienza» per l’ottenimento della felicità. Altri paragrafi del dissenso da Luporini, ciascuno dei quali sarebbe degno d’uno specifico approfondimento, sono rappresentati I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
dalla circoscrizione, nel tempo, della fase epittetèa (per Luporini invece essa è, si può dire, protagonista d’una fisiologica alternanza con i momenti o i periodi d’intensificazione del titanismo eroico), l’indicazione dei moti napoletani e torinesi del 1820-1821 come fonte per Leopardi di delusione storica ravvicinata nello spazio e nel tempo, il riconoscimento d’una «sfasatura» o di un «temporaneo contrasto tra progressismo politico-sociale e progressismo “scientifico”», tra «democraticità e razionalismo laico»; in quest’ultima vicenda critica, il concetto di “forbice” (pur non assoluta e soprattutto non permanente) tra avanzamento del pensiero politico democratico e avanzamento del pensiero scientifico laico è esemplificato tramite i materialisti d’Holbach e La Mettrie, che infatti hanno, anche a livello di categorie sociali ed economiche, idee più moderate di Rousseau, da parte sua progressista sul piano politico; è esemplificato tramite il pensiero d’Epicuro, e, considerate le debite differenze, di Lucrezio, che, come si è visto, è ancora criticamente sub iudice sotto lo stesso profilo del progressismo, e più ancora sotto l’aspetto d’un materialismo filosofico d’essenza religiosa, veicolo d’una coscienza antiprovvidenzialistica che nel suo atto d’autoasserzione s’istituisce come pietas, come devozione razionale, o, se si vuole, come laica εύσέβεια; tale concetto è, altresì, esemplificato tramite l’inadeguata indagine che a tutt’oggi la cultura storiografico-ideologica marxiana promuove del positivismo, una corrente della quale non appaiono del tutto valorizzati i notevoli contributi recati alla concezione materialistica, sia in campo umanistico, sia in campo propriamente scientifico. Ma ricordiamo che la suddetta “forbice” vale anche, seguendo il pensiero di Timpanaro, in àmbito novecentesco; Umberto Carpi (Timpanaro e il problema del romanticismo, nel citato volume collettivo Il filologo materialista, p. 144) focalizza un’altra apparente contraddizione, a proposito di Karl Korsch e subito dopo aver parlato del titanismo – nozione accolta da Timpanaro, ma «d’assai debole antiromanticismo» – di Leopardi e di Lucano, sempre per Timpanaro rispettivi eroi del pessimismo cosmico biologico e del pessimismo cosmico politico: ricordo appena come nella sua coeva polemica contro Karl Korsch Timpanaro, filosoficamente severissmo col Korsch filoidealista, fosse invece politicamente assai simpatizzante con il Korsch estremista, che trovava esaltante per l’utopia d’una rivoluzione operaia spontanea e pura, senza fasi intermedie e senza capi e insieme disperato e pessimista per la consapevolezza che d’un’utopia appunto si trattava, essendo in realtà la classe operaia isolata e debole. La disperazione pessimistica: in Lucano, politicamente reazionario, una filosofia rivoluzionaria; in Korsch, reazionario filosoficamente, rivoluzionaria la politica. Rovesci della medesima medaglia, la stessa quanto mai ‘romantica’ contraddizione: che appunto il classicista-illuminista Leopardi, col suo materialismo e antimoderatismo, era chiamato a comporre.
Di diverso segno sono i dissensi d’àmbito leopardiano rispetto a Binni. Per quest’ultimo, del quale Timpanaro disapprova anche la posizione riduttiva verso gli studi di Umberto Bosco e, in altro senso, di Emilio Bigi, vi è la forte presenza in Leopardi di motivi romantici assolutamente distinti da quelli originati da quelle concezioni e ispirazioni filosofico-culturali reazionarie o reazionario-religiose che in quan
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to tali sono proprie di altri scrittori e di altri pensatori e che sono aliene dalla visione del mondo leopardiana; anzi, Leopardi più d’ogni altro riesce ad evitare esattamente a quelle «istanze di fondo», che rendono non casuale il suo trait d’union con il romanticismo, la degenerazione mistico-irrazionalistica, come invece poteva avvenire nel romanticismo cosiddetto “ufficiale”. Sempre fondamentale, a nostro avviso, un passo di Binni: Alla linea classicismo-illuminismo in cui il Timpanaro chiude la posizione del Leopardi di fronte ad ogni raccordo e componente romantici si potrebbe rispondere adeguatamente solo con un discorso lungo e articolato che investirebbe la ridefinizione della realtà non schematica di «romanticismo» «illuminismo» «classicismo»: un discorso solo in parte avviato da varie obbiezioni mosse da vari recensori del libro di Timpanaro e che più recentemente (prendendo le mosse da questo mio saggio) è stato ripreso direttamente su Leopardi da P. Fasano (Leopardi controromantico, in «Il Ponte», giugno 1971) in un saggio, che tende a vedere un Leopardi il quale svolge a suo modo istanze romantiche di fondo, mentre combatte posizioni “ufficiali” e precise e qualificate linee di romanticismo spiritualistico reazionario e ottimisticamente “progressista”, senza così risultare un puro e semplice classicista illuministico, tanta è la pressione di elementi preromantici da lui assorbiti (e si veda per il problema più generale del romanticismo italiano il mio saggio La battaglia classico-romantica in Italia in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 3a ediz. 1963) e tante sono le attrazioni e i connotati di tipo romantico che Leopardi subisce e presenta pur riassorbendole e sviluppandole in una sua particolare via e difendendole da sconfinamenti nel romanticismo reazionario o artisticamente approssimativo con l’arma del classicismo e dell’illuminismo. Né del resto il problema di un romanticismo classicista riguarda solo Leopardi, ma tante altre grandi personalità del primo ottocento europeo in una vasta raggera di posizioni male schematizzabile34.
Il fatto è che l’impostazione storico-critica di Binni poggia, riguardo al romanticismo come movimento culturale e letterario e in relazione alle posizioni di Timpanaro, soprattutto sul concetto di “libertà”, sia sul piano dell’estetica, della concezione e della pratica di composizione artistica (come affrancamento dalla regolistica del “bello” e del “decoro” formale, più o meno apertamente imposti), sia sul piano ideologico, come generale moto di ribellione all’oppressione politica e, da parte d’alcuni popoli ancor più sfortunati di altri, come aspirazione all’indipendenza nazionale; in Timpanaro, a differenza che in Binni, prevale nella visione del romanticismo l’idea del recupero d’un misticismo spiritualistico-religiosizzante – interessato regresso rispetto alle conquiste del materialismo settecentesco e fattore di condizionamento negativo di molti aspetti progressisti (non certo sottaciuti da Timpanaro) dell’esperienza storica romantica. Sulla fusione, non sempre segnata da aspetti contraddittori, di componenti classicistiche e di componenti romantiche nel passaggio Settecento-Ottocento, ci sia consentito citare, in relazione alle posizioni di Timpanaro, un secondo brano di Binni, in Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento35: I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
I motivi più vivi del gusto neoclassico, sempre appoggiati allo stile delle arti figurative (Appiani e soprattutto Canova), verranno agli inizi del secolo ripresi e nuovamente svolti dal Monti e dal Foscolo e fecondati in quest’ultimo dal suo potente spirito romantico in una speciale linea neoclassico-romantica in cui gli elementi di nostalgia, di aspirazione ad un mondo perfetto di bellezza agiranno come distinzione dal romanticismo ufficiale, ma anche come trasformazione, essa stessa, a suo modo, romantica, di quegli elementi di perspicuitas, di regolarità, di chiarezza, di sicurezza formale che nel Settecento erano rimasti, anche nella valida espressione poetica pariniana, più legati ad una concezione edonistica della poesia. E in tal senso le esili sintesi preromantiche di un Pindemonte o di un Bertola e il premere, anche se combattuto, dei fermenti preromantici avevano il valore di un esempio e di uno stimolo essenziali sulla via della grande sintesi letteraria e poetica foscoliana, vero culmine di un’epoca di crisi e di ricerche.
Alla perplessità sulla «speciale linea neoclassico-romantica» e sul termine «preromanticismo» (come su ogni definizione “combinatoria”), Timpanaro fa corrispondere un consenso si può dire totale con l’interpretazione alfieriana e con molti altri aspetti degli studi, non solo leopardiani, di Binni (cfr. Aspetti e figure della cultura ottocentesca, passim). Da parte di quest’ultimo (Binni, appunto), nella Lettura delle «Operette morali» (Genova, Marietti, 1987) si riequilibra quella che appare una non compiuta valutazione, rintracciabile nella Nuova poetica, del Leopardi idillico anteriore al 1830. Ed è sempre segnato dal consenso il riferimento a Timpanaro nella Lezioni leopardiane (su argomenti che vanno dal Giordani al «potenziale democratico» del «pensiero materialistico leopardiano»)36. Sul problema del romanticismo (che occupa gran parte della Prefazione alla seconda edizione di Classicismo e illuminismo, una Prefazione che deve essere per intero riaffidata al lettore, anche nella freschezza di tono delle polemiche con Samonà, con Vené e con altri studiosi) converrà, qui, un’apertura sul dialogo, o sul confronto critico, con Umberto Carpi, studioso che ebbe con Timpanaro una lunga e non infeconda discussione riguardante il ruolo del gruppo dei moderati toscani della «Nuova Antologia» (un nucleo polemico che, com’era naturale, data l’importanza dell’argomento e le discussioni di quegli anni, e data ovviamente la statura dei protagonisti, s’ampliò fino ad investire tematiche di ancor maggiore riscontro e d’ancor più vasta risonanza ideologica e letteraria). Nel citato contributo su Timpanaro e il problema del romanticismo37, Carpi ripercorre le grandi e note opzioni culturali e politiche di Timpanaro nei decennî: impressiona […] constatare come sia nel vivo dello specialistico lavoro di storico della filologia che cresca il bisogno di filosofia e di teoria, di critica politica delle ideologie. Certo, da sempre, la passione politica militante e, negli anni cinquanta, il precisarsi della scelta marxista; certo, negli anni sessanta del centrosinistra e poi della nuova sinistra, stimoli esterni fortissimi alla politicizzazione della ricerca e del lavoro culturale: ne verranno intrisi negli anni successivi la critica del marxismo hegeliano e dialettico da lui posto a fondamento del giustificazionismo storico e del gradualismo politico, la critica del freudismo e dello strutturalismo, quella asperrima contro il
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
riformismo di impostazione togliattiana nella variante berlingueriana del compromesso storico e contro alcune espressioni storiografiche che gli parvero ad esso organiche e insieme quella contro l’estremismo spontaneistico e volontaristico.
L’itinerario è qui sinteticamente (e assai efficacemente) delineato. Dal centrale laboratorio leopardiano e ottocentistico si diffonde la visione critica costituita dalla novecentistica timpanariana, già connotata con precisione, anche se con frequenti ripensamenti metodologici, dall’antihegelismo, dall’antidialettica e dall’antiidealismo, e altresì segnata (con la citata premessa di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin) dal severo esame del gramscismo, dalla dura analisi del gradualismo compromissorio da Togliatti agli esiti recenti, dall’amara diffidenza per lo spontaneismo giovanilista e incondito, dalla critica della psicoanalisi, dell’antropologia, dello strutturalismo. È questo, evocato per tappe essenziali, il percorso culturale di Timpanaro, al di fuori delle specifiche competenze di antichista, di filologo latinista. Ma dall’analisi di Carpi s’evince ovviamente molto di più; anzitutto, la progressiva ridefinizione in Timpanaro del giudizio critico antiromantico, che sempre più si chiarisce come valido in àmbito tedesco (più complesso e più scopertamente vicino ai recuperi culturali medievaleggianti, intuizionistici e irrazionalistici, e più denso di novecenteschi sviluppi imperialistici e reazionarî) anziché in quell’àmbito italiano già indicato nella prefazione a Classicismo e illuminismo del 1969 come intriso di motivi illuministici e da essi in buona parte derivante (si parla soprattutto del romanticismo lombardo, indubbiamente la più connotante e avanzata ricaduta del romanticismo europeo nel contesto italiano). In Antileopardiani (p. 29) Timpanaro smentirà la possibile equazione romanticismo-reazionarismo: «il Romanticismo non è affatto qualificabile, nel suo insieme, come un movimento reazionario». Lo studioso, insomma, appare più antiromantico verso la Germania e verso una cultura ben più antiilluministica della corrispondente cultura romantica italiana, mentre per converso, riguardo all’Italia, Timpanaro appare filoilluminista e filoclassicista più ancora che antiromantico (proprio per relativa esiguità dell’oggetto di polemica). Lo stesso approfondimento della filologia, della linguistica e della «cultura romantica tedesca» amplia il respiro europeo dei saggi di Timpanaro, i quali, all’epoca degli studi su Giacomo Lignana e su Il primo Cinquantennio della «Rivista di filologia e d’istruzione classica», mostrano d’essersi grandemente avvantaggiati della riflessione sui fratelli Schlegel, su Franz Bopp, su August Boeckh; significativa, a questo proposito, la predilezione per la filologia integrale (tutt’altro che aliena, anzi consustanzialmente marcata dall’intuizionismo spiritualistico schleiermacheriano) di Boeckh, per la sua filosofia-filologia, rispetto al mero filologismo «interpretazione-emendazione» di Hermann: ma anche questo dato funziona in chiave antihegeliana, insomma contro «l’esclusivo filosofismo di Hegel»38. E Timpanaro, nel frattempo, ha sviluppato altre premesse, formatesi principalmente nell’attiva collaborazione a «Società»; molto gli deriva dalla polemica d’un Lucio Colletti ancora marxista con Giulio Preti e con l’impostazione neopositivistica di Materialismo storico e teoria dell’evoluzione, una polemica non condotta in nome di Hegel, bensì in nome d’«una risposta marxista-materialista, diciamo un materialismo I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
storico materialista e non storicista» (e l’Engels di Timpanaro è «la buona coscienza antidealistica e darwiniana» di Marx, dove quello collettiano estremizza la radice dialettica che collega Marx al “vecchio” Hegel); altrettale contributo proviene, secondo Carpi, dai saggi di Pietro Omodeo sulla vexata quaestio sei-settecentesca della generazione spontanea o meno, sul pensiero materialistico-evoluzionistico, su quelle scienze della natura all’interno delle quali Timpanaro diffiderà della chimica e della fisica – soprattutto della seconda e della sua «funzione […] di incubatrice dell’idealismo e del metodologismo» nel Novecento – per trovare invece profonda consonanza con le scienze biologiche (geologia, paleontologia, biologia evoluzionistica); altre sollecitazioni muovono dal Sergio Landucci di Metodologismo e agnosticismo e da I filosofi e le macchine di Paolo Rossi. Né sono meno importanti le Osservazioni sul termine struttura di Giulio Lepschy, in questo caso (1962) pubblicate nella sede degli «Annali della Scuola Normale Superiore» di Pisa: è il crinale, il discrimine tra scienze della natura e scienze dello spirito il vero argomento, o meglio il vero problema centrale per gli studiosi strutturalisti di allora, e, di riflesso, tale esso è anche per Timpanaro. Di riflesso, perché, sugli stessi temi ma in ribaltata prospettiva (quindi in chiave antistrutturalista), lo studioso filoilluminista affronterà nei saggi schlegeliani la relazione tra biologia, antropologia e linguistica nell’Ottocento: fondamentale diverrà, come lo era per Lepschy, la figura di Humboldt, e il confronto serrato (dopo quelli con Omodeo e con Colletti, e con il materialismo nelle scienze della natura e nelle scienze storiche) sarà con il Cassirer della Filosofia delle forme simboliche, di cui Timpanaro, pur così lontano da quell’impostazione spiritualista, si vedrà imporre dal punto di vista linguistico la inquietante centralità, fra Herder Schelling e Schlegel, del romantico – postilluministico e postkantiano – concetto di organismo e la non meno inquietante ineludibilità di Wilhelm von Humboldt per comprendere lo stesso superamento del romanticismo schlegeliano operato da Franz Bopp. Insomma, la strada per giungere all’evoluzionismo darwiniano dal materialismo e sensismo settecenteschi era stata in Europa troppo più lunga e tormentata di quanto gli italiani capitoli antiromantici e filoclassicisti avessero lasciato intendere: rispetto ad essi non solo i saggi materialisti (engelsiani e antihegeliani) di «Quaderni piacentini», ma anche, anzi soprattutto questi linguistici di «Critica storica» (e lo stesso vale per gli studi freudiani) rappresentarono un notevole sforzo, da parte di Timpanaro, di aprire la propria riflessione filosofica e ideologica alla medesima dimensione europea che da subito aveva caratterizzato le sue ricerche di storia della filologia classica (Timpanaro e il problema del romanticismo, cit., p. 157).
Ed è precisamente lo studio della linguistica romantica, come anche delle premesse teoriche del romanticismo, a spiegare in retrospettiva, tramite i saggi schlegeliani del 1972 e del 1973, i lavori sul pensiero di Leopardi (apparso in «Critica storica» nel 1964) e su Cattaneo ed Ascoli (apparso nella «Rivista storica italiana» nel 1961 e nel 1962). Senza lo studio della linguistica romantica tedesca, avverte Carpi, non sarebbero realmente intelligibili lo stesso spirito culturale classicista che ha presieduto a quegli importanti paragrafi d’ottocentistica italiana, né «le successive, reiterate pro
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teste contro la taccia di mero antiromantico»: «fra evoluzione della scienza linguistica e delle scienze naturali e fisico-chimiche e a prescindere dal rigetto ideologico, netto ma estrinseco, di spiritualismi razzismi nazionalismi, l’antiromanticismo tutto settecentesco-materialistico di Timpanaro» è «messo a dura prova dal romanticismo postilluministico schlegeliano e in generale jenese e dalla stessa Naturphilosophie di Schelling». Nello stesso modo, non è possibile capire nella loro ampiezza le implicazioni filosofico-scientifiche e letterarie della battaglia culturale di Timpanaro senza alcune «riflessioni», «più interlocutorie che conclusive»; tre punti, in particolare, scandiscono l’argomentazione di Carpi. Innanzi tutto, la sostanziale rimozione (in un Timpanaro segnato dall’antihegelismo più che dalla chiusura antiromantica) del forte antiromanticismo di Hegel, della sua critica alla disgregazione dell’oggettività e all’abbandono della Rivoluzione; la «critica più radicale e inconciliabile del romanticismo», insomma, una «critica al cuore del romanticismo», proviene proprio da origine hegeliana e provoca incertezze, a dire di Carpi, esattamente in sede filosofica, più che di opzione o di giudizio storico-politico: «Il vero spiritualismo antimaterialistico, per Timpanaro, è lo hegeliano più che il romantico», se è vero che lo studioso della linguistica schlegeliana definisce «intreccio di arbitrio metafisico e di acuta intuizione storica» la Sprache und Weisheit der Indier, con un giudizio che in realtà non si limita a questa singola opera: «La verità è che il totale rifiuto di Hegel, e dunque un Marx adialettico, rendono Timpanaro incerto di fronte alla critica romantica e irrazionalistica della società borghese». E questa considerazione vale anche, almeno in parte, per il Nietzsche di un Timpanaro che, una volta fatto sgombrare il campo da interpretazioni degenerazioni strumentalizzazioni postume (rimozione del tutto necessaria, come poco oltre vedremo), manifesta in Il lapsus freudiano, quindi già dal 1974 (e prima ancora), la sua insofferenza per il “semplicismo” della valutazione di György Lukács. In secondo luogo, ricordando l’«imbarazzante» concetto di «energia» nella Naturphilosophie di Schelling, e altresì ricordando la linguistica di Schlegel, «così implicata nelle analogie con fissismo ed evoluzionismo nelle scienze biologiche e zoologiche della natura», si può arguire, come s’intuiva dalle premesse del ragionamento di Carpi che qui come altrove appare del tutto sottoscrivibile, che «il romanticismo […] imbarazzava il materialista settecentesco senza Hegel proprio sul terreno della materia, e non da posizioni necessariamente arretrate dal punto di vista scientifico, anzi!». Ed infine, in cauda quaestio, l’acuta Frage di Carpi, espressa in interrogativa indiretta, mirante esattamente alla riproposta del dubbio sulla collocazione letteraria di Leopardi e di Lucano, e della loro disperazione; collocazione letteraria che, certo, ancora una volta s’alimenta dell’individuazione, o del tentativo in tal senso, di non precostituite categorie ideologiche: «Non si tratterà solo di vedere come questo antiromantico ma tormentato e talvolta affascinato confronto politico e ideologico con il romanticismo si sia tradotto in concreta storia di filologi e di linguisti romantici, ovvero antiromanticamente classicisti e illuministi […], ma anche se per caso non abbia significativamente connotato il cosmico pessimismo biologicoesistenziale del suo Leopardi (cioè del suo materialismo), il disperato pessimismo titanistico del suo Lucano (cioè della sua visione della politica)» (p. 160). Molto nel I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
discorso di Carpi punta, al di là degli argomenti specificamente trattati, al Leopardi di Timpanaro, alla sua collocazione classicistica ma non indipendente dal romanticismo, al suo materialismo intessuto di varie componenti, al valore cosmico della sua amara filosofia, alla risonanza critica del suo pensiero pessimistico sulla società a lui coeva e su quella a venire. E proprio su Leopardi, come su Lucano, è non a caso centrato il finale, autentica meta d’un ragionamento che riguarda tutto il rapporto di Timpanaro con il romanticismo; e, in particolar modo, appare degna di rilievo la sottolineatura del termine «cosmico», aggettivo di peculiare connotazione leopardiana, un «cosmico» che deflagra e che riecheggia con quell’ampiezza “totalizzante”, realmente capace d’investire l’universale della materia e l’universale dei mondi e il pensiero sull’uomo quale essere senza destino (oggetto quest’ultimo, pur se non unico, della deprecatio antiromantica hegeliana), che non sembra poter escludere, e men che mai completamente, la presenza della chiave romantica, o, quanto meno, un confronto compenetrante con questa chiave, proprio, e significativamente, nell’eroe, che tale rimane, del pessimismo materialistico-biologico. *** Il vero e proprio dialogo critico di Timpanaro avviene, in gran parte, con gli studiosi convinti d’un Leopardi materialista e “democratico”, attestato su posizioni ideologiche avanzate, o, almeno, sempre dichiarabili come tali dall’intellettuale che professa, del tutto o parzialmente, un’origine culturale sensistico-illuministica. Se si è potuta affermare l’idea (non immotivata, anche se bisognosa di precisazioni al suo interno) d’una linea esegetica Luporini-Binni-Timpanaro-Biral, ciò è avvenuto perché vi sono filoni interpretativi manifestamente diversi da quello materialistico, rispetto ai quali è diverso l’atteggiamento di Timpanaro. Più che oggetto di diretta polemica, la tradizione, o le tradizioni critiche che tendono a scindere Leopardi dall’illuminismo e dalle basi settecentesche della sua cultura, e che ricercano piuttosto le «discendenze novecentesche» del poeta e del pensatore, sono evocate con grandi segnali di conoscenza degli argomenti, ma anche con perspicui indicatori di “distanza”, di lontananza dello studioso da queste impostazioni. La vera polemica (anche diretta, se così la vogliamo definire) viene condotta negli scambi critici, nei riposizionamenti che Timpanaro effettua nel suo “colloquio illuministico” con quelle sponde bibliografiche che qualitativamente sono eleggibili a titolari di dialogo: è lì che il filologo leopardista critica, polemizza, sottrae le basi alle letture irrazionalistiche, antisettecentesche, romanticheggianti di Leopardi; la pars destruens nasce e si sviluppa nei saggi dedicati alla discussione con i materialisti, con i marxisti, anche con gli studiosi di diversa impostazione ideologico-culturale, ma non si attua frontalmente nei riguardi dei portatori d’una visione di Leopardi del tutto aliena dalla sua. La pars destruens si enuclea e deve enuclearsi pur sempre all’interno della pars instruens. Sarebbe dunque fuori luogo attendersi un affondo critico scritto su impostazioni come, ad esempio, quella di Gioanola in Leopardi, la malinconia39. Sia in tal senso sufficiente rammentare che Timpanaro ha tra i suoi più individuati bersagli polemici le
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esperienze di fruizione letteraria che mirano, e sono singolarmente premiate con successo di sospetta origine dall’attualità storica, ad attirare Leopardi in un àmbito novecentesco (qui si parla, come si è detto, d’una tendenza fin troppo generalizzata, indipendentemente dalla stessa esperienza lettoriale e critica di Gioanola) disponibile a paralleli e a discutibili rinvenimenti d’elettiva affinità con Valéry, con Ungaretti e con altre vicende poetiche del Novecento, con la concezione e con gli autori di “opere aperte”, o, sul piano filosofico, addirittura con il pensiero di Heidegger. Ma nella Prefazione ai Nuovi studi la citazione polemica del nome di Antonio Prete (peraltro apprezzato per precedenti contributi) evoca quella “linea” di studiosi che annoverando – ognuno nel suo filone interpretativo leopardiano – Antonio Negri, Emanuele Severino ed altri, è valorizzata, nell’opera di Gioanola, quale unica tendenza che sia realmente in grado di superare l’esegesi ideologica ottocentesca: in definitiva, sono Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche i tre filosofi ottocenteschi che hanno messo nell’angolo il panlogismo dialettico-storicistico. Sul vitalismo nietzscheano basti la distinzione, formulata nei Nuovi studi, a proposito di Il Leopardi e la Rivoluzione francese: «Vitalità nel senso leopardiano – da non confondere, come molti studiosi hanno cercato di fare, col vitalismo di Nietzsche e, peggio che mai, con le successive degenerazioni – significa anche vera e non ipocrita moralità» (pp. 137-138). Più concreto, rispetto ad altri accostamenti o ad altre affiliazioni secondoottocentesche o risolutamente (e talora suggestivamente) novecentesche, è il riscontro offerto da Timpanaro a proposito del Nietzsche esaltatore della filologia di Leopardi, nel citato La filologia di Giacomo Leopardi 40. È ormai nota l’iperbole elogiativa ritrovata negli appunti di Nietzsche: «Leopardi ist das moderne ideal eines Philologen; die deutschen Philologen können nichts machen» («Leopardi è l’ideale moderno di un filologo; i filologi tedeschi non sono capaci di far nulla)». Affermazione antitedesca, pronuncia paradossale o asserzione in certa misura fondata? L’interrogativo di Timpanaro non esclude il paradosso né la dose di forzatura, ma non rinuncia per questo a sottolineare come Nietzsche fosse in grado di giudicare su concrete basi l’attività propriamente filologica, tecnica, scientifico-razionalistica di Leopardi: «Bisogna senz’altro rispondere di sì. Non si deve pensare alla Nascita della tragedia, ma al rigoroso apprendistato filologico-formale che Nietzsche aveva compiuto alla scuola di Friedrich Wilhelm Ritschl e ai lavori su Teognide, su Diogene Laerzio, sul Certamen Homeri et Hesiodi che era venuto pubblicando, soprattutto nel «Rheinisches Museum», tra il 1867 e il 1873». E propriamente filologici sono i lavori che Nietzsche, già ammiratore del poeta, avrà letto di Leopardi: Altra questione: che cosa poté Nietzsche conoscere del Leopardi filologo? Con tutta probabilità gli excerpta pubblicati nel «Rheinisches Museum» del 1835 (e citati anche da qualche filologo tedesco, per esempio […] dal Westermann nei Paradoxographi del 1839); verosimilmente anche le note a Flegonte e a Celso uscite nei «Neue Jarbücher» del 1840. Non escluderei neppure gli Studi filologici editi da Pellegrini e Giordani nel 1845: essi apparvero come volume terzo delle Opere leopardiane i cui primi due volumi, comprendenti fra l’altro i Canti e le Operette morali, erano usciti a cura del Ranieri: Nietzsche, conoscitore del Leopardi poeta e scrittore, avrà avuto fra mano
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tutti e tre i volumi e nel terzo avrà potuto leggere gli articoli su Filone e sul De republica di Cicerone (p. 188).
Rimane però in vigore la sovrapposizione compiuta da Nietzsche della figura del poeta a quella del filologo tecnico. L’«unione di filologia e poesia» contiene un «forte riferimento autobiografico», come confermano (La filologia, p. 188) gli accenni dello stesso periodo a Goethe e a Leopardi, gli ultimi grandi rappresentanti della tradizione umanistica italiana, che univa alla filologia la poesia. Si confondeva così la «classicità» del Leopardi poeta e scrittore (alla quale certo non era stata estranea, come apprendistato, la filologia) con la sua specifica attività di filologo, che […] era più scientifico-razionalistica che mirante a una «sintesi» di filologia e di poesia: paragonabile, quindi, agli articoli strettamente filologici di Nietzsche ai quali abbiamo accennato (e che non si discostano sostanzialmente, per il metodo, dai tanti lavori «tedeschi» della scuola di Gottfried Hermann e di Ritschl), non alla Nascita della tragedia o agli scritti su Wagner resuscitatore della simbiosi greca di poesia e musica: una tematica che al Leopardi sarebbe riuscita del tutto estranea (pp. 188-189).
Se la filologia ancora una volta reclama in Leopardi la propria sfera e il proprio rango d’attività peculiare e indipendente, non si può altrettanto dire, con speculare schematismo, che la sua concezione della «letteratura» non partecipi della «filosofia», e non sul piano della sola etica (la definizione di «moralista», come scrive Timpanaro nella citata prefazione ai Nuovi studi, appare alquanto riduttiva). Leopardi rimane un intellettuale, un poeta-filosofo di formazione sensistica e materialistica, un autore che «non sacrifica il significato al significante», uno scrittore le cui espressioni artistiche rappresentano uno «strumento conoscitivo» in quanto “poesia – o prosa – di un pensiero”, «di quel pensiero»; da questa prospettiva riescono ben difficili, alla luce degli sviluppi letterarî novecenteschi, operazioni critiche tese ad attualizzarne «alla leggera» la lezione ideologica e creativa; Leopardi non può, insomma, essere considerato un precursore dell’estetica della “poesia pura”, né «è stato mai poeta di pure immagini o di puri suoni […]: da questo punto di vista, non è un “contemporaneo”, e va letto “storicamente”. Chi si sente suo contemporaneo (non solo ammiratore ma “seguace”) deve avere la consapevolezza di trovarsi in una posizione di minoranza» (Prefazione, cit., p. XVII); e prima ancora Timpanaro, nel citato monito sul pericolo costituito da certe incongrue operazioni di acquisizione di Leopardi al Novecento, aveva scritto: «Non si dovrebbe dimenticare che la letteratura italiana del Novecento si è “rifondata”, essenzialmente, su modelli stranieri, specialmente francesi (di una Francia antiilluministica e antimaterialistica). L’ “attualità” del Leopardi è l’attualità di un classico, che durerà «quanto il mondo lontana», se il mondo non precipiterà in un funesto miscuglio di barbarie misticheggiante e superstiziosa nello stesso tempo» (ibidem). Poco più sotto (p. XVIII), espresse in due interrogative dirette, vi sono le ultime parole della Prefazione ai Nuovi studi, propriamente dedicate a Leopardi, due num d’affilato diniego d’ogni ispirazione non materialistica del poeta della Ginestra:
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Quando il Leopardi maturo, sull’onda dei più arditi materialisti sei-settecenteschi, arriva alla conclusione che «pensante» non è un principio spirituale, divino, ma «la materia», il cervello, quando nei Paralipomeni nega che vi sia alcuna distinzione assoluta, qualitativa tra l’anima umana e quella delle bestie (e su questo problema aveva meditato fin da fanciullo), si può parlare soltanto di un Leopardi moralista? O si può illudersi di vedere in questi pensieri dei residui di “materialismo volgare”, come molti tuttora fanno e faranno?
Si veda più da vicino l’importanza della strategia materialistica di Timpanaro dagli anni 1980. Del 1985 è la traduzione del Bon sens di d’Holbach41; del 1988 la traduzione del Cicerone del De divinatione, poi aggiornata e ristampata fino al 2001; del 1992 è la presentazione dello Zola de La fortuna dei Rougon (La fortune des Rougon); del 1993 è la traduzione de La conquista di Plassans (La conquête de Plassans), sempre di Zola; su Cicerone, autore connesso per tanti versi agli sviluppi dell’ideologia di Timpanaro, e a sua volta intellettuale chiave ai fini d’una reale comprensione della sua antichistica, ci soffermeremo più sotto; ma da d’Holbach a Zola, Timpanaro compie un preciso percorso di studio e d’illustrazione del materialismo francese, dalla sua declinazione filosofica settecentesca alla rinnovata e profondamente mutata visione naturalistico-positivistica che è propria dell’arte prosastica zoliana e del focus narrativo d’un ciclo di romanzi (i Rougon-Macquart, ovviamente) che coniuga la continuità e gli interni raccordi strutturali con l’autonomia, con la distribuita fruibilità delle singole opere, che devono poter esser lette anche come nuclei affabulativi indipendenti; qui Timpanaro, insieme a Lanfranco Binni, approfondisce la dilogia provenzale di Zola («Plassans» sta per Aix-en-Provence) seguendo i meccanismi di formazione, di ricambio e di adeguamento al Secondo Impero d’una borghesia provinciale ricca di fermenti vitali ma anche di squallore e di meschina, interessata grettezza, e di voglia, ipocrita e spregiudicata insieme, di ascesa socioeconomica: una borghesia pronta a trasformarsi in classe politica e a veicolare a partire dalla realtà provinciale, e pur con alcune sostanziali differenze, gli stessi caratteri di cinismo d’una Parigi lontana quanto a riscontri di potere e a prestigio, ma assai vicina quanto a temperie umana ed a percorsi di tabe pubblica e amministrativa. Per ora, basti osservare l’appartenenza di queste indagini sul materialismo filosofico-letterario e sui suoi testi alla stessa collana (i «Grandi libri Garzanti»), che può accampare grandi benemerenze scientificodivulgative; e «opera di alta divulgazione scientifica» è definito questo tragitto pubblicistico di Timpanaro, il quale, mosso da intento “pedagogico” d’elevato profilo, riesce ad avvicinare al pubblico dei lettori alcune fondamentali esperienze del pensiero laico fra illuminismo (illuminismo non voltairiano) e positivismo, fra Settecento ed Ottocento; riesce, insomma, a congiungere scientificità e divulgazione come componenti d’un vero sintagma, mentre spesso (ed è un problema di generale cultura) accade che, se associate, esse entrino in contraddizione nella fase esecutiva e implodano in un sintagma antinomico. Prendiamo l’introduzione al Buon senso di d’Holbach (in special modo le pp. XVIII-XXIII); anche il barone, come pensatore politico, può essere giudicato “ardito”, in quanto a suo modo rifugge dal classismo, ma non per questo egli è sfiorato I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
dall’anelito egualitario, ed anzi vede tutto come esigenza di armonia, di non competizione fra le classi, senza riconoscere che l’essenza del «conflitto» tra di esse è alla base dei processi storici; la proprietà privata, aggiunge criticamente Timpanaro, ha «carattere “aggressivo” ed esclusivo» e «ha per condizione necessaria l’espropriazione»: la proprietà, insomma, è un concetto così assurdo, ingiusto e incoerente da racchiudere ed enunciare in sé la negazione etimologica del proprio stesso significato; neppure il giacobinismo, durante la Rivoluzione, ha piena coscienza (una “coscienza” che ancor più manca al d’Holbach) dei rapporti di produzione capitalistici quali si vengono sviluppando in Inghilterra. E, dato particolarmente importante in un’ottica leopardiana, tale “forbice” tra materialismo in chiave antireligiosa, nerbo concettuale dell’impostazione laica di d’Holbach, e pensiero propriamente politico, si pone come divaricazione ricorrente nella storia della filosofia e dell’ideologia materialistica, e, come tale, di notevole occorrenza nella stessa riflessione e nella stessa saggistica di Timpanaro: «C’è, inoltre, una sfasatura molto forte tra l’Holbach critico radicale della religione e l’Holbach riformatore etico-sociale, tra le cosiddette pars destruens e pars construens. La sua negazione del deismo non era funzionale agli interessi della borghesia e non voleva nemmeno esserlo, perché la lotta contro ogni concetto di divinità e di teodicea andava al di là dell’orizzonte politico-sociale in senso specifico, coinvolgeva il problema della condizione dell’uomo nel mondo, dell’infelicità umana e delle sue false consolazioni. Ed è questo Holbach, dissacratore anche su un piano metapolitico, che rimane il più originale e il più alto, il meno legato a una situazione storica transeunte» (p. XXII). Contro il dio-orologiaio di Voltaire, vi sarà la materia endocinetica, dotata e capace di movimento, di energia, di dinamismo, di interna azione: concetti che, pur così enumerati, non sono fra loro incoerenti; e altrettanto si dica dell’importanza degli studi di chimica e di mineralogia, anche se a lui servono, più che per un interesse in sé, valido sul puro piano scientifico-cognitivo, per attivamente dimostrare concetti antireligiosi, per una radicale polemica contro la religione: e da parte sua Diderot (che, al contrario di Voltaire, è grande amico di d’Holbach) intuisce in prospettiva non solo settecentesca, illuministica, ma anche in vista del futuro, il valore della biologia come scienza decisiva, per il materialismo, più della matematica e dell’astronomia. Ma le scarse cognizioni e l’arretrato grado di riflessione concettuale dell’epoca sui dati e sulle leggi esperienziali non permettono alla stessa biologia di compiere il “salto” qualitativo che sarebbe in tal senso stato necessario. Sarebbe comunque stata una scienza sperimentale, di laboratorio, una scienza rigorosa ma di protocollo empirico-induttivo, a veicolare la possibilità d’un’interpretazione del mondo fisico terrestre e, altresì, d’una cosmologia che va con ogni mezzo e con ogni impegno sottratta al pericolo, fin troppo ricorrente, d’una ricaduta metafisica: non una scienza matematizzante, di statuto epistemologico razionalistico e deduttivo. Dalla biologia sarebbe potuto provenire il concetto di generazione spontanea di certi organismi, che avrebbe fornito una spiegazione al «passaggio dal non vivo al vivo» (analoga risposta vi sarebbe stata all’interrogativo riguardo al passaggio dal vivente al pensante, e dal pensante all’essere etico). Ma d’Holbach non vuole correre rischi di esposizione ad una teoria interpretativa della natura, che, allora
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non sufficientemente supportata, avrebbe forse favorito (e spesso di fatto, trattata da altri, favorì) la confutazione e quindi anche la reazione spiritualistica dei romantici. Diversamente, in questo, dal cosiddetto preromanticismo e da Rousseau, egli può sempre essere ricordato contro gli scienziati che «utilizzano la loro dottrina a pro dell’oscurantismo». Il forte antiteleologismo, l’intento scientifico-didattico che connotano il Buon senso rispetto al Sistema della natura, l’atteggiamento di “non ammirazione” davanti alla natura stessa, caratterizzano in modo peculiare l’opera d’holbachiana, e riguardo all’ultimo punto la differenziano da quella di Lucrezio, a cui pure anche il barone in parte s’ispira, e da quella di Leopardi, sommo disvelatore degli inganni della natura, ma proprio per questo transitato da una lunga fase di contemplazione della sua altera bellezza, algidamente aliena dall’umano o a lui ostile e capace di rivelarsi tale proprio perché e nell’esatta misura in cui essa è indagabile e liricamente fruibile. Ancor più netta, s’intende, fino ad esiti anticipatamente contrappositivi, è la differenza dal romanticismo e dalla Naturphilosophie schellinghiana e provvidenzialistica. La scrittura del Buon senso è volutamente “facile”-divulgativa: l’indole non gnoseologica, non scientifica pura degli interessi dell’autore, alla quale si è accennato, fornisce il senso d’una battaglia pratica alla quale è inestricabilmente connesso il protocollo stilistico della scrittura polemica, una scrittura non compiaciuta, non soggiacente al vezzo e all’adescamento estetico, al calligrafismo che non certo di rado s’accompagna anche all’inarcatura invettiva o sdegnato-sarcastica. Contro il concetto di anima, ci si concentra su una serie di funzioni neurofisiologiche di quell’organo complesso che è il cervello, materia pensante ma sotto ogni profilo «materia», e, appunto, organo non per questo meno evoluto e “complicato”. Contro il Dio del Vecchio Testamento, contro il Dio protestante e contro il Dio cattolico, d’Holbach rileva ora le palesi contraddizioni filosofiche (il Dio sanguinario che si fa dopo millennî più mite), ora i danni apportati dal lassismo ipocrita, cattolico-gesuitico-giustificazionistico, ora la spiritualizzazione, laddove gli antichi, la cui religione in tal senso mostrava minori pretese, chiamavano invece il principio vitale «πνεῦμα» o «animus», «spiritus», soffio, principio materiale. Contro la predestinazione (decodificabile come capriccio divino) e contro il libero arbitrio («dono funesto dato a un irresponsabile», come giustamente glossa Timpanaro), contro tutte le forme di deismo (Voltaire, ancora ricordiamolo, sarà un grande avversario di d’Holbach), valgono la ricerca e la diffusione d’un programma d’ateismo per tutti; inutile non ricordare (ma non è da sottovalutare la serie di differenze) i vv. 145-157 de La ginestra («Così fatti pensieri, / quando fien, come fur, palesi al volgo […]»), né si possono certo tralasciare i canti IV e VII dei Paralipomeni; si ricordi IV, XVIII: «Ed ancor più, perché da lunga pezza / è la sua mente a cotal fede usata, / ed ogni fede a che sia quella avvezza / prodotta par da coscienza innata: / che come suol con grande agevolezza / l’usanza con natura esser cangiata, / così vien facilmente alle persone / presa l’usanza lor per la ragione»; e prima ancora, ivi, XVI, 1-6: «in quell’età, d’un’aspra guerra in onta, / altra filosofia regnar fu vista, / a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrossi appena avvista / di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
sostanza amara e trista». Anche sul piano dell’antiteodicea, nel Buon senso si realizza un acquisto in direzione pessimistica rispetto al Sistema della natura; e a nessuno sfugge quanto tale guadagno filosofico-ideologico sia importante per capire il laico materialismo del Leopardi di Timpanaro. Non si tratta, lo si dica ancora una volta, di “leopardizzare” d’Holbach: ma quella “fiera compiacenza”, quel “rifiuto d’ogni conforto stolto” (Amore e morte), quell’avversione, insieme, contro la superbia umanistica e contro l’umiliazione a un Potere superiore, quella convinzione che nessun Dio abbia diritto di punire l’uomo per presunti peccati, quella visione della specie umana costretta a difendersi perpetuamente contro colei che d’Holbach chiama ironicamente la Provvidenza ma che, già per lui, è istigatrice della natura contro l’uomo, rivelano un’affinità innegabile tra il carattere agonistico del pessimismo leopardiano e la posizione di d’Holbach (p. LXV).
Del resto, lo stesso d’Holbach pone fine ad Il buon senso con una citazione dagli Essays on Human Knowledge di Henry Saint-John Bolingbroke: «La teologia è il vaso di Pandora; e se è impossibile richiuderlo, è almeno utile avvertire che questo vaso così funesto è aperto». I rapporti con Leopardi sono, ricorda Timpanaro, documentabili. Leopardi lesse Il buon senso nel 1825, alla vigilia della fase più approfondita della sua elaborazione d’un pensiero materialistico, quella del 1826-1827: cfr. Zibaldone, 9 marzo e 18 settembre 1827; si rilegga una parte di quest’ultima pagina (Zibaldone, 4288): Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene p. lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo.
Un processo argomentativo del tutto analogo governa, quattro anni prima, un passo che riguarda la presunta “naturale sociabilità dell’uomo”, in Zibaldone, 3804-3805 (2530 ottobre 1823); non soltanto la visione idealistico-positiva della genesi della società umana, o la sua bimillenaria codificazione storico-retorica, ma la stessa tradizione sistematico-aristotelica occidentale vedrà ribaltato il discutibile archetipo (tale ormai esso è divenuto) del πολιτικόν ζῷον: Moltissimi, anzi la più parte degli argomenti che si adducono a provare la sociabilità naturale dell’uomo, non hanno valore alcuno, benché sieno molto persuasivi; perciocch’essi veramente non sono tirati dalla considerazione dell’uomo in natura, che noi pochissimo conosciamo, ma dell’uomo quale noi lo conosciamo e siamo soliti di osservarlo, cioè dell’uomo in società ed infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le
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quali essendo una seconda natura, fanno che tuttodì si pigli per naturale, quello che non è se non loro effetto, e bene spesso contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo. Onde gli effetti della società, quello che sola la società ha reso necessario, quello che non è vero se non posta la società, che senza questa non avrebbe luogo ec., si fanno tuttogiorno sentire nelle argomentazioni de’ filosofi a dimostrare la naturale sociabilità dell’uomo, la necessità della società assolutamente e secondo la nostra natura ec. […] Ed infiniti altri sono gli effetti di questo genere che paiono naturalissimi, e dimostrativi della naturale sociabilità dell’uomo, e che per tali si recano tuttogiorno, ma che per vero non sono naturali, se non in quanto naturalmente hanno luogo, posta la società, e le rispettive circostanze ed assuefazioni non naturali; e naturalmente nascono da tali cagioni; né possono non nascere, supposte queste.
E il poeta è giunto a queste conclusioni fin dal 1821 (9 settembre); a proposito dell’accezione linguistico-filosofica di «natura», si vedano alcuni importanti pensieri dello Zibaldone, incentrati sulla riprova del valore di tale termine nell’àmbito dell’arte letteraria (3-6 ottobre 1823, 3613-3616). Innanzi tutto, trattando il carattere eminentemente fisico, somatico, sensibile dei personaggi omerici eroicizzanti (e si parla dell’Omero dell’Iliade), risulta chiaro a Leopardi che natura vuol dire, qui come quasi sempre, «materia», «corporalità»; ma anche come concetto di corporalità, inteso nelle coordinate mitologico-culturali della grecità antica, la natura incarna l’illusione e fornisce illusioni; se in questo stadio del suo pensiero essa è citata come corporalità, in una dittologia oppositiva con spiritualità – ragione, in séguito ragione e illusioni scambieranno i propri ruoli, poiché l’una residuerà come unico mezzo di studio della natura, mentre le illusioni saranno inchiodate al polo negativo definito dalla spiritualità, dalla sfera dell’inganno, dalla sfera dell’astratto: per così dire, l’opposizione del concreto all’astratto, del sensibile al razionabile, della generosa gagliardia delle passioni all’arida ragione, assegna in quel primo tempo il termine stesso di ragione, piuttosto che all’antichità, a una temperie culturale ravvicinabile a quella del medioevo, e assegna invece il termine di illusione al mondo classico, alla civiltà greca, e non è una boutade; «illusione», per il mondo classico, non può che essere un valore dotato d’immediata traduzione in «materialità», espressa in codice artistico, letterario, trasposta in àmbito creativo e ricreativo di queste mirabili forze; e ragione è, allora (nel 1823 e ancora non per molto), proiettato in un modello polemico ancora in parte monaldesco, sinonimo di religione, di spiritualizzazione, di civiltà, di ordine, di razionalità, ed è altresì (e qui già non più in chiave monaldesca) sinonimo d’artefazione, di degenerazione, d’idolatria del progresso tecnico-civile: la ragione criticamente colpita da Leopardi, fin da allora, non è quella illuministica (semmai, si tratta della sua declinazione razionalistico-gesuitica d’ascendenza sei-settecentesca), ma è la “ragione” religiosa, spiritualizzante, moraleggiante, “astratta”42: Da tutte queste considerazioni risulta che l’Iliade oltre all’essere il più perfetto poema epico quanto al disegno, in contrario di quel che generalmente si stima, lo è anche quanto ai caratteri principali, perché questi sono più interessanti che negli altri poemi. E ciò perché sono più amabili. E sono più amabili perché più conformi a natura, più
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umani, e meno perfetti che negli altri poemi. Gli autori de’ quali, secondo la misera spiritualizzazione delle idee che da Omero in poi hanno prodotta e sempre vanno accrescendo i progressi della civiltà e dell’intelletto umano, hanno stimato che i loro Eroi dovessero eccedere il comune non nelle qualità che natura mediocrem. dirozzata e indirizzata produce e promuove […], ma in quelle che nascono e sono nutrite dalla civiltà e dalla coltura e dalle cognizioni e dall’esperienza e dall’uso degli affari e della vita sociale, e dalla sapienza e saviezza, e dalla prudenza e dalle massime morali e insomma dalla ragione. Or quelle qualità sono amabili, queste stimabili, e sovente inamabili ed anche odiose. Gli Eroi dell’Iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri poeti epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie dell’animo, e che dall’animo solo hanno ad esser concepite, e valutate […]. Or, siccome l’uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e qualunque alterazione della natura, sono sempre mossi e dominati dalla materia assai più che dallo spirito, ne segue che i pregi materiali e gli Eroi, dirò così, materiali dell’Iliade, riescano e sieno per sempre riuscire più amabili e quindi più interessanti degli Eroi spirituali e de’ pregi morali divisati negli altri poemi epici. E che Omero, ch’è il cantore e il personificatore della natura, sia per vincer sempre gli altri epici, che hanno voluto essere (qual più qual meno) i cantori e i personificatori della ragione. (Perocché veram. gli Eroi dell’Iliade sono il tipo del perfetto grand’uomo naturale, e quelli degli altri poemi epici del perfetto grand’uomo ragionevole, il quale in natura e secondo natura, è forse ben sovente il più piccolo uomo)43.
Si noti che «materiali» («qualità […] materiali», «pregi materiali», «Eroi […] materiali») è sinonimo di illusioni (quale poeta più di Omero, quali eroi più di quelli iliadici incarnano, e non solo per Leopardi, le grandi e magnanime illusioni antiche e le forze che le stesse illusioni rappresentano e riproducono?) e che «ragione», «ragionevole» sono sinonimi di qualità «spirituali, interiori, morali, proprie dell’animo, e che dall’animo solo hanno ad esser concepite, e valutate», e così «ragione» è sinonimo di «spiritualizzazione»; e i «cantori e i personificatori della ragione» possono trovare nel pius Aeneas, nel religiosissimo eroe troiano, non meno che in Odisseo, la loro compiuta incarnazione artistica (a Virgilio in tal senso più volte Leopardi allude, come del resto ad altri esponenti della più “evoluta” poesia latina). Già si è fatto cenno a quella che è, a sua volta, la propensione antimentalistica e antispiritualistica negli sviluppi del Cicerone neoaccademico; ora, è possibile individuarne, sulla scorta di Timpanaro, nella filosofia pratica, nelle regole di condotta morale inter homines, nella considerazione della figura del saggio e della sua pretesa autonomia non soltanto culturale, ma anche naturale e biologica, la somiglianza con le soluzioni e con gli approdi del pensiero leopardiano, principalmente dal 1824 in poi. Carneade, innanzi tutto; è intorno a questo apprezzabile e tutt’altro che ignoto filosofo che ruota molta parte del pragmatico scetticismo d’un Cicerone che dal canto suo non manca d’essere sempre impegnato nell’opera di riduzione e adattamento dello stoicismo rigoristico non tanto, e banalmente, all’«empirica mentalità romana», come una fin troppo accreditata tradizione di storiografia culturale ha reiteratamente sostenuto, quanto alla “propria” filosofia (non priva d’elementi di vera
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originalità), e per questo incline a rivolgersi a Panezio, meta e non base di certi suoi non casuali percorsi di sdoganamento del pensiero ellenistico (a Panezio, e «per fortuna», dice Timpanaro, assai meno a Posidonio e alla sua promozione d’una reviviscenza del misticismo platonico); consistenti echi d’una morale probabilistica vi sono del resto nel De officiis (opera cui nuoce la propria fortuna), che in tal senso offre espliciti spunti e convinte manifestazioni d’opzione preferenziale e comparativa, pur se non si tratta di spunti approfonditi a livello teorico, come il contesto situazionale del De officiis sembrerebbe permettere e richiedere. Non si nega, qui, la strutturale presenza in Cicerone, com’è ampiamente risaputo, di motivi primoaccademici, di motivi platonici, aristotelici e stoici, né si nega una vicenda, distesa nel tempo, di riflessione sullo stesso stoicismo come pensiero d’incrocio fra provvidenzialismo, immanentismo e immortalità della singola anima, e sull’incerta e discussa “tempistica” della stessa immortalità giusta le varie declinazioni della Stoa e dei suoi rappresentanti; ma nella trilogia teologico-filosofico-religiosa (De natura deorum, De divinatione e De fato) vi è, fra i varî percorsi esperiti, l’emergere dell’illuminismo neoaccademico, la tendenza che maggiormente interessa Timpanaro, ed è una tendenza tutt’altro che scontata nel mondo dell’intellettualità romana, nella sua maggioranza più orientato sull’adesione allo stoicismo e, già in minor misura, sull’epicureismo. Cicerone stesso, non sfugga, s’allinea a una tipologia culturale (Catone, Bruto, fino, se si vuole scorrere verso gli autori successivi, a Lucano, deprecatore della divina iniquità) che, pur con i suoi elementi di discutibilità, si pone come «un mito politico così duraturo» che «deve pur avere, al di sotto di tutti i fraintendimenti e le deformazioni, un nucleo di verità» (p. XVI). E si parla ancora dei fondamenti stoici della sua cultura; ma basta il De fato ad offrire l’esempio d’un’opera incentrata «sul fatalismo stoico e su una concezione meno rigida sostenuta dai neoaccademici». Del resto, perfino l’eclettismo di Cicerone è concetto tutt’altro che definibile in modo unitario, ed è anzi bisognoso, come minimo, d’interne distinzioni: «egli volle, più di quanto si fosse fatto sin allora, informare i romani, specialmente i giovani, su tutti gli indirizzi importanti del pensiero greco, non solo su quelli di età ellenistica, ma anche su Platone, Democrito, Aristotele, senza nemmeno trascurare i presocratici. Non si può tacciare di eclettismo questo lavoro d’informazione e d’inserimento della filosofia nella cultura romana» (p. XVIII). Ma Cicerone (e ciò va ricordato proprio in vista di Leopardi, e più ancora del Leopardi di Timpanaro) ha, e progressivamente conquista, una sua spiccata preferenza filosofica, una sua laica (si potrebbe definire preilluministica) incredulità, una sua coscienza del possibile utilizzo strumentale (instrumentum regni, appunto) della religione e della relativa fede, mezzo idoneo alle possibili manipolazioni dei sentimenti della classe popolare (sia detto con tutto il corredo di dissenso che tale uso suscita nel lettore moderno); e il pensiero ciceroniano si caratterizza, altresì, per una sua precisa valenza filosofica (non ideologica, né certo politica) antiteologica, o, a seconda dei casi e degli scritti, ateologica; né manca una serie d’elementi concettuali e di passi dialogico-letterarî miratamente polemici in direzione sia della teologia epicurea dell’indifferente alienità, sia della varia teologia provvidenzialistica degli stoici: I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Come filosofo in senso proprio, C.[icerone] si è dichiarato (e più energicamente e consapevolmente negli ultimi anni) seguace dell’Accademia nuova, cioè di quell’indirizzo di pensiero, fondato da Carneade di Cirene […], che si rifaceva al «so di non sapere» di Socrate e ai motivi socratici perduranti in Platone, e si contrapponeva quindi al dogmatismo conoscitivo degli epicurei e, più ancora, degli stoici (basato, questo, più su un’identificazione panteistica tra individuo e cosmo che su una teoria gnoseologica rigorosa, nonostante il notevole contributo che gli stoici dettero alla logica), ma d’altra parte, invece di abbandonarsi a una totale negazione della facoltà conoscitiva (come aveva fatto il predecessore di Carneade, Arcesilao), riconosceva la legittimità di un atteggiamento «probabilistico»: la verità assoluta non è raggiungibile, ma si possono riconoscere diversi gradi di approssimazione alla verità, e in base a essi fondare una morale anch’essa aliena da certezze assolute e da rigorismi, ma sufficiente come regola del nostro agire. C’è uno scetticismo che apre la strada al misticismo [si rammentino le involontarie conseguenze – non presso Leopardi – di quella che sarà la battaglia antirazionalistica ed antidogmatica di Enesidemo e di Sesto Empirico, in particolare di quest’ultimo, con i suoi «Πυρρώνειοι ὑποτυπώσεις», gli «Schizzi pirroniani», e con i «Commentari scettici», articolati nei sei libri «Contro i matematici» e nei sei libri «Contro i dogmatici» – corsivo nostro]; non tale era quello di Carneade, il quale combatteva sia la teologia epicurea (gli dèi incuranti della sorte dell’uomo e del mondo, beati nella loro inerzia: io credo tuttora che a Carneade si rifaccia la polemica antiepicuraica del lib. I del De natura deorum), sia la teologia stoica (gli dèi «al servizio dell’uomo», soprattutto desiderosi di farlo felice e, più in generale, di volgere al bene tutto il cosmo con la loro «provvidenza»: in questa concezione rientrava anche la credenza stoica nella divinazione […]): se non era propriamente ateo (anche l’ateismo sarebbe stato, per lui, una concezione dogmatica), Carneade dava impulso a una serrata critica delle religioni in quanto dimostrava assurda ogni possibile concezione della divinità. La scelta del neoaccademismo da parte di C. (specialmente negli Academica, nel De natura deorum, nel De divinatione) non fu dettata da passivo ossequio alla filosofia più diffusa: l’ultimo neoaccademico importante, Clitomaco di Cartagine, espositore del pensiero di Carneade (il quale non aveva lasciato opere scritte), era morto nel 110, qualche anno prima che C. nascesse […] (pp. XVIII-XX).
Notevole, in particolare, la critica rivolta agli stoici (ognuno s’avvedrà di quanti elementi qui vibrino in direzione leopardiana): «sulle orme» di Carneade, Cicerone rimprovera allo stoicismo la adrogantia (l’orgogliosa “sicurezza” nel possesso d’un criterio conoscitivo ed etico), il citato concetto di provvidenza, le «troppe concessioni» alla religiosità popolare e alle forme superstiziose, il rigorismo etico, che porta all’individuazione della virtù come unico bene e della malvagità come unico male e all’indifferenza riguardo alla vita fisica e ad ogni suo bene e male, per una figura di saggio autonomo e ancora una volta tetragono e potenzialmente felice anche se sottoposto a tormentose pressioni esterne (basti appena ricordare l’importanza condizionante e determinante degli accadimenti della vita biologica, e insomma della natura concreta e materiale in Leopardi). Pure nei riguardi degli epicurei, alla critica ciceroniana concernente il disimpegno politico s’unisce la critica al concetto di piacere come sommo bene, che, se «inteso in modo rozzo e immediato», avrebbe potu
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to diventare, come in svariati casi effettivamente divenne, l’ideologia del nuovo ceto d’affaristi che andava affermandosi nell’estrema fase della repubblica. Sfugge a Cicerone, come sfugge a molta fruizione moderna del pensiero epicureo, il valore della ricerca di fondazione d’un’etica dal basso, «a partire dalle origini “ferine” dell’umanità», con i parametri etici non assunti a postulato iniziale, ma a faticoso coronamento d’un processo assolutamente immanente agli sviluppi della società umana. Ancor più risuonano in chiave leopardiana, in queste pagine di Timpanaro, le obiezioni antiepicuree riguardanti il trapasso non argomentatamente scandito dal piacere intenso, biologico-animale e insopprimibile, al piacere ascetico (concetto del tutto alieno a Leopardi), e, altresì, «le consolazioni sofistiche nei riguardi della morte, e, peggio che mai, delle malattie». E sull’influenza della «scuola di Aristotele» (più che dell’Aristotele platonizzante prevalentemente conosciuto da Cicerone) e del citato Teofrasto, sulla linea dell’antiascetismo, sull’importanza della corporeità, della natura biologica, della fisicità per il saggio (un saggio non soltanto “intellettuale” o “filosofo”), sull’ennesima acuta declinazione dell’intus legere leopardiano quanto al più “verace” materialismo e edonismo di Teofrasto rispetto ad Epicuro, si può rinviare alle parole dirette di Timpanaro introduttore del De divinatione: Nell’etica, Teofrasto aveva sentito, ancor più del suo maestro, un salutare bisogno di antiascetismo, di consapevolezza della dipendenza dell’uomo dai beni e dai mali «esterni», di assenza di boria filosofica, in contrasto con lo spirito predominante nelle filosofie ellenistiche. Specialmente nei libri II, IV, V del De finibus C., in polemica con Epicuro ma, non meno, con gli stoici, dette il giusto rilievo a questa umana indulgenza dell’etica teofrastea: certo, la virtù rimane il bene più alto, ma vi sono felicità (salute, agiatezza…) e infelicità (malattie, povertà…) che non possono essere dichiarate inesistenti nemmeno dal saggio. La saggezza consisterà nel saper godere le prime senza lasciarsene dominare, sopportare le seconde con animo forte, ma pagando un inevitabile prezzo di sofferenza, poiché anche il saggio è un uomo e ha un corpo (e l’anima stessa non è del tutto autonoma dal corpo). In ciò, come ben vide Giacomo Leopardi, Teofrasto fu più veracemente materialista e edonista di Epicuro; e forse, dopo millennii di speculazione filosofica, non ha ancora vinto del tutto la sua battaglia. Né C., con questa apertura all’etica teofrastea, entrava in conflitto col proprio neoaccademismo (pp. XXIV-XXV).
In quella che abbiamo definito la «strategia materialistica» di Timpanaro il riconoscimento di valore dell’esperienza naturalistica di Zola svolge un ruolo affine: Nemmeno si può ravvisare, nel susseguirsi dei Rougon-Macquart, una linea di crescente psicologizzazione, come potrebbe piacere (e di fatto è piaciuto […], a proposito dei giudizi di Flaubert e di Mallarmé) a chi, forzando assai la realtà, ha ammirato in Zola certi aspetti “pre-decadenti” e ha considerato il verismo e il materialismo come scorie da tollerare con indulgenza (questo modo di ammirare Zola ha avuto il suo più reciso, e in sostanza non condivisibile, rappresentante in D’Annunzio […]) (Prefazione a La conquista di Plassans, cit., p. XXXVIII).
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Timpanaro si riferisce, qui, al D’Annunzio delle Pagine disperse del 1913, in cui furono raccolti, insieme a molti altri, gli scritti sulla morale di Zola apparsi ne «La Tribuna» nel 1893. Diffidenza per il «drapeau» materialistico mostra anche Edmondo De Amicis nel famoso entretien con Zola, di cui pure, com’è noto, lo stesso De Amicis apprezza la figura umana e di narratore. Ma rimane il fatto che socialismo e naturalismo, sia detto senza, qui, aprire un discorso sulle origini claudebernardiane del secondo in Zola e sull’utile introduzione di Lanfranco Binni all’edizione garzantiana, sono nello scrittore francese fattori determinanti e non tardivo cascame positivistico. E prescindiamo, in questa sede, dal ricordare l’assai contenuta ammirazione di Engels per la trasparenza ideologica di Zola, a tutto favore del realismo artistico di Balzac, e pure a fronte, e talvolta esattamente in grazia dell’ideologia borghese conservatrice di quest’ultimo, efficacissimo nel rappresentare la decadenza dei personaggi della classe per la quale egli parteggia. Prescindiamo pure dalla precisa preferenza di Marx e dello stesso Engels per l’arte rappresentativa rispetto a quella definibile “a tesi”, un favore che si manifesta nella famosa polemica su Lassalle, in specie sul Franz von Sickingen, e sull’esigenza di “shakespeareggiare” anziché di “schillereggiare”; a sfavore di Zola e, per così dire, a vantaggio in questo caso di Tolstòj, è anche il notissimo paragone lukacsiano fra i brani della corsa dei cavalli in Nana ed in Anna Karenina44. La citazione di De Amicis non è casuale. A tutt’oggi non è, infatti, molto diffusa la convinzione della notevole presenza di Leopardi in un autore che continua ad essere, forse non solamente per il grande pubblico, il padre di Cuore, e acquisito manzonista quanto a concezioni linguistiche. La visione timpanariana, e gli studi dai quali essa scaturisce (cfr. De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, in Nuovi studi, pp. 199234), lo fanno conoscere in una prospettiva decisamente rinnovata, comprendente quattro De Amicis: oltre a quello più conosciuto, vi sono il novelliere di Amore e ginnastica e di altre prove narrative improntate a un erotismo malizioso e consapevole, tutt’altro che sprovveduto nella sua moderna cifra di fine e godibile allusività; vi è poi il De Amicis socialista, prodotto apprezzabile d’un’autentica «conversione» ideologica con tanto di “salto” (si usi una volta tanto questa parola, a indicazione d’una virata visibilmente esplicita, pur se conquistata per gradi) al socialismo scientifico di Primo maggio, romanzo a suo tempo studiato da Timpanaro (Il socialismo di E. De Amicis: lettura del «Primo maggio»), che sarà argomento d’un’acuminata polemica, filologica oltre che ideologica, con il curatore dell’edizione, Giorgio Bertone; il “quarto” De Amicis, quello degli scritti didascalici, del tipo dell’Idioma gentile (Milano, Treves, 1905, e immediata II ed., 1906), vede un parallelismo, una simultaneità di tale produzione di sostanziale intento pedagogico con interventi di perspicua impostazione anticapitalistica ed antimilitarista, una coesistenza di didascalismo rivolto alla gioventù borghese e di pubblicistica socialista non chiusa alla significazione dello sdegno e semmai contraria a una rassicurante concezione ricompositiva dei dati conflittuali offerti dalla realtà capitalistico-industriale. Il manzonismo in tal senso appare un fenomeno legato a un’adesione ai concetti linguistici generali anziché alla vera teoresi ed alle consuetudini stilistiche del modello. Un De Amicis non così “manzoniano”, ed anzi non casuale ammiratore di Leopardi, non permette comunque, a scanso di fraintendi
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menti, una sua affiliazione al leopardismo: Edmondo ama «il Leopardi prosatore e poeta molto più di quanto finora si sia notato e di quanto ci si aspetterebbe da un manzoniano sia pure eterodosso» (p. 220). Lo stesso amore per il fiorentino nasce non tanto da origini lettoriali, “cartacee”, ma da una reale, “biografica” permanenza a Firenze (si guardi alle Pagine sparse del 1874 – in esse vi è La mia padrona di casa – e all’Idioma gentile: La lingua famigliare, La lingua faceta, Quel che si può imparare dai toscani, Il signor Coso, fin troppo fortunato, quest’ultimo, nelle inclusioni antologiche); anche Alfieri ritorna, nella mente d’un De Amicis ben consapevole, a fornire l’evocazione di simile esperienza nell’iniziale rapporto con il toscano. Pagine sparse e Idioma gentile offrono il fianco, certamente, a varie polemiche osservazioni sulla «mania nomenclatoria» osservata da Croce (del quale Timpanaro disapprova la maggior parte delle altre critiche rivolte all’Idioma gentile: cfr. il «Giornale d’Italia», 7 luglio 1905, e i Problemi di estetica [III], 1940, pp. 211-221)45. Ma un De Amicis che auspica un vocabolario d’interesse storico non può essere rétro dal punto di vista culturale, né può risultare nella fruizione critica a venire segnato dalle stigmate d’una filosofia linguistica semplicemente nomenclatoria46. La diversità, se non anche l’autonomia da Manzoni, è rintracciata soprattutto nello stesso Idioma gentile: dalla simpatia per il piemontese Giambattista Giuliani all’apertura alla tradizione di alcuni classici della letteratura italiana (Machiavelli, Cellini, Galileo, Alfieri, il Monti della Proposta – ed è un dato che fa riflettere –, il Foscolo delle lettere, l’antimanzoniano conclamato – anche troppo – Giosue Carducci). Manzoni è maestro ma non indiscusso modello, neppure sul piano ideologico: basti, in Lotte civili, la critica alla concezione economica che presiede alla rappresentazione dei “tumulti del pane” (tale concetto si trova anche nel saggio timpanariano su Pietro Gioia, sempre nei Nuovi studi): in questo caso sì che l’omologazione, pur parziale, alla natura, ai cicli della naturalità anche nell’economia con i loro “inevitabili” riequilibri, che in realtà voglion dire danni ai giorni degli uomini e perdite secche, appare inaccettabile, e persino antifilantropica (l’argomento è presente fin da Antileopardiani, anzi, fin dagli articoli che hanno formato il volume delle ETS). Né va trascurata, in direzione di Recanati, la consistente serie d’indicazioni e di segnali di lettura e soprattutto di vero, oserei dire identificato approfondimento dell’opera di Leopardi: dall’Ottonieri citato nelle Pagine sparse alla dolorosa memoria di Leopardi quale «ultimo amore intellettuale» di Furio, il figlio morto suicida (si rivedano le Memorie del 1900), dall’immediato e scrupoloso interesse per lo Zibaldone allora da poco pubblicato alla lettura valorizzante delle Operette morali (si pensi alla non felice lettura della tradizione De Sanctis-Croce), dal parziale favore espresso nell’Idioma gentile alle idee linguistiche leopardiane alla comprensione per lo sdegno sociale di Giordani, alle Pagine postume (III volume, Cinematografo cerebrale), che denotano una convergenza con il pensiero, e segnatamente con il pessimismo di Leopardi. Le citazioni, come anche le allusioni dirette e indirette (insomma, i richiami di riferimento) all’opera di Leopardi «sono molte (di gran lunga meno, e meno letterali, quelle dal Manzoni)»; sono citazioni «interessanti come testimonianza di amore al Leopardi (di un amore che è divenuto appassionato e profondo) e di vasta conoscenza di testi leopardiani» (Nuovi studi, p. 234). I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
*** Non stupisce, certo, il fatto che Timpanaro abbia inteso focalizzare l’approdo al socialismo di De Amicis. Il socialismo, s’intende socialismo scientifico, marxiano, è infatti la vera ratio ideologica e politica dello studioso di Leopardi e della tradizione materialistica. Socialismo è, qui (come lo era nei classici del pensiero marxista), concetto insieme inclusivo del comunismo e ad esso prelusivo, verso la meta d’un processo storico che dovrebbe contemplare la perfetta società ugualitaria non solo sul piano politico e civile, ma anche sul piano sociale e su quello dei rapporti di produzione. È d’uso ricordare la definizione, inevitabilmente approssimativa, che Timpanaro ha dato del proprio pensiero nella prefazione alla prima edizione (1965) di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano (una definizione che lo ha in séguito ripetutamente obbligato a precisazioni d’ogni genere sulla natura del binomio composto da marxismo e leopardismo): Qui accennerò soltanto che la concezione generale a cui queste pagine si ispirano (una concezione, spero, non aprioristicamente sovrapposta alla ricerca storica) è una specie di marxismo-leopardismo che, mentre accetta l’analisi marxista della società e gli obiettivi di lotta politico-sociale che sono con essa congiunti, per ciò che riguarda invece il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e proprio (adialettico, «volgare», se così piace chiamarlo) del Settecento e dell’Ottocento, all’edonismo che gli è organicamente connesso e alle conseguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di chiunque altro, ne ha tratto il Leopardi (pp. LXXVIII).
Eppure la definizione è chiara: su una base di materialismo di fondamentale ascendenza settecentesca (non chiusa agli apporti delle radici classiche greche – in minor misura latine), lo studioso assume le premesse e i metodi, e in buona parte gli svolgimenti, degli studi socioeconomici marxiani; ma per riferirsi a successive parole, da tutti conosciute e ormai entrate nel patrimonio comune degli studiosi di Timpanaro e degli argomenti a lui cari, l’intellettuale materialista trova in Leopardi quello che «non c’è in Marx né in altri, ed è tuttavia vero e vivo»: il materialismo pessimistico e adialettico, la rigorosa negazione di qualsiasi antropocentrismo, l’ateismo esteso a tutti. E a sua volta il marxismo non è solo una sociologia rivoluzionaria, ma nello stesso Marx più maturo e materialista (certo, quello posteriore a Per una critica dell’ideologia tedesca e alle Tesi su Feuerbach), in Engels, nel Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, vi è «una base filosofica materialistica, atea, antiteleologica». Torna il concetto, precedentemente accennato, di differenziazione (non d’opposizione di dati inconciliabili) tra visione e percorsi propriamente politici e politologici da un lato, e, dall’altro, progresso d’una visione laica, materialistica, scientifica, tecnicamente “peculiare” eppur non neutra, una Weltanschauung antiprovvidenzialistica del reale e della storia; e si tratta, nell’ultimo caso, d’un antiprovvidenzialismo non valido solo in direzione antireligiosa, o anticonfessionale, o in genere antitrascendente (o, addirittura, per riferirsi a concetti kantiani, ma inerenti alla gnoseologia anziché alla reli
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gione, antitrascendentale), bensì valido anche (e in misura almeno pari a quella antireligiosa) in direzione contraria alla religiosità immanente, alla ragione che si autoforma, che si autopone come una sorta di divinità nel mondo umano, a quella che Timpanaro definisce «religione per le persone cólte». Ma in Marx c’è sempre, nota Timpanaro, un eccesso d’insistenza sull’antropocentrismo, c’è una serie di concetti dialettici che mal s’attagliano ad un materialismo conseguente, c’è la natura concepita solo come oggetto del lavoro dell’uomo e della sua trasformazione, e non anche come forza gravemente condizionatrice e infelicitante «anche in una perfetta società comunista»47; non si può, insomma, ridurre il biologico al sociale né il sociale al biologico e, soprattutto, non si può “appiattire” il biologico interamente sul sociale: tra i ritmi della storia e i ritmi della natura v’è certo un’immensa differenza, che può permettere allo storico, anche marxista, di trascurare, pur trattando un lungo periodo cronologico, «il livello fisico-biologico» (Sul materialismo, III ed., p. XVI); ma, come non si può mai escludere un’influenza della struttura economico-sociale sulla sovrastruttura (neanche nei casi in cui più indiretta e mediata è la loro relazione), così sarebbe ingenua, e soprattutto pericolosa, l’idea d’un rifiuto filosofico di riconoscere il condizionamento della natura su ciò che è umano e sullo stesso mondo storico. Nelle varie «fasi della vita umana la socialità ha un peso rilevantissimo, ma non tale da annullarne il sostrato biologico», né da annullare le condizioni che, dopo aver fatto sorgere la stessa vita umana, la condurranno (pur in un lontano futuro) ineluttabilmente «all’estinzione» (ivi, p. X). E a spiegazione del «materialismo geologico o biologico o astronomico» vale, una volta di più, la citazione del Leopardi della Ginestra (vv. 37-51, 158-296 e 111-157; ad esempio, 37-41): «A queste piagge / Venga colui che d’esaltar con lode / Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto / è il gener nostro in cura / All’amante natura». Il problema, semmai, è costituito dalla dialettica, dalla possibilità, variamente studiata da chi s’è occupato di Marx e di Engels (Timpanaro si riferisce soprattutto a Colletti), di tradurre il materialismo dialettico in materialismo storico; Marx ed Engels, a giudizio di Timpanaro, non vi sono in definitiva riusciti; ma la contemplazione di concetti già denominalmente indipendenti, o addirittura contrarî alla dialettica, come appunto quelli delle «negazioni adialettiche», distruttive, delle «perdite secche», è piuttosto ritrovabile in Engels: Ciò che Engels dice […] a proposito della fine dell’umanità e del sistema solare, costituisce proprio un tipico esempio di negazione adialettica, di quelle che vorrei chiamare «perdite secche». Ciò non esclude affatto che processi autocontraddittorii […] esistano realmente […]. Quello che ho sempre tenuto a ribadire, è che non si può porre un aut-aut esaustivo: o materialismo dialettico, o materialismo volgare o meccanico. C’è spazio per un materialismo storico (non storicistico, non «giustificazionista» […]), che non ignori il diverso ritmo e i diversi modi della storicità della natura (ivi compreso l’uomo in quanto animale) e della società. Certo, un tale materialismo è, in parte, ancora un desideratum: presuppone una teoria della conoscenza che non si basi più sull’eterno discorso dell’oggetto che presuppone il soggetto et similia, ma su uno studio del pensiero come funzione degli organi di senso e del cervello […] (p. XII).
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Queste affermazioni, già in sé coraggiose nella riproposta d’un «materialismo storico» che sia aperto ai differenti processi e alle differenti cadenze della «storicità della natura», inevitabilmente riconducono alla critica delle hegeliane matrici dei percorsi della dialettica48. La figura intellettuale e saggistica di Engels in tal senso conquista ben presto il primo piano, al punto che nel progressivo dispiegarsi e ricorreggersi della saggistica timpanariana Engels è assai spesso evocato con espressioni comparativamente preferenziali a fronte della stessa ratio dottrinaria marxiana. Lo studioso quasi non perde occasione per rammentare, proprio rispetto a Marx, la maggiore attenzione scientifica di Engels al mondo e al sistema della natura, e alla “dialettica” di quest’ultimo, non riducibile alla dialettica della storia; in questa costante linea d’autentica rivalutazione del pensiero engelsiano, in questa polemica contro l’impostazione (che non è soltanto quella italiana) sostanzialmente antiengelsiana di gran parte del marxismo novecentesco, lo stesso Engels, anche per il ruolo che l’ideologo viene ad assumere nella positività, in sé veicolante, del recupero polemico, si pone come uno degli interlocutori più validi dell’intellettuale marxista Timpanaro, e certo il più idoneo a sostenere quelle tematiche di riflessione sulla fine della terra, o dell’universo, sull’estinzione del cosmo, che non sono certo il primario interesse dell’impostazione antropocentrica marxiana, e che invece costituiscono un laboratorio di risposta, quanto meno metodologica, alla ricerca di Timpanaro. Il pessimismo, l’assenza di qualsiasi finalismo, l’indipendenza, pur entro certi limiti, dalla filosofia della storia, non possono non attirare il marxista che avverta come insufficiente un concetto di natura antropicamente delimitato, quale prodotto della sola, determinante umana azione, e teoreticamente non privo d’alcune vistose negligenze nei confronti della considerazione del mondo fisico, geologico, insomma nei riguardi della parziale autonomia (rispetto ad altri “vettori” interpretativi del mondo) dell’azione infelicitante della natura su se stessa e sull’uomo. Questo dato afferisce ad una visione densa di conseguenze valutative sulla gnoseologia novecentesca. Non spetta certo a noi il compito d’indagare e di riferire su campi disciplinari che pertengono ai filosofi, agli epistemologi, ai linguisti, agli antropologi, agli studiosi di psicoanalisi; ma non si può in alcun modo negare che il ventesimo secolo abbia rappresentato un periodo di imponente e grave latenza del materialismo e delle sue induzioni contestuali nella storia. Secolo antiengelsiano, appunto si diceva; e tanto più significativa è l’esperienza di Engels, nella valorizzazione ideologicamente e culturalmente promossane da Timpanaro, se si pensa che la gestazione elaborativa della Dialettica della natura, di cui solo la lettura filologica può realmente rendere ragione49, è in parte coeva alla ripresa del pensiero antimaterialista e idealistico come alla frantumata ricomposizione del reale promossa dalle suggestioni intuizionistiche, ed è altresì contemporanea delle filosofie propriamente soggettivistiche, aperte alla prolungata epifania del volontarismo, in cadenze di drammatica contiguità intellettuale con la reattiva emersione, già allora inquietante sul piano storico, di tutte le fenomenologie dell’irrazionalismo. In quest’ottica, la stessa provvisoria definizione di marx-leopardismo, fin troppo spesso discussa a proposito dello studioso, può sì trovare miglior approdo in un più corretto, e a ben vedere più congruo e peculiarmente ravvicinato engels-leopar
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dismo, ma a patto che ancora una volta si demarchino i giusti limiti, o almeno i limiti più prudenti, rispetto all’ennesima, proponibile definizione combinatoria. Se Leopardi offre al suo “seguace” un identitario raffronto con l’intellettuale (e l’ideologo) esposto e motivato alla riflessione sulla natura e sull’infelicità procurata alle involontarie creature, Engels porge a sua volta al leopardista l’esperienza d’un filosofo nel cui pensiero il materialismo storico non esclude, ma anzi coscientemente ricerca, a pena d’un’autopercezione d’insufficiente Weltanschauung, il legame, la relazione con il materialismo della natura, lo studio dei meccanismi chimico-biologici d’un cosmo autodistruttivo, d’un sistema autofagocitante. Engels non appare candidato a rappresentare con urgenza il primo elemento d’un binomio Engels-Leopardi; più che Engels-Leopardi, direi Engels quale spiegazione, agli occhi dello studioso maturo, di come in Leopardi si trovi ciò che manca in Marx. A proposito dell’accentuata valenza critica nei riguardi degli sviluppi epistemologici novecenteschi, una capacità d’acuta e lungimirante preconizzazione degli stadi involutivi che in tal senso avrebbe attraversato il XX secolo è evidenziata da Lenin, di cui più volte Timpanaro ricorda i meriti, soprattutto in riferimento alla lucida polemica antivolontaristica e antisoggettivistica, antiidealistica e antiempiriocriticista (cfr., ad esempio, Sul materialismo, cit., p. XXVI)50. E così, il pessimismo leopardiano è difeso da ogni slittamento antiilluministico e dalle «scorie romantico-esistenzialistiche che contaminano gravemente il pensiero di Horkeimer e Adorno e ancora quello, pur assai più politicizzato e laicizzato, di Marcuse» (ivi, p. XXVIII). Contro Colletti (pur apprezzato sotto altri profili, fra i quali le radici illuministiche, il non antiengelsismo e il non antitročkijsmo, nella prima fase del suo percorso di pensiero), Timpanaro ricorda che «la specificità dell’uomo non annulla la sua “genericità” in quanto animale, e una definizione dell’uomo che punti solamente sulla specificità finisce, inevitabilmente, col ricadere nell’idealismo: questo è il punto, ancora una volta» (p. XXXV). E taluni concetti fondamentali, come quelli di “rispecchiamento” della realtà esterna, di fondamento della nostra conoscenza nell’esperienza, di passività ricettiva nei riguardi della natura come origine dei nostri stimoli gnoseologici, vengono espressi in uno dei passi più chiari del saggio eponimo Sul materialismo (p. 6), un saggio da cui, al di là dell’apparente latitanza citazionale, la presenza di Leopardi è assai meno lontana di quanto potrebbe sembrare: Per materialismo intendiamo anzitutto il riconoscimento della priorità della natura sullo «spirito», o, se vogliamo, del livello fisico sul biologico e del biologico sull’economico-sociale e culturale: sia nel senso di priorità cronologica (il lunghissimo tempo trascorso prima che la vita apparisse sulla terra, e dall’origine della vita all’origine dell’uomo), sia nel senso del condizionamento che tuttora la natura esercita sull’uomo e continuerà ad esercitare, almeno in un futuro prevedibile. In sede conoscitiva, quindi, il materialista sostiene che non si può ridurre l’esperienza né a produzione della realtà da parte del soggetto (comunque si voglia concepire tale «produzione»), né a reciproca implicazione di soggetto e oggetto. Non si può, in altri termini, negare o eludere l’elemento di passività che c’è nell’esperienza: la situazione esterna, che noi non poniamo, ma che ci si impone; né si può in alcun modo
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riassorbire questo dato esterno facendone un mero momento negativo dell’attività del soggetto, o facendo del soggetto e dell’oggetto meri momenti, distinguibili solo per astrazione, dell’unica realtà effettuale che sarebbe appunto l’esperienza. / Questa sottolineatura dell’elemento passivo dell’esperienza non pretende certo di essere una teoria della conoscenza […]; ma è la condizione preliminare di ogni teoria della conoscenza che non si accontenti di soluzioni verbalistiche e illusorie;
ancora, più sotto (pp. 7-8): Certo la conoscenza scientifica è l’unica forma esatta e rigorosa di conoscenza. Ma se la filosofia sposta tutta la sua attenzione dai risultati e dall’oggetto della ricerca scientifica alla ricerca in quanto tale; se, trascurando di prendere in considerazione la condizione dell’uomo nel mondo quale risulta dalla ricerca scientifica, si riduce a metodologia dell’attività dello scienziato, ecco che si ricade nell’idealismo, perché si fa apparire come unica realtà non la natura, ma l’uomo indagatore della natura e costruttore della propria scienza. I risultati della ricerca scientifica ci insegnano che l’uomo occupa un posto marginale nell’universo; che per lunghissimo tempo la vita non c’è stata sulla terra, e che il suo sorgere è dipeso da condizioni particolarissime; che il pensiero umano è condizionato da determinate strutture anatomicofisiologiche, ed è offuscato o impedito da determinate alterazioni patologiche, e via dicendo. Ma consideriamo questi risultati come meri contenuti del nostro pensiero pensante o della nostra attività sperimentatrice e modificatrice della natura, sottolineiamo che essi non esistono al di fuori di questo nostro pensiero e di questa nostra attività, e «il giuoco è fatto»: l’operazione di escamotage della realtà esterna sarà riuscita, e non sul terreno di un antiquato umanesimo ostile alla scienza, ma invece con tutti i crismi della scientificità e della modernità! […]. Una filosofia che sia, anche nel senso più ampio e comprensivo, metodologia dell’agire umano, rischia sempre di eludere o sottovalutare ciò che nella condizione umana è passività, condizionamento esterno.
Inevitabile la sorte di Croce e dell’ambiguo argomentare idealistico al vaglio d’uno studioso, d’un leopardista engelsiano-leninista, com’è il caso di Timpanaro, che ne focalizza le contraddizioni proprio dove riconosce l’acutezza, la condivisibile sottigliezza di certi giudizi e di determinate distinzioni (pp. 10-11): Il valore dell’attualismo gentiliano consiste proprio nella consequenziarietà con cui esso svolse fino in fondo, riducendole all’assurdo, le premesse idealistiche. E se Croce aveva buone ragioni di recalcitrare dinanzi all’identificazione di storia e storiografia, di res gestae e historia rerum gestarum, aveva però manifestamente torto nel non voler vedere che il rifiuto di quell’identificazione implicava il rifiuto di tutto l’idealismo, che è una teoria dell’«eterno presente». Ora, se le res gestae sono distinte dall’historia rerum gestarum, non c’è proprio nessun motivo di credere alla battaglia di Waterloo come a qualcosa di «realmente avvenuto» e di negare, invece, lo stesso riconoscimento alla formulazione del sistema solare o a qualsiasi altro episodio cosmico anteriore all’origine dell’uomo […]51.
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Ma Engels è, secondo Timpanaro, più avanzato dello stesso Marx anche rispetto alle convinzioni antropologiche: la maggiore libertà, la maggiore spregiudicatezza nella concezione della famiglia e della laicizzazione sociale e dei costumi si fanno avvertire nella valutazione storica degli istituti economico-sociali e degli assetti civili del matrimonio, investigati ad ampio raggio in una panoramica spaziale e temporale che comprende, presso varî popoli, lo stadio selvaggio, lo stadio barbarico ed il passaggio da quest’ultimo allo stadio della civiltà52. In realtà, proprio in L’origine della famiglia qui citato in nota, nella prefazione alla prima edizione del 1884, è Karl Marx ad essere evocato quale ideatore e iniziatore di questo studio espositivo e rielaborativo dell’opera dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan (Ancient Society, or Researches in the Lines of Human Progress from Savagery, trough Barbarism, to Civilisation53). E la trattazione, in ogni caso, conferma, nello studio delle antiche forme di organizzazione della vita sessuale, l’assoluta libertà di concezione di Engels riguardo ai dati antropologici, peraltro mai disgiunti dal loro profondo e necessario legame con la struttura socio-economica: Prima che l’incesto fosse inventato (ed esso è veramente un’invenzione e per giunta preziosissima), il commercio sessuale tra genitori e figli non poteva suscitare scandalo maggiore delle unioni tra persone appartenenti a generazioni differenti, e ciò accade anche oggi persino nei paesi più filistei senza suscitare grande orrore. Perfino «zitelle» attempate che hanno passato la sessantina sposano talvolta, se hanno abbastanza denaro, giovanotti trentenni (p. 64)54.
E la stessa, aperta disposizione di studioso e di saggista è riscontrabile a proposito della posizione della donna nel grado inferiore e medio dello stato selvaggio e dello stato barbarico55, nell’illustrazione del passaggio (sempre rubricato nell’ottica antropologico-tribale, di clan, derivata da Morgan e applicata soprattutto agli Indiani d’America, ma articolatamente studiato nelle componenti di gentes e di φρατρίαι) dalla fase matriarcale alla fase patriarcale, nella focalizzazione dei primi stadi dell’oppressione di classe, nell’indicazione dell’esigenza di “inabissamento”, non solo di superamento, delle strutture matrimoniali monogamiche56. Engels, peraltro, ritorna, e come termine di riferimento altamente positivo, anche nella polemica nei confronti di Claudio Colaiacomo e della scuola di Asor Rosa (Antileopardiani, p. 158) sulla frequente superiorità d’ottica culturale e di sensibilità d’interpretazione storica offerta da una sede di provincia, “arretrata” rispetto a quella che Verga chiamerebbe la «grand’aria» metropolitana, ma in realtà, e spesso appunto, più acuta nel cogliere caratteri ed elementi, lacune e drammi civili e di costume della propria epoca. È esattamente in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana che ritornano, quasi invariate, le parole su Leopardi e Marx (con il nome di Friedrich Engels omesso perché scontato, non perché assente): «Leopardi (e non solo Leopardi) mi ha appassionato anzitutto per ciò che non c’è in Marx né in altri, ed è tuttavia vero e vivo» (p. 196). Antileopardiani rappresenta, in effetti, uno dei versanti più direttamente esposti e politicamente espliciti della prosa di Timpanaro; tutti i nomi dell’universo ottocentistico dello studioso, dallo stesso Leopardi a Giordani, da I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Carlo Bini a Marx, ad Engels (e in chiave polemica Manzoni, Vieusseux, Tommaseo), ritornano nella chiave di quell’aperta discussione, ideologica ma non banalmente attualizzante, che è piuttosto attestata su una cifra militante ansiosa e sollecita degli incerti destini della sinistra, una “cifra” pessimistica eppur battagliera, resasi “isolata” per degrado storico-politico generale e non per primigenia scelta soggettiva, protesamente allocutiva ma senza esuberanza pamphlettaria, come giustamente l’autore precisa fin dalle pagine introduttive; semmai, si tratta d’una “prosa ideologica” che, rassodatasi nella raccolta editoriale degli articoli a suo tempo usciti in «Belfagor», assume buona parte della cultura storico-filosofica e letteraria che ha ispirato altre prove scientifiche e saggistiche. Bersaglio principale rimane, dovendolo esprimere in termini sintetici, la cultura dialettica d’origine hegeliana, variamente applicata alla scrittura, o ai conati di riscrittura storiografica dell’Ottocento letterario-risorgimentale italiano. Né la fanno franca molte delle intrusive prospezioni antimaterialistiche novecentesche, da quelle francofortesi a quelle strutturalistiche o semiotiche (soprattutto nelle loro propagginate declinazioni post-saussuriane, spesso misticheggianti, a dire dell’autore, e, in quei casi, non lontane dal rango scrittorio d’eserciziarî d’una mimesi concettuale e lessicale sgrammaticata), alle “analisi” di marca freudiana (“marca”, non certo fedeltà filologico-ortodossa a Bergasse; ma con Jung, secondo Timpanaro, sarebbe ancora peggio); non mancano, stupirebbe il contrario, reiterate punte antigramsciane e antitogliattiane, che, soprattutto nel caso del primo, non inficiano comunque, minimamente, l’ammirazione per il valore umano ed eroicamente testimoniale dell’esperienza antifascista. I termini della discussione con Carpi nel capitolo espressamente leopardiano (Leopardi e la sinistra italiana degli anni settanta, pp. 145-197), dal canto loro, articolano e puntualizzano, dettagliano e approfondiscono tematiche in fondo non nuove nell’uno e nell’altro studioso; tali tematiche riguardano il dibattito su Leopardi e il suo apparente “disimpegno” ideologico nel cosiddetto periodo fiorentino, il suo rapporto con i moderati toscani, l’esigenza d’una lettura approfondita e capillare dello Zibaldone, la crescente simpatia, non accompagnata da comprensione culturale, da parte di Vieusseux per Giacomo, l’ennesima declinazione della malignità tommaseana, le ragioni profonde che rendono impossibile una reale collaborazione con l’«Antologia», il concetto di “scrittore utile”, le equazioni, qui come in altri luoghi vibratamente denegate da Timpanaro se concepite in accezione semplicistica, romanticismo-reazionarismo classicismo-progressismo, materialismo-progressismo spiritualismo-conservatorismo, e riguardano, altresì, il concetto, avanzatissimo (e degno da parte della critica d’attenzione ben maggiore di quella che abbia sinora ricevuto), dell’acuminata e convinta antimeritocrazia di Leopardi57. Più ricco di nuovi spunti, ma sempre coerente con la volontà di difendere Leopardi dall’accusa di sostanziale rifiuto della politica, di mancato coinvolgimento realistico-patteggiante con la società, e non privo d’elementi di provocatoria discutibilità, è invece il primo capitolo del volume, I manzoniani del “compromesso storico” e alcune idee sul Manzoni, pp. 17-47, dove oggetto d’una dura polemica sono Lajolo e Salinari; non v’è dubbio sul carattere ancora una volta anticonformistico e rifuggente da ogni standard di pensiero della voce timpanariana, in mezzo al dibattito degli
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anni settanta sul compromesso storico, sulla volontà, divenuta programmaticamente “politica”, di coniugare le due tradizioni più organicamente strutturali e veicolanti della cultura italiana, quella cattolica e quella costituita (non si dice rappresentata) dalla sinistra di allora. Anche in questo caso il vero bersaglio sul piano della res publica italiana è il PCI, di cui si rileva la fondamentale continuità con la politica togliattiana, fin dal primo dopoguerra protesa, pur con virate, con pause e con ritiri tattici, all’accordo con il “polo” democristiano-conservatore. La peculiare rigorosità laica della formazione, e gli sviluppi culturali di tutta la sua opera di studioso e di pensatore, sono per Timpanaro fattori più che sufficienti per avversare in modo netto il tentativo compromissorio, non solamente sul piano partitico, ma anche su quello culturale; e qui il discorso polemico si incentra principalmente su Salinari, sul suo saggio manzoniano apparso in «Critica marxista» (maggio-agosto 1974, pp. 183-200): se Lajolo «inventa un Manzoni antiborghese e precursore di Marx, Salinari vede il progressismo del Manzoni proprio nel suo esser borghese» (p. 28). Si tratta, in chiave manzoniana, dello stesso tema che divide Timpanaro da Carpi, ossia della funzione progressista o meno della borghesia, e quindi, specularmente, del rifiuto di essa, o dell’appartenenza a una classe che mostra, anche nel primo Ottocento, nel periodo della Restaurazione, valenze avanzate e valenze conservatrici. È perfino prevedibile che Timpanaro muova a Salinari consistenti obiezioni, sul piano della concezione economica manzoniana (l’ineluttabilità “naturale” dei cicli economici, con le relative crisi quasi per intero a carico dei diseredati, l’antifilantropismo evidenziato dalla rappresentazione dei tumulti del pane), sul piano del moderatismo, borghese appunto, sul piano del cattolicesimo, a ben vedere, e nonostante i fremiti giansenistici, radicatamente “romano” e antisismondiano, sul piano del paternalismo verso gli umili – non lo ha notato “soltanto” Gramsci –, e soprattutto sul piano ideologico: oggetto di discussione, oltre alla condivisione manzoniana della fobia della Rivoluzione francese nel suo versante rigorosamente giacobino, è la possibilità, avvertita con ansia da Timpanaro, d’assunzione da parte della borghesia e del suo “realistico” e pragmatico riformismo di quello che rimane il compito rivoluzionario del proletariato; uno spostamento di classe, questo, ma anche uno spostamento d’obiettivi e di metodologie politiche che, nel processo rivoluzionario – e pur con tutti gli studî e le riflessioni che sono in tal senso ancora necessarî – contemplerebbe – e la critica vale anche per Carpi e per il favore accordato al gruppo toscano dell’«Antologia» – la promozione ad attendibile propellente storico del progresso esattamente di quella classe sociale che è veicolo d’esiti opposti al progresso stesso e che è invece bersaglio e destinatario della necessaria lotta di chi, per ferrea logica della storia e dell’economia (e Marx è qui più che mai in primissimo piano), e per oggettiva fenomenologia dell’evolversi dei rapporti sociali di produzione, di chi appunto è vittima della borghesia e dei processi da essa innestati, di chi deve rovesciare tale stato di cose fino a una società comunistica compiutamente attuata. E la difficoltà di pensare realizzata tale società nel momento storico in cui viviamo (è una considerazione che può valere anche per il presente hic et nunc) non può flettersi in una delega della funzione di terapia scientifica allo stesso gigantesco virus che è causa della patologia, che soffoca gran parte del mondo, variamente induI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
strializzato e colonizzato nei suoi continenti, un virus che rovina e che devasta il sistema e l ’ecosistema. Né questo ragionamento disconosce i meriti della figura personale e di studioso di Carlo Salinari; è il frangente storico del compromesso a far divergere l’ottica di Timpanaro da quel conato consociativo di due tradizioni politiche italiane rispetto alle quali lo studioso ricorda la possibilità di un itinerario propriamente laico e non subordinato alle due formazioni maggiori, così come fin dalla Prefazione egli ricorda la militanza socialista e, a suo tempo, l’adesione al PSIUP (con la sua casa pisana – torna qui la figura materna – a costituire un punto di riferimento addirittura istitutivo del nuovo soggetto partitico). Rimangono vive e comprensibili, per chi qui scrive, le ragioni salinariane, le bemerenze marxiste, l’apertura disinteressata e nobile ad autori e linee creative affatto discordanti dalle sue opzioni artistiche e ideali (si ricordi, mero esempio, il sostegno all’opera di Giuseppe Berto), l’elaborazione del complesso concetto di «realismo» al quale ancora molto deve il suo Manzoni. Forse, la scottante contiguità cronologica con l’epoca del “compromesso storico” ha condotto lo stesso Timpanaro a non comprendere del tutto il senso dell’operazione critico-ideologica salinariana. Per Timpanaro (e qui anche per noi) vale comunque il concetto espresso, sulla reciprocatio leopardiano-marxiana, nelle ultime parole del saggio su Leopardi e la sinistra italiana degli anni settanta (p. 197): Naturalmente, perché due visioni della realtà possano agire l’una sull’altra, cooperare ad una nuova sintesi, occorre che, malgrado tutte le diversità da noi non mai taciute, esista anche un punto in comune. Esso è rappresentato dal rifiuto della filosofia come “consolazione”, dalla convinzione che i mali di cui soffre l’umanità non devono essere “giustificati”, ma, ogni volta che è possibile, soppressi, e quando non è possibile, denunciati come tali, senza alcun “conforto stolto”. È un punto importante perché significa, pur movendo da formazioni culturali ed esperienze pratiche così diverse, una rottura netta da una millenaria concezione della filosofia, che nemmeno il secolo XVIII aveva compiuto in modo così coerente. Ma i climi politico-culturali di “compromesso” a lungo termine (non i momentanei compromessi che ogni movimento politico deve saper fare in caso di necessità) non sono stati mai favorevoli né alla fortuna di Marx e di Engels, né a quella di Giacomo Leopardi.
Nell’ultimo Timpanaro, anticipata dai consistenti segnali engelsiani che si sono visti, la presenza di Leopardi entra anche in chiave di coinvolgimento nelle problematiche ecologiche, nella polemica dei gruppi “verdi”, nel confronto, fin troppo noto, con le opinioni e con gli scritti di Adriano Sofri. Inutile, qui, ripercorrere i termini personali d’un dissenso che non ha certo vietato l’espressione dell’amicizia fra i due protagonisti e men che mai ha impedito a Timpanaro di professarsi assolutamente convinto dell’innocenza di Sofri, peraltro già dimostrata (se ve ne fosse stato bisogno), meglio che da un avvocato penalista, dallo storico Carlo Ginzburg (si ricordi Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Torino, Einaudi, 1991 [«Gli struzzi», 408]. Meglio sottolineare, dando ancora la parola a Timpanaro, le due fondamentali differenze che separano la concezione di Sofri da quella del nostro studioso. Primo, l’impossibilità d’un «Verde» che non s’ispiri innanzi tutto al «Rosso»,
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a una precisa e serrata (e severissima) critica al capitalismo planetariamente esteso, alle industrie chimiche, a quelle militari, alle multinazionali, sistemi e soggetti colpevoli di comportamenti che, su larga scala, si qualificano come interessati e irresponsabili, e quindi responsabili dello scempio dell’ecosistema e della serie di pericoli ai quali l’umanità va incontro: in tal senso, un ecologismo puramente “verde”, teso a ricomporre in un amplesso fraternamente interclassista, sdegnoso di lotte fra umani, quelle che già sono drammatiche divisioni umane segnate da gravissimi delitti, spesso fomentati e avallati dalla scienza e dalla tecnologia, contro la natura e contro gli uomini, si risolverebbe – e anzi spesso si risolve – in un vacuo, disarmato e mistificante appello che fallisce perfino i proprî destinatarî (la guerra da parte del capitale al bene, o al semplice mantenimento del mondo, è, in tal senso, già in atto). In secondo luogo, la necessità di dissipare l’equivoco su un Leopardi apparentemente convocabile al tavolo d’una generica difesa della natura grazie al senso della sua bellezza che certe liriche sublimi senza dubbio evidenziano, ma in realtà lontano da ogni possibilità di reclutamento e di strumentalizzazione da parte di chi non ha riflettuto, o non abbastanza, sulla seconda concezione della stessa natura, sulla negatività insita proprio in quel sistema che si vuole difendere, e che va certo tutelato, ma già da solo è fonte, anche in un’ipotetica situazione d’assenza d’intervento dell’uomo, di gravi pericoli, come sistema indifferente ad ogni sua creatura, ed anzi a lei nemico, se veramente si vuole seguire Leopardi; si tratta dell’inganno al quale accennavamo fin dall’inizio, d’una concezione, in questo caso, aproblematica e, se pur talvolta documentata al giusto grado d’informazione, neutramente mielosa, riguardo a una natura che non legittima un’identità polarmente dialettica sistema amico / sistema nemico: anch’essa, infatti, è ostile, e oltre tutto non è l’unico nemico che l’uomo abbia. Essa è addirittura, per il non tesserabile Leopardi, il nostro primo nemico; e, ci sia consentito dirlo, la sua σιωπῶσα ἀπάτη, insomma la sua silenziosa e ingannevole bellezza, ha colpito ancora; e questa volta non più Giacomo: I danni ecologici sono causati da “umani”, che, in linguaggio meno souple, si chiamano fisici nucleari e chimici asserviti al Potere e mossi da tutt’altro che da puro amore per la scienza come conoscenza o come alleviatrice dell’infelicità: si chiamano grandi industriali uniti in formidabili concentrazioni nazionali e multinazionali, che nel nucleare e nella produzione chimica inquinante hanno già investito e intendono ancora investire cifre astronomiche; si chiamano spesso anche piccoli industriali e produttori agricoli che, quanto a spregiudicatezza inquinante, non sono secondi a nessuno (la Toscana è una tipica regione di ‘piccoli inquinatori’, Adriano Sofri non ne sarà del tutto ignaro); si chiamano militaristi che, fra l’altro, sanno bene che ogni ricerca sul ‘nucleare pacifico’ è utilizzabile per il ‘nucleare bellico’ (e lo stesso si dica per il settore chimico). Non c’è bisogno di continuare l’elenco. Esso, nella sua sommarietà, basta già a mettere in chiaro che una politica ‘verde’ o si riduce a vaghi e innocui appelli sullo stile della Società per la protezione degli animali o dell’Esercito della Salvezza, e allora, certo, non dà fastidio a nessun “umano”, ma è una mistificazione che non salva dall’inquinamento e, se serve a qualcosa, serve a distrarre la gente dalla disumanità e iniquità di questo mondo occidentale; o si propone davvero una
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lotta efficace contro l’inquinamento, e allora esige la presa di coscienza che il “Verde interclassista” è impossibile, e che l’inquinamento non si sopprime se non si sconfiggono quegli “umani” che hanno tutto l’interesse ad inquinare. / Costoro, poi, non sono ‘semplici inquinatori’ per gusto sadico, untori di manzoniana memoria o pazzi da curare. Sono, come si è accennato, capitalisti, guerrafondai, intellettuali al loro servizio. Un discorso meramente ecologico è giustificato, anzi necessario, finché si tratta di aprire gli occhi alla gente (col massimo di documentazione e senza dar luogo ad accuse di mancanza di progetti alternativi) sui danni di un inquinamento e sulla falsità di una propaganda minimizzatrice e ‘rassicurante’, alla quale si presta volentieri anche qualche Premio Nobel. Ma, fatto tutto questo (anzi, in concomitanza con tutto questo), è pur necessario aprire gli occhi alla gente una seconda volta: far capire, cioè, che la battaglia ecologica è, in Occidente, un aspetto della più generale battaglia anticapitalistica e antiimperialistica, perché, finché vi saranno i gruppi di potere a cui si accennava, vi sarà anche l’inquinamento e tutti gli altri disastri ecologici. Altro che sospendere sine die le “lotte fra umani”! Il “Verde” è impotente se non è concepito e praticato come un aspetto del ’Rosso’. Queste cose le dissero molto meglio di me, in altri tempi, Dario Paccino e Jean Fallot, in libri che Sofri avrà certamente letto, ma di cui sembra essersi dimenticato (Il “Leopardi verde”, in Il Verde e il Rosso, cit., pp. 162-163).
E ancora: L’itinerario (tormentato, non privo di andirivieni, ma tuttavia ben reale) che successivamente il Leopardi compì fino ad approdare alla concezione della Natura matrigna, cieco meccanismo di produzione-distruzione, causa dell’infelicità umana pur senza averne coscienza, andrebbe considerato, da un punto di vista ‘verde’, come un regresso (p. 166). Senonché il secondo concetto leopardiano di Natura […] ha ancor meno a che vedere con le idee dei Verdi, e a prima vista potrebbe apparire addirittura in contrasto con quelle. In contrasto non è, ma certamente è su un piano diverso. Dall’inquinamento, da tutto ciò che sconvolge il suo pur provvisorio e relativo equilibrio, la natura dev’essere protetta, perché si è constatato che l’uomo, anch’esso un essere naturale e soltanto naturale, con quegli interventi ‘oltracotanti’ accelera la propria distruzione: su questo non è necessario tornare ad insistere. Altrettanto giusto è opporsi alle crudeltà inutili verso gli animali (la caccia, per fare l’esempio oggi più discusso, ma non certo l’unico), a tutte le forme di ingiustificata violenza contro l’ambiente. Ma sbaglieremmo (e questo proprio il Leopardi, il Leopardi maturo, ce lo insegna) se le esigenze ecologiche ci conducessero a una concezione rugiadosa della natura, che non c’è nemmeno, a guardar bene, nel primo Leopardi. Fino all’ultimo il Leopardi ha sentito profondamente la bellezza della natura e l’ha espressa con una poetica castità raggiunta da pochissimi altri; in questo senso, il Leopardi ‘idillico’ non si dilegua mai, nemmeno nell’ultimo canto, Il tramonto della luna, nemmeno in certe splendide ottave dei pur così materialistici e dissacranti Paralipomeni. Ma dietro la bellezza della natura, almeno dal 1824 e ancor più dal ’26 in poi, egli ha sempre più lucidamente veduto la sua inconscia, ma non per questo meno feroce spietatezza (pp. 167-168).
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In effetti il ciclo vitale (piante, insetti, animali erbivori, carnivori, insettivori…) si basa su un incessante e necessario divorare e tormentare, che gli ecologisti non possono abolire, devono addirittura proteggere. E la spietatezza della natura colpisce in modo più grave l’uomo (l’essere vivente più infelice, e perciò, senza sua colpa, il più cattivo: un pensiero anticristiano, che i moderati non perdonarono al Leopardi), ma non risparmia nessun essere vivente. / Anche se limitiamo il discorso agli uomini, una vittoria, anche totale, delle rivendicazioni ecologiche li salva da terribili mali aggiuntivi, e salva l’umanità nel suo insieme da un’estinzione precoce: non dall’infelicità inerente alla costituzione biologica (e, di conseguenza, almeno in gran parte, psichica) dell’uomo, non dall’estinzione della specie e di ogni forma di vita sulla terra, sia pure dopo un tempo presumibilmente molto lungo. / Identificare, come fa il Sofri, la lotta contro la natura, della quale parla il Leopardi nella Ginestra, con la lotta per salvare ciò che della natura deve essere salvato, o far credere che si possa operare una trasposizione dall’una all’altra lotta che ‘attualizzi’ il pensiero leopardiano e faccia di Leopardi il precursore dei Verdi, è una mistificazione inaccettabile. E la mistificazione non è innocua per quel che riguarda quelle famose ‘lotte fra umani’ che il Sofri è tanto desideroso di scongiurare (pp. 168-169).
Non, dunque, un abbraccio di fraternità interclassista, bensì la lotta delle classi, la lotta di classe, ancora, e semmai ancor più di prima, invocabile come unica realtà e come unica soluzione, come unico tentativo di reale salvezza dalla distruzione. *** L’intera opera leopardistica di Timpanaro si pone come un’imponente serie di riflessioni e di studî ispirati a un preciso valore antidogmatico e antischematizzante, non solo per l’estrema valorizzazione d’un autore e d’un pensatore laico e materialista nella tradizione d’un paese cattolico per definizione, come l’Italia, ma anche per la poderosa gamma di nuove proposte testuali e metodologiche, critiche e ideologiche, che spesso hanno rappresentato il segno d’una voce autonoma, talvolta coraggiosamente isolata, eppure attentissima al dibattito in corso sulle varie discipline, da quelle antichistiche, attinenti alla filologia classica (in specie latina), all’ottocentistica, al classicismo del XIX secolo, veicolato, con sostanziale novità d’impostazione storica, in chiave sì antiromantica, ma nel rifiuto di categoriali contrapposizioni conservatorismo-progressismo (Timpanaro è un ridefinitore di categorie, non ne è un assertore, men che mai quando si tratta di precedenti categorie sue). La ridefinizione si dilata, per il suo Ottocento, a vera potenzialità di riscrittura storiografica (e come doviziosamente supportata nelle letture e negli ancoraggi filologici e documentarî); tale possibile riscrittura attraversa soprattutto i tragitti leopardiani della concezione della natura, del progresso razionale della scienza filologica (in buona parte ancora da impiantare in Italia), dell’appartenenza dello stesso Leopardi, ma anche di molti autori di non esigua importanza, alle idee del classicismo, concepite (qui è soprattutto il caso di Giacomo) in una cifra esplicitamente antiprovvidenzialistica e addirittura atea (negativa è invece, per Timpanaro, la figura di Monaldo). È così che si passa da I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Recanati (o, a seconda delle circostanze, in direzione Recanati) anche nel caso di altri autori: dal Monti, ammirato per la sua Proposta, a Padre Cesari, probabile titolare d’una sollecitazione puristica nel primo Leopardi, all’amato e forse anche troppo difeso Giordani, dalla prosa di Carlo Bini all’evoluzione in direzione scientificomarxista, e in particolare engelsiana, di De Amicis: un’“antologia” d’autori che fino a non molto tempo fa si sarebbe attirata (e in parte ciò è avvenuto nei periodi in cui Timpanaro vi lavorava) le prevedibili censure, i riscontri svalutativi legati al pregiudizio formalistico-retorico che dall’Ottocento (ma non è tutta colpa di De Sanctis) grava sul classicismo italiano. A Piero Treves58 e alla sua propensione per il Foscolo, e a quella che Timpanaro definisce come una posizione non sufficientemente capace di comprendere Leopardi (secondo un pregnante concetto di Treves, la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata)59, Timpanaro risponde con una recensione che limita moltissimo non solamente l’estensione e il possesso d’una reale tecnica filologica60, ma la stessa importanza e perfino l’identità della corrente romantica e neoguelfa: […] si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: Monti, Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si ricollega l’Ascoli (la cui impostazione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso Comparetti potè, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su questo punto il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nella propensione alle generalizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi greco-latini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro e Lucrezio, che in Italia trovò espressione in Gaetano Trezza e, con maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendido commento a Lucrezio di Carlo Giussani61.
E prima ancora (pp. 375-377): Ma in quale misura è esistita nel secolo scorso una storiografia del mondo antico che possa dirsi neoguelfa? Questa è la domanda che si presentava spontanea già al lettore de L’idea di Roma e che si ripresenta al lettore del nuovo volume. Il Croce, anche se sopravvalutò la scuola neoguelfa, aveva comunque tutto il diritto di parlarne ampiamente, perché si riferiva agli studi di storia medievale di Balbo, Troya, Manzoni, Capponi. Ma nel campo della storia antica, a cui si riferisce il Treves, è difficile indicare in tutto l’Ottocento una sola opera originale di indirizzo neoguelfo. Vi sono,
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certo, brevi scritti e occasionali meditazioni di cattolici liberali sulla storia e la letteratura romana (col greco nessuno di essi aveva confidenza). Il Treves riporta nella sua antologia, con un prezioso commento, due testi di grande interesse, le postille del Manzoni alla Storia romana del Rollin e gli Studi sopra le lettere di Cicerone di Gino Capponi: il primo tutto teso alla condanna morale del mondo antico (violento, schiavista, adoratore del potere politico e della falsa gloria militare, e quindi essenzialmente anticristiano), il secondo più preoccupato di conciliare il cristianesimo con la comprensione storica del mondo pagano. Sta di fatto, però, che queste meditazioni non costituirono, come il Treves stesso riconosce (pp. XXX-XXXII), un avvìo a un’esplicita attività storiografica. La polemica contro l’idealizzazione retorica dell’antichità – quella che il Treves chiama felicemente la «decoturnizzazione dell’antico» – è certo un merito di alcuni scrittori cattolico-liberali (non, tuttavia, una caratteristica esclusiva della loro scuola: contro il valore paradigmatico dell’antichità classica si battè sempre il Giordani, si erano battuti gli illuministi nel Settecento; e d’altra parte, non è forse affetto gravemente dalla retorica della romanità il Gioberti, leader politico e ideologico del neoguelfismo?). Ma la «decoturnizzazione», benché importantissima, appartiene ancora alla pars destruens: i romantici, i neoguelfi italiani non fecero seguire ad essa la costruzione di una nuova filologia e storiografia, ma preferirono svalutare l’antichità pagana a favore del Medioevo cristiano. E in quella loro condanna dell’antichità, insieme a fermenti di umanitarismo cristiano-democratico, di antiretorica, di antigiustificazionismo, c’erano (non solo negli oltranzisti francesi alla Gaume, molto efficacemente caratterizzati dal Treves, ma anche nel Manzoni) motivi di polemica antimaterialistica e antigiacobina; così come, a sua volta, il classicismo del primo Ottocento non fu soltanto difesa di una tradizione letteraria imbalsamata, ma, in alcuni suoi rappresentanti, repubblicanesimo, laicismo, antimetafisica. Ciò ha riconosciuto ed espresso assai bene lo stesso Treves nel capitolo de L’idea di Roma intitolato «L’ambivalenza del classicismo» (p. 36 sgg.) che è, a mio parere, il migliore di quel libro. I più ampi sviluppi che quel capitolo avrebbe potuto avere nell’una e nell’altra opera del Treves sono stati, mi pare, bloccati dall’eccessivo amore per la tesi neoguelfa.
Altrettanto coraggio anticonformistico ha presieduto alle letture mirate al recupero e allo studio del pensiero laico, antireligioso e antiprovvidenzialistico nelle varie epoche, dallo scettico neoaccademismo di Cicerone (anche rispetto all’epicureismo antico, e con completa e integrale indipendenza dalla lunga scia svalutativa mommseniana) all’illuminismo empirico e antivoltairiano, all’antiteodicea di d’Holbach (anche rispetto a Diderot)62, al positivismo naturalistico, troppo spesso fatto segno a facili saccenterie svalutative, dello stesso Zola. Il materialismo timpanariano si propone soprattutto come un materialismo delle cause esterne all’uomo e al suo agire: un materialismo polarmente negatore del libero arbitrio, un materialismo che realmente produce in ogni declinazione dell’opera culturale (non solo leopardiana) dell’autore, nella produzione filologica e nella ricostruzione storiografico-filosofica, nell’atto dell’incertare e nell’atto dell’inverare, un atteggiamento culturale e biografico antimentalistico, antipsicologistico, antispiritualistico, al quale, come si è visto, anche Cicerone reca i suoi contributi, e non si tratta di contributi così sorprendenti. I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Leopardi, come in parte siamo venuti dicendo, è la finestra sul mondo della stessa cultura filosofica, anche grazie al suo rapporto con gli antichi (non solo, quindi, con i settecentisti): il materialismo sensistico ricorda, sempre tramite Giacomo e le progressive acquisizioni del suo pensiero, che fra natura ed uomo non v’è rapporto armonico, e che l’etimologia di natura ha in sé una contraddizione che denuncia, all’interno dell’uomo, un principio che gli è nemico nell’atto stesso che lo crea, o, meglio, che lo fa nascere. Ben peggiore sarebbe, comunque, una denegazione della nostra appartenenza alla natura: lo ricorda lo stesso Timpanaro a proposito di Theodor Gomperz e d’un orfismo che pure lo studioso austro-moravo mostra nei suoi famosi Pensatori greci di ben capire e di valorizzare, fin dove è possibile: è propria di tale filosofia «l’ostilità dichiarata alla natura e il rinnegamento ascetico delle sue esigenze anche salutari e innocenti» – cfr. Aspetti e figure della cultura ottocentesca, cit., pp. 410-411). È proprio per questo che la natura va studiata, ed è un “programma” ancora da attuare: se il Settecento di Leopardi, innestato sulla base culturale classicistica e su una fondamentale fiducia nella ragione (pure nell’arte), assume su di sé anche il significato di un’antica riflessione sul mondo, occorre attendere il marxismo, nell’Ottocento, per ribaltare in chiave materialistica il più recente e il più pericoloso inganno idealistico, quello hegeliano: già con Marx (ben prima che fossero state scritte le opere engelsiane ammirate da Timpanaro), nell’opera giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, ripubblicata in Italia da Galvano Della Volpe nelle Edizioni Rinascita nel 1949, si trova, scrive Lucio Colletti63, «la denuncia della logica dialettica di Hegel come “misticismo logico”, la critica radicale della confusione tra pensiero ed essere: quello scambio fatale che anche Feuerbach aveva segnalato come la “mistica razionale”, la rationelle Mistik di Hegel (la stessa mistica elaborata, oltre che da Eckart e da Cusano, da tutta la tradizione del neoplatonismo cristiano)» (ibid.); Marx rivolge una «critica acutissima e a tratti feroce […] contro l’idea-Sostanza di Hegel e il suo presunto automovimento dialettico»; se per l’idealismo, non solo italiano, «Hegel segnava il culmine del pensiero critico», Della Volpe «mostrò le radici teologiche di quel preteso criticismo». Uno degli approdi più importanti dell’operazione culturale compiuta da Timpanaro, riguardo all’Ottocento, è proprio quello di averne fornito e promosso una lettura antihegeliana. Ma a proposito dell’antihegelismo non mancano, certo, voci di riscontro critico alle concezioni di Timpanaro. Si veda ad esempio Roberto Finelli, in Il marxismo di Sebastiano Timpanaro tra ‘natura prima’ e ‘natura seconda’, nel citato volume collettivo Per Sebastiano Timpanaro64. Finelli ricorda il concetto di “natura seconda” in Hegel come imprescindibile punto di partenza del Marx dei testi maturi. «Natura seconda» sta a designare tutte quelle pratiche di vita, quelle consuetudini proprie di una comunità, che il singolo rispetta e riproduce spontaneamente, senza necessità alcuna di sottoporle al vaglio della sua critica e della sua scelta: cioè l’insieme dei valori e dei comportamenti che sono pre-dati alla sua esistenza individuale e cadono, come tali, fuori della sua possibilità di decisione, di elaborazione e di trasformazione (p. 140).
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Attraverso l’irrinunciabile passaggio rappresentato dalla definizione marxiana dei concetti di feticismo e di reificazione, Finelli precisa: Ora, in sede di storiografia del marxismo, ciò che va sottolineato è che proprio tale connessione feticismo-reificazione-natura seconda ha costituito l’asse portante di quel marxismo europeo del ’900 (in particolare il Lukács di Storia e coscienza di classe e il marxismo tedesco dalla Scuola di Francoforte in poi), che per Timpanaro partecipa invece, tutto, di una regressione idealistica e soggettivistica. E che dunque ciò che Timpanaro condanna come marxismo fortemente gravato da una forte curvatura dialettica implica all’opposto una fondamentale articolazione d’oggettivismo sociologico che esplicita come il materialismo di Marx, proprio a partire dalla realtà dei rapporti di produzione del capitale, possa spiegare in modo né semplicistico né meccanico la genesi delle forme di coscienza e dell’immaginario ideologico della società contemporanea. / Ma alla visione di Timpanaro, anche per la forte componente scientifico-naturalistica presente nella sua ispirazione, è fatto divieto d’intendere la tesi fondamentale del marxismo europeo d’origine hegeliana: e cioè che un’astrazione possa generare realtà. Ossia che la società moderna vada compresa non a partire da soggetti individuali e concreti, come vuole l’intera tradizione di cultura anglosassone […], bensì da quella soggettività impersonale ed astratta che è la ricchezza capitalistica nel suo carattere quantitativo e accumulativo. Vietandosi così d’intendere anche come la teoria hegelo-marxiana del nesso di socializzazione moderna, quale nesso collocato esternamente ai singoli per essere simmetrico e garante della loro presunta libertà, apra un’interpretazione della modernità istituita sull’astrazionereificazione (pp. 142-143).
Anche la “vulgata” d’un isolamento di Timpanaro riceve qualche correttivo: «L’intero marxismo italiano, nelle sue più varie articolazioni, s’è mantenuto assai lontano, per non dire del tutto estraneo, alle tematiche del marxismo dell’astrazione reale» (p. 143). E si ricordi (ma già lo aveva notato Timpanaro) che i testi giovanili di Marx, rispetto a quelli della «matura critica dell’economia politica», sono «i più appesantiti da un’antropologia spiritualistica che […] è ben distante dalla consapevolezza matura del Capitale, in cui appunto astrazioni generano realtà» (p. 144). Non meno importante, dopo la forte e articolata critica di Timpanaro all’opera di Freud, è l’argine protettivo innalzato da Finelli a difesa del fondatore della psicoanalisi e della sua importanza non solamente sul piano dell’applicazione terapeutica e della psicologia, ma anche sul piano della filosofia: Ma appunto anche nel caso del giudizio sull’opera di Freud e della psicanalisi ciò che Timpanaro rifiuta di accogliere nel suo orizzonte mentale è l’idea di una logica terza che non sia né quella di causa-effetto del determinismo naturalistico né quella del pensiero logico-discorsivo, ossia di una logica ‘altra’ del comportamento umano che non sia riconducibile né a una causalità materialistico-corporea (qual è quella comunque privilegiata nella spiegazione della prassi umana da Timpanaro) né a uno scegliere consapevolmente e responsabilmente motivato. Invece è proprio questo tipo di legalità che Freud ha inaugurato, scoprendo il continente fin allora scono-
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sciuto dell’inconscio e decifrandone la struttura logica di base. Visto che, almeno a mio avviso, l’originalità dell’indagine freudiana sta proprio nella definizione di una logica specifica del pensiero inconscio: delle leggi costitutive cioè di un pensare che è radicalmente altro da quello cosciente, il cui procedere si svolge attraverso connessioni e articolazioni discorsive (p. 146).
Sempre a Freud va accreditata una «riflessione sul linguaggio, a partire dalla distinzione tra Sachevorstellung (rappresentazione di cosa), e Wortvorstellung (rappresentazione di parola)», che conduce alla tesi fondamentale per la sua teorizzazione della psicanalisi, che non solo il mentale, o lo psichico, coincide se non in parte assai limitata con il cosciente e l’intenzionale, ma che la parte della mente che s’identifica inconscia in tanto è tale in quanto non si struttura e non si organizza linguisticamente. Il pensiero inconscio è un pensiero senza linguaggio: questa l’affermazione più propria di Freud, che appunto dedica luoghi fondamentali della sua opera, in una continuità che va al di là delle due topiche e delle due teorie pulsionali, ad argomentare come la logica costruttiva e associativa dell’inconscio non si serva dell’articolazione delle parole e dei fonemi linguistici, bensì di una associazione-dissociazione che procede attraverso materiale rappresentativo concreto, fatto di immagini sensoriali (visive, auditive, olfattili, tattili, cinestesiche) senza linguaggio. / Il pensiero incoscio, com’è argomentato in modo esemplare nella Traumdeutung attraverso l’analisi delle funzioni della ‘condensazione’, dello ‘spostamento’, ecc., è un pensiero che associa in modo diverso dall’associare linguistico-discorsivo proprio del pensiero cosciente (pp. 146-147).
E ancora, più sotto: E appunto solo l’articolazione e la compresenza di queste tre logiche – corporea la prima, rappresentativa e non-verbale la seconda, linguistico-discorsiva la terza – spiega per Freud la complessità della psiche umana e l’intreccio dei suoi rapporti, intersoggettivi e con gli altri da un lato, intrasoggettivi e con la dimensione biologicomaterialistica della corporeità dall’altro (p. 148).
Si può giungere, diciamolo pure (e le parole di Finelli professamente lo autorizzano), ad avvalorare il capovolgimento non delle teorie di Timpanaro, ma certo delle sue panoramiche interpretative, a loro modo implacabili nel ritrovare in molte delle correnti culturali dell’Ottocento e nella maggior parte delle tendenze novecentesche segni e indicatori di misticismo, di soggettivismo, d’irrazionalismo, di individualismo volontaristico: Dunque non alogica la teorizzazione dell’inconscio in Freud, come pretende Timpanaro nella sua esigenza di ridurre la psicanalisi a irrazionalismo. Giacché, come s’è appena detto, la peculiarità della scoperta freudiana è stata, all’opposto, proprio quella di definire logica e leggi dell’inconscio e di sottrarre, solo attraverso tale percorso, l’ambito del non-cosciente, di cui com’è noto e ovvio s’era trattato ben prima della nascita della psicanalisi, a ogni ipoteca d’intuizionismo e di romanticismo.
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Quello che a Timpanaro appare come il misconoscimento per eccellenza di Freud, di aver voluto negare la natura meccanica di molti processi e sintomi psichici per teorizzare un agire finalistico e personalistico d’un inconscio non-razionale (equivalente per il Nostro a irrazionale e mistico), si mostra essere invece la rimozione più tenace messa in atto da una cultura scientifico-illuministica, com’è quella di cui Timpanaro partecipa, di ammettere l’esistenza di zone ampie dell’esperienza umana non riducibili al paradigma delle scienze della natura.
Non meno importante, e insieme segnato da commosse movenze di scrittura nella rievocazione amicale, il contributo critico di Paolo Cristofolini nel citato numero di «Allegoria»65; non sorprende la confessione che Timpanaro faceva, oralmente e privatamente, della sua passione (e della sua primitiva attrazione di studente) per le scienze biologiche, in specie per la zoologia (in altri passaggi e in altre sue enunciazioni egli confesserà massimo apprezzamento per la geologia). La prospettiva antiidealistica e antiattualistica, l’assoluto antiantropocentrismo, il concetto della mancanza di vita sulla terra e della singolarità di condizioni che si sono verificate per il suo inizio, la nostra dipendenza, anche nel pensiero, dalla morfologia anatomofisiologica del nostro corpo e dalle condizioni ed accidenti esterni, il condizionamento e la passività, sono riaffermati, nella lucida sintesi di Cristofolini, con assoluta perspicuità: E parlo di passione costante perché il suo interesse per il mondo animale ha fatto sempre da sostrato a tutto il suo studio attorno alle vicissitudini storiche, sociali, culturali dell’animale-uomo. Non si comprenderebbe altrimenti l’insistere così martellante sul tema della marginalità dell’uomo nell’universo, sul fatto che per lunghissimo tempo la vita sulla terra non c’è stata, che il suo sorgere è dipeso da particolarissime condizioni, e soprattutto che il pensiero stesso dell’uomo, lungi dall’essere, come vogliono l’idealismo e l’attualismo, la sede e il fulcro di questi stessi contenuti scientifici, è condizionato dalla sua struttura anatomica e fisiologica, ed è dunque suscettibile di essere offuscato, impedito, spento, da alterazioni patologiche, da stati di delirio, di follia, di collasso, dall’invecchiamento e dalla morte. / Condizionamento e passività: questi sono i due cardini del materialismo biologicamente fondato, che guidano Timpanaro al rifiuto verso quanto di «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità possa essere espresso o anche soltanto implicito nella versione dialettica del materialismo. […] il suo è un socialismo, si può dire, senza sole dell’avvenire […] (p. 74).
Ma quando il materialismo di Timpanaro (non solamente quello derivatogli dalla sua cultura) incorre nella verifica dei proprî proclamati elementi costitutivi edonistici, l’unico “fattore” ricollegabile alla sfera e al pensiero del piacere è rappresentato dall’«istinto sessuale»; gli altri tre «dati costanti della condizione umana» (le citazioni sono tratte dal Sul materialismo, p. 24) sono «l’indebolimento (con le relative ripercussioni psicologiche) prodotto dalla vecchiezza, la paura della morte propria e il dolore per la morte altrui»: tre “dati” che, scrive Cristofolini (p. 82), «quanto all’edoné sembrano proprio agli antipodi»; e mentre questi sono «integralmente e dramI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
maticamente umani», il primo elemento (l’istinto sessuale) rinvia a un punto di vista del piacere «puramente animalesco». Il materialismo edonistico, nella concezione di Timpanaro, sembra conoscere solo la dimensione del dolore, e sembra essere tale (“edonistico”, appunto) soltanto nella realtà della “mancanza”, nella specularità chiaroscurale che individua la stessa connotazione edonistica non in una forma affermativa, asseverativa, asseribile del piacere, bensì nella consapevolezza – riguardo agli elementi dell’edoné – della scomparsa, dell’assenza, del deperimento, del patimento. E un concetto positivo del piacere «è per Sebastiano inconcepibile: sotto non può esserci che l’inganno consolatorio, la religione o il surrogato della religione» (p. 83). È questa, scrive ancora Cristofolini, la vera causa della non approfondita (nel caso di Timpanaro il concetto equivale a «mancata») lettura di un filosofo come Spinoza: «Questi si ritrova a volta a volta accoppiato a Bruno, secondo la vulgata gentiliana, e classificabile come pampsichista; o peggio, ridotto nella cosiddetta ‘teoria spinoziano-hegeliana della libertà come coscienza della necessità’» (p. 82). Eppure Spinoza, anziché una schematizzazione sulla base di concetti irreperibili nei suoi testi, poteva stimolare nel filologo materialista una riflessione su «problemi interessanti, anche in tema di edonismo»; a Timpanaro, in questa singola, non felicissima declinazione del suo impegno d’insigne lettore, è mancato l’artiglio del filologo per vedere in Spinoza il senso antiteologico della negazione dell’opposizione tra libertà e necessità, e della libertà come realizzazione della natura umana; per vedere la critica serrata dei miracoli nel Trattato teologicopolitico, che attrasse l’attenzione appassionata di Marx, e la distruzione del teleologismo e del provvidenzialismo nell’appendice alla parte prima dell’Etica, testo che ispirò potentemente tanta parte del pensiero libertino e illuministico del Settecento francese; sul piacere e sul dolore, basti pensare che in Spinoza la superstizione consiste nel giudicare cattive tutte le cose che arrecano gioia e buone tutte le cose che arrecano tristezza; mentre viene qualificata come «tristis et torva superstitio» la rinuncia agli onesti piaceri materiali della vita (p. 83).
Da questi rilievi può ricevere rinnovata connotazione l’assoluta congenialità, l’affinità elettiva (proviamo a chiamarla così?) con Leopardi, con il suo mondo umano e con il suo pensiero, più ancora, oserei dire, che con il suo mondo artistico-poetico: Materialismo significa, per lui [Timpanaro], conoscenza a fondo del dolore; e per edonismo si può soltanto intendere il precipizio interminabile del rimpianto. Leopardi domina tutta l’atmosfera anche filosofica, entro la quale lui si muove e pensa; dunque il piacere è figlio d’affanno; le gioie della giovinezza sono illusioni che cadono all’apparir del vero; Nerina or più non gode, e il suo aver goduto, se c’è stato, è irrimediabilmente sopraffatto dall’acerbo destino mortale. C’è un primato della sofferenza sulla gioia, del declino sulla crescita, in nome del quale si rintuzzano come pseudo-religioni consolatorie e illusorie le virtù del melius vivere, proprie di quei classici, da Epicuro a Spinoza, che emarginano la meditatio mortis. No, Sebastiano Timpanaro non sarebbe stato conquistato alla filosofia di Spinoza nemmeno se l’avesse studiata a fondo (ibid.).
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Ma le contraddizioni non inficiano, anzi, fanno ulteriormente stagliare l’austero e meditativo profilo del “materialista edonista”, del leopardista quanto più chino sulle letture, tanto più svettante nella ricezione novecentesca del disperato messaggio lanciato dal colle dell’Infinito di Recanati come dalle pendici del Vesuvio rimpetto al golfo napoletano: Nessun altro forse, tra i letterati e i pensatori del secolo appena trascorso, ha vissuto così interamente, e con argomentazione così serrata, il messaggio unico e universale di dolore che emana da Leopardi. Lo stesso non risolversi (né dialetticamente, si capisce, né in altra maniera) delle contraddizioni teoriche, fa tutt’uno con la forza espressiva di questa disperazione. E il tutto in un clima psicologico opposto a quello della passività o della rassegnazione, anzi, con lo scatto incessante della ribellione (p. 84).
Il leopardismo segna anche la posizione, la collocazione di Timpanaro nel panorama dei dibattiti filosofico-ideologici del Novecento italiano. Un confronto di importanti percorsi intellettuali, tutt’altro che chiuso al riconoscimento di elementi comuni, e nonostante questo non ancora abbastanza studiato, è quello fra lo stesso Timpanaro e Ludovico Geymonat66. Senz’altro d’accordo sulle basi engelsiane, sulla «priorità dell’essere sul pensiero, della materia o natura sullo spirito», Timpanaro non può essere del tutto soddisfatto di certi sviluppi geymonatiani, che pure mettono l’autore della Storia del pensiero filosofico e scientifico in contrasto con la linea egemonica del marxismo ufficiale in Italia (Geymonat, lo ricordiamo, parte da un preciso programma antiidealistico ed anzi scientista – non da “materialismo volgare” – derivato dall’impegno di pensatori come De Sarlo, Pastore, Enriques, Martinetti, Faggi); «un dichiarato materialista engelsiano (ma anche leopardiano)» nutre prevedibile (e coerente) diffidenza per la dialettica e per l’epistemologia. Girolamo De Liguori parla a questo proposito d’un problema che costituisce «un significativo nodo storico e teorico del pensiero italiano del Novecento: Timpanaro – materialismo dialettico – Geymonat»; e neppure Luigi Cortesi, curatore della raccolta di scritti che è andata sotto il titolo de Il Verde e il Rosso, sottolinea a fondo questo valore del materialismo leopardiano, e della stessa figura di personaggio-filosofo rivestita da Leopardi, come confluenza e più ancora come smistamento di correnti di pensiero che a Timpanaro, studioso di Giacomo, si propongono con la loro rigorosa e pressante, e spesso ardua necessità: Il curatore del recentissimo e meritorio volume di scritti timpanariani militanti dal 1966 al 2000, nella sua sentita introduzione non pare accorgersi, ad esempio, della profonda valenza storica e teoretica che ha l’intonazione leopardiana del materialismo timpanariano e di come essa richieda, da un canto, un approfondimento in sede storiografica entro il percorso non lineare del materialismo moderno, da Spinoza a D’Holbach, e, dall’altro, un confronto più che opportuno con l’epistemologia materialistica da Engels a Geymonat. Nel paragrafo che egli dedica al Contributo di Engels e di Lenin al materialismo, è ricordato, nel confronto con l’interpretazione timpana-
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riana, il solo Lucio Colletti. La circostanza non soddisfa lo storico che colga lo spessore e il travaglio di meditazione e di analisi di cui s’era caricata la riflessione timpanariana sulla letteratura marxista da un canto e la storia della cultura moderna dall’altro67.
Come si vede, si tratta d’un’ulteriore serie d’indicazioni di studio del materialismo, dalle sue figure “curricolari” sei-settecentesche alle problematiche dei filosofi della scienza e dell’epistemologia materialistica moderna. Se si ricorda la «profonda valenza storica e teoretica» dell’«intonazione leopardiana del materialismo timpanariano», è lecito inferirne che Leopardi è per Timpanaro il nucleo agglutinante delle varie declinazioni del pensiero materialistico; lo stesso De Liguori afferma: «In Italia, il solo Leopardi ha rappresentato, in maniera anomala, la coerente tenuta di un rigoroso materialismo, strettamente connesso alla drastica negazione della razionalità del reale» (p. 487). Ancora, De Liguori legittimamente rileva che Timpanaro concorda con Geymonat sulla validità della «scelta realistica», intendendo per questa «il risultato della stessa ricerca scientifica, il riconoscimento, finalmente antitrascendentale, di un oggetto che si manifesta come qualcosa di altro dal soggetto, cioè di irriducibile ai processi con i quali l’umanità cerca via via di chiarirlo e dominarlo» (p. 493). E come Engels, anche Lenin fa parte degli autori e dei punti di riferimento comune con Geymonat; ed è il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, con il «necessario recupero di quel senso comune o realismo ingenuo che anche all’isolato Timpanaro era parsa l’irrinunciabile premessa – in tal senso materialistica – di ogni seria assunzione della scienza a fondamento della conoscenza». Semmai, Geymonat non può «del tutto seguire» Timpanaro nell’assoluta diffidenza per la dialettica e per ogni sua implicazione, dalla «concezione provvidenzialistica della storia» a quella allure «negazioni-inveramenti» alla quale il filologo materialista oppone la frequenza (non la certezza o la matematica scansione) delle «cadute irreversibili» o «perdite secche», concetto che, come si è constatato, più che mai ritorna nella riflessione ecologicoplanetaria (più engelsiana che “verde”) sulla fine del mondo; ma Timpanaro, al di là d’ogni commistione storica di tendenze diverse, «seppe cogliere il filo nascosto che congiungeva il materialismo dialettico alle più profonde istanze di quello pre-marxista, di un Holbach o di un Leopardi» (p. 495)68. A questa “traccia” materialistica (né v’è bisogno di sottolineare il suo carattere problematico e tutt’altro che lineare) non vien certo meno l’ultimo Lenin, che, nelle parole di Timpanaro, riconosce, nell’articolo del 1922 Sul significato del materialismo militante, il valore del materialismo basato sulle scienze della natura che non sia ancora pervenuto al punto di vista marxista […] ma svolga intanto un’azione chiarificatrice in senso laico, antiprovvidenzialista, antiantropocentrico. In questo ambito, dice Lenin, la “letteratura militante ateistica del XVIII secolo ha ancora una funzione indispensabile da adempiere” (TIMPANARO, Sul materialismo, cit., p. 218, con i relativi rinvii testuali a Lenin).
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Un aspetto che forse non è stato a sufficienza sottolineato nell’itinerario timpanariano è rappresentato da quella che nel tempo si rivela l’elettiva sede editoriale dei suoi studî più noti, dei saggi, o delle raccolte di saggi che, al di là delle alte prove che lo studioso già aveva dato di sé come filologo classico e come leopardista, hanno reso Timpanaro, come si suol dire, appunto “Timpanaro”, l’autore di Classicismo e illuminismo, di Aspetti e figure della cultura ottocentesca e di Nuovi studi sul nostro Ottocento. La sede di questi saggi, la collana dei «Saggi di varia umanità» della benemerita Nistri-Lischi di Pisa, collana a suo tempo fondata da Francesco Flora, ha in séguito avuto come direttore Lanfranco Caretti, che ha non solo accolto, ma spesso anche discusso e caldeggiato, arricchendo l’autore di spunti e di suggerimenti e a sua volta rimanendone arricchito, i volumi timpanariani. Il rapporto di Timpanaro con Caretti meriterebbe, ove ciò fosse possibile, un approfondimento sulla base della loro opera, dell’epistolario intercorso fra i due e delle testimonianze di chi li ha conosciuti. Di fatto, e dato l’arco ufficiale in prevalenza ottocentistico di questa collaborazione d’amici, uno dei maggiori manzonisti e uno dei maggiori leopardisti italiani dialogano in quello che realmente si pone come un fecondo scambio di pensiero, di progetto e di opinione, non solo sul piano d’una peculiarità letteraria, libresca, testuale, filologica degli argomenti, ma soprattutto nella valorizzazione filosofico-culturale, e pour cause con aperta serietà ideologica, d’un asciutto laicismo razionalista, d’una concezione rigorosamente secolarizzata della storia e della cultura, un laicismo dischiuso ad alcuni dei maggiori valori fondanti dell’illuminismo settecentesco e, nell’Ottocento, del classicismo e dello stesso positivismo, e in quanto tale (non sempre la conclusione è così lapalissiana), un laicismo razionalista profondamente, oserei affermare acuminatamente alieno da qualunque acritico consenso a “chiese” o a precostituite ideologie. Timpanaro leopardista, conoscitore del Manzoni, ma sostanziale antimanzonista (come chiaramente mostrano i saggi che compongono Antileopardiani e neomoderati, ma anche il saggio su Pietro Gioia apparso nei Nuovi studi e, nella stessa sede, il saggio su De Amicis di fronte al Manzoni e al Leopardi); Caretti laico manzonista e non certo antileopardiano (anzi), ma, si dica così, leopardiano tanto silente da non avere mai – eccetto un ἅπαξ giovanile – pubblicato uno scritto né dedicato un solo corso universitario a Leopardi. Non mancano, si converrà, alcuni elementi che sembrerebbero rinviare ad una netta divergenza di posizioni e d’opzioni critiche, e d’implicazione molto importante, nella visione non solamente letteraria dei due filologi-storici, di due fra i più eminenti allievi di Pasquali (si ricordi, non solo per Caretti e per Timpanaro, l’altra occasione collaborativa nistri-lischiana, il volume del 1972 Per Giorgio Pasquali; si rammenti altresì la Premessa di Timpanaro – pp. 1524 – alla Bibliografia degli scritti di Lanfranco Caretti, Roma, Bulzoni, 1996). Quasi si direbbe, per capirsi, un “sistema a doppio scambio”, una duplicazione fin troppo perfetta di corrispondenze reciprocamente compensate e complementari, in una simmetrica specularità nella quale i due studiosi appaiono destinati, per meriti oggettivi, a “spartirsi”, anche nell’ampio riscontro che v’è stato nella comunità scientifica ai loro lavori, non certo tutti, ma molti dei più rilevanti percorsi della manzonistica e della leopardistica in Italia: ossia, molti dei tragitti storiografici e critici (e filologici) I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
riguardo al maggiore autore-pensatore cattolico ed al maggiore autore-pensatore laico dell’Italia filosofica e letteraria moderna. Una focalizzazione del legame intellettuale Caretti-Timpanaro a noi appare quanto mai necessaria a lumeggiare, anche di scambievole riverbero, di mutua rifrazione critica, l’una e l’altra figura, e in special modo quella del leopardista, che, con Classicismo e illuminismo nel 1965, è in certo senso divenuto tale (nonostante gli straordinarî precedenti filologici) proprio grazie all’editore manzonista, a un Caretti ufficialmente sbilanciato con assoluta sperequazione d’occorrenze saggistiche sul versante manzoniano, su Alessandro Manzoni, milanese, su Don Lisander lombardo-romantico-europeo. Caretti vero “editore di Timpanaro”, del “Timpanaro di Nistri-Lischi”, del Timpanaro universalmente noto, anche nella vasta platea della fruizione studentesco-liceale: il Timpanaro del classicismo leopardiano, del marx-leopardismo, del materialismo, dell’illuminismo «per tutti». Né qui s’ipotizza un’indagine di semplice attuazione: il privilegio della diretta conoscenza e del facile contatto comunicativo (i due studiosi hanno vissuto a lungo nella stessa città) si rovescia in antiprivilegio per i posteri, anche i posteri frescamente contigui, bisognosi per i loro accertamenti di riscontro cartaceo-documentario. In attesa di riscontri sugli epistolarî, l’elemento in comune appare proprio costituito dall’ideologia socialista radicatamente laica e dalla relativa collocazione culturale; basti ricordare, per Timpanaro, le parole di Cristofolini nel citato saggio Materialismo e dolore di «Allegoria» (pp. 73-74): «Metterei al primo posto un aspetto della personalità di Timpanaro che non trova espressione nei tre libri or ora citati [La genesi del metodo del Lachmann, La filologia di Giacomo Leopardi, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano], ma che è assolutamente necessario per capire i suoi percorsi, anche filologici e letterari: la coerente e appassionata militanza nel movimento operaio e socialista negli anni della sinistra PSI di Basso e Vecchietti, e poi del PSIUP»; e già si è messa in luce la precisa e focalmente mirata valenza anti-PCI di tale socialismo (per converso il PCI, particolarmente in Italia, deve non la sua connotazione, ma la propria stessa nascita, la propria stessa presenza e natura di partito, la propria ragione direttamente identitaria e istitutiva ad una scelta antisocialista, ad una scissione storica funzionale a una peculiare differenziazione d’ontologia politica). I due studiosi in tal senso rinvengono un’attendibile area intersettiva di “posizione ideologico-culturale”, se non d’opzione e d’idem sentire, di coincidenza d’orizzonti e di reali volontà politiche, e di personale, antropologica Weltanschauung (più tormentata e inesaudita quella timpanariana, soprattutto sul piano della diretta paternità culturale e discepolare, dell’incertezza su una reale sponda mandataria della sua lezione); i due studiosi dialogano in un fondamentale accordo di vedute nella loro affinità di favore e di consenso ad una visione laico-socialista anti-PCI. Si possono, certo, ritrovare altre affinità culturalmente elettive: ad esempio, nel razionalismo carettiano, nell’accettazione, da parte del critico ferrarese, dei migliori approdi della più vitale lezione classicistica cinquecentesca come del “buon gusto” logico e anti-barocco della letteratura arcadico-razionalistica settecentesca (e il XVIII secolo è nei due studiosi un’area amata e comune). E il protocollo critico di Caretti, nel ribadire la congenialità con la migliore tradizione letteraria estense, granducale, fervida e creativa
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ma vigilatissima sul piano formale e mai sprezzante dei canoni, prima di riscoprire quelli aristotelici e, per altra ma poi coincidente via, quelli controriformistici, ha forse il suo riscontro nel non casuale ambito granducale, parmense-piacentino, in cui si è in prevalenza svolta, non senza gravi difficoltà pratiche e spirituali, l’attività e l’esperienza di classicista dell’autore mai abbandonato da Timpanaro e sempre difeso e sostenuto e rivalutato anche a costo d’impopolarità e d’effrazione di pacchetti critici preconfezionati e di luoghi comuni, dell’autore cui risale, con il saggio in «Società» del 1954, il primo nucleo di Classicismo e illuminismo, il prediletto Pietro Giordani. Ma nel suo socialismo engelsiano-leopardiano, Timpanaro professa rispetto a Caretti, in realtà, posizioni del tutto diverse; ed anche il suo socialismo è d’origine e d’impostazione assai differente; in Caretti la scelta socialista ha il valore d’una sostanziale acquisizione post-bellica, estranea a reali professioni anche indirette di marxismo, e anzi tenacemente fedele negli anni a un modello esemplare da probivirato laico, ammiratore dell’esperienza rosselliana, ma incline, nei suoi tratti effettivi (si ricordino il capitolo garzantiano sul Foscolo e il saggio sulla «Ronda»), a sostenere nelle grandi personalità indagate il patteggiamento adattivo con la situazione della realtà in atto, con le coordinate dello spazio e del tempo nei quali concretamente l’intellettuale si trova a vivere; in Timpanaro si tratta invece d’un socialismo propriamente marxiano-engelsiano, concepito nel suo indispensabile rilancio leninista e tročkijsta; un socialismo anti-PCI ma non certo un socialismo anticomunista: si può anzi dire, al di là delle spesso strumentali definizioni, criptosigle, acrostici denominali d’onomastica partitica ufficiale, un “socialismo comunista”, un socialismo mirante alla perfetta società comunista anche dove l’intellettuale non la intraveda realizzabile. Un socialismo realmente comunista, insomma, in un sintagma che la storia ha più volte reso antinomico, ma che per l’ideologo e per il militante di leopardiana cultura è piuttosto un sintagma coerente, seppur problematico al suo interno, un sintagma diacronico (“socialismo comunista”, appunto), d’una filosofica e qualitativa diacronia. In Timpanaro, infatti, il socialismo è anti-PCI, o si autoappercepisce come tale, proprio ed esattamente perché comunista, o, se si preferisce e se si assume l’ottica dello stesso studioso, ancor più profondamente e convintamente comunista della formazione politica ufficiale che in Italia ha rappresentato tale pensiero per un lungo segmento storico (tanto che il PSI viene abbandonato quando il partito rinuncia a una vera collocazione a sinistra: si ricordi la Prefazione ad Antileopardiani, cit., p. 12); in Caretti, invece, il socialismo si pone su un piano diverso da quello del PCI perché realmente alieno, e spesso addirittura contrario, alle impostazioni e alle prospettive dell’ideologia comunista. Sul piano peculiarmente critico-letterario si potrebbe aggiungere, ma si tratta d’aggiunta allusiva a notevoli conseguenze, che frutto della sinergia culturale (e pubblicistico-editoriale) Caretti-Timpanaro sia stato un contributo di denegazione d’ogni possibile presenza del romanticismo in Leopardi, e l’assegnazione del totale appannaggio dell’appartenenza e della collocazione romantica in Italia, nei suoi risvolti più avanzati e in quelli più criticabili, al “solo” Manzoni, e al relativo, nobile e generoso gruppo geo-culturale. Se ancora vi è, e ne siamo persuasi, un’importanI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
te immagine positiva e propellente, sul piano storico e sul piano artistico, del romanticismo e della sua gestione delle fenomenologie dell’irrazionale, dei sentimenti rappresentabili e delle volontà umane (anche sul piano storico-politico), della sfera pulsivo-emozionale (se non addirittura inconscia) dell’espressione umana, dell’innovazione estetica anticlassicistica, del “realismo” storico, dell’istituzione d’un nuovo genere letterario quale il romanzo (si ricordi la leopardiana Vita di Silvio Sarno, una prosa che avrebbe potuto in parte cambiare la letteratura italiana; a nostro avviso i Promessi sposi debbono dividere l’onore ufficiale di tale cambiamento con l’Ortis), la suddetta sinergia fiorentina Caretti-Timpanaro, con differenti motivazioni ed esiti diversi nel singolo percorso dei due studiosi, ne ha attribuito il merito in Italia per intero a Manzoni, e ne ha del tutto escluso Leopardi. Se si vuole, uno degli esiti dell’operazione Nistri-Lischi di Caretti e Timpanaro, nelle sue sedi accademiche e editoriali toscane, ha sostituito, nello stesso toscano perimetro bibliotecario, universitario e latamente culturale, la precedente immagine leopardiana, certo assai variamente declinata, fra De Robertis, Contini e Binni. Sul piano dell’ideologia culturale e del vero e proprio pensiero filosofico di Leopardi (superato il noto giudizio crociano), tale operazione era forse necessaria, riferendosi in special modo al testocentrismo giuseppederobertisiano; ma rimane, improcrastinabile negli interrogativi filosofico-estetici che essa pone, l’esigenza d’una ridefinizione storica e metodologica della lettura dei testi artistici leopardiani, e soprattutto dei testi lirici, dei quali pure Timpanaro era, secondo le vive testimonianze amicali, impareggiabile dicitore e conoscitore mnemonico; anche qui, e non è uno dei punti meno importanti, si dovrà accendere un’impegnativa ed elaborata discussione, non breve nella sua presumibile durata. Da tale discussione, tutta ancora da condurre, potrebbero scaturire elementi di recupero della stessa lettura binniana, potrebbe scaturire una rinnovata attenzione fenomenologica agli apporti (non solo in chiave di ribaltamento ironico-antifrastico) d’un’ineludibile contemporaneità ottocentesca ai testi leopardiani, come anche decisivi impulsi al rinnovamento del “canone” di testualità leopardiana da proporre alla fruizione studentesca, e in genere del pubblico dei lettori. La maggiore novità in quest’ultima direzione offerta da Timpanaro (non si possono qui considerare se non con calibrato dosaggio qualitativo e quantitativo gli scritti tecnico-filologici, neppure essi da escludere) consiste nella proposta di più serrata frequentazione delle stesse Operette e, altresì, dei testi satirico-polemici degli anni ’30, troppo spesso, questi, ingiustamente sottratti alla diretta e originale conoscenza del lettore non specialista. Qualcosa di simile, nello spirito metodologico e nell’apertura di “canone”, appunto, vi era nelle già accennate proposte della madre, Maria Timpanaro Cardini, riguardo ai prosatori scientifici greci anche “minori”, e dell’amato Giordani riguardo alla prosa storica greca di Erodoto e alla prosa latina di storici come Cesare, o alla prosa tecnica di Varrone, delle Pandette, di Celso e di altri (noi aggiungeremmo Vegezio). Eppure, l’obiezione costituita dalla centralità, che in Leopardi va assolutamente mantenuta, della lettura dei testi lirici e dello Zibaldone, non può in alcun modo essere elusa; né può essere eluso il problema della presenza o meno di forti motivi (non si
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dice d’un’ispirazione ideologica) derivati a Leopardi dal romanticismo, ove non si voglia a qualsiasi costo considerare condicio sine qua non dello stesso romanticismo artistico la presenza della religiosità, mancando la quale sarebbe automatica la derubricazione dai ranghi del movimento letterario romantico, o (e questo sarebbe il nostro caso) la rimozione d’ogni fenomenologia romantica dai testi dell’autore. La discussione su questo argomento a me appare tutt’altro che chiusa; e sarà comunque, anche questa, discussione d’ampio spessore e di rimarchevole concentrazione storicocritica. Sono i “cinque canti supremi” ’28-’30, a nessuno ne latita la coscienza, ad aver fatto sì che Leopardi fosse e sia Leopardi. Vien da rileggere (e non si dice, con questo, da sottoscrivere, e men che mai in toto) le parole di Franco Fortini del 1967, a poca distanza di tempo dalla prima uscita di Classicismo e illuminismo (comunque sottoposto, scrive Fortini, a «seconda lettura»): Ma è possibile scrivere un saggio su Leopardi pensatore senza valutare quanto di quel «pensiero» è consegnato in quella che la voce popolare o professorale si ostina a chiamare la sua «poesia»? È possibile farlo […] senza dubitare che fra il Leopardi dello Zibaldone e quello dei Canti e magari delle Operette vi possa essere una diversità non descrivibile in termini quantitativi (più «poesia», meno «poesia»; più «pensiero», meno «pensiero») ma solo in termini dialettici? […] penso dover affermare […] finalmente che questo «pensiero» della «poesia» non solo non coincida necessariamente con il «pensiero» della «prosa» del medesimo autore ma non possa concidere e in un certo senso non debba. […] quale correzione al pensiero del Leopardi pensatore, alla sua concezione della vita umana, viene […] dalla pienezza o felicità o compiutezza che è connessa col far poesia ossia, appunto, con l’esprimere un «pensiero» in modo diverso da quello della prosa e dunque un pensiero diverso? […] non si può, per amore di una idea di poesia più seria e piena di quella dell’estetismo novecentesco, fingere che in Leopardi l’operare poetico non abbia ad un alto grado una funzione gratificante ed eudemonica, non si faccia, almeno in parte, oggetto di se stesso, poesia della poesia; non si può insomma omettere dal «pensiero» leopardiano l’enorme gioia dell’avventura formale, ossia quella contraddizione che la storia della critica leopardiana ha tanto variamente intonato. Perché si può e si deve strappare definitivamente Leopardi all’estetismo di ieri; ma non si può strapparlo alla condizione generale del tempo in cui scrisse, condizione che lo determinava più di quanto la sua cultura e il suo pensiero potessero sapere. Ora quella condizione – che è quella di una fase di sviluppo della società borghese, ecc. – lo situa fra i primi grandi interpreti poetici europei d’una dissociazione tragica fra «poesia» e «verità» che sarebbe discesa fino ai nostri ieri, proprio con la sua esistenza giustificando almeno in parte le interpretazioni critiche di cui avremmo voluto esserci sbarazzati per sempre. / Quale correzione, dicevo, viene al «pensiero» leopardiano dalla «poesia» dei Canti? Questa, intanto: che agli uomini sia dato consumare nella «forma» una pienezza vitale o (se si preferisce) godere una esperienza «totalizzante», in altri tempi o società configurata come religiosa o mistica e in Leopardi estetica invece e poetica69.
Ma ogni spunto critico, in specie su uno studioso di argomenti di così vasto riscontro e di tanta vibratilità in ogni direzione, deve tener conto del contesto e del determinante quadro di personalità culturali con cui egli è venuto a contatto. IndiI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
spensabile, per addurre un esempio, lo «snodo» costituito dal La Penna di Orazio e l’ideologia del principato del 1963. Vincenzo Di Benedetto, nel citato La filologia di Sebastiano Timpanaro (pp. 75-76), ricorda come la recensione che lo studioso ne scrive in «Critica storica» nel 1964 esprima il periodo di riflessione che condurrà a Classicismo e illuminismo (contemporanee ad essa sono le indagini su Leopardi, Giordani, Cattaneo e altri ancora); ma suscita molti dubbi l’estensione da parte di Timpanaro agli ultimi decenni del Settecento e ai primi dell’Ottocento del concetto di classicismo progressista, e altrettanti ne suscita il nesso classicismo-illuminismo, in un’epoca in cui la formazione classicista è propria si può dire di tutti i letterati e non può quindi avere valore distintivo. Resta invece indubitabile l’assunzione sul piano culturale dello studio lapenniano sull’età augustea e sull’esigenza, fortemente avvertita anche da Timpanaro, di stabilire per ogni grande periodo di produzioni testuali il rapporto fra letteratura, intellettualità e assetti del potere politico e sociale70. E ancora più denso di novità è il secondo «snodo» individuato da Di Benedetto; le citate edizioni garzantiane degli anni ’80 di d’Holbach e del Cicerone del De divinatione rivelano, oltre alla crescente valutazione dell’Arpinate rispetto a Epicuro, che Leopardi, pur grande anche come pensatore, non è più il centro dell’universo materialistico di Timpanaro. Vi è, infatti, anche il mondo del Settecento francese: «[…] risulta chiaro che c’era una grande e complessa realtà culturale, quella francese del Settecento, di fronte alla quale anche un Leopardi non poteva porsi come protagonista. Leopardi restava un grande, ma non era più al centro del mondo»71. Lo stesso Di Benedetto, inoltre, rimarca che «in un addendum della III edizione de La filologia di Giacomo Leopardi, Bari 1997, p. 239 il Timpanaro rifiuta con decisione la qualifica di ‘progressista’ per Leopardi, nel mentre viene ribadita la componente materialista»72. E ancora viene ricordato da Di Benedetto73, riguardo a Sul materialismo, nel corso della stessa riflessione sull’Anti-Dühring, l’insinuarsi, nelle già grevi maglie della fragilità biologico-naturale dell’uomo, del sospetto d’un’inerziale renitenza alla πόλις, all’interesse e al coinvolgimento politico, insomma d’un’apoliticità di base, d’un distacco, d’un disimpegno che si rendebbero particolarmente forti anche, e sotto certi profili più che mai, in un’acquisita società comunista, senza classi «nel senso più ampio del termine» (tale, grave deminutio, aggiungiamo noi, osteggerebbe la coordinata propriamente storico-cronologica del concetto tročkijano, per noi sempre fondamentale, di «rivoluzione permanente»). La “novità” consiste nel guadagnare alla sfera della natura e della debolezza biologica dell’uomo non soltanto la sua instabilità organica in sé, ma anche la sua refattarietà a divenire, o a divenire “compiutamente”, ζῷον πολιτικόν (e non si tratta, scrive Timpanaro, di generico “egoismo”); ne deriva, per lo studioso marxista, sulla scorta d’un ennesimo suggerimento d’un intellettuale giustamente molto stimato, Luciano Della Mea, la consapevolezza d’avere, «parlando altrove di limiti biologici dell’uomo», «sempre insistito più sulla sua “fragilità” e precarietà fisica che sulla sua difficile autoeducabilità politica»74. E come sempre in Timpanaro, la riflessione ideologica non si chiude in un circolo, ma si ribalta, in direzione del passato e in direzione d’un possibile futuro, nel rigoroso stimolo del monito critico ed autocritico.
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*** Per cercare una conclusiva focalizzazione del Leopardi di Timpanaro non è forse necessario un diretto appello al pensiero, né è necessaria un’importazione di questo pensiero nella poesia leopardiana; basta mirare alla poesia stessa, alla quale Timpanaro è stato spesso accusato di aver fatto torto in nome della filosofia; si può tornare al nostro inizio, alla σιωπῶσα ἀπάτη, all’agguato illusionistico della bellezza, ma qui non di Aspasia, bensì di A Silvia e in genere degli idilli recanatesi 1828-1830; è proprio questa fase di lettura diretta, di fruizione testuale del dettato lirico-poetico che è tanto mancata ai lettori di Timpanaro, ed è proprio qui che a nostro avviso va innestata la lezione del leopardista: qui, per dire che anche, e si dica precipuamente questo polo di gravitazione della maggior parte della leopardistica non solo italiana, ma internazionale, questo polo che sembra essere in qualche modo “non centrale” nell’applicazione critica di Timpanaro, beneficia in realtà, più di altre sponde di riferimento, della nuova lettura dell’opera del Recanatese promossa dall’abnegazione dello studioso. Si può giungere all’affermazione che è esattamente la visione liricocentrica ad avvantaggiarsi di novità interpretativa, a lumeggiarsi, anziché oscurarsi a causa della presenza indispensabile del pensiero leopardiano, ivi più che mai compresa la filosofia «amara e trista», e tutt’altro che sopravvenuta e superfetata, espressasi negli anni ’30. Se anche la lirica degli idilli pisani e post-pisani affabula in termini indimenticabili il chiarimento del meccanismo dell’inganno, essa va vista e attraversata, sì, nella stessa direzione nella quale siamo abituati a leggerla, ma percorrendo tale direzione nel verso e nel senso concettualmente opposti: non dall’illusione all’«apparir del vero», dall’inganno al disinganno, dalla vibratilità sentimentale alla «tomba ignuda», ma dalla lucida e amarissima ragione, dalla ragione disillusa e attivamente capace di dominare la propria materia (una ragione che ormai presiede incontrastata all’ispirazione del canto), alla formazione – tramite l’effetto seducente, si dica pure l’esca della bellezza e dell’illusione – dell’immagine vaga e indefinita della giovinezza, di quell’attesa inconsapevole e speranzosa del futuro che appare più che mai conseguenza e frutto dell’azione di forze ancora intatte dal tocco sconsolante ma veritiero di ragione. E un valore non consolante, bensì lucidamente chiarificatorio è rivestito dall’apparente à rebours di questi idilli; il volgersi indietro, infatti, non mira a banalmente riprodurre la cronologia diaristica del percorso illusioni-«apparir del vero», giovinezza-maturità, ma investe, alla luce delle Operette (la vera fonte letteraria di questa estrema produzione recanatese), il cuore del problema “genetico” dell’illusione: e tale constatazione può valere per tutti questi idilli, dal vago delle sensazioni a suo tempo vissute in A Silvia al mare memoriale delle Ricordanze, dall’uscita da un pericolo nella Quiete al tempo dell’attesa o dell’autoillusione retrospettiva nel Sabato (la «donzelletta» e la «vecchiarella»; la prima inventa sul futuro, e ripete l’operazione ogni sabato; la seconda «novellando vien del suo buon tempo», ovvero inventa sul passato una felicità da donzelletta, racconta e si racconta che sarebbe stata felice, retrospettivamente crea, recita il Sabato, un idillio, senza esser passata, lei personaggio, dalle Operette morali); così più avanti, nel Passero solitario (ma non entriamo I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
nella questione della cronologia), l’io lirico disincantato reciterà «e spesso, / ma sconsolato, volgerommi indietro». Si potrebbe dire che l’impianto versificatorio degli idilli sia un “colle” che deve essere oggetto di studio e di capovolgimento di prospettiva, in un’operazione simile a quella che vede un dislivello ora come salita, ora come discesa: se in genere è prevalso a proposito degli idilli recanatesi del 1828-1830 l’angolo prospettico dell’analisi della “discesa” (dall’illusione alla disillusione, quasi a chiedersi come ciò sia potuto avvenire – «perché non rendi poi / quel che prometti allor?» –), non pare fuor di luogo concentrare adesso, e forse a miglior fine, l’attenzione sulla “salita”, sui perché, sui meccanismi e sui modi di quell’immotivata ascesa illusoria, di quella gratuita salita, appunto, dal disinganno all’inganno, dalla verità all’errore: com’è stato possibile illudersi, com’è nato l’inganno? Qual è il dinamismo generativo delle illusioni, degli stessi inganni, sia pure «cari» o «dilettosi»? Perché, su una base di disinganno che sarebbe stata fin da principio coltivabile, solo che si fossero unite esperienza della vita e riflessioni all’amara luce del materialismo filosofico-ideologico, ci si è potuti inerpicare sui sentieri, allora confortanti e poi definitivamente chiaritisi come ingannevoli e dannosi e fonti di souffrance, dell’illusione, del conforto e della bellezza della natura, dell’indefinita attesa della primavera, della gioventù e della festa? Gli idilli, o cosiddetti grandi idilli, non sono una spontanea «fioritura», come spesso si dice, e in quanto tale, una germinazione sorprendente, o, comunque, nata da una sorta di reazione, di ripresa del fiume poetico-ispirativo rispetto all’arido e lucido e ironico vero delle Operette morali; essi sono, piuttosto, un approfondimento, una vera e propria prosecuzione, con consistenti avanzamenti euristico-gnoseologici, d’una linea di scoperte veicolata da una logica implacabile e vieppiù commossa man mano che effettua ed invera tali scoperte: tanto più commossa, tale logica, quanto più gli idilli guadagnano una verità demistificante rispetto a moti e sensazioni, altalene e interventi del ricordo, ricostruzioni ricreative del passato e reimmersione in atmosfere percettive maliose e quasi dimenticate. Si tratta, insomma, della scoperta del bello, del suggestivo, del poetico, dell’immaginoso, nella loro peculiare virtus depistante e ingannevole riguardo al soggetto, non solo poetico, che li sperimenta, che li attraversa e, soprattutto, che ne subisce il fascino chimerico, l’ingegnosa frode, e che rimane, in definitiva, avvinto nello stillicidio della loro protratta ma smascherabile imboscata. La lirica (tale è essenzialmente la poesia) in Leopardi, anche sulla scorta dei fondamentali pensieri estetici dello Zibaldone, diviene un attendibile strumento conoscitivo proprio in quanto elemento principe di riproduzione delle immagini e, altresì, delle dinamiche dell’inganno, e così, e non certo di meno, dell’espressione lucida e linguisticamente efficace e memorabile del disinganno, del registro della demistificazione e della riconduzione al vero: la poesia, almeno in Leopardi e nella straordinaria prova che l’autore sa produrne, è voce dell’inganno e del disinganno, del cuore e della ragione, è canto, “suon di voce” della ricreata luminosità del «maggio odoroso» e del pulviscolo dorato che circola e fluttua nell’aria e nell’atmosfera della gioventù, della festa e della primavera d’ognuno di noi, ed è, altrettanto (ed è qui che si è saggisticamente concentrata, ma non certo limitata l’opera di Timpanaro), voce di quella bian
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ca e a suo modo fredda luminosità razionale (il fuoco bianco dell’intelligenza) che smantella e che smonta le trappole della natura e dell’artificio, dell’estetica, della religione, della storia, del pensiero. C’è sempre un’evocazione di scenario naturale all’inizio di questi canti; l’inganno sul piano del tempo e l’inganno sul piano dello spazio, se si vuole, con un rispettoso saluto a Kant (a più riprese filosoficamente “beccato” da Timpanaro) e alle sue lenti; ed è sempre, quanto più bella, tanto più fonte d’inganno; anzi, essa è esattamente la base per lo sviluppo d’un controragionamento, spesso fascinosamente intercalato a nuove aperture paesaggistiche struggenti e dolose (lì presenti, insomma, per dolo infelicitante e per foraggio di «mentita speme» agli umani): essa è, ancora, la struttura di A Silvia, della Quiete, del Sabato, e, nelle sue celebri e poeticamente stupende “ondate” d’antica sensazione e di devastazione del cuore, di distruzione proprio nell’atto d’apparente ricostruzione di persone e d’oggetti, delle Ricordanze. Il Canto notturno, da parte sua, ormai contempla il paesaggio in una dimensione nuovamente compenetrata, fin dalla sua stessa origine poetica, con l’espressione filosofica apertis verbis delle domande fondamentali all’intatta, vergine interlocutrice, in un paesaggio tanto più spettrale quanto più illuminato di luce, diurna o lunare. E simile struttura offrono, riguardo ai paesaggi naturali, liriche non appartenenti agli idilli 1828-1830, quali La sera del dì di festa e Il passero solitario. È proprio questa la Frage in contropelo: non perché ci si disillude, ma “perché ci si illude?” Come Meringer nel suo contropelo freudiano: perché, nel magma del nostro ruvido e prosaico oblio (la nostra vera e costante base di partenza), alcune cose ce le ricordiamo? Perché, nella nostra affannata e insieme superficiale e trascorrente quotidianità ci succede di trattenere qualcosa, e perché quello? Se si vuole, persino il Freud di Timpanaro può in tal senso recuperare e contrariis alcune ragioni proprio dal perché quello? Ma in Leopardi sono Teofrasto, il Luciano dei Dialoghi, il barone d’Holbach, e anche Voltaire, se non più direttamente Giordani75, a ricontrollare, dopo le Operette, il meccanismo d’insorgenza delle illusioni: la bellezza, innanzi tutto, il miraggio, il mito della magnanimità, la gloria in sé agognata. Poesia come strumento euristico-conoscitivo, dunque, come strumento di disinganno, di svelamento, di ragione, una ragione che è tale giustappunto in quanto disgrega gli inganni, districa dalle reti, aiuta a liberare dalle insidie: questa è la lezione di lettura della poesia, peculiarmente della poesia leopardiana promananteci dall’opera e dall’impegno d’un’intera vita d’intellettuale, la vita di Sebastiano Timpanaro. E non si toglie nulla, né lo ha tolto Timpanaro, alla suggestione dell’engaño, del poeta fingidor, dello studioso della finzione come poeta di quel pensiero, come autore che lo focalizza e che lo esprime: l’engaño, per l’autore non disposto a scommettere sull’irrazionale in quanto tale, è sì creativo, ma è la finzione come rappresentazione dell’inganno in atto e consapevole fenomenologia dell’inganno. Ed è proprio la finzione poetica del Leopardi degli idilli recanatesi ’28-’30. In quella fase storica della sua poesia, Leopardi ancora non si volge ad affabulare in versi l’inganno operato dal provvidenzialismo spiritualistico, dall’ottimismo di marca neocattolica, religiosizzante, fideistica, né si volge a colpire l’illusione dell’eudemonismo immaI. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
nente, laico, tecnologico della prima borghesia industrialistica; il poeta si volge, piuttosto, all’affabulazione dell’autoinganno, dell’illusione come linguaggio d’un mondo d’interiore vibratilità, di vago e d’indefinito, di sensibilità profonda e commossa, di giovanili attese e speranze sull’avvenire, sulla “festa della vita”, sulla felicità; ma è già, e non solo questo, affabulazione autopersuasiva, o, se si preferisce, autoprotrettica: protrettico e autoprotrettico al vero. Poi, proprio negli anni 1830, il disvelamento dell’inganno assumerà pronunce testuali di più esplicita perspicuità, di più palese ostensione linguistica, di più icastica e zigrinata tessitura allegorica, nelle varie declinazioni dell’ironia, della satira, del sarcasmo, della polifonia ideologico-polemica, della lucida e struggente e passionata deplorazione lirica. In tale intreccio di verità, di inganno e di dichiarazione poetica dell’inganno, si potrebbe credere di essere prossimi al labirinto; solo che per Leopardi il labirinto (ivi amaramente comprese le maliose aperture paesaggistiche, gli arpeggi marinomontani nel campestre silenzio intorno Recanati) si pone sempre più nel tempo quale valore negativo, come disvalore rovinoso per la verità e per la chiarezza della visione dell’uomo e dell’intellettuale. Ma che cosa è mai strategicamente il labirinto, pur tecnico frutto d’architettonico e elaborato ingegno, d’estremizzata opera di ragione, se non una sottile, pervicace, tenacissima resistenza alla stessa ragione, al vettore conoscitivo della ricerca sdipanante e chiarificatrice, al filo d’Arianna à rebours verso l’amara luce, al disvelamento del deserto e del vero, o, se si vuole, del gigantesco e bieco inganno d’Arimane? L’assunzione delle parti e del ruolo del labirinto (con questo intendendo non la “segretezza”, in certi casi e in certe situazioni storiche necessaria al massimo grado, bensì la custodia “qualitativa” dell’oscurantismo, del depistaggio dalla luce della logica) ha spesso l’antirazionale e pericolosa finalità di tutelare un bunker, di difendere e preservare l’oscura tana o l’empio mistero o l’inquietante segreto d’un mostro, d’un mito nibelungico, o d’un Minosse o d’un padre Jorge. Ed è per questo che Timpanaro, riprendendo il messaggio di Leopardi quale si è venuto configurando nella produzione e nel pensiero dei successivi anni ’30 fino a La ginestra e all’illuminismo per tutti, e protendendo, da uomo rigoroso e buono come è stato, il suo profilo di studioso materialista verso la leopardistica a venire, restituisce e severamente traccia una drammatica diacronia, sia della natura, sia della vicenda umana, della quale promuovere, sin dove è possibile, lo studio scientifico, una diacronia squarciata da vaste voragini e da ipotesi d’arresto e d’involuzione, e con estensione cosmica, una diacronia geologica, storica, ma non storicistica e non dialettica. Una filosofia che engelsianamente non esclude il concetto del baratro, d’un’allure planetaria a lungo andare autodistruttiva, e leopardianamente non esclude il regresso a fronte dello scorrere cronologico delle ere naturali e delle ere civili (o incivili); una diacronia che può scandirsi nelle perdite secche, del mondo terrestre e, con ritmo più accelerato, del mondo storico-umano. E ciò nonostante la sua, come quelle fra loro così diverse di Friedrich Engels e di Giacomo Leopardi, non è una filosofia della rassegnazione. Ci sembra opportuno chiudere con un quadretto, a suo modo gustoso, di grottesca incoscienza borghese di fronte a grandi processi e ad epocali avvenimenti politici, sia pure, in questo caso, visti appunto nell’ottica dell’antagonista storico del prole
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tariato; ma la borghesia, sottintende giustamente Tročkij nel brano riprodotto della sua Storia della rivoluzione russa, è capace di questo e di altro, anche contro se stessa; e viene da ricordare (a parti invertite) la lettura timpanariana del Primo Maggio di De Amicis, con il rilievo dato al necessario sentimento d’indignazione contro l’oppressione e contro le mille angherie e i mille soprusi del capitalismo; e, quindi, contro quell’indifferenza che qui è invece rubricata nella visuale, specularmente opposta a quella degli assalitori del palazzo d’Inverno, delle attività che imperterrite proseguono nelle varie parti, nei varî quartieri della capitale, fino all’interesse per la prova di Fëdor Šaljapin al Teatro d’Opera d’una Pietrogrado che è sul punto di diventare per settant’anni Leningrado: Il numero dei prigionieri aumenta. Nuovi gruppi fanno irruzione. Non è sempre facile rendersi conto di chi si arrenda e venga disarmato. Il cannone spara ininterrottamente. / Tranne che nella zona adiacente al palazzo d’Inverno, la vita nelle strade continuò sino a tarda sera. I teatri e i cinema erano aperti. Sembrava che la gente ricca e istruita della capitale non si preoccupasse molto della notizia che il loro governo era sotto il fuoco del cannone. Redemeister osservò alcuni passanti che se ne stavano tranquillamente presso il ponte Troitsky, visto che i marinai non li avevano lasciati procedere oltre. «Non c’era niente di straordinario da vedere». Dalla parte della casa del popolo Redemeister incontrò alcuni conoscenti che, mentre tuonava il cannone, gli comunicarono che Šaljapin era stato impareggiabile nel Don Carlos 76.
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NOTE 1 FIORENZA CERAGIOLI, Lingua e stile nei canti fiorentini e in «Aspasia», nell’opera collettiva Lingua e stile di Giacomo Leopardi, Atti dell’VIII Congresso di studi leopardiani (Recanati, 30 settembre5 ottobre 1991), Firenze, Olschki, 1994, pp. 233-252: pp. 243-244. 2 Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, 3 tomi, Milano, Mondadori, 1997, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando DAMIANI, t. I, 306, 10 novembre 1820, pp. 300-301; nella stessa nota, prima ancora, a p. 300: «Aristotele, o secondo altri, Diogene, τὸ κάλλος παντὸς ἔλεγεν ἐπιστολίου συστατικώτερον». 3 Zibaldone, cit., I, pp. 1162-1163; ma si legga quanto ancora chiaramente scrive Leopardi, sempre in Zibaldone, I, 1784-1786, 24 settembre 1821, p. 1230: «Il senso e l’effetto della musica si divide in due, l’uno derivante dall’armonia, l’altro dal puro suono […] Di questi due effetti della musica, l’uno cioè quello dell’armonia, è ordinario per se stesso, cioè qual è quello di tutte le altre convenienze. L’altro, cioè del suono o canto per se stesso, è straordinario, deriva da particolare e innata disposizione della macchina umana, ma non appartiene al bello. Questa stessissima distinzione si dee fare nell’effetto che produce sull’uomo la beltà umana o femminina ec. e la teoria di questa beltà può dare e ricevere vivissimo lume dalla teoria della musica. L’armonia nella musica, come la convenienza nelle forme umane, produce realmente un vivissimo e straordinario e naturalissimo effetto, ma solo in virtù del mezzo per cui essa giunge a’ nostri sensi (cioè suono o canto, e forma umana), o vogliamo dire del soggetto in cui essa armonia e convenienza si percepisce. Tolto questo soggetto, l’armonia e convenienza isolata, o applicata a qualunque altro soggetto, non fa più di gran lunga la stessa impressione. Bensì ella è necessaria perché quel soggetto faccia un’impressione assolutamente, pienamente, e durevolmente piacevole. Così si dimostra che quanto vi ha d’innato, naturale, e universale, nell’effetto della bellezza musicale ed umana, non appartiene alla bellezza, ma al puro piacere […]». Il passo è opportunamente citato da Enrico GHIDETTI nel suo commento ai Canti, Firenze, Sansoni, 1988, p. 267-268, n. 35. Si cfr. anche il commento ai Canti a cura di Giuseppe e Domenico DE ROBERTIS, Milano, Mondadori, 19872, pp. 391-392, e Giacomo Leopardi sulla musica. A cura e con introduzione di Franco Foschi, Abano Terme, Francisci, 1987. Si veda pure PAOLA CIARLANTINI, «E pur la musica sembra quasi la più universale delle bellezze»: melodramma ed altro intorno a Giacomo Leopardi, nell’opera collettiva Microcosmi leopardiani. Biografie, cultura, società, a cura di Alfredo Luzi, 2 voll., Fossombrone (Pesaro), Metauro Edizioni («Microcosmi», 4), 2001, I, pp. 129-143. 4 Cfr. PAOLO ROTA, La Bibbia in Leopardi. Sulla soglia d’«alti Eldoradi», Bologna, Il Mulino («Collana del Dipartimento di Italianistica – Università di Bologna», n. 9), 1998. 5 Cfr. SEBASTIANO TIMPANARO, Presentazione di JEAN FALLOT, Il piacere e la morte nella filosofia di Epicuro, Torino, Giulio Einaudi editore, 1977, pp. IX-XXXI (poi, con il titolo Materialismo e infelicità, in SEBASTIANO TIMPANARO, Il verde e il rosso, Scritti militanti, 1966-2000, a cura di Luigi CORTESI, Roma, Odradek, 2001, pp. 83-98, in part. pp. 94-95). Sulla presenza di Alcmeone in Aristotele, giustamente sottolineata da Timpanaro, si ricordi l’attenzione non a caso dedicata al filosofo-scienziato crotoniate dalla madre dello studioso, MARIA TIMPANARO CARDINI: Originalità di Alcmeone, in «Atene e Roma», XL (1938), pp. 233-244, e Anima, vita e morte in Alcmeone, «ivi», XLII (1940), pp. 213224 (ora entrambi raccolti in ID., Tra antichità classica e impegno civile, a cura di Sebastiano TIMPANARO, Pisa, ETS, 2001, rispettivamente pp. 63-72 e 73-83). Notevoli, tra le altre, le pagine dedicate ad Erofilo (cfr. più oltre), che, insieme a Callistene, scolaro di Aristotele, e allo stesso Alcmeone, costituisce la triade di scienziati che hanno compiuto studi fondamentali, o addirittura istitutivi, sulla struttura anatomica dell ’occhio e sul nervo ottico (dal πόρος ai νεῦρα αἰσϑητικά). Risulta realmente convalidato il richiamo di Timpanaro jr. alla componente alcmeonide, insieme e in contrasto con quella platonica (soprattutto giovanile), in Aristotele. Sul materialismo leopardiano cfr. ultimamente, anche in relazione alle basi greche, GIROLAMO DE’ LIGUORI, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo leopardiano nel pensiero ottocentesco, in MASSIMILIANO BISCUSO-FRANCO GALLO, Leopardi antitaliano, con scritti di GIROLAMO DÈ LIGUORI e PAOLO ZIGNANI, Roma, Manifestolibri, 1999, pp. 71-88. 6 Si ricordi l’annotazione leopardiana sullo stoico Ierocle in Zibaldone, 4226-4227, novembre 1826, ripresa e commentata da Timpanaro in Classicismo e illuminismo, pp. 180-181 e n. 91 («Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro De Amore fraterno, ap. Stob. serm. ὃτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία etc., 84 Grot., 82 Gesner., che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori [dalla natura e dalla fortuna], i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec.»).
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7 Rispettivamente, Firenze, Le Monnier, 1955 (seconda edizione riveduta e ampliata: Roma-Bari, Laterza, 1977; terza edizione riveduta con Addenda 1997, ivi, 1997); Pisa, Nistri-Lischi («Saggi di varia umanità», n. 2) 1965 (seconda edizione accresciuta: ivi, 1969; ristt. della seconda edizione: ivi, 1973, 1984, 1988; una nuova edizione a mia cura, con l’inclusione di Il Leopardi e la Rivoluzione francese e di Epicuro, Lucrezio e Leopardi – ora nei Nuovi studi –, secondo la volontà d’autore, è uscita presso l’editrice Le Lettere nel 2012; le citazioni saranno effettuate da questa edizione); gli Scritti filologici sono a cura di Giuseppe PACELLA e Sebastiano TIMPANARO, Firenze, Le Monnier («Scritti di Giacomo Leopardi inediti o rari», a cura di Umberto BOSCO e di Antonio LA PENNA, VIII), 1969; Pisa, Nistri-Lischi («Saggi di varia umanità», n. 23), 1980; ivi, ETS («ETS Università», n. 16), 1982; ivi, Nistri-Lischi («Saggi di varia umanità», n. 31), 1994; Sul materialismo. Terza edizione riveduta e ampliata (con nuova prefazione: Vent’anni dopo), Milano, Unicopli, 1997 (I ed.: Pisa, Nistri-Lischi, 1970; seconda edizione riveduta e ampliata: ivi, 1975; edizione inglese: On materialism, translated by Lawrence GARNER, London, Verso, 1980 [rist.: ivi, 1996]); su Il Verde e il Rosso cfr. qui sopra, n. 5. Per la bibliografia degli scritti di Timpanaro si cfr., ora, ottimo strumento, L’opera di Sebastiano Timpanaro, Supplemento al n. 10-11 (Per Sebastiano Timpanaro) de «Il Ponte», LVII (ottobre-novembre 2001), a cura di Michele FEO; lo stesso FEO – Supplemento, p. 4 – ed EMANUELE NARDUCCI – Pochi appunti su un’amicizia, in Per Sebastiano Timpanaro, pp. 244-250: p. 250 – annunciano la bibliografia completa degli scritti dello studioso. Si veda adesso, appunto, MICHELE FEO, L’opera di Sebastiano Timpanaro (1923-2000), nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da Riccardo DI DONATO, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 191-293. Sul numero del «Ponte» Per Sebastiano Timpanaro cfr. l’ampia recensione di CHRISTIAN GENETELLI, in «Rassegna europea di letteratura italiana», 19 (maggio 2002), pp. 134-143. Si veda anche il limpido profilo di SERGIO LANDUCCI, Sebastiano Timpanaro: leopardiano del XX secolo, in «Nuova Antologia», DLXXXVI, fasc. 2217 (gennaio-marzo 2001), pp. 229-244. Cfr., ultimamente, l’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la cultura europea del secondo Novecento, a cura di Enrico GHIDETTI e Alessandro PAGNINI, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura («Raccolta di studi e testi», n. 222), 2005. 8 PROCLO, Commento al I libro degli «Elementi» di Euclide, Pisa, Giardini Editori (Università degli studi di Pisa, Istituto per le scienze dell’Antichità, «Biblioteca degli studi classici e orientali», n. 10), 1978. Le successive citazioni sono tratte da Originalità di Alcmeone, in Tra antichità classica e impegno civile, cit., pp. 63 e 65. 9 Si cfr., ora, sulla formazione filologica di Timpanaro e sui rapporti con il maestro, Pasquali, il ricco e documentato intervento di VINCENZO DI BENEDETTO, La filologia di Sebastiano Timpanaro, in Il filologo materialista, cit., pp. 1-89. Si vedano anche PAOLO MARI, Il contributo di Sebastiano Timpanaro al metodo critico filologico, nell’opera collettiva Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia, a cura di Franco GALLO, Giovanni Iorio GIANNOLI e Paolo QUINTILI, Milano, Unicopli, 2003, pp. 27-62; ANNA TIZIANA DRAGO-PIETRO TOTARO, La filologia di Sebastiano Timpanaro, e ANGELA GIGLIOLA DRAGO, Timpanaro e gli studi filologici leopardiani, in Per Sebastiano Timpanaro, numero dedicato di «Allegoria», XXIII, 39 (settembre-ottobre 2001), rispettivamente pp. 85-104 e 105-121 (tutti degni della massima attenzione anche gli altri interventi, di UMBERTO CARPI, ROMANO LUPERINI, RICCARDO CASTELLANA, GIUSEPPE CORLITO, PAOLO CRISTOFOLINI, ROBERT DOMBROSKI). 10 Cfr. JEAN FALLOT, Perché essere epicureo oggi, in Epicuro a Roma, a cura di Giacinto NAMIA, Torino, Paravia, 1980, in part. pp. VIII-XIII e XVIII-XXII. 11 Si cfr. a questo proposito PANTALEO PALMIERI, Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2001 (in particolare sul Borghesi, pp. 124-133 e passim); numerosi e quasi sempre improntati all’assenso, nonostante la posizione “monaldista” dell’autore, i riferimenti a Timpanaro; comune, del resto, il tributo intellettuale e affettivo reso ad Augusto Campana e al suo importante monito scientifico allo studio del milieu classicistico romagnolo-marchigiano, a spiegazione – e non certo marginale o “di contorno” – dell’ambiente d’appartenenza di Leopardi: alla Scuola Classica romagnola «si potrebbe iscrivere di diritto anche Giacomo; di solito non ci si pensa, solo perché era un grande», secondo le parole di Campana. Sarà semmai Monaldo a non appartenere ad una Scuola che è pronta, sì, a muovere appunti alle prime canzoni del figlio Giacomo, ma che nel contempo lo accoglie avendo con lui in comune i principi d’un classicismo laico e gli orizzonti culturali d’un patriottismo realmente “italiano”; è Monaldo, si diceva, a non condividere, in nome di quella che sarà per lui la «Voce della Ragione», tali principî, e a collocarsi in un àmbito di cultura e di spiriti ecclesiastici e
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conservatori, di fedeltà al trono ed all’altare. Lo stesso Timpanaro ha dapprima sottovalutato il Borghesi come filologo, ed ha poi rivisto il proprio giudizio alla luce della conoscenza dei rapporti fra Borghesi e Niebuhr. 12 Prima in «Società», X, 1954, pp. 23-44 e 224-254; poi in Classicismo e illuminismo, pp. 37-96. 13 Prima come presentazione della ristampa (Firenze, Sansoni, 1961) degli Scritti giordaniani, curati da Giuseppe Chiarini, ivi, 1890; poi in Classicismo e illuminismo, pp. 97-107. 14 Pp. 147-223 (il saggio era apparso in Pietro Giordani nel II centenario della nascita. Atti del Convegno di studi, Piacenza, 16-18 marzo 1974, Piacenza, Cassa di Risparmio, 1974, pp. 157-208). 15 Pp. 103-144; gran parte del testo del volume era uscito, suddiviso in quattro articoli, in «Belfagor», 1975-1976. 16 I ed.: Firenze, Le Monnier, 1963; nuova edizione riveduta e ampliata, Padova, Liviana, 1981, passim. 17 I ed.: Firenze, Le Monnier, 1955; II ed. riveduta e ampliata, Bari, Laterza («Biblioteca di Cultura Moderna», 806), 1978, passim; III ed. riveduta con Addenda 1997: ivi («Biblioteca Universale Laterza», 407), 1997. 18 Rispettivamente, pp. 31-54, 56-67, 69-101, 103-125. Su Bini cfr. il recente MARINO BIONDI, Carlo Bini. «Manoscritto di un prigioniero», in ID., La tradizione della patria, vol. I, Letteratura e Risorgimento da Vittorio Alfieri a Ferdinando Martini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp. 117-172. 19 Cfr. MARIO SACCENTI, Leopardi e Lucrezio, nell’opera collettiva Leopardi e il mondo antico. Atti del V Convegno nazionale di studi leopardiani (Recanati, 22-25 settembre 1980), Firenze, Olschki, 1982, pp. 119-148; ALBERTO GRILLI, Leopardi, Platone e la filosofia greca, ivi, pp. 57-73; PAOLO MAZZOCCHINI, Sulla questione della presenza di Lucrezio in Leopardi, in «Esperienze letterarie», XII (1987), pp. 57-71. Di ALBERTO GRILLI si ricordi anche Leopardi e la lingua latina, in Lingua e stile di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1994, pp. 101-140. Per l’analisi di questo, come di altri contributi che compongono i Nuovi studi, ci si permetta di rinviare al nostro L’Ottocento non hegeliano. Classicismo democratico, materialismo, tradizione dell’empirismo sensistico negli studi di Timpanaro, in Occasioni leopardiane e altri studi sull’Otto e sul Novecento, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 87-143. 20 Cfr. EPICURUS, Κύριαι δόξαι, in ID., Scritti morali, introduzione [La filosofia del piacere e la società degli amici, pp. 7-23] e traduzione di Carlo DIANO, edizione a cura di Giuseppe SERRA, Milano, Rizzoli, 1987, p. 66; l’ed. riproduce il testo critico di EPICURI Ethica, curato dallo stesso Diano, Firenze, Sansoni, 1946; rist.: ivi, 1974. Si veda anche Epistula ad Menoeceum, ivi, p. 58: «Ἐπεὶ τίνα νομίζεις εἶναι κρείττονα τοῦ καὶ περὶ ϑεῶν ὅσια δοξάζοντος [...] καὶ τὸ μὲν τῶν ἀγαϑῶν πέρας ὡς ἔστιν εὐσυμπλήρωτόν τε καὶ εὐπόριστον διαλαμβάνοντος, τὸ δὲ τῶν κακῶν ὡς ἢ χρόνους ἢ πόνους ἔχει βραχεῖς;». 21 Non aveva un vero futuro presso Leopardi un pensiero che, scrive MAURICE CROISET in La Civilisation hellénique, si traduce nella «parole fière et un peu rude d’un ancien esclave syrien […]. Persuadé que l’univers est bon tel qu’il est, que tout s’y passe sous la loi d’une sagesse supérieure qui mène l’ensembles des choses à des fines déterminées par elle, il trouve pleine satisfaction dans l’adhésion qu’il donne sans réserve à toutes les volontés de cette Providence bienveillante en laquelle il a foi. Et dès lors, sûr que cette adhésion ne dépend que de lui-même, que rien au monde ne peut l’empêcher de la donner, il se sent libre et hereux tout à la fois: libre, malgré tout ce qui semble l’opprimer; hereux, malgré l’exil, malgré la misére, malgré la souffrance et tout ce qui trouble la plupart des hommes. Il le sent et il veut que les autres le sentent comme lui; car c’est un maitre de force morale et de bonheur, mais un maitre exigeant, impérieux dans sa bienveillance» (cit. in MARIO MEUNIER, Épictète, in MARC-AURÈLE, Pensées pour moi-même suivies du Manuel d’Épictète, Traduction, Préface et notes par Mario MEUNIER, Paris, Garnier-Flammarion, 1964, p. 205). 22 Cfr. ANTONIO LA PENNA, Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno, Pisa, Nistri-Lischi, 1991, pp. 25-26. Ma contro l’esempio del coltivatore che depreca l’azione del tempo e del cielo, e la mancanza di devota pietas da parte dei contemporanei, cfr. il LUCREZIO di De rerum natura, II, 1168-1174, soprattutto degli ultimi due versi, explicit del secondo libro («nec tenet omnia paulatim tabescere et ire / ad capulum, spatio aetatis defessa vetusto»), che assegnano ad un processo fondamentalmente deterministico la decadenza agraria. Si veda il commento di SANTO MAZZARINO, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell’impero romano, Milano, Rizzoli, 1995 (I ed.: 1959), pp. 21-22. 23 Cfr. VOLTAIRE, Poème sur le désastre de Lisbonne, in ID., Mélanges, Paris, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade», n. 152), 1965, p. 309. 24 Cfr. CHARLES AUGUSTINE DE SAINTE-BEUVE, Sur deux traductions de Lucrèce en verse et en prose par M. de Pongerville e (riguardo all’ultima citazione) Jouffroy. Cours de philosophie moderne, in ID.,
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Oeuvres, 2 voll., Paris, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade», n. 80), 1966, I, rispettivamente pp. 312313 e p. 402. 25 CLAUDIO MORESCHINI, Metodi e risultati degli studi patristici di G. Leopardi, in «Maia», XXIII (1971), pp. 303-320; recensione di SEBASTIANO TIMPANARO in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), pp. 151-156, ove si sostiene l’accoglibilità di due ulteriori emendationes leopardiane, «giudicate dal Moreschini con un certo scetticismo» (La filologia di Giacomo Leopardi, p. 12). 26 GIACOMO LEOPARDI, Scritti filologici (1817-1832), a cura di Giuseppe PACELLA e Sebastiano TIMPANARO, Firenze, Le Monnier (Centro Nazionale di Studi Leopardiani, «Scritti di Giacomo Leopardi inediti o rari», a cura di Umberto BOSCO e di Antonio LA PENNA, VIII), 1969. In vista dell’edizione dello Zibaldone pubblicata nel 1991 da Pacella, si ricordi SEBASTIANO TIMPANARO, Appunti per il futuro editore dello Zibaldone e dell’epistolario leopardiano, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXV (1958), pp. 615-626. 27 Cfr. VINCENZO DI BENEDETTO, La filologia di Sebastiano Timpanaro, cit., pp. 73-74. 28 DIONYSII ALICARNASSEI Romanarum Antiquitatum pars hactenus desiderata, Milano, 1816. 29 Una certa ambiguità di traduzione fra generica ritualità sacrificale e atto che in sé consiste nel colpire la vittima permane anche in traduzioni moderne: cfr. ARRIANO, Anabasi di Alessandro, trad. di Delfino AMBAGLIO, Milano, Rizzoli, 19982, p. 227 («E in quel momento, mentre Alessandro sacrificava ed era cinto di una corona e stava per iniziare il rito per la prima vittima secondo la consuetudine», accadde il presagio della pietra sulla testa del re, interpretato dall’indovino Aristandro come necessità di attenzione per se stesso, sempre da parte del re, durante la presa di Gaza: «ὦ βασιλεῦ, τὴν μὲν πόλιν αἱρήσεις, αὐτῷ δέ σοι ϕυλακτέα έστὶν ἐπὶ τῇδη τῇ ἡμέρᾳ»). Ricordiamo che Arriano è uno degli autori greci eletti a veicolare alcuni importanti concetti linguistici e letterarî leopardiani e viene spesso citato in note dello Zibaldone che mirano a sottolinearne la differenza rispetto a Senofonte (ugualmente limpido, ma meno “affettato”: Senofonte, nell’Anabasi di Ciro, si dimensiona sul “memoriale”, Arriano, nella sua Anabasi, sulla “storia” – Zibaldone, I, 468, 2 gennaio 1821, pp. 407-408), la metatemporale condivisione con Polibio, Archia poeta, Dionigi d’Alicarnasso, Dione Cassio, Plutarco, Appiano, Claudio Galeno, Erode Attico, Plotino, d’una tenace grecità linguistica anche quando lui, come gli altri citati scrittori, si è calato sul piano geografico, politico e antropologico nella realtà romana e latinofona (Zib., I, 992, 29 aprile 1821, pp. 717-718), la revisione del sospetto di linguisticità “affettata” (ivi, I, 1024, 9 maggio 1821, p. 741): «Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d’imitazione o di lingua o di stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento). Nè Polibio, né Dionigi Alicarnasseo (sebben questi più degli altri, e gli può venir dopo), né Plutarco, né lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo (di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi, e della perfetta e propria lingua e stile greco) non possono essergli paragonati per questo capo». Ad Arriano (ivi, II, 2408-2410, 1 maggio 1822, pp. 1557-1558) spetta, addirittura, «un posto se non uguale, certo vicinissimo a quello degl’imitati da lui» (non soltanto Senofonte), tanto che perfino Tacito e Plutarco non reggono un confronto con lui quanto a lingua, a stile e a «bello letterario» (al solo Tacito è riconosciuta superiorità nella «filosofia» e nella «politica»); semmai, sono Luciano e Longino, assunti ad esempio (1495, I, p. 1062; ma cfr., in generale, 1490-1496, 10-13 agosto 1821, pp. 1059-1063), a poter rivendicare una maggior ricchezza di lingua, proprio in quanto autori tardi, e quindi, secondo Leopardi, perfetti padroneggiatori dello strumento linguistico ellenico. Arriano invece s’avvicina ai classici ed è perciò più povero in fatto di lingua, di vocabolario; il greco, infatti, che come lingua è certamente più ricco del latino, non si traduce, lungo tutta la fase antica e in tutta la fase classica, in una corrispondente ricchezza di lessico per i singoli scrittori: emerge qui, da parte di Leopardi, il concetto di vera e propria diffrazione tra «lingua» come sistema – langue, oseremmo dire – e lingua come vocabolario letterario autoriale, con notevoli riflessioni del linguista sulla funzione di “indicatore”, in tal senso, del patrimonio sinonimico: un indicatore assai più negativo di quanto a primo sguardo appaia. Sulla perdurante, non corrotta validità della lingua greca e della relativa letteratura, più storicamente longeve della lingua e della letteratura latina, possono servir da «Esempio […] la Spedizione di Alessandro, e l’Indica di Arriano, opere di stile e di lingua così purgate, così uguali in ogni parte e continuamente a se stesse, senza sbalzi, risalti, slanci, voli o cadute di sorte alcuna (che sono le proprietà dello scriver sofistico e guasto, in qualsivoglia genere, lingua, e secol corrotto), di semplicità e naturalezza e facilità, chiarezza, nettezza ec. così spontanea ed inaffettata, così ricche, così [2409] proprie, così greche insomma nella lingua, e nella maniera, e nel gusto», che Arriano si conquista il suddetto «posto»
I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
contiguo ai grandi d’originale grandezza (II, 2408-2409, cit., p. 1557). L’Anabasi di Alessandro e l’Indica sono insomma due opere che hanno esercitato un notevole richiamo su Leopardi anche come fonte d’osservazioni linguistiche specifiche e d’ordine generale. E si rammenti che è sulla base d’Arriano (si parla dell’Indica) che Leopardi effettua nello Zibaldone alcune osservazioni sul fascino dell’Oriente, sulla diversità di costumi e di vita rispetto a noi, come caratteri intuibili dall’opera geostorica antica (dalla precoce crescita fisica degli orientali alla loro esotica zoologia, dai rilievi sul “viaggio” all’amara idea d’una società dominata da una libertà senza democrazia, retta dalla suddivisione in sette classi e a questo prezzo – appunto, l’incomunicabilità fra classi – priva di schiavitù). Leopardi riferisce la propria lettura all’Amstelodunensis editio (Amsterdam, 1757) della Ἰνδικὴ συναγωγή, unita come appendice monografica all’Ἀνάβασις τοῦ Ἀλεξάνδρου ([FLAVIUS] ARRIANUS, Expeditio Alexandri e Historia Indica). 30 Cfr. CORRADO PESTELLI, L’Ottocento non hegeliano, cit. 31 BRUNO BIRAL, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino, Einaudi, 19782 (I ed.: ivi, 1974); GIANLUIGI BERARDI, Ragione e stile in Leopardi, in «Belfagor», XVIII (1963), pp. 425 ss., 512 ss., 666 ss. 32 Cfr. MICHELE FEO, Gli studi sull’Otto e il Novecento (SILVIA RIZZO-VINCENZO FERAMICHELE FEO, Per Sebastiano Timpanaro), in «La rassegna della letteratura italiana», C, s. VIII, 1 (gennaio-aprile 1996), pp. 117-122: p. 120. 33 Cfr. anche, in Classicismo e illuminismo, le pp. 131-145. E cfr., in Antileopardiani, le pp. 176-182, su un «progressismo politico-sociale» che, in Leopardi, va al di là d’una riflessione contingente per dimensionarsi su problematiche di più ampio respiro e di maggiore importanza, come la critica dell’età della Restaurazione, una critica originatasi da riflessioni recanatesi e «con una intensità ignota ai bempensanti toscani» (p. 177). È un ulteriore capitolo del dialogo con Umberto Carpi. 34 Cfr. WALTER BINNI, La presa di coscienza del ’17-’18, in ID., La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, p. 29 n. 2. Il giudizio di Timpanaro sul Leopardi di Binni può ben risultare da SEBASTIANO TIMPANARO, Binni e Leopardi, nell’opera collettiva Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di Mario COSTANZO, Enrico GHIDETTI, Gennaro SAVARESE, Claudio VARESE, Roma, Bonacci, 1985, pp. 413-442. 35 Firenze, La Nuova Italia, 1976 (rist. anastatica dell’edizione 1963), pp. 142-143. Cfr. inoltre ID., Preromanticismo italiano, Firenze, Sansoni, 1985 (I ed.: Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947; II ed.: Bari, Laterza, 1974), in special modo Esempi essenziali della maniera preromantica, pp. 193-242, e La rivoluzione alfieriana, pp. 267-279. 36 Cfr. WALTER BINNI, Lezioni leopardiane, a cura di Novella BELLUCCI (con la collaborazione di Marco DONDERO), Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. IX, 12 e n. 2, 28 n. 31, 50 e n. 1, 570; ed è significativo che proprio con la lettura di Timpanaro («intellettuale filologo»), anziché con quella di Luporini e di altri intellettuali filosofi impegnati a definire l’essenza del pensiero di Leopardi, si verifichino e si sviluppino alcune rilevanti «consonanze» dell’interpretazione leopardiana di Binni (sono consonanze sia di carattere oggettivo, «concettuale», sia di tipo soggettivo-biografico). Si cfr. in proposito LUIGI BLASUCCI, La lezione leopardiana di Walter Binni, in «La rassegna della letteratura italiana», XCIX, s.VIII, 1-2 (gennaio-agosto 1995), pp. 111-117 (il passo è a p. 112): «Il fatto è che quella di Binni è stata un’operazione condotta sostanzialmente all’interno della dimensione letteraria, entro cui si richiedeva un discorso specifico: un discorso, aggiungeremo, a cui l’autore del Leopardi progressivo, con la sua svalutazione di testi come le Operette morali e il canto A se stesso, poteva perfino esser d’ostacolo. Questo non toglie nulla, beninteso, ai motivi di suggestione che l’intellettuale Binni può aver ricavato dalla lettura del saggio luporiniano del 1947 e da saggi sempre più recenti e sempre più inquieti e problematici (con un recupero dei parametri esistenziali) del filosofo leopardista. Ma quanto alle consonanze concettuali, più evidenti mi sembrano quelle di Binni con un intellettuale filologo come Sebastiano Timpanaro e con la sua rigorosa ricostruzione di un pessimismo materialistico leopardiano, a integrazione ma anche a parziale correzione delle tesi presenti nel Leopardi progressivo. La stessa nozione di pessimismo, del resto, considerata in quelle pagine di Luporini come non più che una “coloritura assiologica” per veicolare un pensiero di fatto progressista, assume un ruolo centrale tanto nelle pagine di Timpanaro quanto in quelle di Binni: e qui la consonanza non può dirsi solamente concettuale. C’è in proposito una dichiarazione dell’autore nella Premessa alle Lezioni leopardiane, che getta una luce assai significativa sulle radici del suo leopardismo: “C’era in me una radice di disposizione a una consonanza di fondo con le posizioni leopardiane. E tale consonanza, sviluppatasi nella mia indole malinconica e pessimista, si nutrì della crescente lettura dei Canti e delle Operette morali durante la mia adolescenza […]”» (si ricordi anche l’allu-
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sione di Blasucci alle «improbabili discendenze novecentesche, soprattutto nell’àmbito del pensiero negativo», indicate da «filosofi di professione» che non hanno mostrato eccessiva cura di «sintonizzarsi coi testi leopardiani»). 37 In Il filologo materialista, cit.; cfr., in particolare, pp. 144-160. Ma si veda anche, di CARPI, Appunti sull’antimoderatismo di Sebastiano Timpanaro, in «Allegoria», cit., pp. 7-30. Carpi, fra le altre argomentazioni, richiama la necessità d’un equo giudizio sulla problematicità e sulla tormentata riflessione politica di Togliatti: «Inutile dire che il rapporto con l’URSS e con la sua involuzione, cioè la crisi del movimento comunista internazionale, venne vissuto dal PCI dopo il 1956 (da Togliatti anche prima, direi fin dalle riflessioni su democrazia e socialismo immediatamente successive alla guerra di Spagna) in maniera ben più complessa e drammatica di quanto a Timpanaro non paresse, tanto più in una situazione internazionale particolarmente incandescente negli anni Sessanta e Settanta, quando, se da una parte turbavano Jan Palach e Dubček, dall’altra infuriavano le guerre di liberazione in atto in Asia e in Africa (che mai avrebbero avuto successo senza l’URSS)»; lo stesso fronte degli storici marxisti d’allora (Ragionieri, Zangheri, Mori, Cafagna, Sereni) non era così arreso davanti al giustificazionismo di Rosario Romeo: «soprattutto Sereni, il quale – rispondendo alle obiezioni del Romeo, d’altronde assai meno rozze e mediocri di come Timpanaro le liquidava e da collegare al più generale dibattito internazionale sul superamento del sottosviluppo nel mercato internazionale e sul problema dei fattori sostitutivi nell’accumulazione – aveva integrato in maniera sostanziale la tesi “giacobina” di Gramsci con le sue riflessioni sulla formazione del mercato nazionale e sugli squilibri dei mercati regionali contigui […]» (tutte le citazioni sono tratte da p. 22). 38 Si cfr. Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwinismo nell’Italia del secondo Ottocento, in «Critica storica», 3 – 1979 –, pp. 406-502; Il primo Cinquantennio della «Rivista di filologia e d’istruzione classica», in «Rivista di filologia e d’istruzione classica», C, s. III, 1972, pp. 387-441. Sul Lignana cfr. BENEDETTO CROCE, Giacomo Lignana, in Pagine sparse, raccolte da G. Castellano, s. III, Napoli, Morano, 1920, pp. 65-85; e cfr. pure GRAZIADIO ISAIA ASCOLI, Studj critici, Torino, Loescher, 1877, p. 45: «non so affatto darmi ragione del perché egli [il Lignana] deliberatamente confonda la filologia, che è, a dir breve, la scienza della letteratura, colla linguistica (o meglio la glottologia), che è la scienza della parola» (riprodotto in GUIDO LUCCHINI, Le origini della scuola storica. Storia letteraria e filologia in Italia (1866-1883), Bologna, Il Mulino, 1990, p. 96). Sul disaccordo fra Ascoli e Lignana cfr. lo stesso Timpanaro di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., pp. 370, 397 n., 413 n., 417 e n., 419 n.; cfr. anche MARINO RAICICH, Scuola, cultura e politica tra De Sanctis e Gentile, Pisa, NistriLischi, 1982, pp. 205, 228, 261-263, 453. Per i successivi riferimenti, vedi SEBASTIANO TIMPANARO, Friedrich Schlegel e gli inizi della linguistica indoeuropea in Germania, in «Critica storica», 1972, pp. 72105; ID., Il contrasto tra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, «ivi», 1973, pp. 553-590; LUCIO COLLETTI, Il materialismo storico e la scienza, in «Società», XI, pp. 824 ss; PIETRO OMODEO, La disputa sulla generazione spontanea da Redi fino a Lamarck, «ivi», giugno 1957, pp. 490-523; ID., Centocinquant’anni di evoluzionismo, «ivi», settembre-ottobre 1959, pp. 833-884. Riguardo a Giulio Preti, cfr., ultimamente, la raccolta di suoi saggi nel volume Giulio Preti filosofo europeo, a cura di Alberto PERUZZI, Firenze, Olschki («Fondazione Carlo Marchi». Quaderni, n. 23), 2004 39 Cfr. ELIO GIOANOLA, Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995; si confrontino, in particolare, le pp. 80-82 e nn. 17-19, 326, 355-379, 481, 484. 40 La filologia di Giacomo Leopardi, cit. (19772), pp. 187-189 e nn. 60-61. Per una visione parzialmente diversa, disposta ad ammettere nella figura leopardiana l’unione di poesia e di filosofia, ma orientata sul riconoscimento d’assoluta unitarietà anche all’esperienza del filologo, del poeta e dell’antichista, dello studioso e del lettore dei classici, senza focalizzazione della cifra tecnica e peculiare della filologia di Leopardi, si veda quanto ha scritto il grecista MARCELLO GIGANTE, Leopardi poeta e pensatore, in ID., Leopardi e l’antico, Bologna, Il Mulino («Istituto Italiano per gli Studi Storici in Napoli»), 2002, p. 142: «Voglio dire che il rapporto tra pensiero e immagine, tra riflessione e canto quale è sentito e rappresentato dal Leopardi disvela le radici antiche della sua formazione e l’esemplarità degli antichi e ci conferma che Leopardi, alla fine, si sentì poeta greco specialmente perché realizzò nel verso o nella prosa l’unità di poesia e filosofia. Per tale consapevolezza la filologia di Leopardi – così bene indagata da Sebastiano Timpanaro il cui libro è apparso in una terza edizione aggiornata [1997] – fu non solo un’ars critica, ma metodo di lettura, formazione di cultura e dottrina, contatto perenne con i classici di poesia e di pensiero, esperienza fondamentale anche per la conquista e il possesso di modelli ineliminabili dalla storia. / L’unità di poesia e filosofia non fu solo una conquista teoretica, ma l’esito altissimo della scrit-
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tura in cui s’inverò e rinvenne la sua physis l’esperienza straordinaria di lettore degli antichi. È l’amore della parola antica che in Giacomo Leopardi diviene pensiero e poesia». Ma appare chiara la valorizzazione de La filologia di Giacomo Leopardi. Rammentiamo che Marcello Gigante è stato uno dei grandi fautori d’una rivalutazione di Diogene Laerzio, autore di cui non sfugge l’importante frequenza citazionale nell’àmbito delle letture leopardiane. 41 PAUL THIRY d’HOLBACH, Il buon senso (Le bon sens), Introduzione, traduzione e note di Sebastiano TIMPANARO, Milano, Garzanti («Grandi Libri Garzanti» – d’ora in avanti «GLG» –, n. 320), 1985; MARCO TULLIO CICERONE, Della divinazione (De divinatione), Introduzione, traduzione e note di Sebastiano TIMPANARO, ivi («GLG», n. 360), 1988 (rist.: 1991; edizione riveduta e aggiornata: 1998; ristt.: 1999, 2001); ÉMILE ZOLA, La fortuna dei Rougon (La fortune des Rougon), Introduzione e traduzione di Lanfranco BINNI, Presentazione di Sebastiano TIMPANARO, ivi («GLG», n. 471), 1992; ID., La conquista di Plassans (La conquête de Plassans), Introduzione di Lanfranco BINNI, Prefazione, traduzione e note di Sebastiano TIMPANARO, ivi («GLG», n. 518), 1993. A proposito di d’Holbach, si cfr., più di recente, GIOVANNI CRISTANI, D’Holbach e le rivoluzioni del globo. Scienze della terra e filosofie della natura nell’età dell’«Encyclopédie», Firenze, Olschki («Pansophia», n. 5), 2003. 42 Cfr. il citato volume di ELIO GIOANOLA, Leopardi, la malinconia, passim. 43 Zibaldone, cit., pp. 2251-2253. 44 «L’autore di Pot-Bouille, contro tutte le sue professioni di scienza sperimentale, contro tutte le sue austerità di osservatore esatto e di rappresentatore coscienzioso, si lascia forse anche troppo spesso attrarre dalle ombre fluttuanti nella selva dei sogni, dei simboli e dei misteri. Nei suoi ultimi romanzi specialmente su la moltitudine delle sue creature quasi interamente sprovviste di vita interiore, passa a quando a quando un soffio gelido, «le frisson de l’inconnu» e si leva l’alta figura immateriale di un simbolo. Egli ha, come i poeti, un bisogno istintivo di trascendere i confini della realtà profonda. Egli dà una grandezza e una terribilità epiche alle sue visioni delle plebi ammutinate e degli eserciti disfatti; tramuta le comuni vicende del giuoco di Borsa in vaste battaglie campali, in disastri immensurabili che portano con loro il crollo di un mondo; rappresenta Parigi, vista dalle alture di Passy, come un oceano umano senza rive, dagli aspetti sempre mutevoli, dalle palpitazioni incessanti che si propagano nelle nubi superiori; infonde un’anima selvaggia alla locomotiva che corre senza freno, fumando e fiammando tragicamente nell’ombra, trascinando i carri neri, pieni di soldati ebrei, verso l’orizzonte minaccioso […] lo conduce a queste profonde alterazioni della realtà la tendenza che ha il suo spirito a simbolizzare e quindi a idealizzare. Le Docteur Pascal, il romanzo che chiuse la storia dei Rougon-Macquart, è chiaramente simbolico. Manifesta per via di simboli una concezione morale della vita […]» (GABRIELE D’ANNUNZIO, in Pagine disperse, Bernardo Lux editore, 1913, pp. 558-572: p. 558; cit. nell’opera collettiva Interpretazioni di Zola, a cura di Renzo PARIS, Roma, Savelli, 1975, pp. 137-139: p. 137). È il caso di rimarcare l’accenno alle «creature quasi interamente sprovviste di vita interiore» e la compiaciuta e sinistra sottolineatura, da parte di D’Annunzio, dei «carri neri, pieni di soldati ebrei, verso l’orizzonte minaccioso». Per gli altri riferimenti, si cfr. GYÖRGY LUKÁCS, Il marxismo e la critica letteraria, Prefazione e traduzione di Cesare CASES, Torino, Einaudi, 1977 (VIII ed. «PBE»), in part. pp. 59-109 e 269-323. Sulla serietà dell’adesione di De Amicis al marxismo può realmente valere qualche riscontro dal Primo Maggio: EDMONDO DE AMICIS, Primo Maggio, a cura di Giorgio Bertone e di Pino Boero, Milano, Garzanti, 1980. Si veda, ad esempio, la menzione del «Bon sens», giornale fondato a Parigi nel 1848, «aperto a tutti gli scritti d’operai, qualunque fossero» (p. 208); a p. 238, De Amicis critica la fruizione, fra interessata e sprovveduta, di coloro che, dopo un articolo di Alberto Bianchini, confondono socialismo antico e moderno, socialismo scientifico e socialismo utopistico; così, a p. 240, vi è una citazione del concetto della «macchina sociale» di Taine, e, a p. 241, Cambiasi, importante e complesso personaggio del romanzo, amico dei Bianchini, formula una previsione sugli arrembaggi adesivi al socialismo in caso di vittoria rivoluzionaria. Vi sono poi le disincantate raccomandazioni dell’autentico socialista Rateri ai conferenzieri in vista di quella che diverrà la seria e drammatica celebrazione finale del «Primo Maggio» (pp. 411-412). Ma è in Timpanaro che De Amicis ha in tal senso trovato lo studioso anticonformista e competente, idoneo e motivato a promuoverne la vera e propria riscoperta; cfr. infatti SEBASTIANO TIMPANARO, Il socialismo di Edmondo De Amicis, Verona, Bertani, 1984. Si ricordino la capacità e l’acutezza con le quali Timpanaro coglie l’essenza di molte riflessioni (effettuate sulla base di serie letture) e di molti dialoghi, di molti, magari inutili colloqui di Alberto Bianchini con i suoi contraddittori, familiari e conoscenti, amici e non; sono questi i passaggi in cui si sfatano alcuni fra i più insopportabili luoghi comuni che ancor oggi connotano ogni ricezione inintelligente del socialismo (e del comunismo).
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Si noti ad esempio (p. 47 del romanzo e p. 110 del saggio di Timpanaro) come la base dello sfruttamento economico-salariale sia individuata proprio nella decantata, e sotto questo aspetto pericolosissima «libertà»: «il fatto che caratterizza la disumanità di nuovo tipo del sistema capitalistico è appunto il sorgere dello sfruttamento del lavoratore non dalla violenza e dalla costrizione diretta ma dalla “libertà”», una libertà (TIMPANARO, p. 110) che consegna il salariato alla condizione di “superlavoratore” non pagato e proprio per questo fonte dell’esubero di profitto del padrone (oggi, dei padroni, dei “cartelli” d’imprese); si veda anche la definizione della «proprietà dei ricchi» non come «proprietà», appunto», ma come «altruità», «“accumulazione di lavoro” altrui non pagato» (TIMPANARO, p. 113); si veda altresì (Primo Maggio, p. 62 – TIMPANARO, pp. 111-112) la sproporzione remunerativa a vantaggio degli “alti” compiti e dell’“alta” utilità sociale dei dirigenti d’impresa e dell’alta borghesia professionistica (è «giusto che le centinaia di lavoratori, che concorsero alla formazione della sua ricchezza [dell’imprenditore], e senza dei quali non avrebbe potuto far nulla, abbiano avuto appena da campare stentatamente, faticando dieci ore al giorno, logorandosi la salute e rischiando la vita, per finir all’ospedale?»); addirittura «idiota» il luogo comune «del profitto come remunerazione del rischio» (p. 113 Timpanaro): in un gioco d’azzardo fra capitalisti il rischio non incide sulla reale natura dei rapporti socio-economici fra capitale e lavoro, e anzi, dove il rischio si risolve in una serie di défaillances per i capitalisti, di questa “mano” azzardosa «scontano le perdite le moltitudini che non hanno parte nei profitti» (si cfr., rispettivamente, le pp. 89 e 47 del romanzo). Altro fantoccio intellettuale da abbattere è, in questa linea, la sperequazione retributiva a vantaggio delle “opere dell’ingegno” (TIMPANARO, p. 137) 45 Timpanaro riprende, a questo proposito, un argomento già trattato in Sul materialismo (Lo strutturalismo e i suoi successori, ora in III ed., cit., 1997, pp. 105-186; per il nostro argomento, in particolare pp. 118-126); «un aspetto nomenclatorio » è «essenziale e ineliminabile nella lingua», come scrive l’autore in questi Nuovi studi (p. 210). In tal senso, sia lecito il riferimento, mal si giustificano, da parte di molta moderna linguistica, le polemiche antisaussuriane in nome d’un’indimostrata ricaduta dello studioso ginevrino nella «manìa nomenclatoria»: tutto il Cours de linguistique générale (CLG; cfr. l’edizione italiana, con introduzione, traduzione e commento di Tullio DE MAURO, Bari, Laterza [«Biblioteca Universale Laterza», n. 79; I ed. Laterza: «Biblioteca di cultura moderna», 1967], 1983), nella visione di De Mauro, esprime precisi lineamenti concettuali antinomenclatorî, tranne in quelle fin troppo note pagine 100-101, che, con quell’«idea» e con quel «significato» («bue» e «sorella»), a prima vista preesistenti e distinti rispetto al significante, hanno attirato le critiche di numerosi linguisti successivi. Anche De Mauro ricorda che il convenzionalismo «non lede» la concezione nomenclatoria, ed è proprio contro il convenzionalismo che Saussure conduce una tormentata riflessione teorico-terminologica: «questo termine [conventional] dal 1894 in poi è evitato da S., e con delle motivazioni teoriche, in quanto egli giustamente avverte che la convenzionalità i m p l i c a necessariamente una concezione del significato e del significante come due d a t i sui quali opera secondariamente la convenzione umana per associarli. In altri termini […] il convenzionalismo non lede la concezione della lingua come una nomenclatura. Di conseguenza, S. abbandona il termine conventional come qualificativo del segno; e per un certo periodo sembra incline a sostituire anche l’altro elemento della coppia whitneyana ora con (symbole) indépendant […] ora con immotivé. Di tutto ciò va tenuto conto nel valutare l’uso di arbitraire nel CLG. Non si può attribuire sic et simpliciter a S. una concezione convenzionalistica: tutto il CLG combatte proprio tale concezione. S. è tornato a usare arbitraire perché l’aggettivo esprimeva bene l’insussistenza di ragioni naturali o logiche ecc. nel determinare gli articuli della sostanza acustica e semantica (De Mauro, p. 413 n. 137 ed. Laterza). E ancora: «Questo [il pensiero saussuriano], in quanto critica il convenzionalismo e la concezione della lingua come nomenclatura, porta a concludere che non è concepibile un “significato” autonomo dai “significanti” d’una determinata lingua. Di conseguenza non è possibile assumere un significato “bue” come entità comune a due lingue diverse e mostrare così che, essendo diverse le forme foniche dei significanti che nelle due lingue designano il presunto significato comune, i significanti stessi sono arbitrari. Giustamente, Benveniste addita la sostanza del pensiero saussuriano in CLG 155 sgg., nella concezione della lingua come sistema di valori relazionali e, quindi, in quanto tali, inconfrontabili» (ivi, p. 415 n. 138). Ci si permetta di rinviare, sulla discussione, al nostro L’Ottocento non hegeliano, cit., pp. 132-140. 46 A proposito della polemica di Timpanaro sull’inevitabilità della componente nomenclatoria, e sulla sua presenza, sia pure sullo sfondo e in accezione parziale, anche in Saussure, cfr. Lo strutturalismo e i suoi successori, cit., pp. 122-123; perfino De Mauro ha considerato in modo negativo (pur se non radicalmente) il famoso esempio boeuf = Ochs, tendendo però a circoscriverne il valore al piano dell’allocuzione didattico-cattedratica: «[…] l’esame delle fonti manoscritte non permette stavolta di attribuire la
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“rozzezza” ai redattori del Corso, né di cogliere un’evoluzione del pensiero di Saussure su questo punto […]. A me sembra che quella motivazione dell’arbitrarietà sia necessaria, e possa essere integrata, ma non sostituita da altre motivazioni più sottili. Che la lingua non sia riducibile a nomenclatura è del tutto giusto […]. Ma se invece si vuol dire che la lingua non ha alcun aspetto nomenclatorio, cioè non rimanda ad alcuna esperienza sensibile-concettuale distinguibile dalla lingua stessa […] e costituente un punto di riferimento comune a coloro che parlano lingue diverse, allora si approda a due possibili risultati entrambi inaccettabili: o si fa della lingua un système pour le système […], oppure […] si cade […] in un concetto romantico-deteriore del Volksgeist […]. Come osserva De Mauro, Saussure è ben lontano da questo punto di vista; ma ne è lontano proprio perché, pur approfondendo il convenzionalismo di Whitney, non lo respinge del tutto, ma lo ingloba nella propria dottrina. Il tanto deprecato esempio di boeuf – Ochs è elementare, ma non è per nulla falso: per respingerlo, bisognerebbe credere a un “modo francese di concepire il bue” del tutto diverso da un “modo tedesco” di concepirlo; bisognerebbe addirittura asserire che l’equazione boeuf = Ochs è altrettanto assurda quanto, poniamo, l’equazione boeuf = Hund. / Anche l’ammissione da noi fatta sopra, che il continuum dell’esperienza viene ritagliato dalle diverse lingue in modi diversi, dev’essere sempre tenuta presente, ma non può essere sopravvalutata a piacimento […]. Vi è un limite all’arbitrarietà della classificazione a cui ciascuna lingua sottopone l’esperienza, e questo limite è dato dalla struttura stessa fisio-psichica dell’uomo, dai suoi bisogni, dalle sue risposte a determinati stimoli, dalle sue attività conoscitivo-pratiche, che non sono totalmente diverse da popolo a popolo e non lo sono state nemmeno in tempi remotissimi. L’arbitrarietà nella classificazione del reale è quindi molto minore dell’arbitrarietà nella denominazione dei singoli “ritagli di realtà”: anche a parità di classificazione, le lingue si distinguono tra loro per diversità di denominazione dei ritagli: questo è ciò che l’esempio di boeuf – Ochs mette in evidenza». Nelle successive pagine Timpanaro ricorda che già Saussure ha fatto capire l’impossibilità d’un’estensione realmente indiscriminata della semiologia a tutti i campi della comunicazione: «secondo Saussure, nella futura scienza semiologica rientreranno parzialmente e per approssimazione varie altre branche del sapere, ma di pieno diritto soltanto la linguistica, accompagnata, tutt’al più, dallo studio delle scritture e dei sistemi segnaletici in senso stretto [i sistemi di segni in senso proprio, come ha prima scritto Timpanaro]». Saussure, addirittura, è «molto lontano dal fare dell’aspetto convenzionale e “sistematico” della lingua un modello allegramente applicabile a tutte le scienze. È molto lontano dal voler ridurre la realtà a linguaggio – o a “sistema” in senso formalistico […]. Nella visione generale della realtà, per quel tanto che essa appare sullo sfondo delle sue meditazioni linguistiche, egli è ancor più realista che nella concezione del linguaggio» (p. 126). 47 Opportuna l’allusione ad ANTONIO LABRIOLA, Del materialismo storico: dilucidazione preliminare, X, in Saggi sul materialismo storico, a cura di Valentino GERRATANA e di Augusto GUERRA, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 145 ss. e a ID., La concezione materialistica della storia, a cura di Eugenio GARIN, Bari, Laterza, 1965, pp. 133 ss. Si ricordi il concetto di «doppio terreno», naturale e artificiale, in cui il secondo termine, pur producendo grandi modificazioni sul primo, non può mai soppiantarlo completamente e definitivamente. Timpanaro a questo proposito rammenta il carattere determinante dell’influenza delle basi fisiologico-naturali sulla costituzione fisiopsichica e biologica del singolo (non dei “gruppi” etnici, beninteso), sulle sue disposizioni caratteriali e neurologiche, sullo stesso rapporto che in tal senso “il singolo” instaura con la propria culturalità. 48 «Questa filosofia tedesca moderna trovò la sua conclusione nel sistema hegeliano, nel quale, per la prima volta, e questo è il suo grande merito, tutto quanto il mondo naturale, storico e spirituale venne presentato come un processo, cioè in un movimento, in un cangiamento, in una trasformazione, in uno sviluppo che mai hanno tregua, e fu fatto il tentativo di dimostrare il nesso intimo esistente in questo movimento e in questo sviluppo […]. E ora il compito del pensiero consiste nel seguire, attraverso tutte le deviazioni, la marcia graduale di tale processo che si compie a poco a poco e dimostrarne, attaverso tutte le accidentalità apparenti, l’intima regolarità. / Che Hegel non abbia assolto questo compito, qui non ha importanza. Il suo merito, che fa epoca, è quello di averlo posto, tanto più che questo è un compito che nessun individuo da solo potrà mai assolvere […]. Hegel era un idealista, cioè per lui i pensieri della sua testa non erano le immagini riflesse, più o meno astratte, delle cose e dei fenomeni reali, ma invece le cose e il loro sviluppo erano immagini riflesse realizzate delle «idee», esistenti già prima del mondo in qualche luogo. Conseguentemente tutto veniva poggiato sulla testa, e il nesso reale del mondo veniva completamente rovesciato» (cfr. FRIEDRICH ENGELS, Introduzione, in ID., Anti-Dühring, a cura di Valentino GERRATANA, Roma, Editori Riuniti, 19712 – I rist. –, pp. 26-27).
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49 Si cfr. Dialettica della natura, in KARL MARX-FRIEDRICH ENGELS, Opere, XXV (Anti-Dühring e Dialettica della natura), a cura di Fausto CODINO, trad. di Giovanni DE CARIA, Lucio LOMBARDO RADICE, Fausto CODINO, Roma, Editori Riuniti, 1974. Sul rapporto di Leopardi con le scienze e con la filosofia della natura, sul carattere fondato e tutt’altro che casuale della sua competenza scientifica e della sua conoscenza di figure di scienziati, e sui riflessi che tali acquisizioni mostrano con la filosofia naturale propria del Recanatese e con lo Zibaldone, e così con l’opera artistica e poetica fino ai Paralipomeni e a La ginestra, cfr. ora l’importante volume di GASPARE POLIZZI, Leopardi e «le ragioni della verità». Scienze e filosofia negli scritti leopardiani, prefazione di Remo BODEI, Roma, Carocci, 2003 (di POLIZZI cfr. anche Leopardi e la filosofia, Firenze, Polistampa, 2001). 50 Si ricordi specificamente il capitolo V, La rivoluzione moderna nelle scienze naturali e l’idealismo filosofico, in VLADIMIR IL’IC [ULIANOV] LENIN, Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, Milano, Edizioni Lotta Comunista, 2004, pp. 269-334 (testo tratto dall’ed. anastatica delle Opere di Lenin, ivi, 2002); nello stesso volume, si veda lo scritto introduttivo, tratto da una serie di articoli apparsi in «Lotta Comunista» del 1978 e del 1979, di ARRIGO CERVETTO, La critica liberale di Bernstein, pp. 1-26. 51 Su altre problematiche, riguardanti la necessità d’una non meccanica concezione del rapporto struttura-sovrastruttura, si cfr. pp. 16-17. E si cfr. anche, di KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, trad. di Enzo GRILLO, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia («Paperbacks», 20), 1997 (I ed. in «Classici della filosofia»: 1968, rist.: 1978), vol. I, pp. 37-39. Ma è ovvio che molte altri rilievi sorgano a proposito del rapporto di Engels con la filosofia e con la scienza della natura (come anche dell’importanza degli studi di Engels sulla religione cristiana, sulla tradizione ebraica e sulla valorizzazione dell’esegesi biblica tedesca, e in specie tedesco-protestante: si ricordi FRIEDRICH ENGELS, Zur Geschichte des Urcristenthums – Sulle origini del cristianesimo. Un’interpretazione storica delle radici della religione cristiana, Prefazione di Ambrogio Donini, Roma, Editori Riuniti, 2004 – I ed.: ivi, 1954). Nella citata edizione dell’Anti-Dühring e della Dialettica, ad esempio, è sufficiente rinviare alle pp. 324-336 dell’Introduzione per vedere sottolineata l’importanza della teoria scientifica di Kant sulla formazione dinamica, sulla “storia” dell’universo e quindi della terra, senza ordine metafisico di primi impulsi (cfr. la troppo spesso misconosciuta Storia naturale generale e teoria del cielo del 1755); lo sviluppo della geologia (scienza non a caso privilegiata nella considerazione di Timpanaro) aiuterà l’affermarsi d’un’autentica nuova concezione della terra: «Era necessario decidersi a riconoscere che non soltanto la terra nel suo insieme, ma anche la sua superficie attuale e le piante e gli animali che su essa vivono avevano una loro storia nel tempo. Un tale riconoscimento venne fatto al principio abbastanza controvoglia» (p. 325). Altrettanto vale per le forze fisiche (da specie «immutabili» a «forme del movimento della materia»), per la chimica e per «la geografia fisica comparata», per la paleontologia, per la zoologia e per la botanica fino alla vittoria di Darwin: «Darwin non sapeva quale amara satira scrivesse sugli uomini, ed in particolare sui suoi compatrioti, quando dimostrava che la libera concorrenza, la lotta per l’esistenza, che gli economisti esaltano come il più alto prodotto storico, sono lo stato normale del regno animale» (p. 332). E dalla scientifica riflessione sulla fine dell’universo, come anche dall’assunzione di alcune delle coeve teorie sulla non indistruttibilità del movimento e sull’irraggiamento del calore negli spazi celesti, può nascere la pagina finale della stessa Introduzione (pp. 335336): «La materia si muove in un eterno ciclo. È un ciclo che si conclude in intervalli di tempo per i quali il nostro anno terrestre non è assolutamente metro sufficiente; un ciclo, nel quale il periodo dello sviluppo più elevato – quello della vita organica e anzi della stessa vita – occupa un posto ristretto quanto lo spazio nel quale si fanno strada la vita e la coscienza; un ciclo, nel quale tutte le manifestazioni della materia – sole o nebulosa, animale o specie, combinazione o separazione chimica – sono ugualmente caduche. In esso non vi è nulla di eterno se non la materia che eternamente si trasforma e si muove. Ma per quanto spesso, per quanto inflessibilmente questo ciclo si possa compiere nello spazio e nel tempo; per quanti milioni di soli e di terre possano nascere e perire; per quanto tempo possa trascorrere finché su un solo pianeta di un sistema solare si stabiliscano condizioni necessarie alla vita organica; per quanti innumerevoli esseri organici debbano sorgere e scomparire prima che tra di essi si sviluppino animali dotati di un cervello pensante e trovino per un breve intervallo di tempo condizioni atte alla vita, per essere poi anch’essi distrutti senza pietà, noi abbiamo la certezza che la materia in tutti i suoi mutamenti rimane sempre la stessa, che nessuno dei suoi attributi può mai andare perduto e che perciò essa deve di nuovo creare, in altro tempo e in altro luogo, il suo più alto frutto, lo spirito pensante, per quella stessa ferrea necessità che porterà alla scomparsa di esso sulla terra».
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52 FRIEDRICH ENGELS, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, a cura di Fausto CODINO, trad. di Dante DELLA TERZA, Roma, Editori Riuniti, 1993 (I ed.: 1963). Si ricordi che in nota alla prefazione (Londra, 16 giugno 1891) di Engels alla quarta edizione di Ursprung der Familie il curatore riproduce un ritratto di Charles Fourier tratto dall’Anti-Dühring e centrato, nella sua parte conclusiva, proprio sul tema della fine della terra e della fine dell’umanità in Kant e nello stesso Fourier; ne riproduciamo, appunto, i periodi finali: «Con pari dialettica egli [Fourier], di fronte alle chiacchiere sull’infinita perfettibilità umana, mette in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente, ma anche il suo ramo discendente ed applica questo modo di vedere anche al futuro di tutta l’umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione dell’umanità» (L’origine della famiglia, cit., pp. 48-49 n.). 53 By Lewis Henry Morgan, London, Macmillan Co., 1877. 54 Si cfr. inoltre la seguente citazione, sempre da L’origine della famiglia: «Lo sviluppo della famiglia nella storia primitiva consiste dunque nel costante restringersi della cerchia che originariamente abbracciava tutta la tribù nel cui ambito regna la comunanza coniugale tra i due sessi. Con l’esclusione continua, dapprima dei parenti più vicini, poi di quelli sempre più lontani e infine anche dei parenti soltanto acquisiti, ogni forma di matrimonio di gruppo diventa alla fine praticamente impossibile, e resta esclusivamente la coppia unica, ancora debolmente vincolata, la molecola, cioè, con la cui disgregazione il matrimonio in generale cessa. Da ciò appare ormai quanto poco l’amore sessuale individuale, nel senso in cui noi oggi adoperiamo questa parola, abbia avuto a che vedere con l’origine della monogamia» (p. 75). 55 «La famiglia di coppia, di per sé troppo debole ed instabile per sentire il bisogno o anche solo il desiderio di una propria amministrazione domestica, non dissolve in alcun modo quella comunistica tramandata dall’epoca anteriore. Ma amministrazione comunistica significa dominio della donna nella casa, come riconoscimento esclusivo d’una madre carnale, data l’impossibilità di conoscere, con certezza, un padre carnale. Essa significa inoltre alta considerazione della donna, cioè della madre. È una delle idee più assurde di derivazione illuministica del secolo XVIII, che la donna, all’inizio della società, sia stata schiava dell’uomo. La donna invece, presso tutti i selvaggi ed i barbari dello stadio inferiore e medio, ed in parte anche dello stadio superiore, aveva una posizione non solo libera, ma anche di alta considerazione» (p. 76). 56 Si leggano ancora le seguenti citazioni: «Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta sul piano storico universale del sesso femminile. L’uomo prese nelle mani anche il timone della casa, la donna fu avvilita, asservita, resa schiava delle sue voglie e semplice strumento per produrre figli. Questo stato di degradazione della donna si manifesta apertamente, in ispecie tra i Greci dell’età eroica e, ancor più, dell’età classica, è stato poco per volta abbellito e dissimulato e, in qualche luogo, rivestito di forme attenuate, ma in nessun caso eliminato. / Il primo effetto del dominio esclusivo degli uomini, fondato allora, si mostra nella forma intermedia della famiglia patriarcale, che affiora in quel momento. Ciò che lo caratterizza principalmente non è la poligamia […], ma «l’organizzazione di un numero di persone libere e non libere in una famiglia sotto la patria potestà del capofamiglia […]»» (pp. 84-85); «il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile. La monogamia fu un grande progresso storico, ma contemporaneamente essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse quell’epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, ad un tempo, un relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo degli uni si compie mediante il danno e la repressione di altri. Essa fu la forma cellulare della società civile, e in essa possiamo già studiare la natura degli antagonismi e delle contraddizioni che nella civiltà si dispiegano con pienezza» (p. 93); «Abbiamo così tre forme principali di matrimonio, che in complesso corrispondono ai tre stadi principali dello sviluppo umano. Il matrimonio di gruppo per lo stato selvaggio; il matrimonio di coppia per la barbarie; la monogamia, completata dall’adulterio e dalla prostituzione, per la civiltà. Tra il matrimonio di coppia e la monogamia s’introduce, nello stadio superiore della barbarie, il dominio dell’uomo sulle schiave e la poligamia. / Come prova tutta la nostra esposizione, il progresso che appare in questa successione è legato alla particolarità che la libertà sessuale del matrimonio di gruppo è stata sempre più sottratta alle donne, ma non agli uomini. E il matrimonio di gruppo, in realtà, per l’uomo continua a sussistere sino ad oggi. Ciò che per una donna è un delitto che si tira dietro gravi conseguenze legali e sociali, è considerato per l’uomo cosa onorevole, e nel peggiore dei casi come lieve macchia morale che si porta con piacere […]. E infine, non abbiamo forse visto che nel mondo moderno
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monogamia e prostituzione sono, certo, antagonismi, ma antagonismi inseparabili, poli opposti del medesimo stato di cose della società? Può scomparire la prostituzione senza trascinare con sé, nell’abisso, la monogamia?» (pp. 101-103). 57 Cfr. Antileopardiani e neomoderati, cit, p. 186: «Non è affatto meritocratica la polemica leopardiana contro l’appiattimento dei valori, contro la mediocrità conformistica che egli vedeva dilagare nella società borghese-antigiacobina del suo tempo: quell’appiattimento e quel conformismo non erano affatto affermazione dell’eguaglianza reale di tutti gli uomini, ma strumentalizzazione delle “masse” in una società ben attenta a mantenere i privilegi di classe e la distinzione fra chi era predestinato ad essere soggetto e chi oggetto di storia»; e ancora, nella stessa pagina, n. 45: «[…] anche i pensieri anteriori al 1824 contengono – accanto all’esigenza egualitaria come premessa all’affermarsi del vero merito – la consapevolezza che la stessa etica del merito, pur superiore a quella del privilegio o della ricchezza, reca in sé pericoli antiegualitari. Cfr. Zib. 569, dove si afferma che “anche la sola eccessiva sproporzione del merito e della pura gloria” può mandare in rovina le democrazie; e Zib. 1646 sg., in cui, dopo aver osservato come i “geni” provengano quasi tutti dalla “classe possidente e benestante” sebbene sia “certo che vi sono tra i contadini tante persone proprie a divenir geni, quante nelle altre classi in proporzione del numero rispettivo di ciascuna” […], il Leopardi prosegue: “Che cosa è dunque ciò che si dice, che il genio si fa giorno attraverso qualunque riparo, e vince qualunque ostacolo? Non esiste genio in natura, cioè non esiste (se non forse come una singolarità) nessuna persona le cui facoltà intellettuali siano per se stesse strabocchevolmente maggiori delle altrui. Le circostanze e le assuefazioni […] producono la differenza degli ingegni”. Qui si arriva alla più totale negazione non solo della meritocrazia (cioè del diritto di chi ha più ingegno ad avere più benessere, autorità ecc.), ma dell’esistenza stessa di diversità “innate” di intelligenza». E si legga il passo di Timpanaro nel citato studio su Primo Maggio (Il socialismo di Edmondo De Amicis), pp. 137-138, un passo che ben interpreta la mirata e intensa valenza antidisegualitaristica e antimeritocratica che attraversa alcuni importanti segmenti romanzeschi dello scrittore (l’ex celebratore delle differenze di classe in Cuore) e che altrettanto bene focalizza alcune dirette pronunce del protagonista, Alberto Bianchini: «Del resto, sebbene il disegualitarismo, la selezione delle intelligenze e delle capacità, la meritocrazia sia anch’essa ingiusta e deva essere in un primo tempo accettata solo come un male necessario e non più di quanto sia strettamente necessario, nella società borghese neppur essa si attua […], se non in modo imperfettissimo. Sempre più anzi, man mano che la borghesia diviene classe meramente sfruttatrice e oppressiva, tende ad attuare una selezione alla rovescia […]. E quando uno dei soliti contraddittori di Alberto, «uno sconosciuto balbuziente», lo aggredisce con le eterne domande perentorie: «dica dunque: è collettivista? è comunista? È per l’eguaglianza assoluta, per un ordinamento sociale che metterebbe alla pari Dante Alighieri e un cretino?» (117 s.), Alberto […] gli chiede a sua volta, con finta ingenuità: «E perché mai lei respingerebbe un tale ordinamento?». Il sarcasmo è chiaro: il borghese che inorridisce di fronte all’idea dell’eguaglianza assoluta e si appella al sacro nome di Dante Alighieri, avrebbe, poiché è un cretino, tutto da guadagnare nell’essere equiparato ad un genio. Ma è tanto cretino che non capisce l’ironia […]». Sul valore che anche per Carpi ha avuto la polemica cui si allude in Antileopardiani cfr. il citato UMBERTO CARPI, Appunti sull’antimoderatismo di Sebastiano Timpanaro. 58 Recensione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di PIERO TREVES, MilanoNapoli, Ricciardi, 1962 («La letteratura italiana», Storia e testi, vol. 72), pubblicata in «Critica storica», II (1963), pp. 603-611; ora, con il titolo Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità nell’Ottocento italiano, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, cit., pp. 371-386. 59 Si cfr. il seguente passo di dissenso sulla figura del Foscolo trevesiano: «Lo stesso si dica del Foscolo: non si fa torto al suo profondo senso poetico della grecità riconoscendo il presuntuoso dilettantismo delle sue polemiche antifilologiche e dei suoi tentativi eruditi (con una parziale eccezione per gli abbozzi di studi di filologia dantesca degli ultimi anni); e quanto all’esegèsi della lezione ales equus in Catullo, 66, 54, che il Treves (p. 244) cita come contributo filologico originale, bisogna ricordare che quella era l’interpretazione corrente al tempo in cui il Foscolo scriveva il suo commento alla Chioma di Berenice. Vincenzo Monti, nella dissertazione Del cavallo alato d’Arsinoe (Milano 1804, p. 12 sg.), citava una mezza dozzina di «zefiristi», cioè di interpreti convinti che l’ales equus fosse lo Zefiro, tra i quali, ultimo in ordine di tempo, il Foscolo […]. Anche la «tecnica» ha la sua storia, che si intreccia strettamente con la storia «ideologica» della storiografia. Una storia degli studi classici, se non deve prescindere dalle ideologie, dai legami con la storia generale della cultura, non può nemmeno considerare come cosa estranea l’evoluzione dei metodi di ricerca, né i risultati concreti ottenuti grazie all’applicazione intelligente di quei metodi. Il Treves coinvolge in una unica, indifferenziata condanna di tecnicismo i ricercatori
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mediocri o incapaci e i geniali, gli «antiquari» romani della Restaurazione («un’accademia di tecnici», p. 4) e studiosi di filologia formale della forza di un Garatoni o di un Leopardi». E più ancora, si veda la difesa del tecnicismo filologico-razionalistico leopardiano (Leopardi, si rammenti, non è il filologo-poeta della suggestiva ma forzatamente lacunosa definizione di Nietsche): «Nel caso del Leopardi, l’antipatia per il «tecnico» e quella per il materialista e pessimista si sommano. L’antileopardismo del Treves affiora in numerosi accenni occasionali (vedi per es. pp. 3, 13, 181, 187, 239, 349, 464, 541, 833, 835, 873) e culmina nel profilo del Leopardi e nelle note apposte ai suoi brani (p. 471 sgg.). Il valore positivo della filologia leopardiana è fatto consistere dal Treves solo in un vichiano interesse per la barbarie eroica, per la vigorosa passionalità e combattività dei popoli antichi (p. 474), che è un motivo, certo, importante — e il Treves ha il merito di ribadirlo con efficacia, dopo il Luporini —, ma non esclusivo nel rapporto del Leopardi con l’antichità. A un aspetto ancor più essenziale, cioè all’interesse del Leopardi per la filosofia ellenistica (basti ricordare la prefazione a Epitteto), il Treves non accenna neppure. Questa limitazione della filologia leopardiana si inserisce in una limitazione di tutta la personalità leopardiana, sulle orme di quel famigerato saggio di Croce su cui anche i crociani di stretta osservanza preferiscono di solito sorvolare, e a cui invece il Treves si riattacca esplicitamente (p. 488)» (Classicismo e «neoguelfismo», cit., p. 383). 60 «Con la predilezione per una storiografia orientata in senso prevalentemente etico-politico si connette, nel Treves, il disprezzo per la filologia in senso stretto (critica testuale, interpretazione), che egli qualifica più e più volte come mera «tecnica», distinguendola recisamente dalla storia. Contro un certo tipo di filologismo che oggi rischia di prevalere negli studi storici, e che presume di espungere dalla storiografia ogni interesse «pratico-politico», la protesta del Treves ha il suo valore. Ma ricadere nella concezione crociana di una filologia puramente strumentale rispetto alla storia etico-politica o alla critica letteraria, non è, a mio parere, il modo giusto di reagire al filologismo. L’interpretazione di un passo, la ricostruzione di un testo mal tramandato, sono lavoro storiografico: sono, se vogliamo, «microstoria», la quale non deve certo soffocare l’esigenza di una storia più ampia, culturale o politico-sociale, ma non è neppure semplice mezzo per quelle più vaste sintesi. La filologia testuale ed esegetica – la filologia di un Porson, di un Hermann, di un Leopardi – è autonoma nella stessa misura in cui si può considerare autonoma qualsiasi attività umana, la quale, in quanto distinta da altre per una necessità pratica di divisione del lavoro, reca sempre in sé il pericolo del settorialismo, dell’angustia specialistica: in questo senso, certo, è purus asinus il puro filologo, ma anche il puro artista, filosofo, politico: l’errore consiste nello strumentalizzare certe attività e nel dare una posizione privilegiata a certe altre. / D’altra parte, senza il possesso della deprecata «tecnica» l’interesse storico rimane velleitario. La sintesi di filosofia e filologia proclamata da Vico rimane inattuata se – come in Vico stesso – manca o difetta la filologia» (Classicismo e «neoguelfismo», cit. p. 380). 61 Classicismo e «neoguelfismo», cit., pp. 379-380. Si veda anche questo brano: «La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelligentsia europea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo ampliamento subisce per opera sua il neoguelfismo, che non è più solo una forma di cattolicesimo liberale (e anche queste due correnti andrebbero tenute più distinte di quanto faccia il Treves), ma è «l’unico tentativo sistematico di elaborazione d’un’educazione popolare italiana, d’una sintesi storica di nuovo e d’antico, di classico e popolare, di tradizione e rivoluzione. La quale, indipendentemente dall’opera individua dei singoli, dal loro contingente militare in uno o in altro partito, dal loro aderire all’una o all’altra scuola storiografica, restò per mezzo secolo, dalla maturità del Manzoni alla maturità del Carducci, il sostrato universo della nostra cultura» (p. XXVIII). / Tutto il libro, perciò, è pieno di romantici inconsapevoli (il Giordani e il Leopardi nei loro momenti validi, pp. XXIX; 457, n. 1; 472; perfino il Peyron, p. 875, perché «ebbe il senso della storia» e s’interessò di fonti non letterarie, come le epigrafi e i papiri) e di neoguelfi inconsapevoli. Avversione alla retorica della romanità e anticesarismo: basta la presenza di uno di questi due caratteri – e non sarebbero sufficienti nemmeno tutti e due – perché uno studioso sia aggregato al neo-guelfismo. In base al primo carattere, il Niebuhr diviene una specie di collaboratore inconscio del Manzoni, il Mommsen un suo allievo ideale (pp. XXXI, 597, 602; cfr.
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L’idea di Roma, p. 81 sg.), sebbene il Treves stesso dichiari che rapporti Niebuhr-Manzoni e MommsenManzoni sul piano degli studi storici non ve ne furono, che «il Niebuhr costruiva, professionalmente, la storia; mentre il Manzoni, le quante volte si propose di trattarne ex professo, la demoliva», che i manzoniani e i neoguelfi furono tutti ostilissimi ai due grandi storici tedeschi (pp. 597, XXXI sg.). In base al secondo carattere, un violento anticlericale e democratico avanzato come Atto Vannucci diventa anch’esso un neoguelfo. Il caso del Vannucci è paradossale perché non c’è pagina di lui – anche tra quelle riportate dal Treves – che non contraddica a questo suo incasellamento tra i neoguelfi. L’anticesarismo del Vannucci è quello della tradizione alfieriana e giordaniana, rinfocolato dall’ostilità per Napoleone III. Il Vannucci esalta il suicidio di Catone (p. 768), mentre il Manzoni, il Capponi e il Bindi, anticesariani ma cattolici, lo condannavano severamente. Il Treves, a questo proposito, rimprovera il Vannucci di incoerenza (p. 768, n. 5), mentre la vera incoerenza consiste, mi sembra, nel voler fare ad ogni costo un neoguelfo di un democratico anticlericale. Né è prova di neoguelfismo la polemica del Vannucci contro il Gaume (p. 728): se l’ultraclericale francese, che voleva bandire ogni istruzione classica perché diffonditrice di paganesimo, era avversato dai cattolici di spirito aperto, tanto più dovevano avversarlo i classicisti laici» (Classicismo e «neoguelfismo», cit., pp. 377-378). 62 Si rammenti, tuttavia, che una troppo netta differenziazione, e più che mai una contrapposizione intrailluministica fra Voltaire e d’Holbac non è esente da possibili riscontri critici: si veda PAOLO QUINTILI, ‘Illuminismo’ e ‘materialismo’ secondo Sebastiano Timpanaro, in Per Sebastiano Timpanaro Unicopli, cit., pp. 169-185, in particolare pp. 174-177. Quintili opportunamente ripercorre la vicenda del Mémoire del curé JEAN MESLIER, circolato anonimo per lungo tempo, parzialmente pubblicato nel 1762 nell’Estratto che ne fece Voltaire e al quale collaborò d’Holbach; i nomi del patriarca di Ferney e del barone del Palatinato, per usare le parole di Quintili, restano abbinati anche nell’epoca della Rivoluzione, nell’ambiente dei club radicali, al punto che viene pubblicato «un altro libello dal titolo: Le bon sens du curé Meslier». Questo libello attraversa con successo anche l’Ottocento – lo legge pure Balzac –, ed è in realtà composto non dal «vero Mémoire di Meslier», bensì dal «Bon sens di d’Holbach e, insieme», dall’«Estratto di Voltaire» (p. 176). Notevole, nello stesso scritto di Quintili, la messa a punto, fra gli altri, del concetto di eteronomia della morale («determinazione eteronoma e condizionatezza biologica»: cfr. p. 177) come essenziale componente del materialismo di Timpanaro. Più specificamente, alle pp. 178179 si sottolinea «la critica di Timpanaro al concetto althusseriano di ‘surdeterminazione’, a vantaggio della ‘determinazione’ strutturale così come la intesero genuinamente, fuori da ogni dogmatismo e rigidezza, Marx ed Engels»; più sotto, si focalizza ulteriormente una «nozione di determinazione» che «concerne i caratteri stessi della morale laica di cui d’Holbach si fece coraggioso propugnatore; una morale appunto non autofondata, bensì eteronoma, ossia soggetta a determinazioni dal fisico, dal biologico e dal sociale» (p. 179). 63 Della Volpe marxista eretico, in «Corriere della Sera», 10 novembre 1995. 64 Pp. 123-150. Di ROBERTO FINELLI si ricordi, inoltre, l’importante volume Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel 1770-1801, Roma, Editori Riuniti, 1996. 65 PAOLO CRISTOFOLINI, Materialismo e dolore. Appunti sul leopardismo filosofico di Sebastiano Timpanaro, in «Allegoria», cit., pp. 73-84 (riprod. in Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento, cit., pp. 347-359). 66 Cfr. GIROLAMO DE LIGUORI, Geymonat e il materialismo «verso il basso», in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXII, 3 (settembre-dicembre 2003), pp. 484-498. 67 Ivi, p. 491. 68 Rimangono del tutto vere e sostenibili, in ogni caso, non soltanto la stima e la reciproca lettura e valorizzazione dei percorsi saggistici fra i due studiosi, ma anche l’oggettiva convergenza, che, come in parte qui si è visto, si realizza nella comune visione materialistica, priva di pregiudiziali antipositivistiche; se è vero che Ludovico Geymonat, «con apparente paradosso», scrive De Liguori, ritrova pur sempre in Hegel, pur ribaltandone il presupposto idealistico della conoscibilità del reale, la «base del nuovo materialismo» («è chiaro che i nostri materialisti si sentano assai più vicini ad Hegel che non a Hume: Hegel infatti tenta di salvare, da un punto di vista superiore, il valore della conoscenza ingenua sgretolato dalla critica demolitrice di Hume; combatte ed elimina il carattere soggettivistico, che Hume pretende riscontrare in tutte le nozioni generali della conoscenza comune e della conoscenza scientifica; sostiene insomma, che la razionalità da noi scoperta nel mondo ha un fondamento oggettivo e non è aggiunta artificiosa del nostro intelletto»; cfr. LUDOVICO GEYMONAT, Materialismo e problema della conoscenza, in Del marxismo, a cura di Mario QUARANTA, Verona, Bertani, 1987, p. 251), è
I. L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
altrettanto certo che lo studioso ha compiuto un itinerario scientifico di eccezionale e privilegiato rilievo: «Dialettica della natura e Materialismo ed empiriocriticismo, inseriti come sono nella serrata analisi dell’epistemologia contemporanea condotta da Geymonat per tutta la vita – dai Saggi per un nuovo razionalismo fino agli ultimi interventi in polemica coi suoi allievi / antagonisti – sono una frontiera conquistata da un materialista critico contro una epistemologia contemporanea che convive e, talvolta, «bestialmente gavazza» (diciamolo con Gadda) con fideismi di varia estrazione, da un canto, e con raffinate operazioni mistificatorie, dall’altro. Un materialista che, guarda caso, si forma filosofo e matematico, nella Torino di Annibale Pastore, Peano, Juvalta e Martinetti; matura gradualmente come epistemologo sulla critica del positivismo e del neopositivismo logico, praticando una faticata storiografia filosofica (con particolare attenzione a Galileo, dalla monografia del 1956 fino ai seminari di Nizza dell’80), che lo porta fino a Marx, ad Engels, a Lenin, da pensatore ormai maturo, senza essere mai passato da Spaventa, da Labriola o da Gramsci, tanto meno da Gentile, da Croce o da Bergson, secondo il cursus honorum di più paludati maîtres à penser della nostra generazione» (GIROLAMO DE LIGUORI, Geymonat e il materialismo «verso il basso», cit., p. 498). 69 Cfr. FRANCO FORTINI, Il passaggio della gioia, in ID., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca SERIANNI e uno scritto di Rossana ROSSANDA, Milano, Mondadori, 2003, pp. 276-280; le citazioni alle pp. 276-279, con tagli. 70 Ci si riferisce ad ANTONIO LA PENNA, Orazio e l’ideologia del principato, Torino, Einaudi («Saggi», 332), 1963. La recensione di Timpanaro appare in «Critica storica», III (1964), pp. 791-796; valga, per la prima affermazione, enunciata con appena un anno di anticipo sul volume, del preciso nesso terminologico classicismo-illuminismo, il brano finale della recensione a La Penna: «Il classicismo dell’età augustea salvò, accanto alla raffinatezza stilistica, quella che era la più importante conquista dei neoteroi: la capacità di esprimere l’individualità passionale, ma seppe depurarla da morbosità e sottigliezze (pp. 166-170); dette, con la dottrina del miscere utile dulci, una spinta verso il realismo (pp. 170-175); non rovesciò la tendenza antiscientifica, antiepicurea, che si era ormai affermata nella cultura greco-latina, e tuttavia, riaffermando l’ideale aristotelico di un’arte equilibrata e razionale, costituì un argine contro concezioni irrazionalistiche della poesia (pp. 175-178). Tutte queste considerazioni – e altre non meno interessanti che siamo costretti a tralasciare – non solo permettono di valutare molto meglio di quanto si sia fatto finora il classicismo augusteo, ma contribuiscono anche a spiegare la funzione progressista che il classicismo ha avuto in molti momenti della storia della cultura europea, e specialmente quel nesso tra classicismo e illuminismo che appare con particolare evidenza nella letteratura del Settecento e del primo Ottocento, e che è stato oggetto di interesse e di discussioni in questi ultimi anni (vedi a questo proposito anche le appendici del libro del La Penna, p. 231 sgg.). Perfino il cànone dell’imitazione dei classici, accanto agli influssi negativi che ognuno conosce, ha avuto talvolta una sua fecondità in quanto è stato interpretato, per esempio dal Leopardi, come una forma di «ritorno alla natura» (p. 181 sgg.). Tuttora, l’esigenza dell’unità della cultura contro il settorialismo tecnicistico e contro nuove forme d’irrazionalismo ha, storicamente, un suo debito con la tradizione di quel classicismo che trovò la sua prima espressione compiuta nell’età augustea. / Credo che questo resoconto, necessariamente sommario, possa almeno dare una prima idea del valore e della ricchezza di un libro che non si rivolge solo agli studiosi dell’antichità, ma anche a italianisti (specialmente per le pagine su Parini e Carducci), a francesisti (vedi l’appendice su Agrippa d’Aubigné, p. 229 sg.), a uomini di cultura militante». 71 VINCENZO DI BENEDETTO, La filologia di Sebastiano Timpanaro, cit., p. 76. 72 Ivi, pp. 76-77. 73 Ivi, 77. 74 Engels, materialismo, «libero arbitrio», in Sul materialismo, cit., III edizione, p. 80 n. 29. 75 Su Giordani si cfr. anche NICOLA MASTRANTUONO, Classicismo innovatore e Pietro Giordani, Napoli, Loffredo, 1974; Carteggio Giordani-Vieusseux 1825-1847, a cura di Laura MELOSI, Presentazione di Giorgio LUTI, Firenze, Olschki (Accademia toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria», «Studi», n. 107), 1997; il capitolo su Pietro Giordani, come quelli su Giacomo Leopardi e su Ugo Foscolo, di ELISABETTA BENUCCI, in La Crusca nell’Ottocento, a cura della stessa Elisabetta BENUCCI, di Andrea DARDI, di Massimo FANFANI, Firenze, Società Editrice Fiorentina – Università degli Studi di Firenze. Dipartimento di Italianistica («Cataloghi», n. 4), pp. 47-88. 76 LEV TROČKIJ (LEJBA DAVIDOVIČ BRONŠTEIN), Storia della rivoluzione russa (History of Russian Revolution, Histoire de la révolution russe – Paris, 1950), 2 voll., Milano, Mondadori (I edizione Sugar Editore: 1969), 1969, II, p. 1174.
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
II. Leopardi protagonista nella nuova edizione di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano è stato un libro, ma non un “oggetto”-libro; è stato un nucleo (e sia pure grande nucleo) trasversale e aggiornabile della saggistica timpanariana d’argomento ottocentesco, sul piano della concezione ideologica, linguistica, letteraria: non ha sofferto di “tagli”, bensì di tagli postumi. Ha sofferto, insomma, dell’impossibilità, da parte di quei saggi e di quei contributi che hanno in séguito precisato ed integrato i nativi capitoli riunitisi in volume nella seconda metà degli anni ’60 (dopo la prima edizione del 1965), d’accedere alla coabitazione e alla convivenza editoriali, e quindi alla concettuale contiguità con i saggi di precedente stesura, ai quali molta della seriore scrittura timpanariana, soprattutto, com’è ovvio, quella d’impronta ottocentistica, italianistica, leopardistica, manifestamente si richiama, in un legame e secondo un criterio di pertinenza, o almeno d’attinenza, tutt’altro che blandi ed allentati, ma anzi, e in modo reiteratamente probatorio e dimostrabile, identificativi dello stesso tema, della coincidenza con lo stesso oggetto culturale, e insieme offerti ai lettori alla luce d’ulteriori acquisizioni realizzate nel tempo dall’autore. Dopo la seconda edizione aggiornata ed ampliata del 1969, l’opera, non più modificata, ha in realtà potuto fruire soltanto di ristampe, tanto che le revisioni, le correzioni, i parziali aggiustamenti e le rettifiche nel giudizio e nel “tiro” della visione critica, che sono intervenuti nel frattempo, hanno avuto in sorte, nella forma e nelle sostanza, di rimanere estranei al rettangolo di pagina Nistri-Lischi del 1969, a quel libro che, dalla sua prima uscita, ha rappresentato un importante e originalmente peculiare punto di riferimento per gli studi leopardiani e per il recupero del pensiero illuministico e della linea di riflessione e d’espressione del classicismo italiano, e per un’angolazione davvero laico-materialistica nella definizione ideologica delle dottrine della sinistra marxiana. Se ogni libro ha una sua storia, questo è un libro che non può essere dimensionato nei limiti e nella centimetratura della propria res extensa di prima uscita, d’una pur nobile brossura cartonata, storicamente oggettuale e materialmente identificata una volta per tutte in un singolo, unico, irripetibile hic et nunc cronologico. E il concetto che di sé esso suggerisce è quello d’un laboratorio in continuo aggiornamento, come il tavolo e come la figura stessa del suo autore, se è vero che Timpanaro in persona ha convalidato di sé l’idea d’avere scritto saggi minori in una produzione che per parte sua non comprenderebbe saggi maggiori; a fortiori, nell’elettivo àmbito della filologia classica, potrebbe sorprendere che non si sia mai confezionata a nome di Timpanaro, dell’autore d’un testo che ancora non finisce di sorprendere come La
genesi del metodo del Lachmann, un’edizione critica come tradizione intende (il progetto, dilatato a tempo biografico, d’un’edizione di Ennio, ipotizzato fin dai tardi anni Quaranta sulla scia delle sollecitazioni seminariali pasqualiane, non si realizza e non può realizzarsi, data l’estrema cautela e altresì l’estrema ritrosia dello studioso a una diretta esposizione sul piano della dichiarata edizione critica). Oserei dire che questa è una fortuna per l’autore e per noi, dato che la serie di apporti filologici e critici, storici e metrici, che l’acribia di Timpanaro ha recato nel tempo, lungo tutto l’arco della sua carriera di studioso, alla testualità e all’interpretazione di passi, di centrali snodi di concetto, di addipanate situazioni di difficoltà documentaria e ideologica nello studio dei testi dell’antichità greca e latina, ha a nostro avviso grandemente profittato di questa specifica modestia programmatica e “soggettiva” che, così diremo, è e si risolve in valentia oggettiva nel perlustratore d’opere letterarie e di scolii esegetici. Latita, nel suo curriculum d’eccezione, l’edizione critica una e autosufficiente, con eponima copertina di protocollare e istituzionale richiamo al “genere” scientifico: ma vi è, in compenso, e in linea di leopardiana tradizione (Leopardi nella sua prevalente connotazione di filologo, non solo giovanile, è conquista critica eminentemente timpanariana), una nutritissima serie d’adversaria, d’annotazioni puntuali, precise, di motivate ripartenze contro assetti linguistici non persuasivi (si tratta spesso d’adversaria di sontuosa consistenza qualitativa, oltre che quantitativa), volte appunto all’emendazione testuale, alla concretezza del luogo critico e alla fondatezza della congettura. Proprio in questa tipologia d’intervento filologico, a preferenza che in altre, s’esprimono massimamente la competenza e la capacità di Timpanaro. Non penso che oggi avremmo ereditato certi severi gioielli di profondità, di specillarità ecdotica implacabilmente pertinace e razionalista, se la curva di destino (espressione cara a Giacomo Debenedetti) dell’attività filologica timpanariana fosse risultata convessa sul pretto opus confectum di compiuta definizione testuale e editoriale: ipotetico esempio, Ennio, o Virgilio, edizione critica proposta come definitiva nel tale anno, sulla base dei dati documentari e codicologici a quella data disponibili. È, questa, una notevole differenza (fra tante predominanti affinità) che separa la ratio filologica timpanariana da quella dell’altrettanto pasqualiano Lanfranco Caretti, per molti anni direttore della benemerita collana dei «Saggi di varia umanità» di Nistri-Lischi (sede di pubblicazione ’65 e ’69 del volume), e come Timpanaro operante nell’àmbito della cultura fiorentina. Un laboratorio ininterrotto di studi testuali e di focalizzazioni contestuali, per sua natura dinamico e instancabilmente flessibile, com’era il costume umano e colloquiale di Timpanaro, un’officina d’indagini e di ricerca in fieri vissuta non quale fattore di contraddizione o d’interna incoerenza, ma come genesi di vera e propria congruenza e rigore di pensiero: questa la caratterizzazione qualificante dell’“edizione” timpanariana, non solo di Classicismo e illuminismo, ma anche, a ben vedere, di tutte le altre sue opere. Ed è esattamente per questo motivo che risulta quasi impossibile concepire un volume di Timpanaro in unica edizione: dal citato La genesi del metodo del Lachmann a La filologia di Giacomo Leopardi, da Sul materialismo ad Il lapsus freudiano, alla stessa, incompiuta ventura della volontà di rieditare Classicismo e illuminismo, non vi è testo che non abbia incontrato una revisione almeno uffi
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ciosa (e non è poco dire), spesso importante e non esigua, fino alla possibilità d’un autentico rinnovamento, ovvero d’una ripresa ampliata e modificata (talora persino una smentita) dei precedenti approdi di riflessione. Chiariamo ulteriormente il concetto di «tagli postumi». Le ristampe successive alla seconda edizione (1973, 1977, 1984, 1988), si è detto, sono realmente e solo ristampe, in un procedimento “anastatico interno” alle originarie strutture editoriali; né lo studioso manca di segnalarlo nelle note alle stesse singole ristampe, l’unica sede nella quale egli può dare indicazioni nuove; nel 1977 (p. XXXVI) l’autore usa, due volte nello spazio di due righe, l’espressione «senza mutamenti», rifiutando per assoluta insufficienza allo scopo le «aggiunte e modifiche» e la «bibliografia ragionata», modo d’aggiornamento già utilizzato nel passaggio prima-seconda edizione; ma nella stessa nota il «punto di vista» enunciato in Classicismo e illuminismo inizia a tracimare (in chiave di “difesa”, di “sviluppo”, di “correzione”) da un lato, a livello ideologico-politico in attualizzante “presa diretta” sulla realtà del pieno decennio 1970, nei numeri belfagoriani che conducono ad Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, e, dall’altro lato, in nuove realtà-libro, in oggetti brossurati forzatamente diversi dal sinolo-matrice (e loro origine), attivate e per certi aspetti quasi riesumate dal medesimo fermento intellettuale ispiratore di quella raccolta del 1965 che rimette in moto anche contributi e stadi di riflessione del prossimo passato, un “passato” che in verità già c’era, e insisteva urgente fin dal criterio che aveva presieduto alla fortunata prima silloge Nistri-Lischi: «altri saggi, vecchi e nuovi, riguardanti in parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti trattati o accennati in questo libro usciranno l’anno prossimo in un volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-polemici a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) {nella «Prefazione alla seconda edizione» – N. d. c.} sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul materialismo, pubblicato anch’esso in questa collana (seconda edizione riveduta e ampliata, 1975)». Com’è qui ben visibile, si delineano, quasi direi inevitabilmente, le tre fondamentali direttive dell’ottocentistica timpanariana posteriore non tanto a Classicismo e illuminismo, bensì all’uscita editoriale del volume: la direttiva di Antileopardiani, il volume uscito dalle Ets di Pisa, certo ben lontano dalla sigla in prevalenza pamphlettaria che qua e là è parso attribuirgli, ma indubbiamente attestato su un battagliero movimento di pedine ideali esposte al vivo confronto critico con la contemporaneità d’allora, con la prospettiva che si chiamò del «compromesso storico», con il manzonismo come ipotesi d’unione di progressismo laico e di progressismo cattolico, con l’adesione all’acceso dibattito interno a una sinistra divisa, con i “chiarimenti” avvertiti necessari sul concetto di aristocraticismo del Giordani e sulla figura, oggi più studiata, di Carlo Bini; in secondo luogo, gli «altri saggi, vecchi e nuovi» (quindi anche antecedenti allo stesso Classicismo e illuminismo come libro del ’65) tracciano un ampio ma non impreciso e non vago perimetro di studi comprendente i contributi che si dovranno incanalare in Aspetti e figure della cultura ottocentesca (volume che uscirà, però, solo nel 1980); in terzo luogo, gli «scritti teorico-polemici» improntati alla riflessione sulle peculiari valenze filosofiche del materialismo s’indirizzano al volume che allo stesso II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
materialismo s’intitola. Non appare illecito individuare negli «altri saggi, vecchi e nuovi» l’area di più appropriata e di più ravvicinata pertinenza agli studi specificamente letterari (indagini giordaniane, esplorazioni leopardiane, analisi da varie e mirate angolazioni del rapporto fra classicismo e romanticismo, affondi di genere biografico-culturale su personalità che hanno rivestito un ruolo nel classicismo italiano). Insieme agli studi su Lucano, su Cassi, su Foscolo, su Giordani, che appartengono agli anni ’70, vi sono in Aspetti e figure i contributi sul Mai (che risale al 1956), la recensione al Treves de Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento e all’epistolario del Di Breme, il saggio su Gomperz, che risalgono agli anni ’60. Per parte loro, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (uscito nel «Giornale storico della letteratura italiana», 1966) e le Note leopardiane (inedite nell’ ’80, tranne la terza, che risaliva al ’61) formano quel focus di leopardistica professa che è qui sembrato doveroso riprodurre, riallineato alla cronologia compositiva degli altri capitoli a ricostituzione del nucleo di studi sul Recanatese nella saggistica letteraria di Timpanaro: nella saggistica, per intendersi, di timbro non tout court filologico (com’è eponimo caso, appunto, de La filologia di Giacomo Leopardi e degli Scritti filologici curati nel ’69 per Le Monnier) e, insieme, non scopertamente cifrata sullo specificum ideologico o filosofico. La successione di capitoli che forma la presente edizione annovera Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani e Note leopardiane al quinto ed al settimo posto (i primi quattro capitoli sono sempre quelli dell’edizione ’65, compreso Il Leopardi e i filosofi antichi, contributo uscito nel 1965, per la prima volta, proprio in Classicismo e illuminismo). Il VI capitolo è costituito da Natura, déi e fato nel Leopardi, Addendum del 1969 insieme alle Postille e aggiunte bibliografiche. Il riallineamento nell’indice “curricolare” di Natura, déi e fato si è posto come obbligatorio, oltre ad essersi reso particolarmente necessario grazie alla singolare importanza del capitolo nella connessione tra la prima e la seconda edizione di Classicismo e illuminismo (si tratta dell’aggiunta più compiuta e corposa fra il ’65 ed il ’69), nella precisazione fortemente limitativa della presenza di Rousseau anche nel primo Leopardi (il «ritorno alla natura» perderà definitivamente il riferimento a Jean-Jacques), nella serrata e in certi punti perfino lessicale corrispondenza con la “copertina” (e quindi con il succinto accesso concettuale al libro, scritto dallo stesso autore) nell’enunciazione della difesa della tradizione classicista dalle critiche e dalle imputazioni etico-estetiche dei romantici (per un esame più ravvicinato della funzione dell’Addendum del ’69 rimandiamo alle Annotazioni autografe, in specie alle annotazioni al risvolto di sovraccoperta). Natura, dèi e fato nel Leopardi è, in un’opera in cui tutti i saggi appaiono avere la medesima rilevanza, il capitolo chiave dell’architettura del volume, la giuntura strutturale che salda la prima redazione a quelli che sarebbero stati, nell’autore, gli incrementi e le evoluzioni della leopardistica e degli studi sul laicismo materialistico e sull’antiprovvidenzialismo: studi che, se fosse stato possibile, sarebbero dovuti entrare in una nuova versione del libro. Del resto, l’autore si esprime chiaramente fin dal primo capoverso di quello che è qui il sesto capitolo:
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Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della natura nemica dell’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più delicati nello studio dello svolgimento del pensiero leopardiano. Ciò che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp. 153-159) {nel capitolo III, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», «Cl. ill.» 1969 – N. d. c.} rimane, credo, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcune precisazioni e correzioni.
Soprattutto le «correzioni» legittimerebbero, se s’intendesse estremizzare il processo di focalizzazione editoriale dell’opera di Timpanaro, addirittura un accorpamento paragrafato di Natura, dèi e fato ad Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi; qui prevale, beninteso, il rispetto della concezione ispirativa e scrittoria autonoma del capitolo aggiunto, che viene, come si è detto, semplicemente incorporato nell’indice; ma valga questa potenziale indicazione di tendenzialità nel recupero d’un reticolato di studi coeso, collegato e organico, tanto più nelle integrazioni e precisazioni, nelle modifiche e nelle sconfessioni (pur rare, queste ultime) che diacronicamente emergono nell’itinerario d’uno dei più grandi studiosi italiani del Novecento (a esempio di sconfessione, si può ricordare il riscatto filosofico-civile della figura di Cicerone, al quale, in Il Leopardi e i filosofi antichi, è attribuito un «superficiale stoicismo», espressione poi direttamente smentita in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, e più ancora smentita, al di fuori di Classicismo e illuminismo, negli studi ciceroniani che si convogliano nell’edizione garzantiana del De divinatione). Sorte analoga incontrano le Postille e aggiunte bibliografiche, secondo Addendum del ’69, qui incorporate in calce al testo, ciascuna accostata con richiamo al passo al quale si riferisce e per il quale è stata concepita; anche questo Addendum, insomma, viene completamente sottratto alla destinazione di fine testo, ed è invece scisso e fatto rifluire, come si è accennato, in contiguità con i luoghi, con i passaggi, con le singole parole del testo stesso o delle note piè pagina che Timpanaro aveva ritenuto provvedere d’un’ulteriore spiegazione o d’un aggiornamento. La lettura e la fruizione culturale di Classicismo e illuminismo risulteranno, a nostro avviso, avvantaggiate e nel contempo facilitate dalla materiale attiguità del testo ’65 con le integrazioni ’69; ne risulta eliminato, infatti, l’obbligo, per il lettore, d’un doppio scorrimento di pagine: quelle del testo, e, contemporaneamente, a fine volume, quelle dell’Addendum, ogni volta che l’autore ha effettuato un’integrazione. Si aggiunga il fatto che nell’edizione del 1969 le postille non erano segnalate, nel testo, da alcun rinvio, ed il lettore era dunque costretto a tenere continuamente presente il gruppo di pagine degli Addenda in fondo al volume per attendere la pagina postillata, o a procedere ad una lettura successiva e separata delle aggiunte, con faticoso ritorno ai passi del testo ed alla ratio contestuale cui le postille s’intendevano correlate. In questa edizione, come sinteticamente riepilogheremo più sotto, la postilla è segnalata, con ripresa al piede di pagina, da singolo asterisco. In una rinnovata situazione di contiguità dei saggi qui raccolti, la lettura del libro gode concettualmente d’un percorso d’evoluzione e di modifica, e fruisce, direi, di un’entità nuova come opera in sé, non nel senso d’un reale cambiamento che da II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
qui si possa ricavare nel giudizio critico sull’autore, ma nel senso d’un rinforzo e d’un incremento, che ben si potrà constatare, dell’oggettiva ossatura leopardiana degli studi ottocentistici di Timpanaro, e, altresì, d’un incremento di chiarificazione (e di sostegno) della visione filosofica e generalmente culturale della linguistica e del classicismo che, dopo gli studi sul Cattaneo e sull’Ascoli (con una ripresa cattaneana nell’Appendice I), comprende i contributi sul Gomperz (qui undicesimo capitolo) e l’Appendice II, costituita dal citato Treves degli studi di antichità classica (Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano, dapprima in «Critica storica», II, 1963, pp. 603-611, poi in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, pp. 371-386; «ivi», III, pp. 1-31, la prima uscita del saggio intitolato a Theodor Gomperz, poi in Aspetti e figure, pp. 387-443). Si tratta, com’è evidente in quest’ultimo caso, di due contributi antecedenti all’opera che qui si presenta, e per di più di uscita quasi contemporanea nella stessa rivista. Sono gli anni decisivi per la nascita di Classicismo e illuminismo, e questi due saggi appartengono più che mai alla sua genesi culturale e cronologica, ma soprattutto appartengono agli argomenti e alle tematiche propri e pertinenti al valore ed alla risonanza degli studi classici nell’Ottocento, e (nel caso della recensione al Treves) all’esistenza ed al confronto polemico tra la corrente storiografica del classicismo e quella della storiografia romantico-neoguelfa, ed altresì all’importanza, alla centralità ed alla propulsività della figura di Foscolo e di quella di Leopardi: l’eccesso di simpatia foscoliana e di centralità nella considerazione che si ha dell’autore, secondo Timpanaro, caratterizzerebbe la ricostruzione del Treves, mentre il contributo foscoliano in Aspetti e figure (Sul Foscolo filologo) mostra a sua volta a noi lettori la posizione timpanariana, complessivamente critica riguardo a molte componenti della personalità del poeta di Zante. Soffermandosi un momento sull’Appendice II, basti ricordarne due brani per rintracciare sùbito gli stretti legami con i tragitti tematici di fondo di Classicismo e illuminismo: Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici, e gli stessi partiti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigida struttura di quelli odierni; ma tale fluidità non dev’essere esagerata a proprio piacimento dallo storico, fino a trasformare i classicisti in romantici, i giacobini in neoguelfi. / Una volta ristabilite queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: Monti, Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si ricollega l’Ascoli (la cui impostazione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso Comparetti poté, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su questo punto il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nella propensione alle generalizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa
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l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi greco-latini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro e Lucrezio, che in Italia trovò espressione in Gaetano Trezza e, con maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendido commento a Lucrezio di Carlo Giussani. La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelligentsia europea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo ampliamento subisce per opera sua il neoguelfismo […].
Nella prefazione ad Aspetti e figure (pp. X-XI), che accoglie in volume la recensione al Treves, Timpanaro spiega le ragioni della nuova pubblicazione del contributo, fortemente legate, ancora una volta, all’impatto-ricezione, anche presso il pubblico più cólto, di Classicismo e illuminismo: Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a Classicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da «equazioni» così rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario, un’esigenza di ‘distinguere’ le varie posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenendomi lontano sia da caratterizzazioni «epocali» che tutto abbracciano e nulla stringono […], sia da concezioni storiografiche esasperatamente individualizzanti e altrettanto astratte […]. La lettura della recensione all’opera di Piero Treves, ripubblicata nel presente volume (p. 371 sgg.) {«Aspetti e figure»} ma anteriore a Classicismo e illuminismo, dovrebbe far comprendere ancor meglio perché io abbia sentito questa esigenza.
La necessità di “chiarimento”, fortemente avvertita dall’autore e adempiuta da questo “pezzo” su classicismo e neoguelfismo, induce a collocare la stessa recensione nel luogo distinto, e perspicuamente separato, dell’Appendice. Ritorneremo fra poco su quella che, a sua volta, è la particolare importanza dello studio su Theodor Gomperz, con il quale si conclude la successione dei veri e propri capitoli di questa edizione; seguiranno, appunto, le appendici. Il concetto principale che qui ci sembra acquisito è quello rappresentato dal “canone aperto” che è necessario per uno studio e un’edizione di questo volume centrale nell’opera timpanariana; Classicismo e illuminismo è un’opera che non è II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
solo se stessa, ma è un incrocio di motivazioni e di sollecitazioni interculturali e interdisciplinari (non banalmente “pluridisciplinari”), pur mantenute fra loro insieme dalla rigorosa dottrina dello studioso-autore. In un’opera che è anche altre opere, non v’è meraviglia se i semi degli interessi culturali, letterari, linguistici, s’irradiano in varie direzioni, s’insediano in altri libri quasi apposta nati e creati per costituire non un’appendice, o una prosecuzione di Classicismo e illuminismo, ma Classicismo e illuminismo stesso, in questo senso ineluttabilmente suddiviso e scaglionato, nel tempo, in vari tomi, a scansione scientifica d’una ricerca multiforme ma nient’affatto dispersiva, ed anzi metodologicamente coerentissima. Su questo punto determinante ci permettiamo ancora rinviare alle Annotazioni autografe, alla quinta annotazione al sesto capitolo, nella quale, con il conforto del necessario e immediato e, confidiamo, persuasivo rincalzo testuale (sia del testo a stampa, sia del testo inedito a mano) si affronta in modo più partito e analitico il problema del canone aperto e della non unicità di questo volume, capace di rappresentare e veicolare una molteplicità di componenti degli interessi dello studioso (un caso simile potrebbero essere, ma è solo esempio, i due volumi di Poeti e filosofi di Grecia di Manara Valgimigli). Qui, a testo d’autore non ancora aperto o iniziato, ci è sufficiente riprendere il cenno sul valore di passaggio, quasi di varco di Natura, dèi e fato sul “futuro” di Classicismo e illuminismo. In un’annotazione al saggio, presente in una copia del 1984 della seconda edizione, si trovano allineati, in ragionata serialità, innanzi tutto Aspetti e figure, libro assolutamente non disgiunto da Classicismo e illuminismo, quindi i nomi di Carlo Dionisotti, in evidente relazione con il saggio Il Giordani e la questione della lingua (presente appunto in Aspetti e figure), di Maurizio Vitale (di cui nel capitolo giordaniano si ricordano gli interessi e la personale, già allora ricca bibliografia sul padre Cesari), di Francesco Tateo, ricordato nei Nuovi studi sul nostro Ottocento del 1994 per un saggio antoniocesariano, lo stesso articolo timpanariano sul Cesari nel Dizionario biografico degli italiani (1980), poi incluso nei citati Nuovi studi, la figura del barone danese Herman Schubart, ricordato ancora nei Nuovi studi sulla scorta d’un saggio di Maria Augusta Morelli. L’annotazione manoscritta crea un collegamento delle pagine de Il Giordani e la questione della lingua in Aspetti e figure alle pagine dei Nuovi studi; e i riferimenti s’infittiscono, dato che la prima uscita dell’articolo sul Cesari è coeva, nel 1980, alla nuova uscita dell’articolo su Giordani (dal 1974 ad Aspetti e figure); tutto il trend cronologico mira, o comunque ha la propria naturale meta nei Nuovi studi del 1994, che iniziano esattamente con il contributo sul Cesari ed annoverano la citazione del barone di Schubart come amico e non astratto sostenitore dell’abate linguista; il contributo antoniocesariano nei Nuovi studi, inoltre, termina con i nomi di Vitale, di Dionisotti, di Tateo, oltre a quelli di Tissoni e dello stesso Timpanaro: Vitale, Dionisotti e Tateo sono i nomi della citata annotazione manoscritta. Poco sotto, nella copia del 1984, la citazione a mano di Claudio Marazzini (come meglio si vedrà nelle Annotazioni) appare rivolta senza ambiguità ai Nuovi studi usciti da NistriLischi, in particolare ad una nota sul De Amicis linguista che si riferirà anche a L’oro nella lingua di Maurizio Vitale, a Vincenzo Monti, a Graziadio Isaia Ascoli, allo stesso abate Cesari. Si tratta, quindi, di un’indubitabile correlazione di nomi e di
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elementi culturali, di “compagni bibliografici” che confermano e che dimostrano il concetto di reticolato unitario di ricerca e d’indagine in tutta la saggistica nistrilischiana di Timpanaro. Molti contributi, e molti nuclei bibliografici tutt’altro che informi, che hanno fatto ufficialmente parte di Aspetti e figure o che faranno parte dei Nuovi studi, si trovano già annotati in Classicismo e illuminismo, a riprova della loro concorde cittadinanza scientifica e qualitativa e della loro mutua corrispondenza cronologica. Esempio fra tanti possibili, come si vedrà, il “filo rosso” costituito dall’interesse per il purismo leopardiano, dal citato Natura, dèi e fato allo studio su Cesari, ampliato, quest’ultimo, rispetto alla primitiva “voce” di dizionario dell’’80, ma parzialmente anticipato in Il Giordani e la questione della lingua. Certe annotazioni, si può dire, sono già in sé componenti costitutive di questa edizione di Classicismo e illuminismo, ed entrano legittimamente a formarne la realtà di libro. Il concetto di canone aperto va dunque sostenuto come il più proponibile per un’edizione come questa. Ed è un canone aperto che si applica correttamente alla saggistica più disponibile all’incrocio dell’accertamento filologico e della ricostruzione storica (non storicistica), della dimensione analitico-testuale (si vedano i due contributi leopardiani qui immessi da Aspetti e figure – capitoli quinto e settimo –, come anche l’ottavo capitolo, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, immesso dai Nuovi studi) e della scelta critica fondata, ma anche esposta alla responsabilità del dichiarato giudizio interpretativo. Ben più difficile, a nostro parere, sarebbe l’applicazione del canone editorialmente aperto ai lavori d’istituzionale protocollo filologico (che ammettono piuttosto la riedizione modificata, ampliata, riveduta di se stessi, della propria realtà scientifica); e difficile sarebbe anche l’applicazione di tale criterio agli articoli belfagoriani confluiti, insieme ad altri contributi, in un volume programmaticamente diverso da quelli della saggistica Nistri-Lischi, com’è il caso di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; né si potrebbe, a meno d’un passo di violazione delle demarcazioni disciplinari, alterare, se non dal suo interno – come avviene nelle vere e proprie riedizioni d’una singola entità-libro –, il volume Sul materialismo, anch’esso nistri-lischiano, anch’esso significativamente pisano nella sua uscita editoriale, ma non certo a caso concepito come distillata astrazione d’alcuni lieviti «teorico-polemici» sottesi a Classicismo e illuminismo, che reclamavano espressione in sede scientifica e ideologica in tal senso miratamente deputata. Sul materialismo, peraltro, ha già goduto nel 1997 d’una sua terza edizione riveduta e ampliata (Milano, Unicopli), con nuova prefazione, e (oltre alla versione spagnola 1973 della prima edizione) di tre edizioni inglesi (London, Verso, 1975, 1980 e 1996); ed è quindi volume che, organicissimo alla ricerca di Timpanaro, naviga però secondo rotte editoriali autonome (e non per questo indipendenti dagli altri studi dell’autore). Vi è un periodo (non si dice una data precisa) nel quale “nasce” la riflessione, nel quale insomma prendono forma lo spirito e la ratio culturale di Classicismo e illuminismo? Molto giustamente, Vincenzo Di Benedetto (La filologia di Sebastiano Timpanaro, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da Riccardo Di Donato, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 1-89, qui pp. 75-77) individua lo «snodo» decisivo che, già contenendone in sé i germi intellettuali, prelude II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
alla realizzazione del volume del 1965; nella recensione in «Critica storica», III (1964), pp. 791-796, al La Penna di Orazio e l’ideologia del principato (il ben noto, fondamentale volume sul poeta, ma anche sulla cultura letteraria e ideologica dell’età augustea, uscito nel 1963 – Torino, Einaudi [«Saggi», n. 332]), Timpanaro infatti esprime, appena un anno prima dall’uscita di Classicismo e illuminismo, quel nesso tra i due termini del suo titolo editoriale che, lontano dall’essere mero richiamo o anticipo lessicale, si qualifica piuttosto come una concreta prospettiva d’indagine che coniughi l’analisi del fenomeno letterario con l’analisi delle reali coordinate ideologiche, di singolo pensiero e di singola cultura, degli autori emblematici d’un certo periodo, o, per intendersi, d’una certa “corrente”, con i suoi caratteri estetici ed espressivi, ma anche con i suoi precisi valori semantici. Si legga la parte finale di quell’importante recensione: Il classicismo dell’età augustea salvò, accanto alla raffinatezza stilistica, quella che era la più importante conquista dei neoteroi: la capacità di esprimere l’individualità passionale, ma seppe depurarla da morbosità e sottigliezze (pp. 166-170); dette, con la dottrina del miscere utile dulci, una spinta verso il realismo (pp. 170-175); non rovesciò la tendenza antiscientifica, antiepicurea, che si era ormai affermata nella cultura greco-latina, e tuttavia, riaffermando l’ideale aristotelico di un’arte equilibrata e razionale, costituì un argine contro concezioni irrazionalistiche della poesia (pp. 175178). Tutte queste considerazioni – e altre non meno interessanti che siamo costretti a tralasciare – non solo permettono di valutare molto meglio di quanto si sia fatto finora il classicismo augusteo, ma contribuiscono anche a spiegare la funzione progressista che il classicismo ha avuto in molti momenti della storia della cultura europea, e specialmente quel nesso tra classicismo e illuminismo che appare con particolare evidenza nella letteratura del Settecento e del primo Ottocento, e che è stato oggetto di interesse e di discussioni in questi ultimi anni (vedi a questo proposito anche le appendici del libro del La Penna, p. 231 sgg.). Perfino il cànone dell’imitazione dei classici, accanto agli influssi negativi che ognuno conosce, ha avuto talvolta una sua fecondità in quanto è stato interpretato, per esempio dal Leopardi, come una forma di «ritorno alla natura» (p. 181 sgg.). Tuttora, l’esigenza dell’unità della cultura contro il settorialismo tecnicistico e contro nuove forme d’irrazionalismo ha, storicamente, un suo debito con la tradizione di quel classicismo che trovò la sua prima espressione compiuta nell’età augustea. / Credo che questo resoconto, necessariamente sommario, possa almeno dare una prima idea del valore e della ricchezza di un libro che non si rivolge solo agli studiosi dell’antichità, ma anche a italianisti (specialmente per le pagine su Parini e Carducci), a francesisti (vedi l’appendice su Agrippa d’Aubigné, p. 229 sg.), a uomini di cultura militante.
Non è questa la sede per discutere, com’è stato fatto (ad esempio, nel citato saggio di Vincenzo Di Benedetto), sulla persuasività o meno del concetto di classicismo progressista, sulla sua reale estensibilità agli ultimi decenni del Settecento ed ai primi decenni del successivo secolo, sulla proponibilità del nesso classicismo-illuminismo in un’epoca in cui tutti i letterati erano improntati da una formazione classicistica che non poteva in tal senso costituire qualificante segno di differenziazione rispetto ad altri scrittori. Basti cogliere, oltre alla conclamata occorrenza terminologica, i cenni
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al «realismo», al valore del barrage estetico aristotelico contro riemersioni irrazionalistiche antiche e moderne, all’equilibrata e consapevole difesa d’un cànone d’imitazione che nella decodifica leopardiana si ribalta in «ritorno alla natura». Sulla base di tali premesse, si può rammentare che in significativa simultaneità cronologica con l’uscita di Orazio e l’ideologia del principato, e con la recensione timpanariana nell’anno successivo, vengono pubblicati dal prossimo autore di Classicismo e illuminismo (oltre a La genesi del metodo del Lachmann, Firenze, Le Monnier, 1963, espressione in quegli anni della sua riflessione sulla metodologia filologica, e a un contributo su Vitelli) la citata recensione, del 1963, all’opera di Piero Treves uscita nel 1962, il saggio dedicato a Theodor Gomperz («Critica storica», III, 1963, pp. 1-31) ed un contributo quale Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi («ivi», III, 1964, pp. 397-431); nel 1961 era uscito da Sansoni Giordani, Carducci e Chiarini, presentazione della ristampa a cura dello stesso Chiarini degli Scritti giordaniani (pubblicati sempre da Sansoni nel 1890; diversa nella scelta e nella classificazione era l’edizione chiariniana di Livorno, Vigo, 1876; ristt.: ivi, 1884 e ancora Firenze, Sansoni, 1936); nel 1961-1962 (si noti l’insistere di quegli anni) era uscito Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli («Rivista storica italiana», LXXIII, 1961, pp. 739-771 e LXXIV, 1962, pp. 757802). E fin dalla prima Prefazione al volume si manifesta, da parte dell’autore, l’influenza esercitata sul suo lavoro dalle conversazioni avute con Luigi Blasucci, con lo stesso Antonio La Penna, con Mario Mirri, e dagli scritti di questi studiosi (di Mario Mirri si ricordi a questo proposito F. De Sanctis politico e storico dell’età moderna, Messina-Firenze, D’Anna, 1961), né si manca di citare (nota 51 dell’Introduzione) lo studioso che traccerà nel primo fascicolo 2001 della «Nuova Antologia» un acuto profilo, post mortem, di Timpanaro: il Sergio Landucci di Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1963. Sono, come si vede e si ricorda, anni fervidi di riflessione, d’elaborazione ideologica e culturale, e d’intensa produzione saggistica, anche in prospettiva degli sviluppi di ricerca che ciascuno di questi importanti studiosi intraprenderà o se già incominciati proseguirà in modo articolato e insieme coerente sulla base di quegli inizi. Una stagione di ragioni e di passioni profonde e non prive d’una complessiva e pur vigile fiducia, in quella temperie d’anni che si sarebbe in séguito dimostrata d’impossibile duplicazione. Una stagione pisana, o prevalentemente pisana, densa di contatti di studio e di rapporti umani; la sorte editoriale di Classicismo e illuminismo, nato in quegli anni, corrisponde in forma del tutto giusta a questa origine culturale, all’orbita cittadina e insieme intellettualmente e geograficamente cosmopolitica dell’Università e della Scuola Normale. Né meno giusta è l’espressione di gratitudine, ma anche di deferente amicizia, tributata da Timpanaro a Lanfranco Caretti, che dopo L’introduzione allo studio di Dante di Francesco Maggini, accoglie con coraggio e lungimiranza Classicismo e illuminismo come secondo dei «Saggi di varia umanità», la collana un tempo diretta da Francesco Flora. Più tardi, grande sarà il merito di Carlo Alberto Madrignani nell’accogliere (1982; rist.: 1985) Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana nelle pisane Ets, terzo volume della collana «Università», sezione «Letteratura italiana» diretta dallo stesso Madrignani. II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
L’importanza del concetto di classicismo studiato da La Penna è d’altronde confermata dal prosieguo delle indagini oraziane dello studioso; in Orazio e la morale mondana europea, introduzione a ORAZIO, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1993 (I ed.: ivi, 1968, a pochi anni di distanza da Orazio e l’ideologia del principato e quasi interposto fra le due edizioni di Classicismo e illuminismo) si sottolinea, ad esempio, il generale movimento antiscientista della cultura augustea (p. LXXXVIII: «l’epicureismo nell’età augustea perde sempre più l’ardore speculativo e la spinta ‘illuministica’ dell’epicureismo lucreziano e sempre più facilmente si adatta a credenze e a sentimenti tradizionali»); ma si ricorda anche (p. CXXXIII), ad articolazione e a ben più complessa analisi d’una generale immagine di decus letterario, attraversato, a ben guardare, da scie espressive problematiche e contraddittorie, la parzialità d’una visione composta e classicamente drappeggiata della letteratura latina post-arcaica, in realtà percorsa da una persistente e non rinunciataria componente, appunto, espressionistica, che per converso avvalora l’innovatività di Orazio («Se l’importanza di tale componente viene ristabilita, la classicità di Orazio apparirà più come l’eccezione che come la regola: in un certo senso Virgilio è meno eccezionale di Orazio. Se quell’opinione comune si è affermata, si deve in gran parte proprio al fatto che Orazio apre una via nuova, inaugura un’ esperienza stilistica fondamentale per la cultura europea»); e si ricorda soprattutto il paragone Orazio – Virgilio, il confronto fra la poesia “pittorico-disegnativa”, l’ut pictura poësis, precisa nei dettagli, tersamente perspicua nelle immagini, e la poesia aperta allo spazio infinito, allo sfumato, al vago, alla vibratilità musicale quanto più indistintamente arpeggiata tanto più fascinosa (pp. CXXXV-CXXXVI): proprio qui (p. CXXXVI, nota 1) si dice che «Questo carattere fondamentale dell’arte di Orazio [la ricerca del «cesello», della «pittura», del «disegno», del «volume»] sarà stato una delle cause dell’avversione del Leopardi, che lo qualifica di ‘basso ingegno’; si capisce, invece, come l’indefinito di Virgilio facesse sentire su di lui il suo fascino». E questo rilievo, giustissimo, procura più d’una difficoltà ad una visione timpanariana del rapporto identificativo di Leopardi con il classicismo; il notturno virgiliano, come quello omerico, è certo giocato da Leopardi in funzione antiromantica (i classici erano già capaci di quelle suggestioni letterarie): ma resta sempre da chiedersi, al lettore di Timpanaro, quanto realmente a Leopardi fosse dato di conoscere del romanticismo. E non può sfuggire che, fino ad Epicuro, Lucrezio e Leopardi compreso, Timpanaro non ha potuto a meno d’interrogarsi sulla scarsa presenza in Leopardi d’autori e filosofi come appunto Epicuro e Lucrezio, e di Orazio come corifeo-innovatore del classicismo, di autori che una lettura soltanto ideologica, e in gran parte fondata su esplicite dichiarazioni “referenziali”, dell’autocoscienza poetica leopardiana, autorizzerebbe a pensare prevalenti, e di frequente e dominante presenza. Avviene l’esatto contrario: la scommessa risulta perduta, con netta minorità del “classicista genetico” Orazio, del ricreatore dello spirito estetico aristotelico, dell’autore particolarmente amato nel Settecento razionalista, a tutto vantaggio dell’epicureismo “sentimentale” di Virgilio, e non in nome dell’epicureismo. La scelta di Leopardi ha innegabili elementi in comune con quella dei romantici; al fer
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
rato sostenitore del classicismo leopardiano rimane da dimostrare, con la nota, impareggiabile profondità di scandaglio filologico e ideologico, la serie, notevolissima, di differenze che separano Leopardi dal pensiero e dai testi di Epicuro e di Lucrezio (conosciuti, beninteso, ma non privilegiati rispetto ad altri scrittori), a spiegazione di come, chiamiamola ancora così, la scommessa previsionale non avesse base e vera ragion d’essere: l’epicureismo in Leopardi va studiato come “fenomeno” autonomo, non prevalente, segnato come anche altri riferimenti letterari da una sua storia. Semmai, ad attirare l’ammirazione di Leopardi è l’Orazio degli «ardiri», delle associazioni a distanza di sostantivi ed aggettivi, dei viaggi strofici a ritrovare le concordanze attraverso il materiale verbale interposto, serie di diamanti poetici che illumina partenza e arrivo, attributo e nome. Un Orazio di sospetta ricezione romantica (neanche il primo Ottocento ha in realtà messo in disparte Orazio), come ha ricordato, riconducendovi l’attenzione, il convegno recanatese intitolato Lingua e stile di Giacomo Leopardi (gli Atti sono usciti da Olschki nel 1994). Risulta, in ogni caso, molto perspicuo, nelle pagine di La Penna, il contributo (dato da Orazio alla futura civiltà europea) alla fondazione d’una morale laica, ad un’autàrkeia criticamente vissuta, ad una visione della natura d’essenziale impronta immanente, tutta interna ai suoi laici e secolari circuiti. Il dialogo tra La Penna e Timpanaro, insomma, questo intendiamo sottolineare, è continuato nel tempo. Il contributo su Gomperz è nato nel 1962 (e pubblicato nel 1963); grazie a questa collocazione “storica” nella produzione di Timpanaro, esso è contemporaneo ad Orazio e l’ideologia del principato, alla recensione all’Orazio lapenniano in «Critica storica» e alla recensione al Treves; e in tal senso è assolutamente coevo anche all’elaborazione dei citati saggi che compongono Classicismo e illuminismo: Giordani, Carducci e Chiarini, il Cattaneo, il saggio sul pensiero di Leopardi. È lì che nasce Classicismo e illuminismo, ovvero da quel giro di riviste in cui il saggio sullo storico austro-moravo s’inserisce, in totale identità di tempo e di spazio editoriale con gli altri lavori che approderanno alla silloge del ’65. Il Gomperz fa parte di Classicismo e illuminismo, della genesi elaborativa dell’oggetto-libro come inizia a prender corpo ed a configurarsi allora, e pertiene insomma a “quel” nucleo ispirativo, culturale e ideologico; né tale appartenenza e tale contiguità si pongono solamente sul piano cronologico, pur già in sé estremamente parlante. È, scriviamolo apertamente, la tematica, sono i contenuti, è la vivacissima semantica culturale del saggio, è il suo significato di rilancio storiografico-culturale e di dotta polemica nei riguardi di tutta un’impostazione tardo-ottocentesca e poi novecentesca, idealistica, antipositivistica, antiscientista, ad acquisire il contributo all’operazione culturale denominabile Classicismo e illuminismo, perché lì il contributo è già acclimatato. In massima sintesi, rammentiamo l’impostazione mentale di Gomperz, aperta alla considerazione della scienza ed all’assunzione dell’attualità, dove possibile, del pensiero greco, senza che per questo si legittimi un’accusa di scientismo; ma si ricordi soprattutto il sostegno, la valorizzazione culturale d’una visione laica, contraria alle concezioni metafisiche, che, pur fra contraddizioni e qualche inevitabile incongruenza, permea la sua opera di studioso del pensiero filosofico e storiografico greco (benché Timpanaro, in quello che è un II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
vero e proprio profilo, non si limiti certo all’opera più corposa e più nota, i Pensatori greci). Decisiva in questo senso la sua connotazione culturale di austro-moravo non affatto nutrito della sola cultura nazionale, o comunque germanofona o austro-ungarica, ma di studioso ebreo, laico nelle visioni filosofiche e cosmopolitico nel decodificare le sollecitazioni intellettuali, e personalmente propenso alla cultura inglese, in specie quella illuministica, in un periodo nel quale, pur con differenza di singole ricadute nazionali, prevale nella maggior parte dell’Europa la reazione nazionalistico-irrazionalista al materialismo positivistico. Studioso che si colloca in piena e insieme compassata e borghese controtendenza rispetto all’orientamento generale degli ultimi decenni ottocenteschi, il Gomperz è stato per precisa scelta storiografica accantonato, e apertamente svalutato, da Jaeger e dalla tradizione di studi classici che da lui è derivata, e in generale dalla filologia classica del Novecento e dalla visione storica che vi si è avuta dell’antichità; l’operazione, condotta, lo si ricordi, sempre sulla rivista «Critica storica», con un Gomperz stretto compagno sulla scrivania timpanariana (pur non italiano e nelle proprie peculiari competenze) del Leopardi, del Cattaneo, dell’Ascoli, non si limita affatto a rappresentare un recupero di figura ingiustamente dimenticata, o sottovalutata dalle nuove tendenze culturali della disciplina; tale operazione intende invece offrire, a chi vuole approfondire gli studi secondo criteri di qualità e di scelta ideologico-culturale e non di conformismo cronologico, una sorta di pregresso antidoto allo jaegerismo, una misura di prevenzione, si dica pure di vaccinazione antiidealistica, antispiritualistica, antiplatonica, e in buona parte antinovecentesca, come il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo lo è rispetto a quella che per l’autore di Sul materialismo è sempre stata l’involuzione psicologistica, mentalistica, metodologista del XX secolo. Gomperz è uno storico tutt’altro che chiuso al pensiero materialistico, uno studioso che non andava affatto liquidato, e le cui troppo rare ristampe vanno accolte con favore, e con disponibilità a recepirne più d’una sollecitazione correttiva delle filiazioni jaegeriane novecentesche. Dedicato a studioso non italiano, il saggio è entrato in séguito nel libro che annovera alcuni “profili” (Mai, Comparetti; ne rimasero fuori Ascoli, Pasquali e Terzaghi; ne esulò per poco il Cesari): Aspetti e figure della cultura ottocentesca. Ma già nella prefazione allo stesso volume dell’’80 (p. XI), Timpanaro, oltre a ribadire il legame inestricabile che unisce Aspetti e figure a Classicismo e illuminismo («i saggi che compongono il presente volume […] hanno, spero, pur nella varietà degli argomenti e del «taglio» ora più erudito ora più storico-culturale, una omogeneità di fondo, sia tra loro, sia rispetto ad altri miei precedenti libri, ad uno specialmente, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, apparso in questa stessa collana […]. Vorrei sperare che il nuovo libro contribuisse ad una più equa comprensione del libro vecchio […]»), supera con limpidezza, e significativamente senza sfoggio né bisogno d’enfasi argomentativa, il “problema” della non italianità del Gomperz, una figura che condivide come ed anche più di alcune delle presenze italiane del libro i valori veicolanti costituiti dall’illuminismo, dalla fiducia nella ragione, dalla tolleranza cosmopolitica, dall’antiidealismo:
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Nel titolo del libro mi sono riferito alla cultura ottocentesca, senza aggiungere italiana, perché, sebbene il più sia dedicato ad autori italiani, mi è accaduto spesso di sconfinare (nello scritto iniziale sul lucanismo, nella trattazione sui precursori di Angelo Mai), e l’ultimo saggio riguarda per intero un autore non italiano, Theodor Gomperz; ma mi è sembrato che questo storico del pensiero antico così ricco di fermenti illuministici (assorbiti dalla cultura inglese e trapiantati nell’Austria di fine Ottocento, per molti aspetti così diversa ideologicamente e culturalmente dalla Germania della stessa epoca) potesse rientrare nell’ambito del presente volume senza apparire come un «corpo estraneo». Anche il Gomperz, in un’Europa dominata – nel bene e nel male – dalla cultura tedesca per ciò che riguardava gli studi sull’antichità classica, fu un isolato, e ancor più isolata e disconosciuta è stata poi la sua opera nel clima idealistico novecentesco. Una rivalutazione, pur lontana da qualsiasi apologia, è a mio avviso necessaria.
A proposito del Gomperz di Timpanaro, si legga quanto, a caldo, all’uscita d’Aspetti e figure, scrive in fine d’articolo Ettore Paratore (Leopardi protagonista in un volume sulla cultura dell’Ottocento, in «Il tempo», Roma, XXXVII, 295, 4 novembre 1980, p. 3): Chiude inaspettatamente il libro un saggio sopra un grande studioso straniero che appare quindi un po’ fuori campo nel tessuto ideologico e storico del volume: Teodoro Gomperz. Chi scrive, parlando su queste colonne dell’edizione italiana del volume aristotelico della grande opera del Gomperz sui pensatori greci, aveva già espresso le sue perplessità sul punto di vista e sul metodo di quello che pure è stato uno dei più grandi storici della filosofia greca. Il Timpanaro invece non esita ad additarlo come lo storico e il pensatore che avrebbe meritato, ben più dello Zeller o di tanti altri, di costituire il punto focale dell’indagine sul pensiero greco; ciò naturalmente perché egli rappresenta la trasposizione del nascente positivismo entro l’ambito della valutazione della filosofia ellenica. A pagina 434 il Timpanaro lo celebra come colui al quale bisogna ritornare per riscattare la nostra cultura dal platonocentrismo cui l’avrebbero oggi condannata le posizioni dello Jaeger e di quasi tutti gli attuali indagatori della speculazione greca. / Quanto ho fatto osservare sui limiti che il Gomperz ha posti al suo ripensamento di una figura come quella di Aristotele, che poteva agevolmente servirgli da riscatto da tutte le configurazioni platonocentriche, e quanto tutti, a cominciare dallo stesso Timpanaro, non possono fare a meno di registrare con stupore sul fatto che proprio il Gomperz interruppe l’opera sua prima di occuparsi dell’epicureismo contribuisce a gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo con cui il Timpanaro considera la figura dello studioso tedesco. Ma ciò non toglie che questo capitolo finale, facendoci entrare in ambito di molto maggiore respiro […], conclude degnamente un’opera importante, per la sua qualità indagatrice, nell’ambito degli studi storico-letterari.
Si può aggiungere un accenno a Gomperz in Storicismo di Pasquali (nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali, a cura di Lanfranco Caretti, Pisa, Nistri-Lischi, 1972, p. 128 e n. 7), contributo che rielabora a fondo il profilo che Timpanaro aveva redatto nel 1969 per i Critici Marzorati; nel processo di parziale affrancamento (pur nel solco d’un magistero che sarà sempre riconosciuto) dal pensiero di Pasquali, lo studioso recupera la lezione della storiografia positivistica: II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
Questi giudizi {si tratta di concetti antipositivistici a più riprese espressi da Pasquali} colgono senza alcun dubbio alcuni aspetti negativi della mentalità positivistica, negli studi classici e altrove: non rendono pienamente giustizia, secondo me, alla storiografia dell’età positivistica, nella quale apparvero pure potenti opere di sintesi, tutt’altro che prive del concetto di valore, come i grandi capolavori del Mommsen, o il Virgilio nel Medio Evo del Comparetti, o i saggi di storia della religione antica dell’Usener, o i Pensatori greci del Gomperz, per limitarci a qualche esempio nel campo greco-latino.
Nella citata nota 7, relativa a questo passo, Timpanaro aggiunge: «Naturalmente Pasquali ammirava altamente questi grandi studiosi […]; su Comparetti e su Mommsen egli ha scritto pagine indimenticabili; forse soltanto il Gomperz, per quel che ricordo di ciò che talvolta ne disse, era da lui alquanto sottovalutato»; peraltro, poche pagine dopo (pp. 143-144), non manca l’affermazione della sostanziale indipendenza di Pasquali da Jaeger: «Di Jaeger in quanto filologo e storico della cultura, Pasquali fu amico e collaboratore; ma dal suo neo-umanesimo si è tenuto lontano […]. Tranne questo sporadico accenno {al valore paradigmatico, universale della cultura greca: cfr. «Medioevo bizantino», in «Stravaganze quarte e supreme»: Pagine stravaganti 2, a c. di Giovanni Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 340-371}, la sua estraneità al neo-umanesimo di Jaeger è totale, ed è dichiarata esplicitamente nell’ultimo libro, Storia dello spirito tedesco nelle memorie d’un contemporaneo (p. 123 sg.): qui Pasquali mette giustamente in rilievo la debolezza delle basi filosofiche del jaegerismo». Ritengo, sul fondamento di queste premesse, che lo storico del pensiero antico Gomperz, non italiano, austro-moravo non nazionalista ed anzi antirazzista di cultura illuministica inglese, ebreo nell’impero cattolico asburgico, materialista e positivista “critico” e classicista in lingua tedesca di pregressa valenza terapeutica antijaegeriana, possa non solamente “figurare” (o non soltanto «degnamente concludere» l’opera, secondo il concetto di Paratore), ma apertamente risiedere in un libro intitolato al classicismo e all’illuminismo italiani, per evidenza di comuni tratti di pensiero con alcune delle figure più importanti e con molti fondamentali percorsi tematici, culturali e linguistico-letterari affrontati nel volume, idealmente saldandosi, anche nella contiguità di capitolo (X-XI), al suo grande correligionario goriziano Graziadio Isaia Ascoli, intellettuale diverso, sì, ma da lui non dissimile nell’attivare il concetto di patria esattamente in funzione antinazionalistica e antipatriottarda, e fautore d’una funzione non “selettiva”, ma ben al contrario accomunante del linguaggio della cultura, al di là dei confini fatti e disfatti dalle guerre e al di là della dissennatezza delle potestà politiche. Quattro saggi, dunque, compresa l’Appendice trevesiana, vengono qui inseriti da Aspetti e figure; due saggi (Epicuro, Lucrezio e Leopardi, cap. VIII, ed Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. IX) vengono inseriti da Nuovi studi sul nostro Ottocento. L’Epicuro dichiara sùbito la propria appartenenza a Classicismo e illuminismo, come si legge nella Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione:
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Avrei voluto aggiungere un breve postscriptum, un saggio su Epicuro, Lucrezio e Leopardi (a parziale modifica e integrazione di quanto avevo scritto a pp. 221-224) e poche brevi postille. Ma avrei bisogno ancora di un certo tempo – più di quanto avevo previsto –, e intanto questo libro ormai annoso, con mia meraviglia, viene ancora richiesto, e l’amico editore, del tutto giustamente, ha fretta. Se anche questa ristampa si esaurirà, spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione accresciuta. Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si tratta in questo libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della cultura ottocentesca (Pisa, Nistri-Lischi, 1980) e Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (Pisa, Ets, 1982) […]. Vorrei, con un po’ di sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di tener presente anche quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi contengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scritto nel presente volume.
La Nota è già in sé eloquente, sia sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, pubblicato in «Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409 e poi appunto nei Nuovi studi, sia nel richiamo ai «meno fortunati» volumi, non sufficientemente presenti alla critica, in un processo di “sfortuna” lettoriale legato a doppio filo alla “fortuna” di Classicismo e illuminismo, la cui fruizione sembra aver esonerato alcuni studiosi, per “appagata” curiosità, dalla lettura d’altre opere ottocentistiche di Timpanaro; la «parziale modifica e integrazione» si riferisce al IV capitolo, Il Leopardi e i filosofi antichi. Fra questo capitolo, e in particolare quelle pagine, ed Epicuro, Lucrezio e Leopardi, il lettore della presente edizione, tenendo conto anche delle postille al saggio presenti nelle Annotazioni finali, potrà condurre utili confronti e trarre spunti di riflessione. Da parte sua, anche il contributo su Leopardi e la Rivoluzione francese rientra nell’area cronologica della fine degli anni ’80: pubblicato nel volume collettivo La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese (Relazioni tenute al Congresso dell’Associazione degli storici europei, maggio 1989), Roma, 1990, pp. 367-381, quindi nei Nuovi studi, esso è in tutto contiguo all’Epicuro dell’’88 e conclude la serie di saggi leopardiani della “triade” Nistri-Lischi Classicismo-Aspetti-Nuovi studi. In questa edizione è infatti prevalso il criterio di riunione del “centro”, del cuore leopardiano della saggistica letteraria Nistri-Lischi; non propriamente ed elettivamente leopardiano appare porsi De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, nei Nuovi studi, in cui, a differenza che in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, solo gli ultimi paragrafi, nn. 8-13, sono indirettamente dedicati al Recanatese, grazie alla sua fortuna linguistica e letteraria presso lo scrittore d’Oneglia. Infine, si consideri che l’eventuale ricostituzione in uno stesso volume d’un nucleo giordaniano prima di quello leopardiano, oltre a produrre, in sé, ipertrofici effetti editoriali non consueti nella volontà di Timpanaro, non sarebbe realmente giustificata dal comportamento e dalle dichiarazioni dello stesso autore, che nella citata premessa dell’ ’88 si limita a indicare in modo esplicito il solo Epicuro, Lucrezio e Leopardi (e si ricordi che due dei quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi, Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846 e Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, rispettivamente del 1981 e del 1987, erano appunto già usciti all’epoca II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
di quella Nota, ed un terzo, Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli, poi uscito nel 1990, era con tutta probabilità già in via di conclusione; di nessuno di questi saggi Timpanaro mostra di desiderare, come invece avviene per l’Epicuro, l’inclusione in Classicismo e illuminismo). In ogni caso, in un’ipotetica raccolta di scritti giordaniani, a Le idee di Pietro Giordani e a Giordani, Carducci e Chiarini dovrebbero far séguito Il Giordani e la questione della lingua (1974) da Aspetti e figure ed i quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi: i citati Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli, Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, e infine, uscito come inedito nella silloge del 1995, Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente Bini). Quanto al contributo giordaniano presente in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ancora su Pietro Giordani (pp. 103-144), vale la stessa considerazione di “autonomia bibliografica” di quel volume che ha qui condotto ad escluderne anche i contributi leopardiani, un’“autonomia” di cui nella citata prefazione (p. XII) ad Aspetti e figure si mostra ben conscio lo stesso Timpanaro: Non ho incluso in questo volume un lungo saggio pubblicato in «Belfagor» 1975-76, in quattro puntate, col titolo Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana […]. […] il tono molto vivacemente polemico di quelle pagine, l’estensione della polemica anche a temi di politica attuale, avrebbero suscitato un’impressione di scarsa omogeneità rispetto al carattere più «distaccato» (e talvolta, forse, fin troppo filologicamente minuto) dei saggi che compongono questo già troppo grosso volume {«Aspetti e figure»}.
Sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi gioverà riprodurre due lettere, scritte da Timpanaro al filologo classico, e leopardista, Sergio Sconocchia, studioso più volte citato nel saggio per i suoi importanti e preziosi contributi. Ambedue le lettere sono indirizzate da Firenze ad Ancona. Nella prima, del 21 novembre 1988, Timpanaro si riferisce alla relazione di Sconocchia intitolata Ancora su Leopardi e Lucrezio, destinata al convegno nazionale su Leopardi e noi in prospettiva 2000, organizzato dall’Accademia Marchigiana di Scienze, Lettere ed Arti e tenutosi ad Ancona dal 23 al 25 ottobre 1987; tale relazione viene inviata in anteprima a Timpanaro, ancora nello stato di dattiloscritto, nel luglio 1988, quando è quasi finita la stesura di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, che dovrà uscire nello stesso anno in «Critica storica» (Timpanaro è comunque in tempo a fruire del lavoro inviatogli da Sconocchia); poi il saggio di Sconocchia esce autonomamente in volume, e in anticipo sugli atti del convegno (Ancona, La Lucerna, ottobre 1988), e vi è un nuovo invio a Timpanaro, che, ringraziando l’amico studioso con questa prima lettera, gli comunica che non potrà segnalare il volume, perché ha appena licenziato le ultime bozze dell’articolo per «Critica storica», non ancora uscito; il volume sarà citato nella redazione pubblicata nei Nuovi studi, mentre il fascicolo del 1988 di «Critica storica» (prima redazione del saggio di Timpanaro) sarà successivamente inviato ad Ancona: sulla copertina, la dedica autografa: «Con amicizia e gratitudine (e in attesa di critiche!) / S. T.» (la copertina reca la seguente intestazione: «estratto da / CRITICA STORICA / BOLLETTINO A.S.E. /
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Rivista trimestrale diretta da ARMANDO SAITTA / Anno XXV – 1988 – 4»; a fondo pagina: «ROMA / NELLA SEDE DELL’ASSOCIAZIONE DEGLI STORICI EUROPEI»). Il contributo di Sconocchia uscirà, quindi, con lo stesso titolo, nel volume di atti del convegno Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di Alberto Frattini, Giancarlo Galeazzi e dello stesso Sergio Sconocchia, Roma, Edizioni Studium («La cultura», n. 39), 1990, pp. 87-147; alle pp. 146-147 vi è il Postscriptum dello studioso, che può a sua volta citare (p. 146) l’ormai pubblicato Epicuro di Timpanaro e registrare anch’egli con piacere la possibile coesistenza dei due lavori, che pur partono da diversa impostazione. Più sotto, sono discussi contributi di Fornaro e di Giancotti, sempre su argomenti lucreziano-leopardiani. Nella seconda lettera, del 5 agosto 1994, Timpanaro ringrazia dell’invio d’un estratto di fascicolo di «Orpheus» (Rivista di umanità classica e cristiana, N. S., 5, XV – 1994 – fasc. 1, pp. 1-12; pubblicato a cura del Centro studi sull’antico cristianesimo dell’Università di Catania), contenente l’articolo Citazioni e appunti lucreziani in Leopardi, appunto di Sconocchia, e ringrazia altresì dell’invio di altri studi, riguardanti la medicina antica. Sia pure sinteticamente, Timpanaro potrà anche in questo caso fruire del lavoro pervenutogli, citandolo nell’aggiornata redazione del suo Epicuro che, proprio nel ’94, è d’imminente uscita nei Nuovi studi; del saggio e della sua nuova pubblicazione, come anche dello stesso volume in corso di stampa da Nistri-Lischi e della fresca uscita dei Nuovi contributi di filologia e storia della lingua latina, Timpanaro dà regolare e amichevole notizia a Sconocchia. I. Due facciate 50123 Firenze, Via Ginori, 38, 21. XI.1988
Caro Sconocchia, grazie del tuo saggio leopardiano-lucreziano, che già così gentilmente mi avevi fatto leggere in anteprima. Hai fatto benissimo a pubblicarlo a parte, senza aspettare gli Atti del Convegno. Il mio articolo non è ancora uscito in «Critica storica»: dovrebbe uscire presto, ho già licenziato le ultime bozze. Non faccio più in tempo, perciò, a segnalare questa tua pubblicazione ‘separata’: ho citato gli Atti marchigiani in un Postscriptum e ho esplicitamente menzionato la ‘scoperta’ della derivazione delle citazioni lucreziane dalla Collectio Pisaurensis; quanto al resto, ho accennato nel P. S. che i nostri due studi, anche se in notevole misura divergenti, possono essere considerati complementari. I lettori giudicheranno; e, naturalmente, appena sarà uscito il mio articolo tu avrai il pieno diritto di discutere quei punti che ti sembreranno errati o inadeguati. Grazie ancora, un saluto affettuoso dal tuo Sebastiano Timpanaro
II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
II. Due facciate 50123 Firenze, v. Ginori 38, 5. VIII. 1994 Carissimo Sconocchia, molte grazie per tutto ciò che mi hai mandato: sei un lavoratore instancabile, e ti muovi con eguale sicurezza nel campo leopardiano e in quello della medicina antica! Proprio in questi giorni torridi (sto per andare in ferie, ma per poco tempo) correggo le seconde bozze di un ultimo volumetto di cose otto-novecentesche, alcune nuove, altre rivedute e corrette.* {richiamo con asterisco a fine pagina} * Uscirà a Pisa presso Nistri-Lischi. Tra queste, ripubblico anche, con varie aggiunte e modifiche, quel mio articolo del 1988 su Epicuro, Lucrezio e Leopardi. Mi fosse arrivato prima il tuo articolo! Avrei potuto menzionare e utilizzare più ampiamente i risultati a cui sei giunto. Ora devo limitarmi a un accenno un po’ troppo sintetico, perché ho già fatto sulle prime bozze tante correzioni straordinarie che, se butto all’aria anche le seconde, l’editore mi fucila! il volumetto {canc.: «arriv», cioè «arriverà»} uscirà poi in autunno. Anche le tue cose di storia della medicina mi hanno molto interessato. Vorrei farti avere un mio volume, Nuovi contributi di filol. e storia della lingua latina, in cui mi è accaduto (col prezioso aiuto di Boscherini) di occuparmi {canc.: «di»}, en passant, di tonsillae e cose del genere. Ma la casa Pàtron è stata avarissima di copie in omaggio; anche a me ne ha mandato un numero irrisorio, e sono sparite sùbito. Vedrò, comunque, di fartene avere una copia. Grazie ancora di tutto e buona estate (qui a Firenze 40 gradi!). Tuo Sebastiano Timpanaro. P.S. Rallegramenti vivissimi per la vittoria nel concorso! {prima facciata in alto a sinistra, graficamente isolato e segnalato}.
Si riassumono, a questo punto, a beneficio del lettore, gli esiti di materiale allestimento prodotti dai criteri di questa rinnovata edizione. Si sono innanzi tutto ricondotti i due Addenda della seconda edizione nel corpus dell’indice “curricolare”, riallineando date alla mano Natura, dèi e fato agli altri saggi e incorporando le postille a stampa del ’69, con richiamo d’asterisco nella stessa pagina, alle parti di testo cui si riferiscono. Si sono quindi inseriti nell’indice (sempre rispettando la successione cronologica degli autori trattati e, nell’àmbito d’ogni autore, la cronologia di composizione di Timpanaro) sei contributi, di cui quattro da Aspetti e figure della cultura ottocentesca (a formare rispettivamente i capp. V, VII, XI e l’Appendice II) e due da Nuovi studi sul nostro Ottocento (a formare i capp. VIII e IX); totale undici capitoli più due Appendici, rispetto ai cinque con Appendice della prima edizione, e rispetto ai cinque con Appendice e Addenda della seconda. La vecchia Appendice, mantenuta nella sua istituzionale collocazione ma concettualmente accorpabile fin dal ’65 al capitolo cattaneano-ascoliano, si ordina come I rispetto a quella trevesiana (II), già ripubblicata, quest’ultima, nel 1980, con l’espresso fine d’un chiarimento
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
generale non tanto sui suoi specifici e peculiari argomenti, quanto, ed esattamente, su tutta l’operazione culturale rappresentata da Classicismo e illuminismo; essa può quindi essere vantaggiosamente fruita a conclusione della lettura del libro, in un “a posteriori” fondatamente ricco di concrete acquisizioni di testi e di documenti. Si è così ricreato il nucleo leopardistico timpanariano di edizione Nistri-Lischi, non a caso il nucleo di più perspicuo ed esperito incrocio, di più scoperto amalgama fra il “certo” filologico-testuale e il “vero” della riflessione storica e interpretante. Il lettore potrà constatare che l’entità del blocco leopardiano è, qui, di sette capitoli (non più di due, come inevitabilmente era nella prima edizione, o di tre, come nella seconda): dal III al IX è tutto Leopardi. Benché Leopardi, in realtà, insistendo costantemente nella saggistica di Timpanaro, sia molto spesso presente al di là dei contributi che ufficialmente gli si richiamano. Questa edizione, come si è cercato di chiarire dall’inizio di questa Nota, si distacca dall’ “oggetto” brossurato e comprabile qual è uscito allora, e certamente non è più il Classicismo e illuminismo di Nistri-Lischi (beninteso, volume altamente meritorio e sotto molti aspetti storicamente insostituibile), ma è la realtà del Classicismo e illuminismo “di Timpanaro”. La realtà, ripetiamo, non la verità, che altro sarebbe dire e pretendere, di Classicismo e illuminismo; ma siamo convinti che questa edizione corrisponda realmente, appunto, a quello che l’autore avrebbe voluto fare. *** Quanto finora detto riguarda l’allestimento del volume sotto il profilo dei testi già stampati, sia di quelli che appartenevano alle originarie due edizioni degli anni ’60, sia di quelli inclusi dagli altri due libri, a questo omogenei per argomenti e per protocollo editoriale. Le Annotazioni autografe che concludono l’edizione accolgono le integrazioni, le modifiche, le revisioni di giudizio, le correzioni terminologiche, e in qualche caso gli interventi di rimedio a singoli refusi da parte dell’autore: dopo il 1969, come ampiamente chiariscono le successive Note alle ristampe, non v’è più stata alcuna possibilità per Timpanaro di operare sul testo, o sui testi. Lasciamo per intero alla fruizione del lettore il giudizio critico-interpretativo, la valutazione, la considerazione qualitativa e quantitativa del materiale d’annotazione manoscritta (a biro o a lapis) che abbiamo qui riportato e riprodotto, avendo per parte nostra come criterio la restituzione della realtà grafica degli originali timpanariani, dove è possibile, fino al singolo tratto di penna, o al segno orizzontale o verticale di richiamo, o alla singola sottolineatura senza ulteriore parola esplicita dell’autore; le sottolineature di parola o parole, o d’intere frasi, che non costituiscano titolo di opera, anziché essere riprodotte con il corsivo sono riprodotte con il carattere sottolineato: esattamente come nell’originale; altrettanto si è fatto per le parole cancellate, riprodotte con lo stile barrato. E così si è proceduto per ogni aspetto d’una serie d’annotazioni fitta e ricca di significati culturali, segno d’un processo d’inesauribile riflessione, di continuo ripensamento, di costante aggiornamento bibliografico, di assidua ricerca di riferimenti e di rinforzi, di conferme e di aggiunte sul piano della visione critica, dell’eII. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
segesi di qualunque testo trattato, e anche dell’autoesegesi; e segno, altresì, di disponibilità “autovariantistica”, in un’incessante revisione che rivitalizza, attualizzandoli nella coscienza dell’autore, anche testi scritti da tempo, nel nome d’una meditazione razionale e lucida che dimostra, sulla base del volume Nistri-Lischi, il carattere strutturale e duraturo degli interessi coltivati in questo libro nell’intero arco della riflessione dell’autore, il valore fondante e quindi aggiornabile di tali interessi in una figura intellettuale che ha “corretto” Classicismo e illuminismo fino agli estremi tempi della propria, personale vicenda di studioso. Non minore accuratezza merita l’avviso della correzione dei refusi [cr]; in uno studioso nel quale la limpidezza “illuministica” dello stile passa dalla precisione massima d’ogni restituzione espressiva di concetto, e nei cui testi, insieme fluidi e coesi, ogni variazione nella correttezza formale può implicare un depistaggio di senso culturale o storico, i “refusi” percorrono, in più d’un caso, una loro non banale e tutt’altro che innocente vicenda. Ne adduciamo qualche esempio di palese visibilità (oltre a quello, già in altro senso trattato, della «difesa della civiltà illuministica» nella bandella 1984); nel III capitolo del volume (ed. Nistri-Lischi, p. 162), il Leopardi «critico spietato di ‘tutti’ i miti dell’immortalità, anche dell’immortalità delle opere» (corsivo nostro) della prima redazione in rivista diviene «critico spietato di ‘tutti’ i miti dell’immortalità delle opere»; tale “salto” accompagna il testo fino all’ultima ristampa del 1988, e induce l’autore a ripristinare, almeno a mano, nella copia del 1973 e in quella del 1984, la versione esatta apparsa in «Critica storica»; ancora nell’Epicuro dell’ ’88 in rivista (e poi nei Nuovi studi), n. 52, lo studioso, citando il suo passo di Classicismo e illuminismo, richiama la «p. 162 r. 1» NistriLischi e segnala esplicitamente e per esteso, in questo caso a stampa, l’errore tipografico, con l’indicazione della versione corretta: dunque la storia di questo errore, mai “tecnicamente” dimenticato, oltre a protrarsi nel tempo, coinvolge due diversi saggi e due diversi volumi, e non permette, vivente l’autore, il recupero della versione esatta. In un caso diverso, nel primo capitolo, Timpanaro parte da un «Pogiamo» di Giordani per «Pognamo» (poniamo), errore di stampa della «Biblioteca italiana», I, 1816, p. 175; da lì, un approfondimento bibliografico che conduce a «Pogniamo» come corretta grafia e alla scelta della lezione lemonnieriana anziché di quella dell’edizione Gussalli. Alle pp. 45-46 di questa edizione si può seguire la serie d’acquisizioni su «Pogniamo» in un crescendo d’interventi, anche manoscritti, che si risolve, graficamente, in una vera e formale correzione di refuso: «ia», o «ia». Ma in questa e in altre correzioni di refuso timpanariane occorre, come si è visto, saper leggere attentamente, poiché non certo di rado esse conglutinano un’autentica avventura diacronica d’acquisizioni conoscitive, da quelle rimarcate dalla precisione puntuale a quelle dilatabili a un più vasto significato culturale; tali correzioni, a nostro avviso, non possono, così e semplicemente, essere, tutte, ascritte tout court alle “varianti formali”, in una livellata uniformità di trattamento. Inutile negare che anche i refusi o i refusi “importati” hanno, se “pesanti”, la loro storia, sebbene un’ideale storia dei refusi potrebbe spesso chiamare a corresponsabilità l’autore non meno che l’editore. Risulterebbe sorprendente una legittimazione del lusso di sorvolare sull’opera cor
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rettiva dei propri testi qui svolta da un correttore di bozze leggendario, il correttore di bozze della Nuova Italia; tanto leggendario da guadagnarsi, nolente, l’accesso a una romanzata personificazione del suo mestiere. Un mestiere ben distinto dall’attività di studioso, ma a sua volta mestiere per lui importante, non omologabile alla spinoziana modanatura di lenti. Si ricorda, ancora, che i contributi di Aspetti e figure della cultura ottocentesca e di Nuovi studi sul nostro Ottocento che non sono entrati nella nostra edizione, e che sono comunque stati da noi attentamente consultati, sono anch’essi postillati con numerose, importanti e spesso qualificanti annotazioni autografe. La fruizione di quei saggi andrà integrata con la conoscenza di tali annotazioni, di cui occorre dare segnalazione, anche in semplice chiave elencativa. Ma la presente sede non ci sembra inidonea a un’oggettiva segnalazione di continuità nel laboratorio timpanariano.
II. LEOPARDI PROTAGONISTA NELLA NUOVA EDIZIONE…
III. Postille ed annotazioni autografe di Timpanaro (Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nuovi studi sul nostro Ottocento, Per Giorgio Pasquali)
Diamo conto, qui, di una serie di note autografe apposte da Sebastiano Timpanaro a tre volumi nistri-lischiani, di cui uno, com’è ben noto, è costituito da una raccolta di studi e testimonianze del 1972 in ricordo e in onore di Giorgio Pasquali (Timpanaro, oltre a parteciparvi con il saggio intitolato Storicismo di Pasquali, pp. 120-146, vi collabora come accurato revisore della bibliografia). L’elaborazione critica e gli approfondimenti di studio retrostanti a queste note richiederanno, certo, ulteriori verifiche ed indagini mirate. Qui si intende fornire notizia testuale della presenza e dell’entità di tali aggiunte e rettifiche autografe ad alcuni saggi, a scopo di segnalazione di questo materiale agli studiosi. Rimane vero che la figura di Timpanaro junior è stata oggetto di molta attenzione negli ultimi anni. Ma – e credo non soltanto a nostro parere – risultano comunque degne di rilievo le annotazioni che egli è venuto facendo ad importanti suoi contributi di Aspetti e figure e dei Nuovi studi; si tratta di annotazioni che abbracciano una varietà di tipologie integrative e correttorie, dal refuso maligno («storica» > «stoica» – Asp. e f, p. 34 r. 34 –) al refuso evidente («un accenno stile» > «un accenno ostile» – p. 35 r. 24 –), dalla vera e propria autocorrezione (si veda l’epigramma Caesar ad Rubiconem) alla parziale rettifica (si veda in tal senso la citazione di un’espressione elogiativa di Pietro Giordani per Cicerone, nel capitolo intitolato Il Giordani e la questione della lingua, a dimostrazione della posizione non sempre categoricamente ostile del Piacentino verso l’antico oratore). Nel nostro prospetto, provvisto di note esplicative qui ridotte all’indispensabile, indichiamo, sotto il titolo di ogni saggio, la pagina e il rigo che contengono il testo e la relativa annotazione (i volumi di riferimento – oltre al citato Per Giorgio Pasquali –, entrambi in unica edizione, sono ovviamente Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980, e Nuovi studi sul nostro Ottocento, ivi, 1994; a proposito di quest’ultimo volume, le annotazioni autografe sono apposte in due copie del libro, ciascuna con note proprie; le segnaliamo regolarmente con c1 e c2; cr significa correzione [di] refuso).
ANNOTAZIONI AUTOGRAFE IN ASPETTI E FIGURE DELLA CULTURA OTTOCENTESCA I. ASPETTI DELLA FORTUNA DI LUCANO TRA SETTE E OTTOCENTO p. 34 r. 34: «storica» > «stoica» [cr]; a lapis colorato, margine sinistro. p. 35 r. 24: «un accenno stile» > «un accenno ostile» [cr]; a lapis colorato, margine destro. p. 43 r. 11: «C’è un epigramma Caesar ad Rubiconem, traduzione latina di una poesia di Domenico Michelacci (ed. cit., p. 323 {«“Entro dipinta gabbia”. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di G. LEOPARDI», a cura di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1972}; l’identificazione del Michelacci si deve alla Corti, cfr. p. 311).» > da «l’identificazione» a «p. 311»: cancellato con tratto orizzontale di penna; a margine destro: «no, lo dice il Leopardi stesso» (in effetti, il sonetto-traduzione Caesar ad Rubiconem appare sottotitolato [Epigramma Dominici Michelacci]: cfr. GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, 2 voll., a cura di W. Binni ed E. Ghidetti, Milano, Sansoni, 1993, I, p. 526)1. p. 53 r. 2: «cfr. Bruto minore ecc. (Velli ap.{ud?} La Penna). / Zumbini «grave ospite addetta» in Ultimo canto di Saffo, 24, cfr. Luc.{ano} VIII 157 (Blasucci, Berardi Scuola Normale 1987, 837 n. {)}»; a lapis, margine destro; come si vede, «Berardi» è cancellato2. p. 59 n. 92: «X, p. 229 (a proposito di Seneca): “Ma una traduzione dev’essere un ritratto”» (il volume in numero romano, con la relativa citazione, si riferisce alle Opere del Giordani); a lapis, margine destro della nota3. p. 64 r. 24: «XI, 21 (Istruz. per l’arte di scrivere, a “Eugenio”): “sdegni magnanimi in Lucano e Giovenale”» (sempre dalle Opere del Giordani); a lapis, margine sinistro4. p. 65 r. 4: «XI, 103 «“Non mi degnerei parlare a chi preponesse la vita alle degne cagioni di vivere” (cfr. propter vitam vivendi perdere causas)» (ancora Giordani); a lapis, intestazione pagina e margine destro5. In questo saggio segnaliamo noi un altro refuso, a p. 52, n. 75, rigo 6, nella citazione goethiana dalla Klassische Walpurgisnacht del Faust, II: «vv. 7007-1009» va corretto in «vv. 7007-7009». II. FRANCESCO CASSI TRADUTTORE DI LUCANO p. 81: «cfr. art. di Masi (estratto), GSLI 1885»; a lapis, intestazione pagina6. p. 89 r. 19: «Il 25 giugno 1822 il Perticari, da tempo ammalato, moriva» > «26: cfr. I. Pascucci, St. Oliv. XI, 1963, e lettera qui acclusa»; «25» è sottolineato; Timpanaro si
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riferisce agli «Studia Oliveriana», nei quali Italo Pascucci scrisse (cit. alla nota 14, p. 88) Sulla «Farsaglia» tradotta da F. Cassi (IV-V, 1956-1957, pp. 192 sgg.; Pascucci è anche autore di una bibliografia sul Cassi: ITALO PASCUCCI, Appunti bibliografici su F. Cassi e sul volgarizzamento della Farsaglia» di Lucano, in «Studia Oliveriana», III – 1955 –, pp. 71 sgg. – cfr. pp. 81-82, n. 1 –); la data è quindi da correggersi in «26 giugno»; a pennarello, margine destro. p. 94 r. 16: «rifiutarsi significativa» > «rifiutarsi significava» [cr]; a penna, margine sinistro. pp. 102-103: «Sive quis infesto cognata in pectora ferro / ibit seu nullum violarit vulnere pignus, / ignoti iugulum tamquam scelus inputet hostis. / Lucano VII, 323-5» («Sia che leviate il ferro per colpire il petto dei congiunti, / sia che non violiate con ferita nessuna persona cara, / il nemico v’imputerà a delitto l’avere sgozzato un ignoto» – tr. di Luca Canali –); biglietto inserito nel volume (la scrittura, sebbene non si offra a facile attribuzione perché calligraficamente impostata, non appare di mano di Timpanaro). Segnaliamo noi un altro refuso, a p. 85: «Luigi Cristostomo Ferrucci» > «Luigi Crisostomo Ferrucci». III. SUL FOSCOLO FILOLOGO p. 119 r. 10: «Pochissimi testi greci e latini classici (forse soltanto Omero e Virgilio) possono essere ristabiliti per via di sola recensio, facendo a meno delle congetture» > ([…]«e Virgilio)» è cancellato con tratto orizzontale di penna; a margine destro: «e il Nuovo Testamento; nemmeno Virgilio, quantunque ben tramandato)»7. p. 128 n. 32: «Cfr. Cic. Div., Nat. d.?» (ovviamente, De divinatione e De natura deorum); a lapis. IV. L’EPISTOLARIO DI LUDOVICO DI BREME ** p. 140: «romatica» > «romantica»; cr; evidente refuso. V. IL GIORDANI E LA QUESTIONE DELLA LINGUA p. 176 n. 43: «XI, 106»; «del Giambullari» sottolineato (si riferisce sempre alle Opere del Giordani); a lapis, margine sinistro nota8. p. 190 n. 69: «tuttavia cfr. anche XI, 21 “L’abbondanza elegante di Cicerone, e l’armonia ch’egli solo ha saputo creare e donare a una lingua così dura e aspra, sono degnissime di considerazione”. E poi ibid. il paragone Cic. – Livio»; a lapis, margine sinistro e intestazione9.
III. POSTILLE ED ANNOTAZIONI AUTOGRAFE DI TIMPANARO
p. 191: «cfr. su Cicerone anche XI 104 (i 3 libri del De oratore)»; a lapis, intestazione10. ibid.: «per Cicerone, VII 166, a Gussalli con ripetizione: “Poiché Cicerone ti piace molto hai, secondo Quintiliano, fatto grande profitto” (3 luglio 1846). Cfr. anche tutto il giudizio su Cicerone; e i passi cit. oltre» a penna, margine destro11. p. 197: «F. Quintil. 10, 1, 102 (da Pindaro)??» («F.» prima di «Quintil.» sta per «Fabio», Quintiliano appunto); a lapis, margine destro. p. 211 n. 99: «cfr. lett. – Gigli in Forlini» (si tratta d’Ottavio Gigli, altre volte oggetto d’attenzione da parte di Giordani e di Timpanaro: cfr. GIOVANNI FORLINI-VITTORIO ANELLI, Problemi filologici nelle lettere di Pietro Giordani a Ottavio Gigli, in «Archivio storico delle provincie parmensi», serie IV, XXVIII, 1976, p. 143 sgg.; cit. in Nuovi studi sul nostro Ottocento – Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli –, p. 63); a lapis, margine destro nota12. ibid.: «“que’ perpetui avversarî d’ogni bene; de’ quali sì propriamente ed efficacemente disse il Gesuita Bartoli che tanto ingrassano quanto ingannano, e tanto ardiscono quanto non temono”» (naturalmente, i gesuiti stessi); a lapis, piè pagina13. p. 213 n. 104: «Viglio ecc.» (si tratta di Patrizia Viglio, studiosa dei cui lavori Timpanaro si è occupato: cfr. Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, in Nuovi studi, pp. 69-101, dedicato al commento critico – in gran parte segnato dal consenso – all’articolo della stessa PATRIZIA VIGLIO, La nascita degli asili infantili a Piacenza, in «Bollettino storico piacentino», LXXIV, 1979, pp. 107-134; inutile ricordare il grande interesse per gli asili d’infanzia, professato in chiave d’ideologia pedagogica democratica, dalla madre di Timpanaro, Maria Cardini); a lapis, margine destro nota. p. 215: «ivi gli raccomanda di leggere il Dict. philos., le Quest. sur l’Encycl. (mentre “nelle opere storiche non val molto”) e tra i romanzi brevi L’Huron ou l’Ingénu)»; notevole – si tratta solamente di aggiunta nostra – la netta propensione di Giordani per le opere filosofiche di Voltaire rispetto alle opere storiche; a lapis, intestazione14. Aggiungiamo da parte nostra che in questo capitolo si rende necessaria un’altra correzione di refuso: «con una nota filologia di V. Anelli» > «con una nota filologica di V. Anelli» (p. 191, n. 72; si tratta, ovviamente, di Vittorio Anelli). VI. ANGELO MAI p. 231 n. 13: «ανέκδοτο» > «ανέκδοτον» [cr]; a lapis, margine destro nota. p. 233 r. 6: «in quel tempo» > «in quel tempo, pur», poi cancellato; a pennarello a colore, margine destro. ibid. r. 25: «dei Mai» > «del Mai» [cr]; a lapis, margine destro.
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p. 260 r. 31: «Kbenhaven» > «Københaven [cr; ovviamente, «Copenhagen»]; a lapis, margine sinistro. p. 261 r. 3: «Müter» > «Münter» [cr]; a lapis, margine destro (lo studioso Frederick Münter). p. 266 r. 35: «(con introd. non firmata) Il Colombo dell’Ambrosiana: lettere di A. Mai a G. Andres, in “Civiltà cattolica” 85 (1934), vol. I, 55 ss., 154 ss., 277 ss.; p. 158 su Mustoxidi; p. 288 sull’Eusebio e rapp. con Zohrab»; queste annotazioni integrano le pagine della bibliografia sul Mai: cfr. Appendice B. Indicazioni bibliografiche sul Mai, complessivamente pp. 262-271; sulla vicenda della Cronaca di Eusebio fra Zohrab e le annotazioni leopardiane cfr. ora PANTALEO PALMIERI, Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 2001, pp. 65 e n., 130132; sull’importanza di Bartolomeo Borghesi come figura di filologo, ivi, pp. 88-89, 94 n., 95 n., 99, 101, 102, 105 n., 124-133, 137, 139, 141, 149, 151; / Giovanni Andres è Juan Andrés; a penna, margine sinistro e intestazione. IX. DOMENICO COMPARETTI p. 356 r. 22: «N. B. Obiez. di Momigliano confuse. Bene però Momigl. sul cap. I (romanità di Virgilio) cattivo»; si tratta di un punto importante, riguardo al quale Timpanaro si discosta da Pasquali, che definisce «romantico» l’interesse per il mondo popolare e in genere l’aspetto antropologico del pensiero storiografico di Comparetti; Arnaldo Momigliano invece ha saputo individuare gli aspetti meno sostenibili («cap. I […] cattivo») di alcuni concetti del Virgilio nel Medioevo; a penna, margine sinistro (annotaz. al capoverso che inizia con «Richiamando per primo […]). p. 358 r. 21: «I, 226-228; si noti che C. stesso teme di lasciarsi indurre da “prevenzioni” patriottiche; e il giudizio, negativo, è tuttavia molto oscillante»; l’autore sottolinea il fatto che «il forte anticlericalismo risorgimentale e positivista del Comparetti» non ha come conseguenza «un’incomprensione storica del cristianesimo e del medio evo»; nel testo di pagina, «medio evo» è sottolineato a mano; fa séguito, nel testo di Timpanaro, «I capitoli del Virgilio nel medio evo […]»; a penna, margine sinistro. Segnaliamo noi, qui, un altro refuso: p. 365 r. 23: «Coomparetti» > «Comparetti».
ANNOTAZIONI AUTOGRAFE IN NUOVI STUDI SUL NOSTRO OTTOCENTO PREFAZIONE p. XVII rr. 19-20: «barbarie misticheggiante e superstiziosa» > «tecnocratica»; a lapis, c1 margine destro. ibid.: «barbarie misticheggiante e superstiziosa» > «superstiziosa e tecnocratica»; a lapis, c2 margine destro.
III. POSTILLE ED ANNOTAZIONI AUTOGRAFE DI TIMPANARO
I. ANCORA SUL PADRE CESARI: PER UN GIUDIZIO EQUILIBRATO p. 5 rr. 23-24: «non propriamen-te» / > «non propriamente» [cr]; a penna, c1 margine sinistro e c2 margine destro. p. 7 rr. 13-24: «: Ediz. naz., Epist., p. 137 sg., lett. al Pindemonte del 26 luglio 1806;» > «(Ediz. naz. etc.);» eliminati i “due punti” iniziali; il riferimento è all’epistolario del Foscolo; a penna, c2 margine destro. ibid., n. 5: «polemica e favore» > «polemica a favore» [cr]; a penna, c2 margine destro nota. p. 9 n. 7: «e la loro lingua non fiorentina» > «e la loro lingua parlata non fiorentina» (l’autore si riferisce alla volontà del Cesari di non esporre al biasimo, ma anzi di accomunare in una generale legittimità d’elogio, scrittori toscani non fiorentini come il pisano Domenico Cavalca, l’aretino Petrarca, il certaldese Boccaccio); a penna, c2 margine destro nota. p. 12 n. 11: «[Cfr. Iuvenal. 7, 56 qualem nequeo monstrare et sentio tantum]»; la citazione di Giovenale viene ad integrare quella di Cicerone, Brutus, 46, 171 («Et Brutus: “Qui est”, inquit, “iste tandem urbanitatis color?” / “Nescio”, inquam, “tantum esse quendam scio”») fatta dal Cesari nella Dissertazione, p. 147, a proposito del «non so che», dell’immotivabilità razionale delle bellezze linguistiche, delle parole e del loro “suono”; a lapis, c1 piè pagina. p. 13 n. 12: «Cfr. MARIA AUGUSTA MORELLI TIMPANARO, Alcune note sul barone di Schubart, «Critica storica», XVIII, 1981, pp. 466-519 [seguono i rinvii di pagina ai singoli argomenti e una precisazione sullo Schubart]» > «Cfr. etc. Ora in M{ARIA}. A{UGUSTA}. M{ORELLI}. T{IMPANARO})»; Sebastiano Timpanaro prevede una nuova pubblicazione del saggio della Morelli; a penna, c2 piè pagina. p. 23 n. 18: «p. 453 n. 1» > «p. 453 n. 1)» [cr]; chiusura di parentesi; a penna, c2 margine destro nota. p. 25 r. 1: «iscrizione eloquente, ma esagerata […]» > «iscrizione eloquente, efficace in quanto tale, ma esagerata […]»; la precisazione si riferisce all’epigrafe che il Giordani dettò per Antonio Cesari e che fu posta sul Campidoglio: «Antonio Cesari veronese / cogli scritti e coll’esempio mantenne gloriosamente / la fede di Cristo e la lingua d’Italia»; a lapis, c2 intestazione. II. UN’OPERETTA DI PIETRO BORSIERI ED UNA DI PIETRO GIORDANI p. 43 r. 22: «(Tempesti) già nel Gherardini, Crusca, “So quel che dico quando dico zuppa”»; la precisazione integra ciò che Timpanaro dice a proposito delle Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, ed. curata da William Spaggiari: il verso di riferimento è «So quel che dico quando dico torta», di Lorenzo Lippi, in Il Malmantile racquistato, I, strofa 19, v. 6; a lapis, c1 margine destro.
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ibid. n. 3: «(segnalaz. di F. Tempesti: Folena, Vocabolario del veneziano del Goldoni, segnala La buona moglie {’buona moglie’ lasciato “in tondo”} III 5, 17 e La gastalda I 3, 49, non i Petteg. delle donne»; «non» con doppia sottolineatura; ma i Pettegolezzi delle donne del Goldoni, come rammenta Timpanaro nella n. 3, annoverano a loro volta un ripresa di questa espressione: «Eh, m’intendo mi, co digo torta» (atto I, scena II); a lapis, c1 piè pagina. Segnaliamo noi che vi sono errori di spaziatura orizzontale nel terzultimo rigo di p. 49. V. DUE COSPIRATORI CHE NEGARONO DI AVER COSPIRATO (FORSE GIORDANI, CERTAMENTE BINI) p. 103 n. 2: «e ancora V 343 (cit. anche da Schippisi, p. 97): “Neppure l’onnipotenza divina può fare che io mai sia stato o Carbonaro o Massone, o altro di queste bagianate [sic]. Si sono interrogate migliaia di persone, esaminate migliaia di carte” ecc.»; «V 343» si riferisce alle Opere del Giordani; a lapis, c1 piè pagina. p. 105 n. 4: «)» parentesi poi cancellata: ripensamento su correzione di presunto refuso (il testo a stampa è infatti razionale e corretto); a penna ed a pennarello, c1 margine destro nota. p. 119 r. 6: «1976» > «1876» [cr]; l’autore corregge la data d’edizione di GIOVANNI LA CECILIA, Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876, Roma, Artero, appunto 1876-1878; a penna, c1 margine destro. p. 124 r. 19: «Cfr. anche F. Orsini, Memorie politiche, p. 168»; l’indicazione si aggiunge al Giuseppe Montanelli di Memorie sull’Italia e specialmente sulla Toscana dal 1814 al 1850, naturalmente riguardo al Bini (e al suo progressivo distacco dal modus cogitandi e dal modus operandi di Mazzini); a lapis, c2 margine sinistro. VIII. DE AMICIS DI FRONTE A MANZONI E A LEOPARDI p. 231 r. 8: «in un biasimo.» > «in un biasimo» [cr]; eliminazione di punto in basso a penna, c2 margine destro. INDICE DEI NOMI E DELLE COSE PRINCIPALI (NUOVI STUDI SUL NOSTRO OTTOCENTO) p. 237: «Aporti, Ferrante, 69 n. 1, 71 n. 4» > «Aporti, etc., 77 n. 13» a penna, c2. p. 238: «Brambilla, P., 25» dopo la voce «Brambilla, Alberto» con relative pagine d’occorrenza (si tratta di Pietro Brambilla); a penna, c1 margine sinistro. Aggiungiamo noi che altrettanto va fatto per R. Bonghi e G. Sforza, citt. come P. Brambilla a p. 25 r. 29, e per Vittorio Anelli, cit. a p. 63 r. 30 (Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli): «Anelli, Vittorio, XVIII, 56-57, 101 e n. 35» > «Anelli, Vittorio, XVIII, 56-57, 63, 101 e n. 35».
III. POSTILLE ED ANNOTAZIONI AUTOGRAFE DI TIMPANARO
ANNOTAZIONI AUTOGRAFE IN PER GIORGIO PASQUALI (Storicismo di Pasquali) p. 129 rr. 7-10: «Bisogna aggiungere che anche nei riguardi delle scienze della natura Pasquali è stato ben lontano dalle sbrigative liquidazioni crociane; ne ha piuttosto auspicato (pur senza approfondire questo concetto) una storicizzazione […]» > «Anche nei riguardi [etc.]»; una storicizzazione > «un incremento di interdisciplinarità»; a penna, margine destro. p. 130 r. 5: «modo di ragionare solo in apparenza rigoroso, in realtà banalmente sofistico, che fu proprio di tutto il neo-idealismo italiano» > «[…] che fu proprio di quasi tutto il neo-idealismo italiano»; a proposito di Croce e della sua incomprensione dello scritto Arte allusiva di Giorgio Pasquali; a penna, margine sinistro. p. 131 r. 18: «cf. Traina Gandiglio, p. 27 n. 42»; cfr. annotazione precedente (ALFON SO TRAINA, A. Gandiglio: un grammatico tra due mondi, Bologna, Pàtron, 1985); a penna, margine destro. p. 134 r. 18: «provvidenzialistica» > «teologica»; definizione della teoria crociana dell’inevitabilità della guerra come fenomeno “naturale”, mandato da una «Provvidenza» negativa, ma «sacrosanta»; a penna, margine sinistro. p. 135 n. 17: «dalla quale, tuttavia, Bontempelli dissociò la propria responsabilità, come il Romagnoli stesso avverte nella prefazione»; l’autore si riferisce alla “crociata” antifilologistico-patriottarda di Ettore Romagnoli, che raccolse a tal fine articoli suoi e di Bontempelli, appunto, oltre che di Vincenzo Morello e di Emilio Bodrero (nel ruolo di parte antagonista, pubblicò scritti di Benedetto Croce e di Giuseppe Prezzolini); a penna, piè pagina. p. 138 n. 20: «Che su questo problema Pasquali rischi di esagerare in senso opposto» > «[…] rischiasse […]»; contro il mito della poesia popolare collettiva; a penna, margine destro. ibid.: «tuttavia a poesia popolare non ‘calata dall’alto’ Pasquali credeva per le leggende slave, finniche, greche moderne: cfr. il necrologio di Pavolini (ma con una piccola riserva), Scr. filol. II p. 77815.»; a penna, piè pagina. 141 r. 6: «26»; cancellata la nota 26, che era pura ripresa della n. 25, citazione dell’Arnaldo Momigliano di G. De Sanctis e A. Rostagni; a penna, nel testo. ivi, r. 21: «(» cr; inserzione di apertura parentesi; a penna, nel testo. p. 142 rr. 7-8: «caratteritiche» > «caratteristiche», cr; a penna margine sinistro. ivi, rr. 8-11: «i diritti della ricerca filologica, per esempio, non furono mai contestati dalle varie tendenze “antipositivistiche” della cultura tedesca» > «[…] apertamente contestati […]»; a penna, margine sinistro.
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
p. 144 rr. 12-13: «Jaeger, freddo»; ovvero, Pasquali seppe essere indipendente e critico anche verso Jaeger e verso Wilamowitz, a smentita dell’immagine che, pur a diverso titolo, ne accreditarono i romagnoliani e i crociani, che lo dipingevano come «un vassallo della filologia tedesca»; a penna, margine sinistro. p. 145 r. 2: «rec. non det.»; «Recentiores non deteriores»: viene richiamato in maniera abbreviata il titolo pasqualiano, in un contesto che sottolinea come Paul Maas, nelle edizioni della Textkritik successive alla prima, non abbia imparato nulla da Pasquali, a differenza del filologo italiano, che seppe invece trarre alcuni elementi dallo stesso Maas; a penna, intestazione pagina. p. 146: «questa incomprensione» > «e questa incomprensione»; il finale di saggio si sofferma sulla sostanziale estraneità di Pasquali all’illuminismo e, più in generale, alla cultura francese; a penna, margine sinistro. p. 170 (Bibliografia, 1936, n. 315): «non firmato»; riferito alla voce «Rostagno, Enrico, EI [Enciclopedia Italiana] XXX, 159». p. 177 (Bibliografia, 1948, n. 432): «432 bis – Rec. a: E. Howald, Der Dichter von Kallimachos von Kyrene, Erlenbach – Zürich [1943]. Belf III, 125 (rist. in Belf 1970, marzo, p. IV fuori testo)»; Ernst Howald pubblicò il suo scritto presso l’editore E. Rentsch, appunto nel 1943. Vi è poi, alla fine del volume, il seguente «appunto di Massino Fanfani», su foglio graffato, già annunciato dalla pagina dell’Indice iniziale: «Con note autografe di Sebastiano Timpanaro e un appunto derivato da Massimo Fanfani, conservato qui da Timpanaro»: «‘storicismo, historism’ / NOVALIS, Fragmente, vol. III, ed. J. Minor, Jena, 1907, p. 191 (dalla sez. V. Aus den Studienheften, n. 140): / “Die Kombinationen von Ich und Nicht-Ich, nach der Anleitung der Kategorien, geben die mannichfachen Systeme der Philosopie. (System der Ableitung aus dem Einfachen. Das System der Bearbeitung der gemeinen Erfahrung, System der blossen Ich-Identität, System des blossen Nicht-Ich, wiedersprechendes System des Ich und Nicht-Ich. Zureichender Grund.) / System des Okkasionalism. (Beziehung auf das Erregungs-System.) / (Eine gelegenheitliche Ursache ist Reiz.) Fichtes System. Kants System. Chymische Methode, physikalische, mechanische, mathematische Methode usw. System der Anarchie, Demokratie, Aristokratie, Monarchie. Artistische Methode – artistisches System. Das Konfusions-System. Mistizism, Historism usw”».
III. POSTILLE ED ANNOTAZIONI AUTOGRAFE DI TIMPANARO
NOTE 1 La correzione si riferisce ad una pagina, la 43 appunto, dedicata, come la precedente e come quelle immediatamente seguenti, alla ricerca critica della presenza di Lucano in Leopardi, sin dall’epoca dei Puerilia. Spiccano fra gli altri, in questa sezione del saggio, i nomi di studiosi quali Giuseppe Velli ed Ettore Paratore. 2 Cfr. infatti LUCANO, Bellum civile (Pharsalia), VIII, 157-158: «quod summissa animis, nulli gravis hospita turbae / stantis adhuc fati vixit quasi coniuge victo». Timpanaro si riferisce certamente anche ai precedenti versi 151-153, dai quali emerge, riguardo alla stessa figura di donna – la moglie di Pompeo – il concetto opposto a quello leopardiano di «grave ospite addetta», ovvero il concetto di «concittadina», di “compatriota”, di appartenente a tutti gli effetti, anche sul piano emotivo, alla comunità nella quale ella si trova: «ast illam, quam toto tempore belli / ut civem videre suam, discedere cernens / ingemuit populus»; piangevano, quindi, «per colei che durante tutta la guerra avevano visto come una loro concittadina» (tr. di Luca Canali). 3 Si veda l’inizio della stessa nota 92: «Un’allusione alle infedeltà del Cassi (e di altri traduttori) è probabilmente anche in XI, 242: “Molti nei fallaci ritratti che altri fece di lui [Lucano] non poterono raffigurare qual poeta e qual cittadino egli fu” (per “ritratto” nel senso di “traduzione” vedi la frase della lettera al Papi cit. sopra)»; e infatti nel testo “in alto”, alla stessa p. 59, parlando della lettera di Giordani a Lazzaro Papi del 17 aprile 1833, Timpanaro riporta il seguente brano, incentrato sull’esigenza di fedeltà nella traduzione della Pharsalia, esigenza non rispettata dal Cassi: «“Appena credevo a me stesso leggendo quella [sottintendi: traduzione] del Cassi, in vedere tanti pezzi lunghi lasciati fuori, tanti introdotti di sua invenzione, tanti mutati di luogo. Un traduttore non dee mutare, neanche sotto pretesto di correggere: la traduzione deve essere un ritratto”» (cfr. Lettere di Pietro Giordani a Lazzaro Papi, Lucca, 1851, p. 116). Nell’annotazione autografa Timpanaro aggiunge appunto, sul concetto di equivalenza fra «traduzione» e «ritratto», il Giordani di X, 229, riguardo a Seneca. 4 Il passo di riferimento è incentrato su un Giordani quale ottimo ed efficace interprete dello spirito della Pharsalia e di Lucano stesso come figura di poeta. Lucano, è per Giordani, modello di un ideale libertario e antitirannico, da additarsi alla gioventù: «Poeta non d’inezie o di favole, ma di gran fatti; e tanto altamente magnanimo, che fu solo a prendersi per subbietto una causa infelicemente giusta. Poeta unicamente degno che da lui la generosa gioventù impari la vera gloria; intenda come la grandezza e il pregio degli umani fatti non si estima (qual fa sempre ogni volgo) dagli eventi: apprenda ad onorare ed amare non solamente la virtù, ma le sventure della virtù; detestare e disprezzare non solamente il delitto, ma le prosperità del delitto […]. Così mi parve veramente sacro, e da antimettersi ad ogni altro, il poema che prese per materia non la fondazione o la conquista di un regno, non una curiosa o avara navigazione, non gl’iddii di un popolo o di un tempio; ma i funerali della Libertà, universalmente ed eternalmente divina; la quale se pur potesse venir cacciata in esilio dal mondo, non potrebbe perdere sue cagioni di regnarvi» (p. 64). 5 Cfr. p. 65: «Ma a differenza dell’Alfieri e del Foscolo dell’Ortis e del Leopardi del Bruto minore, che condividono la disperazione lucanèa anche per quel che riguarda la loro epoca, il Giordani legge la Pharsalia con spirito “risorgimentale” […]». 6 Ernesto Masi, citato a p. 91, n. 19, e a p. 98, n. 29. 7 «[…] congetture praticamente sicure (più sicure certamente di quelle tramandate dai codici) se ne possono citare a centinaia nel campo della filologia classica: tutt’altro che gioco d’azzardo. Pochissimi testi greci e latini classici (forse soltanto Omero e Virgilio) possono essere ristabiliti per via di sola recensio, facendo a meno delle congetture. Né, a sostegno dell’anticongetturalismo del Foscolo, va citata una frase di Paul Maas […], poiché il Maas ebbe, se mai, t r o p p a fiducia nella critica congetturale» (p. 119). L’osservazione si inserisce nella ratio intensamente critica che sostiene il discorso saggistico timpanariano nei confronti della filologia foscoliana, e, qui in particolare, nei confronti dell’anticongetturalismo d’un Foscolo che più volte ha, in tal senso, mostrato una non eccessiva coerenza. 8 La sottolineatura del nome di Giambullari è spiegata dal contesto del passo, nel quale Timpanaro analizza la presenza del canone linguistico trecentesco del Cesari in Giordani, rilevandone, nella fase studiata in quelle pagine, alcuni elementi comuni (poi, com’è noto, destinati a profonda evoluzione), quali l’ammirazione per la freschezza nativa del dettato dei trecentisti e insieme il rimpianto per l’inevitabile irrecuperabilità storica del loro modello espressivo. In tal senso (beninteso, solo in chiave di allineamento elencativo) il Cavalca e lo stesso Giambullari si trovano vicini nella lettera del 30 gennaio 1818
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
ad Alessandro Calciati; a proposito del Giambullari, l’autore ricorda che «quest’ultimo, come risulta anche da molti altri passi, era uno dei rari cinquecentisti che il Giordani non considerasse troppo artificiosi e latineggianti» (p. 176, n. 43). 9 Il passo si sofferma sulla considerazione di Cicerone come rètore da parte d’un Giordani che pur ne riconosce «la maestria nello scrivere»; ma l’oratore appare «troppo incline a sacrificare le idee alla bella forma: meglio le lettere, dunque, che le orazioni»; e nella stessa n. 69 vi è la citazione delle Opere di Giordani (VII, 165 sgg., con un paragone Cicerone-Vincenzo Monti destinato a lunga fortuna) e di una lettera al Montani meritoriamente pubblicata da Alessandro D’Ancona, e ripubblicata da Piero Treves in Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, pp. 435 sgg. Queste citazioni vengono integrate, e soprattutto parzialmente rettificate, da XI, 21, citato appunto nell’annotazione autografa: «L’abbondanza elegante di Cicerone […]». Si rammenti la rivalutazione che Timpanaro verrà compiendo della figura di Cicerone, del suo “illuminismo da intellettuale antico”, del suo disincantato e non inefficace laicismo, sia nel saggio su Epicuro, Lucrezio e Leopardi, sia, e ancor più dispiegatamente e con ottica ancor più mirata, nell’edizione garzantiana del 1988 del De divinatione (ma anche l’Epicuro, quanto alla sua prima pubblicazione, è del 1988). 10 L’indicazione rinforza la ratio concettuale del brano cui si riferisce; in una lettera a un ignoto del 1839 (Lettere scelte inedite o rare, pubbl. e annot. da E. Costa, Parma, 1886, pp. 71 sgg.), Giordani distingue tra lingua e stile, attribuendo al secondo termine una priorità qualitativa legata all’origine interiore e agli interni contenuti da esprimere; lo stile può fruire solo di formazione interiore, e le letture degli autori possono in tal senso fornire solo un aiuto. Ma almeno deve trattarsi di autori grandi: i greci, i latini, e, fra i moderni, principalmente Leopardi: «A me pare che neppure l’antica Grecia abbia niente di più bello e perfetto. Quando ella rimarrà stupita di Leopardi, allora creda di aver fatto qualche profitto» (Aspetti e figure, p. 191). E, nella nota 71 (ibid.), Timpanaro dice: «l’ultima frase, come spiega sùbito dopo il Giordani stesso, è una parafrasi di ciò che Quintiliano (Inst. or., X, 11, 112) dice a proposito di Cicerone». Giordani indica dunque Leopardi come Quintiliano aveva indicato Cicerone quale meta e modello di stile e di espressione. Cfr. anche l’annotazione successiva. 11 Si cfr., appunto, la nostra precedente nota 10. Tale “sistema” a quattro componenti, CiceroneQuintiliano e Leopardi-Giordani, ribadisce la progressiva “crescita” della figura di Cicerone nel pensiero di Timpanaro, e, insieme, ribadisce nello studioso e nel saggista la presenza e la costante funzione di Leopardi, anche quando il Recanatese non è direttamente nominato. 12 Nella n. 99 Timpanaro affronta il complesso e in parte contraddittorio rapporto di Giordani con la prosa del gesuita Pallavicino, felice sul piano dello stile, ma espressione di un’ideologia per definizione avversa a quella del Piacentino. Sul piano dei contenuti Giordani propende sicuramente per la visione offerta dal Sarpi. Per “salvare”, come dice l’autore, il Pallavicino, titolare d’una scrittura seducente, a livello storiografico, sul concilio di Trento, Giordani cercherà più volte e in più modi di rilevare ed evidenziare contraddizioni e addirittura ostilità all’interno del fronte gesuitico stesso. Così in X, 409 e 414 parla delle calunnie e delle ostilità dei gesuiti verso di lui. 13 Cfr. la nostra precedente nota. A p. 211, n. 99, Timpanaro ricorda «una frase antigesuitica del gesuita Bartoli: XI, 118». Nell’annotazione autografa la frase è compiutamente citata. Ed è un segno chiaro che il saggio, nell’intenzione di Timpanaro, avrebbe dovuto fruire d’una nuova edizione. 14 Destinatario della raccomandazione è l’Ambrosoli, al quale Giordani avrebbe voluto fosse affidata la traduzione dell’Art d’écrire del Condillac, da lui tanto ammirato, e punto di riferimento della cultura parmense all’epoca della giovanile formazione del Giordani. Le raccomandazioni voltairiane si accompagnano ad altre indicazioni, sempre riguardanti il Settecento: «intanto il Giordani stesso rimprovera all’Alfieri la satira contro Voltaire (XIV, 141); esclama, ancora a proposito di Voltaire, “vedrai che zucche son quelle che non lo voglion filosofo” (VII, 160); raccomanda per l’apprendimento dell’arte di scrivere non qualche trattato d’un cinquecentista o d’un purista dell’Ottocento, ma (lui così ostile al francesismo!) l’Art d’écrire di Condillac e gli articoli di La Beauzée e di Du Marsais nell’Encyclopédie; ricorda il Beccaria con ammirazione come riformatore giuridico ed etico-sociale, ma non per le Ricerche intorno alla natura dello stile, che pure partecipavano del medesimo clima sensistico di quegli autori francesi da lui ammirati; coinvolge in un’unica accusa di scriver male sia l’Alfieri, sia gli illuministi dall’Alfieri così diversi per orientamento mentale e per lo stile stesso» (pp. 215-216). 15 Cfr. infatti GIORGIO PASQUALI, Scritti filologici, 2 voll., a cura di FRITZ BORNMANN, GIO VANNI PASCUCCI, SEBASTIANO TIMPANARO, Intr. di A. LA PENNA, Firenze, Olschki, 1986, II, pp. 777-778, scritto in cui l’amore di Paolo Emilio Pavolini per le letterature popolari viene fatto risalire, nella sua radice universitaria, al magistero di Emilio Teza.
III. POSTILLE ED ANNOTAZIONI AUTOGRAFE DI TIMPANARO
IV. Il «Leopardi» di Pietro Citati
In un’intervista di molti anni fa, Mario Luzi indicava nella prosa di Cesare Garboli e in quella di Pietro Citati gli esempi più proponibili, in Italia, di quella che è definita «scrittura saggistica»; nella stessa misura, benché applicata a esperienza critica diversissima, vale la messa a punto di Mario Lavagetto sulla figura di studioso rappresentata da Giacomo Debenedetti (si veda l’introduzione ai Saggi critici. Terza serie, Marsilio 1994), alla sua libera e insieme rigorosa dottrina di avvicinamento ai testi: una linea di saggistica perspicace, interdisciplinare, e non accademica nella sua curva di destino. L’ennesima fatica di Citati1 non sembra sfuggire a questa pur dinamica, e certo lusinghiera, definizione; la libertà di ricerca e d’escussione delle fonti si traduce – è sigillo critico di Citati – in un ritmo scrittorio segnato da cadenze stilistiche internamente mimetiche di determinati caratteri espressivi del biografato (si tratta d’un mimetismo non negato dallo stesso saggista) e la costruzione dei capitoli si apre ad intere pagine d’illustrazione, o di narrazione, dei tratti psicologici, degli stili di vita, del contesto umano, e naturalmente delle letture via via documentabili o indovinabili in Leopardi; tali pagine spesso precedono la vera e propria trattazione del focus oggettivo del capitolo, o la accompagnano significativamente, sebbene un opportuno spazio tipografico le mantenga quasi sempre distinte dalla diretta rassegna ricognitiva sull’argomento stesso. Più che biografia, un’affabulazione scrittoria, quella di Citati (si pensi, fra i tanti volumi dello scrittore, al Tolstoj), che procede tra fondamentale adesione al tracciato cronologico dell’autore studiato e il “taglio”, appunto, di monografia-saggio, concepita e attuata – in una difficile esplorazione, in un’insidiosa e laboriosa immersione nel mondo leopardiano – sfruttando lo spazio di resoconto riguardo a fonti, classiche o non classiche, che non sempre sono state prese in sufficiente considerazione nella storia critica del Recanatese. Se si volessero sinteticamente anticipare alcune delle proposte critiche della monografia, si dovrebbero indicare l’individuazione delle malattie determinanti per la storia, non solo personale, di Leopardi (il morbo di Pott, o tubercolosi ossea, la patologia metamorfica che tormenta il poeta per quasi tutta l’esistenza – non si tratterebbe dunque del rachitismo prodotto dallo «studio matto e disperatissimo» con la conseguente autocolpevolizzazione di Giacomo –; una forma di psicosi maniaco-depressiva che, a dire di Citati, si segnalerebbe già da alcune lettere al Giordani, del 30 aprile, dell’8 agosto, del 26 settembre e del 21 novembre 1817), la presenza, ora più ora meno esplicita, di fondali di cultura che permangono in varie “epoche” della vita dell’autore (Rousseau, innanzi tutto, e non quello “politico”, nel contesto d’un primo Ottocento
che ne adora le rêveries e le espressioni d’amore ideale; i miti della luna e del magnus annus nell’antichità classica; il pesarese Rossini, amato dalla famiglia Leopardi), aperture critiche sugli spazi di città importanti per il contino di Recanati (gli esempi concernono Roma, Pisa, Napoli, con richiamo al rapporto contraddittorio che unisce Leopardi a ciascuno di questi “luoghi”), gli elementi nuovi che possono scaturire dalle letture di opere leopardiane (da alcuni Canti, dalle Memorie del primo amore, dallo Zibaldone, da alcune Operette morali). Ma valga dire che è tutta l’opera, tutta l’affabulazione di Citati a costituire un testo segnato dalla personale e talvolta originale fruizione della figura umana e letteraria di Leopardi; un testo cui sarebbe fuor di luogo chiedere un protocollo d’impostazione storico-scientifica (pregi e difetti annessi) che programmaticamente esula dalla strategia ricostruttiva e interpretativa del saggista. Altrimenti, come si giustificherebbe l’assenza (pur potendosene indovinare i richiami) della Quiete, del Sabato, del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (eccettuato un passaggio – pp. 118-120 – sulla tematica della «luna»), dei Paralipomeni in una biografia umana e intellettuale di Leopardi? Assenza che è frutto di scelta e di consapevolezza finché lo si desidera, ma è un’assenza, anche ove si consideri la possibilità d’una campionatura emblematica – non si dice “antologica” – in una monografia che veicola e sostiene la personale lettura del saggista assumendo i testi che meglio vi corrispondono e che meglio la rappresentano. Forniamo intanto l’elenco dei capitoli: I. Monaldo e Adelaide Leopardi; II. L’infanzia e l’adolescenza; III. La mente di Leopardi; IV. Le lettere a Pietro Giordani; V. La fuga; VI. La luna e il sole; VII. L’amore; VIII. Il «Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica»; IX. Lo «Zibaldone»; X. La Natura, la Ragione, la Felicità; XI. L’infinito; XII. Le «Canzoni»; XIII. Un viaggio a Roma; XIV. Le «Operette morali»; XV. Bologna ed Epitteto; XVI. Paolina e il teatro d’opera; XVII. Da Firenze a Pisa; XVIII. Recanati e Firenze; XIX. L’albero dei ricordi; XX. Il risorgimento, A Silvia, Il passero solitario; XXI. Le ricordanze; XXII. Il pensiero dominante; XXIII. Napoli. Appare quindi opportuno, per il fruitore del Leopardi di Citati, condurre a sua volta una lettura calibrata proprio sulla consapevolezza di tale cifra d’affabulazione saggistica, non scientifica, appunto, e d’affabulazione interpretativa nel senso soggettivo-ermeneutico, non storico-filologico; una lettura scandita da lampi e illuminazioni critiche che indubbiamente sono propri di Citati, in una cifra compositiva e scrittoria peculiarmente orientata a restituire un’immagine “possibile” di Leopardi, quasi a caglio d’una linea di visione del poeta a forte angolazione individuale, con alcune finestre critiche sui personaggi che lo accompagnano, nella loro manifesta inferiorità: tali, con caratteri fra loro opposti, i genitori; tali, in buona fede, i fratelli; tale lo zio Antici; tali alcuni amici e alcune figure femminili conosciute, o amate da Giacomo. S’intende: il protagonista non si trova “da solo”, nel testo di Citati, e le possibilità di ricostruire il contesto umano (assai meno quello culturale) che lo circonda vi sono pur sempre, e sono condotte con quel signorile brio rappresentativo e con quel piglio d’ariosa eleganza scrittoria che è abituale nel saggista. Ma tutto sembra convergere sul binario dello spicco individuale, dell’opportunità di far svettare solitariamente la straordinaria genialità di Giacomo: parola di miele per i leopardisti
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
(compreso, se possibile, chi qui scrive), sempre che si tenga nel debito conto quanto da vari anni si è sinora fatto per ricostruire intorno a Giacomo gli elementi del quadro umano e culturale che lo ha racchiuso e che lo ha avvolto, che lo ha misconosciuto e che lo ha frainteso, che lo ha criticato e che isolandolo lo ha abbandonato, ma che, si dirà banalmente, lo ha anche prodotto, determinandone, pure con macroscopici errori – volontari e involontari –, la presenza umana e civile nel mondo: le indagini e gli studi su Monaldo, su Adelaide e su Carlo Antici, gli approfondimenti sullo stesso Giordani, pur effettuati nella coscienza della “minorità” psicologica e culturale, e spesso della netta differenza ideologica che separa tali figure da quella di Giacomo, hanno cercato di far capire meglio le coordinate di partenza dell’autore, di chiarire lo stesso sfondo ambientale di mediocrità di cultura a risalto contrappositivo della figura che si staglia polemicamente nella sua grandezza reale; ma l’ambiente va studiato e capito, anche se con distacco critico; diversamente, non si focalizzerebbe a sufficienza la problematicità della figura di Monaldo, “carceriere amoroso”, e quindi più che mai carceriere, del sistema figlio-biblioteca, ma anche figura vivace e non arida sul piano della penna, tanto da essere stato appunto studiato e da far desiderare prosecuzione e compiutezza in tali studi; un Monaldo «Monarca delle Indie», secondo i termini di Manganelli, ma forse non oberabile, come del resto Giacomo, del peso di plumbee responsabilità rappresentative di tragedie che hanno e più ancora avranno altre radici, e altre, più potenti cause, non certo solo recanatesi; non si focalizzerebbe neppure la figura dello zio, cui viene riconosciuta buona e apprezzabile cultura moderna, ma al quale si riserva, immancabilmente, sospetta ossessione concettuale e scrittoria o tic stilistico, un lessico al limite della contumelia (un Indice dei nomi, qui purtroppo mancante, a differenza di quanto avviene ad esempio nella biografia di Damiani, chiarirebbe una sorta d’impostazione-software d’accoppiamento senza eccezioni, al nome di Antici, d’un aggettivo che sembra volutamente denigratorio), a protratta ostensione di sentimento d’antipatia, che rientra, per buona sorte e senza necessità del beneplacito d’alcuno, nell’opzione di libertà critica d’ogni penna. Viene in mente, a questo proposito, un rilievo sulla prosa di Aldo Palazzeschi che ci è capitato di formulare in passato: il cumulo aggettivale, l’iterazione delle occorrenze in una certa sfera semantica, in contiguità come a distanza, non è certo in sé persuasivo della veridicità di quanto affermato; spesso la frequenza statistica del lessico denigratorio (e qui ci riferiamo al saggista), o del lessico marcato da martellante insistenza ironico-demolitoria, è anzi rivelatrice d’una concettualità non persuasa, o addirittura omileticamente autopersuasiva: fenomeno interessante, anche questo, in un libro interessante. Certo, l’insistenza negativa su Antici, ovvero sull’unico personaggio di quel breve perimetro recanatese di palazzi aristocratici che avesse coordinate di autentica cultura internazionale e di autentiche frequentazioni internazionali di altissimo livello, da Napoleone Bonaparte ai Papi ai monarchi di Baviera, e a moltissimi altri personaggi ancora, può sottolineare l’appartenenza del marchese alla Restaurazione (con alcune consistenti premesse culturali non situate nel reazionarismo), ma costituisce anche, da parte del biografo, una resezione, a forte scapito oggettivo del lettore, del solo, reale aggancio familiare dei Leopardi al mondo extra-marchigiano ed IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
extra-papalino; tale figura costringerebbe, insomma, a articolare e a rendere più complesso il quadro di provincialità opprimente e bigotta delle basi familiari di Giacomo, un quadro che negli ultimi anni è invece apparso opportuno approfondire; provincialità e bigottismo rappresentano, beninteso, un dato assolutamente reale, ma scontato quanto lo è la citazione del materialismo di Leopardi (in questo caso invece si accanisce la vis ironico-polemica dell’autore, con una pervicace serie di distinguo). Del resto, lo stesso Citati riconosce che alcune delle iniziative, o proposte, volte ad aprire gli orizzonti di Giacomo come persona e come letterato, derivano da Antici, come è noto (p. 26): Il cognato Carlo Antici avrebbe voluto trasferirlo a Macerata o tanto meglio a Roma, dove poteva abitare nel palazzo Antici-Mattei e sfiorare la chiesa del Gesù e Piazza Navona e San Pietro, vivendo all’ombra del Vaticano. Ma Monaldo non voleva. Andare a Roma era un peccato, una violenza alla natura; e Giacomo avrebbe corso il rischio di guastarsi, di traviarsi e il suo spirito di morire.
Nello stesso modo, alle pp. 223-224, a proposito del soggiorno romano proprio nella casa degli Antici (criticata dal nipote nelle pronunce epistolari), il saggista riconosce, senza quasi nominare il cognome dei marchesi e men che mai citare lo zio Carlo, che a Roma Leopardi lesse molto. Numerosissimi dialoghi di Platone (un editore desiderava che egli li traducesse), Luciano, Cicerone, Epitteto, Atala e René di Chateaubriand, Il Cortegiano del Castiglione, Calderón, una vita di Rousseau, Libanio, Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, una parte dei Moralia di Plutarco, Byron in francese, l’Iliade nella traduzione del Monti, la versione dell’Asino d’oro del Firenzuola. Come sempre, la sua curiosità era insaziabile. Trovò in casa Antici il Voyage du jeune Anacharsis en Grèce dans le milieu du quatrième siècle avant l’ère vulgaire di Jean-Jacques Barthélemy, che aveva già letto in parte a Recanati. Ne trasse notizie sull’antichità classica; e sullo Zibaldone trascrisse alcune famose massime del pessimismo antico, che fino allora aveva soltanto sfiorato.
Ancora, si ricorda che nel gennaio ’23, insieme agli Antici, Giacomo poté assistere al Teatro Argentina a La donna del lago dell’amatissimo Rossini, e si ricorda, ovviamente, la famosa visita al sepolcro del Tasso. Insomma, come si scrive (p. 225) in fine di capitolo, «Le lettere di Leopardi da Roma non sono sempre veritiere: la malinconia, che le avvolge, è più folta di quella che lo opprimeva mentre leggeva o passeggiava per le strade della città. Era stato fuori di casa: si era mosso e distratto: aveva conosciuto persone intelligenti, colte, divertenti, che lo amavano e lo stimavano; e la sua scrittura era diventata più lieta. Il 3 maggio 1823 non tornò volentieri a Recanati, il suo “sepolcro”, la sua “isola di Pasqua”. La salute peggiorò»; e lo Zibaldone, da lì a sette mesi, conobbe l’incremento di milletrecentodiciannove pagine. Il soggiorno a Roma, anche visto in controluce recanatese, ha avuto comunque molti effetti positivi. E, senza volervi a tutti i costi vedere meriti, se non “oggettivi”, dello zio Antici, promotore pur con i suoi difetti della prima uscita di Leopardi nel mondo, non si può non
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riconoscere che molti dei contatti, umani e propriamente culturali, che Giacomo ha avuto a Roma provengono da ambienti cui apparteneva o che frequentava lo zio Carlo; la biblioteca del marchese ha a sua volta un merito non indifferente riguardo a quel Voyage la cui importanza in Leopardi, esattamente riguardo alla riflessione sul pessimismo antico, è stata assai bene messa in luce negli studi di Sebastiano Timpanaro. Inoltre, se furono «Numerosissimi» i «dialoghi di Platone» effettivamente letti, e se l’importanza che anche nel tempo rivestì lo stesso Platone è un dato sul quale più volte insiste lo stesso Citati, sarebbe stato questo uno dei punti salienti da focalizzare, a contributo sulle varie fasi di nascita del platonismo leopardiano. Una parentesi «(un editore desiderava che egli li traducesse)» liquida l’intera vicenda della trattativa con De Romanis, l’editore appunto che nella sede importante della capitale pontificia doveva accogliere la traduzione dell’Omnia platonica; nessuno in questa sede desidera “i particolari” della trattativa, ma la parte avuta, non solo in fase propositiva, da Carlo Antici, non va così totalmente tacitata e azzerata, come invece avviene nel testo di Citati, visti anche gli sviluppi dello stesso pensiero di Giacomo riguardo alla filosofia e all’estetica, all’arte e allo stile di Platone, vista la presenza complessa dello stesso Platone di lì a poco nelle Operette, e visto il significato della finale rinuncia a compiere quell’Omnia2. La biografia stessa che di Antici ha scritto il gesuita padre Antonio Angelini è certo un assoluto capolavoro nel genere comico, ma questa comica scrittura agiografica non si deve riverberare minimamente sul personaggio di Antici, a meno di un trasferimento di codici da biografo a biografato, operazione che sarebbe ancora più comica; tale comica autobiografia è esattamente quella che segue, e come fedelmente nei fatti (tranne nella notizia della laurea di Antici: il marchese non giunse alla laurea, ma è un dettaglio), Citati, in tutta la sua architravatura di scansioni cronologiche e di resoconto di eventi; e fa bene, Citati, perché si tratta dell’unica biografia disponibile. E, data la facilità, persino eccessiva, di trarne il succo biografico al netto dell’agiografia, quell’ombra retrospettiva di don Angelini, che forse si cerca di far allungare sul marchese germanista, fin dalla sede di presentazione del personaggio da parte di Citati, appare porsi in linea con l’operazione-antipatia a tutti i costi che prima è stata rilevata, con ampia e immancabile possibilità di prova testuale. L’importante – a scanso della diffusione di immagini stereotipate (l’“odioso zio”, “lo zio terribile”, o altri concetti di pronta e immotivata degustazione, e magari di successo enorme, direttamente proporzionale alla loro vacuità critica) – è che presso i lettori risulti perspicua l’angolazione, in questo caso dichiaratamente soggettiva e personalissima, del saggista propenso a nominare il marchese, quindi ad averlo presente, ma a segretarne alcuni importanti meriti “tecnici” sul piano delle letture suggerite, e fatte sviluppare, in Giacomo; e non solo letture antichistiche, di autori greci, ma anche letture contemporanee, indicazioni di autori francesi, di cattolici della Restaurazione: Chateaubriand, De Maistre, De Bonald, il primo Lamennais, ed altri; nomi non da poco, proferiti anche in lettere-monito discutibili, ma una sezione importante del romanticismo europeo coevo primoottocentesco, sul versante conservatore, appunto non byroniano: la prima immagine, si potrebbe dire, che ogni studioso si fa della Restaurazione e IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
del romanticismo, ed è un’immagine concettualmente fondamentale della reazione antiilluministica, ma anche anticlassicista. Il rapporto zio-nipote è ricco di interesse proprio in quanto essi appartengono, ciascuno, s’intende, al proprio livello, a due diverse, e talvolta opposte sfere di pensiero e di ideologia: l’incrocio “tecnico” tra il marchese Carlo e il contino Giacomo registra la competenza da parte di uno zio intelligente, pur se non geniale, nei consigli che egli rivolge a Leopardi prospettandogli un’attiva collaborazione nel quadro del milieu culturale, pubblicistico, librario romano: consigli in buona parte disattesi, ma visibili, come influenza contestuale, in chiave di criptata risposta polemica, di arpeggio chiaroscurale delle concezioni, in alcune Operette morali, nei passaggi di più rimarcato antiprovvidenzialismo. Confessiamo di non sapere l’effetto che può produrre presso un medio lettore italiano, di solito abbastanza conformista nei riguardi dei testi vulgati, tale, insistita caratterizzazione negativa, tale ammicco seduttivo – verso lo stesso lettore – a un’automatica e immediata ’ngiuria, direbbe Verga, a una quasi divertita complicità saggista-utenza nel riconoscimento identificativo del ritornello contumelioso. Certo, quale che sia il successo di tale caratterizzazione dello zio Carlo Antici nel suo rapporto con Leopardi, rimane l’esigenza di tenere presente, invece, l’importanza di una figura che3, tramite la conoscenza di prima mano (è solo esempio), in originale tedesco, dei testi del dottissimo Johann Michael Sailer (docente universitario ad Ingolstadt e a Dillingen, e vescovo di Ratisbona), non è affatto ignara delle linee portanti del romanticismo bavarese all’epoca di Ludwig I, e, insieme, si mostra competente, oltre che sui ricordati, grandi cattolici francesi, anche come parziale traduttore, e non indegno esegeta, in tre edizioni, dello Stolberg della Vita e dottrina di Gesù Cristo, della sua figura di luterano convertito con grande eco in Europa al cattolicesimo, della sua statura di commentatore dell’intero corpus scritturale, pronto a immettere nella propria esegesi cattolica i frutti tecnici e le consuetudini di metodo della più smaliziata esegesi, soprattutto veterotestamentaria, protestante. Non banale, lo si ricordi, l’ammirazione di Antici per Pietro Giordani e per I promessi sposi alla loro uscita nel 1827. La complessità della figura di Antici può risultare anche dal ricchissimo patrimonio dell’omonimo Archivio recanatese, in realtà Archivio Antici-Mattei, contenente documenti, carte, manoscritti, pergamene, filze, interi faldoni di lettere che tracciano la storia della famiglia nobile romana non meno che di quella patrizia marchigiana. Per un primo giudizio su Carlo Antici (certo nobile reazionario e filopapalino, però, come si diceva, figura complessa e non disinvoltamente liquidabile) una reale consultazione di tale Archivio è necessaria. Ma occorre pazienza di storico, e in genere di studioso. Quell’Antici (pp. 66-67) «presuntuoso, arrogante, sicuro di sé, insopportabile ficcanaso, molto più indelicato e indiscreto di Monaldo, che non possedette mai un ego così vasto» – non entriamo in merito, non sentendoci così “sicuri di noi”, e forse anche indelicati, da sciorinare filze di improperi – era colui che ripetutamente aveva lavorato per sottrarre Giacomo all’isolamento, ed è ai genitori Leopardi che va ascritto il tenace rifiuto in tal senso, per troppo tempo. Concordata con i genitori, come dice lo stesso Citati, è la lettera del 30 dicembre 1818, altro «capolavoro», non «nel genere comico», ma «disgustoso capolavoro di eloquenza»; il lessico di Citati, lode
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volmente restio alle connotazioni sfumate, non oscura la realtà d’un testo che si allinea alla critica millenaria ai parfaits magiciens (lo riconosce lo stesso autore); ma tale critica è condotta, pur senza comprensione dei valori del nipote (impresa difficile per tutti, compresi noi contemporanei, trattandosi di Giacomo), in nome di alcune personalità (Condillac, La Harpe) di reale spicco, e in nome d’una serie di studi che erano, come quelli del diritto delle genti, dell’economia pubblica, delle leggi civili, di fatto fra i più aggiornati a quell’epoca in Europa, e che riecheggiavano gli studi compiuti dal marchese ad Heidelberg, in non spregevole sede universitaria. L’esultanza per il “non ascolto” di tali consigli da parte di Leopardi è, a scanso di fraintendimenti, massima; ma non è detto che tali studi facciano così male; siamo convinti che molti perfetti poeti non abbiano scansato il contatto, anche oggettivo e mediato da testi, con la realtà; solo, con loro scelta dei testi, appunto, e dei tempi. Di lettere siffatte ve ne sono molte, e non sappiamo se questa in particolare meriti il titolo di «disgustoso capolavoro di eloquenza». Secondo noi, non si tratta di impiantare giustapposizioni nipote-zio del tipo di “genialità-disgustosità”, ma dell’ordine genialità-senso pratico (non diciamo, si badi, «buon senso»); e certo vince la grandezza, ma non in chiave di eliminazione dell’altro elemento (come avverrebbe nel primo caso), ma in chiave di almeno parziale capacità d’autonomo assorbimento con personali tempistiche dell’altro dato. Se tali consigli erano, come in effetti è il loro caso, a dir poco improponibili, ciò non è dovuto a loro intrinseca pravitas (termine che semmai si addice all’accordo familiare dietro la lettera), ma al gigantesco destinatario, che con la sua sola grandezza li scaraventa nella sfera del pragmatismo meschino, nella quale essi originariamente non erano: è Giacomo il “problema”; è la genialità di Giacomo a ridicolizzare suggerimenti, e sia pure studiati con malizia, che ad una ricezione mediocre potevano anche risultare giovevoli. Avere come congiunto un genio (più o meno “compreso”) della scrittura, e del pensiero, è un problema familiare. Certo, nell’affrontarlo, i Leopardi e lo zio Antici non si sono dimostrati superiori ai loro tempi. E, d’altra parte, ribaltato il rapporto di grandezze (maggiore-minore), la topica della dissuasione dalla creatività letteraria in nome di motivazioni di varia declinazione ispirativa si insinua, senza torcere un pelo al genio, anche, ad esempio, nella famosa lettera manzoniana al Coen (si rammenti il capovolto rapporto genio-non genio), e in parte in quella carducciana a Giuseppe Chiarini, di timbro nettamente svalutativo dell’ambiente della Normale di Pisa, a dissuadere l’amico suo primo dalla condivisione di quel prestigio normalista che doveva rimanere appannaggio di Giosue, a conferma di amicale primazia. Credo anche che Giacomo fosse troppo grande per poter essere ferito da siffatta missiva: «Nessuna lettera, certo, l’aveva mai così profondamente offeso e umiliato» (p. 69). Ci voleva altro per mettere in crisi Leopardi a livello di ragionamenti sulla letteratura; occorreva, anche, stima verso il mittente, sulla quale abbiamo dei dubbi. In una lettera da Roma al fratello Carlo (22 gennaio 1823), Leopardi chiarisce di non essere mai stato troppo impressionato dallo zio: «Io lo lascio ciarlare come ho sempre fatto», e si getta acqua sul fuoco dell’ottimismo di Antici riguardo alle raccomandazioni che egli tenta per Giacomo; nella stessa maniera, un Leopardi già ventenne nel ’18 (i vent’anni di Giacomo sono culturalmente quaIV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
ranta, per così dire) poteva far scivolare da sé i concetti dello zio; semmai, lo si dica in sussurro e con sorriso, è lo stesso Giacomo, in un’altra lettera di pochi giorni dopo (5 febbraio 1823) sempre al fratello, a dissuadere sottilmente Carlo dalla condivisione dei favori dello zio Antici, un po’ come avverrà fra Carducci e Chiarini: «Che Marini abbia una certa influenza sugli impieghi relativi ai catasti, è vero. Che ne sia padrone, non è vero, ma sono i soliti sogni e chimere di Zio Carlo, come ti scrissi. Io ho con lui una certa amicizia, ma di quelle amicizie fredde che si possono avere con persone occupate […]»; segue una vaga promessa di associare il fratello ai benefici, se, «forse», si troverà «il […] verso» di rendere affezionato l’indaffarato parente con poco tempo effettivo a disposizione di un nipote; figurarsi per due. Occorreva realmente altro per impressionare in negativo Leopardi: ben altrimenti lo avrebbe fatto soffrire una critica tecnica, filologico-testuale a un suo lavoro, da parte di Pietro Giordani. Il rilievo palazzeschiano, poco sopra citato, sui voluti cumuli aggettivali riguarda Il palio dei buffi 4; non è forse un caso che con un’allusione ad un’opera «buffa», «preferibilmente di Gioachino Rossini», esordisca Citati, riguardo a Monaldo, nell’incipit del libro. Retaggio di tardo Settecento anche nei primi anni del successivo secolo, la figura del padre di Leopardi, padre-madre anche per necessità – data la freddezza affettiva di Adelaide (da parte sua vittoriosamente dedita al recupero del patrimonio della famiglia) –, sinergizza in Citati gli elementi di autorità e di funzione oppressiva con quelli costituiti dalla vicinanza affettiva, assumendo connotati inseribili nella tradizione antimonaldesca; della necessità di tenere conto, per Monaldo in specie, e insieme per altri personaggi, di una maggiore articolazione valutativa e degli studi che sono stati condotti sulla famiglia, si è già detto; ma viene da concordare sul fondamentale ruolo oppressivo, svolto dal padre, talvolta anche avvalendosi di quell’ironia, e di quella singolare mistione di bizzarria e di buon senso – magari tardivo –, che gli viene riconosciuta pure negli scritti (né si possono dimenticare le capacità autoironiche di Monaldo persona e di Monaldo scrittore, compreso lo scrittore epistolare). Non viene meno (e qui siamo pienamente d’accordo), insomma, nonostante i tratti affettivi che emergono nel conte e negli studi che gli sono dedicati, la caratterizzazione di un padre che ha sì creato, con criteri del tutto suoi, la biblioteca nella quale Giacomo si è formato e quasi è nato alla vita, e nella quale lo stesso Giacomo ha dapprima identificato l’universo e la cultura, ma che ha pure, tale padre, racchiuso il proprio figlio, e i suoi straordinari talenti, in una dimensione di avito palazzo progettata per essere autosufficiente, per evitare al contino il pericoloso contatto con il mondo. La biblioteca era una sorta di internet culturale dell’epoca, una fornitura di testi e di notizie pronta all’uso entro le mura familiari, e quindi foraggio di domesticità; una domesticità che domina assoluta. Né si manca di mettere in luce l’ostilità di Monaldo ai più importanti progetti d’almeno parziale autonomia da parte del figlio, e così l’ostilità alle prime Canzoni; dati molto conosciuti, ma necessarissimi, e divenuti scontati, se si vuole, proprio perché “particolarmente veri”. Semmai, la connotazione di «protagonista» (“personaggio importante”) d’«opera buffa» sembra necessitare almeno d’una precisazione: le motivazioni “superciliose” iniziali, progettuali, le connotazioni bur
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bere, i falsi drammi, si sciolgono, si ammorbidiscono, nel “buffo”, sin quasi a sintonizzarlo, rassegnato, con le motivazioni altrui, insomma con un’accettazione della realtà; in Monaldo l’itinerario appare inverso: dall’iniziale condivisione di alcuni tratti ”buffi”, spadiferi, donchisciotteschi (perciò, a noi sembra, non “servili”, da «Arlecchino» o da «Leporello», bensì da padrone, da mestatore autorevole, pur se improvvido e malaccorto, o comunque destinato a fallire: padroni sono ad esempio Bartolo e Don Magnifico), si passa, come in parte riconosce Citati a p. 25, ad una seriosità più accigliata, più occhiuta, più greve ed opprimente nella guida di molti “capitoli” dell’amministrazione familiare e dei figli (tranne, s’intende, i capitoli economici): è un nuovo modo, ma assai meno “giocoso”, di non accettare la realtà, una tipologia di rifiuto del reale assai diversa, e più incupita; in verità, una singolare involuzione per un «buffo», e per di più ex protagonista: si tratta d’un «buffo» tra i meno divertenti che si conoscano, e fonte di scarsa allegria soprattutto per il contesto umano che lo circonda, dalla dissipazione giovanile al ruolo “tragico” di padremadre-padrone. Una necessità dimostrativa vi sarebbe, altresì, per la citazione della lettera di Monaldo del 22 luglio 1813 ad Antici; la ripresa dal Vangelo di Luca (2, 42-50) delle parole monaldesche «per ora il mio sentimento è ch’egli sia meno dotto, ma sia di suo padre» può aprirsi a qualsiasi interpretazione, compresa quella costituita dal carattere comune, normale e colloquialmente vulgato di tali parole; ove, poi, fosse dimostrabile una reale derivazione dal testo scritturale, apparirebbe arduo ipotizzare un Monaldo fruitore così personalizzato di «nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse?», dato che «in his quae Patris mei sunt» si riferisce esattamente all’indipendenza, all’autonomia, all’affrancamento e addirittura all’alienità, qualitativa e definitiva, dalla casa e dalla famiglia paterna, indipendenza reclamata e espressa da un Gesù dodicenne assai sostenuto nella risposta e pronto a divaricare il Padre-Dominus dal padre-Giuseppe, putativo sì quest’ultimo, ma reale tutore terreno. Certo Gesù, ancora fanciullo, ritorna subito ὑποτασσόμενος, subditus ai suoi genitori, ma questo pregresso lampo di distacco dal nido presepiale bethlehem-nazareno è gravido d’anticipazioni d’un futuro che vedrà il Cristo abbandonare, e incitare gli epigoni ad abbandonare nuclei familiari, ricchezze, abitazioni, realtà d’origine, tetti paterni, fratelli da sostituire con i fratelli di fede nel mondo e en pleine air; se Monaldo avvalorasse l’idea di trattenere Giacomo-Gesù nella casa paterna, impedirebbe, altrettanto idealmente, la funzione del Cristo predicante: Cristo, per definizione, se ne deve andare di casa, non essere imprigionato nel presepe. Piuttosto, il ruolo monaldesco assomiglierebbe a quello di Giuseppe, a conservazione terrena del nucleo della sacra Famiglia; e soprattutto a quello della pensosa e presaga Maria, questa sì figura inquietante e femminilmente drammatica, cuore di madre fondatamente preoccupato («καὶ ἡ μήτηρ αὐτοῦ διετήρει πάντα τὰ ῥήματα ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτῆς»; «et mater eius conservabat omnia verba haec in corde suo», quindi fonte attendibile di un Luca che mette in tal senso “le mani avanti”). Rimane, a questo punto, l’ipotesi d’un Monaldo “realmente” Dio e d’un Giacomo “realmente” Gesù, considerando la casa-biblioteca recanatese come il Tempio, e invece il mondo esterno, Roma, San Pietro e la BiblioIV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
teca Apostolica Vaticana compresi (allora, la più probabile mèta di Giacomo), come residualità profana e traviante; solo l’interpretazione di «ἐν τοῖς τοῦ πατρός μου» come Tempio, come Casa del Padre, sostenuta da Citati sulla scorta di una parte della tradizione (i padri greci, soprattutto), può legittimare la trinitérité, direbbe De Bonald, padre-figlio-biblioteca come Dio-Gesù-Tempio; ma lo stesso Monaldo nella sua pronuncia epistolare recita «che sia di suo padre», e Citati lo riprende con l’evangelico «Ciò che è del padre mio», espressione che non allude, e men che mai automaticamente, alla Casa-Tempio, al luogo «dell’istruzione religiosa», ma rappresenta “le cose”, “gli interessi”, “l’ispirazione e l’orizzonte di pensiero” che sostengono e che più ancora sosterranno l’opera del Figlio incarnato di Dio. Un’interpretazione qual è quella della «Casa» non spiegherebbe l’inintelligenza, la non comprensione, da parte dei genitori, del ῥῆμα, del verbum loro rivolto, perché in quel caso, all’opposto di quello che accade nel testo, essi capirebbero bene che non potrebbe trattarsi altro che del Tempio, del Tempio-Domus come luogo, quasi come edificio. È il concetto astratto e più generale dell’“àmbito” divino, del più alto ordine di pensieri, della prima prova di Gesù come Cristo che i genitori non possono comprendere; forse le parole evangeliche sono risuonate, in modo decontestualizzato, in Monaldo, nella correntezza della scrittura epistolare: ma anche se così fosse, a parer nostro, vi sarebbe comunque un transito, riguardo al concetto d’appartenenza al padre, dalla sfera divina, propria del Padre vero e celeste dei credenti, a quella – cui secondo noi Monaldo allude – più modestamente umana del padre vicino, “tridimensionale” e presepiale e spazialmente percepibile, alla sfera d’un padre, appunto, affettuoso ancorché oppressivo (e beninteso viceversa), che desidera trattenere, ancora in quell’epoca, “il figliuolo delle grandi soddisfazioni” – ma “fusto debole” per il mondo – nella propria casa, grande o piccola che sia, nel proprio austero e controllabile, e quindi concreto e terreno presepe di famiglia. Si venga alla scrittura propriamente biografica di Citati su Giacomo (è ovvio che non ci sostituiremo al lettore – al quale va senz’altro affidato questo volume – in una sequenziale lettura descrittiva); vi è già un elemento significativo a p. 20; «Quando fu colpito dalla malattia, cominciò a identificarsi con Achille», dopo l’infantile scelta antitirannica, nei giochi con i fratelli, dei ruoli di Ettore e di Pompeo; Achille è il fiore della gioventù destinato a mantenere la sua purezza con la precoce morte, in termini che possono richiamare Hölderlin; e d’altronde la malattia diventa in Giacomo, per Citati, sistema, riferimento fisso, quadro d’oppressione che attanaglia il patologizzato sfidandolo, in mancanza di diagnosi, prima ancora che di cure mediche efficaci, a diventare «maestro» nell’arte del sopportare e dell’intuire vari rimedi autoterapeutici: dalla citata forma tubercolotica, intuita per primo dal Pascoli (ma le fonti sulle malattie di Leopardi sono indicate nelle note finali – p. 418 – in due pubblicazioni del 1938, di Arturo Castiglioni e di Silvestro Baglioni, l’una sansoniana e l’altra dei Rendiconti dell’Istituto marchigiano di scienze, lettere ed arti, e in un volume di Renato Di Ferdinando, Cappelli, 1987), alla forma di depressione psicotica, per la quale Citati (pp. 35-36) nomina le lettere del ’17 a Giordani, sopra accennate; l’unica voce è in tal senso quella dello stesso saggista, che richiama l’«ostinata nera orrenda
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barbara malinconia che mi lima e mi divora», e altresì verbi come «crucia» e «martirizza», o ancora «lima» e «divora», che rinvierebbero ad un pensiero costante, capace di dominare per intero, fissamente, senza mai abbandonarlo, l’infelice poeta. Citati dice, e ha ragione, che «pochissimi analisti» hanno saputo esprimere in tali, quasi fisici termini, la malinconia; ma una tale convinta sicurezza sulla diagnosi di depressione psicotica crediamo meriti altre pezze d’appoggio, soprattutto di carattere peculiarmente medico-scientifico. Questo rilievo non toglie alcun valore alle successive pagine di Citati, nel capitolo III, La mente di Leopardi, in cui è delineato il passaggio dallo stato di infelicità allo stato di pietrificazione, d’indifferenza, di atonia raggiunto dal poeta ed evocato in passi quali 2107-2108 e 958-959 dello Zibaldone; e sono altrettanto buone e proponibili le osservazioni di Citati, a p. 43, sull’identità di noia e di nulla, più volte trattate da Leopardi, di cui si citano, in particolare, i versi 73-75 della canzone Ad Angelo Mai; ancora, torna il nome del Rousseau de Le Rêveries du promeneur solitaire, in un passo famoso (Gallimard, 1959, I, p. 939) sulla percezione da parte dell’io narrante della propria estraneità al mondo, sulla propria condizione di “straniero”: «Leopardi» – scrive Citati – «avrebbe potuto ripetere queste righe, parola per parola, lettera per lettera: salvo che lui era sia il pianeta originario, sia il pianeta straniero»; Rousseau si conferma, anche nelle righe successive, un autore decisivo per il Leopardi di Citati: «Letteralmente lo divora e non ci si rende conto dell’influenza che esercita su Leopardi» (si parla sempre del promeneur, non del Contrat o dell’Émile), secondo un’intervista del settembre del 2010. Più che lo Zibaldone, nel quale Rousseau non è nel complesso presenza preponderante, più che la fase di zelo puristico estate ’16-primi mesi ’17, più che il concetto di verginità della Natura insidiato dal tarlo artificioso della civiltà razionalistica, e più ancora delle idee democratiche dello stesso Rousseau, appare essere il Leopardi “lettore diretto” delle promenades, delle Rêveries a sanzionare tale passione divorante per l’autore ginevrino; e la possibilità dimostrativa, più che assertiva, di questa affinità di sensiblerie interiorizzante e di sollecitazione spesso animata da scenari paesaggistici, è una possibilità aperta, ma che ancora in gran parte rimane da scrivere, se è vero che «non ci si rende conto», nella tradizione critica, di tale influsso. E la dimostrazione dovrà inevitabilmente passare fasi di diretto raffronto testuale tra i due autori, a conferma di questa “letterale” tendenza fagocitante del Jean-Jacques promeneur da parte di Giacomo: diretta e ravvicinata comparazione come unico metodo per rendere fondata la convinzione critica del saggista, che pure offre nella sua costruzione affabulatoria della vita di Giacomo alcuni specimina di richiami rousseauiani che qui consideriamo preliminari all’eventuale lavoro che potrebbe attendere gli studiosi. In sintesi, si ricordino gli accenni di p. 45 sul destino che aveva molti nomi («Dio, gli dèi, il fato, la fortuna, la natura») come indicazione di entità ostili, contrappositive alla felicità del poeta e al suo inserimento nel mondo: l’allineamento quasi seriale dei nomi dovrebbe in realtà aprirsi a una notevole articolazione, chiarendo, sulla base di quello che sarà il «secondo concetto di natura» in Leopardi, il passaggio a una sfera semantica in cui la menzione delle o della divinità sarà solo una necessità lirico-poetica, e in cui prevarrà filosoficamente la sola natura, ma ormai IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
intesa come cieco meccanismo di produzione e distruzione, non volto al bene, e, questo è ancora più significativo e drammatico, neanche al male, ma solo, e del tutto, indifferente alle ricadute del suo operato serratamente materialistico; questi, ed altri concetti, costituirono una parte del dialogo leopardiano di Timpanaro con Sergio Solmi; ma si ricordino anche l’efficacia dell’osservazione di p. 47 su un Leopardi esordiente viaggiatore nel 1822, fatalmente inesperto di grandi città, e insieme osservatore non bisognoso di esperienza, grande “romanziere” – e siamo perfettamente d’accordo –, dotato d’uno sguardo sulla società e sugli uomini degno di «uno scorcio di Balzac», come dimostra nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani. Ottime, altresì, le osservazioni (pp. 48 ss.) su Leopardi «mente più dura e inflessibile» dell’Italia, e forse non solo, nel suo secolo, e così sul suo odio per la conversazione e insieme sul suo amore per un’attività, a Dio piacendo, inutile, e quindi desiderabile, in mezzo al frastuono dell’utile, come ciò che non ha «né ragione né scopo» (e sarà un irredimibile motivo di contrasto, a parte la cortese forma amicale, con Vieusseux; si tratta di una delle contraddizioni, qui spiegate benissimo, che affascinano in Leopardi: più ancora questo varrà per la contraddizione tra il pensatore analitico e la mente capace di sistematicità generalizzante, tra l’occhio “microscopico” alla John Locke e il valore del “sistema”, appunto, sviluppo di una serie di doti che in Giacomo s’affermano sin da fanciullo, e non sarà nimia praecocitas; e di nuovo la contraddizione, «strada suprema per giungere alla verità», scrive splendidamente Citati, condurrà alla messa in dubbio, alla crisi del “sistema”); ancora, a p. 57, il paragone con Rousseau, con la lettura considerata quale atto fondamentale della vita, con l’identificazione d’alto livello con i personaggi delle opere greche e romane, con la passione per Plutarco, per Luciano (ma anche per Fontenelle), con la lettura non “base”, ma termine identificativo della scrittura, se è vero che pieghevolezza, mimetismo, assuefazione allo stile dell’autore studiato sono consustanziali alla composizione d’un’opera che voglia rispecchiare le virtù dell’autore stesso; nel medesimo modo, è spiegato con fascino affabulatorio il talento contraddittoriamente, e quindi fecondamente creativo di Leopardi nel concepire i progetti delle proprie opere, e vi si allude, concetto che ritornerà sino alla fine della sua vicenda umana e letteraria, al senso di infinito, di incompiuto, di «saggio», o di «saggi», e di «relitto» da un insieme più grande, che sembra segnare un’opera, come la sua, assimilabile a quella di molti grandi moderni: «Senza saperlo, Leopardi parlava di Flaubert, di Kafka, di Musil, di Gadda». Leopardi, dirà d’altronde Citati nella ricordata intervista, «è fuori dal tempo e quindi ha potuto conoscere tutti i tempi. L’Italia non ha mai più prodotto nessun altro grande moderno. Del resto sono pochi i grandissimi moderni: Nietzsche, Baudelaire, Leopardi», moderni in senso antimoderno, perché, ancora a dire dell’autore, «Altrimenti sarebbero degli sciocchi progressisti». Tutte da affidare al lettore le pagine (121-141) sulle passioni amorose di Leopardi, dall’intensissima scoperta del sentimento nei confronti di Gertrude Cassi Lazzeri (le Memorie del primo amore, nella loro capacità di sdoppiamento, «sono il più bel testo analitico di Leopardi, e forse il più bello della letteratura italiana», p. 126), all’amore “di sogno” per Benedetta Brini, fino a Alla sua Donna, del 1823, in cui le belle
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pagine di Citati (137-141) si soffermano sulla «donna che non c’è», sulla poesia scritta non con il cuore ma con il telescopio, con la necessaria distanza, con la necessaria freddezza di sguardo, una poesia preceduta, nell’analisi di Citati, da una pronuncia epistolare romanesque-nervaliana a Jacopssen; dietro le quinte, ancora Rousseau, soprattutto la Nouvelle Heloïse, come accade, più esplicitamente, a Goethe (nel Werther, nei Wilhelm Meisters Lehrjahre), a Chateaubriand, allo stesso Nerval, e come accadrà a Baudelaire: l’amore assoluto, per una donna assoluta, soprattutto madre, che «non si può possedere, a meno di peccare d’incesto» (p. 129; ma non siamo neppure certi che Leopardi abbia letto la copia presente nella biblioteca di casa). Il materialista si perde nell’infinito, o nell’indefinito; e cresce la presenza di Platone (siamo nel 1823), in specie del Fedro e del Simposio; qui il dato assume basi documentali. Dal volume di Citati risulta, finalmente, del tutto sfatata, sempre in nome d’una spiegazione che risiede nell’empito rousseauiano e nella sua fortuna nel primo Ottocento e anche oltre, l’illazione d’omosessualità che si evincerebbe da certi specimina epistolari con Giordani e con Ranieri: nulla di concreto vi fu, al di là d’una rousseauiana, anche in questo caso, confluenza-osmosi d’amore e di amicizia. I due termini, insomma, in determinate pronunce enfatiche dell’Ottocento, si identificano: ma è amicizia e non altro, nei nostri termini, quella di Giacomo con il Piacentino e con il Napoletano. Eros, figlio di Penia e mendico, non va confuso, o non direttamente, con il sesso. Ugualmente efficaci e ben delineate sono le pagine sulle figure femminili bolognesi: Marianna Brighenti, Adelaide Tommasini Maestri, Teresa Carniani Malvezzi, ma anche, destinataria di affettuoso abbraccio, l’ex domestica Angelina Iobbi Parmigiani. Il filo rosso rappresentato dalle fertili contraddizioni all’interno del pensiero, dell’estetica e dell’opera di Leopardi ha in capitoli come quelli dedicati al Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica e a La Natura, la Ragione, la Felicità due dei più significativi passaggi; nel primo di questi capitoli, Citati definisce bene, e riprende con prosa di saggista, la connotazione concernente «il vago, l’indefinito, l’estasi infantile, il brillio e la stravaganza del romanzesco, l’ondeggiamento della frase» (p. 144) nel periodare di Leopardi; in questo «testo straordinario» (p. 146), in cui il poeta moderno recupera sull’ammiratissimo poeta antico il vantaggio del lontano nel sentimento delle «idee primitive della natura» (p. 150), forte delle «qualità del poeta classico, come le descriveva Platone» – qualità di radice sia apollinea sia dionisiaca, e non solo –, «Invece di esaltare il poeta antico, Leopardi annunciava ed esaltava il poeta moderno, forse superiore a quell’antico che egli non era ancora diventato. Amava il fuoco, la furia, l’estasi, l’ammirazione contemplativa, la distanza, la naturalezza, la “sprezzatura”. I Canti sono tutti qui, in questa nuda enunciazione di qualità, e dopo un anno o due sarebbero diventati Alla luna, La sera del dì di festa, la canzone Ad Angelo Mai» (ibid.). Nel capitolo dedicato alla “triangolazione” Natura, Ragione, Felicità, Citati setaccia lo Zibaldone ritrovandovi un percorso verso l’utilizzazione «della filosofia moderna, dell’analitica, acutissima, negativa ragione moderna, per ritrovare l’occhio originario dell’uomo: distruggere per recuperare ciò che si vede al primo sguardo e si sente al primo tocco della mano; ritrovare, alla fine dei tempi, ciò IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
che è “nudo e aperto”, vedere tutto senza vedere»; «utilizzando e distruggendo le torture della ragione analitica, egli sarebbe tornato a vedere la natura senza veli, “nuda ed aperta”: Il risorgimento, A Silvia, Le ricordanze, Il Sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia» (pp. 167-168). Proprio il Canto notturno si pone al punto estremo della “poetica della luna“. Nel capitolo intitolato La luna e il sole (pp. 96-120), dopo aver ripercorso i miti selenici incentrati sulla fluidità, sulla mobilità, sulla forza delle maree, sulla dinamicità trascorrente e quasi acquatica, ammorbidita e femminile della sorella rispetto al fratello Elios e alla sua vampa disseccante e irraggiante tramite il calore che tutto prosciuga, e dopo avere ricordato l’immenso patrimonio della riflessione dedicata dalla cultura classica e, con altre coordinate, dalla cultura cristiana antica agli stessi miti della luna (dal Tolomeo del Tetrabiblos al Plutarco del de facie e del de Iside, dal Cicerone del de natura deorum al Plinio della Naturalis Historia, al Seneca di Medea, al Gellio delle Noctes Atticae, dall’Apuleio delle Metamorphoses al Macrobio dei Saturnalia e dei Commentarii in Somnium Scipionis, agli Hexaemeron di Basilio, di Ambrogio e di Anastasio Sinaita) e al loro influsso sulle cose della terra5, Citati individua nel concetto leopardiano di «luna» il ribaltamento in chiave di freddo albore, di verginità, di indifferente incolumità, di distacco e di sovrana e tacita alienità dal mondo (non solo quello dell’uomo), della funzione che la stessa luna viene ad assumere rispetto ai miti della fecondità, del movimento operato su alcuni aspetti della vita di uomini, animali e piante, della liquida disponibilità, rugiadosa ed eloquente di significati sul mondo della terra, che Selene ha per lungo tratto della storia umana rappresentato in modi insieme misteriosi e intriganti, di vicinanza indecifrabile, di lontananza seducente: La cosmologia lunare di Leopardi è quasi l’esatto capovolgimento e rovesciamento della teologia lunare classico-cristiana […]. Quasi tutto quello che abbiamo visto scompare. Non c’è più, in Leopardi, l’immensa forza fecondatrice del’umidità e della rugiada: non c’è rapporto con le maree, e le crescite e decrescite del nostro mondo. Scompare la mutabilità: la luna non ha cicli, né superfici diverse; non conosce le sfumature dell’iride, il ceruleo o il bluastro o il colore del vino o il verde o le macchie. È sempre candida, argentea, bianca, canuta, perché sta al di sopra o al di fuori del gioco dei colori che varia e allieta la terra. / La luna non ha molti nomi, come nell’antichità classica, ma è sempre e soltanto la luna – la graziosa, la diletta, la cara, la tacita, la silenziosa, la vergine, la intatta luna. Non è la chiave della simpatia universale, e delle mediazioni e delle relazioni che stringono tra loro il nostro universo. E soprattutto non ha alcuna attività o funzione erotica. La luna è vergine; il suo raggio è verecondo. Tutto ciò almeno sino al Tramonto della luna, dove Leopardi, sul punto di morire, mutò la sua idea del cosmo (pp. 106-107).
È questa, forse, la ricognizione più densa di novità effettuata da Citati riguardo al concetto-visione della luna come muta interlocutrice del poeta; Leopardi, da parte sua, consapevole dei suddetti miti, esercita in tal senso l’arte dell’occultamento e dell’omissione. Dalla riflessione di Citati può provenire una prospettiva di ricaduta delle
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sue ricognizioni classico-cristiane sulle singole liriche di Leopardi (e sono molte) che trattano della luna: Alla luna, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Bruto minore, Alla Primavera, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi, Al Conte Carlo Pepoli, Il risorgimento, Il sabato del villaggio, lo stesso Canto notturno, Il tramonto della luna. Ma sono proprio poche, in verità, su questo tema, le opportunità di lettura diretta dei canti leopardiani che provengono dalle pagine del saggista. Si devono in tal senso utilizzare “le quinte” dietro le poesie; anzi, le quinte capovolte al ruolo di sponda contrappositiva della nuova caratterizzazione algido-candida, immacolata esattamente in senso antireligioso, che Leopardi attribuisce nel tempo alla bellezza azzurro-nivale dell’altera peregrina silente, eterna come il suo passaggio assolutamente taciturno in ogni latitudine del nostro cielo, nella sua sublime autosufficienza priva di qualunque senso; eterna, e quindi eternamente priva di senso, a fattore moltiplicante di tale mancanza, di tale antiprovvidenzialismo, che non può godere scrittura epica né può fruire di dramma o tragedia, ma soltanto di scrittura lirica. Sono, semmai, alcune poesie oggetto di scelta da parte del saggista a poter essere addotte ad esempi di analisi ravvicinata. L’infinito, ad esempio, rivendica, in Citati, la consueta premessa della rêverie rousseauiana (concepita come abbandono alle sensazioni delle rive solitarie, dell’acqua, del “sonoro” della natura, elementi che sostituiscono, cacciandolo dall’anima, ogni altro movimento), per acquisire Leopardi alla dimensione del pensiero creatore (il valore di fingo), della percezione con occhi vuoti e ciechi, dell’abolizione di qualsiasi realtà esterna ad autodivieto di ogni fantasticheria aperta «agli spettacoli dell’indefinito»: «l’infinito» è un’altra cosa, e l’«indefinito», da parte sua, campeggerà vastamente nei successivi sviluppi della poetica leopardiana. La possibile sollecitazione costituita dalle stelle, dallo spettacolo celeste o dall’intuizione di altri mondi nel cosmo, viene completamente tacitata ed eliminata «per cogliere una goccia pura di infinito», nello sgomento e nel deserto d’un assoluto vuoto, d’un’assoluta immobilità, d’un immenso silenzio che racchiude l’atomo nella sua totale solitudine, sotto quel cielo che sente l’assenza paurosa di Dio e che già intimorì Pascal, e così Rousseau e il Foscolo dell’Ortis. Il v. 8, con la presenza del vento e con l’interruzione di quel momento supremamente concentrato, riporterebbe l’attenzione – perduto e slontanato nel ricordo quell’attimo irrevocabile di «infinito» – sull’«indefinito», su fenomeni reali che conducono all’intreccio delle dimensioni del pensiero e del tempo, sino al «naufragar» e al “mare-immensità” (immensità vince variantisticamente d’un’incollatura su infinità), segnato dal ritorno del dimostrativo «questa /questo», che sarebbe appunto segno del rientro nella dimensione ardua ma possibile dell’«indefinito». A noi sembra che proprio la natura di ἅπαξ nei Canti di «s’annega» e «naufragar» (termini della mistica cristiana e islamica, ma mistica delle vita interiore e non di Dio, a sanzione d’un’esperienza intellettuale d’eccezione), introdotta in modo del tutto necessario da «E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando» (vv. 8-11), guadagni alla poetica e alla dimensione mentale del «questo» esattamente l’infinito (il citato ballottaggio variantistico con infinità è fortemente significativo e raggiunge i tempi estremi di revisione della lirica), ora acquisito all’“al di qua” della siepe, perché quel momento è IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
stato, nel giro di questa lirica, fecondo, e non annullabile o irripetibile: «Così tra questa / Immensità […]», proprio «così» e grazie alla circolazione delle dimensioni temporali e mentali, può operarsi l’approdo dell’infinito (del pensiero, della mente, dell’individuo solo nel cosmo) nel “vicino”, nel volo di ritorno, nella possibilità del dolce naufragio. È proprio il «vento» a favorire e a generare, non ad interrompere la concentrazione del poeta: «E come il vento / Odo… »: simulac, non appena, sùbito, e quindi proprio per questo, immediatamente post hoc, ergo propter hoc; e l’«E», lontana, secondo noi, dal “ricoprire” una sorta di salto logico-musicale non altrimenti celabile, mirabilmente coniuga la continuità dei due momenti della poesia nella liquida, aerea linearità della coordinazione, del legame più semplice tra movimenti linguistici, quando composti da un poeta mai come qui sicuro di sé, pur se disponibile ad acquisti variantistici propri di altre sue epoche “storiche”, biografiche e artistiche. I dati sin qui forniti ci appaiono sufficienti a individuare caratteri, pregi di concetto e di stile, discutibilità dell’opera di Citati. Ci limiteremo, da qui in avanti, alla focalizzazione di alcuni punti critici in un percorso leopardiano che già per proprio svolgimento e per propria scelta è orientato su una serie di passaggi selettivi anche nell’àmbito della produzione più celebre del Recanatese. Si prenda il capitolo sulle Operette morali; il saggista è, certo, bravissimo nel sottolineare la «grandiosa convinzione copernicana» alla quale fan da riscontro uomini attestati su un ridicolo antropocentrismo, e lo è altresì nel ricordare la varietà di toni e di forme esperiti da Leopardi nel suo «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici» che è in realtà assai di più: «il metafisico, il volgare unito al metafisico, il lucianesco, il fantastico-ironico, la farsa, la commedia dell’arte, il patetico, il tragico, il nichilistico, l’assurdo, lo scherno, il disprezzo, l’ilare, l’aereo, il lirico, il sublime, il matematico, il funambolico; e, come diceva Giorgio Manganelli, la disperazione che diventa esattezza e pura gioia intellettuale» (pp. 230 e 233); ma non si può a nostro avviso parlare del dialogo del Tasso (1-10 giugno 1824) come di «un’elegantissima variazione […], dove non c’è una minima traccia di quelle marmoree leggi naturali», riferita all’Islandese, composto dal 21 al 30 maggio; se le leggi enunciate nell’Islandese non sono state «dimenticate in pochissimi giorni», e ciò non è possibile, non ci sarebbe da concludere che «Leopardi cercava, provava in tutte le direzioni del cosmo mentale, seguendo ogni ipotesi che lo attraversava»; ora, a noi pare che la “coppia” TassoIslandese, posta a cronologia capovolta, non segni una scansione “marmoreità delle leggi naturali versus «vocalizzo» di leggerezza” a ristoro artistico di autore e lettore (natura aerea del Genio, liquore, dèmone platonico, ripresa d’animo finale). La stessa collocazione delle due operette, se così fosse, rispetterebbe semplicemente la cronologia compositiva; invece, nell’ordinamento di Leopardi, dal «vocalizzo» si passa alla nota bassa da Don Carlos o da Sparafucile, esattamente all’opposto; allora, forse non si tratta di vocalizzo, nel Tasso. Si tratta piuttosto d’una coppia straordinariamente ben assortita, che sulla base dello stesso dialogo e della focalizzazione dei concetti di illusione e di vero (non di «reale»), di bellezza, di piacere, di noia come concetti umani, sulla base della loro demistificazione e nel contempo della loro inevitabilità, prepara artisticamente al dialogo dell’Islandese, alla completa e totale demolizione del
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l’antropocentrismo che in tale operetta è realizzata. Ad esempio, la bellezza della donna, còlta nella sua natura di σιωπῶςα ἀπάτη (Teofrasto, in Zibaldone, 10 novembre 1820), di tacito inganno seduttivo in realtà fatto di «carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare» (Tasso), e fatto, altresì, di soggettiva responsabilità dell’uomo nel trasferire la positività dalla sfera estetica a quella morale, divarica l’immagine reale da quella sognata, rendendo preferibile il diletto del falso al piacere palesemente inferiore del vero; e se il piacere, “al quale” l’uomo nasce e vive, risiede quasi sempre nel sogno, ci si disporrà a vivere per sognare, ossia a «credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche», come accadrà alla donzelletta verso il futuro e alla vecchiarella à rebours verso il passato: «Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi». Il sognare e il fantasticare costituiscono il risvolto della concezione pessimistico-materialista, l’altra faccia dell’identica moneta, in un mondo e in una vita che oscillano tra il dolore e la noia, e proprio perché vi è una natura che non ha fatto lo stesso mondo «in servigio degli uomini», e piuttosto l’ha «fatto e ordinato espressamente per tormentarli», come si dice quasi a stretto giro di pagina nel libro delle Operette, da parte d’un Islandese che in carcere, anziché in un museo, sarebbe costretto allo stesso, solitario autodialogo sognante del Tasso. E il «vocalizzo» non così aereo e gaio del monologo liquoroso-nosocomiale di Torquato, se riveste sotto certi aspetti connotazione “leggera” e deliziosamente ironica, è, in termini shakespeariani, un Ariel che prepara Caliban nella scena successiva. Ma il ritorno di Prospero è consciamente di breve durata, perché in realtà è esattamente Prospero l’usurpatore, e lo scettro torna subito in mano al fratello realmente potente. Lo stesso Elogio degli uccelli non fa che rinviare alla profonda alienità malinconica dell’uomo da un mondo che non gli pertiene; l’uomo così ricorda esattamente che la sua natura non sarà mai come quella degli uccelli, i quali a loro volta fanno «continue testimonianze, ancorché false, della felicità delle cose»: le doti e la “felicità” degli uccelli costituiscono proprio ciò che gli uomini non avranno mai, in un vero canto dell’esclusione dalla felicità, in cui ogni elemento di elogio serve al proprio contrario, a rammentare il rovescio desolante della condizione umana. Gli abitati, i luoghi coltivati e civilizzati attraggono gli uccelli perché essi hanno fame; e quando, nel Passero, «contenti, a gara insieme / Per lo libero ciel fan mille giri, / Pur festeggiando il lor tempo migliore», soggetti alla natura e lucrezianamente appagati per questo, gli «altri augelli» non sono certo molto più felici del loro simile «solitario», dal quale li separa in origine, a schivo degli spassi, un mero grado di vitalità biologico-materiale; il «tempo migliore» è amara ironia allusiva al top della felicità concessa. Così, il «perpetuo circuito di produzione e distruzione» dell’Islandese non necessita, secondo noi, di essere chiosato come grande invenzione poetica nonostante «la mente che obbedisce alla ragione», nonostante il «potente spirito di sistema» di cui Leopardi per l’ennesima volta qui si rivela capace; la poesia di Leopardi, e in genere la sua espressione creativa, a noi appare la poesia di quel pensiero, desolata coscienza artistica, e dove ne è il caso lirica e versificata ed emotivamente inarcata, di quel circuito proIV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
duzione-distruzione, e del rapporto con il velo che noi o la natura stessa abbiamo posto a celarcene l’amara e trista coscienza. Né ci sembra condivisibile (p. 250) la ripetuta, potenziale definizione di “marmoreità”, di “lapidarietà”, di “ultima parola” sulla natura pronunciata da Leopardi con l’Islandese, salvo poi scoprire che il poeta-filosofo, Amelio maturato, “si sposta” da un’altra parte, si dirige liberamente in altri luoghi, e non è ingabbiabile; non è ingabbiabile perché è capace di essere se stesso («sé stesso» in Citati, come in Umberto Eco e in altri) in ogni luogo. I brani zibaldoniani ai quali si allude a p. 250 e nella nota di p. 429 non sono uno spostamento, bensì una conferma di quel concetto di mancanza assoluta di una volontà in e della natura, della mancanza in essa di fini, di intenzioni, di progetti, che è pienamente presente nel Dialogo; questa non è un’acquisizione di Zibaldone 4265-66, 4461-62 e degli altri brani ricordati, ma già dell’Islandese, il cui concetto non a caso conduce, nel pensiero del 56 aprile 1825, a rinunciare «in certo modo anche al principio di cognizione», al principio di non contraddizione di Aristotele, ricordato dallo stesso Citati: la «Contraddizione evidente e innegabile» si trova, né più né meno, nel dialogo di quell’Islandese che in nome della sua natura di vivente pone domande alla natura-esistenza, alla natura generale. Il Dialogo nutre lo Zibaldone in una ricaduta di pensiero che comprenderà anche le riflessioni del 1827; e se è vero che la natura è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, e tanto più se ha accidenti, deviazioni e trasformazioni che esulano, completamente così escludendone il concetto, dalla sua “volontà”, e se, inoltre, è vero che in essa non v’è sistema, non v’è calcolo, non v’è progetto, e v’è invece totale, cieca indifferenza rispetto a ciò che succede all’uomo, non credo si esca dalla lettura dell’Islandese con un’idea di marmoreità, di fissità aristotelico-scientificizzante, d’irreplicabilità di matrice razionalistica; se ne esce, semmai, e al contrario, con un’idea di perenne ciclo di trasformazione, di movimento, di dinamicità che dalla distruzione trapassa alla nuova produzione, con un consistente ammicco ad un metamorfico Hermes, non all’aristotelismo; è, certamente, una dinamicità sorda, «quel friggere vasto della materia / che discolora e muore» che sarà di Tramontana di Montale, un movimento cieco nei fini e provvisorio nelle cause, e tale che, mentre appare realmente difficile ad essere omologato, anche in ipotetica lettura, ad una “definitività” aristotelica, conferma, proprio per questo, la connotazione profondamente materialistica, mobile e sfacciatamente non antropocentrica, a suo modo rapida e trascorrente, buia ed alacre, flessibilmente agile e cinicamente oscura, pulsante e autodinamica, del meccanismo naturale nei riguardi nostri. Velocità di “procedure”, in molti casi, e ironia oggettiva sulla nostra sorte, non escludono, ma anzi spesso richiamano una concezione materialistica, assolutamente compatibile con l’Islandese, con il Tasso e con tutto lo sviluppo del pensiero di Leopardi a partire dalla concezione e dalla scrittura delle Operette; altrimenti, perché chiamare le illusioni con il loro nome (vario e declinato) nei Canti recanatesi ’28-’30, dopo aver comprato, con rinnovata consapevolezza, l’almanacco più bello al prezzo di Giuda, 30 soldi? Senza materialismo non vi sarebbe ironia, e non solo nelle Operette; e che materialismo, e quale coerenza di ateismo rispetto alle pronunce semplicemente anticlericali di Pietro Giordani; un materialismo a ricaduta plurima, a nota naturale e a bemolle, ora ad enunciazione
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ironico-asseverativa, ora a visione ironico-ribaltata nell’esordiale stupore delle “voci” di dialogo che ne esprimono con ineffabile leggerezza la schiacciante presenza senza ancora esprimerne la consapevolezza. E il bello è che se «il male è nell’ordine», come si dirà nel ’29 a far retrocedere a preciso bersaglio polemico non soltanto il Rousseau “politico” ma anche il Rousseau propriamente “filosofo” (il concetto di Leopardi diviene quindi l’esatto opposto di quello rousseauiano), questa acquisizione sul piano di una natura nemica e supremamente indifferente non allontana per nulla Platone dall’ispirazione artistica e dalla penna leopardiana; è anzi proprio in rapporto al materialismo, termine di genesi lineare della sperimentazione, dell’accertamento e dell’accettazione dello stato di souffrance mortificante, e spesso addirittura ridicolizzante, dell’umana figura e dell’umana fisicità, che si attiva il movimento scrittorio “semifilosofico”, per dirla con lo stesso Leopardi, della constatazione e dell’adattamento, della diagnosi e della convivenza con l’irrimediabile patologia, della deplorazione concettuale e dell’ibrida zona della rassegnazione – variamente espressa – che ha nell’ironia il proprio veicolo principe di pensiero, che ha nella leggerezza d’ideazione dialogica – e di fraseggio di voci – lo strumento collettore della voragine amara e trista, e nel contempo della sua parola, della sua canalizzazione linguistica ad unica risorsa, l’ironia appunto: non reazione, non rimedio, non insorgenza “secondaria” o ridevolmente consolatoria, ma suono stesso della voragine, rarefatto nel candore di molte delle voci dialoganti, nella limpidezza dell’invenzione fantastica, nel celeste silenzio di un cosmo situato sul bordo della voragine, una voragine al cui concetto si può arrivare meglio tramite un arpeggio a più voci e a diversificati e persino inizialmente disarmati gradi di consapevolezza, colloquiale, scientifica, filosofica. È proprio qui che s’innesta mirabilmente la lezione migliore che vi possa essere per la prosa leopardiana delle Operette, quella di Platone (ampiamente studiato da Giacomo, soprattutto su sollecitazione dello zio Antici), della sua ironia lirico-fantastica, di quel canto del cosmo che sintonizza con i cieli, con le stelle e con i pianeti, e giusto per questo contribuisce all’immagine della Terra, alla riflessione leopardiana sull’infelice pianeta che, visto ironicamente dall’alto, incrementa la propria primigenia connotazione, quella vera, anteriore e posteriore alla storia umana: la connotazione di tormentata crosta geologica, del tutto adiaforo se abitata o meno, se abitata da batteri cresciuti, e quindi tanto più batteri. I cieli per vedere meglio la Terra, l’ironia creativa e la visione uranica di Platone (felicemente innegabili, e come importanti, determinanti e presenti) a dare prospettiva e inimitabile e peculiare ariosità di dialogo a una disgraziata, metamorfica geologia sofferente e presuntuosa. Non può certo stupire se al materialismo leopardiano, nella sublime ironia delle Operette, serve più Platone di Aristotele, soprattutto – ma certo non solamente – sotto il profilo della rappresentazione e della scrittura; si tratta del volo del pensiero, veloce in ascesa e invece lento e sbigottito nella ricaduta sulla base del dialogo, nella scia d’un Hermes algidamente oscuro e irridente, indifferente e inafferrabile, a suo modo alare ed ilare, ma ostile e bieco verso di noi, e fosco di proteiforme, brusca, spedita autosufficienza rispetto a tutto il mondo terrestre, non solo quello umano. Un incanto quasi gulliveriano creato dall’irripetibile libertà fantastica di queste prose, purché se ne tengano presenti, ma IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
insieme, non necessariamente in chiave di contraddizione, tutti gli elementi che lo compongono: dall’incanto dei giganti Ercole e Atlante a quello dei folletti e degli gnomi, senza che un criterio di media plausibilità antropocentrica intervenga minimamente a dimensionare su una misura tolemaica un universo, ed una Terra, divenuti ormai “irrimediabilmente”, e drammaticamente, copernicani, a irrisione di tutti, compresi nani e giganti. È veramente tempo di lasciare al lettore le ricche e dense pagine di Citati; vi si ritroveranno fascinose aperture e richiami letterari alle opere leopardiane; vi si ritroveranno innumerevoli suggestioni di lettura, e presenze, ravvicinate o meno, di autori della tradizione classica e di autori più recenti: non stupisce nessuno il rammentare, anche così a volo, gli autentici giacimenti di lettura cui può attingere il saggista. Per scelta voluta, affidiamo direttamente il piacere di tali pagine ai loro naturali fruitori, e, in particolare, non aggiungiamo parola sulla presenza, senza contraddizioni, di Metastasio e di Rousseau in Il risorgimento («da questo incontro nacquero molti libri, e anche una poesia meravigliosa di Giacomo Leopardi, Il risorgimento», p. 335); non aggiungiamo parola su una Silvia che evoca la tradizione odissiaca di Calipso e di Circe, ciascuna con le proprie connotazioni, una tradizione rinnovata dalla Circe dell’Eneide virgiliana (più vicina al Leopardi lettore), e che evoca altresì il tópos iliadico dei guerrieri morti giovani, e il tópos dei morti giovani in genere, peraltro di lunga data nel poeta, e anch’esso riacceso emotivamente dall’Eurialo virgiliano; non la aggiungeremo neppure sulla mancanza, frutto – come si è detto – di scelta, della Quiete, del Sabato, di una parte della produzione “fiorentina” o immediatamente seguente, della Palinodia, e sulla latitanza citazionale quasi completa dei Paralipomeni. Ci limitiamo a rinviare a una necessità di maggiore riflessione, per noi lettori e fruitori, sul carattere epilogico del Tramonto della luna e su quell’immagine di sole che “di lucidi torrenti inonderà con voi gli eterei campi” come segno della fine della lunarità, della notte che pure sta per inghiottire il poeta ormai al termine della sua vita, a rappresentazione d’una luce della natura di cui forse Giacomo ha «taciuto e nascosto» (p. 412) il profondo desiderio, anche sul piano artistico-estetico: maggiore riflessione, si è detto, poiché tale concetto non appare a noi immediatamente sottoscrivibile. E, pur nel generale consenso alla ricognizione di lettura sulla Ginestra, devo dire che non mi sembra che «la parte più famosa», la lotta degli uomini «confederati», sia «la cosa più banale che Leopardi abbia mai scritto» (benché la frase di Citati sia espressa in modo opinativo; p. 406): Credo che sia l’unica cosa banale che Leopardi abbia mai scritto. Qualsiasi lotta degli uomini contro la natura produce soltanto quello che Goethe racconta, negli stessi anni, nel V atto del Faust II: spirito di possesso, avidità, violenza, tecnica magica, fuoco demoniaco – e la distruzione di ciò che, nella natura, è naturale: Filemone e Bauci, la piccola chiesa, i rintocchi serali della campana, il giardino paradisiaco, il vecchio Dio, i tigli oscuri, e il loro profumo, forse simile a quello dell’odorata ginestra (ibid.).
«[…] incontro a questa / Congiunta esser pensando, / Siccome è il vero, ed ordinata in pria / L’umana compagnia» significa contrastare il dominio della natura; non
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significa volerla dominare, ma, al contrario, cercare di difendersene: da questa esigenza di difesa, semplicemente, è nata la vita sociale, in una concezione che vede i primi movimenti dell’etica comune nelle origini ferine dell’umanità e nella necessità di fronteggiare un sistema che sin dall’epoca dei primi vagiti ci si mostra ostile («Congiunta […], Siccome è il vero, ed ordinata in pria»): la natura è assassina. E «ciò che, nella natura, è naturale», secondo le parole di Citati, non appare realmente essere tale, ma piuttosto una serie di elementi di un quadro idillico (pur sincero e di antica, ovidiana matrice nelle letture di Goethe) allestito a rampogna morale dell’ambizione faustiana di grandiosa ingegneria benefattrice: così le figure di Filemone e Bauci, altamente rappresentative della mitologia pagano-classica come “soccorritrici” e “ristoratrici” di Giove e di Mercurio – per premio, fra gli altri, la promozione della casetta a “tempietto” classico –, possono essere vicine alla chiesetta cristiana, a un giardinetto-paràdeisos multivalente, ad un tiglio la cui occorrenza, a ben vedere, percorre la cultura tedesca, per molte ragioni, come una costante (basti pensare al Tristano e Isotta di Wagner). Nel personaggio di Faust si esprime invece, in quel V atto, una volontà di dominio, di costruzione, di controllo, di totalizzazione realizzativa, pur se ispirata a criteri di positività in vista d’un’«ampia regione abitabile»; non a caso Goethe si interessava, proprio in quel periodo, di questa tipologia di lavori d’intrapresa, secondo notizie di attualità che provenivano dall’Europa e dall’America, e ne studiava i precedenti culturali nella tradizione storico-letteraria (le bonifiche di Giulio Cesare e dell’imperatore Probo, i Discorsi della vita sobria – 1588 – del doge Luigi Cornaro, i territori riguadagnati al mare dagli olandesi – si veda l’Oliver Goldsmith del Traveller – 1764 –, i lavori di Federico di Prussia): Quei vecchi là devono andarsene, desidero per mia sede i tigli. Quei pochi alberi non miei mi guastano il dominio del mondo. Voglio costruire là, di ramo in ramo, impalcature per guardare tutto all’intorno, per aprire, allo sguardo, ampio orizzonte, per vedere tutto quello che ho fatto, per abbracciare, con un solo colpo d’occhio, questo capolavoro dello spirito umano che, operando con abile ingegno, ha creato, per i popoli, un’ampia regione abitabile6.
Il concetto di dominio del mondo, pur significativamente temperato nella suddetta chiave goethiana, il desiderio di guardare «tutto», di contemplare l’orizzonte, la volontà di celebrazione “panoramica” dei frutti del «capolavoro» e dell’«ingegno», sono i più lontani che si possano pensare da un Leopardi che già nella Palinodia al marchese Gino Capponi ha espresso concetti del tutto opposti ed ha ampiamente avvertito ogni potenziale interlocutore del carattere grottesco, o tragigrottesco, dell’illusione trionfalistica riguardo alla tecnica e a progetti e a realizzazioni ispirati al dominio sulla natura e fidenti in una lotta eudemonistica agli ostacoli che la stessa natura frappone ai percorsi ambiziosi, alle oltranze superbe e audaci dell’uomo; non v’è infatti tra queste “conquiste”, tra queste pretese vittorie sulle leggi di natura, una sola realizzazione che non comporti pericolo, che non sia in sé rischiosa e che non minacci un possibile fallimento, come Leopardi esprime in una satira amara fino agli orli del calice. Si tratta d’una moltiplicazione di pericolo e dei pericoli; il contrario, IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
insomma, di quello che gli spagnoli chiamerebbero il descanso del peligro, la lotta per evitare il più possibile i pericoli, non la lotta per procurarsene di nuovi e di peggiori; dall’illusione direttamente evocata (vv. 26-32): «Né men conobbi ancor gli studi e l’opre / Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto / Saver del secol mio. Né vidi meno / Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo, / E da Boston a Goa, correr dell’alma / Felicità su l’orme a gara ansando / Regni, imperi e ducati», all’allusione al paese industrializzato per eccellenza, l’Inghilterra (vv. 83-84), «non Anglia tutta / Con le macchine sue», a una vera capacità di preconizzare le arditezze di trasporto Calais-Manica-Londra e oltre: Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, Da Londra a Liverpool, rapido tanto Sarà, quant’altri immaginar non osa, Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie Vie del Tamigi fia dischiuso il varco, Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso Dovea, già son molt’anni (122-128).
Ma «La natura crudel, fanciullo invitto, / Il suo capriccio adempie, e senza posa / Distruggendo e formando si trastulla», piccolo Hermes ludico e letale, divertito e indifferente: E indarno a preservar se stesso ed altro Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa Eternamente, il mortal seme accorre Mille virtudi oprando in mille guise Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta, La natura crudel, fanciullo invitto, Il suo capriccio adempie, e senza posa Distruggendo e formando si trastulla. Indi varia, infinita una famiglia Di mali immedicabili e di pene Preme il fragil mortale, a perir fatto Irreparabilmente: indi una forza Ostil, distruggitrice, e dentro il fere E di fuor da ogni lato, assidua, intenta Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca, Essa indefatigata; insin ch’ei giace Alfin dall’empia madre oppresso e spento (165-181).
Come si fa a pensare che Leopardi, pure in un’eventuale “frase infelice” o «banale» come – secondo il saggista – quella dei «confederati», possa lasciar sfuggire l’idea di un potenziale slittamento dei motivi d’opposizione alla natura, della lotta «contro», nel profilo dell’intervento attivo, di un “attacco originariamente a fin di bene”, se quasi tutta la produzione leopardiana, diciamo degli anni ’30, già ha ampiamente recitato – come si diceva – concetti opposti, esattamente bersagliando, sin dall’epoca
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del rapporto con Vieusseux, il côté dell’iniziativa, dell’intrapresa, della fiducia tecnicoscientista segnata dall’eudemonismo spiritualistico e / o dall’eudemonismo laico, immanente, borghese, dell’illusione “costruttiva”? Il «preservar se stesso ed altro / Dal gioco reo» (Palinodia) è vano perché, in quel testo, esso non è affatto una mera operazione difensiva, bensì contiene, come si è visto, arditezza di progetti e non piccole speranze: Leopardi fa invece capire che l’iniziativa è della natura, del crudele fanciullo-natura. Un’iniziativa che ammette in pieno il suo costruire per poi distruggere, ma anche per costruire nuovamente, tanto da lasciare quasi una prevalenza alle espressioni riferite alle opere, all’iniziativa appunto, ad una ratio aedificandi a noi per sempre «chiusa», ma che ricomincerà subito dopo l’inevitabile distruzione («nuovo lavorio», «ogni opra sua», «alto artificio», «Distruggendo e formando», con l’ultimo gerundio a strisciare dominante nell’orecchio del lettore); quindi, grottesca illusione umana è quella di competere con la natura sul suo stesso piano, nel suo stesso campo, con il suo stesso tipo di “gioco”: competere, insomma, sul piano dell’“iniziativa”. La critica di Leopardi si incentra proprio sullo sforzo di costruzione, di intervento, di modifica, d’illusione di positività; non appare credibile che il potere della contraddizione filosofica e lirica, ben valorizzato altrove dal saggista, giunga ad una smentita così frontalmente diretta a lineare sconfessione dei concetti sostenuti e poeticamente cantati per quasi un decennio. È indiscutibilmente la natura ad avere l’iniziativa, con il vantaggio dell’imprevedibilità; all’uomo, certo senza illusione, e proprio per questo con maggiore e disperato impegno, non rimane che la difesa, un tipo di “gioco”, per rimanere nella metafora antagonistica, qualitativamente diverso da quello del crudele fanciullo distruttore e ricostruttore; un gioco consapevole della propria partita, perdente senza colpa degli sconfitti, un gioco non teso a segnare alcun punto in chiave offensiva e non mosso da alcuna ambizione faustiana, e spinto dallo stesso bisogno e dalla solidarietà umana a cercare una limitazione dei danni, un punteggio sicuramente al passivo ma meno severo, una dilazione del tempo inevitabile della “retrocessione”, e un modesto, dolce miglioramento, umile ma non umiliato, del pensoso tempo dell’attesa. È l’«orror», un terrore-sgomento nei riguardi dell’empia matrigna e dei suoi “attacchi”, dei suoi “tiri” nella nostra porta, a suscitare la “barriera” della «social catena»: quali concetti più “difensivi”, e giustamente terrorizzati di questi? Si potrebbe immaginare una lontananza maggiore dallo spirito faustiano? «Cinto d’oste contraria, in sul più vivo / Incalzar degli assalti», quindi in difesa, l’uomo lo è sempre; gli elementi nuovi portati dalla frase dei «confederati», che per noi rimane intatta nel suo grande significato, sono moltissimi, ma qui ne individuerei soprattutto due: la rimozione degli «odii», delle «ire fraterne», delle «acerbe gare […] con gli amici», nell’unità solidale di tutti gli uomini («L’umana compagnia», «Tutti fra sé…», «tutti abbraccia», la «guerra comune»), e la necessità di rimozione della religione («altra radice / Avranno allor che non superbe fole»), di quelle «superbe fole» appunto che svolgono funzione opposta a quella del fiore di ginestra, della sua laica umiltà gentile e soavemente profumata. Sono questi i due elementi che forniscono sostanza, e senso, alla guerra comune di difesa, di limitazione del danno, di precisa individuazione della nemica, di rinuncia totale ad ogni presunzione: «Sta IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
natura ognor verde», «ignara» dei nostri libri di storia, di scienza, di tecnica, di teologia. Mai, credo, «verde» è stato usato in modo così terrificante, imperturbabile e autosufficiente; «verde» non ha qui alcun elemento di conforto, di idillio, di prospettiva; gli aggettivi «tremendo» e «terribile», che si sprecano nel testo di Citati a intensificazione concettuale o emotiva del dettato saggistico e della scansione biografica, li vorremmo usati per questo «verde» mortale della mortale nemica, da cui difendersi senza pretese di attiva modifica, senza ambizioni prometeico-faustiane che dai testi leopardiani non ci sembrano evocabili neanche per indiretta e involontaria deriva. Tornano validi, a nostro parere, i concetti a suo tempo espressi da Sebastiano Timpanaro sull’esigenza, riaffermata in La Ginestra, di un «illuminismo per tutti» e di un «ateismo per tutti» (potenziale foriero, quest’ultimo, di una liberazione di energie a vantaggio di una visione rischiarata, a sgombro da ostacoli e da sgambetti autodivinizzanti e spiritualistici: «Che te signora e fine / Credi tu data al Tutto»; « Così ti spiacque il vero / Dell’aspra sorte e del depresso loco / Che natura ci diè. Per questo il tergo / Vigliaccamente rivolgesti al lume / Che il fe’ palese»; «Non ha natura al seme / Dell’uom più stima o cura / Che alla formica»): «stolto, / Quel che nato a perir, nutrito in pene, / Dice, a goder son fatto, / E di fetido orgoglio / Empie le carte, eccelsi fati e nove / Felicità, quali il ciel tutto ignora, / Non pur quest’orbe, promettendo in terra […]»7. La chiave di lettura proponibile dell’opera di Citati ci sembra quella che abbiamo indicato all’inizio: si tratta della prosa di un grande, e giustamente celebrato saggista, e come alta prosa saggistica il volume va degustato. Ne fruisca il lettore con attenzione.
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NOTE PIETRO CITATI, Leopardi, Milano, Mondadori (Collezione «Saggi»), 2010. Cfr. FRANCESCO MORONCINI, Discorso proemiale, in Opere minori approvate da Giacomo Leopardi, 2 voll., ed. crit. a c. di F. Moroncini, I, pp. VII-CV, in part. pp. LXXXIV-LXXXVI e XC. Cfr. specificamente la n. 1 (pp. LXXXIV-LXXXV): «È pochissimo noto l’influsso di Carlo Antici sull’attività letteraria di G.[iacomo]. […]. Basterà qui dire che l’Antici, fin dal settembre ’14, cioè dopo il primo e promettente saggio sul Porfirio, si fece a consigliarlo di non pensare all’ebraico e a scriver libri, di non disseccare la fantasia e il cuore nelle ricerche de’ codici e nelle rettificazioni dei testi, insomma nella sterile e facchinesca Filologia, che lo avrebbe fatto impallidire nelle biblioteche con poco profitto dell’umanità e suo; ma invece, di farsi totalmente padrone della lingua ‘greca’, e diventare esimio scrittore e parlatore nella lingua ‘latina’, e a tal uopo leggendo e rileggendo i migliori classici dell’uno e dell’altro idioma. Insieme col gusto degli scrittori ‘classici’ gl’insinuò quello delle ‘sacre’ carte, che, data la vocazione di lui al sacerdozio, lo avrebbe posto sulla strada dei più alti onori e della vera grandezza, a pro della Religione e dello Stato. E il 9 febbraio ’16 gli consiglia, come consentaneo alla sublime vocazione di lui, di farsi conoscere al mondo con una raccolta, o intera o scelta, delle Omelie di S. Giov. Crisostomo, e degli opuscoli morali di quello o di altri padri Greci tersamente tradotti in italiano e dottamente commentati. Il 25 febbraio ’17 chiede quando G. si risolverà al grandioso lavoro, per lui adattato e gradevole, e a tutti gl’italiani pensanti accettissimo, di una compiuta traduzione dell’Odissea, e altra di Platone, arricchita quest’ultima da quelle dilucidazioni che tanto sono necessarie al lettore. Questo ripete il 20 marzo, a proposito della traduzione fatta da G. del secondo dell’Eneide e della Batracomiomachia. E il 1° aprile ’18 esorta G. a lasciare ogni altra occupazione letteraria per darsi a una magistrale traduzione dell’Odissea; aggiungendo che il Pope, lo Stolberg e il Monti s’eran resi celebri più con le loro traduzioni classiche, che con tante altre loro opere. Ma sulla traduzione di Platone insiste più che mai; dicendo (13 maggio ’20) che, se G. è avido di gloria letteraria, con questa traduzione se la farà grandissima; oltre di che (aggiunge in un orecchio a Monaldo) ciò potrà occuparlo utilmente per più anni, distruggendo «le sue inadequate idee». E quando G. si recò la prima volta a Roma ospite dello zio, questi dovette più volte tornare alla carica per la traduzione di Platone; e pare che fosse riuscito a invogliarnelo, anche in vista di un buon guadagno; come proverebbero le trattative poco dopo iniziate da G. per il Platone con il De Romanis […]. Le quali trattative se sfumarono […] ebbero tuttavia per effetto le varie notulae in Platonem che G. cominciò a scrivere e che ci rimangono. – L’Antici avrebbe voluto che G. lasciasse l’intensa occupazione delle b e l l e Lettere, per applicarsi alle ‘buone’ Lettere; che scendesse dalle vette del Parnaso per occuparsi di ciò che muove gli uomini su questa terra, leggendo sui pubblici fogli i fatti contemporanei; giacché poco o nulla gli gioverebbe conoscere tante quisquilie dell’antichità, non sapendo la situazione de’ contemporanei e le operazioni dei diversi governi. E quindi insiste con Monaldo per far venire a G. il gusto degli studi di legislazione e pubblica economia, i quali vogliono come appoggio la ‘storia’ e la ‘filosofia morale’, offrendo così un vasto campo di meditazioni alla cupidità letteraria del giovane nipote. Ora tutto ciò non fu senza effetto; ché G., come già prima aveva seguìto i suggerimenti dello zio in parecchi de’ suoi lavori filologici, così anche ora ascoltandone i consigli, mise per un lungo spazio da parte la poesia, e si diede a quelle meditazioni abilmente insinuategli, che indi a non molto dovean produrre le Operette morali, e i volgarizzamenti de’ Moralisti greci. E quando, parecchi anni dopo, nel gennaio ’27, G. erasi mostrato “disposto a vedere il mondo con occhio assai diverso da quello, con cui lo vedeva prima di conoscerlo”, l’affezionato zio, profittando della di lui “vista schiarita”, torna ad esortarlo di eseguire il disegno, già concepito, di darci “in quel bello italiano, ch’Egli superlativamente maneggia, le ‘opere scelte di Platone’”. Anche quest’insistenza produsse un piccolo effetto, e avrebbe potuto produrne uno assai maggiore, se le circostanze non si fossero opposte […]». E ancora, pp. LXXXV-LXXXVII: «[…] anche per contentare lo zio Antici e il Bunsen, che a simili traduzioni lo avevano incoraggiato, come il 15 gennaio ’25 aveva già annunziato allo zio Antici di venire ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette morali scelte da autori greci dei più classici; così il 5 marzo gli specifica che “un mese addietro” s’era dato a tradurre “le tre Parenesi ossia ragionamenti morali d’Isocrate, l’uno a Democrito, l’altro a Nicocle, il terzo intitolato il Nicocle. Mia intenzione era di tradurre in seguito il Gerone di Senofonte, il Gorgia di Platone… l’Orazione Aeropagitica dello stesso Isocrate; i Caratteri di Teofrasto; e forse qualcuno de’ dialoghi d’Eschine Socratico”». Segue, nella stessa, citata lettera, il passo, già richiamato, sul Platone «sceverato» dalla sua «eterna dialettica». «A questo disegno abbastanza ampio di traduzioni, causa la malferma salute, G. dové per buona parte rinunziare. Ma non in tutto; poiché dal 15 dicembre ’24 fino al 29 marzo ’25, 1 2
IV. IL LEOPARDI DI PIETRO CITATI
cioè poco dopo aver comunicato il suo disegno allo zio, egli aveva pur finito di tradurre le Operette morali d’Isocrate; e così il 21 ottobre ’25 poteva scrivere allo Stella: “Amerebbe ella che io mi occupassi di una collezione di operette morali di vari autori greci, volgarizzate nel miglior italiano ch’io sappia fare? Avrei già in pronto il primo tometto, se non che bisognerebbe copiarlo”. Il primo tometto doveva dunque contenere le Operette morali d’Isocrate. Il L. aggiungeva nella stessa lettera che avrebbero potuto far parte della collezione anche i Caratteri di Teofrasto, i Pensieri di M. Aurelio, e sopra tutto i Pensieri di Platone. Se non che queste ultime tre opere, forse perché richiedevan troppo tempo e troppa fatica, furono poste da parte; e invece di esse il L. si diede subito, nello scorcio del ’25, a tradurre l’Epitteto, che pur non rientrando nel primitivo disegno, gli fu sempre assai caro, e che poi G., invertendo l’ordine, propose allo Stella come facente parte del I volume, riservando al II l’Isocrate». 3 Ci permettiamo rammentare, qui, a mera citazione di servizio, il nostro Carlo Antici e l’ideologia della Restaurazione in Italia, Firenze, Fup, 2009. I giudizi espressi nel presente saggio sono concepiti in modo del tutto indipendente dai contenuti del suddetto volume. 4 C. PESTELLI, Il palio dei savi e dei normali, in «Studi italiani», XI, 21-22, 1-2 (gennaio-dicembre 1999), pp. 175-212. 5 A proposito di animali, di piante e di frutti che intensificano la propria vitalità con la luna crescente e che invece la vedono diminuire con la luna calante (le ostriche, i ricci di mare, anch’essi menzionati da Citati), ci permettiamo di ricordare che fra gli autori che popolano le ricche note finali del saggista vi sono anche riprese “interne”, citazioni da testi altrui; ad esempio Gellio (XX, VIII delle Noctes), dopo aver parlato della pupilla del gatto, grande o sottile secondo crescita-decrescita lunare (vd. Citati, p. 102), poggia tramite le parole del poeta Anniano sull’esplicita autorità di Plutarco per segnalare l’eccezione della cipolla – per questo empia presso i sacerdoti egizi – (Citati, p. 103): «“[…] Aelurorum quoque oculi in easdem vices lunae aut ampliores fiunt aut minores. Id etiam”, inquit, “multo mirandum est magis, quod apud Plutarchum legi: ”». Si potrebbe aggiungere che il «vegetale empio e assurdo», la cipolla, costituiva il cibo quotidiano delle masse di schiavi costruttori delle piramidi: la contaminazione dell’empietà non comportava, in quel caso, il minimo problema. 6 WOLFGANG GOETHE, Faust. Urfaust, Trad., introd. e note a cura di Giovanni V. Amoretti, 2 voll., Milano, Feltrinelli, 1965 (I ediz. Amoretti: Torino, Utet, 1950), II, pp. 611 e 780. Si notino, in particolare, gli accenni al «dominio del mondo» («Die wenig Bäume, nicht mein eigen, / Verderben mir den Weltbesitz») e al «capolavoro dello spirito umano» («Des Menschengeistes Meisterstück»), segno di volontà attiva di dominio, pur se costruttivo e in origine ispirato al bene, sul mondo e sulla natura. 7 Semmai, risulta convincente, e in modo non fortuito, il rinvio dello stesso Goethe all’episodio di Naboth iezraelita nel Libro dei Re: in quel caso, si tratta di una sorta di “piano regolatore”, di un progetto di acquisizione della vigna di un singolo proprietario che si trova «iuxta palatium Achab regis Samariae» («vicina est et prope domum meam»), a scopo di profitto, da «vinea» ad «hortus holerum», ad un diverso e più variegato modo di produzione. L’apparizione del profeta Elia farà tardivamente ravvedere Achab, dopo che la moglie del re ha provocato con un raggiro la lapidazione di Naboth; cfr. Liber Regum, III, 21, 1-3 (si tratta infatti, in realtà, del terzo libro dei re, secondo la vulgata clementina): «[…] tempore illo vinea erat Naboth iezraelithae, quae erat in Iezrahel iuxta palatium Achab regis Samariae. Locutus est ergo Achab ad Naboth dicens: Da mihi vineam tuam, ut faciam mihi hortum holerum, quia vicina est et prope domum meam; daboque tibi vineam meliorem, aut, si commodius tibi putas, argenti pretium, quantum digna est. Cui respondit Naboth: Propitius sit mihi Dominus, ne dem hereditatem patrum meorum tibi»; III, 21, 20: «Inveni, eo quod venundatus sis ut faceres malum in conspectu Domini». Di simili “piani regolatori”, a conquista di case o casette e non di vigne, a vantaggio di un potente, abbiamo esempi italiani ottocenteschi nel Verga del personaggio di curatolo Arcangelo in Don Licciu Papa (Novelle rusticane) e nel Luigi Capuana de Lo sciancato (Le paesane).
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V. Leopardi, la famiglia e il classicismo romagnolo-marchigiano
Pantaleo Palmieri è protagonista di una vicenda di studioso coerente e fedele, nel tempo, alla linea delle proprie indagini e della propria metodologia; l’elettivo (non esclusivo) àmbito leopardiano lo inserisce di fatto in un autentico, vasto mondo di studî e di studiosi, di tracciati scientifici e di linguaggi specialistici e non, di appuntamenti congressuali, di convegni, di conferenze, di discussioni, di trasmissione e di scambio di pensiero. La suddetta coerenza si esplica in tutta, si può dire, la sua produzione scientifica, nel suo nucleo geografico-operativo romagnolo (sul quale altra volta ci siamo soffermati), nel suo Dante, nella sua famiglia Leopardi, nello storico milieu classicistico romagnolo-marchigiano; né stupiscono la presenza di Carducci (“miglior leopardiano” di quanto per molto tempo si sia detto) e la collaborazione di Palmieri all’Edizione Nazionale delle Opere, né possono a loro volta stupire gli interessi rivolti a Dino Campana. In particolare, l’insistenza sul rinvenimento d’una linea affettiva padre-figlio nel rapporto Monaldo-Giacomo era già emersa in Occasioni romagnole, il volume edito da Mucchi nel 1994; ma in Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, del 2001, il volume che qui interessa, pur non costituendo l’unico tema, tale rapporto acquista singolare e originale risonanza, dilatandosi ad autentica linea interpretativa a sostegno di tutto un contributo di ridefinizione storiografica dell’ambiente di nascita, di educazione e di formazione del poeta. Più che di contrapposizione, di sfondo nero e pretesco sul quale si staglierebbe e contrariiis la luce intellettuale del figlio eroico, oppresso e ribelle, del negatore d’ogni teleologistico provvidenzialismo, dell’autore delle Operette morali, si tratta d’un’induzione contestuale e ambientale di cui Giacomo risente eccome, e non solo involontariamente; vi è, insomma, in lui, una parziale condivisione, sul piano antropologico, sul piano delle abitudini e della familiare confidenza, a livello di continuità di rapporto personale, di non intermessa linea affettiva, una condivisione, si diceva, degli stessi costumi familiari, di una fondamentale sincerità umana nel colloquio, d’una tradizione di “parole” che ammette l’apertura all’ironia e al sorriso, e che, nel caso delle relazioni epistolari con i fratelli (e pur con significative differenze nelle “combinazioni” bilaterali tra fratello e fratello), costituisce un vero e proprio “lessico familiare”: che è una connotazione comunque assai diversa dalla vulgata che vuole un Giacomo assolutamente solitario, e verificato, nella sua personalità, soltanto dalla negazione, dal rifiuto, dall’inappartenenza rispetto all’ambiente d’origine. Certo, Leopardi rimane eroico, e per conto nostro anche ribelle, né viene rigettata, da questo solco di studi, la portata della sua critica al mondo e alla religione, alla società e agli uomini; ma un notevole
contributo può provenire proprio dall’individuazione precisa della sua appartenenza a quel mondo, e diciamo pure a quelle persone: la sua scelta biografico-esistenziale, e soprattutto la sua filosofia, risulteranno, se non ci inganniamo, incertate, e meglio definite, da quello che si configura come un vero e complesso e contraddittorio legame con un ambiente reale in cui, nei modi ad esso peculiari, gli si voleva bene: non un’ottica di denegazione e d’annullamento dell’“antagonista”, del nemico, dell’avversario o del competitore, ma un’ottica che quello stesso antagonista recupera al suo effettivo ruolo, di padre (di questo spesso ci si scorda) e appunto d’esponente d’un mondo ideologicamente avverso a Leopardi figlio, di padre che ha opinioni e convinzioni radicalmente differenti da Giacomo, di padre che, in un certo senso, non ha previsto una simile e geniale evoluzione della sua progenie (e come avrebbe potuto, tanto più muovendo, o meglio non muovendosi affatto da quelle coordinate di Marca pontificia, classicistica in accezione tradizionalista e insieme clericalissima?). E veniamo direttamente al Leopardi di Palmieri. Il volume pubblicato dalla Società Editrice cesenate «Il Ponte Vecchio» raccoglie contributi editi e inediti; questo l’indice: I. La lingua degli affetti, articolato in tre paragrafi (Parole al padre; Lo scintillio del riso nella scrittura epistolare di Giacomo Leopardi; Affetti familiari nello specchio dello «Zibaldone»); II. Altri studi, a sua volta articolato in tre paragrafi («Non m’arrischio di scrivergli il primo»: Leopardi, Cassi, Perticari e la Scuola classica romagnola; Leopardi e Monti: la dedicatoria delle Canzoni del 1818; Le inchieste leopardiane di Augusto Campana); seguono l’Appendice (Monaldo Leopardi e l’intellettualità romagnola) e l’Indice dei nomi; la Premessa dell’autore è alle pp. 9-10. Tutti i contributi sono nati da partecipazione a convegni quali, nell’ordine, Lingua e stile di Giacomo Leopardi (I), Il Riso leopardiano. Comico, satira, parodia (II), Lo Zibaldone cento anni dopo. Composizione, edizione, temi (III), Le vie dorate e gli orti. Le Marche di Giacomo Leopardi (IV), la forlivese giornata di studi per l’uscita del secondo volume dell’edizione critica a cura di Arnaldo Bruni dell’Iliade montiana (V), le giornate cesenati in memoria di Augusto Campana (VI), Monaldo Leopardi politico e scrittore anticonformista (il saggio che compare nell’Appendice). La collana «Lyceum» («Saggi e studi di filosofia, storia e critica letteraria»), giunta qui al ventiseiesimo volume, accoglie finalmente un’opera del suo direttore. Subito appare il “timbro” di Palmieri nei primi saggi, nei quali il recupero ad un’almeno parziale positività della figura di Monaldo (e, in diversa chiave, dei fratelli) si impone, con tenace garbo di documentaria fondatezza, fino a reclamare una novità di posizione critico-storiografica che dovrà, a nostro avviso, essere sempre più considerata dalla comunità degli italianisti-leopardisti. Più che di antagonismo critico fra monaldisti e antimonaldisti, si tratterà di esaminare una vicenda complessa e composita di sentimenti intrecciati e talvolta altalenanti, differenziati, non unitarî, e men che mai monocordi. Ma certo non si potrà d’ora in avanti focalizzare l’attenzione sulla sola lettera della “fuga”; scaturisce infatti da queste pagine un quadro della famiglia Leopardi un po’ meno fosco e aggelante, sicuramente meno oppressivo e anomalo di quanto sostenuto da una lunghissima tradizione interpretativa e biografica. Pur essendo pochi e in sé ristretti, gli spiragli di luce si intravedono anche in casa
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Leopardi. E l’elemento che più convince risiede nel fatto che dagli studi di Palmieri non emerge un Monaldo “tradito” nella sua essenza, o assurto all’improvviso a una comprensione culturale, ideologica, intellettuale del figlio infelice e straordinario, poiché la distanza sul piano del pensiero e delle concezioni del mondo rimane e rimarrà abissale. Proprio da questi non marginali rilievi acquista risalto critico la fondamentale autonomia e, se possibile, l’ancor maggiore creatività dell’itinerario di Giacomo, che, così si evince da Palmieri, non necessita d’uno sfondo oscuro così negativo per spiccare antinomicamente il volo allontanandosi da tanto austero regime accademico e chiesastico. Si legga un brano dalla riflessione, avvalorata dall’età matura, di Zibaldone, 9 dicembre 1826: Tale [sempre modellato su opinioni e umori del padre] sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava della cosa; né più né meno come s’io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o veramente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benché non riflettuto, desiderio di tal rifugio.
E si vedano le considerazioni che Palmieri svolge, su queste espressioni dello Zibaldone e su altri, consimili concetti, enucleabili dall’epistolario, alle pp. 26 ss. Si tratta prevalentemente di lettere del periodo bolognese, ivi inserita la parentesi milanese (luglio 1825-novembre 1826); la «breve stagione di impegno socio-culturale» può anche vedere Leopardi scrivere «più per compiacere i suoi corrispondenti che per un impulso profondo del cuore e della fantasia» (E. BIGI, Le lettere del Leopardi, in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 191), ma tale giudizio, scrive Palmieri, non può realmente essere esteso alle lettere al padre. La stessa lettera della “fuga” non è certo aliena dalla presenza letteraria delle Canzoni (come delle letture wertheriane e ortisiane); nello stesso modo, la lettera da Firenze del 3 luglio 1832, celebre per il proposito lì espresso di non tornare più stabilmente a Recanati e per la richiesta d’un’assegnazione fissa di denaro, e notevole per la ripetuta occorrenza dei termini «vita» e «morte», nasce sotto la “costellazione” del Dialogo di Tristano e di un amico e della fine dell’esperienza fiorentina, del disinganno sul piano dell’amore, della cessazione della scrittura zibaldoniana. E abbiamo citato le lettere che più esplicitamente marcano il distacco di Giacomo dal sistema di casa Leopardi; non si possono, quindi, ritenere del tutto insincere le professioni affettive che percorrono molte lettere a Monaldo; si dovrà, anzi, riconsiderare buona parte dell’epistolario come un’espressione di vero e non affettato contatto con la realtà familiare: la realtà così com’essa è, oseremmo sottolineare, ovvero quella famiglia, ma famiglia, che la sorte ha riservato. Anche le lettere ai familiari scritte dopo il 1830, per quanto resesi più rare rispetto a precedenti periodi, si attestano su una cifra espressiva (e di contenuti) che nulla esclude della, per così dire, “polisincerità” di Leopardi. La ferma diplomazia, ben sottolineata da Palmieri riguardo V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
alla famosa smentita sui Dialoghetti monaldeschi, permette a Giacomo di difendere le proprie ragioni (quelle d’un dissenso ideologico profondo) e nel contempo di non offendere il padre, anzi di trattarlo con il rispetto dovuto; la lettera che concerne la soppressione della «Voce della Ragione» consente al figlio di polemizzare con i «legittimi» (i legittimisti) accomunando in qualche modo il padre alle vittime dell’occhiuta repressione. Rimane vero che alcune delle lettere dell’ultimo periodo non sono neppure scritte di propria mano da Leopardi, ma risultano dettate al Ranieri; ma è altrettanto certo che restano aperte alla discussione degli italianisti le ragioni critiche di Palmieri: si ricordino ancora in tal senso il rifiuto da parte di Giacomo d’ogni forma di coinvolgimento politico, e prima ancora il rigetto d’ogni adesione al gruppo dell’«Antologia» e al relativo lavoro, che secondo lo studioso possono esser fatti risalire alle radici monaldesche della sua formazione familiare e psicologica. Alcuni contributi, a composizione d’un interessante e preciso mosaico, provengono anche da Lo scintillio del riso nella scrittura epistolare di Giacomo Leopardi: d’uno scintillio appunto si tratta, secondo la bella immagine bergsoniana. E ancora una volta siamo a constatare la differenziazione dei registri, la stratificazione dell’espressività linguistica leopardiana a seconda dei destinatarî, siano essi i familiari o i conoscenti, i letterati, o altre categorie di corrispondenti. Non si dà nell’epistolario la presenza d’un riso esplicito, “grasso” o sguaiato, che meraviglierebbe in una personalità (linguistica, intendiamo, al di là della sfera psicologica) come quella di Giacomo; ma si dà l’emergere d’un riso sottile, ora amaro ora più disteso, ora sostenuto da una vena d’ironia satirico-rappresentativa, ora riposto nel calibrato ammicco alla semantica rodata d’un lessico familiare mai intermesso. Ancora «lessico familiare»: bisogna rassegnarsi all’idea, in sé apparentemente lapalissiana, che anche Leopardi ha una famiglia, e una famiglia che oltre tutto avrà in sorte di sopravvivergli; dei fratelli (ampiamente rappresentati nella trattazione di Palmieri), sono Carlo e Paolina a calamitare le maggiori attenzioni di destinatarî; di Monaldo si è in parte già detto; nella cerchia di parenti e conoscenti, spiccano le lettere al cugino Giuseppe Melchiorri, a quella complessa personalità rappresentata da Pietro Brighenti, all’amica Adelaide Maestri (si parla, ricordiamolo, delle sezioni dell’epistolario più aperte al sorriso, se non al “riso” professamente evocabile o intuibile); il lettore potrà così seguire la vicenda storica delle lettere a Paolina, che annoverano il giovanile ringraziamento per l’opera di copiatura del Compendio di logica (la posizione della sorella è quella, scherzosa e affettuosissima, del «donpaolato»), il racconto gustoso e caratterizzante di persone, personaggi e personcine incontrati nei varî ambienti non recanatesi che Leopardi via via frequenta, le confidenze e la fraterna “galanteria” che sempre accompagnano i modi allocutivi di Giacomo verso quella che è la più “protetta” (da lui) nell’àmbito dei suoi familiari: Prevale, insomma, nelle lettere a Paolina un gusto rappresentativo, che però è anche desiderio di distogliere l’attenzione dal destino di infelicità che li accomuna; in quelle a Carlo un bisogno autorappresentativo, e, si direbbe, nel gioco complesso della specularità, un bisogno di confermare la saldezza di un legame in nome di una comune pessimistica visione della vita e del mondo (p. 39).
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A Paolina sono destinate le uniche due lettere che contengano riferimenti alla deformità fisica (3 dicembre 1822 e 18 maggio 1830). A Pierfrancesco, minore di quindici anni, sono riservate da parte di Giacomo lettere da fratello affettuoso e sempre “tifoso” riguardo alle attività di «Pietruccio», fino al canonicato, del cui conseguimento Leopardi, qui nella pura veste di congiunto, non manca di complimentarsi. Il lettore potrà altresì seguire le “linee” epistolari avvertite da Leopardi più consone a ciascuno dei corrispondenti; a Melchiorri, per esempio, può riservare, protetto dal «legame di parentela aristocratica», confidenze di carattere privato, e perfino sul proprio modo di poetare, che egli non fa e mai farebbe ai proprî sodali di percorso letterario; in questo caso invece il poeta si sente libero dall’esigenza di costruzione intellettuale d’un’immagine di se stesso. Pietro Brighenti, titolare, per così esprimersi, d’un’amicizia bolognese che segna un periodo positivo nel sistema biografico e culturale leopardiano, è destinatario d’alcune missive (d’argomento simpaticamente gastronomico) che si attestano fra le più serene e scherzose dell’intero epistolario. Più vicine a un ironico sarcasmo, o a una vena polemica, o ad un’appropriazione personalizzata degli «stilemi» tradizionali del “giovane scrittore” in fase di presentazione al mondo letterario sono, da parte loro, le lettere, soprattutto giovanili, al Giordani, al Monti, all’Acerbi, e, in séguito, all’editore Stella e ad altri corrispondenti. E il lettore viene guidato fra i varî sentieri delle lettere leopardiane, ora miratamente citate nei brani di più diretto interesse, ora accennate ed evocate in una linea di ricostruzione concettuale senza aperte citazioni testuali, ora invece, in base a un metodo di integrazione dei procedimenti e delle modalità critiche, generosamente, e in qualche caso completamente riprodotte con indicazioni che giovano al fruitore e rivelano l’acribia filologica e lo scrupolo documentario d’un curatore al quale va riconosciuto lo zelo constativo e contestuale, linguistico e storico, nella produzione d’un materiale che forse mai potrà dirsi del tutto e in tutto esplorato. Forniamo in tal senso un significativo e forzatamente breve specimen riguardo alla lettera a Giuseppe Melchiorri, da Recanati, del 5 marzo 1824: L’aver reperito, nel Fondo Piancastelli della Biblioteca Comunale di Forlì, l’autografo di questa lettera ha consentito di correggere nell’edizione Flora, tra l’altro, «soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento» in «soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento di vena»: un restauro che mostra come Leopardi annettesse all’ambito dell’ispirazione anche il momento della rielaborazione stilisticolinguistica. F. D’Intino, Poesia e grammatica. Di alcune sviste leopardiane, su «Studi e problemi di critica testuale», 50, aprile 1995, pp. 53-61, trova qui la prova provata della sua felice intuizione che la rielaborazione di un testo è per Leopardi un «secondo, tormentoso momento della creazione» (p. 45, n. 22).
Felicissimi sono poi i ritratti, meritatamente famosi, del Cancellieri e di altri personaggi (soprattutto cardinali della curia romana) che hanno segnato, negativamente, la prima esperienza d’un Leopardi lontano dal paterno ostello, e anzi proiettato (ma a poco dire in chiave fortemente e consciamente critica) in una dimensione romana, in una metropoli non industriale ma pretesca, curiale, ecclesiastica, che porge tratti V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
insieme amari e caricaturali alla penna epistolare leopardiana, ma che riserva anche, e proprio per questo, una capitale delusione biografica e ideologica alla persona e all’intellettuale che lì scrive. Non si distacca dall’habitus di precisione, di profonda premura indagante, il paragrafo dedicato agli affetti familiari nello Zibaldone, un paragrafo che vede un’Adelaide Antici assunta ad un ruolo più importante, nella formazione psicologica della personalità di Giacomo, di quanto si sia pensato e scritto. Non si tratta soltanto d’un ruolo denegante, proibitorio, o censorio tout court, bensì d’un ruolo che, a suo modo ed esattamente grazie ai difetti, alle chiusure mentali d’una domina di palazzo che “organizza” fin i singoli dettagli della giornata secondo un plumbeo scadenzario catechistico, e in base ad una “quadratura” razionalistica (di razionalismo religioso) mai periclitante, si traduce in quella che per Giacomo sarà pur sempre una chiave di comportamento, ovvero in quella precisa e acuminata disposizione filologica, sceverante, analitica, che connoterà il Leopardi scrutatore e revisore e restauratore di testi, insomma in quella serie di caratteristiche che lo stesso Leopardi, sviluppandole in personalissima chiave, deriverà dalla madre, non da quel padre in questo senso più esposto all’occhio pubblico dell’indagine e dell’accertamento critico. Il padre, in fondo, è stato un dispersore di patrimonî, dove la madre ne è stata una fin troppo rigida restauratrice. Ma, certo, svariate pagine critiche sui veri rapporti che intercorrono all’interno della famiglia Leopardi andrebbero riscritte. La madre, come per altri aspetti e sotto altra luce anche il padre, viene comunque evocata, nello Zibaldone, in chiave esemplificativa delle considerazioni generali, delle concettualità filosofico-psicologiche d’universale risonanza; in tal senso, lo Zibaldone si conferma come opera autonomamente cifrata sul calibro d’un personale e affascinante crogiuolo di scritture in cui gli affetti familiari non balzano certamente in primo piano, ma neanche, a rigore, rimangono del tutto esclusi, come dimostrano le allusioni (se non altro, indirette e “interne” al sistema mental-familiare di Giacomo) ai fratelli, Carlo (di cui Leopardi ha fatto sin dalle lettere al Giordani un mito corposamente antitetico a lui «scriatello», e di cui, soprattutto, ha rilevato la netta superiorità nel rapporto con le donne), Luigi (vero riferimento, come persuasivamente dimostra Palmieri, d’alcuni accenni all’invidia – non alla gelosia – senza aggettivi, data la simultas cronologica con un fratello minore ma non di molti anni, e la relativa contiguità con l’esperienza d’un “piccolo” che è privilegiato), Pierfrancesco, il vero “ultimo” di casa, separato da ampio lasso d’età dal gruppo dei fratelli, e oggetto d’un’incondizionata affettuosità da parte dell’intenerito maggiore; non meraviglia il silenzio su Paolina, protetta e quasi custodita dal rischio d’essere al tutto partecipe dell’evoluzione negativa che ha ormai assunto il pensiero di Giacomo. Palmieri, ricordiamolo, risolve, è il caso di dirlo, il problema dell’identificazione con la madre (cfr. pp. 61 ss.), rintracciabile in realtà assai agevolmente nel pensiero del 25 novembre 1820; e nel dibattito sul Leopardi naturaliter cristiano, l’autore condivisibilmente ricorda che l’applicazione rigorosa da parte d’Adelaide delle norme più restrittive del cristianesimo non sembra pascolo di studi per la psicopatologia; o, se lo è, lo è proprio ed in quanto si tratta d’un’applicazione ortodossa (summum ius summa iniuria, questo sì), razionale, fedele alle prescrizioni, letterale senza una vera interpretazione (come invece sempre
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dovrebbe avvenire per le fruizioni letterali) della cristiana dottrina applicata a ventiquattr’ore; il tutto fisiologizzato da una decodifica «sensibilissima» d’una fede così intransigente e inflessibile, così “fede”, insomma, nella deteriore accezione del termine, da acquisire al vocabolario della “sensibilità” (ecco il problema di molti critici, che hanno per così dire subìto anche loro la personalità di Adelaide: ella è una madre di famiglia estremamente autoritaria, e tutti ne risentono gli effetti, anche nel tempo, come appunto i critici stessi che le entrano nel raggio d’azione!) anche la gioia “nichilista”, cristiano-negativa, della filiale premorienza. Ma (è anche questo il senso del discorso critico che qui si svolge) dalla testimonianza del marito Monaldo e dallo sviluppo del nostro ragionamento, s’induce con buona probabilità logica l’incupimento delle tinte che Leopardi ha operato nel “ritratto” della madre, e forse non solo in quello, e, sia detto entro certi limiti, non solo riguardo a lei; tutti da leggere, in tal senso, i passaggi, estremamente rigorosi e non scontati, sul mito delle madri eroiche cristiane (figure per le quali la biblioteca della «bicoccaccia», come poi Giacomo ebbe a definire il paterno ostello, era ampiamente fornita: dagli atti martiriali all’agiografia martirologica in generale, ad Eusebio, testi frequentati all’epoca dei Fragmenta Patrum Graecorum e degli Auctorum historiae ecclesiasticae fragmenta), sul consueto exemplum delle genitrici spartane, non in sospetto di mammismo, sulla fondamentale differenza che separa Adelaide dal ruolo di fonte di virtus attiva per i figli e per chi è influenzato dal suo esempio, come invece è avvenuto nel caso delle stesse madri eroiche cristiane: ella è per i figli, e in particolare per la sensibilità di Giacomo, il primo nucleo di nichilismo, e quindi la prima fonte di polemica verso il razionalismo cristiano-religioso, che, con la sua tabula rasa di ogni espressione della positività naturale, della gioiosità linearmente assertiva dell’umano percorso vitale, e con il dirottamento d’ogni attenzione e d’ogni interesse filosofico verso l’aldilà, depriva, e in che misura se è letteralmente interpretato quell’ “interesse filosofico”, l’élan vital e l’affermazione dei valori materiali e biologici dell’esistenza. Si tratta, in particolare negli anni che ruotano intorno al 1820, della polemica sul cristianesimo e della polemica contro di esso; la stessa concezione della religione, più che oscillare, contemporaneamente annovera, appunto in quegli anni, la valorizzazione («singolarissima», certo) del cristianesimo primitivo, come tendenza e dottrina ancora capace, tramontati i miti degli dèi pagani, di prospettare illusioni all’uomo, e la condanna della religione come affermazione – verificata anche nella vita concreta, nei singoli giorni degli uomini e in particolare dei fedeli – del razionalismo (in quel periodo, nel concetto di Leopardi, “razionalismo cristiano” significa inserzione d’uno spiritualismo regolatore sugli svolgimenti lineari dell’esistenza biologica) che ogni illusione ha tolto, dell’aridità sostanziale che tale razionalismo ha introdotto e drammaticamente diffuso fra gli uomini e in una vita che è cambiata, e in peggio, rispetto ai modelli e alle epoche del mondo propriamente “antico”, epoche nelle quali il culto della fisicità e della corporeità seguiva le proprie sorgive matrici e faceva parte della cultura generale, senza incontrare il concetto di peccato. Già a proposito di Occasioni romagnole rilevammo l’importanza del problema storiografico costituito dalla Scuola Classica Romagnola, un vero e proprio gruppo culturale da individuare su base latamente geografica (non solo Romagna, che comunque V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
ne è, si può dire, il centro, ma anche Emilia e Marche); e, benché Leopardi percorra, già in parte dagli anni più propriamente giovanili, vie assolutamente sue, e irriducibili alle coordinate delle accademie classicistiche, nondimeno la presenza, l’influenza contestuale della Scuola Classica Romagnola si farà sentire molto a lungo su di lui, quasi in una percezione d’appartenenza costante (e sono in tal senso convincenti elementi di legame i rilievi che pur emergono in quell’ambiente sulla prima pubblicazione delle Canzoni: sono osservazioni “sentite” da Leopardi, che tiene, quanto meno, a non essere disapprovato dai classicisti di quell’area); riprova della decisa, e a suo modo compatta connotazione classicistica che demarca la scuola romagnola è quell’autentica cartina al tornasole costituita dalla difficile ricezione manzoniana in un àmbito che è roccaforte della tradizione linguistica e formale della letteratura italiana, e, insieme, custode dei valori veicolati dalla razionalità, dalla calibrata misura espressiva delle lingue e delle letterature classiche; non mancano, comunque, modeste implicazioni manzoniane anche in “zona” emiliano-romagnola: si ricordino, del precedente Occasioni romagnole, le osservazioni sul rapporto che può essere intercorso fra le ultime due strofe della Pentecoste e l’Inno a Giove di Paolo Costa, e altrettanto il probabile spunto (è valso in tal senso un rilievo di Augusto Campana) rappresentato per due versi del coro d’Ermengarda dall’Ode a una danzatrice di Dionigi Strocchi. Dati «distintivi» della Scuola sono, a detta dello stesso Palmieri, Innanzi tutto il purismo in fatto di lingua: un purismo moderato, quale predicavano Monti e Perticari, cioè pronto a riconoscere gli apporti che alla lingua letteraria erano stati conferiti dagli scrittori più significativi; non radicale e antistorico com’era quello del padre Antonio Cesari o quello a cui Basilio Puoti educava i suoi discepoli di vico Bisi, che meglio si definirebbe neoprimitivismo o arcaismo; ed è questo purismo d’avanguardia, passato però al vaglio di una concezione della lingua che ingloba istanze etico-politiche ed estetico-letterarie, il canone linguistico che ha ispirato la selezione dei materiali per la Crestomazia della prosa, la solidità della preparazione antiquaria, storico-filologica, cui molti di loro erano stati educati nel celebre seminario faentino (pp. 81-82);
e ancora, Palmieri indica il dantismo (anch’esso oggetto di precedenti sue indagini), l’antimanzonismo appunto, la sodalitas (a cementare la fondamentale connotazione di gruppo sostanzialmente coeso e collaborativo), la fede nell’insegnamento, l’atteggiamento non rinunciatario riguardo all’assunzione di cariche pubbliche e ufficiali: dati distintivi, appunto, rispetto alla generica appartenenza a una corrente, quella del classicismo italiano ottocentesco identificabile su base “areale”, regionale (o appena transregionale), che non si può certo dire abbia nel complesso goduto di buona storiografia, quando pure ne ha realmente fruito, data la prevalenza, a tutt’oggi vigente in molte diramazioni, del protocollo interpretativo-concettuale desanctisiano, e della giustapposizione, spesso semplicistica e dicotomica, classicismo-romanticismo, conservatorismo-progressismo. Più ancora si pone, o si ripropone, il problema dell’appartenenza leopardiana a questa “corrente”; ma, più che di problema, si tratta di campo d’indagine e d’impegno
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di ricerca: già Augusto Campana, ampiamente e inevitabilmente evocato in queste pagine romagnole, sosteneva che a tale scuola «si potrebbe iscrivere di diritto anche Giacomo; di solito non ci si pensa, solo perché era un grande». E invece Giacomo appartiene a quella scuola, né vi appartiene soltanto in sede di “militanza culturale giovanile”, quasi in un profilo di già rubricata minorità, superabile dai ben più alti sviluppi ulteriori di Leopardi. Come in parte già emerso, l’appartenenza alla scuola classica emiliano-romagnolo-marchigiana accompagnerà a lungo Leopardi: concetto che va accettato, poiché la frequentazione d’una casa d’origine (e dei valori che vi sono sostenuti) non implica in quella casa la presenza d’una genialità pari a quella del più grande dei suoi figli; non per questo viene meno la sua natura di casa culturale, e da Giacomo assai meno contestata di quanto avvenisse verso il natio palazzo recanatese. L’affermazione di Campana potrebbe essere letta, con uguale esito d’efficacia, a partire dalla conclusione: se Leopardi è un grande, non per questo non ha una casa culturale, e da tale casa non deve dunque essere esiliato, proprio perché il suddetto milieu romagnolo-pontificio non è per nulla in obbligo, né ce lo potremmo oggettivamente attendere, d’essere intessuto di individualità di spicco, di quella genialità e di quella grandezza che proprio in quanto tali non sono preventivabili né di frequente occorrenza letteraria e storica. Non meravigliano, sulla base di tali premesse, le citazioni di nomi e di figure del classicismo romagnolo che Palmieri viene facendo; non spigolatura di pieghe letterarie minori, ma concorso alla definizione d’una corrente e d’un gusto che caratterizzano e insieme identificano una scuola e una cultura umanistica regionale, pur nel quadro del predominante clima romantico; predominante, beninteso, sul piano generale ed europeo, ma non poi così prevalente e vittorioso se partitamente analizzato e verificato nei varî stati e nelle varie aree regionali italiane, nelle quali il minimo che si possa dire è che il romanticismo non si accampa certamente a modello unico. Nel tempo, Leopardi acquisisce (se già non le possiede in casa) molte opere di autori e personalità della Scuola Romagnola: «Pietro Giordani, Vincenzo Monti, Francesco Cassi, Dionigi Strocchi, Paolo Costa, Giovanni Marchetti, Terenzio Mamiani, Giuseppe Maria Emiliani, Filippo Schiassi, Carlo Emanuele Muzzarelli, Luigi Nardi, Francesco Rambelli»; si può dire che esordisca nel mondo letterario con la traduzione (Milano, Pirrotta, 1817) del II dell’Eneide (le traduzioni, come già si è avuto modo di dire, sono un serio carattere distintivo e costitutivo della cultura classica romagnola, e sono testimonianza di vivezza, non di latenza di spiriti civili e patriottici); anela alla nobilitazione delle sue prime vere opere all’ombra di Mai, di Monti, di Giordani, i due ultimi dei quali, «corifei» dell’ambiente classicistico regionale, sono molto seguìti, «negli anni che qui interessano», «nella periferia bolognese e romagnola» anziché in altri àmbiti, più fervidi di dinamismo e d’iniziative culturali innovative, pur se si tratta di àmbiti vessati dai controlli e dalle censure austriache. E ancora si ricordino – oltre ai citati Costa, Emiliani e Strocchi – Antonio Cavalli, Gaspare Garattoni (grande traduttore di Cicerone), Alessandro Cappi, Pellegrino Farini, Giovanni Antonio Roverella, Eduardo Fabbri, Zeffirino Re, Cesare Montalti, Giuseppe Manuzzi, lo stesso Giulio Perticari, Bartolomeo Borghesi, Nicola Gommi Flamini, Giuseppe Ignazio Montanari, Vincenzo Valorani, Giovanni Marchetti degli V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
Angelini, Giuseppe Gaspare Mezzofanti, Massimiliano Angelelli, Francesco Orioli, Melchiorre Missirini, e, dulcis in fundo, due presenze femminili di segnalata bellezza e d’ottima cultura, Cornelia Rossi Martinetti e Teresa Carniani Malvezzi. Lasciamo dunque al lettore il piacere d’immergersi nella delineazione dei rapporti, non solo epistolari, con Francesco Cassi e con Giulio Perticari (si tratta d’una vera ricostruzione, da leggere con vivo interesse, d’un capitolo sulle interrelazioni leopardiane con il classicismo di Romagna e della Marca settentrionale). Né minori apporti è destinato a dare Leopardi e Monti: la dedicatoria delle Canzoni del 1818, pp. 109-121, esemplare e calibrata trattazione d’un rapporto di deferenza, ma non di servile obsequium, un’autentica vicenda di riconoscimento, anche personale, del ruolo rappresentativo di Monti, e, nel contempo, di radicale differenziazione di Leopardi dal tipo d’ispirazione e di gusto poetico che sostengono l’autore della Bassvilliana: più che di fluttuazione, si tratta dell’istituzione di Monti a riferimento oggettivo, comunque sia, di tutta un’ispirazione letteraria che al suo magistero si ricollega (senza dimenticare la ben nota stima che, in àmbito moderno, vi è per il linguista della Proposta, ed i relativi studî, soprattutto di Maria Corti e di Sebastiano Timpanaro). Semmai, si contesti l’intrinseca essenza di tale magistero sul piano creativo-letterario (noi, francamente, la contestiamo alquanto); ma è impossibile disconoscerne l’incisività (anch’essa rivelatrice del contesto italiano che rende fertile siffatta lezione), non si può a meno d’ammetterne la prolungata azione e la riscontrata operatività; Carlo Dionisotti, nella testimonianza di Roberto Tissoni, così si esprimeva: «Dimmi cosa pensi di Metastasio e di Monti, e ti dirò chi sei» (vale per tutti, certamente!). Il capitolo sulle inchieste leopardiane di Augusto Campana s’intreccia con le considerazioni, non soltanto d’ordine culturale e scientifico, bensì anche e forse soprattutto d’ordine umano e didattico nel senso alto di queste parole, che era lecito aspettarsi riguardo a una figura d’eccezionale valore nella ricerca, nello studio e nel dialogo, diretto o epistolare, e nell’opera di discepolato che, discreta e talvolta quasi involontaria, nello “stile Campana”, ne è derivata a beneficio di molti. Ci sia consentito rilevare che è magistrale anche il ricordo che Palmieri ne traccia, fra rievocazione dell’atteggiamento umano, del tratto colloquiale di Campana, della sua serenità e pacatezza, e resoconto (ma ragionato e autonomamente condotto) di studi leopardiani incentrati sulla cifra classicistica emiliano-romagnola, su quello scandaglio documentario e bibliografico esemplarmente approfondito e dragato, saggiato in ogni sua parte e capace da se stesso di farsi storia nel momento in cui si fa filologia; il ritorno continuo agli originali, l’accertamento nel quale la precisione minuziosa non si pone come mero dato erudito ma come fonte di rettifiche e di nuove vie di studio, costituiscono, senza dubbio, un autentico timbro metodologico di Campana. Si tratta, anche in questo caso, di pagine da lasciare al lettore, perché questi possa respirare (è il caso di dirlo) la tutt’altro che polverosa aria dei riscontri bibliotecarî di Campana come di Dionisotti, di Timpanaro e di Pacella, e dello stesso Palmieri, allievo, non lo si dimentichi, di Marti e di Spongano. Rammentiamo, in particolare, la vicenda delle lettere di Leopardi a Bartolomeo Borghesi; si leggano le parole di Palmieri:
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Non è facile al leopardista accorgersi di questa corrispondenza col Borghesi, perché il Leopardi indirizzò la stessa lettera di invio delle Canzoni a Dionigi Strocchi e a Borghesi (12 e 16 febbraio 1819); e di nuovo una medesima lettera per l’invio della Canzone al Mai a Giuseppe Grassi e al Borghesi (3 e 6 novembre 1820). Gli editori dell’epistolario leopardiano, Moroncini prima e Flora poi, hanno pubblicato in entrambi i casi una sola delle due lettere gemelle, indicando come destinatari, il Moroncini: Strocchi e Grassi; il Flora: Borghesi e Grassi; è così accaduto che il nome del Borghesi non compaia affatto nell’indice dei corrispondenti del Moroncini e compare come destinatario di una sola lettera, quella del 1819, nel Flora (dove poi ovviamente il nome dello Strocchi compare solo in nota) (p. 126).
E l’indicazione, data dallo stesso Campana, del Timpanaro degli Appunti per il futuro editore dello Zibaldone e dell’Epistolario (in «Giornale storico della letteratura italiana», 135, 1958, pp. 607-626), si flette nella priorità, per così dire, acquisita dallo stesso Campana nel reperimento nella biblioteca Vaticana di nove autografi delle lettere sulle quali ha lavorato Timpanaro; e se Campana esclude una conoscenza diretta Leopardi-Borghesi, così come esclude in modo forse un po’ troppo reciso una reale conoscenza da parte di Giacomo, negli anni 1817-1818, degli studi dell’erudito romagnolo, Timpanaro, a sua volta, ha a lungo sottovalutato lo stesso Borghesi come filologo, salvo rivedere il proprio giudizio anche alla luce della conoscenza dei «rapporti Borghesi-Niebuhr». Il protocollo romagnolo-marchigiano di questo ambiente di studiosi si amplia, com’è possibile vedere, al suo naturale àmbito romano (e a Roma, e sempre all’ambiente degli eruditi antiquarî, sono dedicate le pagine campaniane sulle «Effemeridi letterarie», con Mai e Niebuhr quali collaboratori, e sul «Giornale arcadico», che annovera l’Amati, il Borghesi, il Betti). Campana sottolineava, proprio in direzione degli interessi romagnoli, l’importanza d’un saggio quale Leopardi e Bologna, di Carlo Dionisotti, raccolto nel celebre Appunti sui moderni del 1988 (Bologna, Il Mulino, pp. 129-155); nello stesso modo, Palmieri intende giustamente riconoscere lo statuto di fondamentali a saggi campaniani come Duecento anni di fama del Borghesi, in Bartolomeo Borghesi. Scienza e libertà, Bologna, Pàtron, 1982 e Leopardi e Borghesi, nell’opera collettiva Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, Liviana, 1970, pp. 700-727 (ma il contributo di Palmieri concerne anche il campaniano Perticari e Leopardi. «Giornale arcadico» e «Effemeridi letterarie», apparso negli atti del convegno Leopardi e Roma, – 7-8-9 novembre 1988 – Roma, Ed. Carlo Colombo, 1991, pp. 29-41). In questa costellazione di studiosi e di eruditi, il lettore può seguire la vicenda delle lettere del conte Filippo De Sanctis a Bartolomeo Borghesi (appartenute al conte Giacomo Manzoni, nipote di Borghesi, furono acquisite nel 1894 dal Comune di Recanati e sono ora conservate, insieme ad altri autografi, in una sala della Pinacoteca); furono scritte il 16 ottobre 1858 e il 30 settembre 1859 (a quest’ultima si ha la risposta del Borghesi, il 22 ottobre); la prima di esse formulava quesiti su tre punti, dei quali (sostanzialmente eluso il primo) il secondo (soprattutto) ed il terzo saranno oggetto di stimolante risposta da parte del destinatario. Il disegno editoriale di Filippo De Sanctis non si realizzerà; riguardava V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
i commentari leopardiani sulla vita e gli scritti dei quattro retori (Dion Crisostomo, Aristide, Frontone ed Ermogene), insieme con altre cose leopardiane (la versione delle lettere frontoniane pubblicate dal Mai e la traduzione della poetica di Orazio). E chiedeva al Borghesi: 1) chiarimenti su un passo di Ateneo, l’autore dei Dipnosofisti, in cui si parla del giureconsulto Ulpiano; 2) ragguagli sulla storia dell’iscrizione, citata dal Leopardi, di una statua onoraria di Elio Aristide; 3) notizie sul Leopardi, che potessero giovare all’introduzione (p. 125).
Notevole, poche pagine dopo, la ricostruzione della vicenda delle annotazioni ai Chronicorum canonum libri duo di Eusebio, editi a cura di Mai e di Zohrab, dapprima elaborati in appunti, poi dedicati, sotto forma di lettera, al Borghesi, in séguito, ancora, modificati e pubblicati nelle «Effemeridi letterarie» (X-XII), 1823, quindi in opuscolo, con la stessa data, come scrive Palmieri, ma in realtà nel 1825, con una dedica generica «a un amico suo»: perché questa sottrazione, operata verso il Borghesi, della dedica personale? Timpanaro e Pacella, curatori degli Scritti filologici di Leopardi, ipotizzano che tale anonimato possa corrispondere a consapevolezza del genere “modesto” delle «annotazioni», oppure ad intento “professionale”, teso a mostrare impersonalità tecnico-filologica; Campana (e la tesi è accolta da Timpanaro nella terza edizione degli Scritti filologici, oltre che dallo stesso Palmieri), ben convinto del valore di filologo di Borghesi, rivela che Leopardi si è valso della recensione che l’erudito aveva realizzato nel 1820, nel «Giornale arcadico», a due edizioni contemporaneamente uscite dell’opera d’Eusebio: oltre a quella citata a cura di Mai e Zohrab, era infatti stata pubblicata quella a cura dell’armeno Aucher (di cui Leopardi fruisce, ma della quale non fa oggetto di pubblica attenzione): «[…] si rese conto che, se la dedica fosse rimasta al Borghesi, sarebbe suonato strano che il dedicante non dialogasse col dedicatario proprio sul tema che in quella circostanza li accomunava» (p. 132). L’Appendice, intitolata Monaldo Leopardi e l’intellettualità romagnola, conferma ed amplia la serie di ricerche e di risultati critici maturati da Palmieri nell’opera di scavo e di messa a punto di dati documentarî e storici. La cura nella presentazione e nell’annotazione delle lettere è capillare, e spinta fino al singolo dettaglio materiale, cartaceo, bibliografico, e, persino, topografico-abitativo (si cfr., p. 149, il rinvenimento delle lettere del sacerdote erudito Luigi Nardi a Monaldo, «occultate» dallo stesso conte-padre «nel fondo dell’ultimo cassetto di un comò situato, a suo tempo come adesso, nello studio di Monaldo»). Si tratta di diciassette lettere che aprono un notevole spiraglio sul mondo degli ecclesiastici classicisti: un ambiente ecclesiastico, appunto (come nel caso dello stesso Luigi Nardi, il cui carteggio con Monaldo – sedici lettere, pubblicate non in questa sede, ma a suo tempo in Occasioni romagnole – è in tal senso molto significativo), perché Monaldo non appartiene, in buona sostanza, all’àmbito dei classicisti laici romagnolo-marchigiani, pur essendo stato affiliato all’Accademia dei Filopatridi; vi appartiene, se così si preferisce, nel senso d’una contiguità geo-culturale di contesto, e nel nome di una fondamentale difesa delle tradizioni. Ma di quali tradizioni si tratta? Per Monaldo, si tratta della tradizione del trono e dell’altare, della tradizione ecclesiastica e religiosa, conservatrice e legittimista, difesa con intransigenza non incline ai compromessi, alle mezze misure,
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alle «seconde vie»: si veda, ancora una volta, la «Voce della Ragione», la rivista pubblicata da Annesio Nobili, a Pesaro, dal maggio 1832 al dicembre 1835, novanta fascicoli a scansione quindicinale, «contraltare» dell’«Antologia» di Vieusseux e di Capponi. E l’impegno di Monaldo è quello, non perdente per un buon tratto di tempo, di «coinvolgere un gruppo di romagnoli, folto anche questo ed omogeneo, quasi tutti preti, nella sua battaglia in difesa del trono e dell’altare, cioè attorno a ideali assai diversi da quelli che avevano cementato il meglio e il più dell’intellettualità romagnola» (p. 141). Sarà proprio, lo ripetiamo, il figlio Giacomo ad appartenere al classicismo ideologicamente e culturalmente laico, e spesso “progressivo”, della Scuola Classica Romagnola. Vanno insomma sfatate, diciamolo esplicitamente, certe equazioni culturali che tendono a scindere il concetto di progressismo dal contesto di determinate accademie classicistiche, conservatrici sul piano della tradizione linguistico-espressiva e letteraria, ma non sul piano dell’ideologia e del pensiero storico; e va altrettanto scisso il nome di Monaldo dall’ipotesi d’una piena appartenenza a quella che si configura come una scuola di spiriti laici, di dèi pagani, pronta, sì, ad esprimere critiche o riserve riguardo alle prime canzoni del figlio Giacomo, ma dalla quale non è aliena, o non del tutto, l’immagine dell’Italia turrita, “decaduta”, secondo un concetto e una prospezione storica latina di un termine che indica il proprio riferimento nella Roma classica, non in quella papale. Le schede del contributo di Palmieri riguardano, comunque, una serie di figure di ecclesiastici e di laici (fra i primi è annoverato anche don Sebastiano Sanchini, primo precettore di Giacomo). Le lettere hanno il loro più cospicuo nucleo (III-XIV) nelle missive del canonico Epifanio Giovanelli a Monaldo Leopardi, in un arco di tempo che va dal 17 dicembre 1832 al 28 ottobre 1839, tratte dall’archivio di casa Leopardi; vi sono inoltre pubblicate una lettera di Monaldo al Giovanelli, del 15 luglio 1840, una lettera di Giuseppe Piolanti a Monaldo (20 ottobre 1834), una lettera di Monaldo a Carlo Antici del 17 gennaio 1815 (la celebre missiva sull’educazione dei figli), tratte dalla Piancastelliana, una missiva di Monaldo a Carlo Emanuele Muzzarelli del 29 ottobre 1842, tratta dalla Biblioteca comunale di Imola, e una missiva del Muzzarelli a Monaldo del 29 novembre 1842, tratta dall’archivio di casa Leopardi. Dall’utilissima ricostruzione culturale e d’ambiente che da queste lettere deriva si può ricavare l’impulso, da porsi anche sul piano della riflessione metodologica, ad una considerazione nuova e diversa di molti aspetti della figura monaldesca, ad un’angolazione contestuale più ravvicinata e approfondita della formazione di Giacomo Leopardi (e non solo del primo, giovanile Leopardi), ad una più esatta definizione e ad una valorizzazione dell’importanza della Scuola Classica Romagnola, ad un riesame della lezione di grandi maestri quali Dionisotti, Campana, Timpanaro, e soprattutto ad una più lucida coscienza della necessità, più volte sostenuta con garbata fermezza da Palmieri, d’un’almeno parziale riscrittura non desanctisiana di molte vicende e di molti spazi geo-culturali della nostra letteratura: se non una “storia”, una riscrittura condotta per capitoli, in chiave appunto non desanctisiana, nello spazio e nel tempo, se ancora è lecito evocare queste categorie.
V. LEOPARDI, LA FAMIGLIA E IL CLASSICISMO ROMAGNOLO-MARCHIGIANO
VI. Carlo Antici traduttore (1815-1830). La propensione per il romanticismo religioso tedesco della Restaurazione
1. L’opera letteraria di Antici, come attestano concordi i dati bibliografici e le biografie, ha il proprio esordio nel 1815; fedele all’assunto ideale d’un’attività saggistica, o di traduttore, ispirata ad un criterio d’utilità degli scritti alla causa della religione cattolica e della chiesa di Roma, rasserenato da un clima storico che gli appare sotto la luce pacificante del Congresso di Vienna (senza deprecazione manichea, da parte del nobile Carlo, d’una recente ipotesi di pax napoleonica emersa dal carteggio 1813-1815 con Monaldo Leopardi), rassicurato dal ripristino di quel precedente status quo aristocratico-terriero che per le tenute del marchese ha prodotto grande timore ma in realtà limitati e sopportabili contraccolpi, il funzionario della rinnovata corte pontificia si inserisce a pieno e completo titolo nella realtà delle strutture materiali, etiche e culturali della Reazione, condividendo di questa i presupposti e le esigenze, i programmi politici e i bersagli polemici, le strategie di ricostruzione ed i piani di sostegno e di supporto propagandistico delle idee, in uno Stato che della stessa Reazione è uno dei più significativi rappresentanti e che del cattolicesimo è l’emblematico alfiere storico1. Il titolo dell’opera del 1815 non potrebbe risultare più eloquente, dato che il Saggio sul governo temporale del Papa tradotto dall’idioma francese e di note corredato dal Marchese Carlo Antici, Roma, Mordacchini, 1815 (ne esce contemporaneamente un’altra edizione, denominata in modo identico: «Roma ed in Bologna», per i tipi del Sassi, 1815), si richiama con chiarezza alla formulazione maestra del pensiero politico di Antici, consistente nella dispiegata legittimazione del potere del papato, già ad iniziare dalla sfera terreno-temporale; non, dunque, una mera riaffermazione religioso-spirituale, un’espressione di lotta e di polemica contro la miscredenza, contro il generale spirito irreligioso, o contro il materialismo filosofico e culturale di matrice settecentesca; si tratta, invece, d’un’asserzione di valore e di centralità della Chiesa concepita innanzi tutto quale Stato concreto ed ufficiale, e quale istituzione venerabile al di sopra di tutte le altre entità statali. Un argomento del quale si continuerà a trattare; ne indicherei due ulteriori esempi, del tutto attigui per àmbito culturale e per dislocazione geografico-editoriale all’orbita pontificia di Antici, negli scritti rispettivamente intitolati Della civile giurisdizione ed influenza sul governo temporale esercitato dai romani pontefici incominciando dall’impero di Costantino sino alla donazione di Pippino re dei Franchi opera postuma del canonico d. ALFONSO MUZZARELLI, in Roma, nella Stamperia dell’Accademia, presso Bernardino Olivieri, 18162, e Del principio di autorità applicato alla difesa del cristianesimo, «articoli due estratti dai fascicoli di decembre 1825, e gennaro 1826» del «Memoriale
Cattolico», Imola, dalla Tipografia Galeati, a spese della Società de’ Calobibliofili, 1829. Il lavoro di Bonnet su cui fa base Antici è l’Essai sur l’art de rendre les revolutions utiles, Tome premier-second, à Paris, chez Claude François Maradan (libraire, rue Pavée Saint André des Arcs, n. 16), 18013. La dedica del marchese è «ALL’EMO E RMO [Eminentissimo e Reverendissimo] IL SIGNOR CARDINAL ALESSANDRO DÈ DUCHI MATTEI DECANO DEL SACRO COLLEGIO, VESCOVO E GOVERNATORE PERPETUO DI OSTIA, E VELLETRI PRO-DATARIO DI NOSTRO SIGNORE PAPA PIO VII»; si tratta di quello zio paterno di Marianna Mattei, moglie di Antici, la cui prigionia nella città di Brescia è oggetto d’una significativa narrazione di Sebastiano Lazzarini. Mattei, chiamato a trentatre anni da Pio VI alla cattedra arcivescovile di Ferrara, dà prova in questo incarico di saggezza e di cristiana moderazione, quasi incarnando un modello cristologico di personale calvario, di pastore perseguitato, sulla scia delle celebri vicende e dei forzati pellegrinaggi di prigionia dei due ultimi pontefici, Pio VI e Pio VII. «Direi, che invasa la Sua Diocesi dalle Armi del Direttorio Francese, Ella restò fermo al suo posto in guardia del proprio gregge […]. Di fatti, mentre l’E. V., predicando cristiana sottomissione alle autorità politiche qualunque esse fossero, fu accusata di fomentare rivolte, e dal Conquistatore intimato di recarsi a Brescia […]» (p. V): è l’inizio d’un brano di Antici, che prosegue elogiando la tetragona continuità d’impegno pastorale di Mattei mediante l’enfatizzazione retorica delle difficoltà affrontate, a magnificazione della figura eroicizzata, ed esaltandone la tempra d’incrollabile fedeltà alla religione e alle strutture ecclesiastiche secondo modalità stilistiche e concettuali che saranno adottate anche in altri passaggi di prosa biografica dello scrittore (dal discorso commemorativo del principe Altieri, letto nell’Accademia Tiberina il 9 marzo 1834 – cfr. «La Voce della Ragione», IX, 1834, 49, pp. 46-56; poi, per estratto, Pesaro, Nobili, 1834, pp. 3-16 –, al discorso d’encomio del marchigiano Monsignor De Cuppis, intitolato Elogio storico di Monsignor Giacomo conte De Cuppis, in «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura», Modena, t. VI, nn. 16-17, 1837, pp. 5-24, ai parziali, ma importanti tratti biografico-laudativi che intessono il discorso su Don Giuseppe Sambuga, precettore di principi reali, sugli stessi Stolberg e Sailer, per non soffermarsi su quelle che sono addirittura figure di monarchi, quali Maximilian e Ludwig di Baviera; e altrettanto si può dire su Hurter e sul tedesco barone di Aretin)4. Dopo quarantacinque giorni in ostaggio, il capitano francese che presidia la città si persuade a liberarlo e gli permette di partire per Roma; nel 1800 il cardinale Mattei ottiene il vescovato suburbicario di Palestrina, e si occupa attivamente di Sinodi episcopali. A p. VI si ha il culmine dell’elogio del prelato da parte di Antici: «nel turbine che (pochi anni sono) svelse dal trono il successore di Pietro, e balzò con lui prigionieri in estranea terra i Principi della Romana Chiesa, e tanti illustri Prelati, e Sacerdoti, Ella nelle più spinose circostanze, si mostrò sempre degno di essere il primo nel Collegio Apostolico». Antici data, quindi, il suo lavoro, compreso il breve pezzo introduttivo, in «Roma 15 luglio 1815», un passaggio storico quasi ufficiale in vista dell’inizio della Restaurazione5. Non a caso, secondo l’Indice che più sotto forniamo, l’opera termina (cap. XXIV) con la trattazione delle fasi e delle caratteristiche socio-politiche del pontificato di Pio VII,
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un pontificato che è ancora ai suoi esordi nell’epoca in cui scrive Bonnet, e che si trova invece nel pieno del proprio svolgimento (fresco del definitivo Reditus in pompa trionfale, in Roma acclamante, del 1814) nell’epoca in cui Antici, come avverrà in molti altri casi di opere da lui tradotte (sempre, nel caso di opere in lingua tedesca di vasta mole e di vasto impegno), procede alla riduzione ed alla traduzione del testo da proporre al pubblico6. Alla p. IX, la Prefazione del Traduttore schiera con indubitabile perspicuità gli idoli polemici dell’epoca di Bonnet (fortemente temuti anche nella pax post-napoleonica), dalla «fiera tempesta che desola il soglio PONTIFICIO» all’«empietà delirante», agli «abominevoli vanti di render suddito il Romano Pontefice»; il ricordo del pericolo attraversato dalla Santa Sede e dai valori politici e culturali che non sostengono soltanto essa, ma anzi alimentano trasversalmente, a livello internazionale, la società che le si richiama, che ne intessono l’antropologia e la morale7, sono i principali motivi del successo delle pagine di Bonnet, che fruiscono in pochi mesi di due edizioni nel 1802, e che sono pagine tanto più significative perché scritte da un oltramontano, da un francese, non da un suddito pontificio. Alla p. VII il traduttore assume in chiave di riattualizzazione ideologica l’aggressione polemica nei riguardi della “storia” in atto, e soprattutto dei personaggi che allora la incarnavano e che vi è il rischio che ancora la reincarnino; essi sono, nella considerazione di Bonnet e di Antici, i personaggi che hanno veicolato, anche nel loro concreto agire storico, gli ideali dell’illuminismo e della Rivoluzione: «Alla Storia è riservato di parlarne colla dovuta dignità, e diffusione. A quella Storia però che, dando agl’insanguinati Conquistatori, ai frodolenti Politici, ed ai perversi Scrittori l’abborrito titolo di flagelli dell’uman genere, assegna ai di Lei Pari quello così giusto, e così nobile, di Genj benefattori» (il riferimento è al Saggio sull’arte di rendere utili le rivoluzioni); l’intervento di Antici, divulgatore presso il pubblico italiano, non solamente presso i lettori dello Stato pontificio, di questa opera di Bonnet, consiste in un prevedibile adattamento, in un “taglio” di necessaria riduzione in vista d’una migliore fruibilità, d’una proponibilità del volume, che altrimenti si sarebbe con tutto il suo notevole spessore, anche quantitativo, riversato su più d’una modesta scrivania borghese (alla quale invece si intende mirare), non troppo fornita di ulteriori volumi e dei necessari strumenti di decodifica di certi impegnativi concetti storici di politologia pontificia: «nel produr quest’Opuscolo si è dovuto o ridurre, o riunire alcuni capitoli, e paragrafi dell’originale, che o vi si trovano disgiunti, o riferendosi al rimanente dell’opera, non sono intelligibili, né al tempo d’oggi applicabili» (p. XII); questi i XXIV capitoli nei quali si articola il lavoro anticiano: I. Definizione del governo pontificio; II. Parte monarchica del Governo Pontificio; III. Parte popolare del Governo Pontificio; IV. Parte religiosa del Governo Pontificio; V. Parti integrali del Governo Pontificio; VI. Il Papato; VII. Il Cardinalato; VIII. La Prelatura; IX. Celibato nei governanti; X. Accesso degli stranieri nella parte integrale del Governo Pontificio; XI. Parte dipendente del Governo Pontificio; XII. Doppia origine delle rendite del Governo Pontificio; XIII. Inquisizione; XIV. Religione; XV. Ingiustizia dei Rivoluzionarj verso il Governo Pontificio; XVI. Mancanza di talenti nel corpo Governativo; XVII. Pace, e Guerra; XVIII. Pio VI; XIX. Soppressione dei Diritti Feudali; XX. Sistema municipale; XXI. Gente d’armi; VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
XXII. Contegno delle potenze d’Europa verso la S. Sede; XXIII. Publica Amministrazione; XXIV. Pio VII. Nella riproposta del lavoro di Jean Esprit Bonnet, Antici può concentrarsi su una concezione teocratica universale che sostituisce, in un certo senso, la concezione pacificante e sovranazionale, come è proprio di chi si è identificato nella provincia ed in quella Cosmopolis che gli sembrava garantita da Napoleone8. Egli insiste subito, nelle dense e significative note che accompagnano il testo tradotto, sul carattere misto, monarchico-democratico, monocratico ed egualitario del governo papale: è una categoria storica, secondo lui ed altri, sottraibile a qualsiasi confronto con le categorie della storia laico-secolare, civile e militare delle altre nazioni; e così con la storia nel senso della cultura giuridico-politologico-costituzionale; semmai, è la storia della Chiesa a poter fornire un modello di stato (pure secondo procedimenti di autonomo parallelismo) ad altre, più laiche concezioni dell’organizzazione civile e dell’organizzazione di governo9. In particolare, a p. 43, la nota 1 di Antici esprime i concetti polemici tipici della Restaurazione contro Voltaire; ma già in una lettera dell’XI volume del carteggio di Federico II di Prussia si afferma che il Papato non deve essere abbattuto, e che esso è anzi il primo Stato che deve essere risparmiato, in quanto organismo politico che svetta storicamente per la propria, ineguagliabile “peculiarità”; in fondo, anche Voltaire ha più volte riaffermato che ognuno dei principi coronati avrà la sua Chiesa; inevitabile, in tal senso, l’enunciazione contrappositiva al concetto voltairiano da parte di Bonnet e del suo consapevole traduttore-sodale, nel convinto sostegno da essi fornito alla tesi dell’assoluta necessità di una Chiesa unita; lo Stato pontificio può infatti enumerare tra i suoi pregi e tra i suoi vanti, anche propriamente concreti e secolarmente accertabili, la moderazione fiscale, la generale mitezza etica nella gestione dello Stato, la concessione d’una libertà di «innocue opinioni»; e il cursus honorum che vi si segue è tipicamente elettivo, salvo imbrogli o ricadute in vizi “terreni” di intrigo. Alla p. 45, n. 2, il traduttore, quel devoto marchese Antici che pure nel suo pieno acclimatamento nella concreta realtà amministrativa della Roma pontificia non ha mai dimenticato i percorsi propri della fede e della cultura religiosa, erompe in un’espressione che è nel contempo rivelatrice del suo sentimento di cattolico cólto e oggettivamente celebrativa di tutta una concezione di quella che è avvertita come la vera Roma, l’Urbe post-classica e post-pagana: «Apronsi i fasti di Roma cristiana». Si tratta forse della frase principale, della migliore definizione della fede e della concezione storiografica di Antici; è sulla base di questa riasserzione della centralità di Roma e del suo Pontefice, e quindi del suo Stato, che si giunge (ibidem, n. 3) alla definizione della democrazia come sistema di governo inadatto ai popoli di grande nazione (si pensi, in un immediato raffronto con la realtà storica, se non al demonizzato Dragon della Rivoluzione del 1789, all’esperienza, ancora definibile come recente, della Rivoluzione americana). Il modo particolare in cui si conservano, a dire d’Antici, le istituzioni democratiche nello Stato Pontificio, è diverso da quello di Atene, di Sparta, delle repubbliche medioevali italiane (dove la vicinanza esaltava le simultates, le rivalità anche in sé coltivabili, oltre che gli scontri d’interessi materiali). Su questa linea di pensiero, a p. 46, il marchese Antici, citando il sonetto dell’Alfieri
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(«L’illustre, e fervido Alfieri») Di giorno in giorno strascinar la vita, riportato dall’edizione di Roma, Poggioli, 181010, si mostra molto aggiornato sul pentimento del repubblicano a contatto con la Rivoluzione; per Antici, perfetta morale e democrazia sono date dalle prescrizioni evangeliche e dall’impulso etico-volontaristico che deve provenire dalle sacre Scritture, delle quali, anche in queso caso, egli indica come privilegiabili le declinazioni neotestamentarie11. Non stupisce, a p. 48 n. 4, la deprecazione (qui spinta ben oltre la critica degli “eccessi”, così come essa si è originata nell’Alfieri e in molti altri intellettuali che poterono direttamente assistere all’esperienza rivoluzionaria) della Rivoluzione in sé considerata, dello spirito filosofico che la permea e che la sostiene, e che ha, altresì, presieduto al suo scoppio, al suo impatto dirompente sui costumi e sulla stessa essenza antropologica della tradizionale società aristocratica; dietro alle quinte della Rivoluzione campeggiano «orribili dottrine» ed una «falsa Filosofia», ovvero tutto il portato del pensiero e della ragione illuministici; di contro, a p. 49, Antici ricorda la virtù onnipervasiva della fede e dello spirito pentecostale, guida sempre valida degli uomini, con estensione totalizzante, dalla sfera etica e individuale alla sfera della vita associata, capace di assumere tutto sotto la propria giurisdizione spirituale; lo Stato, a sua volta, incarna questa essenza metafisica, o etico-metafisica, che deve porsi come punto di riferimento per mogli e madri, per uomini di scienza e di lettere, per itinerari di vita quotidiana e per peculiari tragitti di studio e di approfondimento scientifico; ma, nel caso dell’Antici traduttore di Bonnet, la panoramica pentecostale, l’apertura capace di raggiungere una visione generale delle attività umane, l’irraggiamento efficace ed operativo dell’etica cattolica non passano attraverso la mediazione degli apostoli, e neanche da quella che sarà, a cominciare dal 1817 (data d’inizio delle prime stesure), la carrellata di Manzoni innografo sui popoli oppressi ai quali una rivoluzione è necessaria e le cui armi cristiane sono benedette da Dio12, bensì esse passano tramite i capi, i reggitori, i «regnatori»; lo spirito pentecostale ha insomma i propri mediatori nei sovrani e nei rappresentanti del potere politico ufficiale: si tratta d’una Pentecoste che ha i propri apostoli nelle figure dell’ufficialità legittimistica della Restaurazione. La ricognizione pentecostale-statuale corona uno dei concetti fondamentali del lavoro di Antici, non meno che dell’autore qui tradotto: si tratta, in una grande operazione litotica (già affiorata a p. 48) rispetto alle res novae, temutissime, del recente passato, di denegare le negazioni messe in circolo, ed in atto, dai principî, dalle massime e dalle applicazioni della Rivoluzione francese; di ribaltare, insomma, il capovolgimento realizzatosi dopo il 1789, per ritornare, ma con nuove e più affilate armi politiche, storiografiche e teologiche, all’affermazione d’un’ammodernata forma d’ancien régime; l’unica soluzione possibile consiste quindi nel favorire l’emersione culturale delle forze della Reazione e della Restaurazione; altrimenti, prevarrebbe la tipologia di rovesciamento di bruciante vicinanza storica: «dogmi» esposti agli «scherni», «sconci paradossi» nei riguardi della «venerazione», equiparazione dello spirito religioso alle forme superstiziose, identificazione del «progresso dei lumi» nell’«incredulità», giustificazione ideologica dei «delitti della rivolta», rubricati nel rango degli «slanci della libertà», «palesi usurpazioni» fatte assurgere al nobile grado di «colpi di politica». Secondo VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
un’ottica estremamente lucida di reazionario che preconizza in modo fondato il successo storico d’una linea di ricostruzione culturale centrata sul valore di rinnovamento rivestito dal pensiero illuministico, e che è altresì in grado di prevedere il dilagare storico degli studi sulla Rivoluzione francese come evento di scansione periodizzante ed epocale, è necessario riscrivere la storia, anche, e direi soprattutto, a beneficio del futuro, in una consapevole operazione di pregressa salvaguardia dell’obiettività di visione dei fatti e dei fenomeni, delle loro interpretazioni e della loro valutabilità nel tempo. Un programma culturale su cui, certo, agisce l’identificazione dell’aristocratico appartenente allo stato papalino nei ranghi e nei ruoli antropologici e mentali della propria classe, un’identificazione rinnovata dall’inserimento alacremente lavorativo nelle strutture amministrative e politiche dello Stato pontificio e della sua viva contemporaneità; si tratta sempre, dunque, d’un programma di conservatore dalle risorse moderne ed aggiornate, e, come si può agevolmente constatare, tutt’altro che provinciali13. Vi è, insomma, un realistico riconoscimento della vittoria parziale degli «empi», dei «livellatori», di quelli «del libertà uguaglianza rivoluzione d’Inghilterra» (e quindi, anche, Rivoluzione francese); sono termini qui proscritti e demonizzati, assimilati a quelli propri d’un’«orribile ‘Genia’»; a p. 50, n. 7, Antici cita lo Chateaubriand del Genio del Cristianesimo, nel passo sull’impossibilità d’adeguamento dei Francesi alle nuove, “insultanti” regole del Calendario rivoluzionario: non sono accettabili, sulla scia di quanto afferma Bonnet in epoca ancora vicina alla Rivoluzione, i dieci giorni, per uomini e buoi, ma si deve invece ritornare ai sette giorni, con la celebrazione di libertà e di religione, di sollazzo e di pietà religioso-devozionale nel settimo14. È la religione che tiene in scacco e ammonisce i re che, se il divino decreto ha voluto la felicità dei popoli col vietare loro il congiurare contro i sovrani, questi ultimi devono sentire sopra di essi il rigore della legge e soprattutto l’incombente castigo di Dio; e la riaffermazione della gerarchia Diosovrano-popolo è riscontrabile anche nelle sue conseguenze sulla vita del clero: nella nota 14 alla p. 56, Antici esprime la sua posizione polemica sulle ricorrenti discussioni riguardanti il celibato ecclesiastico, al quale, naturalmente, egli è favorevole. Nella nota 19 alla p. 59 si può cogliere in atto la capacità di Antici di spiegare, anche sulla scorta dei concetti di Bonnet, la differenza, focalizzata in modo molto preciso e competente, tra l’acquisto di una prelatura di Protonotario e la venalità delle cariche nella monarchia francese, alla quale venivano spesso paragonate le pratiche di acquisizione di onori e incarichi invalse nello Stato pontificio. Nei primi secoli del cristianesimo, i protonotari dovevano, come ricorda Antici, solo stendere gli atti dei martiri (si trattava infatti dei sette protonotari «regionali», da non confondersi con i protonotari apostolici, anch’essi in numero di sette, portati al numero di dodici da Sisto V Peretti e ricondotti a sette da Gregorio XVI nel 1838, con la denominazione di notarii de numero participantium); al tempo di Antici, invece, «i Protonotariati sono quelli soltanto, che in tempi anteriori vennero fondati da illustri famiglie con rendite costituite sopra i frutti di capitali consegnati alla camera Pontificia, onde aver sempre fra’ loro discendenti qualche individuo nella Prelatura»15. Alla n. 28, pp. 63-64, Antici indica, sempre al fine di mostrare il fondamentale benessere garantito dallo Stato
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pontificio ed il carattere non esoso del suo sistema d’esazione fiscale, un’opera di Monsignor Marchetti sul carattere limitato dei «tributi del Mondo Cattolico», da identificarsi in De’ paralogismi volgari circa i rapporti delle due potestà specialmente quanto al dominio, possesso, e alienazione de’ beni ecclesiastici, «In Fuligno», per Giovanni Tomassini, 1803. Si tratta dello stesso Monsignor Giovanni Marchetti, curatore di Opere edite ed inedite del Cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil della Congregazione de’ Cherici Regolari di S. Paolo dedicate alla Santità di N. S. Pio VII P. M., Tomo I, in Roma, MDCCCVI, Dalle stampe di Vincenzo Poggioli, 42 voll., 18061821; gli altri curatori sono don Leopoldo Scati e don Ignazio Filippo Perini16. Alla nota 2, pp. 64-65, la difesa dello Stato pontificio approda in Antici, sempre sulla scia di Bonnet, ad un elogio della bontà, della libertà da cure materiali da parte dei nobili per l’educazione dei figli, per la cura delle campagne, per la possibilità di attendere alla cultura scientifica e letteraria; e tale laudatio si converte a sua volta in un elogio dell’aristocrazia fondiaria romana, e in particolare di quel ceto che ad un occhio critico appena sollecitato appare definibile come nobiltà del latifondo d’origine feudale (ed è ovvio che non sia il marchese dichiaratamente partecipe dei suoi costumi a chiamarla tale); a rettifica di quanto in tal senso afferma il Bonnet, Antici precisa che la nobiltà non subiva, presso la popolazione romana, un giudizio negativo così diffuso; e non manca, nella n. 31, pp. 66-67, l’allusione ad epistolari di viaggiatori stranieri che scorsero l’Italia nel 1785, facendone emergere un panegirico delle nostre arti e insieme di satira dei nostri governi, non senza ammissione che lo stato papale, che secondo determinati presupposti dovrebbe andare in rovina, è invece il più sicuro. Ed è un riconoscimento che, come in parte si è prima accennato, riceve un significato qualitativamente accresciuto dal fatto di provenire da uno studioso straniero, dal quale, sembra sottintendere Antici, spesso ci si deve al contrario attendere l’espressione di un côté critico intenso ed articolato riguardo all’Italia (in specie riguardo allo Stato pontificio) e non privo, talvolta, d’una certa intelaiatura di luoghi comuni internazionali sul nostro paese, sul Papa e sui suoi domini temporali: quello Stato pontificio a cui l’opera di Bonnet (e con essa l’opera di intervento sunteggiante, condotto per tagli e per ricomposizioni da parte di Antici, che ne è anche traduttore, e divulgatore in Italia) manifestamente si richiama fin dal titolo; sempre riguardo allo Stato pontificio, come mostra l’Indice dei capitoli che si è prima fornito, Bonnet ed Antici (quest’ultimo, come si è visto, da promuovere al rango ed alla veste di coautore e di saggista capace di adattare l’opera francese al mercato italiano) approfondiscono al massimo del possibile lo studio delle strutture materiali dello Stato della Chiesa. Né è il caso di sottolineare l’ottica del tutto favorevole al potere temporale del Papa nel marchese che è suo suddito fedele ed attivo funzionario; si tratta d’un’ottica in gran parte condivisa anche dallo studioso francese. Alla nota 34, p. 68, viene ricordato l’Editto di Pio VI dell’ottobre 1796, che aveva fra le altre sue disposizioni la destinazione di un quinto dei beni ecclesiastici dello Stato all’ammortizzazione delle cedole d’interesse, con l’estinzione e il successivo ristabilimento del primitivo credito a favore di quelle cedole che restavano in circolazione (un meccanismo, se è consentito il paragone, che in parte richiama, variatis VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
variandis, quello dei titoli di stato in epoca successiva); peraltro, sulla mitezza, sulla dolcezza fiscale dello Stato della Chiesa, doti alle quali, in definitiva, qui si riconnettono il discorso di Bonnet e la calzante esegesi di Antici sulla politica economica del Papa (un’operazione di forte timbro autoincensante da parte di due posizioni filopapaline, pur a diverso titolo – al prevalente “amore” di Antici corrisponde l’“ammirazione” oggettiva nello studioso d’oltralpe –), è, come minimo, da rammentare la tradizione di forte esazione tributaria che, nella storia, in specie a partire dalla controffensiva cattolica della fine del XVI e degli inizi del XVII secolo, è stata adottata allo scopo di finanziare la politica estera17, ivi compresa quella militare, dello stesso Stato pontificio; e se nazioni già formate e “cristianissime”, di tradizionale e perfino rappresentativa tipologia cattolica, quali la Francia e la Spagna, sono state protagoniste d’una reciprocità di flussi economico-finanziari, e spesso direttamente e liquidamente monetari con la Santa Sede, quasi sempre come beneficiaria spicca la posizione della Baviera, nella sua non certo fortuita “topografia” d’avamposto cattolico contiguo alle terre divenute teatro della Riforma protestante; come mostreranno ampiamente documenti di storia familiare e culturale settecenteschi riguardanti gli Antici, nei quali collocazione geografica centroitaliano-pontificia, in particolare marchigiana, e collocazione tedesco-bavarese, rigorosamente cattolica, non sono fra loro in contraddizione, ma addirittura sono strettamente associate ed anzi unite da fili e legami di parentela e di sangue, il rapporto tra la stessa famiglia e lo stato bavarese è dato del tutto acquisito, e rinnovato, sul piano delle peculiari qualità e vicende personali, dalla carriera del cardinale Tommaso e del nipote, appunto il marchese Carlo18. Nella nota 35 alle pp. 69-71 Antici pone le basi di argomenti che saranno più distesamente trattati nel Discorso sui grandissimi vantaggi che derivano alla società e alla storia dell’Occidente dalla religione cattolica, del 22 giugno 1826; la fonte di tale trattazione, incentrata, sempre in polemica con la miscredenza da un lato e con la fede protestante dall’altro, sulla funzione costitutiva del cattolicesimo riguardo alla civiltà e sull’opera insostituibile del monachesimo, può essere rinvenuta, sul piano della pronuncia scritta ed esplicita, in questa nota, sebbene si tratti di concetti che appartengono all’elaborazione dell’autore, anche sulla base di personali studi e aggiornamenti. Nella nota 37, alle pp. 72-73, a commento della p. 24 di Bonnet, Antici glossa con il suo Platone la polemica contro i filosofi, contro i pensatori, contro il dottrinarismo politico che, a suo dire, sobilla, o rischia di sobillare i popoli contro gli assetti costituiti dal potere e dalla tradizione: «i filosofi facendo la guerra ai Sovrani in favore dei popoli non sempre hanno ragione». In vista della felicità del mondo occorre piuttosto sostenere il Trono con l’Altare; se il Platone di Antici, come è ben noto dalla vicenda della traduzione suggerita al nipote Giacomo Leopardi e mai condotta a compimento, è quello dei «veri filosofi che sanno», per parte loro i ministri infedeli, e tutte quelle che possono essere le degenerazioni del potere politico ufficiale, non dovranno essere oggetto d’un attacco alla maniera di Voltaire (con i suoi «sarcasmi licenziosi»), di Raynal (con le sue «frenetiche provocazioni»), di Diderot (con i suoi «feroci ululati»); ma Antici, proprio in queste affermazioni polemiche, si mostra all’altezza della cultura che vuole combattere; si mostra, insomma, un conservatore
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aggiornato, e dalle armi singolarmente affilate; dopo la pars destruens, ecco la pars instruens, i filosofi da accreditare: «ma ve li richiamano [è il pensiero della vera “sapienza” a richiamare i governanti] coi sublimi avvertimenti dei Bossuet (a), dei Fenelon [sic] (b), dei Massillon (c)»; e ancora: «Rousseau istesso, quel gran sofista, che tanto abusò della sua ragione, e della sua eloquenza gridava ai suoi complici: “Voi dite, che la verità non può esser mai dannosa ai popoli, ed il credo ancor io; ma per questo io credo appunto, che quanto voi dite, non è verità”». Vi è, inoltre, la citazione di Federico II di Prussia: «Che se avesse a punire una provincia ribelle, vi spedirebbe cotali sofisti a governarla». E, nelle note piè pagina alla stessa nota 37, ad «(a)», ovvero a Bossuet, corrisponde Politica tratta dai Libri Sagri – Discorso sulla Storia Universale – Orazioni funebri; a «(b)», ossia a Fénelon, corrisponde Telemaco – Direzione per la coscienza di un Re; a «(c)», ossia a Massillon, corrisponde Piccolo Quaresimale, ovvero Sermoni alla Corte19. Non sarà inutile richiamare una possibilità di confronto con l’articolo apparso a firma «K» (probabilmente KARL), Della scienza de’ moderni politici, in «La Voce della Verità», Modena, n. 343, martedì 15 ottobre 1833, pp. 211-213. Antici, che i biografi attestano tra i collaboratori anonimi, o tali da agire dietro le quinte, d’una rivista che sotto molti profili, dall’affinità tematico-ideologica allo stile degli articoli, avrà notevoli punti in comune con «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi, può essere presente sotto una sigla come «K» (si deve tener presente che nel periodico modenese, come in altri periodici dell’epoca, scritti e corrispondenze, soprattutto se fondati su riviste estere, su rassegne di giornali cattolici stranieri, o di taglio tale da annoverare commenti ad articoli in lingua francese o in lingua tedesca, nascono spesso da un reale raccordo collaborativo, con una suddivisione di competenze – traduzione-fruizione-stesura del saggio di commento – ricompattata sotto un solo nome, o, appunto, sotto un’iniziale-sigla o uno pseudonimo atti a stornare le identificazioni di singola persona). Ufficialmente, Antici non è presente nella «Voce della Verità»; ma non appare per nulla infondata la notizia dei biografi sulla sua collaborazione collegiale a vari scritti, nella stessa «Voce della Verità» e nella «Voce della Ragione», come anche negli «Annali delle scienze religiose»; e la competenza più qualificante è in lui costituita dalla conoscenza approfondita delle lingue straniere, in particolar modo del tedesco; più volte, negli articoli che presuppongono la fruizione diretta, e tale da acquisirsi in tempi cronachistici e reali, della produzione dei periodici stranieri in lingua tedesca, Antici, che sul piano dell’ideologia e dello schieramento culturale si identifica con le posizioni della rivista, se non del tutto con certi suoi registri tonali, polemico-propagandistici o troppo scopertamente apologetici, avrà collaborato a vari “pezzi” della rivista, quanto meno sul piano della traduzione, della fornitura linguistica di prima mano delle fonti da sdoganare e da commentare; non è, inoltre, alieno dal costume della rivista, se se ne sfogliano attentamente i fascicoli, il costume di una “circolazione” delle sigle fra estensori diversi (ad esempio, il citato «K» può alludere a collaboratori differenti nel tempo, accomunati dalla “specializzazione” nei saggi che interessano la scienza politica, soprattutto se basati su libri o corrispondenze o notizie bibliografiche provenienti dalla Germania; la sigla, indipendentemente dalla singola persona, rinvia ad una VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
sorta di titolarità, pur molto elastica, di “rubrica” culturale). In Della scienza de’ moderni politici, oltre a citazioni di Montesquieu e di Bacone, vi è una citazione del «Giornale di Francoforte» del 5 ottobre 183020 su Voltaire quale rappresentante dello spirito religioso del tempo suo, né manca un rinvio al tomo III della «Voce dalla Ragione», p. 52 (dove infatti, nell’anonimo Il secolo della filosofia e il secolo della politica, III, 13 – 1832 –, pp. 52-54, si distingue fra le Lumières del Settecento e la “vocazione” politica della filosofia ottocentesca, ugualmente inaccettabile, quest’ultima, ma auspicabilmente superabile in futuro com’è avvenuto per il pensiero dell’illuminismo). Immancabile la citazione critica del Rousseau («Essai sur l’ineg. des hommes», con la sua Préface), di Platone, di S. Giovanni Crisostomo e di Federico di Prussia (le «Oeuvres post. Dialogues t. VI, p. 10. 5 Berlino 1788»), di cui viene ripresa in particolare (p. 212) la già citata frase riportata da Antici nel commento a Bonnet, con espressioni leggermente diverse: «mio sentimento sarebbe dare ai filosofi il governo d’una provincia che meritasse d’essere gastigata». Ma si veda quanto in séguito afferma l’articolista: «Quando la pratica costante delle più inaudite virtù faceva altrettanti santi dei primi fedeli della Chiesa Cattolica, l’unzione d’una scienza tutta divina spirava certo dalle labbra della tenera vergine o del legionario incallito sotto il peso dell’armi, egualmente che da quelle del fervido pastore o del canuto padre del concilio» (ibidem). L’«unzione di una scienza tutta divina» rivela che è «divina» la scienza politica: concetto che, oltre che ai cattolici francesi del Seicento, va fatto risalire, per un termine di riferimento recente, al KARL LUDWIG von HALLER di Restauration der Staatswissenschaft, qui non citato; a quei tempi [della «pratica costante delle più inaudite virtù»] (ibidem) «non si giudicava la religione contraria al perfezionamento dell’uomo»; ancora, a p. 212, non meraviglia l’affermazione secondo la quale «La filosofia del XVIII secolo è il velenoso frutto dello spirito delle nazioni d’allora universalmene corrotte, è una testimonianza in iscritto della cattiva propensione e delle storte opinioni del tempo»: «nazioni», anche, come in questo caso, al plurale, è quasi sempre concetto negativo nella pubblicistica di cui è partecipe Antici, in quanto esso veicola un significato di «gentes» pagane, e si trova in opposizione ad una superiore, utopica unità politica e, soprattutto, religiosa. Vi è, prevedibile, la lode dei filosofi delle epoche precedenti il Settecento, e la correlativa deprecazione dei filosofi dello stesso XVIII secolo: «In preda a una volubilità arbitraria, vagheggiarono i frivoli successi della moda, anziché la rigida censura del costume accarezzarono i vizj invece di combatterli, lontani affatto, come erano, dall’adoprare lo studio e l’osservazione qual preservativo al contagio della loro età»; valendosi della citazione del giornale tedesco, per il quale sarà servito il contributo di Antici, ancora una volta dietro le quinte, si afferma che il loro inserimento nella società del tempo, “brillante” fin quasi alla mondanità, valeva «indistintamente nelle più futili e nelle più serie cose; di tutto giudicavano con disinvoltura secondo subitanee e passeggere impressioni; poco investigavano le questioni altre volte discusse; disprezzavano il passato e la erudizione, e di leggieri propendevano a dubbj dinotanti professione di non credere, piuttosto che esitazione filosofica». Ed il “taglio” saggistico da contributo di rivista converte in termini ravvicinati l’angolazione polemica antisettecentesca in critica demolitrice
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dei miti primoottocenteschi quali essi appaiono ai collaboratori della «Voce della Verità», ovvero nella critica dell’illusione dei “filosofi” o dei “politici” contemporanei di poter fondare una scienza, politica appunto, che sia rigeneratrice del corpo sociale in modo indipendente dalla scienza politica con unzione divina, l’unica invece, quest’ultima, a poter provvedere i governanti della legittima linea di guida e di potere sui sudditi, e l’unica ad essere investita del crisma d’una radicata durevolezza; «Ma donde prenderanno essi la base del loro sistema rigeneratore? Forse dal politico ipocrita che, ammettendo Dio e la sua legge rivelata, subordina poi le genti nel loro spirito d’insubordinazione e le istiga alla ribellione col pretesto della fede? Non già, ché stanno contro alle sue massime i precetti positivi della Chiesa, le sentenze dei Padri, la tradizione la più autorevole, alle quali cose resistendo si resiste al volere dell’Altissimo ed è forza cadere nello scetticismo religioso. Né altri si appoggierà [sic] al panteismo che, riconoscendo Iddio, nega la divina provvidenza sulle umane cose»; nella prima parte del brano sembra esservi allusione ai romantici progressisti dell’«Antologia» fiorentina (già in sé manifesto idolo polemico della «Voce della Verità» come lo sarà della «Voce della Ragione»), se non dell’ormai lontana esperienza del «Conciliatore», ma anche ad una vena del romanticismo francese propria del Lamennais della seconda maniera; chi volesse fare tale opera promotrice di ribellione, come anche un’opera del tipo di quella, più sotto affrontata, di promozione del materialismo, con il pensiero concepito quale frutto e funzione della materia organica, si troverebbe (o, a seconda dei frangenti storici, realmente e risolutamente si trova) attanagliato da gravi ed insolubili contraddizioni; con queste, non certo confortanti premesse, i politici dei nostri tempi, si domanda «K», varranno a vincere sì gravi difficoltà, a conciliare tante discordanti, a coordinare sotto un sol metodo scientifico le svariate produzioni dei loro maestri giganti, rispetto ai quali essi non sono che pigmei? Essi che non hanno che una parziale lettura di pochi libri che solleticano l’appetito sensuale e lusingano l’orgoglio di tutti, potranno definire i punti più astrusi della metafisica, dai quali sì da presso pende tutta la serie dei teoremi dell’odierna politica; scandagliare gli abissi del cuore umano; scoprire gli arcani della natura corporea che appunto sfuggono agli sforzi dell’osservatore quando meglio si crede di avere in pugno la cortina misteriosa che li cela? Dov’è tra essi uno che sia grandissimo ragionatore e profondissimo metafisico, come si deve per intendere la legge naturale che è il fondamento di tutto l’ordine sociale (5)?
La nota 5, che conclude il periodo, indica, come autore delle ultime parole, il Rousseau dell’Essai sur l’inégalité des hommes, nella citata Préface; l’articolo prosegue così: Forse essi ci svolgeranno le principali questioni filosofico-politiche con profondità maggiore di Montesquieu, con prestigio maggiore di Voltaire, con più dialettica che Gian Giacomo, con più eloquenza che Mirabeau? Forse essi, dopo aver distrutte le tante luminose testimonianze, pronunciate dagli stessi loro istitutori, in favore della causa dell’Altare e del Trono, ci faranno credere con uno slancio di genio libero che il capriccio di una moltitudine di giovinastri e l’ostinazione di uomini malcontenti o perduti, cioè la stolta opinione della parte più corrotta e corruttibile del
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mondo civile, debbano formare la legge, il felice rimutamento, l’era di perfezione di tutti gli uomini? Vane ipotesi! Se Federigo di Prussia scriveva (6) de’ suoi amici filosofi = mio sentimento sarebbe dare ai filosofi il governo d’una provincia che meritasse d’essere gastigata = [la nota 6 a piè pagina contiene la citazione delle «Oeuvres» di Federico II di Prussia], che dovremo pensare de’ nostri politici inferiori per ogni titolo agli antichi? Tristo a quel popolo che serve di prova ai loro sistemi! La politica non sarà mai che la scienza di pochissimi, perché la massima delle scienze non può essere di molti. Divina arte è quella di sanare; ma appunto per questo la mediocrità in essa è micidiale, rarissimi la posseggono, e guai se tutti si credessero Ippocrati! Pittagora riserbava la scienza politica ad alcuni soltanto che erano già grandi nelle altre parti dell’umano sapere. L’arte di reggere le genti è difficilissima (7) [in nota, citazione di Platone e di San Giovanni «Grisostomo», evocati solo nei nomi], più sublime di tutte le naturali (8) [nota: Aristotele, «Etica»], arte delle arti (9) [nota: San Gregorio Nazianzeno], per la quale si rammenta il passato, si osserva il presente e si provvede all’avvenire (10) [citazione di Isocrate presso Stobeo; ed è noto che in casa Leopardi, se non anche in casa Antici, ve n’era l’edizione]… E quanti disputano di politica saranno politici? Credat Judaeus Apella: vi ha uno scelto numero di pochi che ritiene precisamente il contrario.
La «massima delle scienze», la «Divina arte» di sanare le situazioni politiche, miete in questo brano un alto riconoscimento, secondo le coordinate storico-ideologiche del gruppo della «Voce della Verità»; e si tratta di un riconoscimento che è già dal 1815 condiviso dal Carlo Antici traduttore e annotatore di Bonnet. Il commento all’opera francese continua con la difesa dell’Inquisizione romana e del suo ruolo, con argomenti simili a quelli che usa Cicerone nel sostenere la funzione civile e sociale della religione. Il marchese Antici è in grado di citare e di battersi per la controrivoluzione; già alla p. 74 la rivoluzione francese è definita «terribile volcano», e a ripararne i danni, anche propriamente culturali, egli giustifica la censura dei libri, un’attività che, come emerge dalla biografia, riscuoterà ancora, nel tempo, il suo assenso. Alla n. 39, p. 75, Antici utilizza il Montesquieu dell’Esprit des lois ricordando il concetto secondo il quale il Monarca senza religione è pericolosissimo, è una fiera che odia la catena che le impedisce di avventarsi contro «i passaggieri», in una linea concettuale che sembra anticipare «le tante luminose testimonianze, pronunciate dagli stessi loro istitutori, in favore della causa dell’Altare e del Trono» dell’articolo della «Voce della Verità»; alla p. 76, n. 41, vi è ancora, da parte di Antici, la citazione di un lungo brano da Chateaubriand, Genio del Cristianesimo, «IV vol. ed. di Parigi 1802», sull’adempimento del proprio destino da parte di Roma cristiana. Alle pp. 7778, n. 42, vi è la polemica nei confronti della pubblicistica semiinformativa dell’illuminismo, che pure ha avuto tanta importanza su Giacomo Leopardi (si vedano i trattati sulle lingue quali il M.-J. DE GÉRANDO, Des signes et de l’art de penser considérés dans leur rapports mutuels, 4 tomes, Paris, Goujon, an. VIII; D. THIÉBAULT, Grammaire philosophique ou la métaphisique, la logique et la grammaire, réunies en seul corps de doctrine, Paris, Courcier, 2 tt., 1802; A.-F. ESTARAC, Grammaire générale, 2 tt., Paris, H. Nicolle, 1811); è la “confusione”, è la multiculturalità divulgativa,
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l’allocutività illuministica che Antici contesta. Alla p. 79, n. 49, viene rammentato il trattato di Tolentino e quella che fu una pace relativa con la Francia; quando una divisione di truppe cisalpine marciò ugualmente verso Roma per aiutare la Rivoluzione Romana, l’uccisione del Generale Duphot fece cambiare piano, causò la ritirata delle truppe della repubblica figlia (Roma), mentre la “madre” eseguì la vendetta. A Vienna, a Londra, a Pietroburgo, la riparazione sarebbe stata data dalla Francia, mentre nell’inerme Roma è stata la Francia a chiederla; in realtà, era stato il generale Duphot, che Antici, nella versione che egli accredita, chiama a imputato quando non può più difendersi, a respingere truppe pontificie che dovevano arrestare alcuni sollevati; né va dimenticata la volontà della Francia stessa, che, com’è intuibile, aveva programmato di fomentare una rivoluzione a Roma: anche la “madre”, insomma, aveva le sue responsabilità. Peraltro, episodi come quello dell’uccisione del generale Duphot confermano la fondamentale differenza tra Roma papale e quella “linea” francese che sin dall’inizio si è constatato che è oggetto di critica da parte di Antici: la linea francese dell’empietà e della Rivoluzione, di contro alla Francia cattolica e, a meno di sentimenti gallicani, ancora filopontificia, com’è appunto il caso di Bonnet; ed è per questa ragione che lo stato della Chiesa può persino essere sottoposto a critica in nome dell’eccesso di permissivismo, di mitezza nelle procedure d’accertamento della gestione materiale delle sue strutture e delle relative responsabilità: nella nota 45, pp. 81-82, il traduttore-commentatore addirittura ammette che c’è stato troppo connivente lassismo in certi episodi da codice penale e qualche assassinio di troppo dovuto alla funzione di Roma come una sorta di rifugio con leggi allentate, una sorta di “Messico” come refugium peccatorum degli Stati Uniti, secondo più moderne mitologizzazioni della differenza di ethos giuridico fra i vari paesi (nello Stato pontificio gli assassini potevano avvenire, scrive in nota Carlo Antici, «con più frequenza che negli altri Stati. Per esempio la delazione di armi micidiali era vietata, e come lo è attualmente con savissimi, e severissimi Editti: ma all’ombra di qualche Patente, e pur troppo ancora, e principalmente di Patenti date in gran copia dai Bargelli, e colla speranza dell’impunità, i più discoli della plebe ne andavano muniti, e frequenti omicidj funestavano le pacifiche Città del nostro Stato. Noi abbiam veduti cessare questi orribili attentati, appena il Governo ricusò decisamente ogni indulgenza ai delatori delle armi»). L’opera si avvia alla propria conclusione ricordando gli effetti delle istigazioni alla politica antipapale che vi sono stati nelle corti di molti paesi d’Europa: «Quest’intiero capitolo meriterebbe di essere scritto a lettere fiammeggianti in tutti i Gabinetti delle Corti Europee. Come mai i perfidi consigli poterono una volta traviarne alcuni a segno di congiurare contro quella Sovranità, che garantisce tutte le altre! Ma tiriamo un velo su i passati errori, che con cinque lustri di stragi, e di rovine si sono dovuti espiare; e contempliamo con dolce meraviglia, come l’Augusto Senato dei primi Monarchi del Mondo ha ripristinato la Chiesa Romana in tutti i suoi Dominj» (ivi, nota 46). La superiorità non soltanto spirituale, ma materiale e storica che è riconosciuta al Papato, conferma quel generale protocollo teocratico che già il biografo gesuita Angelini aveva pur con il suo stile retoricamente increspato riconosciuto con chiarezza fin dall’opera d’esordio di Antici traduttore-saggista, un’opera non VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
certo a caso cifrata sulla ratio strutturale, sociale, economica, tributario-fiscale, culturale, diplomatica, militare, e propriamente politica e internazionale, dello Stato per eccellenza, e “naturalmente” Stato monarchico, costituito dall’autorità, dal prestigioso aggetto spirituale, dalla “duplice” potestà vaticano-quirinalizia della Santa Sede, della Sede di Pietro. Valga la pena di soffermarsi, riguardo all’ultima parte della traduzione-compendio che Antici ha effettuato dell’opera francese, sulla nota 47, pp. 82-90, interamente dedicata all’altra figura di zio cardinale, Tommaso Antici, e alla sua vicenda, che sia pure indirettamente si richiama, come explicit dell’opera simmetrico all’incipit incentrato sul cardinale Alessandro Mattei, ad un percorso di difficile rapporto fra un alto prelato ed i tempi, le vicissitudini politiche, le interazioni con il pensiero laico; riferendosi all’epoca della ritirata francese dal Campidoglio, Antici scrive: I Galli dopo diecinove mesi di permanenza si ritirarono è vero dal Campidoglio, e dai Dominj Pontificj, ma come un torrente impetuoso, che, rientrando nel suo letto dopo l’inondazione di floride campagne, lascia ovunque il tristo spettacolo delle sue devastazioni. Innumerabili famiglie furono vittime di quel fatale, benché passaggiero, sconvolgimento, ma la mia famiglia oltre alle comuni sciagure pianse, e piange ancora una sciagura tutta sua propria. / In quell’epoca, di sempre acerba memoria, trovavasi nel Sagro Collegio il Cardinal Tommaso Antici, assunto alla Porpora per nomina del Re Stanislao di Polonia, di cui era presso la Santa Sede da lunghi anni Ministro Plenipotenziario, come lo era dell’Augusta Casa di Baviera, non che di altri Sovrani di Germania. I suoi esimj talenti, l’insinuante sua facondia, ed i di lui felici successi nei più spinosi affari il resero caro, e stimabile a molte Corti di Europa, non che alla Santa Sede, ed a quei tanti, che il conoscevano. Per dare un’idea di quest’Uomo, le di cui beneficenze innumerabili sparse sopra di me, e sulla mia famiglia vorrei render conte al Mondo intiero, mi prevarrò delle espressioni usate da un Letterato Alemanno21 in una Dissertazione da lui recitata nel 1775, nell’Accademia delle scienze, e belle Lettere di Manheim [sic] all’occasione del ritorno da Roma del Serenissimo Elettore Carlo Teodoro, e dei piaceri, e vantaggi, che avea ricavati da tal soggiorno: «L’anima di queste savie disposizioni (dice l’Accademico) fu l’incomparabile Signor Antici Marchese di Pescia, attaccato da più anni alla persona, ed al ministero di S. A. Elettorale: stimato da lui, e degno della sua stima per lo zelo nel di lui servizio, per la sua applicazione, e per i suoi superiori talenti: Uomo attivo, ed instancabile, sempre occupato, e sempre superiore alle sue occupazioni: animo ingenuo, che rispetta la verità, e sa farla rispettare dagli altri; abile negoziatore, buon politico, ma senza bassezza, e senza finzione; sprezzante i sordi intrighi, e non conoscendo, che le vie dell’onore, e della probità; Uomo nato per gl’impieghi più grandi, e capace di rendere li più grandi servigj alla Chiesa, ed allo Stato». / Quest’Uomo fu sommerso dalle onde rivoluzionarie, e col corpo infievolito da abituali infermità, collo spirito abbattuto dai tanti orrori di quel tempo, si fece sorprendere dalle minaccie di deportazione, e di confisca, o piuttosto dal troppo amore per la sua famiglia, ai di cui vantaggi avea sempre vissuto, ed inoltrò a Pio VI, già tradotto alla Certosa di Firenze, la sua rinunzia al Cardinalato, non che alla Corte Bavara, quella del suo lucroso, e dignitoso Ministero, per ritirarsi pricipitosamente a Recanati sua Patria in seno alla propria Famiglia. Ma, durante la tirannia democratica, lungi dal trovar Egli nella sua solitudine quella
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pace, che cercava, fu tormentato dalle più gravi afflizioni. Ricordo ancora le molte notti da me passate, nei primi tempi, vicino al suo letto, ove egli sempre in veglia, alternando sospiri, or da una parte, or dall’altra affannoso volgevasi. Ricordo, come, durante l’impero dei demagoghi, giorno non passava per lui senza qualche molestia: Se vi era una requisizione, se una tassa straordinaria, se una multa sull’opinione, sopra di lui le scaricavano. Gli fecero un delitto di gerarchica ambizione, perché inavvertentemente usava in Casa la sua antica calzatura coi tacchi rossi, e ne fu inserito un calunnioso articolo in un Giornale d’Italia, e dal Prefetto del Dipartimento ne ebbe un minaccioso rimprovero. Quando nell’invasione de’ Napoletani, i capi della Repubblica Romana si ridussero a Perugia, scoppiò una nuova persecuzione nelle Provincie contro i più distinti del Clero, ed il già Cardinale Antici non si liberò dalla prigione, che colla potente discolpa dell’oro. Allorché poi la misericordia divina, dissipando quel caos, ci ricondusse alla luce del Pontificio Governo, allora il benefico mio Zio, sgombrato l’animo dai terrori, e libero dalle persecuzioni dei scellerati, cominciò a gustare la tranquillità del suo ritiro, di nessun’altra cosa occupandosi, che di silenzioso, ed occulto ben fare. Una gran parte del giorno Ei consagrava all’orazione, ed all’intensa lettura della Bibbia, e de’ Santi Padri, giacché gli altri Libri non avean più per lui alcun sapore: altra parte impiegavala nel dar consigli, o stender pareri per la conciliazione di quelli, che il consultavano, o nel diriggere gli affari della nostra famiglia, internandosi con maravigliosa penetrazione anche nei dettagli più nojosi della domestica economìa, come se fra loro avesse passata la sua vita, mostrando così, che se avea saputo trattare le cose grandi colla stessa facilità delle piccole, non isdegnava di trattare le piccole con la stessa attenzione delle grandi. Racchiuso in poche, e piccole stanze, e quasi sempre solo, pago della mensa comune fra una folla di Nipoti, e pro Nipoti, dopoché per quarant’anni avea vissuto in Roma fra le delizie, le grandezze, e la società dei più illustri Personaggi; il suo disinganno dell’illusioni mondane giunse a tal segno, che mai più indossò le decorazioni di San Stanislao, e dell’Aquila bianca, né quella di Malta, di cui era gran Croce. Spesso mi ripeteva, che sentiva imminente la sua dissoluzione, e che sperava con quel tenor di vita (per un Uomo come lui certamente umiliante, e penoso) di ottenere il perdono delle molte sue colpe. Quanto egli aveva, era tutto per noi suoi Congiunti, e per i poveri, ai quali fino agli estremi fu largo di soccorsi. Ricordo, non senza lagrime della più tenera riconoscenza, che avendo egli nel 1805. impiegate in opere di pietà cinquemila Piastre, mi fece quasi una sincerazione di averle tolte a me, per consecrarle alla propria salute. / Una malattia di languore lo condusse tranquillamente al Sepolcro nel giorno 4. Gennajo 1812., avendo egli incominciato il suo anno ottantesimo primo, e conservando fino all’ultimo respiro la mente libera, e tutta rivolta al Padre delle misericordie, come ci attestò l’egregio Sig. D. Gregorio Nicoli, che lo assistette generosamente in quel gran passo. La sua morte non indifferente agli estranei, luttuosa ai suoi Concittadini, funestissima riuscì a tutti noi suoi Congiunti, che in lui perdemmo il Padre più amoroso, la guida più illustre, il benefattore più generoso. / Parecchi giorni dopo quella catastrofe, rinvenni ne’ suoi ben sistemati Protocolli tutta scritta di suo proprio pugno, come molti han veduto, e come ognuno potrà presso di me vedere, la minuta di una protesta diretta al Sommo Pontefice [Pio VII], che quì [sic] trascrivo per commune edificazione. // «BEATISSIMO PADRE // Rinunziai, Padre Santo, la Dignità Cardinalizia, e la mia dimissione fu assoluta, e perpetua. Ma chiamo Dio in testimonio, che tal mia rinunzia fu ben lontana da qualunque mia adesione all’usur-
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pato Governo, ed ai sistemi di allora; che anzi col mio costante contegno ne ho sempre mostrata e allora, e in appresso la più decisa alienazione. Non si era ancor fatto alcun’insulto, né oltraggio alle inviolabili Persone dei Signori Cardinali, allorché fui inaspettatamente avvertito da chi ne era ben consapevole, che quanto prima sarei stato arrestato, e tradotto nelle pubbliche carceri per esser poi deportato in remoto paese colla privazione di tutti i miei beni. Fu il timore, lo confesso, e il dichiaro, fu il solo timore di una vita indigente, e infelice, che m’indusse a rinunziare dacché potei conoscere, che ad evitare l’imminente esecuzione della confidatami risoluzione di quel nuovo Governo, non mi restava altro mezzo, fuorché quello di non esser più Cardinale. / Non avvertii in quel momento, e avrei pur dovuto avvertire, che la dimissione del Cardinalato in sì fatte circostanze di governo, e di sistemi avrebbe potuto servir d’inciampo ai deboli, e agl’indecisi, e di trionfo ai seguaci dell’uno e degli altri, attribuendola i primi ancorché erroneamente, e i secondi malignamente ad adesione di una Cardinale di S. Chiesa a quel nuovo criminoso sistema; quando appunto per non darne motivo i doveri del proprio stato m’imponevano l’obbligo di soffrire con coraggio apostolico qualunque perdita delle sostanze, qualunque strazio della persona, e qualunque più penoso tenor di vita, piuttosto che mancare alle obbligazioni, e alla dignità di Cardinale col dimetterla in quelle circostanze per vil timore di una vita infelice. / Non l’avvertii in quel momento, e avrei pur dovuto avvertirlo: ond’è che io debbo conoscere, che indegno com’ero al cospetto di Dio per le molte mie colpe di occupare la più eminente dignità della Chiesa, Iddiopermise, che un velo agli occhi della mia mente mi nascondesse in quel momento l’importanza, e gli effetti di tal mia dimissione, sicché avessi a privarmi io stesso di sì gran dignità, della quale ero indegno agli occhi suoi. Perciò a riparo, e a disinganno di qualunque sinistra interpretazione, o erronea negli uni, o maligna negli altri, alla quale io potessi aver data occasione, o motivo colla mia rinunzia in quelle circostanze, io condanno solennemente innanzi alla S. V. il mio errore, e l’indoveroso timore, che m’indusse ad errare. Ne chieggo perdono a Dio, al Sagro Collegio de’ Cardinali, e a tutti i Fedeli. Ma dopo Dio, lo chieggo principalmente alla S. V qual Vicario di Cristo in terra, e Capo visibile della sua Chiesa, e qual sono dispositore della dignità Cardinalizia. Lo imploro, prosteso a terra coll’animo ai suoi santissimi piedi, anco in pruova della mia venerazione, e del costante ossequio mio per la sagra Persona di V. S. qual Sommo Pontefice, e qual mio Sovrano; implorando nel tempo istesso col più devoto fervore l’apostolica sua benedizione. // Di Vostra Santità // Recanati 13. Settembre 1807. Poiché gli Eletti dal luminoso lor seggio le nostre azzioni [sic] contemplano, Voi mio beneficentissimo Zio vi compiacerete della publicazione di questa vostra protesta, con cui divulgo un vostro, poco noto, risarcimento a quella caduta, di cui gemeste fino agli ultimi istanti: Tanto è vero, che una debolezza, o una colpa è spesse volte l’inavvertenza, o il trasporto di un momento, ma formano poi il rimorso di tutta la vita! Fortunato Voi, che aveste il tempo, e la volontà di piangerle, e di espiarle: poiché se gli uomini non perdonano, basta, che perdonato vi abbia Quello, da cui solo dipende la nostra eterna sorte! / Mi accorgo di aver ecceduto su questo argomento lo spazio ordinario concesso ad una nota; ma forse trovarò scusa presso le anime sensibili, se ho colta questa circostanza per deporre un ramo di Cipresso sull’umile avello di un uomo, cui avrei dovuto inalzare un Mausoleo22.
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Le note finali di Antici accompagnano in modo non banale il testo di Bonnet, facendo emergere, quando il traduttore lo ritiene, anche il dissenso, in un’alternanza, che si rivelerà tipica della scrittura di Antici, di precisa distinzione analitica del dato storico e della sua interpretazione, e di enfasi retorica nell’espressione del favore di schieramento per lo Stato pontificio, per la stessa figura del Papa, per l’auspicato ritorno del corso della storia nell’alveo “felice” della tradizione, del trono e dell’altare, e della loro legittimata fortuna. Si veda, nella nota 48, p. 90, la “correzione” della trattazione di Bonnet, quando l’autore francese allude agli intrighi ed ai maneggi diplomatici e politici che presiedono alle elezioni papali, anche prima del conclave: L’Autore dovea quì aggiungere quanto era necessario per mostrarsi istruito (come un uomo dei suoi principi dev’esserlo) che qualunque siano in apparenza gl’incidenti, che concorrono all’elezzione [sic] del Sovrano Pontefice, son pur tutti diretti da Chi, tenendo come una stilla di rugiada l’Universo nel pugno, ha promessa alla sua Chiesa perpetua assistenza23.
Talvolta la nota celebrativo-encomiastica del pontificato di Pio VII può unirsi in una sinergica positività di giudizi al riconoscimento elogiativo tributato all’autore, ovvero a Bonnet: Chiunque a questi brevi tratti, ed a quelli, che seguono si rammenta, che furono scritti nel 1801., trovarà nuovi motivi per encomiare lo sguardo felice del nostro Autore, con cui fin d’allora penetrò il carattere ammirabile del nostro adorato Sovrano. Se Egli ancor vive sarebbe degno di scrivere la Storia dei decorsi tre lustri del suo pontificato, che esiggono la penna di un Livio, o di un Sallustio. In Pio VII. vediamo riunite l’intrepidezza di S. Leone Magno, l’umiltà di S. Pio V., lo spirito protettore delle belle arti di Leone X, l’amore per le salutari riforme di Sisto V. Egli segnarà nei fasti della Chiesa, e degli Imperi un’epoca eternamente gloriosa.
L’opera di Pio VII e del cardinale Consalvi viene difesa quando, secondo il traduttore, Bonnet non ne ha pienamente focalizzato la complessità e l’ampiezza d’azione (nota 50, pp. 91-94): Non potean chiudersi queste pagine con verità più consolante, e l’egregio nostro Autore, che tanto sagacemente ha meditate, ed esposte le basi fondamentali del Governo Pontificio, non potea trarne che questo risultato. Ma se egli seppe così ben conoscere i pregj di questo Governo, non seppe prevedere i felici progressi delle meditate riforme, e cadde in grave errore supponendo, che l’ammirabile energìa del Sig. Cardinal Consalvi nell’eseguirle, fosse resa vana da indoverose opposizioni dei Governanti Primarj. Nò; Questi anzi cooperarono nobilmente ai benefici disegni del commun Padre, e Sovrano; e Pio VII. non solo soppresse gli abusi Annonarj divenuti in Roma la voragine dell’Erario, e nelle Provincie un tessuto di spergiuri, di monopolj, di frodi, ed il flagello dei Proprietarj: Pio VII non solo emanò un sistema daziale acclamatissimo, e proclamò la tanto bramata libertà del commercio, ma fece eseguire la complicatissima, e tanto salutare equiparazione della moneta senza scossa, e senza il minimo
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danno di alcuno; ma dette un miglior sistema alle Amministrazioni Communali, ma stabilì un Corpo di Truppa Provinciale tendente al decoro, ed alla sicurezza interna dello Stato; ma ordinò ad alcuni dei maggiori ingegni legislativi di Roma la compilazione di un Codice Penale adattato all’indole, ed ai bisogni dei suoi popoli; ma trovò anche tempo, e risorse per arricchire Roma di nuovi preziosi oggetti dell’antichità. E tutto questo egli fece nel giro di pochi anni; e tutto questo con una parte soltanto dei Dominj Pontificj pesti, e scarnati dalla precedente rivoluzione24; e tutto questo fra mille affannose cure della sua Spiritual Podestà, e sotto le interminabili esigenze di un potentissimo straniero Governo! Quante altre sue riforme nell’amministrazione della Giustizia, e delle pubbliche rendite, non che in altri rami di pubblico, o di privato interesse sono state impedite dalle Ecclesiastiche, e politiche oscillazioni, fra cui visse Pio VII. durante la prima epoca del suo immortale Pontificato, e dal fatalissimo interregno, che per un’intervallo [sic] interminabile lo tolse ai suoi sudditi! / Ma diamo bando alle querele. Pio VII. regna nuovamente su noi, e conosce in tutta la loro estensione le nostre perdite, ed i nostri bisogni. Pio VII ha per cooperatori nel suo Spirituale, e Temporale Governo Personaggi distinti per religione, per dottrina, per grandi servigj, e per lunga esperienza nei più ardui affari. Fra questi vediamo, come Segretario di Stato l’E~mo Sig. Cardinal Consalvi, che dopo il suo soggiorno alle prime Corti, e fra i più grandi Politici di Europa, torna ricco di nuove preziose viste sul governo dei popoli, e festeggiato dalla pubblica riconoscenza per i faustissimi successi delle sue trattative. Alla cognizione perfetta dello spirito del secolo per dominarlo, e non esserne dominato; delle tendenze dei Gabinetti per secondarle, ove si può, e rettificarle ove si deve; delle verità politiche, ed economiche, che galleggiano sopra il diluvio di tanti errori, per farle servire alla commune utilità, l’insigne Porporato unisce quell’attività, e quello zelo del pubblico bene, che sdegnano ogni riposo, e che lo rendono anche superiore al sublime incarico da Pio VII. affidatogli. / Dunque ripetiamolo esultando: Pio VII regna nuovamente su noi! Siam noi resi poveri dalle tante, e lunghe esazioni sofferte; Pio VII non ci domandarà che moderati tributi: Desideriamo che i rei non vengano sottoposti ai costituti senza l’assistenza del difensore; che le Sentenze di pene gravi non siano definite da un solo Tribunale, ma possano sempre portarsi in appello ad un altro; che l’enorme ammasso delle leggi civili, ed il metodo di applicarle si riducano ad un più ordinato sistema, onde cessino i raggiri forensi, e siano più spediti i giudizj; che nelle amministrazioni delle rendite communali, e dello Stato siano adottate le norme già appruovate da recenti esperienze; che i Depositarj della pubblica autorità siano fedeli interpetri delle leggi, e che non possano senza incontrare immancabilmente la Sovrana indignazione, farsi ad esse superiori; che il potere giudiziario sia diviso dal potere amministrativo, e finalmente qualunque cosa noi sudditi potiamo bramare a nostra commune prosperità, deponiamone con illimitata fiducia i rispettosi voti ai piè del Trono Pontificio. L’augusto, ed immortal Pio VII. ci accordarà quanto può accordarsi colla religione, colla giustizia, e coll’equità. Sì; una nuova Era incomincia per noi! Abbandoniamoci lietamente all’oblìo del passato, all’amore del presente, alle speranze dell’avvenire.
Non si può negare che Antici, certo interpretando i sentimenti comuni derivanti dall’ideologia conservatrice rinfrancatasi in tutta l’Europa, colga nel segno nell’individuare nella data del 1815 l’inizio d’una nuova era per il mondo occidentale: l’era
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della Restaurazione e del ritorno del Papa, prima di qualunque altro monarca, sul proprio trono; e sarà l’era specifica della controrivoluzione. Conferma questo albore di epoca reazionaria il nome prestigioso che, con la sua sigla, rilascia l’Imprimatur alla traduzione dell’opera francese: quello di Filippo Anfossi («Fr. Philippus Anfossi S[acri]. P[alatii]. A[postolici]. Magister»), ecclesiastico dell’Ordine dei Predicatori, fortemente impegnato nell’elaborazione dottrinale d’una filosofia giurisprudenziale di difesa dei diritti temporali del papato contro ogni rivendicazione, e, in particolare e retrospettivamente, contro la tradizione storica delle rivendicazioni francesi, delle quali le recenti esperienze rivoluzionarie rappresentavano, certo in altri e ben più pericolosi termini, una rinverdita espressione di volontà autonomistica e di linea polemica contro il potere temporale25. «Filippo Anfossi Ordinis Praedicatorum», ancora diciassette anni più tardi, concederà l’Imprimatur al Nuovo esame dell’autenticità de’ diplomi di Ludovico Pio, Ottone I., e Arrigo II. sul dominio temporale dei Romani Pontefici dissertazione di MARINO MARINI», Roma, De Romanis, 183226. La legittimazione del potere temporale dei Papi trova insomma, nella produzione saggistica di Antici e di altri intellettuali dell’epoca della Restaurazione, uno dei periodi di più intensa convalida ideologica e storica. 2. La traduzione effettuata dalla Vita e dottrina di Gesù Cristo di Friedrich Leopold von Stolberg costituisce, in sé, un’esperienza culturale dal duplice carattere: da un lato, essa si pone come una continuazione di quell’opera di alta divulgazione già intrapresa da Antici con il lavoro sul Bonnet, un’opera che viene a proseguire con questo importante passaggio, in piena coerenza con l’applicazione, da parte d’un intellettuale papalino di schierata opzione conservatrice e di persuaso protocollo ideale cattolico, delle proprie, non scontate competenze linguistiche, valide soprattutto sul piano moderno, e tali da acquistare, nella disponibilità che qui il marchese esibisce ad una versione dal tedesco, una valenza particolarmente selettiva, dato lo scarso numero di intellettuali che nell’Italia del tempo si può dire in grado di fruire realmente di questa lingua nei testi originali; in tal senso, questo è l’inizio d’una carriera di traduttore dal timbro meno scontato, se così si può dire, di quello inaugurato nel 1815 con una traduzione dal francese; dall’altro lato, la scelta di tradurre lo Stolberg non si può definire come un’iniziativa culturale che rivesta il completo carattere della novità, o d’una vincente scommessa giocata sull’assunzione d’un autore estemporaneo e sconosciuto. La conversione di Stolberg dal protestantesimo luterano al cattolicesimo, avvenuta in una data che già in sé sembra avere un significato epocale (l’anno 1800), ha avuto vasta eco in Europa, e si è prestata in modo molto appropriato, e culturalmente idoneo, ad alimentare il senso ed il progetto della revanche cattolica sul piano peculiarmente religioso e su quello storico-politico. Né in questo caso si può parlare d’un’esperienza bavarese; si tratta esattamente d’una partenza luterana, addirittura ufficiale e pubblicamente riconosciuta, scandita all’inizio, come è in effetti è avvenuto, dagli studi di diritto a Gottinga, dove, insieme al fratello Christian (Christian graf zu Stolberg, Amburgo 1748 – castello di Windebye, presso Eckernförde, 1821), cui è molto legato, fa parte del gruppo di poeti della lega del Boschetto. Nel VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
1775 i due fratelli sono compagni di Goethe in un viaggio a cavallo in Svizzera. In collaborazione scrivono Poesie (1779), odi, ballate e persino romanze di suggestione klopstockiana (la metrica di Klopstock, com’è noto, riscuoterà larga fortuna anche in Italia sulla scia del Carducci “germanista”), e Drammi (1787), arpeggiati sul modello strutturale offerto dalla letteratura tragica greca. In alcuni ditirambi, cui, ancora, non è estraneo Goethe, Christian e Friedrich Leopold arieggiano atmosfere non distanti dallo Sturm und Drang. Friedrich, da parte sua, fa parte del servizio diplomatico danese (1777) e ricopre cariche a Berlino e a Eutin (1789). Nel 1800, appunto, la conversione al cattolicesimo, davanti al vescovo di Boulogne e insieme alla principessa Gallitzin. Oltre alle opere scritte in collaborazione con il fratello, pubblica traduzioni in versi da Omero, da Eschilo, da Ossian, mostrandosi, quindi, tutt’altro che alieno dall’atmosfera e dal gusto del romanticismo tedesco. Dopo la conversione scrive una Storia della Chiesa di Gesù Cristo (1805-1818; Stolberg, lo si ricorda, morirà nel 1819) in quindici volumi, che, come ricorda il biografo di Antici, Angelini, produrrà un largo séguito di conversioni, e si porrà come opera di potente e persuasivo impatto presso i fedeli e presso gli incerti, gli “agnostici” (un pubblico, quest’ultimo, che può essere sedotto ed attirato a percorrere un’esperienza in tal senso imitativa di quella dell’autore); in Italia, l’inizio della prima edizione data al 1817, e proseguirà fino a un totale di sei volumi, usciti tra lo stesso 1817 ed il 1828, a cura di Giovanni Gherardo de’ Rossi e di Heinrich Keller, interprete tedesco di Propaganda fide; e proprio per la Stamperia di Propaganda fide escono a stampa i primi tre volumi; gli ultimi tre usciranno, sempre per conto della Congregazione, presso l’editore Francesco Bourlié, e sempre a Roma; Giovanni Gherardo de’ Rossi, immediato predecessore di Antici nell’esperienza della versione da Stolberg (ma solo quanto al primo volume; gli altri escono dal 1823 in poi – II e III: 1823; IV: 1824; V: 1825 –, quindi successivamente alla versione anticiana del 1822), ha al proprio attivo, e il fatto non è senza significato, anche la traduzione dal francese di Méthode d’instruction pour ramener les prétendus réformés à l’Église romaine, et confirmer les catholiques dans leur croyance, Par M. de LA FOREST, custode-curé de Sainte-Croix de Lyon, Roma, De Romanis, 1817. Si aggiunga che nel 1820 un’altra conversione di grande risonanza, quella del bernese Karl Ludwig von Haller (già noto per virtù di tradizione familiare, in quanto nipote di Albrecht von Haller)27, determina un’ulteriore ondata di discussioni, di polemiche, ma anche di incentivo alla conversione per molti protestanti: un fenomeno che le riviste e gli editori di parte cattolica dell’epoca, come si vedrà, regolarmente registrano, dandone specifica notizia, con ragguagli, sintetici particolari di cronaca, e date delle cerimonie di adesione al cattolicesimo (insieme ai protestanti – luterani, calvinisti, e in minor misura valdesi – figurano spesso anche alcuni israeliti). Karl Ludwig von Haller28, che attirerà l’attenzione di Antici anche a livello ufficiale (si veda MARCHESE CARLO ANTICI, Restauration der Staats-Wissenschaft etc., cioè: Ristaurazione della scienza politica del sig. Carlo Ludovico de Haller. Vol. 5, contenente la Macrobiotica de’ dominj ecclesiastici, ossia degli stati sacerdotali. – Winterthur 1834, in «Annali delle scienze religiose», II, n. 4 – gennaio-febbraio 1836 –, pp. 3-12), può avere a sua volta esercitato, proprio con la sua conversione nel 1820
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(una conversione peraltro maturata dopo lungo processo di riflessione interiore e di meditazione sulle categorie culturali del protestantesimo e del cattolicesimo, e gradualmente preparatasi durante lo stesso lavoro di stesura della Restauration der Staatswissenschaft), un’indiretta influenza persuasiva su Antici nella valorizzazione dell’impegnativo lavoro di traduzione della Vita e dottrina di Gesù Cristo dell’altro grande convertito di lingua tedesca, appunto quello Stolberg di cui, nel 1827-1828, lo zio di Giacomo Leopardi pubblicherà anche la traduzione, in due volumi (Roma, presso Antonio Boulzaler) dei Fatti e ammaestramenti più memorabili degli apostoli raccolti in lingua allemanna dal conte Federico Leopoldo di Stolberg recati nell’italiana dal marchese CARLO ANTICI; l’ex luterano graf zu Stolberg, con rigore e con profonda serietà, e con convinta intenzione espressiva del suo sofferto approdo di fede e del suo ritorno confessionale a quella che è sentita come la religione-“madre”, scrive con intenzione magnificante una storia del cristianesimo concepita e condotta per intero da un’ottica cattolica, senza per questo scordare le basi tecniche apprese nella rigorosa tradizione d’esegetica biblistica tedesca, ivi compresa quella veterotestamentaria, derivategli dalla precedente adesione, ed appartenenza anche in chiave antropologica, al credo protestante. Né qui si può parlare d’estremizzazione di zelo da neofita, d’intensificato ardore da neoconvertito29. Si può fare richiamo30, a riassorbire contestualmente determinate scelte di Antici nel quadro delle strategie culturali cattoliche dell’epoca, a un’analogia di titoli con la produzione dell’ultima parte della carriera dell’abate Cesari. Le ricognizioni neotestamentarie (Vangeli ed Atti degli Apostoli), anche ad ampio raggio, percorrono, insomma, l’epoca della Restaurazione, fino, se si vuole, al limite dell’anno 1830, tradizionale punto di conclusione, convenzionalmente accettato, dell’epoca in prevalenza segnata dalla rivalsa monarchica nell’Europa del dopo Napoleone, in una scansione periodizzante nella quale anche la produzione d’Antici sembra nel complesso rientrare, come opera d’un intellettuale rappresentativo del mondo papalino, senza eccessive sofferenze d’integrazione. L’esperienza della traduzione da Stolberg riveste però, in questo senso, alcune caratteristiche di spicco qualitativo, data la peculiare e insieme vasta risonanza della vicenda di convertito del conte tedesco, e data altresì, nello stesso tempo, la gamma di competenze linguistiche, ermeneutiche, saggistiche che a un traduttore, e consapevole antologista e divulgatore, sono richieste per un’opera nella quale occorre ottima conoscenza della lingua originale (il tedesco, allora, è, come in parte si è detto, meno conosciuto del francese, e non solo nell’àmbito dei letterati italiani). Non è inutile rammentare che uno degli aspetti precipui di questa vera e propria operazione culturale che è la traduzione da Stolberg, nella quale gli aspetti qualificanti e non scontati non sono per nulla neutralizzati, o banalizzati, bensì addirittura rinforzati dal contorno contestuale che li accompagna e che li spiega, è costituito, nella sua importanza, dal fenomeno e dalla tematica dei convertiti, così com’essi approdano nelle pagine dei saggisti e dei pubblicisti della Reazione; la presenza delle vicende di convertiti, di qualunque professione e di qualunque caratura socioculturale, attraversa le pagine delle riviste dello Stato pontificio, da Roma a Pesaro, ma si estende anche al ducato modenese (dalle «Memorie di Religione» degli eredi SoliaVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
ni a quella che sarà la «Voce della Verità» a partire dai primi anni 1830), contribuisce alle collezioni di Opuscoli delle società per la promozione della cultura cattolica (è il caso dei «Calobibliofili» di Imola) ed entra nel criterio di composizione di miscellanee nelle quali spesso si trovano, con un metodo non casualmente aggregativo, bensì tematicamente pertinente e intimamente coeso, articoli, saggi ed estratti di periodici. Si consideri, ad esempio, la miscellanea a stampa 34. 4. e. 7 della Nazionale di Roma. In essa, alle pp. 21-2831, è riprodotto (1826) Il sistema protestante stabilito nell’ordine militare. Parabola del Barone CARLO LUIGI de HALLER; il concetto che vi si sostiene è quello della comunità cristiana paragonata ad un’armata, con il suo «Generalissimo» ed il suo «Luogotenente»; in questo senso, il valore dei «regolamenti» (nei quali è trasparentemente indicata, nella parabola, la Scrittura, ed in particolare il Vangelo) è ridimensionato al rango di mero punto di riferimento che presuppone l’armata stessa, di regolamento che è stato scritto dopo che essa si è formata; tale priorità dell’«armata» cristiana rispetto alle sue regole scritte induce ad affermare che, se il ragionamento venisse portato al limite, si potrebbe persino fare a meno degli stessi regolamenti; se l’antica disciplina e l’antico assetto del gregge cristiano sono stati eliminati, se si è formato quel nucleo di innovazioni organizzative che, in definitiva, ha fornito esca alla polemica luterana in nome d’un ritorno alla fedeltà alle scritture, ciò è avvenuto perché, interpretata appunto alla lettera, la “disciplina” si era trasformata in indisciplina. E il discorso halleriano coglie in tal modo l’opportunità di uscire dall’esile velo di metafora per rivolgersi direttamente ai principi protestanti, in modo così sintetizzabile: “– Ammettereste nei vostri stati una indisciplina come quella che nella parabola il supremo Generale ha dissipato? –”; la risposta negativa all’evidente interrogativo retorico conduce ad approvare – né, certo, nell’ottica halleriana, potrebbe essere diversamente –, il “decreto” del Supremo Generale, il quale ha stabilito, e questa è stata la vera “riforma”, che il gregge aveva diretta necessità di un’intermediazione ufficiale e accreditata, e quindi pronta a guidarlo, a razionalizzazione ed a reductio ad unum del disordine delle menti e dei comportamenti nei membri dello stesso gregge. Non può, insomma, valere la lettura diretta del regolamento, cioè dei Vangeli, poiché lì non è scritto tutto, né può esserlo, e quel che vi è scritto non può essere fatto oggetto di libera interpretazione, ma costituisce, anzi, una “materia” che va spiegata con dottrina e con didattica, e dunque con vive e con concrete figure e strutture di maestri e d’intermediarî: com’è fin troppo evidente, si tratta d’una precisa e perspicua pronuncia contro il protestantesimo, contro il libero esame, contro il contatto diretto con la Scrittura32. Nello stesso modo, sempre in tema di conversioni, si vedano le Notizie religiose che, qui come negli altri casi, costellano la miscellanea alla fine di ogni contributo o saggio; alle pp. 11-12 si riferisce, per quanto riguarda l’Italia come sede formale della stessa conversione (ma il percorso del neocattolico di cui si scrive contempla anche la Svizzera e la Francia), della vicenda di Pietro (Pierre) Rossette33 di Losanna, di trentotto anni: «Luterano, fu militare, Domenica 25 settembre 1825 nella Cappella dello Spedale di Parma abbiurò solennemente i suoi errori», assistito da un reverendo ecclesiastico italiano, un teologo (Ferdinando Tacchini), e scegliendo di «vivere cattolicamente in Bordeaux» anziché a Losanna, una
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Bordeaux che costituisce un volontario esilio, appositamente eletto per dare prova d’attaccamento alla nuova fede. Non meno significato è attribuito alla vicenda di Jean-Pierre D’Aldebert nel Varietà (1826, t. III – «Luglio-Agosto-Settembre» –, p. 1) riportato nella «Collezione degli Opuscoli pubblicati dalla Società de’ Calobibliofili di Imola», presente nella Biblioteca Apostolica Vaticana; ci si sofferma sugli effetti vantaggiosi prodotti dalle «Missioni», anche in sedi europee, con le abiure di molti protestanti: nella sola parrocchia di Saint-Baudille, in Francia, ne sono avvenute tre. Ma la più clamorosa è stata quella del giudice del Tribunale di Nîmes, appunto il Signor D’Aldebert. Dal 1815 era disgustato dei suoi correligionari protestanti; dopo aver visto le missioni, ha presto maturato la voglia di convertirsi, e lo ha fatto il 27 gennaio dello stesso 1826; ha quindi dovuto combattere con il figlio, ministro protestante nel Delfinato, ed ha dovuto altresì combattere con le due sorelle, alle quali ha scritto una lettera, in cui raccomanda (p. 4) di convertirsi anche loro e di coltivare un atteggiamento ben diverso da quello del tentativo di stornarlo, come appunto hanno fatto loro e ha fatto il figlio, dalla “contro-conversione”; ma già alla p. 2 si era alluso agli esempi più famosi in quella zona, ovvero, secondo le parole dello stesso giudice Jean-Pierre D’Aldebert, gli esempi «del Signor di Bragassargues e del Signor Priore di Bragassargue mio zio paterno; quello del fratello del Signor Laval, e del Signor D’Aldebert de Roux, miei zii materni, e paterni» (la vicenda di Monsieur Laval, di cui viene qui rammentato solamente il fratello, ha a propria volta una notevole eco); egli inoltre dichiara di aver seguito l’esempio di molte altre persone: «una moltitudine di miei concittadini»; il cattolicesimo è la stessa religione che i suoi antenati hanno seguito per cinque secoli, e quindi, più che di vera conversione come mutamento, come trasferimento spirituale ad altra dimensione confessionale, si tratta piuttosto d’un ritorno, d’un recupero di ciò che era già proprio, d’un recupero, insomma, della casa comune, della casa paterna. Alle pp. 5-6 si parla del fatto che in Russia i Gesuiti (nel periodo 1799-1818, durante il ventennio in cui, pur con alcune vistose eccezioni, erano consapevolmente accolti soltanto in quel paese) non hanno dato adito a critiche; e si ricorda pure (pp. 6-7) la conversione di Peter Fickeinsen34, bavaro, suonatore nel secondo reggimento svizzero di Francia a Madrid, che si è rivolto al Patriarca delle Indie, grande elemosiniere di Spagna, dichiarandogli l’intento di abiurare gli errori del luteranesimo; il Principe Infante di Spagna, Don Francisco de Paola, lo avrebbe seguìto egli stesso, anziché limitarsi a fargli da padrino, e avrebbe congedato benevolmente l’Abate francese Ducos, che avrebbe potuto accompagnare e portare a compimento la stessa conversione in qualità di rappresentante del personale ecclesiastico. Di nuovo, nella miscellanea della Nazionale di Roma, nelle Notizie Religiose (p. 5), viene dato resoconto del Giornale «L’Amico della Religione, e del Re», n. 1200, dell’8 febbraio 1826. Si rimarca con grande sollievo e soddisfazione il grande successo delle Missioni in Francia: «confessioni, comunioni, restituzioni, riconciliazioni, matrimonj civili benedetti. In alcuni luoghi gli Ebrei stessi hanno voluto contribuire al decoro delle funzioni; altrove i giudici, i maire, i corpi municipali, e le persone più ragguardevoli hanno voluto portare la Croce pei primi. Aumento di pie istituzioni, e congregazioni; in somma ovunque un generale santo entusiasmo. GranVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
demente poi si distingue l’attività e lo zelo dei Vescovi onde promuovere la pietà de’ fedeli. Alcuni squarci di Omelie, e Pastorali pubblicate pel Giubbileo, e per la Quaresima, inseriti nel detto giornale, fanno apertamente conoscere la dottrina, e lo spirito dal quale essi sono animati, e che la maggior parte del loro gregge è sana, e docile alle istruzioni de’ loro pastori»35. Importante anche la citazione di un articolo del giornale ecclesiastico «L’Amico della Religione e del Re», con la «proposta di associazione [abbonamento] alle Lettere sull’Italia di M. DE JOUX» (Joux De La Chapelle). Si tratta d’un ministro protestante di cui si è già annunciata la conversione; egli ha scritto queste lettere, senza averle potute vedere pubblicate, come introduzione alle Veglie Napolitane; nella Prefazione alle lettere egli spiega i motivi della sua conversione. Nato, infatti, nel 1752 in una piccola città alle falde delle Alpi da madre francese oriunda di Nîmes, a ventitre è anni ministro protestante; studia a Ginevra, in Inghilterra e a Basilea. A Parigi, da Court di Gebellin, collabora al Mondo Primitivo, al Dizionario delle Origini Latine, alle Origini Greche, alla Istoria della Parola; lavora nel dipartimento del Lemano, è presidente del concistori di Nantes per undici anni e mezzo. In séguito, Fontanes lo nomina rettore dell’Università di Brema, ma gli avvenimenti del 1813 lo scoraggiano dalla prospettiva di accettare questo incarico, mentre, sul piano propriamente religioso, è già disgustato del protestantesimo. Se nel 1803 aveva pubblicato, ancora in pieno spirito ortodosso, Predicazione del Cristianesimo, in séguito egli maturerà, sulle confessioni cristiane, posizioni assai diverse. Compirà un viaggio in Italia nel 1816 con un giovane Lord inglese che studiava a Oxford (lo stesso De La Chapelle s’era messo ad insegnare Lingue antiche nell’istituto di Dollar presso Stirling, in Scozia, dove attese alla composizione delle Lettere). L’Italia non è una terra nuova per lui, poiché vi è già stato in visita, nel 1773, con Lord Allen; il viaggio gli serve soprattutto per informarsi dei riti, per porre tutte le domande che si affacciano alla mente del credente coscienzioso, per assistere effettivamente agli stessi riti, per convincersi della loro validità, e infine per superare i dubbi e abiurare, una volta tornato dalla Scozia sul continente, a Parigi, nelle mani dell’Arcivescovo della città, l’11 ottobre 1817, poco prima di morirvi, il 29 ottobre; anche la figlia, venuta ad assisterlo, assume la sostanza confessionale del percorso religioso paterno, a propria volta abiurando in favore della fede cattolica36. Vi è un altro nome sotto cui è indicato il convertito, quello di Pierre de la Chapelle; con questo nominativo e con quello di Eusebio Adhemar, priore dell’Abbadia di Saint Hermance nel Chablais, le lettere sono indirizzate a Sir Edward Clinton conte di Moreland, a Oxford. I nomi di Adhemar e di Moreland sono supposti, perché il compagno di viaggio non voleva essere conosciuto. Proprio il priore giustifica la dottrina cattolica dalle obiezioni dei protestanti, difende il metodo di lettura guidata, esposta, spiegata ed assistita delle Sacre Scritture, sostenendo, altresì, il valore e la proponibilità delle cerimonie e dei riti; non manca la difesa degli ordini religiosi e della loro importanza, soprattutto in nome dei servigi che essi hanno, nei secoli, variamente reso alla religione e alla società. E il cattolicesimo romano è puntigliosamente difeso nelle figure e nella rispettiva funzione dei Papi, della Chiesa e della sua autorità, dei dogmi, in partico
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lare quello del Purgatorio, il “regno” che nella sua connotazione ibridamente intermedia più si è prestato alle obiezioni teorico-dottrinarie; le lettere si possono in tal senso unire ai Trattenimenti di Starck, al Milner delle Eccellenze della Religione, alle Lettere di M. Cobbet; ed ogni considerazione, come ogni presa di posizione, risulta a favore del cattolicesimo37. Ancora più vibrante di ansiosa incertezza, d’espressione d’interrogativi e di dubbi, di acquisizioni di fede e di inceppi, di non lievi difficoltà derivanti da una storia e da una cronaca personale di protestante dichiarato, risulta la vicenda di Monsieur Laval. Nel tomo II («Aprile-Maggio-Giugno» 1825) della citata Collezione degli Opuscoli imolesi presenti in Vaticana, vi è la «Lettera del Sig. Laval fu ministro protestante a Condé sul Noireau A QUELLI DELLA GIÀ SUA COMUNIONE RECATA DAL FRANCESE IN ITALIANO DAL PRETE G. N. B., Seconda edizione, In Imola, Galeati, 1825». Se ne legga uno specimen, verificando, nella progressiva serie di incertezze e di insoddisfazione spirituale, e anche propriamente razionale, proveniente dall’appartenza al protestantesimo, la prefigurazione degli approdi di calma e di serenità, di appagante raggiungimento di tranquille certezze, che il ricongiungimento (tale è infine giudicato il processo di conversione) con la Chiesa cattolica di Roma procura al cristiano peregrinante dalla confessione riformata a quella del Papa, e si constati come questo percorso, questo a suo modo pregnante itinerario di allure soggettiva e insieme oggettiva, psicologica e teologica, individuale e dottrinaria, infine di crisi della “lettura” biblica protestante e di crescente affermazione del sentimento cattolico, della conquista d’un abbandono della propria solitudine intellettuale nella “superiorità” d’una porpora vescovile, sia esattamente il tragitto che corrisponde, nei suoi esiti, nel suo approdo finale, e ovviamente senza l’esperienza della conversione, alle persuasioni ed alla concreta funzione culturale che il marchese Antici, cattolico da sempre (ed altri studiosi con lui), incarna ed attua alacremente, in quegli anni, nelle reintegrate strutture di Roma papalina. I convertiti forniscono, insomma, la medesima serie di ragionamenti, la stessa successione di sequenze argomentative, vivificate dal palpitante palcoscenico della narrazione autobiografica (con i suoi passaggi ora affannosi ora brucianti, ma infine faticosamente vittoriosi), che Antici offre nei suoi scritti (come nell’introduzione sulla vita e sulla carriera dello stesso Stolberg, come – sia pure in forma ricavabile in modo meno diretto – nel caso dello scritto su Haller, come nel caso di molti passaggi drammatizzati dell’autobiografismo hurteriano; solo del nipote Giacomo non potrà scrivere in chiave di saggistica di conversione); Antici trova nei convertiti l’affabulazione in prosa autobiografica di quegli itinerari che la terza persona della sua prosa di scrittore, pervenendo agli stessi risultati, distende in forma di ratio saggistica. In Stolberg, dotto tedesco d’origine confessionale luterana, ormai acquisito allo status di convertito pieno e convinto al cattolicesimo, a Roma e al Papa, Antici trova dispiegate, in una delle più famose “storie” del cristianesimo, la sapienza ecclesiologica e la sapienza biblico-scritturale esibite dall’ex riformato, reo confesso dei suoi errori, così come nella fatica di Haller egli troverà, sotto la forma d’un’opera in più volumi, il dono d’una scienza politica, o politico-statuale, recuperata, secondo gli auspici dei conservatori, alla sua cifra patrimonialistica, tradizionaVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
listica, e infine risolutamente attestata sulla politologia cattolica e sul favore espresso per gli Stati ecclesiastici, in quell’adesione alle strutture, anche temporali, del cattolicesimo che era, nello stesso Haller, maturata già da molto tempo prima della conversione “ufficiale” del 1820, come, cambiate le date, avverrà nel caso d’un altro svizzero tedesco, Friedrich Hurter; né tali processi possono in alcun modo risultare indifferenti ad un intellettuale, come il marchese Carlo Antici, formatosi a livello internazionale nel crogiuolo europeo, nel laboratorio di riflessioni religiose offerto dalla Germania meridionale, e in particolare dalla pensosa Baviera cattolica. Ecco il primo passaggio di Laval: Quegli che vi scrive, miei fratelli, allevato come voi nel seno del protestantismo, e incaricato anzi per più anni di insegnarvelo, vi ha cercato invano quella quieta pace della coscienza, che non si può più trovare fuori della via della salute. Convinto, che l’indifferenza per la vera fede non è in fondo, se non il disprezzo di Dio medesimo, non si poteva calmare a pace fin che era incerto di possederla: ma quanto più vivo sentiva il bisogno di conoscerla, tanto più gli era amaro il non trovare nel protestantismo, che delle sole incertezze. Interrogava la sua ragione, e la ragione, abbandonata a se stessa, errava di dubbio in dubbio: interrogava la Bibbia, ma né anche questo divin libro, sendone per lui unico interprete la debole e incerta sua ragione, non poteva punto meglio rassodare la sua fede. Se, afflitto di non trovare nel suo proprio giudizio una regola certa di fede, la cercava altronde, il protestantismo non gli rispondeva da tutte le parti, che con un’orrida confusione di opinioni contraddittorie, che lo sprofondavano in sempre più oscure incertezze: ciò stesso avealo avvertito in Francia, in Svizzera, in Alemagna, in Inghilterra, e ovunque avea veduto i protestanti, e spezialmente i ministri, ondeggianti ad ogni vento di dottrina, sempre irresoluti, né mai sopra verun punto d’accordo, che nel dubitare. Tal era lo stato crudele, cui era condannato nel protestantismo: entro se stesso non trovava, che incertezze, e al di fuori incertezze ancora più grandi (pp. 1-2).
Di più, a p. 5, vi è l’espressione d’una ricerca di vittoria sulla solitudine, sull’individualismo, da conseguirsi mediante l’appello a figure di “docenti” che a loro volta si appoggino a strutture spiritualmente maieutiche: «Condannato ad irrimediabili incertezze, perché volli, dietro il principio del protestantismo, essere io stesso l’autore e l’arbitro della mia fede, sentiva l’assoluta necessità di un’autorità insegnante, che inappellabilmente determinasse la vera fede»; il percorso prosegue, a ritmo crescente, a p. 6: «Spogliato di tutti questi beni [la fede, la pace e la vita], per aver cercato la verità nell’orgoglio della mia ragione, e come poi anche un sol punto esitare a rientrare coll’umiltà nel possesso di questi beni medesimi, sommettendo le mie vane opinioni all’autorità della Chiesa eterna?»; le difficoltà non sono ancora del tutto superate (pp. 6-7): «ma non era ancor vinta la mia volontà: mi sentiva entro me stesso un terribil contrasto, lo sprone della coscienza, e gli umani interessi, che mi rattenevano: gli amici, che la conversione mi faceva perdere, la mia famiglia, cui privava di una parte de’ suoi mezzi d’esistenza, e infine lo dirò io, e perché no? quello sciagurato e vil rossore di ritrattare i propri errori e di abbandonare una setta, della quale fui sì gran
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tempo il sostegno, bilanciavano nella mia anima l’impero della verità». A p. 8, rivolto ai «fratelli», Laval, l’ex ministro protestante, scrive: «[…] l’amarezza, che mi corruccia, ripensando a tante anime, che io ho trascinato nell’errore, mi vien temperata dalla speranza, che forse a molti non fia inutile questo piccolo scritto, quando il leggano con sincero desiderio di conoscere la verità. E perché ricuserete di ascoltarmi?». Ancora, alle pp. 8-9: «sì, miei fratelli, il protestantismo non è in sostanza, che un vero sistema d’incredulità, posato sulla stessa base degli altri sistemi d’errore, e il cui perfetto sviluppamento sarebbe la distruzione del Cristianesimo […]. Il principio fondamentale del protestantismo si è, che nell’interpretazione della Scrittura si faccia ciascuno unica regola di fede la sua ragione, che gli determina il senso della Bibbia, nessun protestante non può averne verun’altra. Quindi, siccome nessuno può credersi infallibile, né per conseguenza esser sicuro d’aversi fatta una fede scevra di errori, così nessun pure può avere una fede certa»; così, alla p. 17: Voi scoprite un tal domma nella Bibbia, e sulla vostra ragione voi lo credete; ma se la mia ragione non ve lo scorge, o vi scorge anzi il contrario, io lo debbo rigettare in forza di quel principio medesimo, per cui voi lo ammettete. Così il luterano ammette la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, perché la sua ragione lo vede chiaro nella Bibbia; ma siccome non ve lo vede la ragione del calvinista, il quale non ha verun obbligo di cedere a quella del luterano, da lui non si può esigere questa credenza, né asserire, che sia necessaria. Ugualmente la ragione del luterano, e del calvinista è convinta, che v’ha chiaramente espressa nella Bibbia la divinità di Gesù Cristo: ma come il sociniano, interpretando anch’egli colla sola sua ragione la santa Scrittura, crede trovarvi il fondamento di un’opinione contraria, non solo non ponno asserir necessaria la fede della divinità di Gesù Cristo, ma deggiono di più riconoscere, che in forza del comune principio de’ protestanti, il sociniano la deve rigettare.
Alla p. 36, n. 2, compare, non a caso, e a chiusura del circolo storico e logico, proprio la figura, già celebre, del conte Friedrich Leopold von Stolberg: «Lorché [francese: «Lorsque»] il conte di Stolberg, celebre scrittore di Alemagna si fu convertito alla religione cattolica, un principe protestante gli disse: “io non amo chi cangia Religione. – Neppur io, gli rispose il Signor di Stolberg; perocché, se i nostri avi non l’avessero cambiata, già tre secoli, non sarei stato obbligato a cangiarla io oggidì”»; e a p. 37: «[…] abbandonare il protestantismo per rientrare nella Chiesa cattolica, questo è passare dalle variazioni alla credenza invariabile, dalle divisioni all’unità, dall’errore che è nato sol jeri alla verità che è di tutti i tempi; questo è passare dal dubbio alla fede, sfuggir dalla morte per ricuperare la vita». La letizia per le conversioni può giungere al ribaltamento storiografico vero e proprio della visione culturale dei decenni a cavallo tra Settecento ed Ottocento, un ribaltamento che interessa persino la sfera terminologica: «secolo de’ lumi» finisce per essere, anziché il XVIII (il siècle des Lumières per antonomasia), quello delle conversioni, in quanto esse sono, nell’ottica cristiana, insieme frutto e fonte di luce, di illuminazione spirituale e religiosa per le anime. È quanto si rileva nelle «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura», di Modena, I serie, vol. XII, anno 1827, pp. 184VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
188 (da noi consultata direttamente nella Biblioteca Estense Universitaria di Modena – A. 46. N. 12 –): Il secolo de’ lumi recitato nell’ultimo giorno del MDCCCXXVI nella chiesa cattedrale di Novara, Novara, 1827; in questo testo, inserito nelle Notizie bibliografiche anonime (come spesso accade nella realtà delle riviste quando si tratta della redazione di rubriche), si ricorda e si analizza il discorso di fine d’anno tenuto da monsignor PIETRO SCAVINI (uscito ad Alessandria nei numeri 4 e 5 – 1827 – del locale «Giornale Ecclesiastico»), canonico proposto della cattedrale di Novara e vicario generale del relativo vescovo; «secolo de’ lumi» è espressione che può in realtà soddisfare i cattolici: la fiducia, non così male riposta, di monsignor Scavini (si ricorda a questo proposito il Salmo LXXXIX, 9: «posuisti saeculum nostrum […] in illuminatione») si fonda sull’ultimo anno, il 1826, che ha visto realizzarsi molte conversioni; è la tendenza che abbiamo notato come predominante in queste riviste e in molte di queste miscellanee: un buon numero di protestanti ed ebrei si converte, e qui se ne stila, con compiacimento redazionale, l’elenco. Alla p. 185 viene citato il principe Ferdinand Friedrich d’Anhalt-Coëthen, convertitosi ufficialmente nel gennaio del 1826 (e con lui la duchessa consorte); viene fatto oggetto di scherni, come in ampia misura era accaduto a Stolberg e ad Haller (e come avverrà ad Hurter), da parte di giornali tedeschi protestanti, ai quali si contrappone il 29 agosto 1827 il giornale cattolico-conservatore francese «L’Ami de la Religion et du Roi», stimatissimo da periodici quali, appunto, le «Memorie di Religione» e, di lì a poco, «La Voce della Verità»; non mancano in queste pagine i più volte citati Pierre De Joux de la Chapelle e sua figlia Joséphine, e in particolare ci si riferisce alle Lettere sull’Italia di Pierre; è citato Karl Ludwig von Haller, in quanto anch’egli scrisse lettere alla famiglia e fu bersagliato di lazzi e di polemiche dai protestanti. La lettera di Joséphine de Joux de la Chapelle è stata pubblicata nelle stesse «Memorie di Religione», t. X, p. 435; vi sarà poi la conversione dell’inglese Leopold Wright, accompagnata da lettera alla madre: la conversione del Wright è ricordata nelle stesse «Memorie», «ivi», p. 117; in séguito, ancora in Piemonte, a Pinerolo, è il caso del giovane valdese Giovanni Daniele Tourn, di cui viene evocata una lettera al padre (cfr. «L’Ami de la Religion et du Roi», t. XLVIII, p. 186), e di altre conversioni si legge in molti giornali appartenenti a questo tipo di pubblicistica cattolica; per ricordare, in ottica interna alle «Memorie» stesse, altri casi, altri “prodigi” di fideistico ravvedimento, si vedano, per limitarsi allo stesso 1826 e al contestuale àmbito emiliano, modenese-parmense, le conversioni dei protestanti Giorgio Meülly a Correggio («Memorie di Religione», t. IX, p. 580) e del citato Pietro Rossette a Parma («ivi», p. 550). Tre valdesi piemontesi s’erano già convertiti prima di Tourn, e altre conversioni sono avvenute in Francia, in «Alemagna», in Italia. Oltre ai valdesi, gli ebrei: Drach (p. 186) per primo, nel 1823, e poi la Costantini d’Ancona, e così Luzzati di Torino (autore delle Osservazioni sulla falsa persuasione degli Ebrei di non ammettere il vero Messia), ed altrettanti eventi di conversione a Genova, ad Alessandria, a Torino, a Vicenza, ad Ancona, a Roma. Riguardo al Giubileo del 1826 (“anno dei lumi”, secondo la definizione di monsignor Scavini, dei lumi “non illuministici”), e sulle conversioni avvenute in tale occasione, vi sono state omelie di Monsignor Luigi Lambruschini a Genova (a quell’epoca è nunzio a Parigi). E
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conversioni vi sono state (p. 187) nella diocesi di Migné in Francia, vicino a Poitiers, già nota per l’esperienza di apparizione del sacro, una vera ierofania cristologica, fruita da Mère Noailles, superiora della Maison de Lorette. Ma sulle conversioni vi sarà anche il contributo della «Voce della Verità», sempre di Modena; nel numero del 29 novembre 1831 è data una notizia del 15 novembre riguardo ad una conversione che è dell’8 ottobre di quell’anno: si tratta dell’approdo al cattolicesimo di Salomon Vita Ascoli; dettero notizia della conversione del primo Ascoli, nella stessa Modena, le «Memorie di Religione», XVI, p. 589, 1827; la notizia sarà ripresa l’anno seguente, 1828, quando Ascoli ha cambiato nome in Pier Luigi Ricotti; poi, appunto, la serie di conversioni sulla sua scia e sul suo esempio, nel 1831: del figlio Prospero, divenuto Luigi, dell’altro figlio Salomone, divenuto Michele, e della nipote Allegra, ad Ancona. Così, dalla citata «Collezione degli Opuscoli pubblicati dalla Società de’ Calobibliofili Tomo III. Luglio Agosto e Settembre Anno. II 1826. Imola, Dalla tipografia Galeati, 1826 a spese della Società de’ Calobibliofili / Con licenza de’ Superiori», presente nella Biblioteca Vaticana, si vedano, p. 94, le Notizie ecclesiastiche: in Italia una giovane inglese, Giorgina Euland Clarke, a Pesaro, ha abiurato il protestantesimo, preceduta dalla madrina, Anna Gordon; a Bologna, un ebreo, Giovanni Modena droghiere, ha abiurato e ricevuto i Sacramenti. A p. 15 del successivo inserto, viene riferito che gli ebrei alsaziani Drach (già citato nelle modenesi «Memorie di Religione»), Liebermann e Morel hanno abiurato e ricevuto i Sacramenti; segue, non a caso, nella «Collezione» imolese, la traduzione della Lettera Apostolica di Leone XII “contro le occulte e segrete sétte”. Si ricordino, inoltre, a segno di prosecuzione dell’interesse da parte delle riviste cattoliche per i convertiti, in «Annali di scienze religiose», II, 6 (maggio-giugno 1836), p. 139, la «Notizia dei protestanti convertiti alla Religione Cattolica, descritta da GIUSEPPE BRUNATI sacerdote. Seconda edizione emendata ed accresciuta dall’autore, Milano, dalla tip. Pogliani, 1837», e («ivi», pp. 153-156) «Agli increduli ed a’ credenti l’ateo ridivenuto cristiano, op. del sig. DELAURO-DUBEZ, Parigi, presso Toulouse librajo, 1838», tratto da «L’Ami de la Religion et du Roi», n. 2950; nell’ultimo contributo citato, viene tracciata una nota biografica dello stesso Delauro-Dubez, magistrato che, nato a Rodez nel 1746, compie la propria carriera a Tolosa e a Montpellier, in séguito torna a Rodez e vi muore nel 1829; il recupero della fede avviene, secondo la narrazione, in una passeggiata fatta nel proprio paese nel 1812, con il corredo di mito agreste e di commozione idillica, del valore di incontro “topografico” rivestito da una chiesa di campagna nella quale egli si è imbattuto durante la promenade, del ricordo della madre, e appunto della conversione dalla precedente incredulità. Il ritorno al cattolicesimo attivo implica un’estate di attenta riflessione e di profonde letture di quegli stessi autori che spesso vengono citati da Antici: Pascal, Bossuet, Bourdaloue, Massillon, e, a recupero delle basi storico-religiose, Sant’Agostino38. Il conte Friedrich Leopold von Stolberg non è quindi una personalità sconosciuta, o una figura estemporanea di convertito assurta a breve fama; egli, invece, come prima ricordato, è conosciuto da Goethe, anche se dallo stesso Goethe è citato polemicamente proprio quale convertito al cattolicesimo (e come critico-interprete, dal punto di vista cristiano, dell’ode Die Götter Griechenlands di Schiller); si ricordi, VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
nel Faust, il Sogno della notte di Valpurga (Walpurgisnachtstraum), sottotitolato Nozze d’oro di Oberon e Titania; l’«Orthodox», sottoposto a ironia nel suo zelo di neofita d’una confessione da poco abbracciata, rintraccia diavoli dovunque, anche nelle divinità pagane, che risultano, in tal senso, in tutto demonizzabili: «Keine Klauen, kein Schwanz! / Doch bleibt es außer Zweifel: / So wie die Götter Griechenlands, / So ist auch ein Teuffel» («Niente artigli e niente coda! Però è fuor di dubbio: è anch’egli un diavolo come gli Dei della Grecia»)39. Ancora, i fratelli Stolberg, Christian ed appunto Friedrich Leopold, sono adombrati, nella sfilata di questa notte di Calendimaggio germanico-settentrionale, nel nome e nel personaggio di Windfahne (Banderuola), che, ora guardando da un lato («nach der einen Seite», didascalia), ora da un altro («nach der andern Seite», didascalia), si produce rispettivamente in un elogio e in una deprecazione dello stesso corteo che conviene e che sfila alla festa: «Una società, quale la si può desiderare. Proprio in verità tutte fidanzate! E gli scapoli, uno per uno, gente piena di belle speranze!» / «E se il suolo non si apre per inghiottirli tutti, io voglio, in rapida corsa, saltare, subito, giù nell’inferno»40. Ma non mancano, s’intende, nello stesso passo, allusioni critiche a chi invece vede, o «fiuta» dappertutto dei gesuiti, come l’illuminista-massone Friedrich Nicolai (1733-1811)41. Già conosciuto, dunque, anche ad opera delle critiche indirizzategli dopo la conversione, al punto che l’anno successivo alla sua morte inizia l’edizione completa delle opere sue e del fratello: Gesammelte Werke der Brüder CHRISTIAN und FRIEDRICH LEOPOLD Grafen zu STOLBERG (20 vols, Hamburg, 1820-1825)42; in Italia, comunque, l’operazione editoriale che gli procura maggior fama postuma resta, insieme alla traduzione di de’ Rossi e di Keller, la Vita e dottrina di Gesù Cristo scritta in lingua allemanna dal conte FEDERICO LEOPOLDO di STOLBERG recata nell’italiana dal marchese CARLO ANTICI, 2 tomi, Roma, 1822, Nella stamperia De Romanis43. L’esergo è di Rousseau (ed è di precisa scelta d’Antici): «[…] sì, il Vangelo ha caratteri di verità così grandi, così imponenti, così decisamente inimitabili, che l’inventore ne sarebbe più sorprendente dell’Eroe» (p. III). Forniamo articolatamente l’indice dell’opera: PARTE PRIMA: Dall’annunzio della nascita di S. Giovanni Battista sino alla nascita di Gesù Cristo, pp. 1-42; Dalla nascita di Gesù Cristo sino al suo Battesimo, pp. 42-101; Dal Battesimo di Gesù Cristo sino alla sua trasfigurazione (pp. 101-357; fine della prima parte); PARTE SECONDA: Dalla trasfigurazione di Gesù Cristo sino al suo ingresso in Gerusalemme, pp. 1-175; Dall’ingresso di Gesù Cristo in Gerusalemme sino alla sua morte, pp. 175-341; Dalla morte di Gesù Cristo sino alla venuta dello Spirito Santo, pp. 341-422 (fine della Seconda parte e dell’Opera). Non sorprende la dedica del marchese, risolutamente rivolta ad un sovrano cattolico, ad un alto rappresentante d’un cristianesimo, come quello bavarese, che cattolico, appunto, lo è stato da sempre (pp. V-VIII): A SUA ALTEZZA REALE LODOVICO CARLO AUGUSTO PRINCIPE EREDITARIO DI BAVIERA / Mentre risolvo di render comune all’Italia l’Opera di un insigne Alemanno, VOSTRA ALTEZZA REALE, non sazia mai d’istruzione, sta visitando per la terza volta questa maravigliosa Città. Si accrebbe pertanto in me il desiderio di eseguire sotto gli alti auspicj Vostri tal mio divisamento, onde rendere a V. A., come
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meglio per me si può, un pubblico omaggio della profonda devozione, e riconoscenza, che sino dai miei primi anni consacrai all’Eccelsa Vostra Dinastia. / Nepote di un uomo, che per sette lustri ebbe l’onore di esserne presso la Santa Sede l’accetto Ministro, educato nei Dominj Bavari, e perciò lungamente partecipe io stesso delle Sovrane munificenze, quei sentimenti sono così naturali in me, come in chiunque ha l’onore di avvicinarvisi è naturale l’ammirazione per la sensibilità del Vostro Cuore, per l’affabilità delle Vostre maniere, per l’ampiezza delle Vostre cognizioni. / Quel genio appunto ad ogni nobile, e gentil coltura, che per non breve spazio di tempo Vi allontanò dalla Reggia Paterna, onde acquistarne più dovizioso corredo nell’università di Goettinga, ha ricondotto V. A. R. in questa sede favorita delle belle arti [Roma, la «maravigliosa Città» già prima citata], e saprà (tutti lo sperano) ricondurvela ancora. Né il Vostro amore per esse al piacere si limita di gustarle col più delicato discernimento: ma con generosa mano ne animate i progressi, e con sublime accortezza le dirigete al perfezionamento morale della Vostra Nazione. / Ecco perché nella grandiosa Gliptoteca, che in Monaco a Vostre spese si innalza, ed ove tra tanti altri preziosi monumenti dei Secoli antichi pompeggierà quella numerosa schiera di statue da Voi raccolte in Egina, volete collocarvi a perenne incitamento di virtù i Busti dei più chiari Alemanni. / VOSTRA ALTEZZA REALE così operando, lascia volentieri al Figliuol di Filippo il vanto di aver presa l’Iliade per pascolo de’ suoi pensieri, per norma delle sue imprese. Egli cercava gloria nel depredar la terra. L’ALTEZZA VOSTRA, che sulle orme dell’Augusto Genitore, si prepara a trovarla, vera ed eterna, nella felicità della Nazione Bavarica, altra guida non vuò, che il Vangelo. / E siccome l’A. V., versatissima nelle lingue della Grecia, e del Lazio, non che nelle altre più famose di Europa, gran diletto ritrae dalla soavità della nostra; illudere non mi dovebbe la speranza, che sovente si degni gettare i suoi sguardi su questa mia traduzione, quantunque disadorna tanto e triviale. / Dalla medesima io ripeterei così l’ambita sorte di tener presente alla memoria di VOSTRA ALTEZZA l’indelebile desiderio, che ho di mostrarmi in qualunque incontro col più grato, intenso, inalterabile rispetto / DELLA REALE ALTEZZA VOSTRA. / Roma li 16 Aprile. 1821. / L’Ubbm~o [Ubbidientissimo], Um~o, Obblm~o Servitore / CARLO ANTICI.
Risultano evidenti, da questa dedica, alcuni dati che convalidano i concetti, fin qui constatati, di legame con la Baviera (un legame evocato anche a livello personale dal traduttore tramite la figura di Tommaso Antici, il cardinale zio che lo introdusse negli ambienti delle corti di spessore internazionale), di riproduzione dell’itinerario università-ritorno a corte-viaggio a Roma (nel caso del Re di Baviera, Göttingen-Monaco-Città eterna), la citazione della Gliptoteca con i busti dei famosi alemanni a identificazione delle glorie della Germania, il raffronto comparativo con Alessandro Magno, risolto con un non eccessivo sforzo di retorica a vantaggio del Re che all’eroismo iliadico della conquista preferisce l’unione della propria corona al pastorale della guida cristiana («altra guida non vuò, che il Vangelo»). Segue il Discorso del Traduttore, pp. IX-XL, che reca ad esergo interno all’opera, a significativa ripresa del Rousseau iniziale, il Voltaire de La Henriade, ch. X: «[…] la vérité si long-temps attendue, / Toujours chére aux humains, mais souvent inconnue, / Soudain elle se montre à ses yeux satisfaits, / Brillante d’un éclat qui n’eblouit jamais», in un primo VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
utilizzo di estratti testuali dai grandi illuministi a rinforzo delle tesi della religione. A p. X, nota 1, vi è la citazione dell’Angelo Pandolfini del Trattato del Governo della Famiglia (dal 1414 al 1431 Pandolfini fu alta autorità nella Repubblica fiorentina), quindi la citazione del dialogo Del Governo Famigliare di Senofonte, tradotto da Cicerone, del Fénelon del discorso Dell’educazione delle fanciulle (titolo d’opera peraltro presente anche nello stesso Voltaire), della Madame de Genlis di Adele, et Théodore, di cui Antici ricorda quattro volumi; non manca nella serie di opere evocate dal marchese il Thomas dell’Elogio di Sully e un Sermone di Sant’Agostino ai padri di famiglia: si tratta d’un’autentica rassegna di virtù private come base di quelle pubbliche, in un concetto della famiglia come nucleo dello Stato, nel quale Pandolfini svolge una funzione simile a quella di Leon Battista Alberti. Alla p. XI inizia l’elogio della «Nazione Germanica», con il suo naturale impulso al sapere, con l’innata profondità di pensare, con la sua propensione alla cultura. In questa lode (p. XII) Antici accredita la tesi d’una Germania che al principio della seconda metà del secolo XVIII sarebbe stata ancora culturalmente arretrata rispetto ad altre nazioni d’Europa; non meraviglia che nell’individuazione delle cause di tale ritardo non possa rientrare nella visione di Antici proprio quella maggiore difficoltà che nella stessa Germania ebbe l’illuminismo d’origine francese a penetrare nelle strutture culturali delle classi più elevate e delle classi borghesi, e che non vi possa rientrare la considerazione dell’efficacia della stessa cultura illuministica, in realtà tutt’altro che assente dai paesi di lingua tedesca, ivi compresi quelli d’impronta spirituale e sociale cattolica, nel fare progredire le ricerche nelle scienze sperimentali e nel promuovere rinnovate capacità di riflessione anche nell’àmbito storico-filosofico. Ma il cliché laudativo della ben ordinata, della rigorosamente etica Germania, delle sue costumanze antropologiche che non tradiscono i membri che ne sono partecipi, prevale con assoluta vis di convinta inarcatura stilistica in un prefatore-traduttore (e dotto chiosatore, come si vedrà), qual è appunto Antici, che intimamente sostanzia quel cliché laudativo con il senso reale d’un emergere di memoria positiva della propria gioventù, del ricordo mai decaduto degli anni formativi bavaresi, durante i quali l’apprendimento della lingua e del suo spirito, della sua interna ratio sintattico-espressiva, s’abbinava, in originario e non forzato connubio, con l’apprendimento dei costumi, della morale civile e quotidiana, della morale religiosa, delle disciplinate scansioni tempistiche che producono non già chiusura e restrizione d’orizzonti culturali, bensì, e al contrario, una progressiva apertura di panoramiche nelle indagini sul certo e nelle interpretazioni in vista del vero. Il marchese Carlo Antici non potrebbe condividere con maggiore intensità di quanto avviene in queste pagine, e con più forza di personale, rivissuta persuasione, l’atmosfera della cólta e morigerata terra tedesca, favorevole alla serietà e alle riflessioni (una delineazione di clima umano e culturale, oltre che religioso, che si ritrova anche nell’introduzione anticiana alla figura di Sailer). I padri avevano, se di ceto elevato, tutti i libri perché i figli potessero leggere; i padri di ceto contadino o artigiano passavano, i giorni festivi, ore a leggere all’attenta famigliola libri di pietà o di storia patria. E nonostante la lingua tedesca, dal canto suo, sembrasse poco adatta alla poesia, essa si rese invece protagonista di progressi omerici ed espresse tutto, dalla
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«sublime metafisica sino al leggiadro epigramma». In tale visione, in tale concezione di vita, la divisione di ruoli fra uomo e donna mantiene le proprie caratteristiche tradizionali e più conservatrici; e la differenza di orizzonti culturali fra i due sessi viene riaffermata a tal grado – e qui è Antici che parla – da escludere per le donne la prospettiva dello studio universitario (si pensi, per contro, a quanto, in pieno Settecento, fosse diversa la posizione di un Parini); ma le donne tedesche sono, in compenso, cólte in francese e leggono le traduzioni dalle lingue classiche, e anche dalle altre lingue44. Né vengono meno ai doveri della famiglia, come d’altronde non vengono meno a quei doveri gli uomini, dediti a tutte le attività, dalle più gravi a quelle d’intrattenimento come la conversazione, e tutte le esplicano con spirito severo: si tratta, insomma, nell’ottica di Antici, del cattolicesimo del nord, una sorta di terra di religione romana resa nordica a comporre il cattolicesimo ideale. All’uomo tedesco (pp. XIII-XIV) «non vi è opera di pregio, che appena giunta alla luce non cada sotto i suoi occhi. Tanto numero di avidi, e di sagaci lettori genera ed anima un gran numero di Scrittori nel regno dello scibile, e della fantasia, e mette in pronta circolazione tra quei popoli tutte le scoperte, tutt’i prodotti dell’erudizione, e dell’ingegno, che non solo in Germania, ma ben anche in qualunque angolo del globo divengono di commun diritto col favor della stampa». Sono inoltre presenti nel mercato librario tedesco, in notevole numero, le traduzioni dalle migliori opere di tutte le letterature, di tutti i tempi e paesi, classiche e recenti, russe, svedesi, spagnole, portoghesi, greche, latine, italiane, francesi, inglesi; vi sono i nostri Dante, Ariosto, Tasso, a dimostrazione del fatto che i tedeschi fanno a gara a tradurre il meglio che si possa da ogni letteratura e lingua, a gareggiare («garreggiano», scrive Antici) con l’originale. Si giungerà fino alla traduzione da parte di August Wilhelm Schlegel di Shakespeare; da parte sua, il Cavalier Reinhold, Ministro del Regno dei Paesi Bassi presso la Santa Sede (pp. XIIIXIV, n. 1), tradurrà il Petrarca; e le ragioni dell’antiilluminismo, da parte di Antici, si dispiegano, su questa base, in modo ancora più sostenuto ed aperto, come appare alla p. XV, in cui si manifesta l’auspicio, retrospettivo, che gli intellettuali tedeschi avessero resistito ancor più di quanto già non sia avvenuto alle tendenze del XVIII secolo, che sono state, in definitiva, la ragione, la causa della rovina del pensiero anche in una Germania culturalmente attrezzata per decodificarne le velenose proposte sovvertitrici, i tarli di morale corrosione: così tutti i rinomati suoi Scrittori, resistendo al contagio del tempo, e fedeli serbandosi all’avito carattere schietto, coscienzioso, severo della propria Nazione, si fosser tenuti lontani dalla manìa di desolanti sistemi, e di lubriche produzioni! sarebbe rimasto senza rimorso il loro cuore, senza macchia la loro fama, ed i loro scritti avrebbero consolidato l’impero delle morali virtù. In pregiudizio di queste, ognun conosce ad evidenza esser l’urbanità peggiore della rozzezza, la scienza più funesta dell’ignoranza, e quel che chiamasi progresso di lumi un raffinamento di corruzione, i cui pestiferi vapori non da monti, non da mari rattenuti spandonsi da clima a clima, da secolo a secolo per ammorbare le più separate popolazioni, e la più remota posterità.
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
In nota 1 alla p. XVI Antici riporta, in tal senso, sui talenti depravati, un intero passo dalla Notte XIV di Young: Che stima far si debba di taluni che di questo prezioso dono abusarono a mal fine, basti conoscerlo dal seguente passo. (Young Notte 14): “I talenti, ed il genio per quanto alte siano le loro mire non bastano per costituire tra l’uomo e l’uomo una veramente onorevole distinzione… Allorché io contemplo uno di quei famosi miserabili, uno di quei singolari ingegni, che ricevettero celesti talenti, ma che il cuore hanno vile e corrotto, parmi vedere che riluca sotto la polvere l’illustre porzione di un’anima immortale sdrucciolata dalla sua sfera, e smarrita tra le rovine! Commosso io mi sento da meraviglia insieme, e da pietà: ma non mi dà l’animo di portare invidia allo sciagurato splendore, che serve soltanto a maggiormente palesare le sue macchie. Senza la virtù, i talenti non sono fra le mani dell’ambizione, che un istromento egregio sì, ma reo, che da lei si adopera a commettere celebri misfatti, e di cui fa uso per accompagnare l’onore all’infamia… Indarno sarà la mente rischiarata e profonda, se falso e depravato è il cuore; a cui solo appartiene l’esclusiva proprietà di tutte le doti… La virtù deve sempre esser lo scopo d’ogni nostra operazione. Se lo scopo è vizioso, i mezzi sono privi di merito, e l’esito fortunato è un delitto. La bontà del fine, la giusta convenienza dei mezzi con esso lui, ecco d’onde si forma la verace sapienza. Chiunque applica all’uopo del vizio i talenti ricevuti per la virtù, non è più un grand’uomo, né un saggio; non è costui che un essere imperfetto, un uomo abbozzato soltanto ed informe, un mostro nella specie delle ragionevoli creature” (pp. XI-XII).
Il prefatore passa quindi, risolutamente, all’elogio del conte di Stolberg e della sua morale, della sua concezione letteraria non desiderosa d’immediata gloria; alla p. XIX vengono ricordati quattro volumi di viaggio, sulla Germania, sulla Svizzera, sull’Italia continentale e sulla Sicilia, nei quali è lodata da Antici la gentilezza, la benevola disposizione verso i popoli visitati45. Fa séguito la delineazione della vicenda dello studio della Sacra Scrittura e dei Santi Padri, e della conversione nel 1800, con citazione della lettera del 10 ottobre 1800 al conte di Schmettau, fratello della principessa Gallitzin (compagna di conversione di Stolberg), prussiano altolocato e luterano, con breve spiegazione, richiestagli, della conversione stessa46. Alle pp. XXXXI si sottolineano con serietà da parte di Antici la saldezza, l’inalterabilità, la miracolosità storica della prosecuzione del messaggio e della vocazione martiriale della Chiesa anche al passaggio di secolo di fronte all’empietà e al trionfo (pur temporaneo) delle tendenze rivoluzionarie e antireligiose; Antici condivide pienamente il concetto stolberghiano che sostiene l’impossibilità di allontanarsi dall’unitarietà dottrinale; il cattolicesimo, infatti, non ammette allontanamenti, ed è in realtà, come viene apertamente detto anche ai protestanti, una dottrina rigorosa, con uomini fedeli e disciplinati; il cattolicesimo, se corrisponde ad una fede reale e sincera, non può che essere vissuto seriamente, mentre le altre comunioni cristiane avevano, disgiunte dalla Chiesa di Roma, «il germe della propria distruzione» (p. XX); in nota 1 a p. XX il dotto marchese ricorda che l’esempio fu imitato da Werner, luterano, «uno dei più famosi poeti tragici, ed epici di Germania»; e ancora l’esempio di Stolberg fu imitato, scrive Antici, «nel 1820, da un Calvinista Senatore della Repubblica di Berna Signor
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Carlo De Haller autore di varie opere, e di quella rinomatissima Sulla Ristaurazione delle scienze politiche. Il di lui cognome fu già reso grande dal suo Avo, o Pro-zio Alberto così illustre nella Poesia, e nelle scienze naturali, e che si segnalò in servigio della religione colle Lettere intorno alle verità più importanti della Rivelazione». Nella nota 2 a p. XX Antici critica il concetto di escatologia distruttiva del cristianesimo non cattolico citando la Storia delle variazioni di Bossuet, il Bergier del Trattato storico, e dogmatico della vera Religione e il Dei diritti dell’uomo, libro V, di Spedalieri47, mentre nella nota 1 a p. XXII egli cita il protestante Abt in un’opera sulla virtù dell’esempio (Sul merito) come istruzione nei Vangeli; e le citazioni proseguono, con l’evocazione dei padri del cattolicesimo moderno (p. XXIII): «i Giovanni, i Bonifazj, gli Ignazj, i Franceschi Saverj, i Vincenzi di Paola, i Franceschi di Sales, i Carli Borromei […]». Su questa linea di meditazioni, Stolberg, che era stato Maggiordomo alla Corte del «Serenissimo Duca di Holstein Heutin» (p. XXIV), a cinquant’anni, avendo sostanze sufficienti, e pur avendo famiglia, si ritira a vita privata. L’opera più importante alla quale attende è, appunto, la Storia della Religione di Gesù Cristo: dalla creazione del mondo ai nostri tempi, dall’antica alleanza fino al Cristianesimo, agli Apostoli, ai Concili e infine alle Chiese; e in nota 1, pp. XXVIII-XXIX, sono riportate parole dalle Pensées di Pascal: «L’unica Religione contraria alla natura nel suo stato attuale; l’unica Religione, che combatte tutt’i nostri piaceri; e che a prima vista, sembra in opposizione col senso comune – è l’unica che ha sempre esistito»48. Il primo volume dell’opera, costata quindici anni di lavoro e arrivata, incompiuta, a quindici volumi, è stato tradotto in italiano da Gherardo De Rossi, e dal tedesco Enrico Keller («noto sul Parnaso tedesco per diverse produzioni»). Antici offre la traduzione del Quinto, interamente dedicato alla venuta e alla vicenda del Cristo, mentre i primi quattro sono dedicati «ai fasti dell’antica Alleanza» (p. XXX). Tale traduzione è intessuta dei testi evangelici tutti diligentemente rimeditati, ma innanzi tutto letti, secondo il polemico richiamo di Antici; e questo richiamo produce, alle pp. XXXIIXXXIII nota 1, la citazione del Bossuet di Esposizione della Religione Cattolica, del Gerdil dei Caratteri della vera Religione49, del Pey de La legge di Natura sviluppata e perfezionata dalla Legge Evangelica, dello Chateaubriand del Genio del Cristianesimo (nella traduzione italiana di Luigi Toccagni di Brescia, Tipografia Fontana), del Tassoni de La Religione dimostrata, e difesa. Alla p. XXXVIII, nota 1, l’importante citazione di Friedrich Schlegel (Discorsi sulla Storia recente del signor FEDERICO SCHLEGEL), contro lo spirito di menzogna e contro l’individualismo, contro un’oltranza razionalistica che non dal solo Schlegel viene fatta confluire nel più generale bersaglio polemico costituito dall’illuminismo50; migliore riferimento non avrebbe potuto trovare un marchese Antici che, tramite la figura emblematica di Stolberg, va in quel periodo valorizzando al massimo l’esperienza intellettuale dei convertiti al cattolicesimo; si tratta, soprattutto, di convertiti di lingua tedesca, che non certo a caso si muovono nell’àmbito del romanticismo, in particolare, com’è naturale, del romanticismo culturalmente germanico, di cui Antici, sempre nei limiti d’una visione nettamente conservatrice della res publica e della società, può essere considerato, per lo Stato papalino, un “filtro” attendibile, un decodificatore competente ed inoltrato in VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
alcuni dei percorsi linguistici peculiari dello stesso romanticismo tedesco, e, insieme, un attendibile divulgatore51. Alle pp. XXXIII-XXXV vengono ripresi gli argomenti di confronto fra eroismo classico e eroismo cristiano, in una già consolidata ratio comparativa (che sarà ampiamente ripresa nel citato Discorso del 1826 all’Accademia di Religione Cattolica di Roma) dalla quale, con il supporto di basi documentarie e testuali, e con l’avallo di tesi di ricostruzione storiografica fortemente angolate sulle ragioni polemiche del cattolicesimo conservatore, invariabilmente scaturiscono, quali valori vincenti, i meriti del Cristianesimo nell’aver civilizzato l’Europa: meriti superiori, strutturalmente e qualitativamente, a quelli, secondo la cultura di Antici discutibili persino nel concetto di “merito” o di “meriti” in sé, del mondo classicopagano, greco e latino; e questa gerarchizzazione, indotta dalle parole di Antici, anche sulla base dell’opera di Stolberg, non è lontana dal tradursi in un monito di plurima risonanza educativa, che si irradia verso tutte le età umane e verso tutte le condizioni sociali, e in particolar modo verso i reggitori politici, meglio se, in pieno accordo con le concezioni anticiane (che saranno da parte loro estremamente simili a quelle di Haller e della sua scienza politica), tali reggitori saranno principi o comunque eredi al trono per diritto dinastico familiare (si tratta sempre, in fondo, d’un’osmosi ricompositiva, e reciprocamente identificativa, della scienza politica con la scienza divina, fino all’attribuzione di divinità alla corona regale)52. Alle pp. XXXVXL, non a caso, l’attacco all’illuminismo si fa ancora più esplicito e coinvolge direttamente le conseguenze rivoluzionarie delle dottrine “predicate”, mostrando la negatività delle figure, davvero inattendibili secondo Antici, dei nuovi, demonizzabili “reggitori” politici, dei nuovi responsabili della cosa pubblica; i rivoluzionari hanno infatti chiesto libertà e tolleranza per le loro dottrine, ma una volta avuto il potere si sono trasformati in tiranni e hanno colpito tutti coloro che non consentivano con il loro pensiero, tutti coloro che rivolgevano anche la più moderata critica: «Tali filosofanti, che proclamavano nei loro scritti la chimerica uguaglianza di fatto, e che promuovevano l’infinita suddivisione delle sostanze, sinché seduti su vil cattedra di pestilenza strisciavano nella polvere, ascesi appena nella sommità del potere, e dell’opulenza divennero i conculcatori di ogni umano, e civile diritto, e gl’insaziabili depredatori di ogni ricchezza, scatenando le furie de’ loro Satelliti per ammassar tesori, e profondendo una parte degli ammassati tesori onde accrescere il numero de’ loro Satelliti» (p. XXXVIII). Alle pp. XXXIX-XL vi è invece l’invocazione a Cristo. E poco prima Stolberg ha auspicato il dominio della religione come unico mezzo per guidare le coscienze e far sì che “s’ispirino” in modo tale da ispirare a loro volta l’agire: la religione a guida di tutto. «L’edificio politico starà sulla rena» (p. XXXIX) senza la religione cristiana; «Cosa sono mai difatti i costumi senza la religione?»; «cosa possono le leggi senza i costumi?». In fondo, abbiamo qui una celebrazione della religione come instrumentum regni, come ha sostenuto e continua a sostenere una lunga tradizione di pensiero storico laico; e Machiavelli, in realtà, è meno lontano di quanto possa a prima vista sembrare. È citato anche (p. XLVIII Pogliani 1828) il Portalis del Discorso sul concordato: la morale senza dogmi religiosi sarebbe paragonabile alla giustizia senza i tribunali.
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Ci si avvicina, quindi, alla realtà del modo di affontare i testi scritturali da parte di Stolberg; Antici è in grado di citare, a sua volta fruendone, gli strumenti che l’estensore della Storia ha tenuto presenti; innanzi tutto, per questo volume (ossia per la parte neotestamentaria della monumentale opera dello studioso tedesco), il Rondet, e poi il Calmet, della Concorde des Saints Evangiles. Stolberg, inoltre, ha cercato di razionalizzare in Luca qualche discrepanza nei tempi dei discorsi di Gesù (l’evangelista è infatti molto preciso negli avvenimenti, ma nei discorsi bada più alla qualità dei pensieri che alla cronologia); l’opera è stata sottoposta a profondi teologi, per garantirne la sicurezza nell’ortodossia. Peraltro, alle pp. XXXI-XXXII, Antici aveva già radicato il proprio intervento, sia di glossatore, sia di esegeta-interprete sul piano storico-filosofico e comparativo, nello stesso terreno di vigilanza, di cattolica sollecitudine, che esercitava l’ansiosa premura del convertito Stolberg nel licenziare per tutti i tipi di pubblico dei testi che potevano a loro modo dirsi “pericolosi”, come, secondo gli stessi Stolberg e Antici, ha fin troppo ampiamente dimostrato l’esperienza della fruizione personale, individualistica, priva d’una generale rotta di navigazione interpretativa, veicolata dal cosiddetto libero razionalismo protestante; ne deriva la scelta di ripararsi sotto l’ombra di prestigiosi mallevadori dell’esegesi scritturale, e di seguirne, non retoricamente, le tracce nel metodo delle annotazioni ai testi, nella commistione di dottrina analitica nei commenti e di proponibilità per l’utenza nella disposizione divulgativa che ispira la presentazione dei volumi ai lettori; e in tutto idonea, oltre che quasi obbligata, si mostra, in tal senso, la scelta dell’esegesi e del commento di monsignor Martini alla Bibbia da lui stesso tradotta (si tratta d’un frutto d’apertura settecentesca alla fruizione dei testi sacri a vantaggio della generalità del pubblico dei lettori; e l’apertura, in sé considerata, è provenuta da un’area d’incrocio fra la Chiesa e l’illuminismo)53: Conoscendo peraltro, che i testi Scritturali possono pur troppo servire d’inciampo, lasciandone al giudizio privato, l’interpretazione, per cui tanti attinsero a larghi sorsi l’errore a quella fonte perenne di verità, e trovaron morte tra quelle parole di vita, mi son creduto nell’indispensabile dovere corredarli di note illustrative. Né ho titubato un momento nella scelta, applicandomi a quelle, con cui il tanto benemerito Monsignor Martini accompagnò la sua traduzione Italiana dell’intiera Bibbia, come appunto a quella traduzione mi sono strettamente attenuto per tutt’i testi Scritturali.
Termine di riferimento degli studi approfonditi di biblistica e di storia sacra, soprattutto in vista del supporto esegetico-dottrinale di cui provvedere i testi, è un grande monumento dell’erudizione ecclesiastica settecentesca, l’imponente Histoire des auteurs sacrés et ecclesiastiques qui contient leur Vie, le Catalogue, la Critique, le Jugement, la Chronologie, l’Analyse & le Dénombrement des differentes editions de leur Ouvrages; ce qu’ils renferment de plus interessant sur le Dogme, sur la Morale & sur la Discipline de l’Église; Histoire des Conciles tant generaux que particuliers, & les Actes choisis des Martyrs, Par le R. P. REMY CEILLER, Benedectin de la Congregation de Saint Vanne & de Saint Hydulphe, Coadjuter de Flavigny, 3 tomes, À Paris au Palais, Chez Paulus-du-Mesnil, Imprimeur-Libraire, Grand’Salle, au Piliers de ConsultaVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
tion, au Lion d’or, tome premier: M. DCC. XXIX, tome second: M. DCC. XXX, tome troisième: M. DCC. XXXII, Avec Approbation et Privilège du Roy54. Ad esempio, nel III tomo, libro I, si vedano, riguardo a Filone ed a Giuseppe Flavio, «chap». VI, pp. 543-551 (Philon le Juife, art. I, «Histoire de sa vie», II: Des écrits de Philon) e «chap.» VII, pp. 552-580 (Flavius Joseph, Prêtre et Historien des Juifs; Art. I: Histoire de sa vie; II: De l’histoire de la guerre des Juifs, écrite par Joseph; III: De livres des antiquités de Joseph; IV: Du témoignage que Joseph a rendu à Jésus-Christ; V: De l’histoire de la vie de Joseph, écrite par lui-même; VI: De deux livres de Joseph contre Appion; VII: De quelques autres écrits de Joseph). Nell’“articolo” II, dedicato a Flavio Giuseppe e alla sua Storia, si ricorda, è sempre un esempio (p. 559), l’attendibilità di testimone oculare d’uno storico che proprio per questo motivo è molto accreditato da Vespasiano e da Tito; dato che «Joseph composa l’histoire de la guerre des Juifs sur le memoires qu’il en avoit dressés, & on ne peut douter qu’il ne fût très-bien informé, puisq’il avoit été témoin oculaire de ce qui étoit arrivé, ou qu’il avoit appris des transfuges, qui s’addressoient tous à lui, lors même qu’il etoit captif, Vespasien et Tite l’ayant toujours voulu avoir aupres d’eux. Il avoit même eu part aux grandes actions qui s’y étoient passées, sourtout dans la guerre de Galilée; de sorte qu’il ne s’y passoit rien, soit du côté des Juifs, soit du côté des Romains, dont il n’eût une entière connaissance». Giuseppe Flavio, insomma, a dimostrazione di quanto si è citato, è assunto a testimone privilegiato, e “autorizzato” a predire a Vespasiano, secondo ciò che racconta Svetonio, l’ottenimento dell’impero (si cfr., dal De vita duodecim Caesarum, cap. VIII, Divus Vespasianus, V: «Apud Iudaeam Carmeli dei oraculum consulentem ita confirmavere sortes, ut quicquid cogitaret volueretque animo quamlibet magnum, id esse prouenturum pollicerentur; et unus ex nobilibus captiuis Iosephus, cum coiceretur in uincula, constantissime asseuerauit fore ut ab eodem breui solueretur, uerum iam imperatore»). Con il corredo di questi notevoli ed ampi strumenti, e con il supporto dell’esegesi particolarmente capillare che essi offrono allo studioso e in genere al lettore, Antici può intervenire sulla base della struttura del racconto evangelico annotando tutti i loci, tutti i punti focali delle questioni maggiormente controverse e dibattute. Fin dall’inizio Antici si sofferma sull’uso dei tempi e dei significati del verbo «essere», su «era», «è», «fu» ed altri tempi della coniugazione, nel senso di «esisteva», di sussisteva, di essere ab aeterno; si tratta d’interpretazioni che coinvolgono la distinzione del Verbo dal Padre lasciando in vigore il concetto d’una contemporanea esistenza dello stesso Verbo insieme alla prima persona della Trinità. Alla p. 2 è San Gregorio di Neocesarea a fornire un dotto supporto esegetico sul Verbo come Virtù fattrice di tutte le creature; alla p. 10, n. 1, sono riprese le citazioni di Sant’Ireneo dai Vangeli, né manca, a p. 11, l’utilizzo di Isaia, XVI (sulla sorte di Moab, renitente a Dio), e della Pastoralis admonitio, 29, di San Gregorio Magno; alla p. 11, il Bossuet (presenza assidua in Antici) delle Elévations à Dieu, sur les mistères, t. II, p. 50, si affianca ai padri antichi; alla p. 12 vi sono le citazioni di S. Paolo, Agli Ebrei, I, 4, della Sapienza, ancora dal San Paolo della lettera Ai Colossesi e dal profeta Malachia55. Di San Girolamo si lodano i commenti al Vangelo e la loro chiosante minuziosità; e alla p. 25 è la volta del Sant’Agostino del Sermo XV De temporibus prophetarum. E tra i
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temi di questa prima sezione, intitolata Dall’annunzio della nascita di San Giovanni Battista sino alla nascita di Gesù Cristo, prende il sopravvento, come nei relativi capitoli ed annotazioni esegetiche della prima parte della grande, citata Histoire des auteurs sacrés et ecclesiastiques, un’approfondita ed articolata difesa, sulla base dei testi sacri e dei Padri della Chiesa, della verginità, in particolare, ovviamente, di quella di Maria; si tratta, insomma, di dimostrare la proponibilità dell’evento della nascita di Cristo (pp. 63 sgg.) in relazione alla “superiorità” dell’origine pura dalla vergine Maria: il dettato scritturale viene ampiamente giustificato e difeso, e reso attendibile. Nella prima parte della trattazione di Stolberg (pp. 1-357), ci si soffermi su Dalla nascita di Gesù Cristo sino al suo Battesimo, pp. 42-101; alle pp. 84-85, n. 1 ad «ha sopra gli omeri suoi il Principato», testo di Stolberg, Antici annota: «Egli nascerà Principe e Signore, e Re del Cielo, e della Terra. I grandi portavano in antico sulle loro spalle i distintivi della loro dignità; e i Padri generalmente hanno in queste parole ravvisato il mistero di Cristo portante sopra le sue spalle la Croce, come segno del suo Principato»; nella n. 2 a «si chiamerà per nome l’Ammirabile», ripreso da Stolberg e così tradotto da Antici, il marchese spiega: «In Cristo, dice l’Apostolo, sono ascosi tutti i tesori della Sapienza, e della Scienza di Dio. Egli è mirabile nella sua Concezione, e nella sua Nascita di Madre Vergine, Egli è mirabile nella sua vita, mirabile nella Dottrina, e nei miracoli, e nella passione, e nella morte, e nella resurrezione. Egli è mirabile in se [sic], mirabile nei Santi suoi, nei quali colla sua Grazia egli opera cose grandi, e mirabili»; nella n. 4, p. 86, a «Dio» nel testo di Stolberg (p. 85), Antici fornisce questa esegesi: «Questo pargoletto, fatto di donna, nato sotto la legge (S. Paolo ai Galati, IV, 4) è insieme Dio, perché Figliuolo del Padre, consustanziale al Padre; onde agli Angeli tutti è ordinato, che nella umiliazione, a cui per amor di noi discese, lo adorino. Vedi Salm. XCVI. 7. – S. Paolo agli Ebrei I, 6»; nella n. 6 (pp. 84-85) a «il Padre del secolo futuro» del testo di Stolberg, Antici annota: «Il secolo futuro, ossia il mondo futuro egli è quel secolo, e quel mondo predetto in tutte le Scritture, che dovea principiare alla prima venuta di Cristo, e che finisce alla seconda. Viene adunque con ciò significata quella nuova generazione di uomini, che sono nuove creature in Cristo, generati da Lui mediante la parola di verità, e generati per la eternità. Imperocché, siccome dal terreno Adamo siamo generati per vivere nel tempo, così dal nuovo celeste Adamo siam generati per vivere eternamente. Adamo ci generò per la terra, ci genera Cristo per il cielo». La lettera di San Paolo Ai Romani, 6, V, 14, e così S. Giacomo I, 18, intervengono a sostegno, nella successiva n. 2 anticiana a «il Principe di Pace»: «Carattere specialissimo di questo Re, il quale portò al mondo la pace, il quale rompendo la parete intermedia, le nimicizie tra Dio, e l’Uomo, tra la Terra, e il Cielo, riconciliò la Creatura col suo Creatore. Il quale ai suoi figliuoli lasciò quasi per loro patrimonio la sua pace, il quale finalmente è autore, e principio di quella pace di Dio, che ogni sentimento sorpassa, la quale regna nei cuori, e nelle coscienze dei suoi veri figliuoli». E, accanto, vi è la citazione di S. Paolo Agli Efesj II, 18, di Ai Romani, V, 1, del Vangelo di San Giovanni, XIV, 27, della lettera di S. Paolo Ai Filippesi, IV, 7. E annotazioni ugualmente fitte, e dottamente suffragate sul piano testuale, offre la seconda parte, di pp. 422, intitolata Dalla morte di Gesù Cristo sino alla venuVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
ta dello Spirito Santo; le citazioni sono anch’esse di grande densità sul piano della rivelazione d’una notevole cultura biblico-evangelica, patristica e filosofico-scolastica; fra i più citati vi sono, non certo casualmente, i testi delle lettere degli Apostoli, i testi di Sant’Agostino, di San Tommaso, di San Giovanni Crisostomo. L’interesse di Antici per l’opera di Stolberg ha il suo coronamento nella traduzione dei Fatti e ammaestramenti più memorabili degli apostoli raccolti in lingua allemanna dal conte FEDERICO LEOPOLDO di STOLBERG recati nell’italiana dal marchese CARLO ANTICI, parti I-II, Roma, presso Antonio Boulzaler, 1827-1828; al «Vangelo», avrebbe sintetizzato Leopardi, seguono gli Atti degli Apostoli. Alla p. III, secondo un’abitudine già invalsa a proposito della Vita e dottrina di Gesù Cristo, vi è un brano di Rousseau sul «continuato prodigio» della prima epoca cristiana, sul miracolo della tendenza martiriale; e all’inizio della Prefazione del traduttore (pp. VXXIII), è citato, ancora, il Voltaire de La Henriade, Chant VII: «À ta faible raison garde-toi de te rendre: / Dieu t’a fait pour l’aimer, et non pour le comprendre. / Invisible a tes yeux, qu’il règne dans ton coeur. / Il confond l’injustice, il pardonne à l’erreur; / Mais il punit aussi toute erreur volontaire. / Mortel, ouvre les yeux quand son soleil t’eclaire». Allude, il traduttore Antici, appunto al precedente lavoro, che egli intitolò Vita e dottrina di Gesù Cristo, tratto dal V volume della grande opera di Stolberg, Storia della Religione di Gesù Cristo; questi due volumi li ha tratti dal sesto e da «parecchi brani del settimo»: si tratta, dunque, anche in questo caso, d’un’opera di consapevole e mirata riduzione, a beneficio del pubblico dei lettori italiani. In nota, sempre a p. III, Carlo Antici avverte che i primi quattro tomi usciranno, con splendide appendici dello stesso autore, «e voltati in lingua Italiana dai Signori De Rossi, e Keller», presso «questo Tipografo, Signor Bourlier»; in realtà, da «Bourlier» usciranno, come si è avuto modo di dire, i volumi dal quarto in poi (ma non si dimentichi che il primo, del 1817, è già uscito). La partizione in volumi s’ispira al criterio logico generale della suddivisione fra l’impostazione teorica della dottrina e la sua attuazione pratica: «il commentario, e l’applicazione» (le «Leggi sante» forniscono materia alla prima opera; l’applicazione costituisce l’argomento della seconda); la prima opera manifesta e «comanda» la Divinità; della seconda, che ne squaderna i contenuti “applicativi”, si dice: «qui agiscono e insegnano gli Araldi della Sapienza Divina». E sùbito s’innesta nella trattazione di Antici, riguardo agli apostoli, il senso della battaglia del cristianesimo per la propria sopravvivenza, e per la propria stessa vita in mezzo a difficoltà che hanno, sulla Chiesa, l’effetto di raddoppiarne le forze, di rinsaldarne le strutture, secondo percorsi imperscrutabili dal sapere laico: alle pp. VIVII il concetto riceve il supporto corroborante di un brano del Lamennais, citato come Réflexions sur l’État de l’Église de France pendant le dix-huitième siècle ec. ec. ec., incentrato sul concetto d’una predicazione che, grazie al colloquio intrattenuto da Gesù con gli apostoli e poi grazie allo Spirito Santo, riguarda il verbo d’un condannato, d’un crocifisso; ma la Chiesa (p. VII) «sotto le mannaje ingrandisce, […] tranquilla alfine rasciuga le sue piaghe, e si vendica dei suoi carnefici, ricevendoli nel suo seno, e colmandoli delle sue beneficenze»; l’argomentazione di Antici si risolve in una celebrazione del Vangelo, e quindi delle «interpretazioni, e tradizioni tutte dei suoi
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Banditori ispirati» (ed ogni elemento di dottrina deriva dalla medesima fonte, ossia dalla «filosofia Celeste pei giorni fuggevoli, e pei giorni eterni)». Alla p. VIII il marchese si produce in un’affermazione, scontata, se si vuole, ma sincera, nell’ottica del nobile papalino mosso dalla volontà di divulgazione presso il pubblico di opere impegnative e di non facile fruizione: egli, infatti, attesta di non mirare alla gloria del traduttore, che si metterebbe in evidenza come «possessore delle due lingue», poiché altri lo avrebbe fatto meglio di lui; lo scopo è di rendere l’opera, qui tradotta, accessibile al maggior numero di persone che si possa raggiungere, in un concetto allargato di utenza dei lettori, che dovrebbe procurare alle sue spoglie il conforto di una qualche preghiera; su tale linea, il traduttore formula la speranza che presso Dio questo gli valga un riconoscimento che non gli varrebbe, ad esempio, una traduzione dell’Iliade, in quanto opera pagana; ancora, il traduttore avverte l’esigenza di giustificare la propria scelta (pp. VIII-IX), perché, come «secolare», non pubblica opere profane, ma opere d’argomento sacro; e la giustificazione è fondata sul fatto che esse mancherebbero in Italia (non sembrano qui avere eco i titoli di molte opere dell’ultima parte della carriera di scrittore dell’abate Cesari). Segue una rassegna generica, apostolicoecumenica, di tutte le generazioni e ruoli politico-sociali ai quali risulta salutare la religione. Alle citazioni da Lamennais sulla necessità della religione (pp. IX-X) seguono (p. XI) quelle dell’«immortale Conte di Maistre», alla p. XII la citazione della figlia dello stesso De Maistre, e, altresì, della Contessa Riccini Montanari – che traduce il Saggio sulla Indifferenza in materia di Religione di Lamennais – e d’una prosa accademica, riguardante i romanzi, della marchesa Canonici-Facchini, che già parlò contro la «spiritosa Viaggiatrice» (la De Staël) che ebbe da dire sul decoro del sesso femminile in Italia; ora la gentildonna è esplicitamente passata a rendere un servizio alla Fede, poiché come altre, meritevoli dame che favoriscono l’educazione cattolicoparrocchiale delle fanciulle, ella tenta di allontanare le ragazze dalle «fantastiche, insidiose produzioni»: si tratta d’una celebrazione, dispiegata in àmbito italiano e femminile, della risposta cattolica alla proposta letteraria costituita dai romanzi e, in genere, dalla produzione contemporanea. Il marchese «D’Azelio» [sic], a rinforzo d’un panorama che in ottica cattolica si fa sempre più confortante, pubblica da anni il «religiosissimo» giornale «L’amico d’Italia»; e sono, altresì, motivo di conforto le «Memorie di Modena» (ossia, le «Memorie di Religione»). Alla p. XIV le citazioni proseguono con i meritevoli della religione nei paesi stranieri: in Francia Chateaubriand, De Bonald e il figlio Enrico, il Conte di St. Victor, il Conte O’ Mahony, il Conte di Beaufort, Laurentie, e così in Germania e in Inghilterra alcuni laici protestanti; e vi è la citazione in nota del P. D. Giocchino Ventura del Saggio sulla Vita, e sulle opere del Visconte di Bonald, premesso alla traduzione del «sublime» La legislazione primitiva. E ancora, sono ricordati, come fonti culturali, Isaia, il duttile Rousseau e il Lamennais delle Pensées Diverses56. Antici si è valso, anche in questo caso, dei Testi Scritturali nella versione di Monsignor Martini. Ha fatto una scelta, ha tolto alcune discussioni polemiche e alcune digressioni storiche, ha messo delle note per rendere chiaro ciò che nelle Scritture è misterioso; è un nuovo momento apologetico del cattolicesimo: «Chiunque della VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Storia Ecclesiastica ha discreta contezza, conosce appieno non doversi meditare, che sotto la scorta della Chiesa Madre quell’Opera sovrumana, quel tesoro di tutte le verità necessarie all’uomo, chiamato per eccellenza il LIBRO = Bibbia […]» (p. XVII). Alla p. XX vi è una deplorazione conservatrice dell’allentarsi dei costumi, della disubbidienza ai «Magistrati», dello scarso rispetto per «l’età canuta»; occorrerebbe sempre più religione; e a rinforzo del concetto, non manca la citazione del Botta della Storia d’Italia dal 1789 al 1814, t. II, parte II, dei Proverbi di Salomone, XIV, del Mably di Sur l’Etade de l’Histoire, del Bossuet nel Discorso sulla Storia Universale; per i «buoni costumi», base strutturale della società e della religione (p. XXII), le citazioni spaziano dal Machiavelli dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio al Platone del III delle Leggi, al Montesquieu, ripetutamente pronunciatosi sulla necessità della religione come garanzia dell’onestà fra uomini, alle lettere di Federico di Prussia a Voltaire, dalle quali si evince, tra gli altri concetti, quello sulla cattiva fama che si fa un uomo senza religione; ma adesso, a dire di Antici, le cose sono peggiorate, ed è perciò ora di rimettere in onore la religione come unica forma di vero pensiero e di guida sociale, politica e civile del mondo; e il cristianesimo trionfa in valore anche sulla più sottile e meditata filosofia: alla p. XXIII ancora il Lamennais (dei Nouveaux Mélanges), l’Ecclesiastico, XXXIII, 3, e San Clemente Alessandrino, Stromata. I intervengono a ricordare che sono i servi ed i fanciulli i più grandi filosofi, se i pensatori che si professano esplicitamente tali non fondano sulla dottrina di Cristo il loro pensiero, se Cristo non li illumina. Quando la religione avrà riacquistato il suo «impero», «Allora il progresso dei lumi non sarà un vanto illusorio, allora si godran le dolcezze di vera civiltà». Nel cap. I, p. 1, inizia la traduzione di Antici, effettuata in uno stile che denuncia, in parte, la base tedesca della versione, l’origine da una lingua compiutamente flessiva (paragrafo 2): «Ai fratelli suoi, di Adamo figli, L’Uomo Dio acquistata avea l’eterna Salute, ma i suoi fratelli ne erano ignari. Lo stesso popolo eletto, che attendeva da tanti secoli il Messia, nol riconobbe. Primieramente a quel popolo, indi agli abitatori di Samaria, poscia ai popoli tutti della terra annunziar doveasi la salute di Dio». Gli Apostoli ne ebbero da Gesù Cristo l’incarico, «ed Egli, alzate le mani, li benedisse, e nel benedirli si divise da loro, e s’innalzò verso il Cielo»; nel paragrafo 3 il traduttore, sulla scorta di Stolberg, esperisce la pronuncia inarcata allo stile esclamativo e interrogativo: «Quale incarico! E a chi affidollo il Figliuolo di Dio? A undici Galilei […]»; a margine, le fonti delle citazioni (Atti degli Apostoli, I, 8, e S. Luca, XXIV, 50-51)57. Il testo, insomma, intreccia varie citazioni dalle Sacre Scritture, senza che manchi all’appello l’Albrecht von Haller (avo di Karl Ludwig) di Lettera sulla Rivelazione (p. 12); a p. 13 il discorso di Stolberg contempla, coerentemente con le premesse, una giustificazione dell’umiltà degli Apostoli, ai quali non occorreva dottrina di argomenti, ma occorrevano miracoli e umiltà per gente semplice, e per ottenere un ascolto che altrimenti non vi sarebbe stato. Ma non può risultare semplice il compito di studiare e di mettere a fuoco, di esaminare e di illustrare gli eventi sacri in relazione al racconto delle Scritture, come dimostra, a p. 25, l’utilizzo del Grozio di Annotationes in Novum Testamentum, Ad Actus Apostolorum, II, 3. Tale difficoltà, tale carattere impe
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gnativo dell’analisi dei testi post-evangelici si manifesta ancor più, ad esempio, nel capitolo XXXIX, alle pp. 145-146, in cui si spiega la seconda lettera ai Tessalonicesi (II, 1-5): «[p. 145] Per quella lettera rendesi manifesto, esser stata da alcuni diffusa l’opinione, che era imminente il finimondo, “il giorno di Cristo”»; ed anzi, si pensa che si sostenesse tale opinione supponendone la testimonianza scritta e verbale dell’Apostolo. Paolo disinganna i Tessalonicesi. «Deve, dice Egli, seguir prima la ribellione, (1) deve essere manifesto l’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione, il quale si opporrà, e si innalzerà sopra tutto quello, che dicesi Dio, o culto di Dio, talmente che sederà egli nel Tempio di Dio, spacciando se stesso per Dio. (2) Rammenta loro di aver già dette tali [p. 146] cose quando era tuttavia in mezzo ad essi. Parla “del mistero di iniquità” che dovrà precedere. (1) Indi prosegue: “State dunque costanti, o fratelli, e ritenete le tradizioni, che avete apparate o per le nostre parole, o per le nostre lettere”. (2). Ecco le note di Antici: a «ribellione» (nota 1, p. 145): «Ovvero l’apostasìa, come spiega il Grisostomo, e intendesi l’Anticristo, il quale farà apostatare un numero grandissimo di Fedeli dalla Chiesa Cattolica. Egli è quell’uomo del peccato, e figliuolo della perdizione, che deve manifestarsi al mondo prima della seconda venuta del Salvatore. Riguardo alla persona dell’Anticristo, egli sarà un uomo, dice San Girolamo, e non un Demonio; ma in lui abiterà il Demonio; il quale tutta gli ispirerà la sua malizia, e il suo odio contro i Fedeli»; a «spacciando se stesso per Dio» (ivi, nota 2): «Quest’empio non solo si opporrà al vero Dio, e al Suo Santo Culto, ma preferirà se stesso a tutto quello, che col nome di Dio si appella, e qual Dio si adora sopra la terra. Egli‚ per una superbia senza esempio vorrà distrutta, e annichilata ogni altra Religione vera, o falsa che ella sia, perché tutti gli uomini lui solo adorino, e lo confessino come Dio; quindi non avrà egli ribrezzo di eriger suo trono nelle Chiese Cristiane per ivi ricevere dalle nazioni sedotte voti, e preghiere»; a «precedere» (nota 1, p. 146): «Il Demonio, di cui sarà organo, e ministro l’Anticristo ha già principiato a lavorare il mistero d’iniquità, che sarà allora ridotto al suo termine. Questo mistero egli lo lavora per le mani degli Eretici, e degli Increduli, e per le mani eziandio dei falsi Cristiani. Tutti costoro hanno già cominciata l’opera dell’Anticristo; quest’opera si anderà avanzando quanto più si anderà avvicinando il gran giorno, divenendo ogni dì più debole la Fede, e raffreddandosi la Carità. L’Anticristo porrà finalmente l’ultima mano al lavoro dei suoi ministri»; a «nostre lettere» (ivi, nota 2): «Ritenete quello, che vi è stato insegnato da noi intorno alla Fede, e intorno alle regole della vita cristiana, ed anche al culto esteriore della Religione, sia che di viva voce, sia che per iscritto nelle nostre lettere ve lo abbiamo insegnato. Ha dunque la Chiesa un deposito di verità appartenenti alla Fede, ma non contenute nelle Scritture, le quali dalla stessa Chiesa noi riceviamo, come da Essa riceviamo le Scritture»58. Nel vol. I, cap. XLV, paragrafo 13, a p. 174, vi è il Commento alla Lettera ai Galati, di San Paolo, nel passo dedicato al problema della circoncisione dei Gentili venuti alla Fede, pratica voluta e raccomandata dai falsi dottori che cercavano favore presso i Giudei (ci si sofferma in particolare su V, 26 e su VI, 1-10)59; e nella nota 2 Antici cita Sant’Agostino: «Avrebbe potuto l’Apostolo gloriarsi della sapienza di Cristo, avrebbe potuto gloriarsi della maestà, della potenza, e con verità poteva gloriarVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
sene; ma disse: Nella Croce. Dove il mondano filosofo trovò vergogna, ivi l’Apostolo trovò il suo tesoro; onde chi si gloria, nel Signore si glorj; e in qual Signore? In Cristo crocifisso. Dove l’umiltà, ivi la maestà; dove l’infermità, ivi la potenza; dove la morte, ivi la vita. Se a questa tu vuoi pervenire, non voler disprezzare quelle cose, non voler arrossirne; per questo appunto nella fronte, sede del rossore, hai ricevuto il segno della Croce (S. Agost. Serm. XX de Verb. Ap.)» (Sermo XX de Verbis Apostolorum). Nel vol. II è particolarmente degno di nota il cap. VIII, in cui la riflessione prosegue su Ai Colossesi, I, 1-23 (pp. 61-62 nota 1), né mancano ulteriori riscontri dalle Réflexions etc. di Lamennais, su un «Dio» che «nella profondità dei suoi consigli» sa provvedere alle difficoltà della Chiesa e dei suoi uomini, fino ad offrire alla comunità dei propri fedeli un riparo dalle «tempeste». Alle pp. 64-66, nota 1, Antici ribadisce il percorso realizzato da Stolberg, di cui ricorda la conversione a cinquant’anni, dopo che il dotto tedesco ha perseverato negli errori di Lutero, tra i quali ha avuto la sventura di nascere: Ma scortasi da lui quella luce, che illumina chiunque lealmente la cerca, entrò quell’uomo egregio nell’ovile di Pietro, e tutto il restante del viver suo non fu, che un cantico di lode, un permanente omaggio alla vera, e perciò all’unica Religione. Le più belle pagine dei tanti volumi da lui scritti, dopo che si spogliò dell’uomo vecchio, spirano quella religiosa sentimentalità, alla quale debbono i Santi Padri e i nostri sacri oratori come e Dante, e Tasso, e Corneille e Racine i più sublimi loro versi. Spiacque oltremodo ai seguaci del protestantismo la conversione di Stolberg […], e la celebre Madame di Staël nella sua opera Sur l’Allemagne mentre rende giustizia ai talenti, e alle virtù di Stolberg, non sa nascondere, che per quella risoluzione ei divenne inviso ai suoi antichi correligionari, e perdette financo la tenera amicizia di Clopfstock, di Voss, di Jacobi, uomini di sommi talenti, di non minor fama, e strettamente con lui uniti sin dalla più verde età. Grave certo deve essere stata all’animo del nostro Stolberg la perdita di così cari amici, e debbono averlo assai commosso gli acerbi assalti dei tanti, da cui si divise. Ma ancor Egli al pari di quell’antico Romano, (benché in cosa assai più importante) non ponebat rumores ante salutem; che anzi unicamente inteso a conseguirne il possesso, stimò di assicurarlo sempre meglio mostrandone ad altri la via, non col di lui esempio soltanto, ma più ancora colla famosa sua Opera, di cui ho tradotta una qualche parte. Di fatti molti imitatori Egli ebbe tra i più luminosi ingegni delle sette protestanti, e Werner, Starke, Schlegel, Müller, Haller in Germania, i due Calvinisti Laval, e De Joux in Francia, senza annoverare tanti altri meno celebri nomi, abbandonarono i vessilli dei sedicenti Riformatori, ed abbracciarono la Fede professata per quindici secoli dai loro antenati. In tal guisa la Chiesa di Gesù Cristo mentre piange il pervertimento di tanti suoi figli strappati dal Suo seno per una iniqua filosofia, si consola altresì dell’acquisto di tanti illustri Convertiti / Nota del Traduttore.
E si pongono come particolarmente impegnative, alla p. 83, n. 1, la nota esegetica sulla lettera Agli Efesini sulla comunicazione a tutte le membra della virtù del Cristo, capo del corpo mistico; e altrettanto impegnativa è la spiegazione (p. 111) dell’epistola Agli Ebrei, V, 11-14, con la citazione, a supporto, dell’Epistola ai Romani, cap. VI. L’im
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portanza di un testo (e di una fonte di notizie storiche) come il Giuseppe Flavio del De bello Judaico (VI, 312: è il passo che allude ad un’oscura profezia, che si ritrova nella Scrittura, secondo la quale un personaggio che proveniva dalla Giudea era in quel tempo – l’assedio di Tito a Gerusalemme – destinato a divenire il dominatore del mondo), citato insieme al Tacito delle Historiae, V, 13, e al già nominato Svetonio (Divus Vespasianus, 4), spiegati alle pp. 193 ss., conferma la ricchezza dello sforzo esegetico-elaborativo compiuto da Antici sulla base dell’impegnativa trattazione che dello storico ebreo viene compiuta nella parigina Histoire des auteurs sacrés et ecclesiastiqes del père Remy Ceiller60. 3. L’altra grande traduzione di Antici, in quegli anni, è costituita dalla versione italiana delle Omelìe di monsignor Johann Michael Anton Sailer61, vescovo e teologo tedesco, nato ad Aresing, in Baviera, nel 1751, e morto a Ratisbona nel 1832, entrato nel clero secolare in séguito alla soppressione della Compagnia di Gesù della quale ha fatto parte per tre anni, dal 1770 al 1773; professore di dogmatica a Ingolstadt (17801781) e a Dillingen (1784-1794), viene destituito perché sospetto di eccessive concessioni all’illuminismo; tornato ad insegnare a Landshut nel 1800, diventa, nel 1822, coadiutore del vescovo di Regensburg (Ratisbona), cui succede nel 182962. Nell’àmbito delle funzioni pastorali, si impegna con zelo e rigore nello sforzo di sollevare il livello intellettuale ed etico del clero diocesano, ed assume atteggiamenti concilianti verso il protestantesimo e verso le nuove correnti culturali, ponendosi come fautore del romanticismo religioso, dato, quest’ultimo, che si inserisce con coerenza nel quadro delle preferenze intellettuali e dei riferimenti contestuali del suo traduttore italiano, Antici. Tra le sue opere principali, e fra le più ricordate, il Manuale di morale cristiana in tre volumi, del 1817. Quella di Sailer è una concezione dinamica della Chiesa come regola vivente della fede e corpo mistico di Cristo; e il suo pensiero non a caso è stato messo in relazione con quello di Johann Adam Möhler (1796-1838)63, uno dei teologi che dànno un indirizzo fondante alla scuola di Tübingen, insieme a Herbst, ad Hirscher e a Drey. Ma a Sailer si deve anche la chiamata a Monaco di Ignaz Döllinger figlio64, come pure un contributo di impulso al rinnovamento degli studi biblici65. Antici si occupa direttamente delle Omelie, non a caso inviategli dal principe ereditario di Baviera in una linea di continuità con l’opera di Stolberg, da poco tempo tradotta in alcune delle sue parti essenziali; il titolo reca OMELÌE DI MONSIGNORE GIO. MICHELE SAILER VESCOVO COADIUTORE DI RATISBONA SCELTE, E TRADOTTE DAL MARCHESE CARLO ANTICI, con la citazione del principe e di una sua frase: «Delle cose tutte la più eccellente, e la più essenziale è sempre la Religione / LODOVICO / PRINCIPE EREDITARIO DI BAVIERA / Roma MDCCCXXV / DALLA STAMPERIA SALVIUCCI Con approvazione». Poi la dedica: «A SUA ALTEZZA REALE LODOVICO CARLO AUGUSTO PRINCIPE EREDITARIO DI BAVIERA»; a p. XIV la dedica appare del 28 dicembre 1824. Nel corso dello stesso 1825 Ludwig diverrà re. Nella prefazione, Antici allude (pp. III-XIV) al dono fattogli il 6 marzo del 1824 delle Omelìe di Monsignor Sailer in due volumi; il principe ereditario gli mostrava con questo regalo «l’alto suo gradimento» per la VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
traduzione del 1822 dello Stolberg di Vita e dottrina di Gesù Cristo. Antici aveva opposto che già l’italiana è una letteratura ricca di argomenti sacri, e che da parte dell’utenza ci si poteva aspettare, in tedesco, un altro tema («più pellegrino argomento»). Se l’edizione delle Omelìe sarebbe stata troppo lunga come opera di traduzione, si poteva effettuare una scelta, come per l’«immortale Stolberg» (p. V). Ma la convinzione antiilluministica riaffiora nella ripresa del concetto espresso da Ludwig, il quale afferma che non è mai sufficiente il carattere sacro dei contenuti, date le perniciose dottrine che si sono diffuse. Il 18 novembre 1824 un dispaccio del futuro re conferma Antici nella scelta e nell’approvazione dell’opera di traduzione: ventiquattro omelie su un totale di cento, non fra le più belle (perché belle sono tutte), ma fra le più «acconcie» a riscuotere comune interesse e a provvedere di soccorso morale i malati di illuminismo e di laicismo. Sùbito si innesta il motivo encomiastico costituito dall’elogio dei governi ispirati all’etica religiosa, e alla religione stessa; si tratta d’un motivo encomiastico all’altezza di un re, come già allora è Ludwig per il marchese di Recanati, che coniuga l’eticità del monarca alla fede del cattolico (si ricordi, negli anni 1830, la virata conservatrice e la simpatia ultramontanistica del sovrano bavarese). Alla p. IX si chiarisce il concetto di Antici: «Chiunque perciò non ha contro il vero incallito il cuore ripeterà coll’inclito Visconte de Bonald «Governi insensati hanno detto agli uomini: la legge, che vi diamo sarà l’unica vostra morale. Governi illuminati diranno: la morale, che Dio vi ha insegnata sia l’unica vostra legge»; la celebrazione dei più appassionati motivi e dei temi della Restaurazione si esprime nel lessico congruo alla polemistica cattolica antisettecentesca (pp. XI-XII): «Vedemmo difatti coi propri occhi come gli immani sforzi degli Encèladi, e Briarèi novelli minacciarono per qualche tempo di ricondurre alle tenebre, ed al Caos quanto nel corso di lunghe età facea la gloria e la delizia del genere umano. Sbandita la divina luce della Religione, dalle leggi, dalle costumanze, dall’educazione, e abbandonata al disprezzo la morale del Vangelo per abbracciare quella di Epicuro, cosa ottenne mai in ricambio la tradita, ed oppressa umanità dalle fastose promesse di una menzognera filosofia, che col nappo di Circe in mano trasmutò tanti, e tanti incauti nella condizione dei compagni di Ulisse? Distruggevasi quanto eravi di più Sacro, e di più salutare, lo che chiamavasi rigenerare; come chiamavasi libertà la tirannìa delle passioni, e pubblica felicità la strabocchevole opulenza di pochi prepotenti tra lo strazio, la degradazione, e la miseria di tutti» (ma già da p. X l’auspicio d’una ricomposizione della cultura prerivoluzionaria e della monarchia per diritto divino è chiaramente espresso: «È quella fede, che ammonisce i Regnanti: comportatevi da padri coi vostri sudditi; che ammonisce i sudditi: comportatevi da figli coi vostri Regnanti, giacché in Dio è la Sovranità, da Dio è il potere»). La traduzione è preceduta da una breve biografia culturale dell’autore tradotto: Cenni intorno alla vita, e ai scritti di Monsignor Sailer, pp. XV-XXXIII. Sailer risulta autore poco conosciuto in Italia, mentre in Germania è molto famoso; se Ariosto, Metastasio, Alfieri, fuori d’Italia, sono conosciuti da tutti, la forza morale delle prose di un Segneri, di un Bartoli, di un Pallavicini sono quasi sconosciute. Tanto più si pone l’obbligo, per il cristiano cólto, di far apprezzare la sua opera a vantaggio della
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fede e delle cure pastorali. Sailer nasce ad Aresing, villaggio della Baviera, il 17 novembre 1751. Dei genitori di Sailer, Antici celebra la pietas, come atteggiamento decisivo nella formazione dell’habitus e della coscienza religiosa del fanciullo: un “carattere” che egli porterà con sé tutta la vita; riemergono, qui, i dati costanti del cliché laudativo dell’Antici biografo: la semplicità dei costumi, la purezza di calibro umano del protagonista della biografia e del suo contesto familiare (se non anche “cittadino”), la religiosità che permea di sé l’atmosfera antropologico-civile nella quale il personaggio si muove66. Si veda una parte del brano dedicato al ricordo della madre: Quante volte dagli anni miei primi, le tue occhiate, le tue azioni, le tue sofferenze, il tuo tacere, il tuo non mai interrotto pregare, i tuoi amorevoli avvertimenti io rimiravo, e ascoltavo, sempre più cresceva in me l’affetto alla religione; e questo sentimento non restò mai in seguito depresso né da errori, né da dubbi, né da vicende, né dagli stessi peccati (p. XVII; Antici traduce il brano dalla seconda edizione di Sulla educazione, per gli Educatori).
Dopo gli studi al ginnasio di Monaco, Sailer entra novizio nel 1770 novizio dai gesuiti (tre anni prima della soppressione dell’ordine), e nel 1775 è ordinato sacerdote; Antici non manca, a p. XIX, di ricordare i «detestabili arcani» della «filosofia» settecentesca al potere, magnificata da «D’Alambert» [sic]; il giovane religioso studia ad Ingolstadt (la stessa università dove insegnerà Adam Weishaupt); in quell’università diviene pubblico ripetitore di filosofia e di teologia nel 1777; nel 1780 la cattedra di Teologia dogmatica, quattro anni dopo la cattedra di Filosofia morale e di Teologia all’università di Dillingen, con l’incarico di fare sermoni agli accademici, incarico svolto per dieci anni e in séguito abbandonato, fino al punto di congedarsi dalla stessa università nel 1794 e di lasciare l’insegnamento (all’origine dell’abbandono vi sono stati gelosie e dissensi ideologici); nel 1799 è richiamato ad Ingolstadt, sempre come espositore di sacra scrittura e autore di discorsi da recitare sulla religione. Nel 1801 l’università viene trasferita a Landshut, dove, come si è detto, rimane fino al 1822. In una lettera del 1 agosto 1817 ricorda di essere simultaneamente accusato di oscurantismo (perché nei suoi discorsi egli svelerebbe le trame dell’empietà) e di “illuminismo” (come preteso membro della società degli Illuminati, della quale, in realtà, Sailer non fece parte), e insieme di misticismo perché avrebbe parlato spiegando i misteri con il linguaggio del cuore, anziché ricorrere alle dimostrazioni razionalmente argomentate; dai protestanti, in particolare, egli veniva accusato di astuzia “cattolica”, messa in atto allo scopo di ricondurli al seno della Chiesa Madre. Alle pp. XXV-XXVIII, nota 2, l’elenco, per categorie, delle opere di Sailer: I. Opere per l’edificazione del Popolo Cristiano; II. Opere per la coltura più elevata dell’uomo, e del Cristiano; III. Opere per formare quei, che si destinano alla cura delle anime; IV. Prediche, e Sermoni; V; Opere per destare, ed avvivare sentimenti cristiani negli animi istruiti, ed abituati a meditare; VI. Opere pedagogiche; VII. Biografie; VIII. Opere latine (nel terzo raggruppamento sono comprese le famose Lezioni sulla Teologia pastorale). Forniamo, a titolo d’esempio, l’elenco completo delle opere comprese sotto la VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
quarta “categoria”, Prediche, e Sermoni, di cui fanno parte le Omelie: La fortunata famiglia del mondo antico; Sei prediche sopra fatti dell’Antico Testamento; Prediche recitate in diverse circostanze; Discorsi Cristiani al Popolo di Campagna; Discorsi confidenziali, singolarmente ai Giovani; Il Sacrario del Genere umano; Sermoni sull’unione dell’uomo con Dio; Sguardi di S. Paolo nella profondità della sapienza; Prediche recitate nell’Elvezia; Omelìe per tutte le Domeniche, e le Feste dell’anno Ecclesiastico (il loro testo fornisce la base alla scelta di Antici); Altri cinque sermoni sacri separatamente stampati. Alla p. XXIX la pronuncia antiilluministica, sulla scorta dell’esempio di Sailer e di quei «Prodi» che non hanno mai smesso di richiamare alla fede e alla religione in mezzo alla tempesta rivoluzionaria, non potrebbe essere più perspicua: contro Voltaire, contro Rousseau, contro gli «Elvezi» [Helvétius], il grande rimedio storico è costituito da Chateaubriand, da De Maistre, de Lamennais, da De Bonald: Abborrano essi [i “credenti” nel «progresso dei lumi»] gl’incensi prostituiti da una generazione vaneggiatrice ai Voltaire, ai Rousseau, agli Elvezi. Corrano alla vera gloria sul cammino di Chateaubriand, di Maistre, di La Mennais, di Bonald.
L’ultimo, con la sua «portentosissima» (ivi, nota 3) La Legislazione primitiva, ebbe come traduttore P. Gioacchino Ventura, Procuratore Generale dei Padri Teatini, già autore dell’Enciclopedia Ecclesiastica, dell’Elogio funebre di Pio VII, delle Orazioni in morte del Duca di Ascoli, della Principessa di Pettoranello, del Principe del Cassero, del Dottor Fergola (Nicola Fergola, giovane ed insigne matematico napoletano, che aveva agli occhi di Gioacchino Ventura il merito di avere fornito una descrizione del Miracolo di San Gennaro), del discorso Dell’influenza di San Gaetano sulle Riforme del secolo XVI, della traduzione di Del Papa del conte De Maistre; quest’ultimo prepara per la stampa altre due «classiche» opere di Bonald: Saggio analitico sulle leggi dell’ordine sociale e Il divorzio considerato nel Secolo XIX (sempre nella nota 3, si glorifica la Francia della Restaurazione: «Le opere di questi sommi scrittori [di cui la odierna Francia meritamente si gloria, e nelle quali coll’Europa intera si istruisce] sono in parte già volte in italiano»)67. A p. XXXI Antici cita i versi finali, 178-180, del nipote Giacomo, dalla canzone Ad Angelo Mai: «tanto che in fine / Questo secol di fango o vita agogni, / E sorga ad atti illustri, o si vergogni. (4)». E nella nota 4, appunto, scrive: «Versi tolti dalla terza delle canzone del Conte Giacomo Leopardi pubblicate di recente in Bologna» (Antici non fa ovviamente, qui, riferimento al rapporto di parentela; l’edizione è appunto la bolognese Nobili, uscita alla fine di agosto del 1824). Ma la citazione dei versi del nipote, se dimostra la conoscenza da parte dello zio dell’opera leopardiana, non segna, in realtà, un avvicinamento delle posizioni culturali fra i due congiunti: nella precedente p. XXX Antici ha già stornato dalle virtù laiche, dalle virtù che definiscono la classico-pagana magnanimitas, una potenzialità civilizzatrice che va invece interamente attribuita alle virtù religiose della filosofia cristiana: Non già al laboratorio del chimico, né allo studio dello statuario, né all’opificio del tessitore si costruiscono i freni per imbrigliare le passioni, che non domate, sconvolgono da capo a fondo la società. Vuolsi la voce, vuolsi la penna dei valorosi, che sulle
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vette di Sion, e alle rive del Siloe raccolgono le verità, con cui rimpastare negli uomini il senso morale, e purgare la terra da tante iniquità, da tante miserie. Animati essi da sacro ardore, domineranno lo spirito palustre del tempo, che ritener vorrebbe i slanci del cuore nelle basse regioni della materia, per lo che regna tanto egoismo, tanta ingordigia dell’oro, tanto disprezzo dei generosi affetti. Il ritorno alla virtù non può operarsi, che dal ritorno alla Religione. Sia questa l’impresa di magnanimi scrittori, sia questo il tema dei loro scritti [segue, appunto, la citazione della canzone del nipote] (pp. XXX-XXXI).
La «virtude / Rugginosa dell’itala natura» (Ad Angelo Mai, vv. 24-25) è la virtù delle memorie culturali classiche, non certo la virtù veicolata dalla tradizione cristiana e dalla funzione storica del Papato in Italia e in Europa; e la «patria» del v. 30 è definita, o meglio “compianta” come «codarda» perché, sulla base di così elevate e valide e illustri tradizioni, essa non si risolleva e non si riafferma come entità geoculturale e politica indipendente e autonoma (e non è, quindi, definita «codarda» per eccesso di epigonato ricettivo del pensiero laico e sovvertitore, come metternichianamente mostra di pensare lo zio Antici); e il «tedio che n’affoga» del v. 72 comprende ancora, pur come componente ormai tutt’altro che unica, il «tedio» della Restaurazione, i cui autori e maîtres-à-penser (Chateaubriand, De Maistre, De Bonald, il primo Lamennais) Antici esalta come antidoto frontale al rovinoso pensiero illuministico (anche al di là di sfumature di concezione, e di patrimoni di personale cultura, che il marchese mostra ampiamente d’avere, e che gli permettono comunque di superare, sul piano della fruizione individuale delle letture, le contrapposizioni categoriali o manichee tra “fronti” culturali); il «nulla» del v. 75 e del v. 100 («solo il nulla s’accresce»), un nulla tale da resistere alle nuove conoscenze derivate dalla scoperta dell’America, rivela, certamente, la profonda distanza che separa Leopardi dal puro esprit de géométrie, dalla valorizzazione d’una conoscenza strettamente fisico-scientifica e razionale, in una parola “oggettiva”, che deriverebbe dall’ampliamento della «carta» geografica: altri elementi, altre considerazioni e sollecitazioni culturali ed emotive (se pure ve ne saranno), potranno contrassegnare l’affondo di conoscenza sul mondo, sulla natura e sugli uomini nell’evoluzione del pensiero di Leopardi; ma le espressioni della canzone al Mai (come, per altro verso, quelle dell’Inno ai Patriarchi) sono a loro volta ben lontane dalle celebrazioni dell’America, e in generale delle scoperte geografiche, come meta dell’espansione missionaria, della conquista di nuove terre alla cristianità, dell’ampliamento degli orizzonti gesuitici di colonizzazione del nuovo mondo, come quelle che si ritrovano in Antici e negli scrittori appartenenti alla pubblicistica della quale egli condivide i valori. Questa differenza di impostazione non impedisce a Giacomo di ragguagliare via lettera lo zio Carlo Antici sulle prose di traduzione che egli viene compiendo proprio nel 1825, dalle «operette» greche alle prose che si precisano miratamente come versioni da Isocrate, ad un nuovo progetto platonico riguardo ai Pensieri (progetto non direttamente annunciato in queste lettere, ma appartenente allo stesso 1825, ad un’area cronologica, insomma, contigua alle suddette missive): «Io vengo presentemente ingannando il tempo e la noia con una traduzione di operette morali scelte da autori greci dei più classici, fatta in un italiano che spero non pecchi VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
di impurità né di oscurità» (lettera a Carlo Antici del 15 gennaio 1825); ancora (lettera del 5 marzo di quell’anno), Leopardi attesta allo zio di avere, già alla data del 12 gennaio, effettuato la versione de «le tre Parenesi, ossia Ragionamenti morali d’Isocrate, l’uno a Demonico, l’altro a Nicocle, il terzo intitolato il Nicocle»68. L’ultima opera di Sailer (qui scorciata da Antici) è questa raccolta di Omelìe per tutte le Domeniche, e le feste dell’anno Ecclesiastico. L’intero corpus «forma una serie di concatenati ragionamenti sui misteri, sulle massime del Vangelo» e su altre tematiche della diffusione apostolica del messaggio (p. XXXI): «Questo armonioso complesso della verità rivelate non può certo apparire dalle Omelìe, che ho disgiuntamente tradotte. Tuttavia, pare a me, che vi traluca quanto basta per far conoscere il merito del tutto, e porgere salutari riflessioni sopra tanti funesti errori, al di cui rombo abbiamo talmente assuefatto l’orecchio, che spesso le verità più comuni prendono l’aspetto di novità». Riproduciamo, a riprova del calibro espressivo di dottrina testamentaria e scritturale, e insieme di “taglio” pastorale, didascalico-allocutivo raggiunto dalla prosa saileriana ed efficacemente reso dalla traduzione anticiana, le Omelie IX, pp. 7176 (la denominazione di «stessa» è dovuta al fatto che Antici riproduce in successione due omelie – VIII e appunto IX – pronunciate da Sailer, a distanza di un anno, per la «stessa» domenica di settuagesima), XIII, pp. 105-111, e XV, pp. 121-132 (le numerazioni in cifre romane – I, II, III – o arabe – (1), (2), (3) – sono d’autore e indicano alcune importanti scansioni interne all’omelia saileriana; vengono in tal senso fedelmente restituite dal germanista recanatese): OMELIA IX Discorso per la stessa domenica di settuagesima Sulla maledizione, cui soggiace, e che merita la vita oziosa Perché state voi qui tutto il giorno in ozio? (S. Matteo XX. 6.) Nell’Anno precedente, in questa Domenica istessa vi spiegai, miei Ascoltatori, la parabola degli Operai nella vigna, secondo lo spirito del tutto. Io dissi: la vita umana è / I. Un comando di Dio al lavoro nella sua Vigna. / II. Una breve giornata di lavoro in quella Vigna. / III. Una giornata di lavoro che termina con una bella sera di mercede, e che è susseguita da un giorno di eterno riposo. / Oggi mi trattengo nella domanda del Padre di Famiglia: Perché state voi qui tutto il giorno in ozio? E mi trattengo bensì sulla lettera di questa domanda. / Voi, miei cari, rimarrete presto convinti, che la Lettera per se stessa contiene per noi tutti un importantissimo ammaestramento. Poiché dessa accenna tal cosa, che si attira, e merita la maledizione del genere umano, della propria coscienza, e dell’eterna giustizia. / I / Chi le serie, ordinate, doverose occupazioni della vita sfugge e trascura, è per noi un ozioso; e l’abitudine, la sciagurata disposizione di trascurare le serie, ordinate, doverose occupazioni della vita, chiamasi da noi ozio. / Può l’ozio andar congiunto con l’inerzia, e la pigrizia, o benanche con quella attività, che si crea affari sempre nuovi ommettendo però quelli, ai quali ne chiama il dovere. / In due epoche della vita umana l’ozio più apertamente si appalesa; negli anni destinati ad abilitarsi per uno stato, o per un impiego, e quando lo stato, o l’impiego è già conseguito. / L’ozio della prima specie è purtroppo un assai comune, e
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sommamente pernicioso peccato di gioventù. Nasce da frivolezza di mente, cresce per manìa di solazzi, ed ingrandisce fino allo sconvolgimento dell’ordine di natura e della vita. / Nasce da frivolezza di mente, perché ovunque, l’età inesperta, e vivace si slancia, o per dir meglio, a briglia sciolta si avventa alle lusinghiere apparenze, senza prevedere il pericolo del correre a occhi chiusi, né quello della sovrastante precipitosa caduta. / Nasce da frivolezza di mente, che non esamina quanto l’esempio, la compagnia, la presunzione, l’immaginaria propria importanza danno ad intendere; poiché tuttte queste cose hanno l’arte di rendere seducente il quadro di questo ozio affaccendato, ed irresistibili le sue attrattive per i novelli male istruiti, e non istruibili avventori. / La rete è tesa, l’esca è nascosta, l’incauto è preso. / L’ozio cresce, l’ozio acquista forza dalla insaziabile manìa di solazzi. Poiché non potendo l’inerzia allettare la briosa, e gagliarda gioventù, si abbandona questa soltanto a quell’ozio, che va congiunto ai piaceri. Il piacere diventa fine, il piacere distribuisce tutte le parti della giornata, il piacere ne usurpa le ore migliori, il piacere non ne accorda veruna alle doverose occupazioni, o accorda quelle soltanto, che non trovano nei diporti il loro sfogo. / L’ozio ingrandisce, e termina poi collo sconvolgimento dell’ordine di natura, e della vita. Avendo la natura, e la vita assennata destinate al riposo le ore notturne, ed alla fatica le diurne, l’ozio ne perverte tutto il sistema. Il maggior tempo della notte lo dedica al giuoco, alla crapola; le ore più preziose del mattino al sonno, e le altre ore del giorno ai divertimenti, se pure, per eccesso di singolare generosità, non accorda qualche momento allo studio, ed alla lettura. / Perciò, quando gli anni giovanili, che consecrare dovrebbonsi a lodevole assidua applicazione, restano in preda all’ozio insensato, egli è facile il prevedere, che la manìa dei solazzi, divenuta un’altra natura, rimarrà la tiranna dell’uomo in carica, dell’uomo capo di una famiglia, come la fu del giovane nell’epoca, in cui invece di formarsi, sformossi. / Il nuovo impiegato terrà la sua camera di studio, la sua sala di udienza per un luogo di tortura, differirà il disbrigo di molti affari, che poteansi tanto meglio ultimarsi in giornata; molti ne appoggerà ad altri, che doveano da lui medesimo definirsi; e sempre nella maggior fretta possibile, e sempre quelli soltanto compirà, che assolutamente in quell’ora, e da lui medesimo doveano compirrsi. / E quest’ozio affaccendato, quest’ozio di piaceri ingordo, è pur troppo, miei cari, radicato, e tollerato non solo in parecchi giovani chiamati agli studi, ma predomina ancora nelle grandi e piccole Città, la maggior parte dei cittadini, siano quelli, che debbono abilitarsi ai doveri del loro stato, siano quelli, che già lo assunsero. / Saremmo peraltro meno infelici, se quest’ozio affaccendato, e di piaceri ingordo, trovasse soltanto nel nostro sesso i suoi partigiani, e non contasse benanche tra le donne, e le zitelle, zelanti proselite, che non vogliono quasi conoscere altra occupazione, che quella di acconciarsi, non formano altro voto, che quello di far colpo, non amano altra vita, che quella dei divertimenti! Questo è l’ozio, che io voleva quest’oggi delineare. / Esso è (1) affaccendato, esso, è (2) sempre di piaceri ingordo, esso è (3) però ozio vero, esso è (4) divenuto costume, abitudine, natura. / Perché state voi qui per tutta quanta la vita in ozio? Direbbe Gesù Cristo. / II / Quest’ozio affaccendato, e di piaceri ingordo si attira, e merita in primo luogo, la maledizione di tutti gli uomini assennati. / Un ozioso di questa specie non è soltanto un inutil pondo della terra, non è soltanto un albero infruttifero indegno dello spazio che occupa; egli è ancora una perniciosa pianta, che alle piante utili, e salubri fura benanche il suolo, e l’alimento; egli è un membro infetto del corpo sociale, che ammorba le parti sane, e
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
non altro propaga, che corruttela e devastazione, immolando i beni della terra, e della vita all’insaziabile furor dei piaceri. Costui non mangia mai un pane meritato, poiché senza fatica nol si può meritare. / Quest’ozio affaccendato, e di solazzi ingordo, si attira e merita, in secondo luogo, la maledizione della propria coscienza, costretta a condannare l’ozio nell’ozio, e gl’insensati diporti, e la negletta coltura, e tutta la messe di viziose azioni, sempre accoppiate all’abbandono di serie, e doverose occupazioni. / Questo ozio affaccendato, solo di solazzi ingordo, si attira e merita, in terzo luogo, la maledizione dell’eterna giustizia, tanto spaventosamente rappresentata da Gesù Cristo, in quella parabola, ove il servo che avea ricevuto un talento, e che invece di trafficarlo, secondo l’ordine del padrone, mettendolo a capitale di opere buone, lo avea sottterrato, e quando fu chiamato a renderne conto, dovette senture questa sentenza: Togliete al servo infedele il talento, e datelo a colui, che ha dieci talenti. Imperocché a chi ha (ed impiega bene quello che ha) sarà dato (di più), e troverassi nell’abbondanza. Ma a chi non ha (niente ha guadagnato colla fatica, nessun frutto della sua fatica può esibire) sarà tolto anche quello, che sembra avere e il servo inutile gettatelo nelle tenebre esteriori; ivi sarà pianto, e stridor di denti. (S. Matteo XXV. 14. 30.) / Eccovi, miei ascoltatori, la sentenza dell’eterna giustizia. Il servo inutile perde (1) il talento affidatogli, non riceve (2) alcun nuovo dono, (3) viene gettato in profondissime tenebre, ove (4) trangugierà gli amarissimi frutti dell’ozio di solazzi ingordo. / Dio voglia scampare noi tutti da questo amarissimo frutto dell’ozio, e scamparci dall’ozio medesimo, e accordarci lo spirito di operosità, e di santa attività. Così sia. OMELIA XIII Discorso per la Pasqua di Risurrezione Sulle più grandi speranze del genere umano Afferra la vita eterna (S. Paolo a Timoteo Lettera 1. VI. 12) 13a Quando gli Apostoli del Signore promulgano per tutta la terra: il Signore è risorto, afferrate la vita eterna; risponde in ciascuno delle sue membra la Chiesa Cristiana: noi crediamo alla Risurrezione della carne, noi crediamo alla vita eterna. E se la Fede della Cristiana Chiesa alla vita eterna in ogni Domenica dell’anno si manifesta, ella è, sopra tutte, la solennità Pasquale, che si estende dalla domenica di Pasqua. Alla Domenica di Pentecoste – la quale ringiovanisce in noi la fede alla vita eterna, e con questa fede forza, e conforto nei nostri cuori infonde. Imperrocché la fede nella Risurrezione di Gesù Cristo altro non è, che la fede nella risurrezione dell’umana carne, la quale, in Cristo risorse da morte, ed in noi risorgerà; ella è una fede nella vita eterna, non solo dell’anima umana, ma dell’uomo tutto intero. L’uomo vive eternamente; questa è la dottrina dell’infallibile vangelo. E questa dottrina appunto vorrei quest’oggi nel fatto, cioè nella risurrezione di Gesù Cristo, che è divenuta la credenza del mondo, evidentemente dimostrare. Voi, miei cari, mi ascolterete adesso sicuramente con ispeciale interesse, poiché io vi parlo delle più grandi speranze del genere umano. Vedendosi da noi ogni giorno morire i corpi umani, che noi stessi tante volte accompagniamo al sepolcro, è molto naturale la domanda: muojono soltanto i corpi, o omuojono ancora le anime degli uomini, muore l’uomo tutto intero? In qual modo
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l’uomo animalesco replichi alla domanda, egli è facile immaginarlo. L’animale non conosce, che diletti transitori, così l’uomo animalesco. Che peraltro l’uomo, destatosi una volta alla vera vita umana, sollevatosi una volta al di sopra del bruto, e dal bruto distintosi, dica a se stesso: soltanto la parte corporea, la veste esteriore, l’esterior velame perisce; l’anima umana, l’umano spirito, l’uomo propriamente detto, l’Angelo nell’uomo, il soffio Divino non perisce, non può morire; derivò da Dio, è come Dio immortale –, è giustamente supponibile dall’essere, e dal vivere dell’uomo vero. Dunque l’anima dell’uomo è immortale, non muore, né può morire. Ciò si tiene sempre per una sentenza della ragione naturale da tutti gli uomini buoni, da tutti gli uomini saggi, che veri uomini divennero. Ma per quanto grande, per quanto sublime possa essere questa sentenza, è tuttavia quella del Vangelo assai più precisa, incomparabilmente più chiara. Poiché al quesito: Muore forse l’uomo tutto intero, muore col corpo l’anima ancora? Il vangelo risponde: Non solo l’anima umana è immortale, ma l’uomo intero è creato per la vita eterna, è chiamato alla vita eterna, e l’uomo santificato, l’uomo rigenerato in uomo vero vive realmente in eterno. Questa celeste dottrina del Cristianesimo è così intimamente congiunta all’origine dell’uomo, alla caduta dell’uomo, alla ristaurazione dell’uomo, che soltanto per esse può essere intesa. Permettetevi di esporvene il più importante colla maggior possibile brevità. L’uomo, questo è il primo insegnamento della Rivelazione, allorché nell’innocenza e nella gloria della sua primitiva origine uscì dalle mani di Dio, fu, come di Lui immagine, immortale – nel corpo e nell’anima, mangiò il pane dell’immortalità. Né peccato, né morte non esisteva nel mondo. Ma, e questo è il secondo insegnamento della Rivelazione; ma il primo uomo prevaricò, peccò, divenne mortale, e per quest’uomo prevaricatore entrò nel mondo il peccato, e la morte. L’uomo, che era immortale nella sua primitiva origine, divenne, quanto al corpo, mortale, secondo la minacciosa parola del Legislatore Supremo: in qualunqur giorno tu mangerai, del frutto vietato indubitatamente morrai. Il peccato però, e la morte non debbono eternamente durare. Comparirà, e questo è il terzo insegnamento della Rivelazione; comparirà nella pienezza dei tempi il secondo più perfetto Adamo della nostra stirpe; questo consumerà il suo sagrificio per i peccati del mondo, andrà a morte, e per la sua morte – vincerà della morte il pungolo, mentre, risorgendo dal sepolcro, rappresenterà nella sua umanità glorificata l’eterna vita – per se [sic], e per noi; per se col fatto, per noi come figura, e come pegno. E questa promessa, miei cari, è stata realmente adempiuta; e appunto l’adempimento di questa promessa si celebra da noi Cristiani, in tutti i giorni della nostra vita, ma più, specialmente in tutte le Domeniche, e più specialmente ancora in queste Pasquali Solennità. Gesù Cristo è il fonte della nostra salute causa salutis nostrae, come la Chiesa con Paolo si esprime. Per Lui siamo redenti dalla potestà del peccato, siamo illuminati, siamo santificati, e pace abbiamo con Dio, accesso libero a Dio. Ed è questa la salute dello Spirito umano. Noi per Gesù Cristo impariamo ad amare Dio sopra ogni cosa, ed il prossimo nostro come noi stessi; impariamo per lui a caminare incontaminati, ed irreprensibili nell’amore al cospetto di Dio, della Chiesa, e del mondo; lo spirito umano è redento dalla morte dello spirito, è redento dal peccato.
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Ma la salute dell’uomo non è ancora compiuta. La sua parte corporea deve consegnarsi alla morte, ed alla corruzione, e ridestarsi ad una incorruttibile vita. Havvi una Risurrezione dei corpi. Verrà l’ora, Gesù Cristo medesimo il dice (Vangelo di S. Giovanni V. 28, 29), verrà l’ora in cui tutti quelli, che sono nei sepolcri udiranno la voce del figliuolo di Dio, e quelli, che avranno fatte opere buone, risorgeranno per vivere; quelli, che avranno fatte opere male, risorgeranno per essere condannati. Nel mio odierno discorso non imprendo a considerare, che la risurrezione dei corpi, e di questa così parla l’Apostolo: Allora porteremo l’immagine del Celeste, come ora in questo corpo, portiamo l’immagine del Terrestre; poiché il primo uomo è dalla terra, terreno, il secondo uomo è dal Cielo, celeste. Come adunque il corpo, che attualmente indossiamo, è un corpo corruttibile, fiacco, vile, ed animale, così il corpo, di cui alla risurrezione ci rivestiremo, sarà un corpo incorruttibile, e quasi spirituale (S. Paolo ai Corinti lettera I. XV. 42. 49). Vive l’uomo tutto intero. Come in oggi il nostro spirito diventa per Gesù simile alla sua santità, così i nostri corpi diveranno allora per Gesù Cristo simili al suo corpo glorioso. Il giorno della finale consumazione sarà come il giorno del primitivo nostro stato. L’uomo intero vivrà, sarà immortale; peccato, e morte, saranno sempre distrutte. Il giorno della consumazione, sorpasserà il giorno del nostro primitivo stato. Poiché il primo uomo potea peccare, e divenir mortale. Ma nello stato della consumazione non troverà più luogo né peccato, né morte; l’uomo tutto intero vivrà eternamente. Vedete, miei cari, questa è la preziosa dottrina del cristianesimo sull’immortalità dell’uomo intero. Tutto l’uomo rigenerato, e compito per Gesù Cristo nello spirito, e nel corpo, vivrà in eterno. Questa è la promessa, questo è il Vangelo (la lieta novella) intorno all’eterna vita dell’uomo! Deh teniamoci fermi a questo divino Vangelo, riconosciamo in Gesù Cristo la causa dell’intera nostra salvezza, compiamo per Lui con vera penitenza, e con santificazione della vita la Risurrezione dello spirito, onde divenir degni di partecipare poi alla gloriosa risurrezione del corpo. Viviamo a Gesù Cristo, viviamo alla giustizia, affinché come ora la nostra vita assomiglia alla Sua, possa ancora alla Sua risurrezione essere assomigliante la nostra. / Ripeto: l’uomo il più sapiente nulla di meglio può presentire, l’animo il più puro nulla di più prezioso bramare, se non quello, che il Cristianesimo sull’eterno vivere dell’uomo ne insegna. Ed io posso dire di questa separata dottrina del Vangelo quanto Paolo di tutto il Vangelo scrive: «Se un Angelo vi recasse dal Cielo una diversa dottrina, non la ricevete – dessa non viene da Dio». Dio istesso è l’eterna vita, ed i suoi figli hanno in Lui l’eterna vita. Tutto l’uomo vive in eterno, questo è verità. Ei viva! OMELIA XV Discorso per la sesta Domenica dopo Pasqua Intorno all’essenziale connessione tra l’ignoranza delle cose Divine, e il disordine morale Verrà tempo che chi vi ucciderà si creda di rendere onore a Dio. E vi tratteranno così, perché non hanno conosciuto né il Padre, né Me. (Vang. di S. Giov. XVI. 1. 2.).
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In questo passo Gesù Cristo predice ai suoi seguaci ciò, che lo sovrasta: Chiunque vi ucciderà, crederà di rendere onore a Dio. Addìta poi la sorgente di questo enorme misfatto: Vi tratteranno così, perché non hanno conosciuto né il Padre, né Me. Ne insegna pertanto Gesù Cristo (1) che l’accecamento, e l’odio frenetico alla verità, non che ai di lei testimoni giungerà all’eccesso di trucidarli, e si crederà con questa azion crudele di rendere a Dio una specie di culto; (2) che quest’odio alla verità, ed ai suoi promulgatori, che li conduce a morte, e questo accecamento per cui si crede di rendere omaggio a Dio coll’uccisione de’ suoi seguaci, è l’effetto dell’ignoranza in cui giacciono i persecutori: non conoscono essi né il Padre mio, né Me. Sì, miei cari, con queste parole del redentore: Non conoscono essi né il Padre mio, né Me, è chiara la sentenza, che l’uccisione d’innocenti testimoni della verità, e la sacrilega superstizione di rendere a Dio una specie di culto colla strage di uomini puri, giusti, religiosi, altra origine non hanno che nell’ignoranza delle cose Divine. Io estendo ancor più oltre l’argomento, e dico: Non solo questa empietà, non solo questa superstizione, di cui parla il Signore, l’uccisione cioè dei testimoni della verità, e il delirio di render con ciò onore a Dio, scaturiscono dalla ignoranza delle cose Divine; Io dico, tutta l’immensa moral corruttela, che, come un impetuoso straripato torrente tutto seco strascina, ha la sua vera origine nell’ignoranza delle cose Divine. E se Gesù Cristo scendesse nuovamente trà noi, pronunzierebbe alla vista dell’ordine morale cotanto sconvolto nelle grandi e piccole città, e sinanche nei villaggi, e nelle campagne: Tutto ciò avviene, perché non conoscono né il Padre mio, né Me. Io dico: A misura, che la cognizione di Dio, e del suo Unigenito tra noi s’infievolisce, la corruttela morale di tutti i ceti deve aumentarsi. Io dico: A misura che la moral corruttela tra noi si aumenta, deve la cognizione di Dio, e del suo Unigenito infievolirsi. Io dico: Havvi una necessaria essenziale connessione tra l’apostasìa degli uomini da Dio, e la decadenza di ogni ordine morale sulla terra. Essi non conoscono né il Padre mio, né Me. Per questo, regna ovunque nel mondo tanto disordine morale; e quanto più il disordine morale imperversa nel mondo, tanto più deve aumentarsi l’allontanamento degli uomini da Dio, tanto più l’oscurità, tanto più la spaventevole ignoranza delle cose Divine. All’incontro, quanto più diminuisce la cognizione di Dio, e di Gesù Cristo, tanto più dee progredire il disordine morale. Intorno a questo importante argomento – importante davvero, perché potrei chiamarlo il più importante di ogni altro – mi propongo discorrere quest’oggi, quanto è bastante per disporre i miei ascoltatori a giudicare rettamente sulla connessione tra l’ignoranza di Dio e di Gesù Cristo, e tutto il disordine morale nel mondo, ed a metter mano ancor essi all’opportuna riforma delle cose. A tutti gli occhi, che vogliono vedere, saprò render chiaro. I. Per quali cause crolla e benanche rovina nel mondo l’ordine morale. II. Che tutto il disordine morale trae la sua vera origine dall’ignoranza delle cose Divine. III. Che il ristabilimento dell’ordine morale dipende interamente dalla cognizione di Dio, e di Gesù Cristo. Dimostrerò estesamente il primo assunto; indicherò il secondo, ed il terzo con bastante precisione.
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
I La malattia del secolo L’ordine morale nel mondo presuppone il freno, il governo dei sensuali appetiti, delle passioni; giacché, ovunque i sensuali appetiti, ovunque le passioni degli individui rompono il freno, ivi rovesciano ancora l’ordine morale – per quanto dagli individui può rovesciarsi. Lo scatenamento delle passioni, e il rovesciamento dell’ordine sono l’istessa cosa. L’uomo guidato dalla ragione, che ubbidisce alla legge dell’ordine, non attenta mai all’ordine morale; ma l’uomo animalesco, non dalla ragione diretto, non da forza alcuna imbrigliato, rovescia l’ordine morale, tutte le volte che può. Ora fatalmente! Il secol nostro in ciò appunto riesce a segnalarsi, che (1) è ingordo del piacere e dei solazzi, che (2) in questa sua ingordigia non conosce remora, né freno, e di giorno in giorno peggiora; che (3) per questa rabbiosa, intemperante ingordigia del piacere e dei solazzi l’ordine morale minaccia e distrugge. Questa accanita indomabile smania del piacere, e dei solazzi, che minaccia, e distrugge l’ordine morale si manifesta nel nostro seolo in maniera non meno evidente, che desolante. Voglio con il più modesto pennello, non già pingere, ma piuttosto abbozzare la storia della giornata. I. Che la sfrenata intemperanza nei cibi, e nelle bevande sconvolga l’ordine morale, la sanità di tanti alteri e distrugga, moltissime famigli rovini, è cosa troppo per se stessa notoria, né abbisogna di menzione. Ma deesi dire pur troppo (benché non senza il più grave cordoglio), che la lussuria nel suo stretto significato, cioè lo sfrenato istinto del sesso devasti il più bel giardino del Signore – non solo negli adulti, e nei fanciulli, che quantunque immaturi ancora per il peccato, tuttavia già al peccato vengono prostituiti, dimodoché gli Angeli di Dio, sì quelli di celeste, che quelli di umana forma, costretti sono a distornare lagrimando gli occhi, per non vedere come quei bei fiori con feroce trasporto si calpestano. II. Nella stessa guisa che la dominante lussuria l’anima e il corpo guasta e corrompe, così la dominante albagìa corrompe guasta lo spirito e il cuore. L’insaziabile manìa di far colpo, che giornalmente sempre più signoreggia il sesso femmineo, e gli uomini effeminati genera una strabocchevole mollezza, ed un lusso divoratore nelle vesti, ed in ogni sorta di godimenti sensuali; per cui non solo si sbandisce dagli animi qualunque pensiero grave, ma si spalancano ancora ad ogni ingiustizia le porte. Le somme che i fittizj bisogni ogni dì esiggono, ed ogni dì ingojano non possono acquistarsi per vie rette; debbonsi, poiché il vizio vuol essere satollato, debbonsi dunque radunarsi per le vie dell’ingiustizia, per astuzia, frode, furto, e rapina. E quì [sic] si mostra sempre più ad evidenza quanto i pretesi filantropi andassero errati nell’insegnare: che si possa, che si debba lasciar libero corso alla voluttà, come a peccato dell’umana fralezza, ma che l’ingiustizia abbiasi a vietare severamente, a punire, a sterminare. Io dico, che cotali ragionatori hanno nei loro raziocinj mostruosamente errato. Poiché la dominante lussuria sia appunto quella, che prende, e prender dee l’ingiustizia per la sua più fida ancella. Da pertutto, ove le proprie sostanze non bastano a radunare le legna con cui alimentare i consueti fuochi di allegrezza, vi si strascinano le sostanze altrui, ingannando, corrompendo, usando apertamente, o segrete violenze per nutrir la fiamma – che altrimenti si estinguerebbe.
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
III. Ma ei si appalesa in modo più spaventevole ancora come per la dominante
lussuria non vi ha ingiustizia troppo esecrabile, quando si tratta di sodisfare il reprobo senso. Poiché la sfrenata lussuria prostituisce, deturpa, corrompe, non solo la gioventù celibe, ma spezza benanche il sacro, il Divino legame del matrimonio, commette perciò quella ingiustizia da tutti i popoli abborrita, da tutti i popoli punita, voglio dire l’adulterio. Lungi dunque dal discolpare la dominante voluttà dai peccati d’ingiustizia, riguardarla si dee pur troppo come funesta madre d’innumerevoli ingiustizie. IV. Non la sola dominante voluttà, non la sola manìa di far colpo, non la sola albagìa, la mollezza, il voracissimo lusso sono le cause d’innumerevoli ingiustizie. Anche la cupidigia delle ricchezze per se stessa, e senza relazione ai godimenti sensuali, è un altra [sic] lue di questa nostra età ingorda del piacere, e dei solazzi. La smoderata brama di arricchire è già di sua natura la radice del male, e dell’ingiusto. Se l’auricupido si ricusa i sensuali piaceri lo fa soltanto per procacciarsi il godimento dell’oro, che è una voglia insatollabile dell’immaginazione. V. In ugual modo, allorché l’ambiziosa sete di dominio, tra tutte le passioni la più furibonda, si ricusa i comuni sensuali piaceri, lo fa soltanto per sbramare tra le nubi dell’immaginazione le sue orgogliose voglie di omaggi, e di adorazioni. VI. Sia peraltro intemperanza nel vitto, e nelle bevande, o lussuria, o avarizia, o ambizione, che agita gli uomini, egli è manifesto, che un’epoca smaniosa del piacere e dei solazzi, e nei piaceri e solazzi sfrenata necessariamente ogni ordine morale minaccia e sconvolge. Poiché predomini pure negli uomini una rozza, o una delicata, o una delicatissima sensualità; dessa perverte, regnando, l’ordine morale. VII. Il maggior poi de’ mali si è, che in una epoca tutta immersa nella ricerca del piacere e dei solazzi, l’assennata educazione della Gioventù, su cui tutte si fondano le speranze dell’età ventura, è resa per la micidiale manìa del piacere, e dei solazzi sommamente difficile nelle famiglie, e quasi impossibile nelle pubbliche scuole. Questa è la malattia del nostro secolo. Io, come un medico pratico, l’hò ingenuamente indicata. Ora adduciamo e la causa di questa malattia, e l’unico suo rimedio. II Causa della malattia Ogni disordine morale del mondo dall’ignoranza deriva dalle cose Divine. Qui cova la causa del male. Fintantoché i nostri progenitori portarono in cuore Dio, e il suo comando, il pomo vietato non poteva avere attrattive per loro, o non poteva averle che deboli. L’occhio volgevasi a Dio, il cuore non gioiva che in Dio; il serpente non trovò accoglienza, e molto meno ascolto, il comando di Dio non fu trasgredito. Ma appena la cognizione viva di Dio, il rispetto pel suo comando s’illanguidì; l’occhio si volse al seducente pomo, il serpente trovò accoglienza e docile orecchio – e gl’Illusi, di Dio immemori, mangiarono il frutto vietato. Perduta fu l’innocenza, perduto il Paradiso. Questa storia del Paradiso perduto, questa storia del primo disordine è la storia di ogni morale disordine nel mondo. Sinché la cognizione viva delle cose divine governa il cuore, chiuso resta tenacemente l’ingresso al peccato. Appena però quella cognizione vacilla, infiacchisce, s’il-
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languidisce – agonizza; appena essa cede a dubbiezze sul comando di Dio, all’obblivione, o benanche alla miscredenza di Dio, svanisce la celeste luce, buja notte annebbia la vista, le vili concupiscenze ingigantiscono – il comando di Dio è già trasgredito. Ciò essi faranno, dice il Divino maestro, perché né il padre mio conoscono, né me. Sì, miei cari, sinché l’amore del Padre, la grazia del Figliuolo, la comunione dello Spirito Santo – questa viva e tutto vivificante cognizione abita in noi, le concupiscenze carnali stanno sotto il giogo dello spirito, e pace, e letizia albergano in tutta la casa. Ma, ritiratosi appena dall’anima, colla luce di quella cognizione, l’orrore alla colpa, insorge all’istante la concupiscenza, e colla concupiscenza la potestà del peccato, e colla potestà del peccato la morte, e l’inferno. Poiché ai dì nostri purtroppo la viva cognizione di Dio, e del suo Unigenito, parte del tenebroso egoismo, che vive senza Dio, parte da una stravolta coltura, che spaccia, l’errore per verità, e la stoltezza per sapienza, ovunque si deprime, e quale superstizione si calpesta; non vi è da meravigliarsi, se il disordine morale cotanto si diffonda, e sempre più da pertutto inondi. Sì, distornando l’occhio ed il cuore da Dio, e da Gesù Cristo, lo abbiamo già rivolto all’idolatria del mondo. Da ciò chiaro apparisce come possa ristabilirsi l’ordine morale. III Guarigione della malattia Se dunque, coll’illanguidirsi ed estinguersi, che fa la cognizione delle cose Divine, s’illanguidisce, e si estingue la vera vita dell’uomo; deve necessariamente col ristabilimento, colla conservazione, e propagazione di quella, ristabilirsi, conservarsi, propagarsi ancor questa, che è il perfetto ordine morale. Gettate, sì gettate, miei cari uno sguardo sui bei giorni del nascente cristianesimo! Non fu egli per la vita apostolica, che in parole, in opere, in miracoli, in sacrifizi di ogni specie si manifestò la cognizione delle cose Divine, indi la cognizione beatificante di Gesù Cristo; e che per questa cognizione la vita vera, l’ordine morale, la salute del mondo venne fondata, propagata, conservata – da principio in alcuni uomini, in alcune adunanze, finalmente in tutta la Chiesa? Nello stesso modo pertanto si può ai giorni nostri togliere il disordine, ristabilire l’ordine, ricondurre la vera vita, ove regna la morte morale. Ella è dunque la vita Apostolica, che può ristabilire la viva cognizione delle cose Divine, che può ristabilire l’ordine vero. Ciò peraltro che potentemente ristabilisce la vita Apostolica, e l’ordine morale, ella è appunto la ristaurazione della santa Chiesa tanto nei suoi Antistiti, quanto nelle particolari Diocesi. Spirito Divino, che già incominciasti così grand’opera col tuo soffio vivificante, proteggila con questo soffio vitale, e compila per Gesu Cristo Signor nostro! Così sia. –
Una nota a p. 132, certamente scritta dal traduttore Antici, ascrive l’ultima omelia qui riprodotta al periodo iniziale della Restaurazione: «Da queste ultime linee ognuno può conoscere, che il presente discorso fu pronunziato, allorché, cessato quel violentissimo turbine che Chiesa, e stati metteva a soqquadro, i Sovrani si occupavano colla S. Sede della ristaurazione della Chiesa Cattolica nei loro dominj».
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4. Nell’àmbito della produzione di Antici, in quegli anni, rientra anche l’inizio della carriera di articolista e di autore di discorsi accademici sulle tematiche che già sono emerse nei precedenti paragrafi. Nel numero di «Decembre» del «Giornale Ecclesiastico di Roma» del 1825 (tomo IV, pp. 213-226) esce l’articolo intitolato Spirito pubblico-religioso. Spirito del tempo, ripubblicato nel tomo III (luglio-agostosettembre 1826) della Collezione di opuscoli della Società de’ Calobibliofili di Imola69 e, di nuovo, con il titolo Lo spirito del tempo. Articolo comunicato, in «La Voce della Ragione», I, 5, 31 luglio 1832, pp. 308-320); il 22 giugno 1826 è la volta dell’ampio Discorso del Marchese Carlo Antici pronunziato in Roma nell’Accademia di Religione Cattolica il dì 22 giugno 1826, pubblicato in Imola, Tipi Galeati e Comp., a spese della Società de’ Calobibliofili, con licenza de’ Superiori, 1826. Il primo dei due contributi, di agile struttura, come già si è detto, è anch’esso una traduzione, parziale, ricavata da alcuni estratti dell’articolo d’uno studioso tedesco, don JOHANN GEORG PFLISTER, Materiali per un Dizionario, da cui possa conoscersi il linguaggio, e la tempra dello spirito del tempo, uscito nel periodico «Der Katholik, eine religiose Zeitschrift» nel gennaio del 1825; la citazione iniziale, «E se non piangi, di che pianger suoli? Dante», introduce il motivo del lamento e della critica riguardo ai tempi, che si sono per parte loro dimostrati tali da non assicurare tranquillità ai reazionari dopo che il pericolo rivoluzionario era apparso storicamente scongiurato; il senso dell’articolo risiede dunque nell’espressione d’un’inquietudine per il ritorno d’un pensiero e d’una filosofia, se non anche d’un pericolo storico-politico, rivoluzionari e sovvertitori, in quanto materialistici, dell’ordine morale e intellettuale, e quindi, potenzialmente, disgregatori – con la stessa percentuale di rischio – della fede in tutto un ordine sociale (pp. 1-2 dell’edizione del 1826; il segmento di testo è tratto dall’introduzione del traduttore Antici): Quando la filosofia della sensualità, e dell’orgoglio consumò la grand’opera, che varj lustri baldanzosamente preparava, e che assisa sul desolato trono di San Luigi eresse per le mani dei Danton, dei Marat, dei Robespierre un’ara alla Dea ragione, lo strazio, e i gemiti inenarrabili di milioni di vittime, lo spavento di tutti i popoli imploranti dal cielo il ritorno, e la difesa di quella religione, dal cui abbandono scaturivano tante sciagure. Quando per gli sforzi riuniti dei monarchi, e delle nazioni di Europa stramazzò a terra quel colosso, che, munito di tutte le forze rivoluzionarie, calcava con un piede l’Illiria, e coll’altro il Belgio, stendendo la destra all’Ebro e la sinistra alla Vistola, parea, che il genere umano, dopo averne spezzato il ferreo scettro, altro agognare non dovesse, che il soave giogo del Vangelo per riacquistare quella pace, quella libertà, quella grandezza vera, che per lui soltanto si trovano. Tutti i saggi speravano, che politica, letteratura, educazione in bello accordo a tal fine rivolte riformassero lo spirito pubblico colle massime del cristianesimo. Queste speranze dei saggi, che erano pur anco i voti dei popoli, sono state fin qui adempiute?
Uno degli obiettivi miratamente colpiti è il pensiero di Mirabeau, che aveva sostenuto doversi scattolicizzare la Francia, e che è indicato come un parto mostruoso della riflessione settecentesca. Le qualifiche elogiative di «Illuminati scrittori», di «providi VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
governi», di «zelanti filantropi» sono attribuite, con palese capovolgimento della tradizione culturale affermatasi dal Settecento, a tutte le personalità e a tutte le strutture antirivoluzionarie: si tratta d’un elogio della Restaurazione, in sé uno dei più dispiegati che si possano concepire. Quegli estratti, si è detto, vanno nel giornale «Der Katholik», nel numero di gennaio 1825, p. 114, e di aprile, p. 46; il giornale si stampa in Strasburgo per le cure di G. Scheiblein. Nella traduzione di Antici, dal punto in cui inizia il vero testo, Pflister risponde alla polemica contro il preteso dispendio della ritualità cattolica, di quella religiosità, insomma, che è avvertita come animata da spirito meno fedele alla semplicità ed alla purezza evangelica rispetto a quella protestante: la ritualità cattolica, secondo tale visione, dovrebbe realmente essere più semplice nel suo assetto di esteriore fruizione pubblica e nelle sue articolazioni infrastrutturali; e invece, per concorde giudizio, essa risulta essere più fastosa e più dispendiosa di quanto avvenga in altre sétte del cristianesimo; e lo Pflister tradotto da Antici difende la ritualità e le spese, e l’apparato romano-liturgico70. Pompa e fasto, secondo un concetto che sarà ancor meglio precisato alla p. 10, sono propri anche di tante cerimonie e di tante tradizioni laiche, ed è inutile rivolgerne il rimprovero soltanto alla Chiesa; e tale risposta polemica è rafforzata da un’ulteriore considerazione: spesso il fasto nasce da carità elemosiniera dei fedeli, e la pompa ha sugli stessi fedeli un effetto coreografico che non è in realtà concepibile, a dire di Pflister e di Antici, in base a categorie separate da quella rappresentata dalla fede interiormente vissuta. Alla p. 8 la polemica di Pflister si rivolge contro i mercimoni, contro i venditori di Bibbie anche agli artigiani, agli umili, a tutto il popolo, ai pellegrini: si tratta d’operazioni di “diffusione” non destinate a rivestire una reale utilità, perché esse non sono valide alla loro base; la lettura di tale testo dovrebbe infatti essere “assistita” da maestri e da rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, intermediaria, sacerdotale, mentre neppure i nuovi “savi” sono in realtà in grado di effettuarne una corretta decodifica scritturale e semantica. L’empio, da parte sua (p. 10), non limita certo la propria azione sovvertitrice all’abbattimento dei capisaldi della fede cattolica ed all’attacco ideologico alle strutture ecclesiastiche, ma, anzi, egli estende i propri preparativi di distruzione all’àmbito politico, alla sfera delle strutture istituzionali del potere concretamente terreno delle corone, delle monarchie, del legittimismo dinastico: l’empio, appunto, definibile come tale sotto il profilo della fede religiosa e del modo di viverla, addirittura «fabbrica costituzioni per rovesciare i troni, ed introdurre la sovranità del popolo, cioè l’anarchia». Si tratta della replica critica in chiave di pensiero cattolico alla corrosione perpetrata da quello «spirito del tempo» che, in un’operazione densa di significati rivelatori dell’ideologia del traduttore Antici non meno che di quella dell’autore tradotto, sembra propagginarsi ben oltre la cronologia storica della Rivoluzione francese, e, sotto altri aspetti, dello stesso ventennio napoleonico; uno «spirito del tempo» che nella concezione di don Johann Georg Pflister e del suo sunteggiatore-ermeneuta Carlo Antici abbraccia quasi per intero l’ultimo quarantennio (a voler fare data “soltanto” dalla materiale deflagrazione storica della Rivoluzione), senza che tale arco storico e culturale ammetta al proprio interno altra scansione che quella costituita dalle temporanee sconfitte del pensiero avversario: la fine della Rivolu
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zione, la fine del dominio napoleonico, la sanzione restaurativa dell’ancien régime operata, su nuove basi, dal Congresso di Vienna. Tale scansione di concettualità storiografica denegante, anche sul piano dell’individuazione teorica dei fenomeni, riguardo agli sviluppi romantico-progressisti, e nella fattispecie italiana protorisorgimentali, che pur si vengono affermando, può, sul fondamento dei dati a disposizione, giustificatamente porsi quale chiave di volta per intendere il pensiero di Antici e di altri intellettuali d’orbita papalina dell’epoca; dagli albori dell’illuminismo (ma in costante riferimento all’origine luterana – più che genericamente “protestante” – del libero esame e della valorizzazione dell’ “individualismo” razionalista, con tutte le conseguenze, i postulati ed i corollari di corruzione filosofica e di distruttività che essi comportano per il cattolico “romano” della Restaurazione) fino alle manifestazioni del pensiero successivo al Congresso di Vienna, da Voltaire fino alle sue nuove edizioni nei primi anni post-napoleonici, non vi è, secondo l’intellettuale Antici, una vera soluzione di continuità. Lo «spirito del tempo» è sempre rappresentato dal pensiero illuministico, sia nella sua versione propriamente razionalistica, sia nella versione materialistica, d’holbachiana, lamettriana, o alla Helvétius; è sempre in vigore, perciò, presso il marchese che lavora nello Stato pontificio, la polemica antiLumi, la critica nei confronti del XVIII secolo scristianizzatore, laicizzatore e miscredente. Si tratta d’una linea di continuità nell’opposizione conservatrice al pensiero delle Lumières, i cui frutti s’identificano ormai, in realtà, nelle prime autentiche manifestazioni del processo politico ottocentesco. Lo «spirito del tempo», dal quale certo non è alieno, in quegli anni, l’empito di libertà politico-sociale ed etico-estetica del romanticismo progressista, è ancora percepito come filiazione diretta della deflagrazione rivoluzionaria del Settecento e delle sue matrici filosofiche laicizzanti. Autore tradotto e suo traduttore sembrano proseguire una battaglia antiilluministica di consolidate radici filoecclesiastiche, ma aggiornata agli strumenti di scienza e di propaganda ottocenteschi; non è pertanto fonte di meraviglia se una guerra di scritti mossa alla «libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di stampa», e condotta in nome della reazione cattolico-clericale ai moti libertari che vanno non solo in Italia diffondendosi, sia attraversata e culturalmente vissuta come una lotta mirata al quasi immutato bersaglio del pensiero settecentesco, e condotta, anche sul piano etico-antropologico, nei modi risoluti e dichiarati d’una spiccata connotazione antilibertina; tale nucleo di vis polemica s’indirizza contro manifestazioni libertarie ormai sostenute (e spesso anche originate) dal clima storico romantico, nel momento stesso nel quale il calibro soggettivo della matrice critica rimane immerso in una perdurante coscienza antiilluministica, fortemente antisettecentesca ed antimaterialistica. Il movimento polemico che si afferma nello Stato pontificio, e del quale Carlo Antici è esponente spiccato e punta di diamante grazie alle sue non scontate competenze nelle lingue straniere moderne, trova nella peculiare declinazione rappresentata dallo stesso marchese zio di Leopardi un’applicazione ideologica di singolare perspicuità nell’identificazione d’una polemica rivolta contro le tendenze del romanticismo progressista con una polemica, giunta, questa, alla piena soglia dell’autocoscienza, contro il libertinismo ateo ed irriverente del Settecento (e, non a caso, contro il solito, immutato fronte di VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
autori illuministi). La polemica è insomma rivolta contro la lunga scia progressista che, in questo caso soprattutto in Italia, riesce in definitiva a saldare, pur con le loro differenze, determinate costanti ideologiche settecentesche con le affermazioni romantiche di libertà; e tale polemica è realmente rivolta contro il Settecento, non meno che contro il riemergere di quelle che erano le correnti innovative contemporanee. Si tratta, la definizione ci appare corretta, del romanticismo conservatore e filolegittimistico, del romanticismo contrario sia alla propria versione progressista, sia agli approdi filosofici e civili della tradizione illuministica antitrono ed antialtare: una tradizione, quest’ultima, della quale, più ancora che avvertire la persistente e pericolosa vivezza, il romantico della Restaurazione percepisce con antennato allarme l’essenziale, ininterrotta continuità nelle strutture di pensiero della cultura europea post-napoleonica. Carlo Antici, a suo modo, e nella sua appartenenza ufficiale allo schieramento legittimista ed antisovversione, coglie nel giusto nel censurare le varie declinazioni, razionaliste o patriottico-idealiste, della gamma semantica di «libertà». L’attacco alle posizioni laiche può così estendersi sotto vari “commi” concettuali; il celibato, ad esempio, non è proprio solo dei sacerdoti, ma anche dei laici immorali e libertini, celibi appunto per questa ragione; il laico, in tal senso, vanta la moderazione, ma è, in realtà, furioso, sfrenatamente incline alle passioni. La stessa libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di stampa (prima citata), issata sulla bandiera della propaganda del pensiero laico, si risolve, nella prassi politica, in una concessione della stessa, articolata libertà solo agli «affigliati» della stessa parte di chi ha conquistato il potere. Non mancano la ripresa della polemica con i liberi muratori, la critica (p. 11) all’uso di un discutibile lessico “innovatore”, che consiste, ad esempio, nei verbi «fraternizzare», «temporizzare», «modernizzare», individuati come termini della pubblicistica del tempo; al di là di categorie storiografico-culturali e di denominazioni intervenute in epoca assai più tarda, non appare illecito inferire che Antici (ma in ancor maggiore misura ciò vale per Pflister) non dà reale segno di ricezione della sopravvenuta cultura della Restaurazione; sembra effettivamente che la ventata rivoluzionaria francese sia tutt’altro che finita, e che l’intellettuale che pure della Restaurazione è uno dei più persuasi esponenti ne esacerbi l’importanza a scopo legittimante della propria intensa reazione contrappositiva sul piano polemico. Kant, da parte sua, è il «sofista di Koenigsberga» (p. 11); e la contrapposizione allo «spirito del tempo» continua: se vi è l’insorgere d’una tendenza «liberale», questo liberalismo è incredulità; conviene, piuttosto, difendere la Compagnia per antonomasia, i gesuiti, dato che lo spirito del tempo li odia a morte e li incolpa di tutto71. Pflister critica, altresì (p. 12), chi fa derivare ogni fenomeno dalla natura, insomma la tradizione del materialismo: egli, così facendo, critica, se si vuole, il “canone” di quella che sarà la storia religiosa, filosofica, letteraria, artistica e scientifica della cultura moderna. «Cotal furioso fantastico» (secondo un termine caro al côté polemico di Antici), ovvero il materialista, non vedrà nulla al di là della propria ragione, e si troverà anzi indotto ad ipostatizzarla come il massimo valore di riferimento, e di discernimento riguardo alla realtà del mondo e delle cose; è questo, lo spirito del tempo; a p. 13, autore e traduttore ricordano che il laico «non crede in una ragione superiore alla propria» (in questo
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senso, emerge l’utilità e soprattutto la validità del catechismo rohrbacheriano)72. Chi non sa o non vuole sintonizzarsi con lo spirito del tempo (p. 14) è un oscurantista, è nemico dei lumi, è un rugginoso pedante. L’autore, Pflister, e così Antici, dichiarano che, pur non sentendosi oscurantisti, non fraternizzeranno mai con lo spirito del tempo. Un commento finale di Antici rivela la non completa adesione del traduttore all’autore tradotto: il marchese deve constatare infatti il carattere estremistico, fanatico di queste pagine, concedendo loro verità d’asserto, ma lasciando nel contempo intendere il dissenso, quanto meno “politico”, dai toni, destinati ad andare incontro ad acerbe reprimende “modernistiche”, proprio nell’ottica dello spirito del tempo73. 5. Un ulteriore contributo di Antici, in quegli anni, «Don Giuseppe Sambuga e un suo discorso. Articolo scritto dal marchese Carlo Antici», esce a distanza d’un anno in tre diverse edizioni e in due redazioni (1826 – nel «Giornale Ecclesiastico di Roma» – e 1827, presso la Società de’ Calobibliofili di Imola; riprodotto in «La Voce della Ragione», I, 6, 15 agosto 1832, pp. 414-432, con il titolo: Discorso proferito sul declinare del secolo passato, e da meditarsi nell’epoca presente-), e, nella seconda redazione, esso è presente in due miscellanee, nella Vaticana FERRAIOLI V. 7152. 4, e nella Vallicelliana, tom. LIX 1824-1827, VI. 1. H. 20 (3). Nella prima, a p. 2, si precisa: «Il presente Articolo, sino alla Iscrizione sepolcrale, venne inserito nel giornale Ecclesiastico di Roma nel fascicolo di Gennaro 1826». Nell’edizione dello stesso testo, nella miscellanea della Vallicelliana, si trova scritto sul controfrontespizio: «Parte di questo articolo fu già inserito nel Giornale ecclesiastico di Roma» (lo scritto occupa le pp. 134); la numerazione è diversa, ma il testo è uguale, nel riprodurre la seconda edizione: esso coincide con quello della miscellanea vaticana. Anche questa miscellanea della Vallicelliana deriva dal fondo Falzacappa. La redazione del 1827 viene a porsi come accrescimento non soltanto quantitativo, bensì, e ben di più, qualitativo: vi è, infatti, la riproduzione testuale del Discorso di don Giuseppe Sambuga. Il Discorso è di trentacinque anni prima (1791), ed è tradotto dal tedesco; nel 1816, Monsignor Sailer pubblica una biografia di Sambuga, sulla quale si fonda, in gran parte, la trattazione di Antici, che quindi si trova, ancora, a tradurre ed a sunteggiare un’opera del vescovo di Ratisbona; Antici si presenta, qui, come studioso di Sambuga in quanto fruitore della prosa tedesca di Sailer. Don Giuseppe Sambuga ha come primo «Augusto Allievo» Lodovico di Baviera, figlio di Massimiliano Giuseppe; egli gode dell’accesso, come, in séguito, avverrà per Sailer (il suo biografo), ad alcune delle corrispondenze private che rivelano le disposizioni felici del grande Monarca, tanto da autorizzare l’affermazione secondo la quale, al contrario di Bossuet e di Fénelon, che sudarono molto per educare al bene della Francia due monarchi e che, se la storia avesse preso un altro corso, avrebbero evitato ad essa e all’Europa la rivoluzione, ma che non ebbero in sorte di riuscire nel loro intento, Sambuga, invece (p. 5), fu fortunato: ha visto la principessa Augusta Amalia74 in Italia, e ora, dopo morto, “vede” tre principesse che costituiscono la gloria della reggia austriaca e di quella prussiana. Sailer dice di Sambuga che è valido come Senofonte e come Plutarco: l’università di Heidelberg, maestri quali Agricola, Schwab, Mayer, Schmitt, gesuiti illustri, disegnano una costelVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
lazione formativa che rende Sambuga un ecclesiastico promettente. Nato nel Palatinato Renano, è figlio di mercanti comaschi; viene a Roma, diviene sacerdote nel 1774 a Como, e, tornato in Germania, mostra tanto zelo applicativo che lo zio materno, parroco in Helmsheim, lo distoglie dall’eccessivo sacrificio fisico; nel 1775-1778 è aggiunto dello zio, poi è suo parigrado gerarchico a Mannheim, capitale del Palatinato; quindi vi sarà nominato predicatore della corte. Nel 1785 il barone Dahlberg lo convince ad accettare la vasta parrocchia di Herrensheim, dove rimane per dodici anni, fino al 1797. Alle pp. 7-8 è spiegato il suo apostolato contro la Rivoluzione, fondato soprattutto, pastoralmente, sulla necessità di persuadere che popoli e stati non ne saranno migliorati, ma, anzi, rovinati. I fautori della Rivoluzione sono pervertitori e non amici dei popoli; si vedano le parole pronunciate a p. 8: «I popoli riguardino i loro legittimi governanti come una beneficenza del Cielo. I governanti si riguardino come padri dei popoli, e non offrano mai alcun giusto motivo di doglianze sulla loro amministrazione». Dalla parrocchia alla corte: Sambuga diviene precettore di religione presso i reali principi di Baviera. Dal 1797 esercita la propria attività nella corte e, contemporaneamente, nella parrocchia; poi, con il trasferimento della corte a Monaco, deve abbandonare con sofferenza il suo amato gregge (pp. 8-9). L’introduzione biografica dà conto della lettera di addio e di risposta al commosso gregge di Herrensheim (p. 10): l’ecclesiastico tedesco d’origine italiana protesta, ringraziando i suoi parrocchiani, la propria inferiorità al compito di creare un nucleo evangelicocristiano contro le passioni e le seduzioni della mondanità, ma afferma che li ricorderà sempre, anche nel lusso e nei dati negativi della vita di corte, che ha già sperimentato (1797-1799); alle pp. 12-13 i suoi biografi riportano il monito ad appellarsi, ispirandosi nell’azione, al tribunale della coscienza, e non alle terrene potestà. Quasi un appello alla disobbedienza, perché gli ordini civili e politici mutano, ma Dio e la coscienza non mutano mai. Non bisogna, dunque, in tempi calamitosi, dare falso significato alla parola «libertà». La firma è ovviamente quella dello stesso «Sambuga, 3 aprile 1799». Alle pp. 14-15 Antici prosegue con continue citazioni di Sailer, principalmente in vista dell’istruzione della regia prole. Sailer, appunto (e prima di lui Sambuga), cerca di inculcare nei cittadini l’amore per la religione e per la patria, e, nei monarchi, l’amore per i sudditi; si leggano le parole di Sailer riportate da Antici: «A dir poi tutto senza alcun ritegno, Sambuga cominciò l’insinuazione, e il perfezionamento di quelle due massime fondamentali, non solo destando, e rafforzando l’affetto per la religione, e per la patria, ma in pari tempo eccitando, e sviluppando a tutta possa nel suo Allievo l’abitudine di PENSARE, E RIFLETTERE DA SE STESSO, volgendola ed applicandola al più prezioso interesse della temporanea, ed eterna esistenza» (p. 16). Ecco alcune indicazioni sui punti di programma di Sambuga (p. 17), tutte basate sul Sailer: Sul criterio delle sane dottrine, e dei veri Amici – Cosa significhi esser Principe – Avvertimenti sul linguaggio della Corte – Sulle nomine agli impieghi di probi, ed istruiti soggetti – Della punizione dei vizj – Sul modo di regolare i teatri – Del non permettere alle belle arti di contaminare i costumi – Del dominio sopra se stesso – Sulla fermezza del carattere, e sulla vera indipendenza dell’uomo – Sul valore del tempo – Di ciò, che si chiama coltura, o progresso dei lumi – Il regnante considerato nell’aspetto
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filosofico, e cristiano – Del deciso amore alla Religione, e alla virtù, che debbono i Principi dimostrare…». Il sacerdote continua, pur trovandosi a corte, a fare apostolato per lettera e a voce, e a richiesta (talvolta sono ex parrocchiani). Alla principessa Augusta, allora viceregina d’Italia, dedica un’opera nel 1807 (Sulla necessità dell’emenda, in 2 voll.), intessuta di rampogna morale sulle conseguenze negative dell’abbandono della religione; si veda una citazione dalle pp. 18-19: Per renderne ancor più palese l’oggetto stimò Egli bene di premettere al primo volume un rame allusivo – Vi si scorge smarrita sul sentiero della frivolezza una donna (l’umanità) vestita in foggia bizzarra, che fra orride boscaglie della corruttela, ove l’aveano condotta stoltezza, e seduzione, crede ancora di carolare tra gigli, e rose. Bendati i suoi occhi dallo spirito del secolo, ella s’immagina di essere illuminata, e di camminar nella luce. Con la verga della stoltezza in mano progredisce vacillante nel suo viaggio, sinché al ciglio giunge di una voragine entro di cui il turbine aveva già rovesciate quercie annose. In quell’istante slanciasi verso di lei dal profondo con spalancate fauci un orribile drago, che sbrama la sua ingordigia con le vittime dell’errore. Essa ne sente il velenoso sibilo, che il sussurro del mondano senno sospende – Strappa allora dagli occhi la benda; mira il mostro verso lei rivolto; scorge lo spaventoso abisso, in cui stava per gettarla la seduzione. Tremante ne ritira il piede già sollevato per la precipitosa caduta, e la verga della stoltezza le sfugge di mano. In quel momento il Genio della Religione la scuote, e quale suo proprio simbolo le addita il Tempio di Dio, ove spira l’aura di vita, ed ove l’uomo, che a Dio appartiene, Dio trova, e se stesso. Quel Genio sembra indirizzarle queste parole: Conosci il tuo terribile inganno! – Colà soltanto trovi Iddio, e in Lui la verità. Colà trovi con Loro quella vita beata, che tu male accorta altrove cercavi.
Trovò molti «leggitori» nonostante si opponesse, come ricorda Antici, allo spirito dei tempi. Sailer s’era basato su manoscritti e lettere, e quindi su fonti di prima mano; Antici scorcia e sintetizza, riuscendo, in fondo, entro certi limiti e come in buona parte era avvenuto riguardo alle opere di Bonnet, di Stolberg, dello stesso Sailer, di Pflister, ad affabulare un’opera originale; si veda la tipica modalità operativa di Antici traduttore-sunteggiatore (pp. 19-20): «Cospicua parte della biografia di Sambuga racchiude un tesoro di varj pensieri che il sagace Biografo [Sailer, appunto] trascelse dai manoscritti, e principalmente da alcune sue lettere, distribuendoli in diversi capitoli. Ho creduto, che sarebbe pregio di questo tenue lavoro estrarne, e collegarne taluni di più importante, e vasto argomento». Il primo elemento da sottolineare da parte dell’intellettuale cristiano (e qui Sambuga, Sailer e Antici ragionano più che mai all’unisono, a differenza di quanto invece avviene quando si tratta di Pflister) è certamente costituito dalla necessità della rivelazione, riferendosi alla quale, ed in eventuale attesa di essa, il dubbio metodologico, per definirlo così, è rivolto non già al dogma o all’affermazione indimostrata e non scientificamente argomentabile, bensì, con speculare inversione, esso è rivolto alla stessa scienza umana, ove la si concepisca deprivata di quella rivelazione divina che viene addirittura recuperata a base ineliminabile della scienza e della conoscenza VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
umane, e per di più una base di carattere donativo, elargitorio da parte dell’Entità superiore nei riguardi dell’uomo (p. 20): Nissuno s’illuda nel credere, che l’uomo perché dotato di ragione possegga intendimento bastante per conoscere positivamente, senza le manifestazioni Divine, quanto concerne i suoi doveri verso Dio, verso il prossimo, verso se stesso, quale è il suo ultimo fine, quali i mezzi per conseguirlo. Volgiamo lo sguardo ai filosofi dell’antichità, molti dei quali incanutirono nella ricerca del vero. Poterono essi trovar mai soddisfacenti spiegazioni su quello, che unicamente interessa lo spirito umano? – Il dubbio formò la miglior sapienza del maggior numero; e quei pochi, che con Pitagora Socrate Platone qualche cosa ne presentirono, furono sufficientemente sinceri e modesti per dichiarare DONI DI DIO le loro nozioni, e per porre tra i fonti più limpidi delle loro scoperte le sacre primitive tradizioni75.
Pitagora, Socrate, Platone furono sufficientemente onesti e sinceri da ammettere che quanto di buono veniva alla loro conoscenza proveniva da Dio, comunque da loro chiamato (i «DONI DI DIO»). Si sottolineano, poi, gli «ECCELSI DOVERI DEL CETO ECCLESIASTICO» (p. 21), consistenti innanzi tutto in un’irresistibile tendenza al bene; ogni atto deve mirare a Dio, cui si deve sempre pensare. Occorre procedere più spediti nella cura spirituale; e in tal senso si difende il celibato dell’ecclesiastico cattolico, del sacerdote che per questo alto fine ha rinunciato alle dolcezze della famiglia; ma a p. 22 Sambuga (è di nuovo lui a parlare, tramite Sailer) ricorda che tanti lo chiamano padre, nel gregge, anche se manca la consolazione di sentirsi così chiamato sul piano domestico e, appunto, familiare. Non manca l’appello al senso di responsabilità, l’incitamento all’operare, la rampogna al quietismo e alla staticità: vi si sente il tedesco nato e vissuto nel Palatinato, si sente il rigorismo antropologico di Sambuga (e di Sailer). E vi è il dovere, aggiunge Sambuga, di lavorare a preparare i sacerdoti, instillando loro un alto senso del dovere e della bontà. Voi siete il sale della terra, voi siete le lucerne del mondo: queste sono le massime. Antici, come il biografo Johann Michael Sailer e il biografato Giuseppe Sambuga, mira, con la citazione di queste massime, ad una finalità terrena, concreta, accertabile, molto più di quanto non appaia; infatti, a p. 23, i tre protagonisti di questa operazione editoriale concordano, sia pure fra loro separati da distanza cronologica, sull’esigenza di valorizzare al massimo la vocazione e la funzione dei sacerdoti: «avrete fatto almeno quanto voi potevate, sinché piacerà a Dio di prestare alla travagliata sua Chiesa più potente soccorso. Ma intanto tutto questo deve per ora eseguirsi DA NOI SACERDOTI, qualunque sia il nostro grado. La causa di Dio, e dell’umanità stà tutta nelle nostre mani, e ne siamo responsabili noi»; Sailer risentirà molto di questi concetti, nell’impostazione d’una severa e rigorosa etica dei sacerdoti. È un’esaltazione del sacerdozio, una sottolineatura del carattere decisivo dell’intervento intermediario: una riaffermazione di cattolicità, d’antiprotestantesimo nell’avamposto in terra tedesca e di contiguità con il protestantesimo stesso, una riaffermazione prontamente ripresa da Antici che può così recuperare e veicolare nel pensiero la sua patria intellettuale, la sua area geolinguistico-culturale formativa in anni decisivi; sono quei «RICORDI DI GIOVENTÙ» a riaffiorare in tal
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senso (p. 24). Ma su ogni tentazione elegiaco-celebrativa, su ogni potenziale sollecitazione personale, prevale l’urgenza della battaglia da condurre, prevale la considerazione del problema generale che assilla i cattolici conservatori della Restaurazione, e in particolare il personale ecclesiastico: «E come sarebbe a noi permesso di sonnacchiare, mentre veglia, ed infuria lo spirito dell’errore?… Esso è molto più intraprendente di noi. Esso opera per le massime, per le associazioni, per le stampe, per ogni genere d’astuzia, e di violenza, e per le insidie di tutte le passioni. Avremmo noi animo di mirare con indifferenza che l’impostura, e l’inganno inspirino maggior energìa della verità?…». «A noi si appartiene di operare in modo eroico, e decisivo. Il mondo ci trovi come muraglia di bronzo, e come colonne di metallo, ove l’audace empietà del nostro tempo vada a spezzarsi la fronte. Io SON CONVINTO, CHE IL MONDO VILE DEVE CEDERE A NOI IL CAMPO DI BATTAGLIA, SE ARMATI DI SPIRITO DIVINO, CONTRO DI LUI CI SCHIERIAMO. Nulla può resistere al potere della verità, purché questa trovi il campione, che sappia per suo scudo imbrandirla… ». Come la «battesimale rigenerazione», la “Riforma”, enunciata in maiuscolo dalla testualità d’Antici, è quella cattolica, è la controriforma rispetto allo spirito illuministico. Così, alle pp. 25-26, si riafferma il «non plus sapere, quam oportet!»; e Antici stesso dichiara: «Lungi da me il biasimare lo spirito di ricerca. Si cerchi, si esamini, si progredisca, si rischiari – MA TUTTO SI FACCIA COLLA GUIDA DI UNA SODA PIETÀ –»; poi, sempre a p. 26, si parla di «PROGRESSO DEI LUMI», significativamente. La sua infatti è una pubblicistica che nel suo criterio ispiratore può richiamarsi a quella dell’illuminismo, al suo Settecento mai dimenticato, o mai “tecnicamente” dimenticato nelle sue basi formative; si tratta, certo, anche nel caso di molti intellettuali cattolici, di promuovere una pubblicistica per “far conoscere” i frutti d’una tendenza di pensiero e le relative tematiche, per mettere in atto una divulgatività ispirata a un programma consapevole e mirato, se non sempre del tutto preciso, dato il ritmo necessariamente sussultorio rivestito da un’opera, qual è appunto quella del marchese, che volta per volta coglie o decide sul fatto cosa divulgare, a seconda delle occorrenze e delle uscite editoriali (negli «Annali delle scienze religiose» egli svolgerà un’opera aggiornata, in contemporanea, di recensore attivo). Ma, se è possibile il richiamo a un criterio illuministico, si deve pur ricordare che si tratta d’una pubblicistica concepita esattamente in concorrenza con quella illuministica; ed è una concorrenza-lotta, una concorrenza che combatte, che osteggia, anziché potenzialmente integrarvisi, la linea del pensiero settecentesco. A tal proposito, il «PROGRESSO DEI LUMI» nominato da Antici appare espressione astuta, adoperata per sedurre il lettore sensibile al problema dell’ampliamento delle conoscenze: viene in mente, in tal senso, ovvero in chiave di riflessione sul valore da attribuirsi al termine che richiama la “luce” dell’intelletto, una distinzione di Piero Treves tra natura che viene “rischiarata” dalla ragione, e natura che ne viene, invece, “incendiata”: è evidente che è contro quest’ultimo pericolo che si attiva l’attenzione allertata del cattolico conservatore. Di quale “illuminismo” può infatti trattarsi, nel caso dell’espressione richiamata da Carlo Antici? L’autore sembra davvero alludere ad un illuminismo rovesciato, non soltanto nei propri contenuti ideologici (qui il dato è di sesquipedale ostensione), ma anche nella sua VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
profonda ratio interna, nello spirito che presiede a questa divulgazione; si tratta, nell’opera di acculturazione tramite periodico, nell’impegno di diffusione pubblicisticosaggistica dell’intellettuale e del traduttore-ermeneuta, non già di promuovere un’apertura, un’espansione di conoscenza, di visione del mondo e di libertà di visione del mondo, insomma di creare e d’accrescere qualitativamente una novità di concezione e di pensiero civile e politico, bensì, e al contrario, di veicolare, se non proprio una chiusura, un’indicazione di preciso indirizzo ideologico e religioso-confessionale, una contrazione angolare delle vedute, cifrata sulla restaurazione d’un pensiero già vigente, sempre avvertito come tale, e, nei pieni anni Venti dell’Ottocento, oggetto d’un’ormai decisa e dispiegata ripresa e riaffermazione in grande stile, e non certo nel solo Stato pontificio, ma anzi, se si considerano le aree di confessione protestante (e in un’ottica di più generale “cristianesimo” la considerazione si può a nostro avviso realmente dilatare), di una ripresa che è capace di coinvolgere buona parte del continente europeo, nelle vaste zone di popolazione, di demografia culturale che si trovi ad essere indifferente o comunque disimpegnata dalle contemporanee rivendicazioni risorgimentali, siano queste di marca indipendentistico-nazionale, libertaria, di affrancamento da un giogo politico direttamente esercitato, o lo siano, invece, sul piano economicosociale, in un’ottica interna ai singoli stati. Ma anche qui Antici rivela, dalla propria specola operativa, un notevole buon senso, o almeno un buon senso ch’è frutto d’una riflessione non disancorata dalla realtà, dalla fenomenologia testuale dell’oggetto di traduzione e d’ermeneutica concettuale; l’operatore culturale che agisce in nome della religione e della religiosità di Roma riafferma infatti che non si tratta di «condurre fra noi gli Anacoreti, o i solitarj della Tebaide» (p. 27); vi è perciò un preciso e consapevole rifiuto delle forme estremistiche e controproducenti d’una religiosità intemperante, o incondita nelle sue concezioni e nelle sue manifestazioni, o misticamente smodata e assetata di dantesco, od ugo o riccardovittorino «trasumanar»; nel caso di Antici, lo si può ben dire, prevale l’«organizzare», prevale l’impegno concreto, assiduo, da parte sua privo di vere venature di dubbio o di perplessità sul piano dei fondamenti teorico-fideistici o confessionali, dogmatici o teologici; la sua è una religiosità dell’azione operante, dell’applicazione politico-culturale tenace e intelligente, e soprattutto fattiva; è una religiosità dell’ascesi, di quell’autentico fervore ascetico che rinvia alla concentrazione su una determinata attività, e che non va assolutamente confuso con il concetto di «mistica» o di “fervore mistico”. Ci si può, in effetti, riferire a due termini chiave a sostegno d’un pensiero che il collaboratore di rivista intende e programma di diffondere, o, meglio, d’un pensiero che egli intende reintegrare nell’orbe cattolico ma senza limiti di estensione e di latitudine, di conquiste d’apostolato e di provvidenza missionaria, come mostrano le convivenze collaborative, i raccordi di competenze mostrati dai periodici e dalle miscellanee nelle quali i suoi scritti figurano; tali termini, si diceva, sono costituiti da Dio e dall’«umana felicità» (p. 28); essi incarnano sotto il profilo etico e confessionale questa indicazione di mete “filosofiche” (mete che sarà possibile concepire anche quali intermedi traguardi, quali provvisorie tappe raggiungibili durante la propria vita storicoterrena) agli uomini che «in questa umana dimora tendano alla celeste con ferma
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determinazione»; è un equilibrio cristiano, declinato nella sua accezione religiosamente cattolica: e a questo punto la constatazione non può più stupire. «La generazione attuale è in gran parte dalla sventure UMILIATA, ma non corretta. Essa morde come il serpe irritato la verga, che la percosse; non vede però la mano del Celeste Padre, che per mezzo dei castighi, ha voluto richiamarla a quella virtù, alla quale la spregiata di Lui Bontà non poté ricondurla… ». Si raccomanda, individuandola come unica soluzione storica, «una abitudine (immedesimata colla vita) di tutto congiungere a Dio, di tutto vedere in Dio, di tutto volere in Dio, di tutto a Dio ricondurre. Se ha da rimpastarsi il mondo colla pietà, deve esso assuefarsi a scorger Dio dietro il sipario della natura». Subito dopo, pp. 28-29, vi è questa affermazione sul concetto di natura: «chiunque nella natura null’altro vede che la natura, è incapace di qualunque nobile sentimento»: se si pensa agli anni 1826-1827, ed alla coevità di queste parole con le Operette morali del nipote di Antici, Giacomo Leopardi, non si potrà non constatare l’opposizione delle due visioni del mondo, proprio riguardo alla natura, un’opposizione resasi in questo periodo ancor più radicale; se il contrasto ideologico-filosofico con il nipote non assumerà neanche a livello epistolare tonalità esplicite e programmaticamente giustappositive, ciò sarà dovuto anche all’incompleta comprensione delle stesse Operette da parte dei contemporanei, ivi compreso uno zio che nelle sue rielaborate traduzioni inneggia alla totale risoluzione della natura in Dio e alla riconduzione di tutto a Dio: questa, ad esempio, è la caratteristica di Sambuga (p. 29), l’«incomparabile Sambuga»; e se la «RELIGIOSITÀ» di Sambuga è per parte sua oggetto di trentadue pagine d’apposito capitolo di Johann Michael Sailer, e se, quindi, biografo e biografato s’accampano come protagonisti, Antici, cultore, studioso e traduttore di entrambi, sa farli emergere, e, insieme, sa convivere nella pagina con loro, ne accetta la presenza con onestà, e anche con umiltà: in fondo, certe enfatizzazioni retoriche, certe increspature eloquenti già notate dai biografi di Antici, Angelini e Prinzivalli, servono sempre ad esaltare altri, l’opera del tradotto, del vulgato, l’opera di colui che si porta a livello di conoscenza dei dotti italiani interessati e del pubblico in genere. Alle pp. 30-31 è riportato il ritratto di un «UOMO VIRTUOSO NELLA SUA RELIGIOSITÀ», che Sambuga utilizza nell’opera Sulla falsa filosofia, e che Sailer riprende rinforzandone le tinte; così fa Antici, a sua volta effettuandone la traduzione (pp. 30-32): Dio gli è tutto; consiglio, sapienza e luce – misura, ordine, e meta – ricchezza, onore, e fortuna – gioja, conforto, premio, ed ultimo fine. Il suo cuore è sempre con Dio, poiché come potrebbe egli ad altro oggetto attaccarsi? Cosa mai sarebbe degno di Lui? Dio è il suo esemplare, e in chi potrebbe il figlio specchiarsi, se non nel padre? In chi saprebbe la mente umana trovare il suo modello che nella MENTE SUPREMA? Ad una sola meta tende il suo spirito; AL VOLERE DI DIO, ALLA LEGGE DI DIO. La propria sua volontà è tutta trasfusa nell’amore di Dio. Ei non conosce che una verità Santa, che un fine interamente puro, e l’una, e l’altro gli è di Dio. Giacché Dio è il tutto per Lui, e tutto può in Lui, ha Egli, in confronto di altri, un pieno dominio sopra se stesso. Eppure non gli costano sforzi le abnegazioni, perché la sua vita è Dio e quanto Dio non è, mai eragli divenuto così proprio, che gli sia difficile di astenersene per amor di Dio – Maturo per la vita spirituale, abbandona ai fanciulli le fan-
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ciullaggini, e verso la meta cammina con virile fermezza. Ei serve a tutti; a se solo non serve – e quì [sic] unicamente spiega il suo orgoglio (che in tutto il resto rigetta) DI NON ESSERE DI SE STESSO LO SCHIAVO. L’amore di tutti infiamma il suo cuore. Nessuno soffre, col quale ei non soffra; nessuno resta offeso, senza ch’ei ne senta rammarico. Egli è l’occhio del cieco, il piede del zoppo, dei poveri il padre; e in tutto ciò, che da lui si opera, la carità sua non resta mai esaurita, stimando egli il suo debito con Dio – insolvibile. Potrà vedere taluno che immagina di darsi imponenza con rilucenti gemme, con oro, e con fastosi adobbi; ma ei non crede già ben coperto da tale ammanto un cuore, la di cui innocenza e probità ogni arte del giojelliere, e del ricamatore non sorpassano. Dall’amor di Dio, che può solo santificare, è cinto il suo petto come da impenetrabile guardia, ove accesso non trovano voglie colpevoli. Vive il suo animo in un asilo d’incorruttibilità, ove salir non può il contagio di vietati piaceri. Egli è nel Regno di Dio quello, che nel giardino è il giglio, conforto dell’occhio e gioja del cuore. Tutta la sua esistenza poggia sulla paterna cura di Dio; e in grembo alla Provvidenza Divina trova egli permanente riposo tra tutte le tempeste della vita.
La morte racchiude circolarmente il tragitto terreno di Sambuga: giugno 1752-giugno 1815; nessuno fu più addolorato del Principe Ereditario di Baviera, che come scrisse «il Biografo», «eresse in Monaco al suo maestro, ed amico un monumento, che onora il suo ingegno, e il suo cuore. Ma il di lui più bel monumento è il Prence stesso» (pp. 32-33), capolavoro pedagogico-religioso di Sambuga, applicazione e realizzazione massima, secondo Antici, dell’ideale d’istruzione del monarca, della carica massima che vi possa essere, insomma dell’uomo politico dinasticamente a capo del proprio stato. L’Iscrizione sepolcrale (che concludeva la redazione del saggio anticiano sulle pagine del «Giornale Ecclesiastico di Roma» nel gennaio 1826) è dettata dal «Commendatore De La Barth nativo di Roma; ma da quarant’anni stabilito in Monaco, intimo amico del defonto, e degno di esserlo». Josephus Sambuga, Sacerdos, Homo virtuti similimus, A Maximiliano Josepho Bavariae Rege Ad erudiendam spiritu veritatis ac pietatis Sobolem augustam electus, Tanto munere ad exemplum perfunctus, Ex optimis arvis uberrimos fructus percepit: Ceteras civium conditiones aetatesve Amantissime complectens, Omnibus omnia factus. Avitam fidem, sancta instituta, morum disciplinam Concionibus, scriptis, colluctione edocuit firmavitque Assidue solerter, feliciter. Domitor cupiditatum, altor egenorum, comis, carus omnibus, Vitam actuosissimam fine placidissimo conclusit Nonis Junii MDCCCXV magno bonorum maerore, Cum ageret aetatis annum sexagesimum tertium.
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Alla p. 33 Antici introduce il vero e proprio discorso dell’ecclesiastico italo-tedesco: «Allettato io dalla dovizia, e importanza delle materie, ho riferito di Sambuga più di quello, che mi era prefisso, allorché presi in mano la penna per compendiarne la vita» (ciò vale a conferma dell’importanza dell’edizione 1827 del Discorso). E ricorda, a questo proposito, la consulta riunita dal governo del Palatinato allo scoppio della Rivoluzione francese, una consulta alla quale partecipa anche don Sambuga, allora parroco di Herrensheim: quella è l’occasione nella quale il cólto sacerdote pronuncia il discorso che Antici riproduce. Importante, sempre a p. 34, il concetto di Antici sulle cause della Rivoluzione francese; si tratta del progetto, condiviso da gran parte del mondo cristiano, ma, è ovvio, soprattutto dal mondo cattolico, di ricostruzione storiografica del Settecento e di tutto ciò che quel secolo è stato, e, altresì, di ricostruzione storiografica dei primi decenni dell’Ottocento, della sua “empietà scristianizzata”, della sua “licenza” morale, della sua dilagante laicità di costumi e di visioni culturali. La tesi storiografica sostenuta e alimentata, oltre che intimamente condivisa da Antici, è quella del «libertinaggio», termine assunto in un’accezione semantica non molto diversa da quella che è la nostra, e quindi più che mai comprensivo del “libertinaggio culturale”, dell’apertura copernicana e spregiudicata del pensiero rispetto al dogma ed alla tradizione e ai suoi portati acriticamente recepiti, dell’adozione di risorse e di moduli argomentativo-intellettuali peculiari agli approdi filosofici illuministico-razionalistici, della messa in crisi, e spesso della convocazione a processo, delle strutture gerarchico-legali, politiche, ecclesiastiche, culturali, educative degli assetti dell’ancien régime, assetti a loro modo solidi e, insieme, immersi allora nella propria agonia storica. Il libertinaggio, la sostanziale corruzione di costumi, la degenerazione morale, la deprivazione del senso della religiosità, il desolante campo d’osservazione offerto dalla Terra stessa, non solo dall’Europa ma dal mondo intero, come angustioso teatro, come angustioso scenario, anche naturale, quasi scientificamente biologico, d’un’umanità di defedata caratura spirituale, sono indicati a causa, a fonte, a fomite del movimento rivoluzionario francese, della grande piovra negativa di quello scellerato razionalismo miscredente e suscitatore di dubbi costituito dal Settecento illuminista. La rilettura storica dell’ultimo secolo, se non anche dell’ultimo secolo e mezzo, è, insomma, fondata sulla considerazione morale del profilo dei costumi, della perdita di spessore delle coscienze traviate da un maligno pensiero sovvertitore, anziché essere fondata sui drammatici e rappresentativi problemi reali della situazione economica, e forse, e se possibile ancor più, sociale e gerarchico-legale della Francia e, con non trascurabili differenze, di gran parte dell’Europa e di quello che si poteva dire il mondo occidentale di allora. Si veda un brano a p. 34: «Allo scoppio della rivoluzione in Francia, la quale si volle e vuolsi tuttora attribuire da alcuni allo squilibrio delle pubbliche casse, quando che fu tutta opera dell’incredulità e del libertinaggio (1), il Governo del Palatinato risolse di chiamare a consulta i suoi sudditi più intelligenti, e più probi, per indagare i mezzi efficaci a porre un argine alla decadenza della Religione, e dei costumi». Nella nota (1) Antici scrive (riproduciamo la situazione accentuativa della stampa ottocentesca): «In appoggio della mia proposizione citerò soltanto l’opera di Barruel76 “Memoires pour servir à l’Histoire du VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Jacobinisme” e l’altra di Proyart “Louis XVI detroné avant d’etre [sic] Roi”. Chi per altro non volesse deferire alla autorità di questi due scrittori, perché troppo religiosi, legga l’opera tutta politica di Lacretelle “Histoire de France pendant le siecle XVIII». Alla p. 35, coerentemente con quanto dicevamo, è tracciato un quadro a suo modo dantesco di degenerazione morale, di deploratio, pur tonalmente pacata; alle pp. 36-37 si sciolgono in dizione chiara i vari punti in cui s’articola la deploratio di Sambuga: contro l’insinuarsi crescente del principio laico della differenziazione fra religione e Stato; contro l’edonismo, verificabile non sul solo piano etico-antropologico (pp. 3637: «Se vuolsi giustificare questo contegno col pretesto di dar sussistenza più abbondante alla gente, l’arte di cavare dall’altrui borsa il denaro diverrà presto pur troppo il primo ramo d’industria; e il privilegio di corrompere gli uomini farà parte della pubblica economia»); contro l’indifferenza, la noncuranza, l’agnosticismo, contro la mancata fede e la mancanza di valori in ossequio alla nuova filosofia, in una sorta di lapalissiano antimaterialismo del sacerdote Sambuga; contro le istituzioni educative (oggetto di specifica e mirata critica) per il lassismo che ha permesso l’insinuarsi dei germi della «tenebrosa scuola di cultura» (le tenebre, per Sambuga, identificano l’illuminismo, in una visione al negativo fotografico, in un ribaltamento chiaroscurale dell’ideario e del lessico illuministici). È l’anti-Voltaire, l’anti-Montesquieu, l’antiDiderot, l’anti-d’Holbach; è, sempre per confrontarsi con categorie culturali e artistiche d’origine settecentesca, l’antiZauberflöte, l’anti-Flautomagico. In tale senso, sorge l’idea che sarebbe piaciuto all’Antici traduttore, se lo avesse potuto, se storicamente gli fosse stato possibile, scrivere la biografia di Gustav Mahler; e in parte quella del non formalmente, non ritualmente convertito Henri Bergson. Nella Geenna sarebbero finiti Heinrich Heine e l’ironia tedesca in chiave ebraica, i suoi viaggi, i suoi Reisen esenti da una conversione e dal problema di una conversione. Alle pp. 39-41 trova voce esplicita l’enunciazione d’un rinnovato programma d’alleanza trono-altare; in questo senso Sambuga si pone come vero anticipatore, come vero profeta cronologico, un autore di profezie di qualità e di contenuto teocratico-politico, della Restaurazione. Lo Stato vigili sulla religione, e siano religiosi, a giustificare l’esempio, i dirigenti politici stessi, i governanti; per parte sua, l’uomo investito di potere politico non accrediti (a tentativo d’esonero della propria persona da obblighi morali e di condotta civile) l’idea della religione «come un freno ideato soltanto per contenere la moltitudine» (p. 41); giova a questa delineazione d’imperativi etici l’allusione alle soperchierie (come nelle opere di Antici dedicate ai protestanti convertiti) dei sindaci di villaggio (austriaco, svizzero, tedesco) contro il parroco. E si vedano in particolare le indicazioni fornite “in positivo”, ribaltamento in chiave assertiva dei moniti deneganti precedentemente formulati (p. 40): «a) […] nel destinare chiunque agli impieghi a ciò principalmente si guardi, che i candidati siano sinceri adoratori di Dio, e seguaci fedeli della santa sua legge; b) che i Magistrati [evidente il significato latino di «alte cariche politiche», ivi più che mai comprese quelle dell’esecutivo] concorrano efficacemente in nome del governo alla conservazione, ed ai progressi della religione; c) che i medesimi si sforzino col loro pubblico esempio di trasfondere in tutte le classi […] un adequato concetto della maestà e della santità
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della Religione»; poi, a p. 41, si raccomanda come assolutamente necessaria la vigilanza della Polizia su tutte le potenziali sorgenti, anche intellettuali, di disordine. Si auspica la censura di stampa (nota 1) plaudendo al Monarca per definizione (Lodovico di Baviera) che ha vietato con severissimo bando e messa all’indice il lavoro d’un traduttore che ha voluto “agire da illuminista” perché ha vòlto in volgare tedesco le opere dell’«empio Spinosa [sic]». Lodovico di Baviera ha vigilato e tassativamente impedito la pubblicazione. Occorre, poi, vigilanza sull’arte e sul teatro, su ogni aspetto della creatività, mentre vanno incrementati feste, ritrovi catechistici, pubblicazioni, poiché si tratta di far trangugiare fin da piccoli la verità, come fanno i corifei del nuovo pensiero. I predicatori devono essere coraggiosi, e in particolare i direttori di coscienza devono essere gesuiti, quasi in un’antistoria della vicenda degli stessi gesuiti, e, in rapporto a loro, di molti monarchi, soprattutto nel Settecento. Occorre inoltre severità nell’accertamento del curriculum degli ecclesiastici, e occorre altresì vigilanza sulle vocazioni, e fermezza nell’infliggere castighi per gli ecclesiastici, anche già in carriera, non disciplinati. La concezione di Sambuga si riafferma come teocratica: ne va della fede in Dio, ossia di un criterio di verità valido per il mondo intero. Si tratta d’un appello alla religione universale, a un cattolicesimo che realmente deve essere per tutti; e se tutto il mondo, a cominciare dai monarchi, deve essere cattolico, tutti devono cooperare a questo fine. Devono concorrere in quest’opera di comune edificazione politica e spirituale una passione ed uno zelo infiammati, un animo di carità, in nome del bene della patria, del bene di tutti, del bene della politica: sarà un concetto che Antici, ancora in veste di traduttore, incontrerà e a sua volta sosterrà fino all’opera su Hurter (si ricordi che l’antistite svizzero valorizzerà in notevolissima misura la portata politico-culturale della figura di Innocenzo III). Ancora, secondo Sambuga (ma anche secondo Sailer ed Antici), deve essere dato il bando al troppo raziocinio: un eccesso di credito tributato al raziocinio costituisce operazione assimilabile all’illusione di vedere meglio fissando gli occhi nel sole, mentre esso, anziché illuminarci come è solito fare se guardato moderatamente, finirà invece per accecarci (torna ad affacciarsi, pur se in tutt’altra chiave applicativa, l’efficace immagine critica di Treves). Nel finale (p. 47) la parola del traduttore Antici, sempre appropriatamente intercalata a quella del biografo “documentale” Sailer ed ai concetti, se non anche alle citazioni del “biografato” Sambuga, recupera la sua autonomia, la sua opportunità d’accamparsi a voce libera di saggista, o di traduttore-saggista, che grazie alla piena condivisione dei concetti appartenenti ai due ecclesiastici tedeschi ha senza pagarne alcuno scotto e senza personale sacrificio d’idee critiche attraversato la trattazione saileriana d’una figura di sacerdote-parroco e di sacerdote della corte del Palatinato, fino ad essere educatore di prole regale; un sacerdote d’origine comasca al tutto acquisito al clima intellettuale e morale della Germania, e in particolare alla “cifra”, alla ratio insieme teologica, politologica e cultural-educativa della Germania cattolica, da lui vissuta e verificata nell’ambiente che, anche in chiave antropologica di definizione di protocolli e di comportamenti, si pone come maggiormente qualificante della stessa Deutschtum cattolica, quello, appunto, della corte del re: «Tanto disse Sambuga animato da quello spirito celeste, senza il quale non si dà spirito di verità, né VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
amor sincero degli uomini. Ma le procelle rivoluzionarie, che presto sconvolsero il Palatinato, dispersero al vento i suoi consigli e resero fatalmente profetiche le sue ultime parole! – Dopo il lasso di anni trentacinque, io riproduco nel nostro idioma […], questo memorabile ragionamento. Se ponderarlo si vuol con animo pacato, assai cose ne emergeranno, di cui l’età nostra giovarsi potrà»: per Sambuga, la sconfitta storica coincide, secondo Antici, con la vittoria profetica, con il postumo avverarsi delle sue previsioni, della sua accorata produzione di pensiero77. 6. Nel 1826 Antici pronuncia un discorso sull’importanza degli ordini monastci che sarà destinato a non rimanere racchiuso nell’iniziale dimensione allocutiva, ma che godrà, invece, di un notevole riscontro, al punto di entrare, per estratto (dopo la pubblicazione da Galeati nello stesso anno), in più d’una miscellanea presente nelle biblioteche dell’ex Stato pontificio, e di fruire di una riedizione nel 1863 (Roma, presso la Tipografia Forense), in un data significativa d’un’Italia che si sta preparando, storicamente, all’esperienza di Porta Pia, e che si trova ad essere, quindi, intrisa degli spiriti ideologici che segnano la complessa contrapposizione tra visione laica e visione clericale, tra interessi dello Stato liberale e interessi del perdurante Stato della Chiesa, tra cultura patriottico-nazionale italiana (benché siano già da allora avvertibili consistenti incrinature nelle sue strutture e nelle sue connessioni risorgimentali) e cultura difensiva del cattolicesimo, della sua compagine ecclesiastica, della sua concezione politologica e del suo programma educativo riguardo alle classi popolari e alla gioventù. È una cultura ecclesiastica, conventuale e monastica in crisi, e percorsa dalla fondata paura storica d’un incombente pericolo laico-liberale su Roma vaticana, quella che a distanza di quattordici anni dalla morte del marchese Antici ne ripropone il discorso di trentasette anni prima, a parziale riattualizzazione delle tematiche che vi sono trattate, e a forte, intensa sconfessione polemica d’un pensiero laico che, pur a sua volta molto aggiornatosi nel lasso di tempo storico intercorso, appare non certo a caso assimilabile sotto una molteplicità d’aspetti a quelle propaggini tardo-illuministiche e post-rivoluzionarie, o tali già da allora avvertite, che nel pieno corso degli anni Venti dello stesso secolo avevano allarmato l’aristocratico recanatese, e con lui tutta una cultura laziale-romana, pontificia, cattolico-conservatrice e filonobiliare della Restaurazione, una cultura che aveva fondamentalmente allineato nello stesso alveo di identificazione polemica, e di stimolo all’opposizione storica, i retaggi della critica illuministica nei riguardi delle strutture dell’ancien régime alle manifestazioni, nei luoghi e nelle sedi in cui esse si verificavano, delle idealità romantico-patriottiche, e delle relative espressioni storiche nelle tendenze rivendicative dell’indipendenza, della libertà nazionale dove essa non si era ancora realizzata, della conquista di assetti sociali ed economici diversi da quelli esistenti, e tali, proprio per questo, da annoverare un robusto ricambio nella progettazione dello Stato e delle classi che dovevano assumere il potere: la borghesia, insomma, e sotto alcuni aspetti anche le classi popolari, non vedevano chiusa la porta d’una maggiore partecipazione alla gestione dello Stato, mentre, da parte sua, l’aristocrazia, segnatamente quella che poggiava sulle strutture ecclesiastiche d’uno Stato pontificio ancora in vigore, assumeva una posi
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zione di forte intransigenza oppositiva rispetto al nuovo, faticoso corso storico. È, quest’ultima, la posizione propria di una classe che teme di perdere, insieme ad una tradizione di consolidati privilegi (parzialmente salvaguardatisi e “dignitosamente” riemersi anche dalle insidie del periodo rivoluzionario-giacobino e dei primi moti indipendentistici), anche la stessa struttura statale che tali privilegi sostiene e giustifica, e con essa tutto l’indotto culturale, antropologico ed infrastrutturale che si accompagna a quei privilegi: l’aristocrazia pontificia, insieme al clero (ed è significativa, nonostante l’estrema diversità di clima storico, tale insistenza lessicale, valida soprattutto per lo Stato pontificio, su categorie terminologiche da società pre-Rivoluzione francese), vede messa a rischio la propria stessa funzione, e addirittura il proprio stesso protocollo identitario. Si tratta, nel 1826 (epoca di composizione del Discorso anticiano), d’un’Italia in piena Restaurazione. Giacomo Leopardi, da parte sua, ha a quell’epoca già compiuto un notevole e decisivo percorso dalla fase compositiva delle Canzoni (uscite, in quella che a quel momento è la loro ultima redazione a stampa, a Bologna nel 1824; nel 1826, lo si ricorda, escono, sempre a Bologna, i Versi, ovvero le liriche cifrate sul genere e sulla misura dell’idillio); ma se si rileggono, ad esempio, i vv. 6-17 della canzone All’Italia, apparirà chiaro che la patria «fatta inerme», segnata dalle «ferite», dal «lividor», dal «sangue», una patria «che di catene ha carche ambe le braccia», è un’entità culturale e ideale, se non ancora politica, che rivela nel nipote una concezione estremamente diversa da quella del religioso zio (oltre che da quella del padre, “imbronciato” – anche se in séguito un po’ addolcito – oppositore di quelle Canzoni fin dalla loro prima concezione ed uscita), secondo il quale è lo stesso concetto d’Italia unita ad essere un pericolo ed un peccato di lesa maestà legittimistica, oltre che pontificale; e secondo il quale saranno i moti mazziniani, sarà Ciro Menotti a Modena, saranno, nei tardi anni Quaranta, i patrioti romani ad essere potenziale fonte di “ferite” e di empi colpi all’assetto della Santa Alleanza; e sarà, altresì, il pensiero laico – sempre percepito come d’origine settecentesca, e ormai divenuto l’ideale del secolo XIX, ma mai fattosi cristiano, a pregresso rovesciamento dei concetti manzoniani di De Sanctis – a minacciare le «catene» per un’immagine di martirologia papale che in lui, come in altri operatori culturali che lavorano nello Stato pontificio, rivestirà sempre i contorni fisionomici, e si dica pure le stigmate, delle due figure che hanno retto il soglio di Pietro nel trapasso fra i due secoli, Papa Braschi e Papa Chiaramonti, nel loro esilio, nella loro cattività, nella loro vicenda testimoniale d’un rinnovato passaggio della storia per Roma: Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
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Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange.
L’Italia di Giacomo, ossia del nipote del traduttore di Bonnet e di Stolberg, di Sailer e di Pflister, di Sambuga e di Hurter, è un’Italia che «piange» (e sempre più lo farà nel tempo successivo, da quando si sarà compiutamente sostituita in Leopardi l’iniziale francofobia con l’ostilità all’Austria) proprio perché la Santa Alleanza e i suoi valori sono in pieno vigore, e non certo, quindi, per il timore d’un attacco agli stessi valori e agli stessi assetti: un attacco di cui, anzi, egli criptatamente rimprovera la mancanza agli italiani. Giacomo, in quel periodo già molto avanzato nella fase compositiva delle Operette morali, attraversa uno stadio di relativo disimpegno quanto al coinvolgimento politico esplicito, ma ha, in ogni caso, già espresso in modo perspicuo, fin dalle Canzoni appunto, la propria netta opzione di schieramento; se lo zio Antici, pur dotato d’un’ampiezza di visione culturale maggiore rispetto a quella di Monaldo, disapprova le prime canzoni sotto il profilo della loro ideologia, ma anche del loro “genere” letterario, in nome d’una realistica coscienza del “mercato” vigente nello Stato pontificio, dove si privilegiano i libri “utili” nel senso dell’apologia della fede, dello studio dei santi padri, delle edizioni di filosofi, anche pagani (come Platone), d’impostazione spiritualistica, di pensiero antimaterialistico (o, almeno, fruibile in tale direzione da parte dei lettori cattolici moderni), sarà altrettanto scontento, lo stesso zio Antici, dell’apparente disimpegno che di lì a poco caglierà nella prima edizione delle Operette, dove la mirabile prosa del nipote esprimerà, riguardo ad ogni concezione antropocentrica, provvidenzialistica, ma anche scientistica, da laico eudemonismo, una sfiducia ed un pessimismo così efficaci e nel contempo così spiazzanti sul pubblico dell’epoca, da scontentare non solo il cólto funzionario pontificio, ma anche la ricezione che di fatto ne avranno molte altre sponde dell’utenza dei lettori, ivi comprese molte sponde laiche. Tanto maggiore deve essere la distanza che separa il filosofo e il cantore del pessimismo dalla posizione d’uno zio che si appresta ad approfondire, con le traduzioni, e più ancora con la saggistica disseminata su riviste negli anni Trenta e negli anni Quaranta, l’insostituibilità della cultura cattolica per tutto il mondo occidentale, e la necessità d’una difesa della struttura politica pontificia, del suo patriziato e delle sue basi gentilizie, anche da parte delle monarchie laiche, e che, quindi, si appresta ad approfondire il concetto d’una fondamentale fiducia nell’importanza, determinante per il mondo, per la storia e per la società, della cultura di marca spiritualistica, eudemonistica, romanocentrica, missionaria. Altre, e più propriamente tecniche, saranno le sollecitazioni e le indicazioni d’una certa efficacia che da Carlo Antici proverranno a Leopardi, come si potrebbe constatare in un paragrafo dedicato al significato dei rapporti epistolari intrattenuti con i familiari dal marchese di Recanati. Si tratterà d’indicazioni mirate – non potrebbe essere altrimenti – alla preparazione, sul piano intellettuale e su un potenziale (e auspicato)
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piano professionale, d’una personalità prelatizia di dotto, di studioso degli autori antichi, greci e latini (non necessariamente appartenenti alla patristica cristiana, e sarà un segno di apertura culturale da parte di Antici), in base alle straordinarie e già note attitudini del giovane Giacomo alla filologia classica, a quelle attitudini che lo proiettano ad un livello qualitativo, e di peculiare protocollo filologico (osservazioni, annotazioni di specillare precisione, adversaria puntuali e micrologici, proposte ed emendazioni di notevole interesse ecdotico-restitutivo), sicuramente superiore alla media della cultura italiana dell’epoca in questo settore. Ma la coltivazione d’un terreno fecondo per la maturazione d’un dotto rappresentante ufficiale dei ranghi pontifici (fosse pure allo stato laico), la coltivazione d’una humus adatta ad un operatore della vinea Domini, doveva avere il proprio esito (certo accompagnato da molti altri elementi in causa) nella crescita, in buona parte autonoma ed indipendente, non di una vitis, non di una componente della “vigna” della cultura cattolica, ma, al contrario, nella crescita di una lenta genista, del fiore d’un deserto che è realmente tale, d’un terreno filosofico che avrebbe con impressionante lucidità registrato l’inconsistenza, o addirittura l’inesistenza delle prospettive spiritualistiche e dei percorsi di edificazione religiosa, come anche di molte prospettive, incluse quelle propriamente politiche, di matrice ideologica laica; un terreno filosofico sul quale, semmai, torna a crescere, pur con rinnovata asciuttezza di disillusione e di disincanto e senza ottimistici orizzonti, il pensiero illuministico, ossia la possibilità, e la prospettiva, di un “illuminismo per tutti”: «il calle insino allora / Dal risorto pensier segnato innanti / Abbandonasti, e volti addietro i passi / Del ritornar ti vanti / E procedere il chiami» (La ginestra, vv. 54-58); e ancora: Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell’aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle (vv. 72-86).
Il «DISCORSO / DEL / MARCHESE CARLO ANTICI / PRONUNZIATO IN ROMA / NELL’ACCADEMIA / DI RELIGIONE CATTOLICA / IL DI 22 GIUGNO 1826 IN IMOLA / TIPI GALEATI E COMP. / A spese della Società de’ Calobibliofili / Con licenza de’ Superiori, / 1826»78 reca ad epigrafe iniziale un periodo, di sole due frasi, che sintetizza il concetto fondamentale dello scritto: «Gli Ordini Monastici e VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Regolari favoriscono le Scienze, le Arti, l’Agricoltura, l’istruzione pubblica e porgono sollievi alle infermità, e alla miseria». Tacitiana la frase d’esergo: « Sine ira et studio, quorum causas procul habeo / Tacit.[us]». Alla p. 3 (prima edizione) si chiariscono sùbito i bersagli polemici, costituiti dalla Riforma e dall’illuminismo, indicati come esperienze filosofiche e storiche aberranti dal vero e dal giusto: Una demenza figlia di quella rivolta, che nel secolo sestodecimo si tramò dal senso privato contro il Senso comune, dalla opinione individuale contro la Fede universale, invase da circa ottant’anni in poi, anche in seno della vera Chiesa, le teste di molti scrittori, non che di molti uomini di stato, e dichiarò pertinacissima guerra ai Ministri dell’Altare […]. Questa demenza, tanto umiliante per l’umana ragione, quanto perniciosa all’umana società, vuol chiamarsi a tutta possa Filosofia!
Il discorso di Antici prosegue (pp. 3-4): Tale siam pronti di chiamarla ancor noi, purché schiettamente convengasi esser dessa la filosofia del gregge epicureo, che nega Provvidenza e vita futura, e nel fango dei sensuali piaceri il sommo bene ripone; o di Diogene, e dei cinici suoi seguaci, che segnalarsi voleano per grossolane maniere, per mordace insolenza, per turpe inverecondo vivere; o di Pirrone, che nell’immondo animale tranquillamente rugumante entro nave sbattuta dalla tempesta l’immagine del saggio additava.
Il pensiero filosofico antico migliora nella sua declinazione platonico-stoicizzante, se è vero che «un Platone scrivea, che la vita del Sapiente esser deve una continuazione della morte; se un Zenone insegnava, che né la povertà, né l’abbiezione, né i disagj corporei sono mali, e che nella virtù sola trova la sua felicità il vero Saggio […]» (p. 4). Alla p. 6, n. 1, dopo una citazione dal S. Agostino di De Moribus Ecclesiae Cattholicae [sic]79, vi è quella del «passo di altro gran Filosofo, e Oratore S. Gio. Crisostomo nel libro – De comparatione Regis et Monachi –»80, che così recita: Rex igitur urbium, regionum, tam multarum gentium praefecturam gerit, praetores, propraetores, exercitus, populos, senatum suo unius nutu agens: at vero qui seipsum totum deo dedit, solitariamque vitam elegit, irae, invidiae, avaritiae, voluptati, caeterisque animi morbi imperat assidue speculans, ac meditans, quemnam in modum non committat, ut suum animum obscoenis affectibus non subjiciat, neu amarae tyrannidi ratio inserviat, sed super res humanas omnem cogitationem semper erectam habeat, Dei timorem animi morbis preaeficiens. Huiusmodi igitur imperium Rex, huiusmodi item Principatum Monachus adeptus est; ut justius quidem hunc Regem voces, quam eum, qui purpura indutus, ac corona ornatus splendescit, throno in aureo sessitans. Nam is demum vere Rex est, qui iram, qui invidiam, qui voluptatem cohibens, omnia sub Dei lege agit, mentem liberam servans, neque patiens voluptatum dominationem animo suo imperitare. Talem equidem Regem libens viderem et populis, et terrae, et mari, et civitatibus, exercitibusque jura dantem».
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Non sfugge, certo, nel quadro dei concetti espressi dal testo latino, l’indicazione precisa d’un monarca “etico”, che ha il compito di frenare, e dominare, le proprie passioni, e di trovare i tutti i modi possibili per esercitare il proprio potere secondo la virtù e la religione; tale monarca dovrebbe essere (ed è una tematica cara ad Antici) un sovrano universale, non certo solo nazionale, e dovrebbe legiferare «et populis, et terrae, et mari, et civitatibus, exercitibusque». Poco dopo, nella n. 2 (pp. 6-7), Antici riporta una risposta propria del sarcasmo religioso antiilluministico ad un «encomiatore dell’illuminatissimo secolo XVIII»: «Oui nous vivons dans un siecle [sic] tres-eclairé, mais c’est le diable qui tient la bougie». La luce, insomma, è orientata da una candela che è in mano al diavolo. Alla p. 7, n. 3, l’ennesima pronuncia antivoltairiana da parte del marchese Antici: che Voltaire, il quale pei suoi talenti poteva essere un Angelo di luce, e fù per il suo odio implacabile contro il Cristianesimo un Angelo di tenebre, abbia data la più gagliarda spinta alla persecuzione dei Claustrali, ne fanno fede i suoi scritti, ed il suo divulgato carteggio. Egli, che davasi il nome di Patriarca degl’increduli, troppo bene scorgeva la resistenza invincibile, che i Corpi Religiosi avrebbero costantemente, ed ovunque opposta ai disastrosi suoi piani. Erano dunque in coerenza di essi i ripetuti colpi, coi quali in mille maniere li assaliva. Per lo ché, quando la Rivoluzione mise la scure alla radice dell’albero, il Marchese di Condorcet suo seguace, e ammiratore gli tributò un doveroso omaggio esclamando tutto estatico nella vita di lui pubblicata «Voltaire non ha veduto tutto ciò, che ha fatto, ma ha fatto tutto ciò, che vediamo». Infelice Panegirista! Ei, che in quel tempo con tanta gioja vedeva tutte le belle cose prodotte dalle lezioni del suo Protagonista, non vedeva però, che pochi anni appresso alcuni più perfetti alunni di quella scuola dannato lo avrebbero a morte. Discite justitiam moniti.
“O voi, che siete stati avvisati, apprendete quali sono i veri riequilibri storici operati dalla giustizia”: così sembra dire Antici ai suoi contemporanei, ai quali realmente è rivolto il monito; e, sempre alla p. 7, contro Voltaire, si additano, nell’ottica del marchese e del suo uditorio, “ben altri” maîtres-à-penser, primo dei quali «l’incomparabile Conte di Maistre», sul quale il marchese di Recanati si sofferma ancora, alle pp. 7-8, n. 4: (Veglie di Pietroburgo Vol. II Tratten. III. in 8. Imola 1824). Questo grande italiano, che per la sua maggiore familiarità colla lingua francese, scrisse in quell’idioma le tante, e sublimi sue opere, forma in oggi con il Visconte di Bonald, e l’Abate Di La Mennais un immortale Triumvirato di pubblico magistero, con cui si riducono in polvere le mostruose dottrine della falsa filosofia. Un ingegno profondo, un immenso sapere, una distinta cognizione del male, un’ardente brama del bene, una vittoriosa dialettica della Religione nutrite, e collegate formano dei loro scritti un ampio tesoro di verità tanto più evidenti, quantoche esposte coi colori più splendidi, e vivaci. A noi già invecchiati tra le tempeste rivoluzionarie non toccherà in sorte di gustarne in tutta l’estensione i benefici effetti; ma possiamo a buon diritto presagirne il godimento alla nostra posterità. Meditiamo intanto e nelle diuturne, e nelle notturne ore i volumi di
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questi uomini insigni, dei quali con più ragione ancora, che di Omero può dirsi sulla scorta di Boileau (Art. Poet. Chap. III.) / Aimez donc leur ecrits, mais d’un amour sincere. / C’est avoir profité, que de sovoir s’y plaire»81.
Nella seconda edizione (1863), una «Nota degli Editori», la n. 1, esprime il bisogno di giustificare la citazione di Lamennais, una citazione che nel 1826 era pienamente capace di veicolarsi da sola: «Quando il chiarissimo autore scriveva queste cose, mostravasi il La Mennais tutto intento a promuovere le sacre dottrine; ma poi fattosi inventore di rovinosi sistemi e sdegnando ogni freno di sacra e civile autorità, cadde in quel precipizio, che noi tutti con orrore abbiamo veduto» (p. 11 II ed.)82. Un’altra «Nota degli Editori 1.», alla p. 13 della seconda edizione, esprime a sua volta la necessità d’affiancare l’autore nell’usare parole esplicite in difesa dell’ordine dei gesuiti: «Sono queste le medesime ciance, che più secoli addietro contra i venerabili Ordini di s. Domenico e di s. Francesco si dicevano da Guglielmo del Santo Amore; e sono le medesime che pochi anni fa si ripetevano dal Gioberti contra i Gesuiti, e che si ripetono ai dì nostri contra tutti i Religiosi dai moderni persecutori: i quali però non hanno né pure il merito dell’invenzione». L’esigenza di difendere le corporazioni religiose (p. 9, I edizione) è giustificata con una rapida panoramica che elencativamente enumera la Grecia, Pitagora, Roma, le Vestali, gli Egizi, i Persiani, i Galli, i Teutoni: tutti hanno un senso religioso e quindi, ciò che realmente interessa Antici, hanno rispettato ed onorato, e materialmente sostenuto, la classe sacerdotale, gli “ordini” d’ogni religione. E la difesa si dispiega ulteriormente alle pp. 10-11, con il capovolgimento delle accuse giacobino-illuministiche alla Chiesa; essa, infatti, ritarderebbe le scienze, le arti, l’agricoltura, il commercio; ma la realtà storica lancia, secondo Antici, un messaggio contrario. La storia dimostra infatti con ampia facoltà di prova che i «pubblici disastri» risalgono «all’epoca delle soppressioni monastiche»; la Chiesa ha grandemente aiutato, ed è anzi stata decisiva nel favorire lo sviluppo delle scienze, delle arti, del commercio, delle pubbliche utilità: si ribalta, in tal modo, il cliché storiografico del pensiero laico, ma anche napoleonico. Queste appaiono pagine realmente scritte contro il Codice Napoleone, dal marchese, ex funzionario napoleonico83. E il favore divino è essenziale per qualunque potere politico, come, secondo le coordinate dell’epoca pagana, lo era, a pena di lutti e di rovine se non venerato, e con prospettive di nemesi sui discendenti, anche incolpevoli, nell’Orazio di Carmina, III, VI, 1-8, citato per esteso, con i relativi capoversi84. La funzione di civilizzazione esplicata dal Cristianesimo trova uno spazio di celebrazione più ampio alle pp. 12 ss., dedicate a «questo recinto sacro alle cattoliche verità», nelle quali Antici disegna un’intelligente e funzionale apologia della religione, una storia “panoramica” del Cristianesimo con la sua funzione di salvaguardia della civiltà, della cultura e dei costumi, come fosse il Carme Alle Grazie del Foscolo, “dedotto”, per usare ancora termini oraziani, nella lyra cristiana: si tratta del viaggio sociale e antropologico del Cristianesimo (anche nell’àmbito dello stesso territorio) alla ricerca, alla difesa ed all’incremento del progresso umano; insomma, un ulteriore brano ispirato al canone storiografico del cattolicesimo, un canone ad
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usum fidelium et episcoporum. E la celebrazione si estende alla funzione delle congregazioni monastiche (pp. 14-15) in un passo significativo, ma tale da dover essere attentamente letto (se ne veda il finale: «forse svenerebbero ancora vittime umane sulle are i Druidi, se la Provvidenza non preparava la ristaurazione della società per opera dei Claustrali»); la deprecazione riguardo alle invasioni di popolazioni settentrionali non esclude, ma anzi contempla in linea di continuità quel rischio di empietà che già da ora, e più ancora in séguito, coinvolgerà in Antici anche Roma e il mondo pagano; né si dimentichi la citazione, immediatamente precedente, da Orazio, secondo la quale il romano pagherà almeno quanto altri popoli le proprie mancanze, anche se considerate storicamente, solo nei confronti degli dèi pagani («Delicta maiorum inmeritus lues, / Romane, donec templa refeceris»). Il pericolo rappresentato dai barbari non è stato tale solamente e in quanto essi hanno soppiantato molti aspetti materiali e morali della civiltà romana classica, quanto, invece, e in ben maggiore misura, perché gli stessi popoli barbarici stavano per sostituire le nefandezze imperiali di Roma con altre, se si vuole più feroci e più rozze concezioni ed usanze, delle quali la provvidenza del Dio cristiano ha fortunatamente scongiurato la vittoria, la prevalenza storica; ma è il cristianesimo il vero fattore di elevazione, di civilizzazione, di redenzione dell’una e dell’altra civiltà, e quindi di quella romana non meno che di quella nordico-barbarica; il brano che segue non ha lo scopo di demonizzare i barbari, quanto quello, autentico e di sormontante strategia storiografica nella visione cristiano-medioevale di Carlo Antici, di celebrare le «Aggregazioni monastiche»: una finalità d’esaltazione dei corpi religiosi medioevali, delle immense benemerenze dei claustrali e dei conventuali in genere. Anzi, gli stessi ordini monacali non si limiteranno, per così esprimersi, ad una pars destruens, ad una funzione di neutralizzazione, pacifica, delle rozze angolosità della legislazione e dell’antropologia barbariche, bensì essi opereranno in chiave risolutamente attiva nell’acquisizione, celebrata dal cattolico autore in modo non privo di tratti agiografico-martiriali, degli stessi barbari al cristianesimo, in una feconda unione, e nel tempo in un’armonizzazione, della civiltà monacale con quella germanica, settentrionale, con la civiltà degli ex invasori. Il rinnovamento europeo operato dal cristianesimo non senza meriti di vera e propria genesi riguardo all’Europa stessa, si chiarisce come uno dei concetti storiografici fondamentali di Antici; e sempre più si configura la sua visione, alimentata di personali prerogative e di peculiari risorse di individuale cultura, che contempla proprio l’area tedesca come la fonte della civiltà nuova dell’Europa: cristianesimo, monachesimo e germanesimo come elementi di riferimento fondamentali per lo sviluppo della nostra civiltà: Giunse poi l’epoca eternamente memoranda, in cui le Aggregazioni monastiche cominciarono a spiegare in tutta la sua grandezza lo spirito benefico, che le ha sempre animate. Quando le più floride provincie dell’impero Romano furono sommerse nel diluvio dei popoli settentrionali, tutto era distruzione, tutto era un vasto pelago di orrori. Incendiate coi villaggi molte cospicue città, desolate interamente le campagne biancheggianti di ossa umane insepolte, le terre poc’anzi liete di messi e
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di piante, sterili si fecero, e selvagge. Orsi, lupi, ed altri carnivori animali divennero gli abitatori di vaste contrade, ove di uomo non appariva più vestigio alcuno. Gl’insigni monumenti del greco scalpello, e della romana architettura non presentavano che una congerie di sassi, e le produzioni degli antichi ingegni deposti nelle biblioteche scomparvero. I barbari che avevano vinto, o per dir meglio trucidato, e devastato sdegnavano arti, e scienze inutili per le battaglie, considerandole come istrumenti di servitù, e vani trastulli della mol[l]ezza. I vinti, che di tante stragi avanzarono, ridotti alla misera condizione di schiavi, divennero nella schiavitù non meno barbari dei vincitori. Forse l’Europa sarebbe anche in oggi sotto il giogo degli Scandinavi, e dei Sicambri: forse seguaci di Odino avremmo ancora per delizia di bere nei cranj di nemici estinti; forse svenerebbero ancora vittime umane sulle are i Druidi, se la Provvidenza non preparava la ristaurazione della società per opera dei Claustrali.
Il brano va, a nostro avviso, letto con attenzione specifica alle prime ed alle ultime frasi, ad illustrazione del segmento centrale del testo (da «Quando» a «vincitori)»; come, infatti, si legge nelle pagine immediatamente successive, il significato di queste pp. 14-15 si attiva contro le invasioni barbariche perché esse avrebbero potuto distruggere il patrimonio della pietà, il patrimonio cristiano, che già si era accumulato, prima che essi stessi si convertissero. Ed all’inizio e alla fine del brano prende corpo, in realtà, quella che sarà l’immagine della Germania di Antici: un’immagine che nel residuo ventennio della sua vita si accamperà, non sul solo piano culturale, nei vari contributi, orientati sulla misura del saggio, o della recensione, o della breve traduzione in fascicoli di rivista, riguardanti personalità e scritti che si siano soffermati sul valore della civiltà medioevale, sulla funzione del cristianesimo, sulla celebrazione della stessa religione nella sua “versione” unita e unificante (quindi anteriore alla disastrosa introduzione del razionalismo e dell’individualismo luterani: non sono le altre sétte protestanti ad essere oggetto di polemica da parte di Antici). Il cristianesimo come religione europea, come fattore di unità; il cristianesimo e la Germania saranno i due elementi assiali del percorso culturale attraversato dal marchese, nella loro virtualità di fusione armonica, di abbinamento intimamente coeso dell’asse ecclesiastico-religioso e dell’asse laico, monarchico-regale; lo svolgimento della storia preciserà, anche contro gli intenti e la visione dello stesso Antici, l’area della Germania sulla quale si orienteranno maggiormente i suoi interessi, ovviamente l’area cattolica. Ancora, a p. 16, i «Claustrali» sono indicati quali rifugio e fonte di civiltà, e come sua custodia: Non v’ha dubbio; i Claustrali furono i primi educatori, i primi precettori di tutte le nazioni moderne, che hanno abbracciato il Vangelo; e dal seno di que’ barbari stessi da loro educati, ed istruiti uscì dipoi quella immensa schiera di Claustrali intenti ad educare, ed istruire tante altre barbare genti. Ovunque dopo la caduta del Romano impero è penetrata la civiltà, essa vi giunse al seguito del Vangelo, e sempre furono i Claustrali, che assunsero, e compirono così ardua, così sublime impresa.
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Ad «impresa», ultima parola del testo citato, vi è una nota «6» (pp. 16-17): il P. D. Gioacchino Ventura, già tanto chiaro per molti suoi scritti offre nel suo grandioso – Discorso sulle influenze dello zelo di S. Gaetano Tiene Fondatore de’ CC. RR. Teatini nella universale rinnovazione religiosa del secolo XVI. – un succinto elenco dei principali banditori della Fede Cristiana in diverse regioni. I Galli furono conquistati alla Fede da S. Remigio; gli Svevi da S. Martino; i Tessandri da S. Lamberto; gl’inglesi da S. Agostino; gl’irlandesi da S. Patrizio, gli Scozzesi da S. Palladio. S. Walfrido piantò la insegna della Croce, e sottomise alla Religione la Frisia; S. Bonifacio, e S. Lugdero la Germania, S. Amando la Fiandra, la Carinzia e la Schiavonia; S. Kiliano la Franconia; i SS. Switberto, e Willebrordo la Sassonia; S. Otone la Pomerania; S. Vicclino la Vandalia; S. Ascanio la Svezia; finalmente i SS. Cirillo, Metardo, e Ramberto convertirono i Bulgari, i Boemi, i Chzari, i Moravi, e la numerosa famiglia degli Slavi – Ora tutti questi Santi furono Claustrali. / I figliuoli del gran Francesco, e del gran Domenico, non paghi del bene immenso fatto alla Chiesa in Europa, dopo di averle conquistata quella parte, che tuttavia le rimane nella Persia, e nella Tarteria, come nel secolo XV, estesero anche negli altri continenti le loro conquiste missionarie e di fede. Il genio ardito dei navigatori parve colle sue scoperte dilatare i confini del Globo, si avviarono dietro le traccie dei conquistatori politici, per fare anch’essi alla Fede le loro conquiste religiose; e fecero tanti sudditi di G. C. quanti il Potere politico avea fatti sudditi delle Corone europee. Ed il Cristianesimo fu da loro introdotto nel Messico, nel Perù, nel Chili, nel Brasile, nel Canadà, in tutte le coste dell’Africa. Delle conquiste religiose fatte dai CC. RR. di tutti gli Ordini, caderà in acconcio di parlarne più innanzi; e più innanzi ancora osserveremo, che l’essersi servito mai sempre dei Regolari il Potere religioso per dilatare la Fede, non ridonda affatto in menomo disfavore del Clero secolare85.
Alla n. 7 (pp. 17-18) la celebrazione dei claustrali ha un suo importante passaggio nell’indicazione di uno dei maestri della reazione antilluministica e antirazionalistica: «Chi vuol deliziarsi all’aspetto dei prodigi inspirati dal zelo dei Claustrali per la conversione delle Indie, legga il commovente quadro tracciatone dalla maestra penna del Visconte di Chateaubriand nel “Genio del Cristianesimo” ultimo volume all’Articolo Missioni». Dalla p. 18 l’elogio dedicato al monachesimo si amplia fino a comprendere il riconoscimento dei meriti degli “ordini” riguardo a tutta la storia della religione cristiana e a tutta la storia culturale dell’Occidente; innanzi tutto, la stessa religione cristiana si adatta a tutti i climi e a tutti i governi ed è la sola che possa «introdurre, e conservare tra gli uomini la concordia, la subordinazione, gli affetti magnanimi». E se noi leggiamo Orazio, Virgilio, Livio, Tacito, Cicerone grazie agli amanuensi (p. 19), tale constatazione si pone in una scia di ribaltamento dello sprezzo e dell’accusa umanistici verso il Medioevo: il monachesimo è tramite e accesso imprescindibile agli studi classici e alla stessa cultura classica. Solo gli amanuensi compilavano gli Annali (p. 20): «Essi soli possedeano la volontà e la capacità, essi soli aveano il tempo di scriverli; tutte le altre classi occupate o negli amoreggiamenti, o nelle battaglie, o negli affari, o ne’ traffici, o ne’ campestri lavori, a tutt’altro pensavano, che a registrare i fatti VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
dei contemporanei»; inoltre (ibid.), essi furono esecutori di opere concepite da altri dotti: «i Ruinart, i Montefaucon, i Bollandisti, i Maurini, i Cellier, i Labbé ci han fatto dono di opere così gigantesche, che se da altri dotti poteano idearsi, dai Claustrali soltanto poteano eseguirsi»; occorrevano a questo fine coordinazione, concorso di congiunti sforzi, e, infine Antici lo dice, «copia smisurata di libri, e non scarsezza di sostanze»: «Quanti altri lumi poi hanno diffusi sulla storia un Baronio, un Orsi, uno Sforza Pallavicini, un Petavio, un Maffei, un Calmet, un Maimburgo, un Daniel, un Orleans, un Bougeant, ed altri lor pari!» (pp. 20-21); e, nella n. 8: «Poiché anche in Italia si è destata la nobile gara di arricchire con buone traduzioni da lingue viventi la nostra letteraria suppellettile, fa meraviglia, che nessuno siasi ancora accinto a quella delle opere più pregevoli del P. Bougeant»; e Antici prosegue con un elogio fatto da Desessarts (Siècles Letteraires de la France), Parigi, anno VIII della Repubblica, all’Histoire du Traité de Westphalie e all’Histoire des guerres, et des Negotiations qui precederent ce Traité sous les ministeres de Richelieu, et de Mazarin» «due opere ristampate nel 1751. in sei volumi in 12.,» di Bougeant, Claustrale dell’Ordine di S. Ignazio; il marchese ne auspica molte traduzioni anche in Italia, come ha fatto lui riguardo a una già rispettabile serie di opere straniere (il monito, precisa Antici, vale purché sia fatta eccezione delle opere illuministiche, considerate sempre quali piante venefiche). È prevista grande gloria per il monaco cassinese Zelli, di Viterbo, autore degli Elementi di Filosofia Metafisica, Firenze, 1804, divenuta «rarissima» (pur se ristampata a Fermo, nel 1824), dedicata al Padre Abate Don Vincenzo Bini di Assisi, Procuratore Generale dello stesso Ordine, a sua volta autore di Lezioni di Storia della Filosofia e di una Storia della Università di Perugia. Ma sono nominati anche S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Bernardo, Melchior Cano, Cornelio a Lapide, Bellarmino, Suarez, Valsecchi, Bolgeni (ma su Gian Vincenzo Bolgeni cfr. la confutazione che ne ha fatto Don LORENZO IGNAZIO THJULEN, in Intorno al giuramento civico, confutazione de’ sentimenti dell’abate Gian Vincenzo Bolgeni, Venezia, presso Francesco Andreola, 1799), Muzzarelli, Malebranchio, Stellini (il filosofo maestro di Giordani), Gerdil, Zelli appunto, Castelli, Cavalieri, Boscowich, Beccaria, Frisi, Paciaudi Morcelli, Bourdaloue, Lacheminé, Neuville, Massillon, Segneri, Paoli, Tornielli, Pellegrini, Casini, Turchi, Rapin, Olivet, Gresset, Brumoi, Ceva, Lami, Bettinelli, Roberti, Cunich, Zamagna, Solari, Tiraboschi, Bonafede, Lanzi, Andres, Lampillas, Arteaga. Di questo nutrito elenco egli loda in particolare il Paoli, della Congregazione della Madre di Dio in S. Maria in Campitelli in Roma, autore di opere erudite e oratorie; ma l’autore ricorda anche, elogiata dal Redi, dal Crescimbeni, dal Gravina, la versione dell’Eneide in ottava rima del Padre Beverini. Non manca, a p. 24, l’elogio di padre Cesari, «uomo instancabile, che con moltiplici scritti ha resi di pubblica ragione tanti sepolti tesori di questa lingua bellissima, già sfigurata da stranieri modi «[…]»; «Chi vuol cercare le vaghezze de’ nostri antichi prosatori, senza imbrattarsi nelle sozzure dei spesso affettati, e contorti Novellieri, ricorrer deve principalmente alle opere di Cavalca, Passavanti, Bartolomeo di San Concordio, tutti tre Claustrali». L’accenno alla novellistica di tipologia boccacciana
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non è isolato in Antici; egli, infatti, lo riprenderà nel discorso Su i piaceri e i vantaggi delle lettere e su i doveri dei letterati. Discorso letto in Roma nell’Accademia Tiberina la sera dei 26 MAGGIO 1833 DAL MARCHESE CARLO ANTICI, 1833, p. 20 n.; e si tratta d’un accenno prevedibile, in un intellettuale di forte impronta cattolica. Ma nella convinta approvazione per l’opera, insieme religiosa e letteraria, del padre Antonio Cesari, emerge senza possibilità di dubbio l’ammirazione del marchese per il Trecento e per la forte tensione morale degli scrittori cristiani, per un “canone Cesari” che egli mostra di assumere, sia pure in una dimensione aperta che contempla, come infatti avviene nel suo caso, molte altre sollecitazioni e tipologie di scrittura d’autore, e molte altre epoche letterarie; si veda la sua frequentazione del Cinquecento e del Seicento controriformistici, gesuitici, specificamente antiluterani, o risolutamente cattolico-missionari. Non meraviglia, sulla base di queste premesse, la citazione di santi appartenenti ad epoche che vanno dal Medioevo all’epoca controriformistica, quali Domenico, Francesco, Gaetano, Ignazio e le loro, relative missioni; sono altresì citate le Lettere edificanti dei gesuiti francesi, così com’è citato il cardinale Zurla dell’ordine Camaldolese, vicario di Sua Santità, autore di una Dissertazione nella stessa aula dove parla Antici, uscita a Venezia, da Milesi, nel 1823; vengono ricordati anche monsignor Pirker, patriarca di Venezia, che ha cantato la spedizione di Carlo V in Tunisia (Carlo V, tramite l’efficace narrazione storica di Robertson, è una figura che riscuote singolare interesse da parte di Antici) e monsignor Agostino Olivieri (17581834), della Congregazione di Maria, precettore dei Reali di Napoli, che ha scritto un sistema di Filosofia morale (Napoli, Stamperia Reale, 1825; poi, Genova, Tip. Ponthenier, 1828); né vanno passati sotto silenzio i meriti propriamente inerenti alle arti ed all’artigianato (p. 28; la Trasfigurazione di Raffaello – il più bel quadro del mondo, per Antici – non sarebbe nato senza l’ispirazione religiosa); e alle pp. 29-32 segue la deplorazione della soppressione dei conventi per l’indotto artigianale (p. 29) e per l’agricoltura (pp. 30-31). Alla p. 31 della II edizione, in riferimento alle conseguenze della soppressione dei Claustrali «nel Nord, e nell’Inghilterra», la «Nota 1» degli Editori precisa: «Queste cose medesime noi vediamo ora coi proprii occhi, e tocchiamo, si può dire, con le mani. Ma con tutte le esperienze passate, e le miserie presenti i popoli non fanno mai senno e si lasciano di continuo ingannare dalle false promesse di novelle beatitudini e felicità»; la nota è in ogni caso coerente con il testo anticiano, che si lancia in un altro, pesante attacco alla filosofia («al filosofismo») dal secolo XVII al secolo XIX: da Hobbes (con il suo homo homini lupus) a Cartesio (con il dubbio degradato all’accertamento sensoriale della vista e del tatto, sulla scorta dell’apostolo S. Tommaso), a Locke, recepito quale capostipite dell’empirismo, con la materia come base della facoltà di pensare, e con la teoria delle sensazioni, al Rousseau del buon selvaggio (ma Antici parla semplicemente di “selvaggi”), dell’uguaglianza e del contratto sociale, l’enumerazione dell’intellettuale cattolico conservatore si risolve in un elenco di cattivi maestri, che lo conduce a concludere (p. 36) che «il progresso dei lumi non fu, che il progresso della dissoluzione sociale»; tolto ai Claustrali il pubblico insegnamento (in questo è consistito il capitale errore derivante dal pensiero laico), «il filosofismo […] VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
surrogò a que’ benemeriti institutori, precettori salariati, in gran parte non celibi, mancanti tra loro di un metodo uniforme, non sottoposti alla necessaria subordinazione, discordi nei loro principj, indifferenti al bene dei loro allievi, e che consideravano nelle delicate loro funzioni non doveri da compiere, ma il salario da lucrare». Il ruolo degli Ordini di Cristo è stato, peraltro, individuato presto, nella storia; si veda, a p. 41, n. 14, l’efficacia riconosciuta da Giustiniano alle preghiere degli stessi Ordini Religiosi e il suo riconoscimento in perpetuum della loro esistenza ed anzi necessità (Leggi 44 e 57 del Codex de Episcopato): «Communis nostrae reipublicae res paratiorem consequentur a Deo Clementissimo opem» (44); «Maneant autem in perpetuum, et usque ad huius saeculi consumationem, quousque christianorum nomen apud homines erit, et coletur» (57). Il testo del marchese si avvicina, quindi, alla vera e propria realtà degli ordini religiosi, un percorso anticipato, alle pp. 38-39, dalla difesa dei gesuiti dagli attacchi della storia: Antici in tal senso ricorda che Federico di Prussia li preservò anche quando da altre parti li avevano messi al bando; l’individuazione della realtà dei vari ordini, geograficamente dislocati, recupera come fonte, da parte di Antici, il discorso del padre Ventura (a sua volta fondato su quello di Gaetano Tiene), secondo il quale vi sono quattro ordini: gli anacoreti, i monaci, gli ordini mendicanti, i chierici regolari. Il discorso di Antici, quindi, si orienta sull’elenco dei vari ordini; ad esempio, fra gli anacoreti sono annoverabili Paolo l’Eremita, Antonio in Egitto, Ilarione in Palestina, i due Macari nella Libia, Pacomio nella Tebaide, Basilio nella Cappadocia, Ambrogio in Italia, Agostino in Numidia, Martino in Francia (p. 43, n. 15); fra i monaci, mentre Benedetto istituirà come luogo di riferimento la propria sede a Cassino, a Gualberto risaliranno i Vallombrosani, a Romoaldo i Camaldolesi, a Brunone i Certosini, a Bernardo i Cisterciensi, a Norberto i Premostratensi; Francesco, a sua volta, sarà a capo dei Frati Mendicanti, Domenico dei Predicatori, Pietro Nolasco dei Mercedarj, Alberto dei Carmelitani, Benizio dei Serviti, mentre «Innocenzo IV. riunisce gli sparsi avanzi degli Agostiniani»; a Gaetano fanno capo i Chierici Regolari, ad Ignazio i Gesuiti, a Giovanni di Dio i buoni Fratelli, a Camillo i Crociferi, a Girolamo Emiliani i Somaschi, a Calasanzio gli Scolopj, ad Antonio i Barnabiti, a Adorno i Chierici minori. Alle pp. 44-45 Antici esalta l’educazione claustrale, ecclesiastica (in un passo sorprendentemente non privo, nel documentato marchese, di una certa genericità, sotto il cui denominatore si accomunano realtà ecclesiastiche diverse) come migliore educazione al governo, in tal senso ricordando le benemerenze politiche esplicite della Chiesa, dei Papi: Gregorio Magno, Gregorio VII, Pio V per i meriti di Lepanto, Sisto V per i meriti riguardanti l’organizzazione del tesoro, Pio VII, riferimento più vicino nel tempo, capace di trasformarsi da agnello in leone; e di nuovo, ricominciando l’elencazione dopo aver nominato i Papi, si citano, agglutinandone i significati storici con l’enumerazione onomastica al plurale, i Basili, i Nisseni, i Nazianzeni, gli Epifani, gli Agostini, gli Anselmi, gli Antonini; e così vengono rammentati Alcuino, Bernardo, grande religioso, che ha avuto quale allievo politico un Papa, come Eugenio III, il quale si avvarrà delle sue raccomandazioni, e quindi viene rammentato il «Suge
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ro»=Suger» (con citazione, nella nota 16, dell’Eloge de Suger Abbé de St. Denis Ministre d’État, et Régent du Royaume sous le Regne de Louis le Jeune, di p. Garat); ancora, vi è la citazione di Ximenes, «destinato dal giovane Carlo a governare in sua assenza le Spagne» (p. 46). Saranno i politici a dover imparare dalla Chiesa; e, in qualunque frangente, gli ecclesiastici possono dare un notevole e grande contributo alla politica, agli affari delicati, come è accaduto molto spesso, nella storia, nel caso delle eminenze grigie, dei titolari della vera Reggenza degli Stati, affidata, appunto, a religiosi di grande valore; ed essi hanno adempiuto la propria funzione in chiave ispirativa della prassi di governo e direttiva di atti e di comportamenti, in un’interpretazione di alto profilo del loro ruolo; e tale interpretazione si pone come frutto di una formazione umile ed ubbidiente, di una disciplinata esattezza, che incontrano, come corrispettivo, ambiziosissimi incarichi e impegni, e addirittura, come si è detto, supreme reggenze dietro le quinte ufficiali della Respublica. Il legame tra politica e religione, con il secondo termine istituito a valore prioritario, metafisicamente e qualitativamente superiore al corrispondente valore rappresentato dal potere laico e dalle sue incerte, periclitanti virtù, viene qui non soltanto ripreso, ma anzi trattato – nei limiti d’un discorso accademico che pure è in sé di ampio respiro e di non asfittica dimensione – con una dispiegata pronuncia di legittimazione, lungo gran parte della storia, del connubio inestricabile di Trono e di Altare, o comunque, di Trono e di Religione. Risulta qui sancita da convalida, pur se ripartita fra varie epoche e diversificata anche nello spazio delle nazioni, la fondamentale concezione teocratica che presiede all’impostazione ideologica e culturale di Carlo Antici; si tratta d’un impegno conativamente proteso alla riscrittura della storia in chiave ecclesiastica, come una vicenda di veri e propri ordini regolari, di accreditati «corpi» religiosi ufficiali, una vicenda di adesione intimamente investita di fede nell’intermediazione episcopale – concretamente e secolarmente gerarchizzata – fra il vicariato di Cristo ed i credenti; un’elaborazione intellettuale segnata dal desiderio d’appartenenza alla spina dorsale istituzionale della struttura ecclesiastica nella sua cattolica romanità, nel suo tronco propriamente latino, o, meglio, latinocentrico ma irradiantesi in tutte le direzioni del mondo e della geografia terrestri, un latinocentrismo romano-papale, porporato-cardinalizio, ma impostato su dimensione mondiale, su un afflato apostolico transcodificato in senso conservatore, giustificazionistico nei riguardi del colonialismo e del coinvolgimento politico della Chiesa nel governo – non solo temporale – dell’ecumene; un’ecumene che nei suoi territori non cristiani, a propria volta, è “amata” come entità cattolicizzabile e quindi colonizzabile, da rendersi catecumena e da romanizzarsi, da battezzarsi, da convertire. Antici, insomma, esalta, da oratore-saggista convinto, il missionarismo come civilizzazione: una sorta, ancora, di concetto delle Grazie foscoliane nel quale la parte delle dèe è svolta dalla romanità cattolico-latina e dalla sua missione nel mondo. Il tentativo di riscrittura della storia avviene in chiave di moderno e aggiornato conservatorismo, di raffinato e plurilingue controriformismo, un controriformismo romantico da ex integrato napoleonide, in séguito maturato come intellettuale favorevole allo spiritualismo eudemonistico, e in questo senso fiducioso nei progressi VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
della tecnica, negli anni ’30 dell’Ottocento. Se rapportato, ancora una volta, al geniale nipote e alla famiglia Leopardi, considerata la costellazione matrimoniale marchigiana e la costellazione culturale e professionale romana Leopardi-Antici, lo zio Carlo, come lo chiama Giacomo, costituisce e rappresenta, in apparenza ed in prima ipotesi, per netta e quasi diametrale contrapposizione di pensiero, e per investitura “ufficiale”, addirittura istituzionale-pontificia, ad esprimere quel pensiero, il componente meno adatto alla comprensione del nipote ed al rapporto con la sua persona; ma, nel contempo, egli risulta, appunto, a ben vedere e senza vera contraddizione, il componente più adatto al dialogo con Giacomo sotto il profilo dell’aggiornamento letterario in sé considerato, dell’informazione, della rielaborazione e dell’ammodernamento sul piano propriamente librario, sul piano dei riferimenti alle pubblicazioni contemporanee – per così dire, dei riferimenti in presa diretta –, sul piano della freschezza delle notizie e dei ragguagli sulle esigenze del mercato, sugli “indici di gradimento” riguardo alle uscite di libri e riguardo ai loro contenuti, e oserei dire ai loro “titoli”, in àmbito geoculturale pontificio: il più tecnicamente e culturalmente provveduto ed aperto, il più antropologicamente idoneo ad accogliere la dimensione “viaggio” di Giacomo, e altresì la dimensione “spostamento” e contemplazione del mondo da ottica non recanatese, almeno ai suoi esordi extra-marchigiani, negli anni Venti, prima che, nel successivo decennio, Giacomo reclamasse ed assumesse in modo ormai del tutto indipendente da ogni figura parentale la dimensione della lontananza, irrevocabile, questa volta, e senza ritorno, da Recanati (non si dimentichino, per questo, durante il soggiorno romano 1822-1823, le lamentele di Giacomo sul disordine, materiale, ed anche umano ed organizzativo, della casa romana dello zio Carlo). I consigli del parente più anziano, non certo privi d’una loro personale intelligenza, acuta, ma espressiva del solo côté ideologico dell’intellettuale della Restaurazione, spaziano anche, come si è avuto modo di accennare, nell’àmbito degli autori antichi; e, come si vedrà, non sul “solo” Platone. Lo zio marchese, in fondo, non avrebbe torto nel volere in Giacomo un grande traduttore del filosofo greco; gli inizi classicistico-filologici, prodigiosamente precoci, del contino nipote, sembrerebbero destinare il «Monaldoade» (come scherzosamente lo chiama il fratello di Adelaide quando Giacomo è ancora un ragazzo di apparente fedeltà alla linea ideologica e antropologica di famiglia) alla carriera ecclesiastica; solo che quell’espressione «classicistico-filologici», in sé a rischio di corriva banalità etichettante (a sistemare gli aridi inizi, in attesa dell’«ermo colle», e poi di Silvia e di Nerina), è in realtà espressione sulla quale soffermarsi: «classicistico», in Giacomo, già comincia a voler realmente significare studio dei “classici” nella loro ottica, propriamente pagana, e filologicamente indagabile iuxta propria principia; e dove Giacomo si applica ad autori cristiani, l’ottica filologica, linguistica, l’ottica “interna” e peculiare allo studio della lingua classica in sé, non muta, si può dire, sotto alcun aspetto. Non era certo il “classicismo” di Monaldo a costituire un referente culturale che fosse in grado di dialogare con quello filologicamente consapevole di Giacomo (e neppure con il classicismo laico-“patriottico” di molti esponenti della Scuola Classica Romagnola, con i quali invece Giacomo è, nella grande maggioranza dei casi, in rapporti di stima, e di appartenenza culturale); è questa componente essenziale del “classicismo” di Giacomo,
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già in parte presente all’epoca degli esordi del giovane e destinata per un certo arco di tempo a svilupparsi, a sfuggire anche ad Antici; ed è per questa ragione, unita alla considerazione oggettiva dell’opportunità d’una traduzione di tutti i dialoghi platonici nell’epoca della revanche spiritualistica e delle riflessioni cosmologiche sulla scia europea della religiosità schleiermacheriana, a indurre Carlo Antici a proporre a Giacomo un’operazione editoriale di grandi proporzioni, che, se compiuta, avrebbe prevedibilmente goduto di largo riscontro, non soltanto italiano; e tale operazione era, in sé, del tutto in linea con i possibili svolgimenti in direzione ecclesiastico-prelatizia, ufficialmente pontificia e romana, della carriera di Giacomo. È ben noto l’esito, e sono ben note le ragioni di questo mancato appuntamento dello stesso Giacomo con un Platone di cui egli trova mirabile lo stile, e la cui lingua egli apprezza molto per il suo splendore di levità e di limpidezza, ma del quale egli giudica improponibili, e talvolta addirittura insopportabili alla lettura, le parti dedicate allo sviluppo dei veri e propri temi metafisici, speculativi, iperuranici; del quale, insomma, egli rifiuta esattamente la parte filosofica più qualificante, soprattutto in relazione alla fruizione spiritualistica che la cultura europea già ne sta effettuando. Ma l’errore di Antici lo compiranno anche molti posteri: «recentiores, non potiores», più recenti, ma non per questo migliori, o preferibili, rovesciando una celebre espressione, e un celebre titolo, di Giorgio Paquali. Resta più che mai vero che il Platone di Leopardi non è quello di Schleiermacher86. La cultura pagana, per Antici, è invece criticabile (Discorso, p. 47) sotto molti altri aspetti e profili; si veda, ad esempio, l’allusione al suicidio di Catone e di Bruto: «ed il secondo tutta palesa la nullità di quelle altere sentenze esclamando (come riferisce Plutarco) che la virtù è un nome vano… »; per il nipote (e per il Bruto della sua canzone), come è vana la virtù, è vana tutta l’esistenza, è indifferente la natura ed è ostile il cielo. Dalla p. 49 il Discorso del marchese prosegue, da parte sua, con una celebrazione diretta dei «Claustrali», una celebrazione aperta alla concreta citazione delle loro attività e della loro insostituibile funzione; Antici non risulta ancora acquisito a quella considerazione di favore che egli avrà per i ritrovati dell’organizzazione politico-economica, e tecnico-scientifica, nel corso degli anni Trenta: «Diciamolo pur francamente: Tra tanto moto di manifatture, tra tanto apparato di macchine, tra tante intraprese d’industria, e tanti ritrovati di Chimica, la miseria da per tutto inonda, e l’afflitta umanità più non riceve que’ soccorsi, che dai Claustrali porgevansi»; ma non risulta, per questo, sopravvalutato il contributo degli ordini femminili (p. 50): le suore, se non possono scrivere libri eruditi o attendere direttamente alle campagne, possono almeno educare agli «uffizj» di famiglia le fanciulle; e, «Se non si trasportano a Tunisi, e ad Algeri per redimere i schiavi cristiani, vi contribuiscono con le loro largizioni». Il marchese continua il suo discorso ricorrendo ancora agli argomenti antiilluministici (p. 51 e n. 17), contro il Voltaire dell’«Essai sur l’Histoire générale ec., T. III, Ch. XVII»; Antici ricorda le tesi dell’Abate Claude-François Nonnotte, tese a combattere la svalutazione del Cristianesimo (Erreurs de M. de Voltaire, in 2 voll., 1762, e Dictionnaire philosophique de la religion, in 4 voll., 1772; Voltaire rispose efficacemente con gli Éclaircissements historiques), in una considerazione complessa della polemica riguardante il Dictionnaire philosophique ribaltato in chiave filoreligiosa; nella considerazione di VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Antici entra, in opposizione ai termini settecenteschi della polemica, lo Chateaubriand del «Génie du Christianisme dernier, vol. L Chap. 3»; e i punti di riferimento del marchese si chiariscono, ancora una volta, come elementi culturali ottocenteschi, o primoottocenteschi, in tutto preferibili, anche in chiave antivoltairiana, alle espressioni, pur filoreligiose, del Settecento; e diciamo pure che tali punti di riferimento si chiariscono come appartenenti al romanticismo conservatore. Non meno polemica è la citazione di Gibbon (p. 52), autore dai velenosi effetti, secondo un Antici che ne ricorda la confessione a lord Sheffield (Mélanges, t. I) e l’attaccamento al paganesimo. La contrapposizione paganesimo-cristianesimo, e la contrapposizione delle due, relative culture (perché di questo si tratta, e nelle oggettive coordinate di allora tale confronto non è affatto relegabile nel limbo dell’arretratezza storica), si esplicita alle pp. 55-56, in un brano allocutivo nei riguardi di Roma come Città eterna, non come Caput mundi di tipologia culturale classico-pagana, un brano retoricamente e tonalmente inarcato alla celebrazione del cristianesimo come vero veicolo di civiltà e come spartiacque storico tra il mondo non illuminato dalla Rivelazione e il mondo che ha invece ricevuto la vera luce, sotto molti aspetti una luce di segno opposto a quello, secondo Antici, delle Lumières del XVIII secolo; il riconoscimento tributato alle «eccelse moli» ed ai «prodigi di ogni arte», insomma alle “mura”, ai “simulacri”, alle “colonne”, secondo il linguaggio del nipote che ne deplora la desolazione, vengono a chiarirsi, secondo quello che si è finora venuti constatando, come una concessione alle bellezze architettoniche oggettivamente presenti in Roma, come un segno di consapevolezza della tradizione classica, pur sempre viva in Italia; ma non per questo risulta inficiata la priorità qualitativa e storica, oltre che, ovviamente, religiosa, della Roma cristiana, verificata proprio nella sua differenza e negli elementi decisivi di novità che essa è capace di veicolare rispetto alla cultura pagana; e in queste affermazioni si rende definitivamente perspicua, proprio nella sede dell’Accademia romana (ma, appunto, «di Religione Cattolica»), la scelta operata da Antici a favore dei valori cristiano-cattolici, filomedioevali e “serenamente” teocratici, papali insomma, chateaubriandiani, bonaldiani, maistriani, primolamennaisiani, ed altresì stolberghiani e saileriani, halleriani ed hurteriani: O Roma, che nelle cose alla Divinità, e ai sommi destini dell’uomo spettanti, sei la Maestra di color, che sanno! Gloriati pure, che ne hai ben d’onde, gloriati non tanto delle eccelse moli, e dei prodigi di ogni arte, quanto dei Chiostri e de’ Claustrali, che nel tuo seno racchiudi. Felice come sei sotto pacifico Principato, non invidiare altrui la sanguinosa gloria delle armi, le azzardose imprese di commercio, gl’interminabili raffinamenti del lusso. Prosegui placidamente a governar la terra col soave scettro della Religione. Serbati cari al grand’uopo gl’instancabili banditori, e difensori delle Sante tue leggi. Riguarda i Claustrali con occhio tanto più affettuoso, quanto più i nemici della tua Spirituale Sovranità ne agognano l’eccidio. Quelli saranno sempre gl’impavidi precettori della Sapienza Evange[li]ca: e forse un giorno avverrà, che per opera loro, come già tanti popoli abrutiti[sic] dalla barbarie al colmo giunsero della civiltà, così tanti popoli dalla incredulità traviati, sul retto sentiero ritornino.
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Vi è, qui, un’esaltazione della missione di Roma (a conferma di quanto si è prima detto) non solo come centro della cattolicità e dell’ecumenismo, non solo come abbraccio apostolico-berniniano al mondo, ma come centro ed esempio, nella sua stessa essenza, d’un’indole urbana segnata dalla storia e perciò non chiamata a seguire (o non necessariamente) i ritmi della cronaca e dell’attualità, dell’effimero, del transeunte, della vicenda politica mutevole; e tale connotazione si afferma in nome d’una funzione, anche politica, eterna; anzi, d’una politica eterna: storia e politica della cristianità. Roma deve dare e lasciare un messaggio non mercantile né bancario, non industriale né affaristico-commerciale (si pensi al brano precedente, p. 49), non “attivo” nel senso moderno del termine, ma, anzi, essa deve rimanere una potenza episcopale e d’apostolato, di conquista missionaria del mondo; contro la linea storica, antiromanocentrica, di Lutero, della Riforma87, ma anche, e prima ancora, di Valla, contro l’illuminismo capace di veicolare un messaggio civile, Roma vale come modello di pólis religiosa cattolica, di vocazione eminentemente culturale, non votata ai traffici, di marcato carattere geosociale “terziario”, come oggi diremmo, e, altresì, di carattere ecclesiastico-ministeriale. Nei Vantaggi grandissimi che si hanno dagli Ordini Religiosi. Discorso del Marchese CARLO ANTICI Letto in Roma nell’Accademia di Religione Cattolica il di 26 giugno 1826 – Seconda edizione, Roma, Dalla Tipografia Forense, 1863, la novità interessante è rappresentata dalla nota iniziale degli editori (cfr. pp. 3-5): Non riuscirà certamente inopportuno il riprodurre, che noi facciamo con le stampe questo erudito e franco ragionamento, che il Marchese Carlo Antici, uomo di sempre cara ed onorata memoria, leggeva qui in Roma il dì 22 di giugno del 1826, e indi a poco pubblicava in Imola coi tipi del Galeati, ad onore e difesa di tutti insieme gli Ordini Religiosi. Fornito egli a dovizia dalla natura di sagace ingegno per iscoprire i mali dalle loro cagioni, e di squisitissimo senno per giudicare rettamente delle persone e delle cose, avvisò, essere stato sempre invariabil costume dei nemici della Chiesa e dello Stato il fare ogni opera per abbattere e sperdere gl’istituti Religiosi, che dell’una e dell’altro sono i più validi aiuti e sostegni. E già ne avea veduto i funesti effetti nelle prime orribili rivolture, che cominciate sul finire del secolo scorso nella Francia, di là poi si propagarono in Italia e in molte regioni di Europa (p. 3).
Ancora (pp. 3-4): «Non si tenne alle mosse il Marchese Antici; e zelantissimo, com’egli era, del pubblico bene, levò alto la voce con questa sua orazione recitata nell’Accademia di religione, mostrando essere intollerabile ingratitudine il pigliarsela contro una numerosa eletta di uomini, che considerati anche nei soli riguardi civili, sono in ogni aspetto proficui alle scienze, alle arti, all’agricoltura, alla pubblica istruzione, al sollievo della miseria e della infermità […]»; e alla p. 5 si allude allo zelo, di cui sempre [Antici] arse in vita per il bene della Religione e dello Stato. Quindi mentre noi intendiamo con questa nuova ristampa di fornire una breve sì, ma valida difesa alla buona causa, che in questi dì si vuol far tacere ed opprimere, ci gode
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l’animo per altra parte di risvegliar la memoria e ricordare ai buoni e savii cittadini gli esempi di un uomo, che fermissimo ne’ suoi principii politici, morali e religiosi, non ismentì mai se stesso, e accoppiando alla nobiltà del casato la generosità del cristiano, con la viva voce e coi molti ed utili suoi scritti sostenne a fronte di ognuno e senza verun umano riguardo le ragioni della giustizia e della verità.
Alla p. 5 della seconda edizione, a conferma della fervida attività che già dal 1827 contrassegnava le associazioni culturali, editoriali e librarie dello Stato pontificio (al di là del cliché storiografico invalso, che ne indicherebbe la “stagnazione” intellettuale in ogni campo del sapere), vi è un annuncio editoriale di Galeati: Venuta ormai meno l’Edizione dell’Opera intitolata L’Anno Santificato, ossia Raccolta di Pratiche Cristiane per tutto il corso dell’Anno e seguitando tuttavia le domande di molti, questi Tipografi Galeati e Comp. si sono determinati di darne una ristampa, aumentandola e migliorandola in molti luoghi. Per facilitarne sempre più l’esito se ne darà un volume ogni trimestre, pubblicandone il primo li 15. Dicembre prossimo venturo; il secondo li 15. Marzo, il terzo li 15. Giugno, e l’ultimo li 15. Settembre 1827. Il prezzo d’ogni volume tascabile, legato alla Bodoniana, non minore di pp. 33o sarà di Paoli 4/2. franco di porto per tutto lo Stato Pontificio. Tutto[=a] l’Opera stampata in buona carta e nitidi caratteri conterrà oltre a sessanta fra Novene e Tridui, ornati di circa settanta rami allusivi, di buona incisione, e divisi per trimestri. Vi saranno inseriti 365 ristretti delle Vite de’ Santi, e cioè una al giorno: più le analoghe Orazioni, e riflessioni morali. Ogni tomo conterrà molte altre orazioni solite praticarsi frequentemente, e specialmente l’Esercizio del Cristiano; il modo di ascoltar la santa Messa, di Confessarsi, e Comunicarsi, Meditazioni per tutti i giorni, i Salmi per lodare i SS. Nomi di Gesù e Maria, i Misteri del Rosario, Via Crucis ecc. Orazioni, inni ecc. / Le Associazioni si ricevono in Imola dagli stessi Galeati e Comp. Tipografi della Società de’ Calobibliofili.
Fra gli «ASSOCIATI», risultano nomi di Imola, di Pontelagoscuro, di Porto Fermo, di Pesaro, di Piacenza, di Parma, di Ravenna, di Recanati, di Rieti, di Ripatransone e uno solo di Roma. A Porto Fermo, ad esempio, figura associato il «Nobil Uomo Sig. Conte Paolo Giustiniani Governatore Doganale», a Pesaro, il «Canonico Antonio Colli Professore di Teologia» e l’«Avvocato Paolo Barilari»; a Ravenna, fra gli altri, l’«Emo e Revmo Principe Sig. Cardinale Agostino Rivarola Legato a latere […]». Fra gli associati, o abbonati di Recanati, non figura però Antici, né alcuno della famiglia Leopardi; vi sono, fra gli altri, monsignor don Filippo Grimaldi, Prevosto della Basilica e il Pro-Vic. Gen. D. Roberto Carradori dell’Oratorio; inoltre, le Eccellenze Principessa Donna Livia Carradori, D. Luigi Galli dell’Oratorio, D. Luigi Orlandi Rendo, Padre Pier Agostino Bonacci Agostiniano. Le critiche alla soppressione dei claustrali e all’acquisizione, da parte dei governi e in genere degli Stati, dei loro beni, con conseguente impoverimento di tutto un indotto popolare, semiclientelare-feudale, mostra alcuni innegabili tratti in comune con la ripresa criticamente sunteggiata che Antici ha a suo tempo effettuato dell’opera di Bonnet.
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7. Nel 1828 Antici pubblica, sulla base d’una versione tedesca del testo latino dei moniti di Massimiliano I al figlio, la traduzione in italiano degli «AVVERTIMENTI PATERNI DI MASSIMILIANO I. ELETTORE DI BAVIERA A FERDINANDO MARIA SUO FIGLIO TRADOTTI DAL MARCHESE CARLO ANTICI, ROMA, 1828 NELLA TIPOGRAFIA PEREGO-SALVIONI». La Prefazione del Traduttore è alle pp. 3-22; fin dall’inizio della stessa Prefazione, Antici afferma che l’intento è quello di dare all’Italia il volume «ottimo» di politica: come contro «Macchiavelli» scrisse un gran libro Federico II di Prussia (l’Antimachiavel), così saranno più agili e accattivanti, nella stessa direzione, questi Avvertimenti paterni di Massimilano I di Baviera al figlio. Massimiliano è il «difensore intrepido della fede Cattolica in Germania», proprio nell’infuriare dell’“eresia” protestante; perfino «il Re Sveco Gustavo» (p. 4), campione dei protestanti, dovette inchinarsi di fronte all’eroica azione politica di Massimiliano88. I suoi Avvertimenti (p. 5) sono stati ripubblicati da poco tempo da parte dell’abate Johann Oettl, che «Scelse […] all’uopo il decisivo momento, in cui il Principe ereditario di Baviera nel giorno 22 Aprile dell’anno spirato [1827], fu ammesso la prima volta alla Mensa Eucaristica al cospetto, e al tenero pianto della Real Famiglia, di tutta la Corte, e di un folto ruolo di astanti» (pp. 5-6). In nota (1), p. 5, Antici scrive: Consigliere Ecclesiastico nel Regno di Baviera, Educatore del Principe ereditario, e del Principe Ottone; Precettore di Religione di tutta la Prole Reale. Questo egregio soggetto, allievo di Monsignor Sailer (intorno al quale pubblicai alcune notizie nel tradurre una parte delle sue Omelie) esercita in oggi presso i Giovanetti Reali di Baviera quell’importantissimo ufficio, che già esercitò presso gli attuali Regnanti il venerando D. Giuseppe Sambuga, fatto da me conoscere con un Opuscolo l’anno scaduto. Ma Sambuga fu chiamato a Corte in età provetta, e soltanto come Precettore di Religione; il Sig. Abate Oettl in più giovane età assunse oltre a questo incarico, l’altro ancora di Educatore dei due Principi. Con qual felice modo Ei lo sostenga, ne fa bella mostra questa sua stampa.
Lo Oettl, «ristampando gli Avvertimenti nell’idioma Latino, in cui furon dettati, e accompagnandoli di pregevolissima versione alemanna, premise una Biografia di Massimiliano, che per vigorìa e bellezza di stile, per concetti vasti ed ingenui [nobili], per ingegnose, e delicate allusioni è degna dei maggiori encomi ed è al suo scopo oltremodo efficace» (p. 7). Massimiliano (l’autore di questi Avvertimenti) ha sùbito orientato la propria vita sulla convinta valorizzazione della fede cattolica; egli è stato, infatti, protagonista d’un’importante visita a Roma, dal Papa (p. 9). E Antici non manca di dichiarare le fonti sulle quali sono basate le sue notizie: il Novaes, citato in nota 2, della Storia dei Sommi Pontefici, vol. IX, p. 9, in cui v’è l’accenno alla presenza anche del fratello minore di Massimiliano, e, citato nella nota 3, p. 10, la Storia di Baviera di Westenrieder «2° t., p. 537, Monaco, 1785»89. Massimiliano era nato nel 1573, salì al trono nel 1598, venticinquenne perché, data la sua precocità (aveva compiuto gli studi all’Università di Ingolstadt «con prodigioso successo», p. 9), il padre Guglielmo V il Pio gli lasciò il trono; Antici, nel celebrare questo genere di monarchia, riafferma la propria concezione, perspicuamente teocratica e assolutistiVI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
ca, contro il pensiero antimonarchico, illuministico, contro ogni frutto del razionalismo sei-settecentesco e contro ogni frutto della rivoluzione francese (pp. 10-11): Ivi non si assegna come norma delle leggi la supposta volontà generale, ma l’eterna giustizia; ivi il potere si fa discendere da Dio, non conferire dagli uomini; ivi non si sottopone il Principe al giudizio dei sudditi, ma al Dominatore dei dominanti [«Rex regum et Dominus dominantium», secondo la già citata espressione di S. PAOLO, I Tim., VI, 15]; si vuole ivi il sovrano tutto intento al pubblico bene, non già come primo servitore dello Stato, ma come padre e Rettore supremo del popolo. Ei non parla al suo erede dei diritti dell’uomo, ma gli parla dei doveri che ha verso Dio, e verso i sudditi, giacché grande rischio si corre, troppo cicalando dei loro diritti con gli uomini, che ciascuno calpesti (come pur troppo orribilmente già avvenne) quelli di altrui; mentre parlando ad essi dei loro doveri, e su questi insistendo nel nome di Chi i trasgressori severamente punisce, si pongono in salvo i diritti di tutti.
Ancora (pp. 12-13): «Ei non separò quel che da Dio si congiunse, come o con iniquo, o con stolto, e sempre con funesto consiglio macchinarono alcuni fabbri di costituzioni. Ei riconobbe che Chiesa, e Stato sono le due indivisibili molle del Regno di Dio in terra […]. Perciò presti lo stato il suo appoggio al Magistero della Chiesa, che la Chiesa col suo Magistero manterrà in fiore quanto conserva lo Stato». Esempio prestigioso di questa impostazione politica è l’opera di Massimiliano per la moralizzazione dei costumi, per la disciplina cristiana, per l’inviolabilità del sacramento matrimoniale, né meno elogiabile è la censura esercitata contro i libri nuovi: «Ben lungi dal reprimere per essa lo sviluppo dello spirito umano, volle anzi impedire che nol soffogasse un diluvio di errori. Non nuoce nò [sic] al vero progresso dei lumi una ben regolata Censura; ma nuoce la libertà illimitata di stampa» (p. 14): affermazione, questa, particolarmente significativa da parte di un Antici che sarà, negli anni Quaranta, addetto alla censura nello stato pontificio. E le benemerenze di politica estera vanno di pari passo con quelle di politica interna; alle pp. 16-17, Massimiliano è ricordato quale «condottiero supremo della Lega Cattolica», come baluardo contro gli Svedesi e contro la Riforma: grazie alla sua abnegazione religiosa e politico-militare, egli riesce a far sì che metà della Germania rimanga cattolica. La moralizzazione è attuata, inoltre, nei riguardi della vita di corte; ma anche al di fuori di essa, Massimiliano si adopera in favore della difesa della morale e della fede, delle quali, con grande compiacimento storico di Antici, egli ha una concezione che li rende fattori tra loro abbinati e reciprocamente indistricabili; egli, addirittura, promuove in cinque città la costruzione di collegi per accogliere e per sostenere i discepoli di Sant’Ignazio e per fiancheggiare la diffusione della loro fede e del loro apostolato, in una linea di scoperto appoggio ai gesuiti, e sollecita con «efficacissime lettere» (p. 20, n. 4) a Gregorio XV l’approvazione del culto dello stesso Sant’Ignazio; si può in tal senso parlare di un vero filogesuitismo da parte di Massimiliano. Il marchese traduttore cita a questo proposito, sempre in quella nota, le Opere complete del «gigantesco Bartoli» presso Marietti, a Torino (cfr. soprattutto «Tom. II, libro 3, p. 184»). E due celebri contemporanei di Massimiliano, «benché Protestanti», «la intendevano come lui intorno la Società di Gesù»
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(p. 21, n. 4): Bacone, nel De Augmentis Scientiarum, Lib. I, scrive: «Quae nobilissima pars priscae disciplinae revocata est aliquatenus quasi postliminio in Jesuitarum collegiis; quorum cum intueor industriam solertiamque tam in doctrina excolenda, quam in moribus informandis, illud occurrit Agesilai de Pharnabazo: talis cum sis, utinam noster esses»; ed è citato anche il Grotius, Historia de rebus Belgicis, Lib. III, p. 194: «Mores inculpatos, et bonas artes induxerunt… Magna in vulgum auctoritas ob vitae sanctimonium, et quia non sumpta mercede juventus litteris sapientiaeque praeceptis imbuitur… Sapienter imperant, fideliter parent». Antici mostra, così, la propria idoneità culturale al compito di introdurre e di illustrare, da un’ottica integralmente cattolica, un’opera che si inserisce in un filone europeo apertamente filogesuitico; le citazioni da Bacone e da Grotius confermano la profondità e l’ampiezza degli studi e delle letture del marchese; non si tratta, com’è evidente, soltanto di letture recenti, moderne per la sua epoca, e quindi sette-ottocentesche, bensì di letture che abbracciano anche i secoli precedenti, come anche i secoli dell’antichità (le citazioni che sparsamente Antici viene facendo, soprattutto da Cicerone, da Seneca e da Tacito, sono in tal senso rivelatrici), e che riguardano in special modo (oltre alla filosofia ed alla teologia) la storia, la scienza politica, il rapporto tra concezione cristiana e concezione laica della Respublica; e a ulteriore conferma suona l’insistenza di p. 22 sui termini di «Cristiano sapiente» e di «Sapiente Cristiano», a ribadire il legame indissolubile tra i due capisaldi del pensiero anticiano. Sempre a p. 22 Antici sottolinea la derivazione delle sentenze che va a presentare (tradotte dal tedesco) «dalle Sacre carte» e dai «Classici antichi»; ma resta l’autentico, inconciliabile bivio tra «odierno filosofismo», ancora una volta demonizzato dal cólto Antici, e la tradizione biblico-classica (già nel delineare la formazione di Massimiliano, p. 8, ne ha indicato le letture di classici, sottolineando la sua «esultanza di cristiano lettore al ritrovare in Senofonte, in Cicerone, in Tacito analogie e anzi identità di concetti con il pensiero ed i precetti cristiani»; ed è la presenza di questi ultimi a “redimere”, non solo a livello religioso, ma anche sul piano propriamente intellettuale, e di proponibilità scientifica, le citazioni e i significati testuali, in Antici, della parola antica, degli excerpta che si possono trarre dalla classicità). I “classici” sono citabili, con onore, con utilità e con diletto, solo per quanto le loro massime, o i loro passi, siano recuperabili, talora fino alla possibilità di anticiparli, al cristianesimo e alla sua temperie morale; in tal senso, e non certo in direzione classicistica, si intendono le sue citazioni dal moralismo antico, dal repertorio, a questo scopo opportunamente scelto e selezionato, della saggezza quietistica e del suo armamentario gnomico-sentenzioso. A p. 22, nota 5, Antici ricorda uno studioso che può vantare una linea di continuità nel suo interesse per Massimiliano, quel barone KARL MARIA von ARETIN, bavarese anch’egli, del quale lo stesso marchese si occuperà ufficialmente nel 1843, pubblicando appunto un sunto della biografia del monarca cinqueseicentesco («Storia del Duca ed Elettore di Baviera Massimiliano I scritta in lingua alemanna dal Tenente Colonnello Barone C. M. DI ARETIN», ripresa dal marchese, per estratto, nel 1845), commisto di brani tradotti dal testo tedesco dello stesso barone e di interventi del traduttore effettuati con la finalità di glossa, di cerniera strutturale, di esegesi, di rincalzo critico, di commento storico, a beneficio del lettori90: VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
Il Baron di Aretin pubblicò in Monaco una raccolta di quei passi dei Classici antichi, coi quali si accordano tanti pensieri, e tante locuzioni di questi Avvertimenti. Volendo poi il Sig. Abate Oettl provarne ancora la conformità co’ Libri sacri, ha riuniti nell’Appendice a maggiore edificazione del suo regio Alunno i seguenti tratti: / Dalla Sapienza I cap. 1., e 6. / Dall’Ecclesiastico I Cap. 10, 32, 37. / Dal Profeta Isaìa il Cap. 32. / dall’Opera di S. Agostino Della Città di Dio il Cap. 2491.
Nell’ennesima operazione che lungo il corso della carriera intellettuale e pubblicistica di Antici si flette in una trasmissione “pedagogica” di concetti e di moniti a un erede a un trono, il testo, di agile struttura quantitativa, vede Massimiliano riaffermare, e in tal senso orientarne il figlio, la fedeltà «alla Santa, Apostolica Sede, ed al Vicario di Cristo» (p. III); e, a p. V, l’appello alla conservazione della tradizione di governo monarchica ed alle relative impostazioni etiche si fa esplicito: Siano lontani sempre da te quei superbi macchinatori di novità nelle cose divine, e le loro trame con poderoso braccio disperdi. Lo esige l’onore di Dio, il proprio tuo bene lo esige; poiché le religiose innovazioni infiammano il maltalento di molti a rovesciare gli ordinamenti Divini ed umani, le ecclesiastiche leggi, e civili; d’onde derivano segrete congreghe, congiure, rivolte, ed altri luttuosissimi effetti;
con queste premesse, l’imperativo etico consiste nell’essere pio e virtuoso, e non certo nel limitarsi ad apparirlo (non sfuggirà il senso della tradizione antimachiavelliana che opportunamente Antici ha richiamato a proposito dell’opera, ben successiva a quella di Massimiliano, redatta da Federico II il Grande di Prussia). Nel cap. 4, intitolato Rispetto alle Persone, e Sostanze Ecclesiastiche, l’invito è rivolto a lasciare intatti i beni della Chiesa, legittima depositaria di possessi materiali che le permettono di gestire con moderazione e con senso del controllo i costumi e le inclinazioni antropologiche che possono insorgere nel suo gregge; e l’indicazione si traduce in una pronuncia moralistica contro la crapula ed il lusso. Gli svolgimenti precedenti introducono con coerenza il motivo del Dominio sulle passioni (p. 10), intriso di considerazioni certo non nuove nella tradizione culturale europea, tali da situarsi a metà strada tra le declinazioni più scontate dello stoicismo latino e la gnomica cristiana; non privi d’interesse sono i rilievi da condurre sullo stile del traduttore germanista, uno stile simile a quello che sarà proprio della resa italiana dei Cenni di Ludwig, con il gruppo del predicato in fondo, in linea con i dettami e con le caratteristiche dell’ordo verborum d’una lingua flessiva; ad esempio: «Sinché la virtù coi crudi assalti delle riluttanti passioni contrasta, aspra e faticosa ci appare; depresse e sconfitte che le abbia, facile diviene ella, e gioconda». Questa, in netta prevalenza, l’abitudine di Antici quando egli traduce dal tedesco dei sovrani, dalla prosa delle teste coronate, operazione nella quale si rende necessario un registro linguistico, sintatticoespressivo e stilistico-tonale solenne; ma non è questa la caratteristica di Antici quando traduce dal tedesco di Hurter, che si esprime – nei moduli ampi e distesi, e in più tratti accattivanti, d’un autobiografismo scrittoriamente generoso – in un linguaggio più spigliato (non è fuor di luogo pensare ad alcune facilitazioni che deve in tal senso procurare la riduzione del testo operata dallo stesso Antici).
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Altre raccomandazioni di Massimiliano al figliuolo concernono la necessità d’intervento da parte del sovrano, o dell’amministrazione direttamente da lui controllata, nelle questioni giudiziarie, nel senso dell’attenzione da rivolgersi alle cause importanti e della vigilanza sulle lungaggini procedurali; il monarca bavarese stigmatizza, di fatto, le inveterate abitudini invalse nei processi, e si pone contro l’invecchiamento, nel tempo, delle liti, sia a livello civile, sia a livello penale; occorrono, insomma, per ovviare alla situazione, magistrati ben pagati, che non devono volere il prolungarsi della causa, secondo un modo di procedere che a loro fa comodo e che reca maggiore guadagno. Sulla scia, come si è detto, dell’antimachiavellismo che in Federico II ha avuto uno dei suoi approdi europei all’epoca più recenti, Antici riprende dal tedesco di Oettl, a sua volta traduzione dalla prosa latina di Massimiliano, precetti ciceroniani e senecani, appartenenti a tutta la tradizione moralistica classico-cristiana, riproposta a modello quasi per timore che possa andare perduta nella temperie etica coeva, nella quale, invece, essa è sentita come particolarmente necessaria. La stessa considerazione può esser fatta valere per i moniti contro l’eccessiva prodigalità, moniti che vanno comunque temperati con quell’esigenza di magnanima liberalità che sempre deve contrassegnare un monarca; altrettanto si può dire del Danno degli indugi (p. 23), che in parte si riallaccia alla segnalazione della lentezza delle cause nell’amministrazione della giustizia: si tratta d’un’indicazione di solerzia e di premura, di sollecitudine e di attenzione, che da precetto morale si estende, senza eccessiva difficoltà, a precetto valido per la solerzia politica; il rischio è il «Dum Romae consulitur… » liviano, e consiste, insomma, in una negligenza che può avvantaggiare una nemica Cartagine che, da parte sua, non indulge certo all’ozio e all’inoperosità. E Livio (p. 24) sembra riemergere anche a proposito del capitolo dedicato all’Odio della adulazione. Non può sicuramente sorprendere il finale, mirato, quasi in un crescendo, a stabilire l’esigenza di rinsaldare le basi dell’organizzazione e del potere interni; quattro, in particolare, sono le basi del potere: I: l’esercito; II: il tesoro; III: le rocche e le fortezze a baluardo non solo contro i nemici esterni, ma anche contro le rivolte interne (i bella intestina, per intendersi); IV: l’amore dei sudditi. Con questi ben consolidati fondamenti, le uniche guerre non solo ammissibili, ma addirittura necessarie, sono, per un Massimiliano che Antici mostra in tutto di condividere, le guerre di religione, o per la «Religione». Ed è con il concetto di guerre di religione che si conclude la serie di Avvertimenti paterni d’un monarca che, per il suo impegno nella Guerra dei Trent’anni, si è qualificato proprio come eroe d’un’esperienza “macrostorica” delle stesse guerre di religione, e per di più schierato, per Antici, dalla parte “giusta”, nelle vesti di paladino e di estensore del cattolicesimo in un conflitto e in una decisiva tornata politica che hanno riverberato le virtù bavaresi sul piano della risonanza europea, e precisamente nell’àmbito d’un confronto bellico e d’una contiguità politico-territoriale intertedeschi: uno dei quadri storici più idonei a far rifulgere la decantata e accreditata virtus Bavarica nel drammatico scontro – insieme frontale e variegatamente prismatico, e giocato su un pluripalcoscenico, nel grande teatro continentale – con gli infedeli europei, non musulmani ma luterani, protestanti, sul crinale geografico fra VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
due aree territoriali della Germania e sul crinale storico fra due potenziali orientamenti civili, culturali e spirituali della stessa Germania e dell’Europa. Dal latino di Maximilian von Bayern al tedesco moderno di Oettl, questa affermazione del valore delle guerre di religione viene ripresa, tradotta e resa leggibile al pubblico italiano da un marchese papalino, da un funzionario pontificio che scrive per conto di editori e di riviste di prevalente perimetro laziale-romano. La notorietà acquisita da Antici nei ranghi culturali dello Stato pontificio (e nell’àmbito degli scambi diplomatico-culturali con le sedi straniere) non redime del tutto, a ben vedere, la gittata nel complesso contenuta e non ingente del raggio pubblicistico degli scritti del marchese germanista; ma l’ispirazione filosofico-culturale, e la concezione storica che presiedono alle sue pagine e più ancora alle sue scelte editoriali, alle sue strategie di traduttore, di articolista e di saggista, nel caso del testo di Maximilian Wittelsbach – acquisitore alla corona bavarese del diadema del grandelettorato imperiale germanico – potrebbero realmente ricordare anche all’ideologo emunctae naris, con uno sforzo in più ma senza smodato sacrificio, l’impalcatura scenica dello Schiller drammaturgo della Dreißigjährigen Krieges: s’intende, l’altro volto, o la faccia rovesciata, in ammanto regale cattolico, dello stesso sogno, della stessa moneta irenico-pantedesca, ed europea, del duca di Friedland-Wallenstein (si ricordi, di Schiller, conosciuto e nominato da Antici come il drammaturgo che ha fatto calzare il «tragico coturno» alla «lingua tedesca», la seconda pièce della Trilogia del Wallenstein, Die Piccolomini – I Piccolomini –, dalla quale emerge la visione dello stesso Albrecht Eusebius, la sua complessa, ma anche ariosa concezione riequilibrante fra i varî fronti della guerra – ivi compresi i nemici protestanti, gli svedesi –; sarà addirittura Massimiliano Piccolomini, figlio di Ottavio, a magnificare i disegni irenici paneuropei del duca di Friedland).
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NOTE 1 Cfr. quanto sottolinea ENRICO GHIDETTI in Firenze 1827: Leopardi e Manzoni, in ID., Il poeta, la morte e la fanciulla e altri capitoli leopardiani, Napoli, Liguori («Letterature». Collana diretta da M. PALUMBO e A. SACCONE, fondata da GIANCARLO MAZZACURATI, n. 57), 2004, p. 116 e n. 29, a proposito della ricezione dei Promessi sposi a Roma («in Roma i confessori Gesuiti lo dànno a leggere alle loro penitenti», secondo una lettera di Monaldo a Giacomo del 23 giugno 1828): «Che i Promessi sposi fossero accolti nella Vandea italiana come un modello da seguire è testimoniato da una lettera del 26 gennaio 1828 di Carlo Antici a Monaldo». Si veda, inoltre, a p. 115, l’elogio di Manzoni da parte di Monaldo, contenuto nella dedicatoria agli Inni di Alessandro Manzoni milanese, Macerata, G. Mancini-Cortesi, 1828. Ma quando Firenze, oltre ad accogliere il già famoso Manzoni nel 1827, ospita anche Leopardi (che anzi vi è giunto già dal 21 giugno di quell’anno), lo zio Antici si preoccupa del contatto del nipote con l’ambiente dei liberali. Giustamente, Ghidetti ricorda (ivi, p. 107 e n. 12) due lettere, tratte dall’edizione Moroncini (Epistolario di Giacomo Leopardi. Nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative, a cura di FRANCESCO MORONCINI, IV, Firenze, Le Monnier, 1938, p. 266), rispettivamente del maggio e del 4 ottobre 1827: «Desidero di cuore ch’egli divenga dei nostri, e non si faccia adescare dalle insidie astutissime di coloro che reclutano i più bei talenti pei propri fini»; «Mi dicono che Firenze può chiamarsi anche oggi l’Atene d’Italia per il concorso colà di vari liberali ingegni, e per l’aura liberale che vi spira. Lo credo anch’io; e credo altresì che se un novello Paolo andasse a parlare a quell’Areopago di belli spiriti, appena vi troverebbe un Dionigi. Lagrimevole accecamento, ma così comune e così protervo, che noi non potiamo abbastanza affaticarci per preservare i nostri figli». Parole, queste, che, pur lasciando aperta la possibilità che vi sia stata una “svolta”, da parte del marchese Carlo Antici, fin dai primi anni 1830, verso una parziale assunzione di alcune suggestioni dell’eudemonismo borghese (per di più non certo verificate nello Stato Pontificio, che tra la Marca ed il Lazio accoglie senza interruzione il funzionario papalino, bensì importate dal nuovo spiritualismo napoletano e dagli esempi toscani), non lasciano comunque dubbi sulla fondamentale estraneità, ed anche sull’opposizione dello stesso Antici e del suo entourage socio-culturale (compreso quello recanatese-monaldesco) all’ambiente liberale fiorentino, l’ambiente Vieusseux-«Antologia». Se nel prosieguo degli anni 1830 gli sviluppi ideologico-artistici di Giacomo Leopardi, il nipote, confermeranno, come in effetti avverrà, la fondatezza dei timori dello zio, tale convalida sarà però dovuta ad una ben diversa e quasi antitetica opposizione ai liberali toscani: sarà un’opposizione, sostenuta e segnalata dall’ironia, all’ingenuità del loro liberalismo e delle loro prospettive, al loro moderatismo, alle loro illusioni, a seconda dei casi e delle personalità, religiosizzanti, paternalistiche, filantropico-pedagogiche; e si dica pure che in Leopardi s’esprime un’opposizione alla loro insufficiente strategia contro l’influenza austriaca, quell’influenza che in definitiva lo zio Carlo difende da convinto legittimista filopapale, e che invece rimane pur sempre per Giacomo un idolo polemico, un fronte di «granchi» contro il quale occorrerebbero più accorti, e quindi più efficaci e sempre auspicati avversari. 2 Di ALFONSO MUZZARELLI (1749-1813) cfr. inoltre Delle cause dei mali presenti e del timore de’ mali futuri e suoi rimedi avviso al popolo cristiano, Imola, per Ignazio Galeati, 1838; e non era mancato l’interesse per Ildebrando: Gregorio 7 Opuscolo del can.co ALFONSO conte MUZZARELLI, «In Fuligno», per Giov. Tomassini stampatore vescovile, 1789. Si ricordi anche La cattolica religione difesa contro i semidotti del secolo decimottavo coll’autorità de’ dotti di ogni secolo opera apologetica del conte MUZZARELLI, in Imola, tipi Galeati e comp., 1826 (si tratta quindi di opera postuma); non è certo senza significato che, in una Miscellanea della Biblioteca Urbaniana di Roma, l’opera compaia pubblicata in legatura editoriale («legato con», secondo una dizione catalogante che la accomuna alle «Miscellanee Legate» della Biblioteca Alessandrina, sempre a Roma) insieme ad una serie di opere che per evidenti tratti tematici comuni si richiamano fra loro: il Catechismo del senso comune del signor abate ROHRBACHER, a sua volta «legato con» il Discorso del marchese CARLO ANTICI pronunziato in Roma nell’Accademia di religione cattolica il dì 22 giugno 1826, anch’esso «legato con» Il Dorateo, dialogo di GIULIO OTTONELLI contro allo scrivere men cristiano, dove per incidenza si toccano alcune altre cose di simigliante guisa men pie: tutti in Imola, tipi Galeati e comp., 1826. È evidente che tali miscellanee, come anche le realtà aggreganti delle riviste, compongono unità tematiche nel complesso coerenti; e in esse possono figurare in modo pertinente scritti di Carlo Antici, in tal senso accomunato all’abate Rohrbacher, al Muzzarelli ed a Giulio Ottonelli, e componente d’una “costellazione” (formatasi per affinità di contenuti) di ecclesiologia e di apologetica cattolica. Di GIULIO OTTONELLI (1550-1620) si ricordi
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almeno la Negoziazione alla corte di Spagna, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1968. Rammentiamo che in La Cattolica Religione difesa contro i semidotti del secolo decimottavo coll’autorità de’ dotti di ogni secolo, cit., definita come «Opera apologetica del conte MUZZARELLI», con gli estremi bibliografici che ne abbiamo dato, nella Miscellanea della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele di Roma 34. 4. e. 7, si adottano, al fine di combattere e liquidare le analoghe credenze pagane, varie argomentazioni, e si citano varie opere ed autori; ad esempio, si ricorda il Commento latino di CALCIDIO PLATONICO al Timeo (e l’ambigua interpretazione della figure dei magi), citato nell’edizione di Meurs del 1617, p. 217 (pp. 5-6 della Miscellanea); si ricordano, altresì, il fenomeno delle tenebre profonde, senza eclissi, registrate perfino in Cina (lo studioso citato è ADRIEN GRELON) e l’articolata vivacità della prosa polemica di TERTULLIANO nel suo Apologeticum (pp. 7-9; sul tema, in quegli anni, si cfr. anche AMADIO ZANGARI, Dissertazione sulle tenebre avvenute alla morte di Gesù Cristo, Imola, Galeati, 1829). I fenomeni naturali, celesti, astronomici, i fatti prodigiosi si sono piuttosto verificati secondo i voleri del Dio cristiano; si rammenti MATTHAEUS, 24, 23-31: «23 Tunc si quis vobis dixerit: “Ecce hic Christus” aut: “Hic”, nolite credere. 24 Surgent enim pseudochristi et pseudoprophetae et dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi. 25 Ecce praedixi vobis. 26 Si ergo dixerint vobis: “Ecce in deserto est”, nolite exire; “Ecce in penetralibus”, nolite credere; 27 sicut enim fulgur exit ab oriente et paret usque in occidentem, ita erit adventus Filii hominis. 28 Ubicumque fuerit corpus, illuc congregabuntur aquilae. 29 Statim autem post tribulationem dierum illorum, sol obscurabitur, et luna non dabit lumen suum, et stellae cadent de caelo, et virtutes caelorum commovebuntur. 30 Et tunc parebit signum Filii hominis in caelo, et tunc plangent omnes tribus terrae et videbunt Filium hominis venientem in nubibus caeli cum virtute et gloria multa; 31 et mittet angelos suos cum tuba magna, et congregabunt electos eius a quattuor ventis, a summis caelorum usque ad terminos eorum». Sono altresì citati Giuseppe Flavio (pp. 10-12) e San Girolamo (pp. 11-12); Muzzarelli riconosce notevoli meriti a Giuseppe Flavio, e quando cita Tacito (pp. 12-14) non ne assume l’insinuazione antiebraica, il sospetto onolatrico presente in Historiae, lib. V; è una malignità còlta anche da Tertulliano; cfr. TERTULLIANUS, Apologeticum, XVI, 1-2: «1 Nam, ut et quidam, somniastis caput asininum esse deum nostrum. Hanc Cornelius Tacitus suspicionem eiusmodi inseruit. 2 Is enim in quinta Historiarum suarum bellum Iudaicum exorsus ab origine gentis etiam de ipsa tam origine quam de nomine et religione gentis quae voluit argumentatus, Iudaeos refert Aegypto expeditos sive, ut putavit, extorres vastis Arabiae, in locis aquarum egentissimis cum siti macerarentur, onagris, qui forte de pastu potum petituri aestimabantur, indicibus fontis usos ob eam gratiam consimilis bestiae superficiem consecrasse». Si avvererà, comunque, la Profezia di Matteo, 24, secondo la quale i Giudei devono rifugiarsi sui monti (MATTHAEUS, 24, 16: «tunc qui in Iudaea sunt, fugiant ad montes»). Con l’affermarsi del cristianesimo, tacciono gli oracoli: Apollo di Delfo non parla più, come hanno già a chiare lettere riconosciuto i pagani Lucano, Stazio e Giovenale. E non mancano riferimenti alla Teorgia di PORFIRIO ed alle lettere di Plinio il Giovane, a proposito delle quali si cita anche una risposta di Traiano; così avviene d’una lettera di Antonino il Pio, mentre la Storia Augusta di LAMPRIDIO attesta quanto Severo Alessandro rispettasse i cristiani. Dal canto suo, la abiuranda religione politeistica pagana non ha salvato i suoi cultori da sciagure d’ogni genere, naturali e storico-militari, né ha preservato i suoi stessi dèi, oggetto di rovina fin nelle stesse immagini che popolano i templi; non è colpa dei cristiani, innanzi tutto per ovvie ragioni d’impossibilità storica («nec iam illic Christianae sectae origo consederat»; «Nemo adhuc Romae deum verum adorabat»; «Sed nec Tuscia iam tunc atque Campania de Christianis querebantur»), una serie di eventi che vanno da disastrosi moti terracquei al castigo biblico di Sodoma e di Gomorra, all’occupazione del Campidoglio; si cfr. ancora la prosa apologetica latina di Tertulliano (TERTULLIANUS, Apologeticum, XL, 3-9): «[3] Oro vos, ante Tiberium, id est ante Christi adventum, quantae clades orbem et urbes ceciderunt! Legimus Hieran, Anaphen et Delon et Rhodon et Co insulas multis cum milibus hominum pessum abisse. [4] Memorat et Plato maiorem Asiae vel Africae terram Atlantico mari ereptam. Sed et mare Corinthium terrae motus ebibit, et vis undarum Lucaniam abscisam in Siciliae nomen relegavit. Haec utique non sine iniuria incolentium accidere potuerunt. [5] Ubi vero tunc, non dicam deorum vestrorum contemptores Christiani, sed ipsi dei vestri, cum totum orbem cataclysmus abolevit vel, ut Plato putavit, campestre solummodo? [6] Posteriores enim illos clade diluvii contestantur ipsae urbes, in quibus nati mortuique sunt, etiam quas condiderunt; neque enim alias hodiernum manerent nisi et ipsae postumae cladis illius. [7] Nondum Iudaeum ab Aegypto examen Palaestina susceperat, nec iam illic Christianae sectae origo consederat, cum regiones adfines eius, Sodoma et Gomorra, igneus imber exussit. Olet adhuc incendio terra, et si qua illic arborum poma, conantur
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oculis tenus, ceterum contacta cinerescunt. [8] Sed nec Tuscia iam tunc atque Campania de Christianis querebantur, cum Vulsinios de caelo, Pompeios de suo monte perfudit ignis. Nemo adhuc Romae deum verum adorabat, cum Hannibal apud Cannas per Romanos anulos caedes suas modio metiebatur. Omnes dei vestri ab omnibus colebantur, cum ipsum Capitolium Senones occupaverant. [9] Et bene quod, si quid adversi urbibus accidit, eaedem clades templorum quae et moenium fuerunt, ut iam hoc revincam non ab eis evenire, quia et ipsis evenit». Risulta evidente, da questi dati e dal riferimento a questi autori, la circolazione dei motivi apologetici del cristianesimo, talvolta (com’è appunto il caso della riedizione delle opere di Muzzarelli) opportunamente riproposti in chiave di rielaborazione polemica nel quadro della Restaurazione post-napoleonica e del recupero filosofico e storico-politico della religione nella concretezza della sua istituzione secolare cattolica. La produzione scritta di Antici s’inserisce, dunque, in un preciso e peraltro ampio contesto di pubblicazioni, di monografie, di riviste, di traduzioni da autori antichi e moderni, un contesto che, se ricomprende l’opera del singolo intellettuale nella propria, collettiva e generalizzata identità, non vieta per questo l’individuazione dei dati e delle peculiarità di spicco dello stesso intellettuale, delle sue più qualificanti doti o prerogative; nel caso di Antici, tali prerogative si esprimono soprattutto nel rigoroso aggiornamento sulla saggistica e sulla pubblicistica cattolica contemporanee, nell’attenzione alle nuove logiche del mercato librario e della relativa utenza, nella competenza di prima mano riguardo alle lingue ed alle letterature straniere, francese e tedesca, e nella fruizione, spesso angolata in una visuale polemica, della filosofia, del pensiero metafisico, storico ed etico che è sotteso alle tradizioni letterarie studiate. Ma pure il “Platone” notoriamente proposto al nipote Leopardi (addirittura in chiave di traduzione dell’Opera omnia – hoc erat in votis, da parte dello stesso zio –) rientra in modo coerente in questo spazio intellettuale di rilancio della mentalità, della ratio filosofica spiritualistica, un rilancio accompagnato da rinnovata considerazione della proponibilità dei volumi e degli autori in rapporto ai tempi ed al prevedibile gradimento dei destinatari. Di Muzzarelli cfr. anche, nella Miscellanea 315. 29 della Biblioteca Alessandrina di Roma, «MEMORIE DEL GIACOBINISMO ESTRATTE DALLE OPERE DI GIAN JACOPO ROUSSEAU DAL SIG. CONTE CANONICO ALFONSO MUZZARELLI / FERRARA 1800 / PER GLI SOCJ GAETANO BIANCHI, E NICCOLÒ NEGRI / STAMPATORI DEL SEMINARIO». Ce ne furono due stampe, a Assisi e a Venezia, durante la Repubblica Cisalpina. L’autore mette in campo tutti gli argomenti a disposizione per osteggiare Rousseau, soprattutto l’accusa di impostore, il tentativo di dimostrare falso il suo concetto di libertà e di uguaglianza, oltre che di giustizia (secondo una procedura che accomuna lo scritto dello stesso Muzzarelli alla libellistica cattolica) e la sottolineatura delle differenze con gli altri filosofi francesi del Settecento, in particolare illuministico; Voltaire, Diderot, D’Alembert, dunque, sono messi a confronto, a litigare filosoficamente tra di loro, e con Rousseau, insomma ad insultarsi reciprocamente (il dialogo fra illuministi, secondo l’intento polemico dell’autore, non può procedere se non per contrasti e per contraddizioni). 3 L’editore Claude-François Maradan si pone come benemerito nella pubblicazione di volumi appartenenti all’apologetica cattolica: si cfr. De l’accord de la philosophie avec la religion, par J. J. NAGEL, 1801; Dithyrambe sur l’immortalité de l’ame, dont il a été fait hommage a sa Sainteté Pie 7. par MAXIMIN ISNARD, Suivi d’une nouvelle édition revue, corrigée et augmentée d’un Discours de l’Auteur, sur le meme sujet, 1805; Les monumens religieux ou description critique et détaillée des monumens religieux, tableaux et statues des grands maítres, gravures sur pierre et sur métaux. Ouvrage fait pour les jeunes artistes, pour les voyageurs, et pour servir a l’éducation de la jeunesse par MADAME DE GENLIS, 1805. Altre opere di BONNET: Reponse aux principales questions qui peuvent être faites sur les États-Unis de l’Amerique, par un citoyen des États Units, 2 voll., à Lausanne, de l’Imprimérie d’Henri Vincent, 1795 Il nome dell’A. è in questo caso tratto da BARBIER, Dictionnaire des ouvrages anonymes, vol. IV, p. 308; Stato dell’Europa continentale riguardo all’Inghilterra dopo la vittoria d’Austerlitz, opera di JEAN ESPRIT BONNET accademico di Marsiglia, e dell’Accademia di Legislazione di Parigi, Napoli, presso Giuseppe Verriento, 1806. 4 Sull’Accademia Tiberina, sede culturale che più volte accolse gli scritti Antici, cfr. quanto ne scrive NADA FANTONI, in «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi (1832-1835), Firenze, Società Editrice Fiorentina («Centro di Studi “Aldo Palazzeschi”, Università degli Studi di Firenze. Facoltà di Lettere e Filosofia, Quaderni Aldo Palazzeschi, Nuova Serie», n. 9), 2004, p. 219 n. 2: «L’Accademia Tiberina fu fondata dall’abate Gaetano Celli e da un gruppo di laici nel 1813. Il suo scopo era coltivare gli studi storici su Roma e compilare una storia civile da Odoacre a Clemente XIV. Nel 1838 concretò meglio il suo indirizzo: coltivare le lettere, le scienze e gli studi riguardanti Roma e soprattutto promuovere l’agricoltura nell’Agro Romano. Curò un gran numero di pubblicazioni e Opuscoli». Il volume della Fantoni
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appare meritorio. Dopo tre ampi capitoli introduttivi (I: Origini e struttura di un “controgiornale”, pp. XVII-XXXVII; II: Forme e contenuti, pp. XXXIX-LXVI; III: Tra nemici dichiarati e amici insinceri. Verso l’inevitabile chiusura, pp. LXVII-CXV) vi è il Regesto degli articoli, completo fino al tomo XV, corredato dal relativo Indice e dalla Bibliografia. Ogni articolo è accompagnato da note di informazione sull’autore e da riferimenti bibliografici. A questo lavoro (approdo rielaborativo di tesi di dottorato svolta sotto la guida di Enrico Ghidetti) converrà rifarsi per ogni studio che incroci la rivista monaldesca. Sui moduli laudativi, tra panegiristica ed oraison funébre, invalsi nelle letterature europee, soprattutto italiana e francese, a partire dal secondo Cinquecento, cfr. il contributo che storicamente è provenuto da ERWIN PANOFSKY, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (I ed. La Nuova Italia: 1952), soprattutto in riferimento alla ricostruzione della vita e della carriera di grandi artisti figurativi (si ricordi, ad esempio, l’ambiente dei Carracci). 5 Sul cardinale Mattei, come papabile e come membro della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari (a conferma degli alti contatti e delle importanti relazioni che Antici ha sempre intrattenuto con le gerarchie e con le diplomazie, sia regie, sia ecclesiastico-curiali), cfr. JEAN LEFLON, La Restaurazione delle Chiese, III cap. di ID., Restaurazione e crisi liberale (1815-1846), nell’opera collettiva Storia della Chiesa (dall’originale Histoire de l’Église depuis les origins jusqu’à nos jours, Paris, Bloud & Gay Editeurs, 1949), opera enciclopedica iniziata da AUGUSTIN FLICHE e VICTOR MARTIN, quindi diretta da JEAN-BAPTISTE DUSELLE ed EUGÈNE JARRY, edizione italiana con aggiunte integrative a cura di GUERRINO PELLICCIA, II ed. it. a cura di CARMELO NASELLI, traduzione di GIUSEPPE QUERIN, 21 voll.-28 tt., Torino, Editrice SAIE, 1984 (rist. della II ed. 1977; I ed. it: 1975), XX (dall’originale La crise libérale. Restauration et révolutions), t. I, par. 126, e t. II, par. 313; in particolare, si veda t. II, p. 597: «Questo compito [la ripresa dei rapporti con le Chiese, italiane e non italiane, al di fuori dello Stato pontificio] tocca, sotto il controllo di Pio VII, al Segretario di Stato; lo assiste, fornendogli lumi e consigli, studiando con lui i molteplici problemi che si pongono, una Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari che il sommo pontefice ha creato a questo scopo nel 1814, e che succede, con compiti più estesi, alla Congregazione particolare per gli affari di Francia, istituita nel 1805 con compiti più limitati. Questa nuova congregazione è composta di otto cardinali, scelti fra i più dotti e illuminati (Della Somaglia, Di Pietro, Pacca, Brancadoro [si ricordi che Maria Anna, marchesa Brancadoro, è la madre di Donna Clelia Cenci Bolognetti, moglie di Vincenzo Antici, ed è quindi consuocera del marchese Carlo Antici], Litta, Gabrielli, Opizzoni, Mattei) e di cinque teologi consulenti; il generale dei Barnabiti, Fontana, assume le funzioni di segretario e redige i rapporti. Essa si riunisce ogni settimana e, quando vi sono all’ordine del giorno questioni di particolare importanza, è presieduta dal Papa in persona. La sua composizione, stabilita in assenza di Consalvi dal Pro-Segretario Pacca, risente delle preferenze personali di questo zelante; tuttavia Consalvi, al suo ritorno da Vienna, la mantiene tale e quale». Alessandro Mattei non è oggetto d’attenzione casuale da parte d’Antici; al di là del legame familiare, vi è una storia di contatti con Napoleone, di trattative con la Francia rivoluzionaria, che non lo vedono come figura defilata e sconosciuta; si cfr., per un precedente passaggio settecentesco della sua vicenda (peraltro, un precedente assai vicino al 1801, data d’uscita del volume di Bonnet), un brano d’una lettera di Bonaparte allo stesso cardinale Mattei dell’11 febbraio 1797 (Biblioteca Vallicelliana, Miscellanea Falzacappa Z. 36, del cui testo, manoscritto, abbiamo fruito in microfilm; riproduciamo fedelmente l’assetto grafico): «Vous verrez par l’imprimé ci-joint les raisons qui m’engage a rompre l’Armistice conclù entre la Republique Francoise et Sà Sainteté. Personne n’est plus convaincù du desir, qu’avoit la Republique Francoise de faire la paix, que le cardinal Busca, comme il avoue dans la lettre a Monseig. Albani, què à eté imprimée, et dont j’ai l’original dans les mains» (del cardinale Busca, si ricordi la controversia di cerimoniale che ha con il cardinale Tommaso Antici: cfr. la Lettera di dissenso sulla controversia di cerimoniale tra il cardinale Ignazio Busca e il cardinale Tommaso Antici, s. l., del 20 luglio 1790, manoscritto Vaticano latino 1243 a, s. XVIII, ff. 352-354;). Napoleone pone le condizioni, soprattutto quella di eliminare (“licenziare”) i regimi costituiti dopo l’Armistizio, e poi mostra il proprio piano politico, come si può constatare nella stessa lettera, in un segmento di testo, tracciato da altra mano: «Je veux bien encore preuver a l’Europe entiere, la moderation du Directoire executif de la Rep. Fran. en lui accordant cinque jours […]»; ma nella stessa Miscellanea Falzacappa Z. 36, foglio 57, le parole d’un anonimo legato o funzionario del Papa interpretano la difficoltà per le gerarchie ecclesiastiche (dal pontefice, cui qui si allude, ai suoi cardinali, quali appunto Mattei) di recepire le condizioni del «Directoire» e di Napoleone: «ni la Religion ni la bonne fois ne Lui permetteroient point de les accépter». Né mancano attestazioni sui veri sentimenti che si avevano in curia sulla Rivoluzione francese, e, altresì, sulle complesse vicende che attraversano i vari tentati-
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vi di accordo intercorsi nel tempo, su diverse materie, tra papato e Francia; si veda (sempre Vallicelliana, Miscellanea Falzacappa Z. 36) l’«ALLOCUTION DE NOTRE TRÉS SAINT PÈRE LE PAPE PIE VI DANS LE CONSISTOIRE SÉCRET, DU LUNDI 17. JUIN 1793. AU SUJET DE L’ASSASSINAT DE SA MAJESTÉ TRÈS CHRÉTIENNE, LUIS XVI, ROI DE FRANCE à Rome de l’Imprimérie de la Chambre Apostolique 1793» (l’origine è nel testo latino dell’allocuzione di Papa Pio VI: «ACTA SANCTISSIMI DOMINI NOSTRI PII DIVINA PROVIDENTIA PAPAE SEXTI IN CONSISTORIO SECRETO FERIA SECUNDA DIE XVII. JUNII MDCCXCIII. CAUSA NECIS ILLATAE LUDOVICO XVI. GALLIARUM REGI CHRISTIANISSIMO. Romae MDCCXCIII Ex Typographia Rev. Camerae Apostolicae»; il testo francese ne è la traduzione conforme). Ne estraiamo un passo dalla p. II: «La Convention National n’avoit ni droit ni Autorité pour la prononcer. En effet après avoir abrogé la Monarchie, le meilleur des Gouvernements (a), elle avoit tansporté toute la Puissance Publique au Peuple, qui ne se conduit ni par Raison ni par Conseil, ne se forme sur aucun point des idées juste, apprécie peu de choses par la Verité, et en évalue un grand nombre d’après l’Opinion […]»; e nella nota (a) è citato, primo d’una serie di autori a rinforzo documentario della tesi, BOSSUET, «Politique tirée de propres paroles de l’écriture sainte, livre second, article premier, tome 7. de ses oeuvres page 289. 290. 291. edit. Paris 1748»; il testo di Papa Braschi prosegue su questo tenore: «Proposition 7. = La Monarchie est la forme de gouvernement la plus commune, la plus ancienne, et aussi la plus naturelle. / Proposition 8. = Le gouvernement Monarchique est le meilleur. / Proposition 9. = De toutes les Monarchies la meilleure est la successive ou héréditaire»; si cerca quindi di sminuire la gravità delle accuse che furono rivolte alla corona (p. XIV): «On s’est efforcé, il est vrai, de charger ce Prince de plusieurs délits d’un ordre purement politique. Mais le principal reproche qu’on ait élevé contre lui pourtoit sur l’inaltérable fermeté avec laquelle il refusa d’approuver et de sanctionner le Décret de déportation des Prêtres, et sur la lettre qu’il écrivit à l’Évêque de Clermont pour lui annoncer qu’il étoit bien résolu de rétablir en France, dès qu’il les pourroit, le Culte Catholique. Tout cela ne suffit-il pas pour qu’on puisse croire et soutenir sans témérité, que Louis fut un Martyr? La Sentence de mort de Marie Stuart étoit également appuyée sur de prétendus crimes de machination et de Conjuration contre l’État, et le nom de la religion s’y trouvoit à peine entremêlé»; a p. XIX l’esecuzione del re trova il suo cristiano compenso nell’apoteosi celeste di Luigi XVI, ornata d’un «Diadème impérissable» e di «Lys immortels», di fronte ai gigli «flétris bientôt» che sanzionano il limitato prestigio della gloria terrena: «O Jour de triomphe pour Louis XVI., à qui Dieu a donné et la Patience dans les tribulations, et la Victoire au milieu de son Supplice! Nous avons la ferme confiance qu’il a hereusement échangé une couronne Royale toujours fragile, et de Lys qui se seroient flétris bientôt, contre cet autre Diadême impérissable que les Anges ont tissû de Lys immortels». Il testo latino dell’allocuzione concistoriale, Quare lacrymae, si trova in Archivio Segreto Vaticano, Epistolae ad Principes, 188, ff. 54-63; è stato edito da GUILLON, Collection des Brefs et instruction de N. S. P. le pape Pie VI, 2 voll., Traduction nouvelle par M. N. S. GUILLON, Paris, Leclerc, 1798, II, pp. 565-590; sempre nell’Archivio Segreto Varicano, si cfr. Bullarii Romani Continuatio Summorum Pontificum Clementis XIII, Clementis XIV, Pii VI, Pii VII, Leonis XII, Pii VIII, et Gregorii XVI constitutiones, litteras in forma brevis [in forma di «breve»], epistolas ad principes, viros et alios atque allocutiones complectens, quas collegit A. BARBERI, Prato, Aldina, 1835-1837 (nuova ed.: 9 voll., 19 tt., Graz, Akademische Verlaganstalt, 1963); in VI, t. III, pp. 2627-2637, si trova il testo francese; sulle fonti presenti nell’Archivio Segreto, cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française. La théologie et la politique de Saint-Siège devant la Révolution Française (1789-1799), Rome, École française de Rome («Collection de l’École française de Rome», n. 319), 2004, pp. 412-413 e relative note, in cui vi è anche una discussione sul discorso concistoriale di Pio VII (nel volume sono contenute notizie anche su molti cardinali, fra i quali i citati Brancadoro, Litta e Gabrielli). Nel fondo Falzacappa della Vallicelliana, 36. 343, è inoltre pubblicata manoscritta la Lettera ai signori Garreau e Saliceti Commissari francesi del Direttorio sul rifiuto di approvare i 64 articoli presentati al Papa e al Sacro Collegio, Firenze, 15 settembre 1796, e ancora nello stesso fondo (102-103) vi è la Nota del Ministro di Sua Santità monsignor GALLEFFI ai Commissari francesi in data di Firenze 9 settembre 1796 con la risposta del Signor Cav. AZARA Plenipotenziario di S. Maestà Cattolica al Ministro Galeffi in data di Firenze 21 settembre 1796 (sul plenipotenziario spagnolo Azara si veda la lettera di PIO VI a Giovanni Bottoni del 14 maggio 1796 da Roma – dalla sede di San Pietro –, presente nella Nazionale di Roma Vittorio Emanuele, Mss. del Fondo Gesuitico, 107, ms. 11, p. 112 della miscellanea: Azara, ministro del re di Spagna, si è proposto come mediatore fra la Sede Apostolica e la repubblica francese, dato che Pio VI non riesce a trovare un soggetto del Ceto Nobile che accetti di «assumere la Rappresentanza presso alli comandanti francesi»). Si legga un passo della lettera di Galleffi
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ai commissari francesi, sempre Garreau e Saliceti, in questo caso non esplicitamente nominati (su Galleffi, si ricordi ROLANDO DAMIANI, Vita di Leopardi, cit., pp. 321 ss,. in particolare su tutti gli ostacoli, le eccezioni, i sospetti d’eterodossia ideologica e religiosa che il Camerlengo mette in campo contro Giacomo e contro l’azione dello stesso cardinale Della Somaglia): «Il desiderio del Santo Padre, di conchiudere un Trattato deffinitivo [sic], e reciprocamente vantaggioso colla repubblica francese sotto la mediazione di Sua Maestà il Re di Spagna, è stato confermato al Mondo intiero con tanti fatti, che sarebbe impossibile, di metterlo più in dubbio». La lettera prosegue ricordando la «Fede di Sua Santità nell’adempiere le condizioni, benché gravissime, dell’Armistizio, la spedizione di un ministro Plenipotenziario a Parigi, ed una pari spedizione di un Ministro Plenipotenziario a Firenze, per trattarvi sotto li medesimi Auspicj di Sua Maestà Cattolica, e colla mediazione di Sua Eccellenza il Sig.r Cavaliere Azara suo Ministro appresso alla Santa Sede». L’attività di Azara è in quegli anni indubbiamente intensa; si può in tal senso citare, presente, ancora, nella Nazionale Vittorio Emanuele, Fondo Gesuitico 195. 128, la Lettre du Chev. Azara à L’Ambassadeur Bonaparte, Rome, 29. Decembre 1797 (in cui si rivolge all’«Ambassadeur», tra l’altro, il seguente avvertimento: «je voi Le Peuple qui n’est pas tranquille encore, et qu’il y a des mouvemens a Trastevere» – trascriviamo fedelmente ogni aspetto grafico del francese scritto di Azara –). Ma già da precedenti lettere è possibile seguire l’evoluzione della trattativa; vi era stata la «Risposta data in nome di Sua Santità alli Commissari Francesi il giorno 14. Settembre 1796 sottoscritta ancora dal Sig. Cavaliere Azara Ministro di Sua Maestà Cattolica». A loro volta, i Commissari francesi rispondono che il sig. Azara non ha le credenziali del Papa e non può quindi essere accreditato a trattare con loro; essi considerano dunque senza risposta l’offerta di pace rivolta al Papa dal Direttorio Esecutivo Francese. Vi fanno séguito la «Nota di Risposta del Ministro di Sua Santità Monsignor Caleppi alli Commissari Francesi in data del dì 20. Settembre 1796», la «Nota del ministro di Sua Santità Monsignor Caleppi al Sig.r Cavalier D’Azara Ministro di Sua Maestà cattolica in data delli 20. 7bre 1796» e la «Nota di Risposta del Sig.r Cavaliere Azara Ministro Plenipotenziario di Sua Maestà Cattolica al ministro di Sua Santità Monsignor Caleppi in data di Firenze il dì 21. 7bre 1796». Viene riportato (sempre nel fondo della Vallicelliana) il Testamento di Luigi XVI, Re di Francia, pubblicato nella «Gazette Française. Nouvelles Politiques Nationales & Étrangères», Stampata in Parigi ai 22. Gennaro 1793». Non mancano Riflessioni anonime manoscritte del 1793 (anch’esse fruibili in microfilm), composte a Milano, sulla Francia e il suo rapporto con Roma e con il Papa, dove si parla anche di Hugon de Bassville. E si può altresì leggere una serie di riflessioni sui vescovi francesi, e in genere sui prelati d’Oltralpe, categoria che costituisce un grande problema, poiché annovera gli «Intrusi», personalità di religiosi che hanno prima prestato il giuramento civico in Francia, e che in séguito vanno cercando fortuna a Roma, dopo una serie di abiure e di pratiche penitenziali che quasi giungono alla mortificazione corporale. Si tratta dei vescovi d’Orléans, d’Avignone, di Nizza, di Tolosa, di Tolone, e di altri ancora. Sulle percentuali di preti «giurati» e di preti «refrattari» in Francia nella prima fase della Rivoluzione, cfr. LUIGI MEZZADRI, La Rivoluzione francese e la Chiesa, cit., pp. 97-101. Ma vi è anche, in Vallicelliana, una scrittura che allude al Trattato segreto fra Papa e Francia: il Papa dovrà pagare «novecentomila lire» fino a ottobre, finché non ci sarà la pace con l’Imperatore e con il Re di Napoli. Cederà Benevento e altri ducati limitrofi, e cederà alla Francia le Legazioni di Ferrara e di Bologna, con le loro dipendenze, e non permetterà a legni e vascelli di nemici della Repubblica di entrare o di soggiornare nei suoi porti. Come risulta evidente dalla stessa abbondanza e dal significato delle fonti bibliotecario-documentarie ancora presenti nella realtà culturale di Roma, della sede del pontificato (una Roma nella quale, negli anni che stiamo trattando, il marchese di Recanati si era da poco definitivamente trasferito con la famiglia), la scelta d’un testo e d’una trattazione d’argomenti come quelli di Bonnet concentra l’attenzione di Carlo Antici su una tematica, qual è quella delle strutture materiali e morali dello Stato della Chiesa, che gode più che mai, proprio in quegli anni, di una singolare attenzione, dati i recentissimi precedenti rappresentati dall’intenso e in buona parte conflittuale rapporto tra la Francia rivoluzionaria e la Chiesa d’Oltralpe, oltre che tra la stessa Francia e la Chiesa di Roma. Tradurre, a Roma e presso un editore romano, dalla lingua francese, un lavoro pubblicato presso un editore transalpino benemerito nella diffusione della saggistica cattolica, come il citato Claude-François Maradan, e scritto da un dotto francese come Jean Esprit Bonnet, al di là delle convinzioni che rendono sodali autore e traduttore-riduttore, implica l’assunzione d’una problematica di profondo rilievo concettuale e qualitativo, nello Stato pontificio dell’epoca, ed implica, altresì, l’immissione d’una preparazione culturale dalle spiccate prerogative, com’è senza dubbio quella anticiana, nella linea, qui ai suoi inizi, d’un preciso ed ampio riscontro saggistico, d’una vivace adesione di reazionario papalino alla propria contemporaneità: un’adesione dichiaratamente, e in fondo probamente
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esposta ai consensi ed ai dissensi cui va incontro una visione “di parte”, una visione culturale e ideologica schierata. Per un ulteriore percorso sulle polemiche e sulla battaglia, anche condotta tramite scritti, negli ultimi anni di Pio VI (un’epoca comunque decisiva nel periodo di formazione dell’uomo, oltre che del nobile e dell’intellettuale Antici), cfr. gli Annali cattolici che servono per conoscere le pretenzioni affacciate già dal Direttorio di Francia contro il Sommo Pontefice Pio VI, s. l., s. d. (ma ca. 1800), presenti ancora nella Vallicelliana di Roma (S. Borr. F. VI. 173 – 2 –). 6 Si veda l’opuscoletto intitolato «Orazione per il faustissimo ritorno in Roma di sua santità nostro Signore Papa Pio VII P. O. M.», «Roma, nella stamperia De Romanis MDCCCXIV Con licenza de’ Superiori», con dedica dell’avvocato DOMENICO CHIODI «A Sua Altezza la signora Principessa Dietrichstein nata contessa Schouvaloff» (la pubblicazione è stampata negli Opuscoli dell’Accademia Tiberina presenti nella Biblioteca Vallicelliana). A pp. 4-5 della dedica vengono ricordate tre solenni adunanze dell’Accademia Tiberina, e alle pp. 9-10 vi è una delle più prevedibili pronunce antinordiche ed antiluterane, espresse in nome del cattolicesimo latino; si rende, qui, evidente la differenza che separa il marchese Antici, di formazione tedesco-bavarese, e germanista traduttore, dagli standard ideologicointellettuali che caratterizzano la maggior parte dei membri dell’ambiente accademico romano da lui attivamente frequentato: «Le antiche eresie del Settentrione, non mai del tutto spente; le più recenti, che si coprivano sotto l’aspetto del rigore, e della penitenza, e che sordamente quà [sic], e là, ivan seducendo, fatta lega con la protervia filosofica, e con una maniera d’uomini, che pescavan nel torbido, eccitarono in una Nazione illustre, e disgraziata [la Francia, qui concepita in quella duplice essenza di grande nazione cristiana e di sede d’irraggiamento della Rivoluzione, che, come si è constatato, anche Antici ha còlto profondamente] una rivoluzione di governo, di massime, e di costumi, che seco trasse la rivoluzione di tutta l’Europa, e fu la più fiera, e spaventevol cosa, che mai sia stata e veduta, e sofferta. Questa rivoluzione andò a rovesciarsi contro la Chiesa, ed il Sommo Pastore fu strappato dal suo ovile nell’età cadente, e trascinato dopo lunghe peregrinazioni, e penose in contrada d’esiglio. Gli altri Pastori scacciati in parte pur d’essi dalle lor greggie, in parte non potevano adoprare né verga, né voce per richiamare le traviate agnelle; altri, quali addormentate sentinelle facevan passare nel campo ogni razza di lupo vorace. Il Sacerdozio, malgrado tanti valorosi eroi, che a spese del proprio sangue ne riaccattarono il decoro in quello stesso paese disgraziato ove fu più che altrove vilipeso; il sacerdozio, diceva, era schernito, e vituperato presso il Mondo corrotto, che la santità del ministero con la profanazione del ministero confondeva. I popoli freneticando per un’effimera Repubblica, e più ideale di quella che immaginò Platone, vivevano inebriati dalle idee di una sfrenata libertà, e nel disprezzo della Legge di Dio, e nel disordine di una vita licenziosa. I troni o caduti, o vacillanti più per occulti raggiri politici, che per guerra aperta. In somma tutto era orrore, tutto confusione; come fortunoso mare, su cui s’addensano le tenebre, e lottano i venti infuriati, e s’aggroppano, e s’accavallano marosi a marosi, procelle a procelle». Alle pp. 11-13 viene espressa una difesa della dolcezza e insieme dell’abilità opportunistica dell’operato di Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaramonti). Alle pp. 14-15 è citato il profeta Daniele, e Napoleone (non nominato) viene paragonato ad Antioco (Carlo Antici, come si è detto, non avrebbe sottoscritto una così diretta pronuncia antibonapartiana): la profezia si avvererà e vi sarà la riscossa d’Israele. Alla p. 15 vi è un elogio della virtù cardinale della «fortezza», nuovo baluardo contro l’attacco di Napoleone, in quanto il Bonaparte aveva rifiutato l’accordo con la Chiesa; a p. 16 si riferisce che il cardinale Pacca viene nominato, arrestato e sottratto alle catene da Pio VII. Il tono usato è quello del ritorno, del grande Reditus, accompagnato da un’Apocalisse, da una punizione storica degli empi, e da un trionfo biblico-dantesco della parte dei “giusti”. Ma già in epoca precedente, settecentesca, un’epoca, come quella di Papa Benedetto XIV, in cui Roma era impegnata in una polemica politico-culturale, non ancora in uno scontro con le tendenze del laicismo, si rivendicava la legittimità e l’intangibile origine divina del patrimonio di Pietro; si cfr. una ripresa delle parole di Lambertini nel Ragionamento pubblicato nel 1804 (data anch’essa vicina alla composizione del libro di Bonnet) dal cardinale Bertazzoli (Biblioteca Apostolica Vaticana, Miscellanea «Raccolta Generale Classici Italiani. IV. 540»): ADUNANZA / TENUTA DAGLI ARCADI / NELLA SALA DEL SERBATOIO / AL XXV. DI ECATOMBEONE / OLIMPIADE DCL. ANNO II. / IN ONORE DÈ SS. APOSTOLI / PIETRO E PAOLO / PROTETTORI DI ROMA / ROMA MDCCCIV / DAI TORCHJ DEL SALVIUCCI / CON APPROVAZIONE DI SUA EMINENZA REVERENDISSIMA IL SIG. CARDINALE FRANCESCO BERTAZZOLI PREFETTO DELLA S. CONGREGAZIONE DEGLI STUDII FRA GLI ARCADI PROBINO ARGIRIO RAGIONAMENTO (pp. 5-19). Vi si cita (p. 5) Benedetto XIV: «BENEDICTUS pp. XIV. DE SYNODO DIOECESANA TOM. I. CAP. I: “[…] non videtur posse sustineri illorum opinio, qui asseruerunt, praefatam annexionem ita esse de jure humano, ut possit ab Ecclesia dis-
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solvi, et una ab altera separari: etenim posito, quod Petrus suam Sedem stabiliter Romae collocaverit, et Romanam regens Ecclesiam obierit, nullus, qui Episcopus Romanus non sit, potest dici verus Petri Successor, ac propterea nunquam ad eum referri possunt verba Christi Domini. [:] Pasce oves meas. Joan: 21; quibus Universalis Ecclesiae curam Petro, ejusque Successoribus commisit”». Lo ius divinum, insomma, rimane insostituibile e non può soffrire incroci con lo ius humanum, per usare i termini del pur “moderato” Lambertini. Interessante dal punto di vista del comportamento verso i religiosi in Francia un documento presente nel Fondo Gesuiti della Nazionale Vittorio Emanuele di Roma, concernente un’esperienza persecutoria, nei riguardi appunto d’un corpo religioso femminile, che ha sofferto di forzate peregrinazioni, fino a raggiungere, come tappe della propria odissea materiale e spirituale, sedi dislocate in territorio belga ed in territorio olandese: Histoire de la persécution et de l’émigration des Religieuses de la Providence a dater du mois de Juillet 1789 jusqu’à leur rentrée dans leur maison en 1802 (in Ges. 57, allegato fuori testo, si dice: «Questo manoscritto è stato pubblicato negli “Annales de Saint Louis des Français” anno 1899, dal rev~.mo D. Enrico, marchese de Surrel de Saint Julien, Missionario Apostolico» – indicazione corrispondente a realtà –; l’allegato c. 64 allude a «Des raisons impérieuses» che «retiennent ce respectable Prelat, éloigné de la France»;). Nel testo (citiamo sempre dal manoscritto, a documentarne direttamente lo stato originario di resoconto sofferto, non privo di formale incompiutezza), si deplora l’«infortunée patrie» e si auspica, con la scrittura di queste memorie, di questa Histoire, un contributo «à la restauration des moeurs et de la religion». Nell’allegato c. 49 si allude alla «douce Providence», e, di contro, alla superbia, all’orgoglio ideologico dei laici, alla «vanité», al «ridicule de leur suffisance […] ma je demande a cet incredule; [qui vi è interruzione del testo]». La dedica è rivolta «À sa Grandeur Monseigneur Jauffret Evêque de Metz»; alla fine della dedica: «Monseigneur / De votre Grandeur / La plus humble, la plus soumise, la plus […] ». La Préface è alle pp. 3-5. Tra le finalità di questa esposizione (pp. 4-5 del ms.) vi è il desiderio di corrispondere alla curiosità d’un giovane uditorio, assetato di informazioni sul recente, avventuroso periodo degli sconvolgimenti rivoluzionari: le memorie vanno messe per scritto anche «Pour contenter la pieuse curiosité des nos elèves, qui desirent connître plus particulierment comment la divine providence leur a conservés des institutions […]» che hanno potuto salvarsi grazie alla loro intrinseca validità spirituale. Il “miracoloso” esito felice delle traversie di queste «consoeurs» religiose ridonda a lode della bontà di Dio, ed è principalmente per questo motivo che tale esito va perpetuato nel ricordo (p. 5 ms.): «Pour perpetuer de l’association des religieuses de Ste Sophie, dite de la Providence, un souvenir éternel, des misericordes de Dieu sur une maison de l’institut qui pendant plusieurs années a voguée au milieu des flots et de tempêtes, qui souvent s’est vue sur le point d’être submergée […]»; si tratta, insomma, di «[…] faire connaître […] de plus en plus la divine providence qui est adorable et inéfable […] et qui n’abandonne jamais ceux qui se confient en elle». A p. 58 ci si riferisce ancora all’«orgueilleux» non credente, e si parla di «blasphemateurs» che potrebbero «rougir» a sentire determinati racconti degli avvenimenti rivoluzionari. Ma c’è anche la scansione cronistorica (p. 59): «Au commencement de Novembre 1792», le «armées autrichiennes obligèrent les émigrés d’abandonner le brabant [sic]»; sempre a p. 59 ms. si parla delle «consoeurs de Bruxelles». A p. 61 ms. si ricorda che i rivoluzionari le condussero persino a Rotterdam; a p. 128, con un’immagine che attinge a un repertorio secolare di geografia interreligiosa, si dice con retrospettivo sospiro che «Babylon» è stata ricondotta «à Jerusalem». A p. 168 ancora si rammenta il «rougir» contro i «libertins», e si ricorda che «Augustin penitent expia una jeunesse criminale ou il fut une malhereuse victime du respect humaine […]». Nel finale, a p. 170, vi è una prevedibile deprecatio riguardo alla propria epoca: «siecle [sic] de tenebres, siecle trois fois perdus» (il secolo contemporaneo alle consoeurs, il «disneuvieme» [sic], concepito secondo gli esordi, e tale che a loro appare sotto l’angolazione della perdurante empietà, non già di quella che sarà la Restaurazione antirivoluzionaria ed antiilluministica). Il recupero delle tradizioni e delle strutture fondate sulla pietà e sulla devozione cattolica significa anche un rifiorire, intensissimo, dei luoghi di segregazione e di congregazione d’ispirazione mistica, di mortificazione e di controllo della corporalità e della morale, di programmatica volontà astensivo-rinunciataria; e tale riemergere delle congregazioni è riscontrabile soprattutto nell’àmbito delle associazioni religiose femminili: «Conservate dall’aumento di coloro che fanno parte di congregazioni religiose, dal moltiplicarsi dei collegi e della proliferazione degli ordini terziari, queste pratiche, emerse da un lontano passato, sono in continua ascesa durante il XIX secolo. Un severo ascetismo sopravvive fino all’inizio del Secondo Impero, in accordo con il persistente rigorismo. Una violenza cui corrisponde la raffigurazione romantica del Cristo al Golgota, dalle cui ferite gli incisori devoti si compiacciono di far zampillare terribili fiotti di sangue. A partire dalla metà del secolo le mortificazioni più cruente tendono a scomparire, man mano che
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la pratica dell’automortificazione si diffonde fra le donne. La Chiesa, che conta sulle donne per portare a buon fine la propria azione di recupero, ha l’obbligo del parere medico che dà massimo risalto alla fragilità delle figlie di Maria. Mille piccole mortificazioni, più consone al ritmo della vita femminile, si sostituiscono al sangue e al dolore fisico. In tal modo la rinuncia al proprio io si interiorizza nel quotidiano e s’inaugura quel conto minuzioso dei piccoli sacrifici» (cfr. ALAIN CORBIN, Le minacce del corpo, paragr. di Il segreto dell’individuo, nel capitolo dello stesso autore Dietro le quinte, nell’opera collettiva La vita privata. L’Ottocento, a cura di PHILIPPE ARIÈS e di GEORGES DUBY, traduzione dall’originale Histoire de la vie privée. De la Révolution à la Grande Guerre – Paris, Éditions du Seuil, 1986 –, traduzione di FAUSTA CATALDI VILLARI, MARIA GARIN, STEFANO NERI, FRANCO SALVATORELLI, Bari, Laterza, 1988, p. 345); riguardo a una vicenda esemplare della sorte, ma anche della piena ripresa storica e spirituale di una congregazione religiosa femminile in quegli anni, cfr. PAOLA AROSIOROBERTO SANI (a cura di), Sulle orme di Vincenzo de’ Paoli: Jeanne-Antide Thouret e le Suore della Carità dalla Francia rivoluzionaria alla Napoli della restaurazione, 1765-1826, Milano, Vita e pensiero, 2001. 7 Si prenda ad esempio De Bonald: cfr. JACQUES ALIBERT, Le triangle d’or d’une sociétè catholique. Louis De Bonald Théoricien de la Contre-Révolution, Préface de JEAN DE BONALD, Paris, Pierre Téqui éditeur, 2002. È già significativo che occorra uno studioso della formazione di Jacques Alibert («docteur en droit, diplômé de l’École libre des sciences politiques», «membre de l’Académie des sciences d’outremer»), specialista di diritto pubblico, dell’organizzazione del potere pubblico e dell’Amministrazione dello Stato, per poter studiare l’opera di Louis De Bonald nei suoi significati religiosi, filosofici, morali e politici (lo studioso ha già all’attivo, nel 1990, Joseph de Maistre, État et Religion, presso lo stesso editore). A p. 16 lo stesso studioso enumera i possibili «triangoli» nei quali si scandisce la vision du monde di De Bonald: «cause, moyen, effet – pouvoir, ministre, sujet – roi, noblesse, peuple», in una «société religieuse», «publique» e «domestique», e in una Trinitérité che annovera «Dieu, verbe, monde – Jésus, Eglise, fidèles – Divinité, pouvoir, société – monarchie, noblesse, peuple – chef, officiers, soldats – père, mère, enfants». Alle pp. 34-35, l’espressione della «quintessence de l’esprit théocratique. “La société n’est que la religion servie par la politique pour le bonheur même temporel de l’homme. – C’est en homme religieux qu’il fait considérer la politique, comme c’est en homme public, en homme d’Etat qu’il faut considérer la religion. On les a beaucoup trop séparés et il faut désormais le réunir sans les confondre”»; non mancano, certo, le preoccupazioni pauperistiche contro il mondo dell’affarismo e contro, in genere, il nuovo mondo borghese: De Bonald è aperto ai nuovi studi, ma è ideologicamente contrario alla nuova mentalità; e si tratta d’una contrarietà derivante da un antiborghesismo cristiano, di origine medioevale. Antici è in tal senso più aperto, ma sempre con il limite della coscienza della diversità dei luoghi (la famosa lettera del 16 maggio 1835 a Giacomo Leopardi mostra di riferirsi alla Toscana e in genere a zone diverse dallo Stato Pontificio e dal Regno di Napoli). E la visione di Bonald non si allontana dai propri princìpi: nel vero e proprio Chapitre 1er (La vision trinitaire globale de Louis De Bonald), p. 47, riferendosi a Les méditations sur l’Evangile, Alibert trae da De Bonald la decisiva riaffermazione dell’impossibilità d’un governo popolare dello Stato, distinguendo, sulla base dei testi, tra un «par» e un «pour»: «Tout, dans l’univers, se fait pour l’homme; dans l’Église pour les fideles, dans la famille pour les enfants, dans l’État pour les sujets. Telle est la constitution naturelle et légitime des sociétés»; ma i suddetti beneficiari “per” i quali è fatto il mondo, a fine dei quali l’universo e la società umana continuano a girare e ad attuarsi, non possono per definizione, secondo De Bonald, essere agenti e fini insieme: «et l’on retrouve partout […] le pouvoir qui commande, le ministre qui sert, le sujet qui obéit. Les hommes ne gouvernent pas l’univers, le fidèle ne gouverne pas l’Église, les enfants ne gouvernent pas la famille. Ce n’est pas au peuple de gouverner l’Etat». «La société politique est donc une société de conservation» (pp. 51-52), in un’altra suddivisione ternaria di société religieuse, société politique e société familiale; e dove in Giacomo Leopardi la barbarie maturerà come concetto in un’identificazione nel Medioevo, e nella stessa società cristiana, per De Bonald la barbarie sarà esattamente l’alternativa al Medioevo ed all’affermazione della società cristiana: «Écrivant ses méditations politiques tirées de l’Evangile, Bonald avance que “la religion chrétienne a changé la société et renouvelé la surface de la terre”». I concetti qui espressi hanno la loro sintesi nella finale Troisième partie. La philosophie politique. De Bonald face à l’organisation du pouvoir public, national et local, pp. 79-183. Su De Bonald si cfr., ora, PAOLO PASTORI, Rivoluzione e potere in Louis De Bonald, Firenze, Olschki (Collana «Biblioteca dell’ “Archivio storico italiano”», vol. 25), 1990. Cfr. anche l’annuncio dato da Ippolito Pindemonte ad Isabella Teotochi Albrizzi della recente uscita delle Observations sur l’ouvrage de Madame de Staël ayant pour titre Considérations
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sur les principaux événements de la Révolution Française, in risposta (e in base ad un punto di vista assolutamente diverso, se non antitetico) alle Considérations sur la Révolution Française di Madame DE STAËL, in IPPOLITO PINDEMONTE, Lettere a Isabella (1784-1828), a cura di GILBERTO PIZZAMIGLIO, Firenze, Olschki («Biblioteca di “Lettere italiane”», XLV), 2000, lettera n. 316, p. 239. Delle Observations sur l’ouvrage de Madame de Staël cfr., adesso, l’edizione uscita a Parigi, Phénix, 1998. Cfr. altre recenti uscite di testi di o su de Bonald (oltre al citato JACQUES ALIBERT, Les triangles d’or d’une société catholique): LOUIS GABRIEL AMBROISE DE BONALD, Lettres à Joseph De Maistre, Paris, Clovis, 1997; ID., Trois études sur Bossuet, Voltaire et Condorcet, ivi, 1998; ID., Documents généalogiques sur des familles du Rouerge, ivi, Laffitte, 2002; si ricordino, in ogni caso, le Oeuvres complètes uscite nel 1982 da Slatkine, ed inoltre la pubblicazione, nel 1985, dall’editore Vrin, dell’importante Démonstration philosophique du princip constitutif de la société: méditations politiques tirées de l’Evangile, altra opera che ha influito su Antici. A riprova della diffusione dei concetti fortemente conservatori di De Bonald, si cfr., nella Miscellanea Legata 315. 29 dell’Alessandrina di Roma, i «Pensieri sulla disuguaglianza sociale di monsignor MARIO FELICE PERALDI, Civitavecchia, 1834, Dalla Tipografia Strambi con approvazione»: un vero elogio della disuguaglianza e della monarchia (pp. 1-48). Si vedano anche (ivi) le «Ricerche sulle diverse maniere di contrarre matrimonio e sull’indissolubilità di questo tra gli antichi romani offerte da CONSALVO ADORNO spagnolo a Sua Eccellenza rma mons. d. Alessandro de’ duchi Lante tesoriere generale di N. S., in Roma, 1807, presso Francesco Bourliè / con permesso», ove si sostiene che anche tra i pagani il matrimonio era indissolubile. Si ricordi che in Rousseau, obiettivo polemico di tanta produzione letteraria della Restaurazione, non mancano contraddizioni potenzialmente studiabili anche da parte dei controrivoluzionari, come è noto, e come è rilevato da Antici (cfr. i riferimenti rousseauiani, e l’analisi di alcune contraddizioni insite nell’Émile, in CARLO ANTICI, Su i piaceri e i vantaggi delle lettere e su i doveri dei letterati, cit. – pubbl. per estratto presente nella Biblioteca Vallicelliana –, pp. 14-15, n. 1, e pp. 26-27, n. 12 alla p. 22) anche sulla scia del DE MAISTRE di Delle origini della Sovranità (opera che risale, in manoscritto, agli anni di Losanna, 1794-1796): cfr., appunto, JOSEPH de MAISTRE, Scritti politici. Saggio su Il Principio generatore delle Costituzioni Politiche. Studio sulla Sovranità (titolo originale: Essai sur le Principe Génerateur des Constitutions Politiques suivi de Étude sur la Souveraineté), Introduzione di LUIGI NEGRI, Traduzione di LAMBERTO CROCIANI e SIMONETTA MORETTI, Siena, Cantagalli («I Classici Cristiani», Collana diretta da FRANCO CARDINI, Nuova Serie, n. 3), 2000, p. 129: «[…] il contratto sociale è una chimera. Poiché, se ci sono tanti differenti governi quanti differenti popoli, se le forme di questi governi sono prescritte imperiosamente dalla potenza che ha dato a ogni nazione quella posizione morale, fisica, geografica, commerciale, ecc., non è più consentito parlare di patto. Ogni forma di sovranità è il risultato immediato della volontà del Creatore come la sovranità in generale»; e ancora: «I Libri sacri ci mostrano il primo re del popolo eletto, scelto e incoronato per intervento diretto della divinità; gli annali di tutte le nazioni dell’universo attribuiscono la stessa origine ai loro governi particolari. Di cambiato ci sono solo i nomi. Tutte, dopo aver ricondotto la successione dei loro capi fino ad un’epoca più o meno remota, arrivano infine a quei tempi mitologici la cui storia veritiera ci istruirebbe molto più di tutte le altre. Tutte ci mostrano l’origine della sovranità circondata di miracoli; sempre la divinità interviene nella fondazione degli imperi, sempre il primo sovrano, come minimo, è un prescelto dal Cielo, egli riceve lo scettro dalle mani della divinità. Essa si comunica a lui, lo ispira, imprime sulla sua fronte il segno della sua potenza, e le leggi che egli detta ai suoi simili non sono che il frutto delle comunicazioni celesti […]. I filosofi di questo secolo molto hanno criticato la lega dell’impero e del sacerdozio ma l’osservatore acuto non può esimersi dall’ammirare l’ostinazione degli uomini a fondere queste due realtà: più si risale nell’antichità, più si ritrova la legislazione religiosa. Tutto ciò che le nazioni raccontano sulla loro origine prova che esse si sono trovate d’accordo nel guardare alla sovranità come divina nella sua essenza: altrimenti ci avrebbero tramandato racconti completamente differenti. Non parlano mai di contratto primordiale, associazione volontaria, deliberazione popolare. Nessuno storico cita le assemblee primarie di Menfi o di Babilonia. È una vera follia immaginare che il pregiudizio universale è opera dei sovrani. L’interesse particolare può ben abusare della credenza generale, ma non può crearla. Se quella di cui parlo non fosse stata fondata sul consenso anteriore dei popoli, non solo non avremmo potuto farla adottare loro, ma i sovrani non avrebbero potuto immaginare una tale frode. In generale ogni idea universale è naturale» (ivi, pp. 130-131; sempre dalla stessa opera si considerino i capp. V e VI del Libro I, sull’Esame di alcune idee di Rousseau sul legislatore, e il cap. VII del Libro II, Riassunto dei giudizi di Rousseau sulle differenti specie di governo, con Altri giudizi della stessa natura. Riflessioni su questo argomento). Com’è evidente, l’attacco alla concezione contrattualistica dello stato e
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del potere politico (di lì a poco, nella sua opera, lo scrittore savoiardo passerà alla critica dei concetti di Rousseau sul piano del potere propriamente legislativo) non potrebbe da parte di De Maistre essere più dispiegato; e tuttavia i testi dello stesso Rousseau, se interpretati, come appunto avviene presso molta saggistica controrivoluzionaria della fine del Settecento o dei primi dell’Ottocento, in angolazione conservatrice, e pronta a rilevarne severamente le interne contraddizioni, porgono ai postumi avversari numerosi appigli di riflessione, fondati su impieghi lessicali di apparente attiguità al repertorio terminologico della reazione antirazionalistica ed antiilluministica: espressioni quali, a mero titolo d’esempio, «amour de la patrie», «religion», «obéissance aux loix», «désintéressement»», «simplicité», «innocence», «hereuse ignorance», «facilité de se pénétrer réciproquement», pur rendendo evidente il loro legame con il concetto contrattualistico (sulla base d’iniziale innocenza, l’approdo a forme evolute di pensiero e di organizzazione sociale non può originarsi che da un processo convenzionalistico e pattuale), attraversano il Discours sur les sciences et les arts del 1750, così come una sottolineatura contrattualistica, pur concepita in una chiave fortemente ridefinitoria del giusnaturalismo, può essere riscontrata in pronunce rousseauiane incentrate sulla storicità e sulla differenziazione degli sviluppi statali nelle varie nazioni (citiamo, conformemente all’uso di Rousseau e delle edizioni francesi, con i “due punti” – «:» – inseriti fra due spazi): «Le Genre-humain d’un âge n’est pas le Genre-humain d’un autre âge, la raison pourquoi Diogène ne trouvoit point d’homme, c’est qu’il cherchoit parmi ses contemporains l’homme d’un tems qui n’etoit plus: Caton, dira-t-il, périt avec Rome et la liberté, parce que il fut déplacé dans son siècle, et le plus grand des hommes ne fit qu’étonner le monde qu’il eût gouverné cinq cens ans plûtôt. En un mot, il expliquera comment l’âme et les passions humaines s’altérant insensiblement, changent pour ainsi dire de Nature» (cfr. JEAN JACQUES ROUSSEAU, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, in ID., Oeuvres complètes, Édition publiée sous la direction de BERNARD GAGNEBIN et MARCEL RAYMOND, III – Du contrat social. Écrits politiques, Texte établi et annoté par JEAN STAROBINSKI –, Paris, Gallimard – «Bibliothèque de la Pléiade», n. 169 –, 1966, p. 192). 8 Cfr. FRANCESCO MORONCINI, Una cronaca commentata dei fatti di Napoleone I nel carteggio di due illustri recanatesi, in FRANCESCO, GAETANO E GETULIO MORONCINI, Saggi leopardiani, a cura di FRANCO FOSCHI, Ancona-Bologna, Centro Nazionale di Studi Leopardiani-Transeuropa, 1991, pp. 206-225 – prima in «Il Casanostra», 1934 –. 9 Si cfr. VINCENZO FERRONE, Chiesa cattolica e modernità, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 29-30 e 32-33, sul dibattito storiografico, tuttora in corso (soprattutto a causa della revisione del giudizio sulla filosofia dei Lumi ad opera della storiografia cattolica, o di studiosi che si pongono come storici e cattolici, secondo una distinzione che appare molto reclamata), fra attribuzione al pensiero illuministico o alla dottrina cattolica del processo di laicizzazione e di divisione dei due poteri, statuale ed ecclesiastico; riferendosi specificamente ad alcuni studi di Paolo Prodi (cfr. infatti PAOLO PRODI, Il Concilio di Trento di fronte alla politica e al diritto moderno, nell’opera collettiva Il Concilio di Trento e il moderno, a cura di PAOLO PRODI e di WOLFGANG REINHARD, Bologna, Il Mulino, 1996, e ID., Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, ivi, 2000), ma anche dell’allora cardinale JOSEPH RATZINGER (Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Edizione italiana a cura di ELIO GUERRIERO, Traduzione di GUIDO SOMMAVILLA e di ELLERO BABINI, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline – «Saggi teologici», n. 1 –, 1987), Ferrone sottolinea come la concezione storico-filosofica e giuridica del cattolicesimo muova dalla separazione fra Cesare e Dio presente nel famoso passo di Matteo (XXII, 21), per rintracciarvi le origini dell’autonomia dello Stato laico (in determinati passaggi storici questo processo avviene anche in via di reazione, come nel caso della contrapposizione a Gregorio VII da parte dei non chierici), un’autonomia che deve moltissimo, sempre nell’ottica del moderno cattolicesimo, all’«apparizione del diritto canonico» (p. 30), «formidabile strumento» che, pur nella riconosciuta serie di sovrapposizioni storiche con la normativa laica, e pur accompagnato, successivamente, dalla nascita «del processo inquisitoriale» (p. 31), non impedisce, ma anzi dialetticamente permette la progressiva formazione di «due specifici ordinamenti riferiti a due diverse autorità»: «La rivoluzione teocratica, il suo modello politico-teologico portarono insomma a una forma di dualismo fondata sia sul pluralismo medievale degli ordinamenti giuridici sia sull’intreccio tra coscienza e diritto al loro interno» (ibidem), secondo le conclusioni tratte dallo stesso Ferrone sulla base delle tesi cui è giunto Paolo Prodi, tesi cui è riconosciuto fascino, ma che certamente non sono condivise dallo storico. E tale serie di categorie vale anche per l’innovazione rappresentata dal Concilio di Trento, in cui «la definitiva rinuncia a perseguire una conduzione unitaria della respublica christiana» proprio per questo produce una reciproca ridefinizione delle autonomie di sfera tra monar-
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chia di stampo laico e aggiornata monarchia di Papa-re, ovvero, nel secondo caso, una modernizzata figura di sovrano e di capo d’un’amministrazione efficiente governata con le Decretali pontificie e modellata «secondo schemi del tutto simili al diritto positivo delle grandi monarchie nazionali» (p. 32); contro gli eretici, considerati, in definitiva, come responsabili della formazione di gruppi settari e fortemente conservatori, al punto da ostacolare «con il loro fondamentalismo e il loro fanatismo a favore di una Chiesa di puri» (p. 33) la modernità innestatasi con la soluzione cattolico-tridentina, Paolo Prodi, ricorda Ferrone nel suo saggio, può «fare finalmente i conti con le ricostruzioni di Cantimori e di quei settori della storiografia laica che hanno visto negli eretici e nei fautori del cristianesimo radicale i padri spirituali dell’Illuminismo, della tolleranza e della libertà di coscienza» (pp. 32-33). Il dibattito, ravvivato in particolare dalle correnti storiografiche orientate in senso antiilluministico, risulta ancora oggi, e più che mai, aperto; né Vincenzo Ferrone omette d’osservare (e a noi appare osservazione da sottoscrivere), riguardo alle valutazioni di Paolo Prodi (e, in termini diversi, rispetto a quelle di Paolo Grossi, a sua volta partecipante al convegno torinese che ha dato origine a Chiesa cattolica e modernità con studiosi quali Luciano Guerci, Antonio Rotondò, Corrado Vivanti ed altri, a commento ed a replica al contributo di Ferrone), che «è facile scorgere nel quadro generale delle […] analisi l’affiorare di una nuova e più agguerrita apologetica intenzionata a liquidare per sempre l’ingombrante pratica dell’Illuminismo, del suo programma di modernizzazione fondato sull’autonomia e sui diritti dell’uomo, sulle speranze di un umanesimo rinnovato e in particolare sull’interpretazione costituzionale e contrattualistica del giusnaturalismo» (p. 37). In tal senso, l’illuminismo riceve, anche e contrariis, nuova, e talvolta non ricercata vitalità d’interesse storiografico, proprio in quanto fenomeno di vaste proporzioni e di decisiva importanza per tutto l’Occidente, al punto da suscitare tuttora significative riletture polemiche ed articolati tentativi di esorcizzazione o di rimozione; un fenomeno tanto “superato” da incutere in realtà ancora timore, presso le sedi di determinate visioni culturali: e, per converso, da incutere, presso gli approdi laici del pensiero moderno, in una visione come quella, da noi condivisa, di Ferrone, non già il timore d’una sua “ripresa”, ma al contrario quello d’una sua rimozione, non solamente cronologica, bensì “qualitativa”, dagli orizzonti di ricostruzione storica dei processi che hanno condotto al nostro presente. 10 Cfr. VITTORIO ALFIERI, Rime – Parte seconda – Sonetti, 311 (n. 66 della Parte seconda): «Di giorno in giorno strascinar la vita, / Incerto sempre, e pallido, e tremante / Or per la pura tua sostanza avita, / Or per l’amico, or per la moglie amante; // Or per la prole insofferente ardita, / Or per te stesso; e l’aspre angosce tante / D’alma sì atrocemente sbigottita, / Dover celar sott’ilare sembiante: // Né schermo aver, fuorché di farti infame, / Contro ai buoni tuoi par brandendo l’asta, / Sgherro adottivo del plebeo Letame; // e ancor tremar; poich’esser reo non basta, / Per torti all’empie inquisitorie brame: – / La Libertà quest’è, ch’or ti sovrasta». 11 Si pensi in questo senso all’esperienza di studioso, di giurista, di politologo, ma anche di rettore universitario e di sindaco di Emden, di Johannes Althusius (Diedenhausen, 1557-Emden, 1638). Pur nelle differenze storiche fondamentali, istituzionali, che separano il professore di Erborn dalla tradizione antiilluministica alla quale appartiene Antici (Althusius è calvinista, ed è impegnato in un’opera di riflessione che imprescindibilmente si riferisce ad un modello repubblicano, fondato sulle libertà federali cittadine proprie della vicenda storica del calvinismo, ma non certo limitato a quelle), non è inutile rilevare una significativa analogia, nel forte antiluteranesimo della riflessione teologico-politica anticiana, con la marcata diversificazione del pensiero di Althusius dal pessimismo antropologico dei luterani ortodossi, dal loro concetto della grazia, dal loro monito, per il popolo, di subordinazione al potere dei principi, anche ove questo sia tirannico. Si consideri, in vista dei futuri sviluppi delle scelte germanistiche anticiane, ad esempio della traduzione della “storia di conversione” dell’antistite svizzero Friedrich Hurter, l’assunzione althusiana del concetto ciceroniano del De republica, I, XXV, 39 («Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus»): «Riprendiamo a questo punto la domanda sulla scelta della definizione ciceroniana e la combiniamo con la domanda sull’“elemento teologico” nel testo althusiano: come abbiamo già accennato, la scelta di riferirsi a Cicerone per la nozione di respublica per Althusius e per altri potrebbe essere letta in un certo modo come una scelta anti-luterana. Wyduckel [autore d’una «Einleitung» a JOHANNES ALTHUSIUS, «Politik», trad. di H. JANSSEN, a cura dello stesso DIETER WYDUCKEL, Berlin, Duncker & Humblot, 2003, p. XXVIII] ha giustamente ricordato che Althusius non cita mai Lutero e solo rarissimamente egli cita le opere teologiche, politiche o anche giuridiche dell’ortodossia luterana. Althusius è invece per molte cose in accordo con il cattolico Pierre Grégoire […]; anche nella teoria di Grégoire la sfera politica non gode di una tale esen-
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zione di esigenze e pretese normative dal lato “divino” su questo mondo – anche se, certo, l’ecclesiologia papale intromessa nell’opera di Grégoire non è quella di Althusius. Ma per la sottomissione più espressa della politica ad una normatività etica, le teorie che vengono da culture calviniste e cattoliche sembrano più vicine, mentre la teoria politica “luterana” sembra, per questo, un poco più vicina a quella di Bodin. / Althusius non scrive una politica teocratica o molto pronunciatamente teologica. Ma le strutture scelte tradiscono le fonti extra-politiche e dunque anche le teologiche. Se lo ius symbioticum è inerente a tutta la consociatio e se il popolo è tale solo quando c’è una partecipazione mutua del diritto e della giustizia (secondo la definizione di Cicerone), siamo ancora una volta di fronte a una teoria che funziona solo con una antropologia calvinista (e piuttosto tipica della teologia federale [la «Bundestheologie»]), non luterana. L’antropologia negativa del luteranesimo è, certo, comune a tutto il protestantesimo […]. Ma nel calvinismo e soprattutto nella teologia federale, la concentrazione sulla pre-storia di Adamo, sul suo essere e sul suo stato nel paradiso […] cambia questa antropologia, perché la caduta non ha estinto del tutto il carattere di questa relazione uomo/Dio. Nonostante questo, l’uomo può sempre in questo mondo conoscere la legge di Dio – certo in un modo oscurato, non chiaro; ma la possibilità del regnum Dei su questo mondo, non nella sua interezza, ma in una certa quantità, esiste. Se e perché esiste un accesso alla legge di Dio, alla conoscenza del giusto, possiamo ricorrere a Cicerone per definire il popolo e la res populi, la respublica […]. Nel luteranesimo, almeno approssimativamente, non c’è possibilità di accesso diretto alla lex Dei e dunque non esiste l’esigenza di una res populi, dove il populus è un’aggregazione di uomini obbedienti alla giustizia nel senso vero della lex Dei (per Althusius: lex symbiotica). Basta l’obbedienza esterna e funzionale alla lex humana, anche se fosse fatta da un tiranno. In Althusius, certo, ognuno deve anche obbedire, ma solo perché chi governa esegue la vera giustizia, lo ius symbioticum o anche lo ius symbioticum universale che è il polìteuma» – cfr. CORNEL ZWIERLEIN, Respublica (Regnum, Politeía), nell’opera collettiva Il lessico della politica di Johannes Althusius. L’arte della simbiosi santa, vantaggiosa, giusta e felice, a cura di FRANCESCO INGRAVALLE e CORRADO MALANDRINO, Prefazione di DIETER WIDUCKEL, Introduzione di CORRADO MALANDRINO, Firenze, Leo S. Olschki Editore («Fondazione Luigi Firpo. Centro di studi sul pensiero politico. “Studi e testi”», n. 26), 2005, pp. 289-291 –. Zwierlein, come altri studiosi che hanno contribuito a questo volume, si riferisce principalmente alla terza edizione (1603) della Politica methodice digesta, un’edizione che, riportando notevoli modifiche qualitative rispetto alle precedenti, orienta il pensiero d’Althusius verso la modernità nella concezione dello Stato (pur essendo vero che la collocazione di Althusius rimane in tal senso, presso alcuni studiosi, ancora sub iudice). L’inestricabilità dalla concezione politica althusiana d’un fattore fondante di natura etico-divina è confermata, fra gli altri, dal contributo di CORRADO MALANDRINO, Symbíosis (Symbiotiké, Pactum), ivi, pp. 311-323 – qui, p. 317 –: «I simbiotici [i partecipi del «pactum» politico] danno […] origine alla consociazione con un patto espresso o tacito, al fine di costituire, secondo il paragrafo 3 [del libro I della «Politica» althusiana], una “sancta, justa, commoda et felix symbíosis”, ossia una vita in simbiosi “che non manchi di nulla di ciò che è necessario o utile”. Occorre sottolineare l’aggettivo “santa”, e comprenderne tutta la portata interpretativa […], perché proprio a questo proposito il raffronto fra la prima e la terza edizione fa emergere la radicale trasformazione intervenuta nell’uso della parola simbiosi». Ancora (p. 319), Malandrino sostiene che «la simbiosi è l’unione “santa”, giusta, vantaggiosa e felice alla cui realizzazione non basta l’inclinazione naturalistica di tipo aristotelico, ma necessita un elemento metafisico di volontà rivolta a una scelta, un elemento contenuto nello strumento teologico-federale del patto istituito per primo da Dio come foedus naturae et operum, successivamente penetrato nella metodologia sociale e politica attraverso la dottrina della predestinazione, e della redenzione tramite il patto di grazia, infine divenuto, come sostiene Charles Mc Coy una root metaphor [metafora radicale] nell’agire politico. Uno strumento dato agli uomini perché imparino a convivere in primo luogo santamente nel culto di Dio […]». La contrapposizione con il mondo protestante, come avverrà nel caso della trattazione del citato Friedrich Hurter, assume particolare valore, in Antici e negli intellettuali cattolici conservatori della sua epoca (e altresì nelle redazioni delle riviste alle quali egli presta la sua collaborazione), soprattutto sotto il profilo della lotta teologica, confessionale e politica con il protestantesimo luterano. E dove vi siano protratti accenti di attrito tra calvinisti e cattolici, come più volte nella storia è accaduto, ad esempio a Ginevra, la pubblicistica dell’età della Restaurazione, negli anni in cui maggiormente vi partecipa Antici, tende a sottolineare la vitalità, la persistenza, l’alterna vicenda di lotte con i protestanti e di reviviscenze cattoliche che percorre la storia di Ginevra dal Cinquecento in poi; si legga, a questo proposito, GIUSEPPE BARALDI, Discours prononcé par M. VUARIN Curé de Genéve le 31 Décembre 1820, jour de la Fête dite de la Restauration Paris 1822. Mequi-
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gnon in 8.° / Bénédiction solennelle du nouveau Cimetière catholique de la ville de Genéve faite le 21 Mars 1822. Genéve 1822 Guers in 8.°, in «Memorie di Religione, di Morale, e di Letteratura», II, 8 (marzo-aprile 1823), pp. 285-302 (il saggio riprende, in italiano, sulla base di estratto, una parte del testo di Vuarin, oltre alla benedizione). Baraldi valorizza al massimo la presenza, l’attività ed il consenso di cui gode il vescovato cattolico di Ginevra nel tempo, fino alla sua ricostituzione dopo gli eventi rivoluzionari, il 1 novembre 1819, con il Breve papale Inter multiplices, che unifica come sedi di vescovato cattolico Ginevra e Losanna (il vescovo – cfr. pp. 288-289 – risiedeva a Friburgo). Si legga, nel citato contributo apparso nelle «Memorie», la celebrazione congiunta che Baraldi (presenza importante nella modenese «Voce della Verità» dal 1831 in poi), effettua della Chiesa cattolica e dei vantaggi che essa assicura al potere politico (pp. 294-295): «La ragion dimostra, e la storia delle rivoluzioni conferma, che nulla più sordamente scava le basi d’uno Stato, nulla più pericolosamente ne minaccia, ed espone la durevolezza, quanto la licenza delle opinioni, e il difetto di stabilità nelle dottrine politiche e religiose. Il consiglio di Ginevra ha intesa la forza della sicurezza che offre alla società il governo, e l’insegnamento della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Nella chiesa cattolica, tutto emana da un principio d’un’autorità spirituale, uniforme, costante e invariabile nella sua dottrina su quanto riguarda la fede, la morale e il divin culto. Nella chiesa cattolica nessuno di questi preziosi oggetti rimane in balìa agli ondeggiamenti d’un’incerta ragione, ai sogni di uno spirito privato, alla pretesa di misurare col compasso, per così dire, la profondità de’ misteri adorabili, e di sottomettere all’analisi i dogmi e i precetti, fondamento dei doveri, come il chimico scioglie i metalli nel suo crogiuolo. Qualunque viaggio far possa lo spirito umano, di qualunque progresso o scoperta si glorii nello studio delle scienze naturali e delle lingue, l’insegnamento della chiesa cattolica rimane stazionario, vale a dire, invariabile, perché la verità uscita dal sen del Verbo incarnato, e della quale il corpo de’ pastori serba il deposito e non la proprietà, la verità, io dico, non può né ricevere accrescimento, né soffrire alterazione. La verità è col Signore, e dimora eternamente: Veritas Christi manet in aeternum: l’insegnamento della fede è come l’autore e il consumator della fede. Gesù Cristo era jeri, egli è oggi, e sarà lo stesso per tutti i secoli, sempre immutabile nella sua persona, nelle sue qualità, nella sua dottrina: Jesus Christus heri et hodie ipse et in saecula. / Sotto la direzione della cattolica chiesa un governo è sempre sicuro dei principj che insegnansi dai ministri della religione, e della fede che si professa dal popolo. Quando Roma ha parlato, scompajono tutte le divergenze d’opinioni: tutte si sottomettono le volontà, si abbassano tutte sotto la verga di Pietro. Quando Roma ha giudicato, cessa ogni discussione, ogni ulterior esame: le parole resistenza, lagnanza, mormorazione, divengono straniere come al linguaggio dei pastori così a quello de’ semplici fedeli. Con una decision sua Roma trionfa e delle naturali antipatie, e delle nazionali rivalità, e delle incertezze più rispettabili di coscienza». 12 La “storia” della Pentecoste manzoniana, iniziata, come si è accennato, nel 1817, proseguita con altre stesure nel 1819, e terminata nel 1822, ormai a ridosso dell’elaborazione del romanzo ed inserita in quel fervido clima creativo, è indice sufficiente di quanto l’esperienza cattolica dell’autore degli Inni sacri e dei Promessi sposi sia distante e sostanzialmente aliena da quella segnata dal romanticismo cristiano-cattolico conservatore e attivamente filolegittimistico che, come è propria di Antici, lo è anche di molti altri intellettuali europei, soprattutto non italiani; si tratta, in definitiva, del romanticismo che si demarca dalle stigmate di Chateaubriand, del suo Génie du Christianisme, se non anche di René (i Mémoires d’outre-tombe costituiscono già un capitolo diverso, in quanto sono usciti postumi); e si tratta, altresì, della rinnovata celebrazione, spesso inarcata in tonalità fortemente riassertive, dell’alleanza fra trono ed altare, pur con tutte le interne diversificazioni che tale binomio viene a conoscere nelle sue singole ricadute, nazione per nazione ed intellettuale per intellettuale (spesso, come avviene nel caso francese, la preferenza popolare è nettamente orientata verso l’altare): e qui, ai nomi di De Maistre e di De Bonald, oltre che di altri autori di minore riscontro della pubblicistica cattolica, occorre affiancare, almeno, quello del primo Lamennais. Manzoni, insomma, esprime le proprie articolate critiche a Sismondi (e la fine del lavoro di stesura della Morale cattolica, nel 1819, avrà una sua precisa importanza sulla «seconda concezione» manoscritta della Pentecoste), ma non per questo egli si affilia culturalmente ed intellettualmente al côté di Chateaubriand, e, diciamo pure, di gran parte del romanticismo europeo (tutt’altro significato, e sia detto al di là delle stesse adesioni e differenze confessionali, avrà la valorizzazione della religione in Coleridge; e altro significato ancora lo ha avuto in quel Novalis che invece dovremo citare a proposito di Antici e del suo costante studio dell’avvicinamento, se non addirittura delle conversioni, dei protestanti al cattolicesimo). Basti, appunto, una mirata rilettura della Pentecoste, soprattutto nei suoi abbozzi, per rendere conto di come l’autore più rappresentativo del romanticismo italiano abbia parteggiato, esprimendosi elettivamente nell’enumerazione geografica, per i diritti dei popoli oppressi, e non a favore dei loro oppressori. Innanzi
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tutto, vi è l’indicazione in favore dell’Ecclesia militans, del suo spirito che è per definizione “combattente”, non remissivo, ma anzi speranzosamente guerriero. Si ricordino a questo proposito i termini tipici del linguaggio militare: «combatti», «le tue tende spieghi / dall’uno all’altro mar», «campo di quei che sperano», ed anche «tu, della sua vittoria / figlia immortal» dei vv. 27-28. Quindi, un evangelismo democraticopaolino, un evangelismo che geograficamente è di paritaria ricaduta e di paritaria diffusione, e che accomuna nella coralità i popoli e le genti che sono e che saranno in dialogo con il cristianesimo: «l’Arabo, il Parto, il Siro / in suo sermon l’udì», vv. 47-48; «Dall’Ande algenti al Libano, / d’Erina all’irta Haiti», vv. 8586. Di singolare rilevanza la precisa opzione pauperistica che trova riscontro nel contemporaneo lavoro dei Promessi sposi: «Perché, baciando i pargoli, / la schiava ancor sospira?», vv. 65-66; «Per te sollevi il povero / al ciel, ch’è suo, le ciglia, / volga i lamenti in giubilo, / pensando a cui somiglia», vv. 121-124. La parte finale (strofe VI-IX) annovera l’implorazione d’una discesa ristoratrice e benefica dello «Spirto», evento rinnovatore e riequilibratore delle ingiustizie e delle violenze del mondo, consolazione del debole e dubbio pensoso a freno del violento, uno spirito religioso che attraversa, e più ancora deve attraversare, la gioventù, la maturità, la vecchiaia, la morte. Né manca, nell’inno, la fede in una rinnovata certezza di collegamento fra la città celeste e la città terrena: «Nova franchigia», «genti nove», «nove conquiste», «più belle prove», «nova […] pace» (strofa V, seconda parte). E non viene meno l’indicazione militante, proprio nella già citata coppia di versi «Dall’Ande algenti al Libano, / d’Erina all’irta Haiti» (85-86); nel Perù e nel Libano, in Irlanda e ad Haiti, come chiaramente indicano le date di quegli anni, vi è una serie di rivolte e di moti insurrezionali, che rendono la rapida carrellata geografica dei vv. 85-86 non un momento topografico-descrittivo, quasi concessione ad un alessandrinismo esornante, bensì una vera cartina del mondo con le “bandierine” che confortano ricordando il riscatto degli oppressi. Se, infatti, in Perù divampa proprio nel 1819 la rivolta che sfocia nel 1820, con l’aiuto degli argentini e dei colombiani, nella liberazione dal dominio spagnolo, e se nell’isola di Hispaniola, dopo lunghe lotte risalenti proprio a quegli anni, si realizza sempre nel 1820 l’unificazione di Haiti (da poco uscita dal dominio francese), alla quale segue nel 1822 la riconquista di San Domingo dalla corona spagnola e nel 1825 il riconoscimento francese dell’indipendenza dell’isola, in Libano si fa particolarmente viva la lotta antiturca della maggioranza di cristiani maroniti, ed in Irlanda esattamente allora si prepara il movimento di rivendicazione sociale e cattolicoreligiosa di Daniel O’Connell, che di lì a poco (1823) s’esprimerà nella Lega cattolica irlandese. Le “bandierine” della Pentecoste sono molto simili a quelle napoleoniche, e quindi provvidenziali, del Cinque Maggio. Dove è necessario, si tratta insomma d’una Pentecoste armata. E gli abbozzi documentano una serie di versi dedicati ad una rassegna geografica dei fiumi d’Europa ed alle «sponde», «sanguinose», che registrano situazioni di ribellione ad un’oppressione politica; le «sponde», nella strofa di «Haiti», saranno riprese, pur in forma criptata e priva dell’allusione al sangue, nella redazione definitiva: chiaro segno, questo, dell’interesse e dell’importanza che tali riferimenti rivestono per l’autore. Le sponde «sanguinose», infatti, dichiarano senza possibilità di dubbio la natura guerresca delle allusioni geografiche. E più che mai, un’immagine di fede religiosa e di lotta armata lascia «il bellico / Coltivator d’Haiti», intento ai suoi «riti» e in sé capace di dimostrare la non casualità, nella Pentecoste pubblicata, del riferimento haitiano, del nome stesso d’Haiti, la cui evocazione costituisce quasi una citazione in gergo, un’allusione in codice fra patrioti e lettori “romantici” italiani in quegli anni decisivi dell’Ottocento. La precedente strofa “dei fiumi”, insieme alla Francia della Restaurazione, registra infatti la Polonia e l’Italia, i domini asburgici, la Spagna e, inevitabile, l’Irlanda del «mesto» Shannon: tutti paesi, e fra questi alcune «espressioni geografiche», per dirla con il Metternich, che devono ancora compiere il loro processo d’affrancamento sociale e politico-economico (vedi appunto, oltre a Francia e Spagna, la ricorrente citazione dell’Irlanda), o addirittura il preliminare processo istituzionale d’unità geografica e d’indipendenza nazionale, come avviene nel caso dell’Italia. Sempre sulla geografia bellica della Pentecoste, si vedano i tentativi testuali manzoniani dalla ripresa del 17 aprile 1819 (quindi da una fase testuale precedente lo «sbozzo» per il Fauriel): sono tentativi riguardanti il Perù, Haiti e il Libano. Forniamo il solo testo dei versi relativi ai due suddetti àmbiti geopolitici, innanzi tutto nella «Pentecoste seconda concezione»: «A te la fredda Vistola, / A te risuona il Tebro, / A te la Senna e l’Ebro / E il Sannon mesto a te. // A te del mar pacifico / Gridan sanguigni i liti // Te sanguinosi invocano // A te della Pacifica / Onda i sanguigni liti / A te si piega il bellico / Coltivator d’Haiti / Te sanguinose invocano / In questo dì le sponde / Che le vermiglie cingono e le pacific’onde // Padre di tutti il bellico // Te salvator l’armigero / Coltivator d’Haiti / Fido agli eterni riti / Canta disciolto il piè // Oggi te chiama il Libano / De’ cedri suoi diserto: / Quei che si prostra al Golgota / Sul gran sepolcro aperto. // Vieni, a te grida il Libano, / il Libano fedele / Che un dì nutria sì viridi // Ove sì folti crebbero // I cedri ad Israele. / Oggi il fedel che al Golgota / La vuota tomba adora / Dove scendesti
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
allora / Prega che scenda ancor»; si veda anche il primo sbozzo autografo della seconda Pentecoste, del 1819: «Oh vieni ancora! oh fervido / Spira nei nostri seni: / Odi, o pietoso, i cantici, / Che ti ripeton: vieni. / A te la fredda Vistola, / Oggi a te suona il Tebro, / L’Istro, la Senna, e l’Ebro, / E il Sannon mesto a te. // Te sanguinose invocano / Consolator le sponde, / Cui le vermiglie battono / E le pacific’onde; / Te Dio di tutti il bellico / Coltivator d’Haiti, / Fido agli eterni riti / canta, disciolto il piè» (cfr. ALESSANDRO MANZONI, Liriche e tragedie, in ID., Tutte le Opere, 6 voll., a cura di ALBERTO CHIARI e di FAUSTO GHISALBERTI, Milano, Mondadori – «I Classici» –, 1957, I, pp. 16-20, 82-83 e 99-100; sulla storia della Pentecoste manzoniana, cfr. La Pentecoste di Alessandro Manzoni dal primo abbozzo all’edizione definitiva, a cura di LUIGI FIRPO, Torino, Utet, 1962, in particolare pp. 64-65 e 124 ss.). Rimane, come dato sicuro ed accertato, l’ammirazione che Carlo Antici professerà per Manzoni artista e per Manzoni saggista; ammirazione resa particolarmente significativa dall’apertura, che in tal modo Antici mostra a tutti gli effetti, per lo scrittore romantico italiano per eccellenza, per colui che, ampiamente superando come virtù di prosa il modello, ha comunque riportato in Italia l’attenzione su Walter Scott, per l’intellettuale che ha fatto compiere alle nostre lettere una decisiva virata nella scrittura grazie alla riflessione sulla lingua e alla critica delle strutture formali classicistiche. Un’apertura, quella di Antici, che, come si è accennato, accomuna il marchese a quella vasta e variegata schiera di lettori, favorevole al romanzo di Renzo e di Lucia, che comprenderà l’anticlericale progressista Giordani (in realtà capace d’una riflessione linguistica modernizzante che va al di là delle sue capacità di scrittura e di stile “in proprio”, e pure capace d’essere acuminato avversario, nelle concezioni pedagogiche, dell’esercizio retorico di scrittura e di traduzione “in latino”) e il cognato recanatese, conte Monaldo, prevedibile ammiratore del romanzo come opera intessuta di contenuti religiosi e a sua volta capace, sempre nell’ottica di Leopardi padre, di produrre rinnovati stimoli alla riflessione cattolica nei suoi lettori, fra i quali egli annovera, con qualche infondata speranza, anche il figlio Giacomo, che proprio nel 1827 ha già scritto gran parte delle sue Operette morali, nelle quali sono stata sottoposte a critica lucida, ironica e impietosa le concezioni fondate sul provvidenzialismo e sull’antropocentrismo. Ma Antici, nella citata lettera del 26 gennaio 1828, precisa anche di non aver avuto, fino a quel momento, il tempo di leggere realmente (non si dice di apprezzare) l’opera di Manzoni, e confessa, senza che questo dato autorizzi l’esclusione in lui, nel tempo, di una vera ed approfondita fruizione dei Promessi sposi, di preferire le strutture di prosa romanzesca che derivano dagli storici, dai narratori, stilisticamente grandi e fascinosi, di eventi e di epoche: dagli antichi, Livio e Tacito, ai moderni, o comunque per lui assai recenti, come il citato William Robertson. E di Manzoni mostrerà di avere presente soprattutto le Osservazioni sulla morale cattolica, come appare nel discorso Su i piaceri e i vantaggi delle lettere e su i doveri dei letterati. Discorso letto in Roma nell’Accademia Tiberina la sera dei 26 Maggio 1833 dal Marchese CARLO ANTICI, 1833 (Biblioteca Vallicelliana, Roma, Misc. VI. 7. E. 10), pp. 26-27, n. 12 alla p. 22: «Modelli di confutazioni non meno vittoriose, che moderate son quelle del Cardinal Gerdil contro Rousseau, e Raynal, e del conte Manzoni contro le calunnie intorno la Morale Cattolica nella – Storia delle repubbliche Italiane del medio evo –». 13 Si pensi in questo senso al programma culturale, pur variamente modificatosi nel tempo, di quella che sarà la figura novecentesca di don Giuseppe De Luca; cfr., infatti, il cap. III (Un libro non scritto: la storia dell’Ottocento religioso) di LUISA MANGONI, In partibus infidelium. Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi («Biblioteca di cultura storica», n. 178), 1989, pp. 132-197. 14 Cfr. FRANÇOIS-RENÉ DE CHATEAUBRIAND, Génie du Christianisme (Quatrième Partie: Culte. La Dimanche, Livre Ier, chap. IV), in ID., Œuvres complètes, Paris, Ladvocat, 1826-1831, tt. XI-XV; trad. it.: ID., Genio del Cristianesimo, Introduzione, traduzione e note di DANTE BOVO, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 1982, rist.: 1995, pp. 204-207; si vedano i seguenti brani chateaubriandiani, riferendosi ai quali, giustamente e appropriatamente, Carlo Antici glossa i concetti di Bonnet: «Abbiamo già fatto notare la bellezza di questo settimo giorno, che corrisponde a quello del riposo del Creatore. […] essa ha quelle proporzioni geometriche che gli antichi cercavano sempre di stabilire tra le leggi particolari e le leggi generali dell’universo. Essa dà il sei per il lavoro; e il sei, per mezzo di due moltiplicazioni, genera i trecentosessanta giorni dell’anno antico, e i trecentosessanta gradi della circonferenza. Si potevano dunque trovare magnificenza e filosofia in questa legge religiosa, che divideva il cerchio dei nostri lavori allo stesso modo del cerchio descritto dagli astri nella loro rivoluzione […]. Il calcolo decimale può convenire ad un popolo di mercanti: ma non è né bello, né comodo negli altri rapporti con la vita e nelle equazioni celesti. Si sa ora per esperienza che il cinque è un giorno troppo presto, che il dieci è un giorno troppo lontano per il riposo. Il Terrore, che tutto poteva in Francia, non ha mai
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
potuto costringere il contadino a completare la decade, perché c’è impotenza nelle forze umane e, pure, come è stato notato, nelle forze degli animali […]. La domenica unisce due grandi vantaggi: nello stesso tempo un giorno di piacere e un giorno di religione […]. Tuttavia questa giornata della benedizione della terra, questa giornata del riposo di Jehovah, scandalizzò gli spiriti di una Convenzione che aveva fatto alleanza con la morte, perché essa era degna di una simile società [Sap. 1, 16]. Dopo seimila anni di consenso universale, dopo sessanta secoli di osanna, la saggezza dei Danton alzando il capo osò giudicare malvagia l’opera che l’Eterno aveva trovata buona. Quella saggezza credette che, respingendoci nel caos, poteva sostituire la tradizione delle sue rovine e delle sue tenebre a quella della nascita della luce e dell’ordine dei mondi; volle separare il popolo francese dagli altri popoli, e farne come gli ebrei una casta nemica del genere umano: un decimo giorno, al quale si dava l’onore di ricordare Robespierre, venne a sostituire quell’antico sabato, legato al ricordo della culla dei tempi, quel giorno santificato dalla religione dei nostri padri, festeggiato da cento milioni di cristiani sulla faccia della terra, festeggiato dai santi e dalle milizie celesti e, per così dire, conservato da Dio stesso nei secoli dell’eternità». Il “cenno” sugli ebrei come «casta nemica del genere umano» (cenno agghiacciante, inserito in una tradizione agghiacciante) è in linea con le coordinate di Chateaubriand; ma, quanto al pensiero riguardo agli ebrei, un lettore, purtroppo, e pur in un contesto radicalmente differente, non incontrerebbe sorte molto migliore in Voltaire. Su Chateaubriand cfr. anche PIETRO SCHEDONI, Appendice intorno all’opera del Cav. FILANGIERI, La scienza della Legislazione, e intorno la lettera del Visconte di CHATEAUBRIAND sopra la libertà della stampa, in «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura», VI, t. XI, 32 (marzoaprile 1827), pp. 267-278. Nello stesso numero, cfr. FORTUNATO CAVAZZONI PEDERZINI, Sul Trattato della vita civile di MATTEO PALMIERI, e sulla ristampa fattane in Milano per Giovanni Silvestri 1827, pp. 315-327. 15 Non rientrano in questa definizione neppure le «Prelature personali», attualmente assimilate allo status di istituti clericali che nascono dalla «necessità di un’attenzione particolare a certi gruppi sociali che richiedono una pastorale specifica»; la prelatura personale «viene eretta per il bene comune della Chiesa»; è sottoposta agli Statuti della Sede apostolica e nasce come creazione della Santa Sede stessa. Si ricordino, a questo proposito, il Canone 294 e il Canone 295 («Ad aptam presbyterorum distributionem promovendam aut ad peculiaria opera pastoralia vel missionalia pro variis regionibus aut diversis coetibus socialibus perficienda, prelaturae personales quae presbyteris et diaconis cleri saecularis constent, ab Apostolica Sede, auditis quarum interest Episcoporum conferentiis, erigi possunt»; «Praelatura personalis regitur statutis ab Apostolica Sede conditis eique preficitur Praelatus ut Ordinarius proprius, cui ius est nationale vel internationale seminarium erigere necnon alumnos incardinare eosque titulo servitii praelaturae ad ordines promovere); l’intervento dei laici non può che incontrare limitazioni molto precise [in statutis apte determinentur] («Conventionibus cum praelatura initis, laici operibus apostolicis praelaturae personalis sese dedicare possunt; modus vero huius organicae cooperationis atque praecipua officia et iura cum illa coniuncta in statutis apte determinentur»); si cfr., in tal senso, De praelaturis personalibus, Liber II, Pars I, Cap. I, Titulus IV, nell’opera collettiva Codice di diritto canonico commentato. Testo ufficiale latino. Traduzione italiana. Fonti. Interpretazioni autentiche. Legislazione complementare della Conferenza episcopale italiana. Commento. Indice analitico, seconda edizione riveduta, aggiornata e ampliata a cura della Redazione di «Quaderni di diritto ecclesiale», Milano, Ancora, 2004 (I ed.: ivi, 2001), pp. 294-297. Anche sul piano delle proprietà ecclesiastiche, e dei possessi, ampiamente sostenuti e difesi nella loro legittimità nell’àmbito della trattazione di Bonnet (e nell’esegesi di Antici), i passi compiuti in avanti, pur nel quadro di determinate strutture e tendenze costanti nella legislazione della Chiesa, nel diritto ecclesiastico e, quel che ancor più conta, nel diritto canonico, sono comunque notevoli; basti pensare al progresso, in sé tecnicamente innegabile, che proprio nella definizione del concetto e della natura giuridica di proprietà e di possesso offrono le versioni aggiornate dello stesso ius canonicum (Canoni 1254-1258): «Can. 1254 – § 1. Ecclesia catholica bona temporalia iure nativo, independenter a civili potestate, acquirere, retinere, administrare et alienare valet ad fines sibi proprios prosequendos. § 2. Fines vero proprii praecipue sunt: cultus divinus ordinandus, honesta cleri aliorumque ministrorum sustentatio procuranda, opera sacri apostolatus et caritatis, praesertim erga egenos, exercenda. Can. 1255 – Ecclesia universa atque Apostolica Sedes, Ecclesiae particulares necnon alia quaevis persona iuridica, sive publica sive privata, subiecta sunt capacia bona temporalia acquirendi, retinendi, administrandi et alienandi ad normam iuris. Can. 1256 – Dominium bonorum, sub suprema auctoritate Romani Pontificis, ad eam pertinet iuridicam personam, quae eadem bona legitime acquisiverit. Can. 1257 – § 1. Bona temporalia omnia quae ad Ecclesiam universam, Apostolicam Sedem aliasve in
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Ecclesia personas iuridicas pertinent, sunt bona ecclesiastica et reguntur canonibus qui sequuntur, necnon propriis statutis. § 2. Bona temporalia personae iuridicae privatae reguntur propriis statutis, non autem hisce canonibus, nisi expresse aliud caveatur. Can. 1258 – In canonibus qui sequuntur [1259 ss.] nomine Ecclesiae significatur non solum Ecclesia universa aut Sedes Apostolica, sed etiam quaelibet persona iuridica publica in Ecclesia, nisi ex contextu sermonis vel ex natura rei aliud appareat» (ivi, pp. 987989). Se nei primi due Canoni citati vi è la riaffermazione, che peraltro non può sorprendere, del «diritto nativo» («iure nativo […] acquirere […] valet») all’acquisizione e ad ogni altra tipologia di trattamento e d’intervento sui beni da parte dell’Ecclesia, nel Canone 1256, in stretto legame concettuale con le enunciazioni immediatamente precedenti, è presente l’affermazione d’un principio importante (ivi, p. 989 e cfr. p. 990): «L’unità del patrimonio ecclesiastico è assicurata dalle finalità cui i beni sono destinati a servire […] e dalla funzione di vigilanza esercitata dalla competente autorità ecclesiatica […]. Il principio qui enunciato è molto importante e costituisce un notevole progresso giuridico laddove si consideri, da un lato, che per molti secoli il soggetto di dominio dei beni della Chiesa fu incerto (per es. Dio, Cristo, i santi, i poveri), al punto da compromettere la possibilità di tutelare adeguatamente il patrimonio ecclesiastico, e dall’altro lato, che la Chiesa in quanto tale, pur avendone teoricamente la capacità, di fatto non possiede alcun bene, se non per il tramite delle diverse pers. giur. [persone giuridiche] che ne costituiscono la struttura e attraverso le quali agisce […]». 16 Monsignor Giovanni Marchetti (1753-1829) non va confuso con l’autore (1790-1852) della Cantata in onore del Sommo Pontefice Pio nono, della cantica Una notte di Dante, di Rime e prose (su di lui, cfr. PANTALEO PALMIERI, Occasioni romagnole, cit., pp. 46, 58, 83, 86, 87, 148, e ID., Leopardi. La lingua degli affetti e altri studi, cit., passim); di Monsignor Marchetti cfr. Le raciniane ovvero lettere di un cattolico ad un partigiano della Storia ecclesiastica di Bonaventura Racine, ristampata in volgare a Firenze dall’anno 1778 al 1784, e ricominciata a Napoli, 1787; L’autorità suprema del romano pontefice dimostrata da un solo fatto. O sia dissertazione polemico-canonica sopra il concilio di Sardica e suoi canoni su la forma de’ giudizi ecclesiastici, Roma, nella stamperia di Giovanni Zempel, 1789; su di lui si cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., passim. 17 Sulle basi storiche che hanno segnato l’evoluzione dell’economia dello Stato Pontificio, sui rapporti e sugli scambi, sui reciproci flussi finanziari tra Santa Sede e stati cattolici italiani e non italiani (con la Spagna e con la Francia, con l’Austria asburgica e con la Baviera, ma anche con Firenze, con la Serenissima Repubblica di Venezia, con Milano), considerati nell’ottica della politica e delle pratiche fiscali, cfr. l’aggiornato MASSIMO CARLO GIANNINI, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della Santa Sede (1560-1620), Bologna, Il Mulino («Ricerca»), 2003; numerosi elementi dell’economia papale hanno sul piano interno i loro non casuali, benché lontani presupposti nel periodo cruciale che va dagli ultimi movimenti del Concilio tridentino agli esordi politico-militari del grande conflitto 1618-1648; molti, in questo studio, i passi dedicati alle relazioni con la Francia; ma vi sono anche resoconti dei finanziamenti alla Baviera fin dall’inizio della stessa Guerra dei Trent’anni; cfr. in tal senso le pp. 308-309, a dimostrazione documentale dell’utilizzo di risorse fiscalmente drenate da parte del Papa nei riguardi di altri stati italiani a vantaggio di ufficiali finanziamenti a stati cattolici extra-penisola: «Un altro documento di mano settecentesca – i cui dati vanno accolti con beneficio d’inventario [in relazione ai computi quantitativi «ad numerum», ma fermo rimanendone il significato storico] – stima i proventi delle decime di Paolo V in 250.783 scudi, dei quali 220.433 sarebbero stati rimessi al Duca Massimiliano I di Baviera, nella sua qualità di capitano generale della Lega cattolica. Secondo tale ricostruzione, le decime di Gregorio XV, riscosse fra il 1623 e il 1630 per complessivi 89.417 scudi sarebbero servite interamente a finanziare l’imperatore. Non è purtroppo possibile, allo stato delle conoscenze, chiarire da quale imposizione fiscale sul clero italiano provenissero le notevoli somme di denaro che la Santa Sede provvide a inviare all’imperatore Ferdinando II e al duca di Baviera. È assodato però che la Camera apostolica fornì somme cospicue a entrambi nel corso degli ultimi anni di pontificato di Paolo V e durante quello di Gregorio XV: stando a un calcolo parziale il primo ricevette ben 399.229.56 scudi e il secondo 347.405.46 scudi, senza contare i 15.928.96 scudi di moneta versati al re di Polonia, cui andrebbero aggiunti i 40.000 inviati a quest’ultimo da Paolo V nel 1613 e altri 10.672.22 al principe Neuburgh nel 1614. Unico elemento certo circa le decime è che il solo duca di Baviera ricevette 306.405 scudi in conto al gettito delle decime imposte dai due papi». 18 Il legame patrizio-matrimoniale, di solido àmbito marchigiano, tra la famiglia Antici di Recanati e la famiglia Baviera di Senigallia è indubbiamente molto stretto. Francesco Montani di Pesaro (Maria Teresa Antici, madre del marchese Carlo, zia di Terenzio e di Giuseppe Mamiani e nonna materna di
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Giacomo Leopardi, è una Montani) sposa nel 1703 Anna Beatrice Baviera, di Senigallia; e i Montani avranno contribuito a combinare il matrimonio del 10 giugno 1806, in palazzo Antici a Recanati, tra l’ultima figlia di Filippo Antici e di Maria Teresa Montani, Eleonora Antici (sorella più giovane di Carlo Antici e di Adelaide) e il marchese Romualdo Baviera di Senigallia (vedovo di Caterina Bernini di Roma, discendente del grande artista barocco, morta nel 1803; la famiglia annovera già tre figlie); Romualdo Baviera è a sua volta d’antica nobiltà e vanta i titoli di Ciambellano del duca di Modena, di patrizio, sempre di Modena, e così di Ancona, di San Marino, di Todi, di Pesaro, di Senigallia, di Montalto; né sono nuovi gli «incroci matrimoniali» con i recanatesi: Cornelia Masucci, figlia di un capitano di Recanati, aveva sposato nel 1638 Giacomo Giuseppe Baviera di Senigallia, mentre la senigalliese Dorotea Baviera si era unita, nel 1643, al recanatese Nicola Confalonieri – quest’ultimo, «Confalonieri» appunto, è il secondo cognome di Monaldo Leopardi –; si cfr., ad esempio, la firma, «Monaldo Conte Leopardi Confallonieri», appósta in calce al biglietto d’omaggio parentale-nobiliare (ora nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro) che Monaldo, dopo il recente matrimonio, invia da Recanati il 29 settembre 1797 a Pesaro, al conte Gian Francesco Mamiani, acquisito parente, zio di Adelaide, di Carlo e di Eleonora Antici perché marito di Maria Vittoria Montani, sorella di Maria Teresa, madre degli stessi Antici: «Il seguìto mio Matrimonio colla MARCHESA ADELAIDE ANTICI figlia del Marchese FILIPPO ANTICI di questa Città [Recanati] mi arreca anche il non piccol vantaggio di acquistare delle relazioni colla rispettabile Famiglia di V. Eccell. Avanzandolene pertanto la dovuta notizia, mi congratulo con me stesso non meno, che per avere acquistato un diritto ai pregiati comandi dell’E. V., che vivamente mi auguro» (seguono appunto i convenevoli e la firma). Il matrimonio Baviera-Confalonieri del 1643 attesta, dunque, una possibile, se non addirittura probabile, parentela dei Baviera con gli stessi Leopardi. Né Monaldo manca di partecipare, sempre con il cognome «Leopardi Confalonieri», alle pubblicazioni epitalamiche per le nozze della cognata Eleonora con Romualdo Baviera: cfr. Agli egregi virtuosi sposi sig.re Marchese Romualdo Baviera e sig.ra Marchesa Eleonora Antici. Il Conte Monaldo Leopardi Confalonieri offre una poesia (Osimo, 1806), che fa coppia con altra pubblicazione, non monaldesca (Per le faustissime nozze delle Eccellenze del Signore Marchese Romualdo Baviera di Senigallia e la Signora Eleonora Antici di Recanati – Senigallia, Lazzarini, 1806). Si cfr., per queste ed altre notizie su Eleonora Antici Baviera (1781-1858), un articolo dedicato da un discendente della famiglia senigalliese alle due marchesine recanatesi, a queste due sorelle di Carlo Antici: ALESSANDRO BAVIERA, Adelaide Antici Leopardi e sua sorella Eleonora, pubblicato anche in estratto dagli «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Marche», serie VII, vol. VIII, 1953, pp. 3-16; vi si può leggere il resoconto della visita a Senigallia del Viceré d’Italia Eugenio Beauharnais e del relativo incontro con i Baviera (p. 5), la conferma dell’amicizia con gli alti ambienti ecclesiastici e in particolare con il cardinale Ercole Consalvi (fruttata a Romualdo Baviera la carica, istituita giusto per lui, di Capitano del Porto di Senigallia – ibidem), la segnalazione di cinque lettere, a loro volta presenti in Oliveriana, indirizzate da Eleonora al cugino Giuseppe Mamiani della Rovere a Pesaro, il protocollo di lettere in partenza di Monaldo Leopardi, da Recanati, indirizzate o concernenti i parenti Baviera (quindici missive, dal marzo 1806 al settembre 1827), il cenno alle lettere di Giacomo Leopardi, scritte tra il 1825 ed il 1827, riguardanti anche gli zii Eleonora e Romualdo, dei quali il poeta è più volte ospite (cfr., ad esempio, la lettera di Giacomo a Monaldo del 27 aprile 1827 da Bologna: «Vidi a Sinigaglia la zia Leonora e il marchese Romualdo, che salutano tanto lei e la mamma», in GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, a cura di WALTER BINNI e di ENRICO GHIDETTI, cit., I, p. 1281), ma da cui è profondamente separato, e sempre di più lo sarà, da un dissenso ideologico di fondo, soprattutto riguardo alla religione, tanto che una viva eco ancora se ne coglierà nell’ultima figlia di Eleonora, Carlotta, morta ottantanovenne nel 1906, che in tarda età ricorda i problemi procurati alla famiglia dall’«eretico» contino, figlio di Adelaide e perciò cugino, maggiore di ventinove anni, della stessa Carlotta (pp. 6 ss.). Le sorelle Antici, Adelaide ed Eleonora (ricorda Alessandro Baviera), educate nel convento dell’Assunta, sono «Passate quasi immediatamente dal chiostro alla direzione di una famiglia e di una prole» (p. 13), e questa base biografica spiega forse quella rigidezza che, in definitiva, le accomuna nel loro rapporto con i figli (la stessa Carlotta Baviera manifesta più volte una certa insofferenza nel ricordo della madre). 19 Di Bossuet, oltre alla Politique tirée des propres paroles de l’Écriture sainte, si ricordi in particolare, anche per la contemporaneità di concezione e di impianto con la Politique (1679), il Discours sur l’histoire universelle, Seconde partie (La suite de la Religion), chapp. XXVI (Diverses formes de l’idolatrie: les sens, l’intérêt, l’ignorance, un faux respect de l’antiquité, la politique, la philosopie, et les hérésies viennent à son secours: l’Église triomphe de tout) e XXXI (Suite de l’Église catholique et sa victoire manifeste sur tou-
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tes les sectes); Troisième Partie (Les Empires), chapp. Ier (Les révolutions des empires sont réglées par la Providence, et servent à humilier les princes), II (Les révolutions des empires ont des causes particulières que les princes doivent étudier) e VIII (Conclusion de tout le discours précédent, où l’on montre qu’il fait tout rapporter à une Providence); dal chap. XXXI della Seconde Partie si vedano i seguenti passi: «C’est aussi cette succession [la «suite» stessa della Chiesa cattolica], que nulle hérésie, nulle secte, nulle autre société que la seule Église de Dieu n’a pu se donner»; «Il paraîtra toujours aux yeux de tout l’univers, qu’eux et la secte qu’ils ont établie se sera détachée de ce grand corps et de cette Église ancienne que Jésus-Christ a fondée, où Saint Pierre et ses successeurs tenaient la première place, dans laquelle toutes les sectes les ont trouvés établis. Le moment de la séparation sera toujours si constant, que les hérétiques eux-mêmes ne le pourront désavouer, et qu’ils n’oseront pas seulement tenter de se faire venir de la source par une suite qu’on n’ait jamais vue s’interrompre. C’est le faible inévitable de toutes les sectes que les hommes ont établies. Nul ne peut changé les siècles passés, ni se donner des prédécesseurs, ou faire qu’il les ait trouvés en possession. La seule Église catholique remplit tous les siècles précédents par une suite qui ne lui peut être contestée»; «Je n’ai pas besoin de vous parler de Clovis, de Charlemagne, ni de saint Louis. Considérez seulement le temps où vous vivez, et de quel père Dieu vous a fait naître. Un roi si grand en tout se distingue plus par sa foi que par ses autres admirables qualités. Il protège la religion au-dedans et audehors du royaume, et jusqu’aux extrémités du monde. Ses lois sont un des plus fermes remparts de l’Eglise, Son autorité révérée autant par le mérite de sa personne que par la majesté de son sceptre, ne se soutient jamais mieux que lorsq’elle défend la cause de Dieu»; «S’il attaque l’hérésie par tant des moyens, et plus encore que n’ont jamais fait ses prédécesseurs, c’est n’est pas qu’il craigne pour son trône; tout est tranquille à ses pieds, et ses armes sont redoutées par toute la terre: mais c’est qu’il aime ses peuples, et que, se voyant élevé par la main de Dieu à une puissance que rien ne peut égaler dans l’univers, il n’en connaît point de plus bel usage que de la faire servir à guérir les plaies de l’Eglise. / Imitez, Monseigneur, un si bel example, et laissez-le à vos descendants. Recommandez-leur l’Eglise plus encore que ce grand empire que vos ancêtres gouvernent depuis tant de siècles. Que votre auguste maison, la première en dignité qui soit au monde, soit la première à défendre les droits de Dieu, et à etendre par tout l’univers le règne de Jésus-Christ, qui la fait régner avec tant de gloire!» (cfr. JACQUES-BÉNIGNE BOSSUET, Discours sur l’histoire universelle, in ID., Œuvres – Oraisons funébres, Panégyriques, Discours sur l’histoire universelle, Sermons, Rélation sur le Quietisme –, Textes établis et annotés par l’ABBÉ BERNARD VELAT et YVONNE CHAMPAILLER, Paris, Gallimard – «Bibliothèque de la Pléiade», n. 33 – 1970 – Ière éd.: 1961 –, rispettivamente, pp. 942, 943 e 946-947). Si leggano altresì i seguenti passi, dalla Trosième Partie, rispettivamente chap. Ier, e Conclusion…, chap. VIII (rispettivamente, pp. 950 e 1025): «Une autre Rome toute chrétiènne sort de cendres de la première; et c’est seulement après l’inondation des Barbares que s’achéve entièrement la victoire de Jésus-Christ sur les dieux romains, qu’on voit non seulement détruits, mais encore oubliés»; «Dieu tient du plus haut des cieux les rênes de tous les royaumes; il a tous les cœurs en sa main; tantôt il retient les passion, tantôt il leur lâche la bride; et par là il remue tout le genre humain. Veut-il faire des conquérants; il fait marcher l’épouvante devant eux, et il inspire à eux et à leur soldats une hardiesse invincible. Veut-il faire des législateurs; il leur envoie son esprit de sagesse et de prévoyance; il leur fait prévenir les maux qui menacent les États, et poser les fondements de la tranquillité publiqué publique. Il connaît la sagesse humaine, toujours courte par quelque endroit; il l’éclaire, il étend ses vues, et puis il l’abandonne à ses ignorances: il l’aveugle, il la précipite, il la confond par elle-même: elle s’enveloppe, elle s’embarrasse dans se propres subtilités, et ses précautions lui sont un piège. Dieu exerce par ce moyen ses redoutables jugements, selon les règles de sa justice toujours infaillible. C’est lui qui prépare les effets dans les causes les plu éloignées, et qui frappe ces grand coups dont le contre-coup porte si loin […]. Par là se verifie ce que dit l’Apôtre [S. PAOLO, I Tim., VI, 15: «beatus et solus potens, Rex regum et Dominus dominantium»], Dieu est hereux, et le seul puissant, Roi de rois, et Seigneur des seigneurs.». Non si potrebbe desiderare una più convinta ed eloquente riaffermazione di un Dio che regge «tous les royaumes». Di Bossuet è opportuno consultare anche il testo delle sole Oraisons funébres, Texte établi avec introduction, notices, notes, glossaire et relevé des variantes par JACQUES TRUCHET, Paris, Garnier, 1961, che si segnala per la ricca Introduction (pp. I-XLVIII) che orienta il lettore nella suddivisione in gruppi delle varie Oraisons, citate, come si è visto, anche da Antici, e sulla loro stratificazione e diacronia testuale; ID., Sermon sur la mort et autres sermons, Chronologie, préface et bibliographie par JACQUES TRUCHET, ivi, Garnier-Flammarion, 1970; peraltro, Bossuet e Fénelon non sono fra loro disinvoltamente allineabili, data la polemica antimistica che il primo sostenne nella Rélation sur le Quietisme, che ebbe, fra gli altri effetti, quello d’interrompere la loro intesa e la loro amicizia;
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ma Antici non è certo il solo ad elencarli, non casualmente, l’uno vicino all’altro; basti rammentare il VOLTAIRE della Lettre à d’Argental (18 settembre 1768): «Dites-moi pourquoi, depuis Bossuet et Fénelon, nous n’avons point eu de bonne oraison funébre? Est-ce la faute des morts ou des vivants?»; ma ne esce, comunque, rafforzata la grandezza del Papa e della sua singolare monarchia (più volte rilevata nella sua connotazione eterna) anche nella visione di Antici e di Bonnet, se si considera che la monarchia terrena è, in un modello di pensiero come quello di Bossuet, anch’essa soggetto di deperibilità e di decadenza, e oggetto d’inevitabili giudizi di vanità, come ancora lo Chateaubriand del Génie sottolinea a proposito delle Oraisons, in specie riguardo a quella su Henriette d’Angleterre: «le potentat le plus absolu du globe est obligé de s’entendre dire devant des milliers de témoins, que sa puissance n’est que songe, et qu’il n’est lui-même que poussière» (Génie du Christianisme, Troisième Partie, Livre IV, chap. IV, Paris, Larousse, 193617, p. 8; per contro, si può leggere nella Biblioteca Casanatense di Roma – 6263.81 –, dello stesso FRANÇOIS-RENÉ de CHATEAUBRIAND, Traduzione del discorso da lui tenuto in qualità di ambasciatore di Francia al conclave del 1829, ms. – mm. 305-620 –. Ma si cfr. anche, nella Collezione degli opuscoli de’ Calobibliofili di Imola – IV ottobre-novembre-decembre 1825, pp. 1-114 –, Della religione considerata coll’ordine politico e civile del Sig. Abate DE LA MENNAIS, Prima parte resa italiana dal P. M. TOMMASO BUFFA DOMENICANO, coll’aggiunta d’un Articolo estratto dal Memorial Catholique, 1825). Ove talvolta lo stesso Bossuet appaia incorrere in affermazioni discutibili, o addirittura rasentare, in qualche suo testo, l’enunciazione errata, vi è chi, come ad esempio Hyacinth Sigismond Gerdil (notevole figura di cardinale, savoiardo di nascita, e dotato di cultura linguistica franco-italiana, non a caso presente fra gli autori citati da Antici, e frequente incontro nei testi del marchese e del suo ambiente culturale, in miscellanee e riviste; su Gerdil, infatti, cfr. più sotto, in questo capitolo, nn. 49 e 52), è pronto a discutere tale affermazione, argomentando a favore d’un’impossibilità d’un vero errore da parte di uno dei maestri della cultura cattolica a partire dalla fine del XVII secolo; si veda l’eccezione che potrebbe venir mossa a Bossuet nella trattazione della presunta intermittenza di fede in Pietro apostolo in occasione della sua negazione di Cristo; vi è un’essenziale differenza tra ciò che il santo ha «in corde» e le parole che invece egli esibisce «in ore»: «intus veritatem tenebat, et foris mendacium proferebat». Non si può, dunque, sulla base d’un singolo passo, credere a una simile défaillance di pensiero da parte di Bossuet; cfr. quanto ne viene dicendo Gerdil in una serie di opuscoli riguardanti la costituzione ecclesiastica della Chiesa (presenti in Vallicelliana), quasi in un circolo di rassicurazione all’interno del cattolicesimo, in un procedimento al quale molto spesso vediamo rifarsi Carlo Antici, che di questo tipo di saggistica si è, come egli dimostra nei propri scritti, ampiamente e profondamente nutrito, e che ha in Bossuet ed in Gerdil due autentici e mai rinnegati maîtres-à-penser. Le citazioni sono tratte da Opuscula IX «HYACINTHI SIGISMUNDI GERDILII S. R. E. CARD. AD HIERARCHICAM ECCLESIAE CONSTITUTIONEM SPECTANTIA, Romae, Typis S. Congr. De Propaganda fide socio eq. Petro Marietti administro anno ANNO MDCCCLXVII»; nell’introduzione di «CAROLUS VERCELLONE SODALIS BARNABITES LECTORI SALUTEM» (un’introduzione interamente in latino, come il resto dell’opera, di 416 pagine), si precisa che prima di questa edizione romana vi erano state un’edizione bolognese, una «plenior romana editio», una fiorentina «minus perfecta», una «neapolitana editio caeteris cumulatior» (p. V), a conferma del successo e del riscontro che tale letteratura continua ad incontrare nel corso dell’Ottocento, anche quando si afferma un recupero su nuove basi della cultura laica. I quattro primi opuscoli (p. VI) furono editi ancora vivente l’autore, ma lontano dal suo controllo, a Parma, quindi a Venezia. Nell’Opusculum V, Consectaria ad hierarchicam constitutionem spectantia ex his quae acta sunt inter cl[arissimum]. Bossuetium et DD[ominos]. Molanum et Leibnitium, pp. 187-223, alle pp. 193-194, si neutralizzano i possibili effetti dottrinari dell’errore, peraltro in sé improbabile, di Bossuet: «Itane vero existimabimus cl[arissimo]. Bossuetio errorem istiusmodi obrepere potuisse, ut censuerit, Petrum aliquando incredulum fuisse, postquam etiam audivit, Ego rogavi pro te etc.? […] profert probatque Augustini luculentum testimonium, Petro scilicet a Christo promissum fuisse, ut haberet in fide liberrimam, fortissimam, invictissimam, perseverantissimam voluntatem (De corrept. et gr. c. 8, n. 17). Cui testimonio consentaneum aliud est, nec minus insigne (l. 1 cont. mendac. c. 6, n. 13) [Quis ita evanescat, ut existimet Apostolum Petrum hoc habuisse in corde, quod in ore, quando Christum negavit? Nempe in illa negatione intus veritatem tenebat, et foris mendacium proferebat… ] Quod et suis verbis Bossuetius ipse profitetur (Medit. in Evang.) ubi exponens illud Lucae 22: Ego autem rogavi pro te, ut non deficiat fides tua, quis, inquit, dubitare valeat quin hac precatione Petrus acceperit fidem constantem, invictam, immobilem, et insuper adeo abundantem, ut potis esset confirmare non vulgus tantum fidelium, sed et fratres suos Apostolos ac pastores gregis?». I re, i monarchi laici, dal canto loro, chiamati all’incarnazione
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
etica diretta ed assertiva dei valori che loro competono, possono trovare uno specchio di virtù nel FÉNELON di Les adventures de Télémaque; si veda, ad esempio, nel V libro, Mentor-Minerve, sul punto di approdare a Creta, rispondere sull’«autorité du roi»: «Il peut tout sur les peuples, mais les lois peuvent tout sur lui. Il a une puissance absolue pour faire le bien, et les mains liées dès qu’il veut faire le mal. Les lois lui confient les peuples comme le plus précieux de tous les dépôts, à condition qu’il sera le père de se sujets; Elles veulent qu’ul seul homme serve, par sa sagesse et par sa modération, à la félicité de tant d’hommes; et non pas que tant d’hommes servent, par leur misére et par leur servitude lâche, à flatter l’orgueil et la mollesse d’un seul homme. le roi ne doit rien avoir au-dessus des autres, excepté ce qui est nécessaire ou pour le soulager dans ses pénibles fonctions, ou pour imprimer aux peuples le respect de celui qui doit soutenir les lois. D’ailleurs, le roi doit être plus sobre, plus ennemi de la mollesse, plus exempt de faste et de hauteur qu’aucun autre. Il ne doit point avoir plus de richesses et de plaisirs, mais plus de sagesse, de vertu, et de gloire que le rest des hommes. Il doit être au-dehors le défenseur de la patrie en commandant les armées, et au-dedans le juge des peuples pour les rendre bons, sages, et hereux. Ce n’est point pour lui-même que les dieux l’ont fait roi. Il ne l’est que pour être l’homme des peuples. C’est au peuples qu’il doit tout son son temps, tous se soins, toute son affection, et il n’est digne de la royauté qu’autant qu’il s’oublie lui-même pour se sacrifier au bien public» (cfr. FRANÇOIS DE SALIGNAC DE LA MOTHE-FÉNELON, Les adventures de Télémaque, in ID., Œuvres, 2 voll., Édition présentée, établie et annoté par JACQUES LE BRUN, Paris, Gallimard – «Bibliothèque de la Pléiade», n. 437 –, 1997, p. 59). Non sarà illecito permettere una risposta alla commistione pagano-cattolica, omerico-cristiana di Fénelon, proprio da parte di quel Voltaire additato come “mostro” religioso-culturale da Bonnet e da Antici: «Or, maintenat, monsieur de Télémaque, / Vantez-nous bien votre petite Ithaque, / Votre Salente et vos murs malheureux, / Où vos Crétois, tristement vertueux, / Pauvres d’effet et riches d’abstinence, / Manquent de tout pour avoir l’abondance» (Le Mondain, 1736); è il prezzo della trasformazione di Telemaco da eroe classico in eroe cristiano, in eroe delle virtù della premura e della mitezza, della mansuetudo e della clementia (Les adventures de Télemaque, cit. – Livre XIII –, p. 228): «Nestor et Philoctète étaient étonnés de voir Télémaque devenu si doux, si attentif à obliger les hommes, si officeux, si secourable, si ingénieux pour prévenir les besoins». Cfr., come ulteriori edizioni di testi di Fénelon, ID., L’amore disarmato. Antologia delle lettere, Introduzione, scelta dei testi e note di BENEDETTA PAPASOGLI, Traduzione di STELLA MORRA, Milano, Edizioni Paoline («Letture cristiane del secondo millennio», n. 19), 1996; ID., Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore (dall’originale Explication des maximes des saints sur la vie intérieure par messire FRANÇOIS DE SALIGNAC FÉNELON, archevêque duc de Cambray, précepteur de messeigneurs les ducs de Bourgogne, d’Anjou et de Berry. À Paris chez Pierre Auboin, Pierre Emery, Charles Clousier, 1697), Prima versione italiana, saggio introduttivo, note di commento e apparati di MARCO VANNINI, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni («Classici del pensiero cristiano», n. 13), 2002 (una «Explication» caratterizzata dalla struttura ad allure binaria, «Vero» / «Falso», riguardo alle «maximes» che vengono esposte); ID., De l’éducation des filles, Paris, Dianoia, 2002; ID., Dialoghi sulla eloquenza, Introduzione, traduzione e note a cura di FRANCESCO CAPPA, Milano, Glossa Edizioni («Sapienza», n. 11), 2003; L’Éxpérience de Dieu avec Fénelon, Paris, FIDES, 2003; ancora FÉNELON, La tradition secrète des mystiques: le gnostique de Saint Clément d’Alexandrie, ivi, Arfuyen, 2006. Su Massillon, cfr., recentemente, FRANÇOIS MASSILLON, Oraison funébre de Louis XIV. 1715, précédé de La parole et le néant par PAUL AIZPURUA, Grenoble, Editions Jérôme Millon («PCA – Petite Collection ATOPIA», dirigée par CLAUDE LOUIS-COMBET, n. 30), 2004, ovvero Oraison funébre de Louis le Grand Roi de France. Prononcée dans la Sainte-Chapelle de Paris (pp. 37-121), preceduta da LE GRAND-DE BEAUFORT, Rélation du Service funébre du défunt Roi Louis XIV. Célébré à la Sainte-Chapelle le 17 décembre 1715 (pp. 25-36), utile anche per un confronto con alcune Oraisons di Bossuet; la collana della «Petite Collection ATOPIA», elettivamente vocata alla pubblicazione di autori e di testi di interesse religioso, e quasi tutta incentrata su autori francesi, registra, come sola presenza di autore italiano (al n. 14), il PÉTRARQUE di Aux amis. Lettres familières 1330-1351. 20 «“Journal de Francfort” (Paris, 1794-1810). Poi “Gazette du Grand-duché de Francfort” (18111813) e quindi “Journal de Francfort politique et littéraire” (1814-…)» (cfr. NADA FANTONI, «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi, cit., p. 13, n. 3). 21 Molto probabile l’identificazione dell’«Alemanno» con don GIUSEPPE SAMBUGA, che, pur nel nome italiano (è figlio di commercianti comaschi emigrati in Germania) è nativo dell’Alto Palatinato, risiede in Germania per tutta la vita e ne ha assunto la mentalità e l’etica; proprio Carlo Antici, sulla scorta di Johann Michael Sailer, estrarrà nel 1825-1826 (dapprima nel «Giornale Ecclesiastico di Roma», poi
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in seconda ed ampliata edizione, in opuscolo a parte) un sunto-compendio riguardo alla figura di Giuseppe Sambuga, a profilo della sua vita e secondo la stessa tecnica e lo stesso procedimento attuati per l’opera di Bonnet, ossia di traduzione, di riduzione e di ricollegamento organico delle parti dell’originale tedesco saileriano; il marchese, che nella vicenda dell’italiano di origine, vissuto – ma in questo caso per l’intera esistenza – con fecondi esiti e con alti risultati culturali e spirituali (oltre che etici) in Germania, parzialmente rivede la propria esperienza di Monaco e di Heidelberg (ricordando che Sambuga, come si è accennato, è a differenza d’Antici a tutti gli effetti «alemanno», e ha conosciuto l’Italia solo nel periodo romano di consacrazione al sacerdozio), rammenta nel suo profilo dell’ecclesiastico tedesco particolarmente amato e stimato da Sailer (altra figura che riveste grande interesse per Antici) il non casuale approdo a Mannheim proprio nel 1775, come aggiunto dello zio materno, parroco, e poi, anch’egli, come parroco alla pari con lo stesso zio. Proprio a Mannheim egli viene nominato predicatore di Corte. Al Serenissimo Elettore, il marchese Carlo Teodoro Antici deve ufficialmente i propri due nomi, secondo una linea di costante legame con la Baviera. 22 Sul periodo di fine secolo XVIII e sull’alterno rapporto di dialogo e di scontro, a livello di alta diplomazia, tra Roma e Parigi, cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit.; in questo volume si trovano notevoli aggiornamenti bibliografici su molti personaggi che rivestono un ruolo importante in quegli anni decisivi nei quali si formano la personalità e le scelte ideologiche fondamentali di Antici, quali il citato Azara (cfr. p. 324, n. 18 e passim), il cardinale Garampi (pp. 609-610), Hyacinthe-Sigismond Gerdil (pp. 77-100 e passim; vita ed opere alle pp. 610-614), Augustin Barruel de la Beaume, passim, e così il cardinale Albani, il cardinale Brancadoro, il cardinale Caleppi, ed altri ancora. Avranno le loro specifiche citazioni anche il cardinale Tommaso Antici, zio di Carlo (cfr. le pp. 69, 469, 492, 494, 581) ed il cardinale Vincenzo Altieri, che contemporaneamente a Tommaso Antici produrrà un atto di rinuncia al cardinalato (pp. 100, 417, 471, 491, 494, 580). Da PELLETIER (cit. dal Fondo Garampi 284, ff. 110-112 dell’Archivio Segreto Vaticano, lettera del 15 agosto 1790, ricevuta il 2 settembre a Roma, dell’ecclesiastico francese JEAN PEY al cardinale Garampi) riproduciamo un brano epistolare sulla situazione dell’anno 1790, vissuta dai cattolici filo-romani a Parigi nello stesso modo nel quale lo si vive a Roma (p. 197): «Le numéraire disparait a vue d’œil, la subordination des troupes réglées est presque entièrement perdue. L’augmentation des impots que la situation des finances rend nécessaire à la place de la diminution qu’on attendait, va exiter un murmure général, et Dieu veuille qu’on en rest là; et si avec tous cela, les bruits de guerre qui nous font craindre pour nos frontières se réalisent, que deviendrons nous? Mais ce qui allarme encore davantage les vrais fidèles sont les decrets du comité ecclésiastiques et qui étant évidenmment schismatiques ne manqueraint pas de faire des martyrs, et sépareraient la France du Saint-Siège. Nous sommes encore menacés d’un decret permettant le divorce qu’on a deja proposé, et dont la discussion a été remise à quelques jours d’ici nous sommes encore menacés de l’abolition du célibat ecclésiastique et de la proscription de l’habit clérical, auxquels depuis quelques tems, par des brochures repandues de tous cotés pour déterminer l’opinion publique, ainsi qu’on l’avait pratiqué pour faire passer les autres décrets. Il eut été a désirer que les évêques de l’assemblée eussent fait une institution commune pour éclairer les fidèles, et même bien des ecclésiastiques, sur l’incompétence de l’assemblée, et sur les vérités dogmatiques qui servent de base à la discipline de l’eglise. On eut d’abord posé en principe cette vérité de fois, que le Royaume de J. C. est la fin dernière à laquelle doivent se rapporter toutes les institutions politiques, à laquelle doivent être subordonnées toutes les lois humaines. Per quem omnia propter quem omnia et in ipso condita sunt universa. De la du pouvoir descendu à l’ordre hiérachique instituté par J. C. à la subordination des Prêtres à l’égard des évêques, et des évêques ainsi que tous les fidèles à l’égard du chef de l’eglise universelle, une subordination qui est de droit divin, et absolument nécessaire au maintient de l’unité. Puis deux principes fondamentaux sur la discipline 1° que c’est à l’eglise à elle à sanctionner les reglemens de discipline, à les interpréter, à les modifier àles abolir, et à donner la mission canonique que les ministres de la religion ne peuvent recevoir que de leur supérieur ecclésiastiques ayant juridiction sur eux. Passant ensuite à la discussion des decrets en particulier, on eut montré l’absurdité de la plupart qui révoltent la siane raison, telle que l’admission des protestans des juifs, des impis, pour le choix des évêques et des curés». Oltre alla preoccupazione per il sovvertimento delle istituzioni e per le ulteriori conseguenze che il religioso prevede che vi saranno, risultano chiari all’occhio del lettore i termini della società auspicata dai cattolici di stretta osservanza: «De la du pouvoir descendu à l’ordre hiérarchique instituté par J. C. à la subordination des Prêtres à l’égard des évêques, et des évêques ainsi que tous les fidèles à l’égard du chef de l’eglise universelle»; la conferma del diritto divino sul quale si fondano la gerarchia spirituale e quella sociale non
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potrebbe essere più perspicua: «une subordination qui est de droit divin». Non meno significativo è un passo, in questo caso dello stesso PELLETIER, sulla realtà culturale dello stato ecclesiastico nell’epoca di Pio VI, un’epoca nella quale le conseguenze della soppressione (avvenuta nel 1773) della Compagnia dei Gesuiti determina nella Chiesa cattolica l’esigenza di rinsaldare le maglie delle proprie strutture e del proprio pensiero, tanto da indurre un recupero delle tendenze bellarminiane, oltre (e ciò risulta in sé prevedibile) di certe basi culturali solidamente domenicane (ivi, pp. 216-217): «La situation historique précise dans laquelle se trouve Pie VI mérite encore d’être évoquée pour mettre en situation les enjeux des courants théologiques du moment. Contre la Compagnie de Jésus, entre 1762 et 1773, se sont ligué par intêréts les jansénistes, les parlementaires français, les gallicans et le philosophes. Réinterpretée au fond comme un acte de faiblesse de la papauté, la suppression des Jésuites par Clément XIV rend une théologie de la primauté pontificale plus nécessaire pour redorer un blason en fort mauvais état aux yeux des monarchies européennes. D’ou une utilité renouvelée de théories de Bellarmin et, en opposition, une lutte contre les théologiens soupçonnés de richerisme, lutte qui offre la facilité d’un argument de poids: Richer fut condamné par la France “gallicane”! Relevons encore combien les événements de la Révolution Française offrent au pape la possibilité d’exercer une part de son pouvoir indirect sur le temporel: il se doit de donner des conseils aux catholiques français. Il sera d’autant plus intéressant d’étudier plus loin les hésitations et la prudence de la Curie sur les théologies politiques de Saint Thomas-d’Aquin ou de Bellarmin». La «prudence» cui allude Gérard Pelletier sopravverrà, dunque, in séguito. Ma nell’epoca nella quale è impellente dovere storico «redorer un blason en fort mauvais état» le teorie bellarminiane si porgevano come un ancoraggio ed una base di partenza validi e necessari. Il cardinale Bellarmino è, non certo a caso, fra gli autori d’elettiva, congeniale preferenza del marchese Carlo Antici. 23 Sulle elezioni papali cfr., ultimamente, AMBROGIO PIAZZONI, Storia delle elezioni pontificie, Nuova edizione aggiornata, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 2005 (I ed.: 2003). 24 A proposito degli oggetti d’arte e di culto (l’opera di recupero da parte di Pio VII cui allude Antici nella sua nota è fatta assurgere a palese compenso delle spoliazioni rivoluzionarie, e in specie d’un recupero che presuppone il percorso dall’Italia alla Francia, da Roma a Parigi), e sullo scontro, visto in questo caso nell’ottica francese in cui lo ha vissuto Bonnet, d’una radicatissima tradizione cattolica con uno spirito rivoluzionario laicizzante ed esplicitamente scristianizzatore, qui in particolare applicato al tema delle “reliquie” accreditate di sacralità, cfr. PHILIPPE BOUTRY-DOMINIQUE JULIA, Reliques et Révolution Française, nell’opera collettiva intitolata Religione cultura e politica nell’età moderna. Studi offerti a Mario Rosa dagli amici, Firenze, Olschki («Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”. Studi. CCXII»), 2003, pp. 337-352; da questo studio si evince che la maggior parte delle fonti alle quali attingere per studiare i comportamenti riguardo alle reliquie (problema in realtà molto più delicato di quanto possa a prima vista apparire) deriva proprio dal clero cattolico dell’Ottocento, ovvero da una fase storica successiva alla Rivoluzione: «Elles émanent généralement du clergé catholique du XIXe siécle, soit sous la forme d’enquêtes épiscopales soit sous la forme de monographies paroissiales, et font état de la restauration des sanctuaires et de la translation de reliques anciennes, préservées en partie ou en totalité, selon un récit-type construit autour de la profanation puis de préservation et de la resacralisation de la relique» (p. 339); ma, in realtà, «La destruction des reliques de la monarchie sacrale précède chronologiquement la vague iconoclaste de l’an II. Elle atteste assurément la volonté delibérée, de la part des conventionnels, de mettre fin au caractère sacral de la monarchie française» (p. 342); più sotto (p. 345), si ricorda l’effettiva opera di asportazione e di distruzione delle reliquie durante la Rivoluzione: «La destruction du sanctuaire des rois de France est cependant inséparable de la déchristianisation, effectuée à Saint-Denis plus tôt et plus violemment qu’ailleurs, dans le cours des mois de septembre et octobre 1793. Une délibération municipale en date du 21 septembre ordonne la destruction de toutes les croix de la commune. Le 22 septembre, des habitants de Saint-Denis demandent à prendre le nome de “Franciade”. Le dernier office a été célébré le 13 octobre; la basilique est fermée au culte le 16 octobre». E da parte della «Commune», il 23 ottobre 1793, si ordina l’eliminazione d’ogni ricordo dell’istituzione monarchica: «considerant qu’il est de son devoir de faire disparaître tous les monuments qui alimenteraient les préjugés religieux et ceux qui rappellent la mémoire exécrable des rois, arrête que dans huit jours, les gothiques simulacres des rois de France, qui sont placés en haut du portail de l’église de Notre-Dame, seront renversés et détruits»; poco dopo, si allude a «deux sortes de préjugés, monarchiques et religieux» e al «triomphe sur le despotisme et la superstition, les deux plus cruels ennemis du genre humaine» (p. 347). Ma sul problema materiale dell’asportazione, del successivo reperimento e poi della ricollocazione delle sacre reliquie, si innesta, differente nell’origine ma convergente nelle modalità e negli
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esiti, la vera e propria fioritura del fenomeno delle apparizioni religiose, le quali, anche quando non direttamente legate alla pretesa manifestazione di sdegno del Divino o di icone di santi davanti alla marea rivoluzionaria, vengono non di meno citate, nel loro significato apparentemente “neutro” di fenomeno in sé, quali “fattori” di manifestazione e di dimostrazione dell’“alternativa” di concezioni offerta dalla fede nei fenomeni religiosi rispetto a quello che è sentito come un prevalere del pensiero storico laico; si considerino le Lettere sulla prodigiosa apparizione di una Croce nella comune di Migné diocesi di Poitiers in Francia, Roma, «Presso Vincenzo Poggioli Via in Arcione n. 101», 1827 (il testo è citato anche nelle «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura» di Modena, VI, t. XI, 32 – marzo-aprile 1827 –, in CARLO GALVANI, Sulla apparizione d’una Croce a MIGNÉ presso Poitiers, pp. 255-265 – si cfr. p. 258, n. 2 –; in tale contributo è ricordata anche l’edizione francese: Rapports sur l’apparition d’une Croix dans la paroisse de Migné présentés à Monseigneur l’èvêque de Poitiers et imprimés par son ordre, Paris et Poitiers, 1827): vi è citata, da Poitiers, la lettera del sig. COURZON sindaco della «commune» di Migné al sig. de-la-Guimardrie, «29 décembre 1826»; seguono copia di rapporto al vescovo di Poitiers e della lettera del vescovo di Poitiers a Mgr [Monseigneur] Boyer, direttore del Séminaire de Saint Sulpice a Parigi, e altresì la lettera a quest’ultimo di Mgr MESCHAIN, Vicario generale e Superiore del seminario di Poitiers (sull’utilizzo politico delle apparizioni prodigiose cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., pp. 483-484). Nella Miscellanea R. G. Storia IV. 5161 della Biblioteca Vaticana, cfr. ASSOCIATION DE LA SAINTE-FAMILLE, Documents relatifs à l’apparition de Nôtre-Seigneur dans la Sainte-Eucharistie le 3 Fèvrier 1822, in «EXTRAITS DE L’AQUITAINE», semaine religieuse de l’Archidiocèse de Bordeaux (Nos 5, 6, 7, 8, 9 Février 1894), Bordeaux, imprimérie de G. Delmas, Rue SaintChristoly, 10, 1900»:, in particolare, ATTESTATION de MME [evidente, qui, il rispetto della carica e dell’età, che produce, appunto, «MME», in sostituzione di «MLLE»] LA SUPERIÉURE DE LA MAISON DE LORETTE, pp. 10-11, fondata su un’apparizione di Cristo nel convento: «Je, soussignée, Superiéure indigne de la Maison de Lorette, atteste que la dimanche de la Septuagésime, troisième jour de ce mois, ayant eu le bonheur de recevoir la bénédiction dans la chapelle de Nôtre-Dame de Lorette, et ayant osé, contre mon ordinaire, porter mes regard sur la sainte hostie, je m’aperçus que les espèces étaient remplacées par Nôtre-Seigneur Jésus-Christ lui-même; je ne voyais que sa tête et son buste; il était comme encadré dans le cercle de l’ostensoir, mais il se penchait de temps en temps du côté où j’étais et alors son visage semblait sortir hors du cercle qui l’environnait. J’ai vu, en outre, une lumière éclatante de chaque côté, et à peine les eus-je aperçues qu’elles tombèrent en gerbes et se dissipèrent; preoccupée de cette vision pendant l’hymne du Saint-Sacrement, le Salvum fac regem, les oraison e le cantique, je n’avais point la force de chanter le cantique, et sentant au dedans de moi une grande ferveur, je me disais: Oh! que je sarais contente si c’était réellement mon Dieu qui voulût se montrer à découvert? […] Mais comme j’avais souvent formé ce désir, je craignais que ce ne fût qu’une illusion, et cependant je voyais toujours Notre-Seigneur sous la même forme […]. Je me retirai dans ma chambre sans avoir parlé à personne; étant descendue un moment après, plusieurs personnes m’ayant environnée pour me raconter ce qu’elles avaient vu, je connus bien alors que je ne m’étais pas trompée et je bénis Notre-Seigneur de la grâce qu’il venait d’accorder à notre pauvre maison, bien résolue d’en profiter pour l’aimer davantage et pour le servir avec plus de zèle que je ne l’avais fait […] / J’atteste toutes ces choses en présence de Jésus, Marie et Joseph, afin que nos Soeurs conservent le souvenir d’une si grande faveur, qu’elles s’excitent à une grande dévotion envers notre Sauveur […], bien persuadées que Notre-Seigneur est toujours avec nous sous les espèces eucharistiques, quoique nous ne puissions pas toujours le voir des yeux du corps, comme il m’a fait la grâce de le voir, malgré que j’en fusse bien indigne. / En foi de quoi / (Signé) A. NOAILLES / Supérieure de la Maison de Lorette / Bordeaux, le 6 février 1822». Beninteso, si tratta d’una tradizione che, se se ne segue la linea propriamente “ufficiale”, vaticana, ha una consistente continuazione anche nel prosieguo storico: nella stessa miscellanea vi è il testo latino dell’Enarratio Eucharistici prodigii Senensis in Congressu internationali Amstelodami, Romae, Typis Polyglottis Vaticanis, 1924. Altrettanto si dica (ivi; l’opuscolo inserito è di pp. 66) della storia della Vergine di Genazzano: LUIGI VANNUTELLI, dedicato a Chiara Vannutelli, Cenni storici sul Santuario di Maria SS. di Genazzano, Roma, Salviucci, 1839; a p. 3, l’AVVERTIMENTO DELL’EDITORE rivela con chiarezza, e con perspicua opzione di schieramento religioso e polemico-propagandistico, le finalità di ricostruzione storica in chiave provvidenziale che hanno le pagine dell’opuscolo riguardo ai fatti della Rivoluzione francese e ai “rimedi” che la volontà divina avrebbe pósto davanti all’incalzare delle tendenze scristianizzatrici: «I trascorsi ultimi anni sono stati dalla Provvidenza divina contrassegnati dai più grandi e straordinarj prodigj nell’ordine morale. In fatti la tempesta furiosa, che parea dover avvolgere la navicella di Pietro in un sicuro
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naufragio, volta contra ogni aspettazione in una improvvisa serenità; la successione de’ Romani pontefici che, secondo tutti i calcoli dell’umana politica e secondo le misure decisive prese dai nemici del nome cristiano, parea che dovesse avere in Pio VI il suo termine, continuatasi pacificamente fino a Leone XII; un impero possente [l’impero napoleonico] che sembrava formato per l’eternità, rovesciato in un istante dalle fondamenta e dileguatosi siccome l’ombra; i legittimi principi ritornati al possesso de’ loro troni, quando ne aveano quasi perduta ogni speranza; ed i popoli tutto ad un tratto ricondotti a menare giorni più tranquilli sotto scettri paterni, quando pareva deciso, sotto il militar dispotismo, il loro perpetuo servaggio: sono degli avvenimenti, ne’ quali, a meno che non si voglia ostinarsi contra ogni morale evidenza, è impossibile il non ravvisare il dito possente di Dio». A conclusioni non troppo dissimili induce (Misc. Legata 315. 29, Biblioteca Alessandrina) l’Istoria documentata della perseguitata giovane inglese FELICITA BRIDGTOWER scritta per informazione a Sua Eccellenza il Signor Ministro di Polizia a tutti i Magistrati ed allo stesso Console Sig. Giovanni Freeborn, Roma, 1848. Si cfr. anche, sempre nella miscellanea dell’Alessandrina, la Vita del glorioso martire S. Pantaleone medico protettore della città di Ravello con brevi cenni della venuta del suo sangue in detta città per d. FERDINANDO MANSI, Roma, Tipografia Anacleto Sabatini, 1857. Ma pure nelle miscellanee della Vallicelliana si trovano in tal senso notevoli esempi, in sé significativi anche d’una volontà di ripresa, di riproposta e di riedizione, proprio in quegli anni, delle storie di apparizioni o di reperimenti d’immagini sacre: in un fondo Falzacappa (ma vi è allusione ad una copia anche in Biblioteca Casanatense) in cui ricorrono i nomi del cardinale Galleffi («Galeffi») e di altri eminenti personaggi del mondo ecclesiastico romano, vi è, con dedica alla maestà di re FELIPE IV DI SPAGNA e con il «NIHIL OBSTAT» del padre GIOACCHINO (denominato, in altri documenti, «GIOACHIMO», o «GIOVACCHINO») VENTURA, nella sua funzione di «censor theologus» (egli è nominato come «P. D. IOACHIM VENTURA THEATINUS»; il suo nome ricorre, come si è potuto vedere, nella traduzione da parte di Antici delle Omelìe di Sailer – pp. XXIX-XXX, nota 3 – e ricorrerà nella biografia «transuntata» che lo stesso Antici effettuerà dell’Hurter), l’attestazione, pubblicata nel 1657 e nuovamente edita a Roma nel 1826 presso l’editore Contedini, d’un rinvenimento d’immagine sacra in terra di Sicilia, a Palermo; si tratta della Historia repertae imaginis septem Angelorum in urbe Panormo: fideliter excerpta ex vitis ss. siculorum, A R. P. Octavio Cajetano scriptis et A R. P. Petro Salerno, in sacro tribunali ss. Inquisitionis qualificatore et consultore, editis praecedunt vitae praedicatorum PP. Octavii et Petri e Societate Jesu simulque titulus, dedicatio, et aliquid ex proemio praefati operis ss. siculorum, quod Panormi anno 1657 debita cum licentia excusum est Catholico Hispaniarum Regi Philippo IV dicatum, et in Bibliotheca Casanatensi et alibi invenitur, Romae, MDCCCXXVI, Apud Linum Contedini cum facultate». In àmbiti diversi da quello italiano, si ricordino TERESA NEUMANN, La stimmatizzata di Konnersreuth: fatti e ricordi. Un contributo alla teologia mistica ed alla filosofia della religione, traduzione dal tedesco di CASTOLO GHEZZI, Roma, Scuola Salesiana Del Libro, 1935, e BERNARD BOLZANO, Reformkatholizismus e utopia nella Praga della restaurazione, a cura di GIUSEPPE RUTTO, Torino, Giappichelli, 1984. 25 Di FILIPPO ANFOSSI cfr. La restituzione dei Beni Ecclesiastici necessaria alla salute di quelli che ne han fatto acquisto senza il consenso e l’autorità della S. Sede Apostolica, II edizione, Bologna, Nobili, 1824, presente nella Biblioteca Vallicelliana. Vi si mette in dubbio (cap. II, pp. 3 ss.) l’appartenenza alla “Nazionalità” civile dei beni della Chiesa, che invece appartengono realmente agli ecclesiastici, i quali ne godono per diritto; il Clero (cap. VII) «possiede i suoi Beni per diritto naturale, e divino, e non per pura concessione della Civil podestà» (pp. 32 ss.). Alle pp. 3-4 si sostiene la distinzione tra beni ecclesiastici e beni «Nazionali»: proprio a questa distinzione si appella Anfossi, attribuendo alla Chiesa, qui con argomentazione condotta in modo complessivamente acritico, i beni nel loro “spessore” materiale. La distinzione è invece concettualmente del tutto diversa, e fonte di diverse conseguenze, per il pensiero laico. Alla p. 8 si ricorda che il concilio di Trento ha finito per approvare (nella seduta finale del 19 novembre 1563) la disposizione secondo la quale i Beneficiati devono avere un vero dominio sulle rendite ecclesiastiche. Chi serve all’Altare, deve vivere dell’Altare, senza distinzione fra povero e ricco; anche il ricco ha quindi il diritto di goderne: e vivere dell’Altare vuol dire vivere dei proventi materiali che ne derivano. Non si tratta perciò di mero beneficio dispensario, ma di autentico dominio e di possesso dei fondi (p. 11); e, a p. 10, vi era stata una giustificazione del nepotismo. Viene ricordato il Canone VIII del concilio di Agde, del 506 d. C., con la presenza di trentacinque vescovi con a capo don Cesario di Arles e Alarico II, re dei Goti, che regnava in Aquitania. Non manca la citazione di S. Agostino, il cui concetto di “non amore”, o di sopportazione subìta dei beni temporali, proprio in sé rinvia, per la «contradizion che no’l consente», al possesso degli stessi beni, mancando i quali non sarebbe possibile l’insorgere di tale sentimento. Più
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direttamente legato al concetto di “non proprietà”, se non in forma comune e propria della Chiesa come “istituzione”, è il parere di Maruy, autore citato anche nella Miscellanea del Fondo Gesuitico 107, 18, della Vittorio Emanuele di Roma. A p. 67 è citato monsignor Martini, arcivescovo di Firenze, l’autore della citata versione in volgare, con annotazioni esegetiche, della Bibbia, nel suo parere sulla Comunione dei Santi che non può supplire ai «Pii legati»; anzi, l’unione con le anime del Purgatorio, con i sacrifici che comporta, implica l’obbligo di attuazione materiale di tali impegni, anche per rispetto delle volontà dei testamenti; il concetto si fonda su AGOSTINO, De baptismo, 3, 70, e sul Tractatus in Ioannem (In Evangelium Ioannis), 30. Alla p. 71 è citata una lettera (AMBROSI Epistulae ad sororem Marcellinam, XX, 7) di Sant’Ambrogio alla sorella Marcellina: «Convenior ipse a comitibus, et a tribunis, ut Basilicae fieret matura traditio dicentibus Imperatorem, jure suo uti; et quod in potestate ejus essent omnia. Respondi, si a me peteret, quod meum esset, id est fundum meum, argentum meum, quidvis huiusmodi meum, me non refragaturum, quamquam omnia, quae mea sunt, essent pauperum; verum ea, quae sunt divina, imperatoriae potestati non esse subiecta»; appare qui chiara la scissione dei beni dal “soggetto”-Ambrogio: il bene personale appartiene in realtà ai poveri, mentre ciò che è di Dio non può appartenere all’autorità imperiale. E viene da ricordare, a proposito del pauperismo di Ambrogio, il famoso «Non de tuo largiris pauperi, sed de suo reddis», che tradurremo «Ciò che dai al povero non è tuo dono; tu, al contrario, gli restituisci ciò che già era suo». Ma anche nel pagano SENECA, De beneficiis, 4-5, può ritovarsi una distinzione che si richiama a simile concetto: «Ad Reges potestas omnium pertinet, ad singulos proprietas». La Chiesa è, per Anfossi, l’organismo collettivo dei «singuli» su cui il sovrano è solo custode, senza dover insidiare la relativa “proprietà”. Alle pp. 91-92 è citato in latino MICHEA, 6, 10: « ¬ [Adhuc] ignis in domo impii thesauri iniquitatis[, et mensura minor irae plena»: la frase va così completata; cfr. la «Vulgata» latina: «Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio Breviario perpetuo et concordantiis aucta, adnotatis etiam locis qui in monumentis fidei sollemnioribus et in liturgia Romana usurpari consueverunt», a cura di LUIGI GRAMATICA, Città del Vaticano, TYPIS POLYGLOTTIS VATICANIS, 1959 – prime edizioni: 1913-1929 – p. 862]» («Potrei dimenticare la casa dell’empio che ammucchia tesori d’iniquità […]?» – cfr. La Sacra Bibbia tradotta dai testi originali e commentata, a cura e sotto la direzione di Monsignor SALVATORE GAROFALO, condirettori FRANCESCO VATTIONI e LEONE ALGISI, 3 voll., Torino, Marietti, 1968, V rist., I ed.: 1960, II, p. 1216; una traduzione analoga di questa frase variamente resa a seconda delle edizioni, centrata sui «tesori», nella Bibbia inglese: «Can I forget the treasures of wickedness in the house of the wicked […]?» – cfr. The Holy Bible, contanining The Old and New Testaments. Revised Standard Version. Translated from the original languages being the version set forth A. D. 1611. Revised A. D. 1881-1885 and A. D. 1901 compared with the most ancient authorities and revised A. D. 1946-1952. Second edition of The New Testament A. D. 1971, New York-Glasgow-London-Toronto-Sydney-Auckland, William Collins Sons & CO. LTD, 1979, p. 821). Vi è l’esempio, in quelle pagine, di Enrico VIII d’Inghilterra, che non ha fatto migliorare l’erario e non ha sgravato le tasse dei cittadini e men che mai di quelli poveri, e, come dice Bossuet (p. 95), per poter saccheggiare con qualche titolo la Chiesa Anglicana, se n’è fatto il capo. Alle pp. 92-93, Anfossi esprime quello che dirà Antici sulla perdita delle “limosine” da parte dei poveri: coloro i quali hanno comprato i beni ecclesiastici, dei monasteri, dei conventi, dei claustrali, li hanno tenuti per sé, hanno offerto un cuor di ferro e una porta dura come il diamante alla mano del questuante, mentre vi era un religioso nei monasteri, addetto a questo filantropico fine, che cercava di non mandare mai via a mani vuote i poveri. E dice di averlo visto egli stesso più volte. L’argomentazione si rafforza con il riferimento a tutti gli atti e a tutte le disposizioni, compreso il Sinodo di Costanza, che decretarono o difesero l’inalienabilità giuridica dei possessi ecclesiastici; sfilano, in questo elenco mirato alla difesa del potere temporale del Papa, Costantino, Carlo Magno, il V Concilio Lateranense con Leone X. Anfossi, inoltre, cita la Storia del clero di Francia in tempo della Rivoluzione scritta dall’Abate BARRUEL. Se Pio VII ha permesso l’alienazione dei suoi beni, è perché la Chiesa si trovava in condizioni di grossa difficoltà; e si cerca la legittimazione, o anche in questo caso il rinforzo delle proprie tesi filopontificie nel V Concilio di Orléans, nel I concilio di Parigi, nel concilio di Tours, nel concilio di Magonza, nel concilio di Worms, nel concilio di Aquisgrana e nel concilio Laterano sotto papa Leone X; e si evoca pure la Disciplina del concilio di Trento. Si analizzano – pp. 117-119 – i due concordati della Santa Sede con il primo Console della Repubblica Francese e con il rappresentante della Repubblica Italiana; ma, come fa capire Anfossi, si era in realtà contrarî all’accordo, come aveva dimostrato (pp. 117-118) il Breve dato all’imperatore dei Francesi il 27 marzo 1808 «e riportato nella Corrispondenza autentica della Corte di Roma colla Francia», Parigi, 1814. È citato il Breve del 21 luglio 1773, con cui Clemente XIV ordinò che si vigilasse a che
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i beni, le case, le opere pie, le sedi delle congregazioni dei Gesuiti, proprio allora soppressi come Ordine, fossero inalienabili, e vi fosse divieto per i sovrani di mettervi le mani. A p. 131 si conclude l’argomentazione rammentando che il Papa nega ai sovrani quello che permette ai sudditi. Ancora, Filippo Anfossi è compreso in una pubblicazione collettanea, presente nella Biblioteca Vallicelliana, strutturata secondo il metodo della compresenza di opere e di relative confutazioni: MARCO MASTROFINI, De Metaphysica sublimiore de Deo trino, et uno, Romae, Sumptibus Vincentii Poggioli Typographi Rev. Cam. Ap., 1816; JOSEPH DELLA PORTA (F. JOSEPH FARALDI)-TOMMASO DOMENICO PIAZZA (Fr. THOMAS DOMINICUS PIAZZA Ordin. Praedicat.), ne effettua la confutazione: De Metaphysica sublimiore de Deo trino, et uno specimen ac votum Sanctissimo Domino nostro Pio Papae VII denunciatum humiliter atque fideliter, Roma, Poggioli, 1816, e Monaco, 1820 (altro documento significativo del continuo rapporto della Roma papale con le sedi accademiche e religiose cattoliche tedesco-bavaresi). Quest’ultima opera a sua volta incontra la propria confutazione: Confutationis fallaciarum Magistri PIAZZA adversus metaphisicam sublimiorem demonstratio, Florentiae, 1821. L’opera scorre con il testo «Magistri Piazza» nella parte superiore, e in nota, pagina per pagina, la Demonstratio fallaciarum per partes, ovvero la confutazione della confutazione. Alle pp. 1-88 vi è un’altra confutazione, proprio di FILIPPO ANFOSSI, Il grido della fede contro la Metafisica sublimiore de Deo Trino et Uno, Monaco, 1820, e replica, in difesa di Mastrofini, di un uditore, Opuscolo IV, Firenze, 1821. Nello scritto di Anfossi vi è la negazione della possibilità di dimostrare il mistero della Trinità con la ragione umana, e la riaffermazione delle ragioni della fede. Molto citata, non solo da Anfossi ma in tutto il volume, la raccolta dei concili del LABBÉ. Eccone un esempio di stile, pp. 16-17: «e parlando dell’anima separata dal corpo ci dice che sta correndo qua e là per gli ameni campi del cielo per amoena coelorum exspatiatur»; si tratta d’uno stile colloquiale da maestro che sùbito inserisce il latino, come si vede alle pp. 29-31, a proposito di Sant’Agostino: «Anzi lo nega espressamente nel lib. XIII. cap. XI. delle sue confessioni, in cui tratta dei simboli della Trinità che vi sono nell’uomo “Trinitatem omnipotentem quis intellegit, et quis non loquitur eam, si tamen eam? rara anima quae dum de illa loquitur, scit quid loquitur, et contendunt et dimicant, et nemo sine pace videt istam visionem. Vellem ut haec tria cogitarent homines in se ipsis, longe autem sunt ista tria quam illa Trinitas, sed dico ubi se exerceant, et probent, et sentiant, quam longe sunt […]»; altro specimen dello stile confutativo (pp. 42-43): «e poi chi lo ha autorizzato il Sig. Teologo di 30. anni a interpretare a suo modo le proposizioni condannate dal Papa, e apporvi quelle condizioni che più si confanno colle sue idee? L’interpretazione della legge non appartiene che al principe il quale l’ha fatta, e l’interpretazione de’ pontificj decreti non appartiene che al Papa». Alle pp. 46-47 Anfossi nega che l’autore della Metafisica sublimiore abbia il conforto di San Tommaso, come non ha quello di Sant’Agostino, e neppure l’autorizzazione ad affermare che la trinità non si può conoscere senza conoscere Dio per essenza; il primo uomo non ha veduto Dio per essenza: «videbat Deum in aenigmate quia videbat Deum per effectum creatum» (I. P. q. 94. a. I ad. 3.). Alla p. 61 è citato San Bernardo, alle pp. 65-66 sono citati San Girolamo e nelle pagine seguenti, 66-67, i Vangeli (S. Matteo), mentre alla p. 69 è citato il San Paolo della prima lettera ai Corinzi. Lo scritto prosegue con ulteriori citazioni di San Tommaso, pp. 7476, e di Sant’Anselmo, pp. 76-79; nelle pagine finali dell’opera (in particolare a p. 85) la Metafisica sublimiore è dichiarata incompatibile anche con le «definizioni dogmatiche de’ Romani Pontefici Gregorio XI. e Paolo V.». Il volume comprenderà pure il Saggio di fra MAURIZIO BENEDETTO OLIVIERI, Roma, Con Facoltà Superiore, 1821; secondo il solito stile confutatorio, vi saranno anche i «Mancamenti del saggio, Opuscolo VI, Firenze, Novembre 1821» (quindi gli elementi di incompletezza dello stesso saggio, le sue lacunosità filosofiche), ovvero la sua confutazione. Sull’abate Marco Mastrofini, sulla grande autorità che egli gode in Roma, cfr. NADA FANTONI, «La Voce dalla Ragione» di Monaldo Leopardi (1832-1835), cit., passim; Mastrofini è autore, fra altre opere, di Le usure. Libri tre. Discussione, Roma, Vincenzo Poggioli, 1831, opera che è stata al centro di una polemica, sulla tematica dell’usura, che ha coinvolto in primo piano, e in chiave di diretta esposizione, Monaldo Leopardi e la stessa rivista «La Voce della Ragione». 26 Marino Marini è cameriere segreto del Pontefice e prefetto degli «Archivj Pontificj». È nipote del grande studioso di diplomatica Gaetano Luigi Marini, quello zio cui si allude nelle lettere di GIACOMO LEOPARDI a Monaldo, da Roma, del 15 marzo 1823 (vi è nominato lo stesso Marino Marini: «Mons. Marini nepote del famoso Gaetano Marini e suo successore nell’impiego di Archivista vaticano», in GIACOMO LEOPARDI, Epistolario, cit., I, pp. 672-673: 672), e di GIUSEPPE MELCHIORRI a Giacomo Leopardi, da Roma, del 28 novembre 1824, ivi, pp. 825-827: 826 («Il famoso esemplare de’ fasti di Almeloven tutto pieno di postille, e schede di Mons.r Gaetano Marini, è fra le mie mani, e mi darà
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grand’ajuto»). La “costellazione” di studiosi e di intellettuali ecclesiastici o filoecclesiastici romani che attorniano, anche culturalmente, la figura e l’opera di Carlo Antici nella capitale pontificia, e che altresì accompagnano per un breve ma significativo tratto l’opera filologica di Leopardi, mostra, anche al proprio interno, una serie di rinvii e di reciproche connessioni, e di comune trattazione di argomenti. 27 Karl Ludwig von Haller Zimmermann proviene da una famiglia molto importante nella cultura svizzero-tedesca ed europea. In prospettiva dei concetti che richiederà la trattazione di Antici in relazione al nucleo coeso, che più volte, e talora sistematicamente, la cultura tedesca avvalorerà, tra teologia e studi razionali, tra cristianesimo, studi biblici e in genere scritturali, e filosofia, fra le scienze naturali, le loro innovative scoperte, i loro interni progressi, e la religione o il concetto di anima e di Dio, e di dinamismo biologico non indipendente dal dinamismo spirituale, valga soffermarsi sulla figura di avo del quale Haller, peraltro molto citato e presente nelle riviste in cui scrive il marchese Antici, si mostra, nelle sue basi formativo-culturali, non casuale discendente. L’avo è appunto il fisiologo Albrecht von Haller (Berna 1708-1777), docente d’anatomia a Berna, a Gottinga nel 1736, di nuovo a Berna dal 1743; studia i fenomeni di generazione dei tessuti, mentre in botanica, dove pure è dottissimo, si schiera contro Linneo. È autore di circa duecento opere, di cui si possono citare, rappresentativamente: Elementa physiologiae corporis humani (1757-1766), Opera minora (1761-1768), Biblioteca di botanica (1771), Biblioteca di chirurgia (1774), Biblioteca di medicina pratica (1776), Biblioteca d’anatomia (1777). Scrive anche il poemetto in alessandrini Le Alpi (1729), che ha goduto di notevole fortuna nel genere della poesia descrittiva, e tre romanzi politici: Usong (1771), Alfredo (1773), Fabio e Catone (1774); le Lettere (1722, 1775), dal canto loro, costituiscono un’intensa apologia del cristianesimo, molto efficace nella sua epoca. Si cfr., su di lui (oltre a un precedente contributo di R. G. MAZZOLINI, Gli studi embriologici di A. Von Haller negli anni 1755-1758, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», III, 1977, Bologna, 1978, pp. 183-242; si cfr., più in generale su questi argomenti, l’opera collettiva Immagini del Settecento in Italia, Bari, Laterza – «Biblioteca di Cultura Moderna Laterza», n. 836 –, 1980), il Catalogo del Fondo Haller della Biblioteca nazionale Braidense di Milano, a cura di MARIA TERESA MONTI, Milano, Franco Angeli (Collana «Filosofia e scienza nell’età moderna»), vol. 1: A-F, 1983; vol. 2 / 1: Dissertazioni delle biblioteche lombarde, A-M., 1993; vol. 3, 1990; Libri, P-S. vol. 3 / 1, 1984; vol. 3 / 2: Libri, T-Z, 1985; vol. 4 / 2, 1988; Indici. «Addenda», 1994; si cfr., inoltre, MARIA TERESA MONTI, Congettura ed esperienza nella fisiologia di Haller. La riforma dell’anatomia animata e il sistema della generazione, Firenze, Olschki («Biblioteca di Nuncius»), 1990; e, ancora, l’opera collettiva Vitalism from Haller to the Cell Theory. Proceedings of the 19th International congress of history of science (Zaragoza, 2229 August 1993), a cura di G. CIMINO e di F. DUCHESNEAU, Firenze, Olschki («Biblioteca di Physis»), 1997 (gli atti del convegno si occupano delle diverse concezioni del «vitalismo» su cui si è fondata la biologia, come anche la scienza medica, dagli anni a cavallo fra la prima e la seconda parte del XVIII secolo agli anni centrali del successivo. Di fronte alla teoria cellulare di Schwann, capostipite d’una numerosa schiera di seguaci scientifici, si pone, nell’ottica di questo convegno, la fisiologia albrechthalleriana della sensibilità e dell’irritabilità, una fisiologia che gode allora d’una notevole considerazione, e che traccia una propria parabola di non oscuro riscontro scientifico). Si vedano, in particolare, alcuni dei principali titoli scientifici di ALBRECHT von HALLER, che riproduciamo secondo la loro impostazione bibliografico-tipografica settecentesca: Memoires sur la nature sensible et irritable, des parties du corps animal; par monsieur Alb. de Haller, tome premier [- quatrième], À Lausanne, chez Marc-Michel Bousquet & C. et se vend à Paris: chez Durand, rue du Foin, 1756 (contiene: 1: tome premier, contenant une seconde édition corrigée, de la Dissertation sur l’irritabilité suivie de l’exposé synthetique des faits, tiré d’un grand nombre d’expériences faites par l’auteur; 2: tome deuxième, contenant des experiences de plusieurs anatomistes d’Allemagne, de France, d’Angleterre, & d’Italie. Ouvrage qui sert de suite aux Memoires de monsieur de Haller; 3: tome troisième, contenant les experiences de plusieurs anatomistes d’Allemagne, de France, d’Angleterre, & d’Italie. Ouvrage qui sert de suite aux Memoires de monsieur de Haller; 4: tome quatrième, contenant les reponses faites a differentes objections, par monsieur de Haller). Si vedano anche, in lingua italiana, Sulla sensibilità e irritabilità di alcune parti degli animali. Dissertazioni de’ signori HALLER ZIMMERMAN e CASTELL trasportate in lingua italiana dal padre GIAN VINCENZO PETRINI colle lettere del padre URBANO TOSETTI sullo stesso argomento, in Roma, nella stamperia di Giovanni Zempel presso Monte Giordano, 1755, e ALBERTI v. HALLER, Historia stirpium indigenarum Helvetiae inchoata, tomus primus [- tertius], Bernae, sumptibus [a spese] Societatis typographicae (Societas Typographica Berna: 1758-1831; ex officina Danielis Brunneri & Alberti Halleri), 1768 (contiene: 1: Plantae flore composito. Didynamiae. Papilionaceae. Cruciatae. Meiostemones. Isostemones. Diplostemones; 2:
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Polystemones. Liliaceae. Gramineae. Apetalae; 3: Apetalae staminibus inconspicuis). Per la sensibilità lirico-geografica e paesaggistico-descrittiva di ALBRECHT HALLER, cfr. il citato Le Alpi (Die Alpen), con testo originale a fronte, a cura P. SCOTINI, Verbania, Tararà (collana «Di monte in monte»), 1999; sull’importante carteggio di Albrecht Haller, dal quale scaturisce, come si è accennato, una sentita e non banale apologia della religione cristiana, si vedano ALBRECHT VON HALLER-IGNAZIO SOMIS, Briefwechsel 1754-1777, herausgegeben und erläutert von ERICH HINTZSCHE, Bern-Stuttgart, Huber, 1965; ALBRECHT VON HALLER-MARC’ANTONIO CALDANI, Briefwechsel 1756-1777, herausgegeben und erläutert von ERICH HINTZSCHE, ivi, 1966. 28 Il Karl Ludwig von Haller Zimmermann di cui si occupa Antici, figura di neocattolico (ex calvinista) che rappresenta ai suoi occhi il compimento spirituale d’un periodo storico (1800-1820) aperto dalla conversione del tedesco Stolberg e “chiuso”, come significato di esauriente convalida persuasiva dell’efficacia della Restaurazione e del valore veicolante delle sue polemiche e della sua propaganda, dalla conversione dello stesso bernese, è uno storico e un uomo politico, nato appunto a Berna nel 1768 e morto a Soletta nel 1854. Incaricato di missioni da parte del governo bernese, che lo nomina professore di diritto pubblico nel 1806, è nettamente favorevole alle teorie controrivoluzionarie, che, nella sua formulazione, si manifestano molto affini a quelle di Joseph De Maistre e a quelle di De Bonald. È ricordato soprattutto per la Restaurazione della scienza politica (6 voll., 1816-1825), opera di notevole mole ed impegno. Nel 1820 Haller matura, come frutto di lungo percorso personale, la propria conversione al cattolicesimo, e deve, per conseguenza, abbandonare Berna per trasferirsi a Parigi, non potendo più far parte del Gran Consiglio della città svizzera; fa parte della redazione del «Journal des débats», poi del ministero degli esteri nel 1825; è costretto a lasciare la Francia e a tornare in Svizzera in séguito alla rivoluzione del 1830. Diamo conto delle edizioni e dell’articolazione in volumi della sua opera più importante e studiata; si tratta d’un’opera accreditata di rimarchevole fortuna critica soprattutto presso le sedi, quali ad esempio la monarchia di Prussia, che si trovano ad essere, anche per tradizione storica, particolarmente favorevoli ad una concezione patrimonialistica, e quindi esattamente anticontrattualistica ed antirousseauiana, dello Stato. La dotta e ricca opera halleriana diviene addirittura una sorta di “verbo”, di vangelo storico della scienza politica della Restaurazione e in genere della grande Reazione internazionale: CARL LUDWIG von HALLER, Restauration der Staatswissenschaft: oder Theorie des naturlichgeselligen Zustands, der Chimäre des kunstlich-burgerlichen Entgegengesetzt, rist. anast.: Aalen, Scientia, 1964; se ne ricordino i rispettivi volumi, nel numero di sei, differenziati nelle loro rispettive uscite e ristampe: I.: Darstellung, Geschichte und Kritik der bisheringen falschen Systeme, rist. anast., Aalen, Scientia, 1964 (rist. anast. della 2. ed., Winterthur, 1820); II.: Makrobiotik der Patrimonialstaaten: von der Fürstentumern oder Monarchien. Hauptstuck: von der unabhangingen Grundherren oder den Patrimonialfürsten, rist. anast: ivi, 1964 (rist. anast. della 2. ed., Winterthur, 1820); III. Makrobiotik der Patrimonialstaaten. Hauptstuck: Von den unabhangigen Feldherren oder den militarischen Staaten, ivi, 1964 (rist. anast. della 2. ed., Winterthur, 1821); IV.: Makrobiotik der Patrimonialstaaten. Hauptstuck: Von den unabhangigen geistlichen Herren oder den Priesterstaaten, ivi, 1964 (rist. anast. della 2. ed.: Winterthur, 1822); V. Makrobiotik der geistlichen Herrschaften oder den Priesterstaaten, ivi, 1964 (rist. anast. della 2. ed.: Winterthur, 1834; sarà esattamente questa l’edizione, non a caso incentrata, completamente e a tutto campo, sugli Stati ecclesiastici, ad essere oggetto della recensione-saggio, del 1836, d’un Antici estremamente impegnato, coinvolto e concorde con le tematiche trattate e con le metodologie adottate per affrontarle; si ricorda, e non è dato di poco momento, che Antici, in questa circostanza, fruisce direttamente del testo tedesco, rispetto al quale effettua appropriate allusioni e del quale offre squadernati specimina, commentandolo e interpretandone i contenuti e le valenze in italiano; la rivista ha in questo senso in lui un collaboratore indispensabile e particolarmente qualificato); VI. Von den Republiken oder freien Kommunitaten, ivi, 1964 (rist. anast. della 2. ed.: Winterthur, 1825); in italiano: ID., La restaurazione della scienza politica ovvero Teoria dello Stato sociale di natura, 3 voll., a cura di MARIO SANCIPRIANO, Torino, UTET (Collana «Classici della politica». Collezione fondata da LUIGI FIRPO); vol. I (II edizione): 1995 (I edizione: ivi, 1963); vol. II: 1976; vol. III: 1981; si vedano anche: De la constitution des Cortes d’Espagne par M. DE HALLER auteur de la Restauration des sciences politiques traduit de l’allemand par lui-même (titolo originale: Üeber die Constitution der spanischen Cortes), Modène, chez les héritiers Soliani imprimeurs royaux, 1820; in italiano: Sulla costituzione di Spagna. Opera del signor CARLO LUIGI DE HALLER, II ed., Torino, vedova Pomba e figli, 1821; Della costituzione delle Cortes di Spagna di M. di HALLER autore della Restaurazione delle scienze politiche, traduzione dal tedesco nel francese dello stesso autore ed ora trasportata nell’idioma italiano da G. A. P, Imola, dalla Tipografia del Semi-
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nario, 1822; ID., De la Constitution des Cortes d’Espagne (rist. anast. dell’ed. Modena, Heritiers Soliani, 1820), Bologna, Forni («Archivio storico del movimento liberale italiano», n. 2), 1972; Di alcune denominazioni di partito. Memoria del signor Carlo Luigi de Haller per servire all’interpretazione de’ giornali e di altri scritti moderni, edizione seconda, Imola, dalla tipografia del Seminario, 1822; Aforismi sui quattro articoli della dichiarazione del 1682 diretti ai giovani teologi dall’abate de La Mennais, Imola, dalle stampe d’Ignazio Galeati, a spese della Societa de’ Calobibliofili, 1829 (contiene anche: Il sistema protestante stabilito nell’ordine militare, parabola del barone CARLO LUIGI di HALLER, e Nota della nunziatura pontificia in Ispagna diretta a quel governo li 15 giugno 1822 sopra il soggetto medesimo trattato nella nota dei 30 agosto 1821, come si desume dall’Indice delle materie pubblicate dalla Congregazione della Società de’ Calobibliofili dell’anno 1829 stampato nel mese di dicembre). Il figlio, Karl junior, non ripubblica la Macrobiotica, né degli Stati militari, né degli Stati ecclesiastici, né, ancora, la Macrobiotica delle repubbliche; Sancipriano, nell’edizione UTET, omette, dichiarandolo, di pubblicare la Macrobiotica degli stati militari e la Macrobiotica delle repubbliche; il curatore immette nel testo soltanto la Macrobiotica degli stati ecclesiastici. Nello Haller della Restaurazione della scienza politica sono più volte contenuti, fra gli altri, riferimenti all’abate Barruel, a Stolberg, a Sailer, a Johann von Müller. Si vedano, ad esempio, i riferimenti a Stolberg; nel vol. I (p. 473) la Geschichte der Religion Jesu Christi è citata (vol. I, p. 90; III, 275; IV, 47) per un contributo, che da essa proviene, sull’etimologia dei nomi «Dario» e «Alfredo» (i nomi di re o imperatori, ricorda Haller, rinviano a una connotazione di potere, di possesso, di forza, di dominio; così vale anche per i «Sufeti», magistrati cartaginesi, gli «uomini elevati», secondo il DE MAISTRE de Les soirées de Saint-Pétersbourg, 1821, I, p. 137: cfr. p. 472 n.); né manca, a p. 474, lo HURTER di Geschichte des Ostgotischen Königs Teodoric und seiner Regierung, Schauffausen, 1807, riguardo alla parola ostrogotica «Balthen», «il più eminente», «il più ardito»; nel vol. II, p. 579, la Geschichte stolberghiana è citata, I, pp. 170 e 270, riguardo alla formazione del potere territoriale del Faraone d’Egitto ai tempi di Mosé e dei tributi che venivano versati ai re delle Indie orientali nell’epoca della conquista di Alessandro Magno; lo HURTER della Storia di Teodorico, ancora, vi è nominato (p. 372 n.) a proposito della spartizione del regno ostrogoto di Welamir fra i tre figli; alla p. 697, nota b, di Haller, è ricordato, in un elenco di nomi, il principe Karl von Schwarzenberg, come esempio, fra gli altri menzionati, di “conduzione nobiliare”, aristocratica della diplomazia e della res militaris (Karl von Schwarzenberg è protagonista di uno dei citati Cenni biografici del re LUDOVICO I DI BAVIERA, tradotti da ANTICI nel 1844); molte le citazioni di Stolberg nel III vol. (si cfr. pp. 17, 34, 53, 56, 65, 82, 97, 167, 196, 223, 272, 299, 367, 387); singolarmente importante la citazione di p. 367, fondata sul vol. X, p. 17-19, della Geschichte: si tratta d’una dispiegata formulazione del principio di necessità, per le Chiese cristiane, d’un apparato, anche di tipo estetico-artistico e visivo, a significazione di solennità e di intensificazione del sentimento religioso nei fedeli. Una celebrazione, esplicita, di tutte le caratteristiche secolarmente scenografiche del culto cattolico; un’ulteriore abiura, scritta, della concezione spiritualizzante del protestantesimo e del suo rifiuto dei fasti architettonico-iconologici, degli orpelli coreografici nei luoghi ecclesiali. Ma non meno significativa era stata la citazione presente nella p. 34 di Haller (alla cui base vi è anche, appunto, F. L. von STOLBERG, Geschichte…, VII, pp. 369-370), sulla necessità dell’intermediazione scritta, del contatto intellettuale e culturale, ma anche umano e materiale, con figure che aiutino il lettore dei testi sacri, che gli chiariscano i dubbi, che ne illuminino la mente e che ne correggano i possibili errori di lettura, che gli spianino la fruizione dei passi più difficili, o incerti, o controversi; un libro non basta: ed è una precisa, e a suo modo efficace critica di uno degli aspetti qualificanti della ricezione della Scrittura nel protestantesimo, del personalizzato contatto con la Bibbia del fedele riformato. Sailer è a sua volta citato a proposito del concetto di armonia nella comunità dei fedeli con il parroco, quasi a specchio dell’armonia del corpo umano, che a sua volta è immagine dell’ordine divino (cfr. pp. 106-107); ed è il SAILER di Das Heiligtum der Menscheit (Sämtliche Werke, Seidel, Sulbach, 1830-1855), pronto, anche nell’altra citazione (p. 111), a fornire sostegno al concetto dell’appartenenza del Regno di Dio a questo mondo, ma tale da agire contro lo stesso spirito del mondo (quasi a costante monito, valido anche per un genere umano connotato nella sua “santità”). Un riferimento, ma in questo caso allo stesso Haller (precisamente, alla casa della “famiglia” Haller), vi è, invece, in TULLIO DANDOLO, La Svizzera occidentale. Il Cantone di Vaud. Lettere, Milano, per A. F. Stella e figli, 1829, e nella relativa recensione di NICCOLÒ TOMMASEO, nella «Nuova Antologia», vol. 37, marzo 1830, pp. 121-123: 122 («Dopo trasportatoci con una viva descrizione in cima al colle di S. Triphon, dopo mostrataci in Roche la dimora del celebre Haller […]»), ripresa in GIOVANNI SPADOLINI, L’idea d’Europa fra illuminismo e romanticismo. La stagione dell’’Antologia’ di Vieusseux, Firenze, Le Monnier, 1984, p. 253. E si può ricordare che
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il carteggio sviluppatosi fra Haller e Pellico contribuisce a richiamare anche il patriota uscito dall’esperienza dello Spielberg ad una dichiarata fede cristiana. 29 Si pensi agli Inni sacri di Manzoni, alla loro espressione d’una rigorosa convinzione di convertito, e, insieme, alla loro ispirazione ideale, già in parte tradotta in esiti artistici, d’una visione del cristianesimo radicalmente diversa dal cristianesimo della Restaurazione. Questi inni si trovano ad essere partecipi d’un cattolicesimo pieno ed assoluto, incondizionato e solenne, come ampiamente rivela l’acuta ricerca di coralità, della vera e propria celebrazione d’una ritualità collettiva, d’un’assemblea devota, ora sgomenta ora implorante, ora attonita, ora festosa e osannante. Negli anni (1812-1815) dei primi Inni sacri, infatti, Manzoni dimostra il pieno superamento della possibile tentazione autobiografica; e le novità presenti nei primi Inni, a livello di poetica, sono già numerose e notevoli. La considerazione non più individuale, bensì collettiva, del significato e dei valori dell’evento religioso, la rivisitazione dei precedenti biblico-scritturali che legittimano la celebrazione della solennità, sono ampiamente pervasi da uno spirito di sintesi, insieme devota e critica, d’un’ideologia storico-civile e d’una fede. Questa sintesi è un non astratto preludio dei risultati artistici più alti; basti notare la presenza d’un respiro universale, d’un pensoso affratellamento di un’umanità che in tutti è peccatrice, anche se in diverso grado, in La passione: «Sì, quel Sangue sovr’essi discenda; / Ma sia pioggia di mite lavacro: / Tutti errammo; di tutti quel sacro / santo Sangue cancelli l’error» (vv. 85-88). Non sfugge, certo, l’acquisto allo spirito clemente del cielo cristiano dell’iniziale atmosfera da Vecchio Testamento: sul peccato non deve scendere la vendetta, bensì il perdono (una «pioggia di mite lavacro»); e quel «Tutti», non a caso ripetuto nello stesso verso, estende all’umanità intera il senso e la condizione morale del peccato e del relativo perdono, superando la possibile contrapposizione, di stampo manicheo, di peccatori e non peccatori, e anticipando il famoso «a tutti i figli d’Eva / Nel suo dolor pensò» (La Pentecoste, vv. 71-72; ma si ricordi anche «Quel che è Padre di tutte le genti» di Marzo 1821, v. 69). E altrettanto si veda da La risurrezione: «O fratelli, il santo rito / Sol di gaudio oggi ragiona; / Oggi è giorno di convito; / Oggi esulta ogni persona: / Non è madre che sia schiva / Della spoglia più festiva / I suoi bamboli vestir» (vv. 85-91). I «fratelli», l’«ogni» persona, il successivo concetto riferito ad ogni madre dimostrano il superamento di qualunque dimensione diaristico-personale, di qualunque confessione di sentimenti che sarebbero propri soltanto del singolo credente. Ed anche accenni come quello a Giuda («simile quell’alma divenne / Alla notte dell’uomo omicida: / Di quel Sangue sol ode le grida, / E s’accorge che Sangue tradì» – vv. 45-48), nella loro sintesi del dramma del rimorso, attestano il carattere tutt’altro che immaturo degli Inni sacri, che sono, anzi, precocemente orientati sulla ricerca d’una misura epico-oggettiva, di grande racconto riguardante le genti cristiane, gli eventi capitali della loro era, le scansioni epocali e insieme metastoriche della nuova alleanza fra Dio e l’umanità. È in questo senso, e non solo in direzione dell’entusiasmo devoto e orante, che vanno lette certe celebrazioni, viste dalla panoramica popolare del “gregge” ammirato, che investono anche l’aspetto cerimoniale-esteriore, basilicale, liturgico-paramentale della ritualità ecclesiastica: «Via co’ palii disadorni / Lo squallor della viola: / L’oro usato a splender torni: / Sacerdote, in bianca stola, / Esci ai grandi ministeri, / Tra la luce de’ doppieri, / il Risorto ad annunziar» (La risurrezione, vv. 71-77). Manzoni, insomma, è, qui, reduce dalla «conversione», ma si mostra in grado di compiere consistenti tentativi in senso corale e storico-oggettivizzante, in una trepidante meditazione sulla storia dell’uomo valutata nei suoi svolgimenti sulla terra. In particolare, sono già presenti e condensate nell’incisivo giro versificatorio acute premonizioni del tema dell’“oppressione dei giusti”: «Che i dolori, onde il secolo atroce / Fa de’ boni più tristo l’esiglio, / Misti al santo patir del tuo Figlio, / Ci sian pegno d’eterno goder» (La passione, vv. 93-96). Gli effetti di questo processo culturale, a paragone di quanto ad esempio accade in Chateaubriand, sono palesi ed evidenti: non una sanzione legittimante del potere politico ed ecclesiastico modello antico regime, bensì una ricognizione impietosa dei suoi meccanismi oppressivi dell’uomo e delle genti, di popoli interi, secondo una linea che in Manzoni non certo a caso prosegue fino all’elaborazione dei Promessi sposi. Si veda, in Marzo 1821 (strofi VIII-IX, vv. 63-72), quella che è forse la più compiuta attestazione letteraria del Dio-guida della storia nella produzione lirica di Manzoni. Né possono sfuggire i «santi colori» del v. 86, né lo può la «santa vittrice bandiera» del v. 106. E si noti quel «tutte» («Quel che è padre di tutte le genti»), appunto riferito a «genti» fra le quali certo Dio non vuole la minima disparità di diritti. L’importanza del cristianesimo risulta ancor di più ribadita dalla possibilità, che secondo Manzoni questa religione offre più d’ogni altra cultura, di interrogare il mondo interiore degli uomini, il segreto della loro anima, i più riposti e contraddittorî meandri della loro volontà, delle loro scelte, delle loro decisioni e responsabilità. Sempre più affermandosi quale strumento di studio morale del mondo e della storia, il cristianesimo (e le opere d’inizio del grande decennio creativo,
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come gli Inni sacri, lo confermano) si chiarisce alla stessa mente dell’autore come fede salda e sicura nella confessione cattolica, nel cielo e nella Chiesa del Dio cattolico; si vedano proprio quegli aspetti liturgici, paramentali, da Chiesa romano-latina, già prima notati, che assegnano lo zelo del poeta ad una dimensione di vero desiderio di quegli aspetti, di quelle forme, di quelle ritualità: una dimensione, appunto, assolutamente cattolica e, in quanto tale, con oggettiva chiarezza, risolutamente antiprotestante, sia pure con le note venature di “giansenismo morale”. L’interpretazione che Manzoni vive del cattolicesimo, è, in effetti, sicuramente improntata ad una forte austerità e ad una severa e rigorosa intransigenza spirituale, innanzi tutto con se stesso; il suo, insomma, non è un cattolicesimo giustificazionistico, gesuitico, prevalentemente assolutorio, né, certo, esso risente d’una devozione meramente celebrativa d’un’Ecclesia triumphans (nella Pentecoste, anzi, come si è visto, s’espliciteranno i temi portanti d’un’Ecclesia militans); esso è, invece, un cattolicesimo della via crucis e del dolore umano, come dimostrano in larghissima misura molti personaggi ed episodi dei Promessi sposi. Romanticismo, cristianesimo e liberalismo (inteso, quest’ultimo, nel senso patriottico-progressista ottocentesco) sono i termini fondamentali delle idee e della poetica di Manzoni. La congiunta connotazione di romantico, di cristiano e di liberale assume, nell’autore, caratteri d’una compattezza e coesione tali che le singole componenti non ne risultino fra loro in contrasto, o in forzata unione, bensì, e ben al contrario, esse siano in grado di rinforzarsi a vicenda, e anzi d’integrarsi in una sinergia ideologico-letterario-religiosa che segna con incisività in chiave pragmatica il romanticismo milanese-italiano, così intimamente differente da quello di molte delle contemporanee versioni europee, da parte loro cifrate, spesso, da una ricerca letteraria di temi e di toni fantasticanti, irrazionali, sentimentali, patetici, o, addirittura, spiritualistico-reazionari, come avviene nel caso di Chateaubriand e di altri scrittori già nominati. Dio guida la storia (pur se ciò avviene secondo disegni imperscrutabili alla razionalità umana) e, come già emerso a proposito della Pentecoste, benedice le armi della libertà e della giustizia sociale: la religione, quindi, non è d’ostacolo all’ideologia liberale (sarà, questa, una tematica lacerante della cultura italiana del Risorgimento e della nostra storia postunitaria), e, d’altra parte, con speculare, simmetrica inversione, essere patriota e rivoluzionario non significa affatto porsi in una condizione scomunicata, atea, materialistica e antireligiosa: il liberalismo filoitaliano, come del resto avviene riguardo al liberalismo di tutti i popoli oppressi ed in lotta ripetuta e drammatica per un più giusto assetto della propria realtà storica, considerato nell’accezione di Manzoni, trova, per mezzo della fede in un arduo, e certo imprevedibile itinerario provvidenziale, il vettore d’una linea storica favorevole ai popoli e agli oppressi, e in genere agli umili, non ai re, non alle corone, non agli assetti dell’ancien régime. 30 Si ricordino, in special modo, La vita di Gesù Cristo e la sua religione (1817), lo scritto Sopra i beni grandissimi che la religione cristiana portò a tutti gli stati degli uomini (1827-1829), I fatti degli Apostoli (1821 e 1833). E si ricordi GIUSEPPE GUIDETTI, L’amicizia, la religione e la lingua nelle relazioni e carteggio tra Antonio Cesari, Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi, Reggio Emilia, Tip. editrice U. Guidetti («Collezione storico-letteraria», n. 2), 1922. 31 La «parabola» di Haller è significativamente preceduta da una rassegna dei Pensieri del Visconte de BONALD, tratti dal VI tomo delle sue opere, Parigi, 1817. In tale rassegna (nella miscellanea ogni contributo ha la propria, autonoma numerazione), a p. 59, è sostenuta una contrapposizione in chiave di manicheismo etico fra buoni e cattivi, giusti ed ingiusti; a p. 60 si sostiene l’ininfluenza della politica sull’animo umano: essa non cambia i cuori, impresa nella quale riesce soltanto la sublime religione; ancora, vi si cita Fénelon (pp. 60-61), il cui spirito e il cui intelletto si mantengono indocili agli indottrinamenti filosofici, ma docili alla religione: e questa tetragona resistenza al pensero laico, correlata alla mitezza verso la visione religiosa, è percepita e a sua volta giudicata come sublime. E in un «Varietà: Sopra il multiplicamento de’ Libri cattivi in Francia, Articolo estratto dal Giornale francese L’Amico della Religione e del Re», del 1826, Rousseau e Voltaire risultano i più gettonati fra i “cattivi”: la principale colpa è la loro. E la colpa consiste nel pensiero illuministico; in questa rassegna tratta dal giornale francese c’è tutto il nostro canone filosofico e letterario del Settecento: dodici edizioni di Voltaire, tredici di Rousseau, molte edizioni di altri autori, e relativi editori, schedati secondo un metro di giudizio che capovolge il criterio destinato a prevalere nella storiografia successiva, e che, anzi, sembra promuovere in tal senso una vera e propria riscrittura storiografica d’esecrazione dell’illuminismo (questa sorta di indiretta “messa all’indice” contempla infatti quello che in futuro sarà oggetto di qualunque “programma di studio” relativo ai maîtres-à-penser delle Lumières: Helvétius, Diderot, Raynal, Saint-Lambert, Condorcet, d’Holbach, Dupuis, Volney). In particolare, l’Esquisse del Condorcet, il Sistema della natura di d’Holbach, l’Emilio e il Contratto sociale di Rousseau sono esplicitamente indicati come scritti perniciosi, e sono col-
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piti da esecrazione gli editori che ne hanno promosso la ripubblicazione: il Varietà si riferisce agli anni 1817-1824, ed esprime la deprecazione del fatto che, in piena Restaurazione, dopo che nuove tendenze e correnti culturali si erano affermate e dopo che l’esecrazione dell’illuminismo e in genere dell’empio secolo XVIII era sembrata prevalere in modo incontrastato, “ancora” vi fossero editori che colpevolmente sostenessero la pubblicazione di tali volumi e che favorissero la diffusione delle aborrite idee illuministiche; di Sopra il multiplicamento de’ Libri cattivi è menzionata una ristampa dello stesso anno 1826 in volume a parte (Della propagazione de’ libri irreligiosi dopo la Ristaurazione, citato come «estratto del “Memorial cattolico”, Via Cassette n. 35»). 32 Si veda la trattazione per esteso di questa sollecitazione antiprotestante, di questa mirata critica rivolta al contatto individuale del credente con la Bibbia, una critica culturalmente importante e grave nelle sue conseguenze quanto alla possibilità d’una libera e insieme razionale lettura personale dei testi, in KARL LUDWIG von HALLER, La restaurazione della scienza politica, nella citata edizione italiana a cura di Mario Sancipriano, III, pp. 34-35: «La diffusione di un libro anche esimio, opera del fondatore della dottrina o dei primi discepoli, foss’anche non soltanto ispirato, ma addirittura scritto dalla mano di Dio e trascritto da tutti gli uomini, non sarebbe sufficiente a questo scopo, allo stesso modo che negli Stati temporali non si otterrebbe nulla con la semplice pubblicazione delle leggi se non ci fossero i tribunali, un potere legislativo e un potere esecutivo. Prima di tutto, non si può pretendere che tutti gli uomini siano in grado di leggere quanto è scritto e ancora meno di intenderlo esattamente, in quanto ciò avviene di rado perfino tra gli eruditi e studosi. Per di più un libro è sempre un maestro muto, e i pensieri che esso contiene, se pure chiari a chi li concepì, sono spesso oscuri agli altri, oppure, col passare del tempo, hanno mutato significato e valore. Un libro non può esporre o integrare se stesso, non può rimuovere il dubbio, non può risolvere le controversie, bensì al contrario, come tutte le leggi scritte, farà sorgere equivoci, senza procurare ai credenti (non potendosi sostituire a un interprete autorevole) uno strumento per la composizione delle controversie e il ristabilimento della pace; non può bastare all’istruzione dei fanciulli, né essere intelligibile a tutti gli adulti, non può adattarsi alle necessità e all’intendimento di ognuno, né comunicare il proprio spirito in forma diversa secondo le diverse persone che gli si accostano. I libri rappresentano spesso per i maestri la fonte alla quale attingere nuove cognizioni; l’autorità dei sapienti che li hanno preceduti serve loro a verificare e correggere le loro conoscenze; ma il vivo discorso, la comunicazione orale, sotto qualsiasi forma, è l’unico mezzo per diffondere e per rendere universalmente valida una dottrina; a questo scopo è necessaria una società o associazione visibile». 33 La vicende di D’Aldebert e di altri convertiti dei quali qui si parla sono riportate (e così vale per altre rassegne e notificazioni di tematiche di largo interesse, almeno per l’utenza di lettori cattolici) anche nella suddetta miscellanea della Nazionale di Roma. Si tratta, in questo come in altri casi, di estratti della «Collezione degli Opuscoli della Società de’ Calobibliofili» di Imola, o di altre associazioni che si richiamino ad analoghi valori, che vengono significativamente inseriti nelle miscellanee dedicate, presenti in ampia misura nelle biblioteche romane. 34 La vicenda del bavaro Peter Fickeinsen è riportata (cfr. nota precedente) anche nella citata miscellanea della Vittorio Emanuele di Roma. 35 Non può stupire, fra gli avversari della concezione contrattualistica dello Stato e dello spirito del Settecento, la presenza, messa in relazione con la forza delle esperienze di conversione, del Conte De Maistre, risoluto alfiere della Reazione e spesso protagonista, sul piano dell’occorrenza delle citazioni, nelle riviste e nella pubblicistica controrivoluzionaria; nelle pagine della miscellanea romana se ne traccia un convinto elogio, riferendosi, dopo Del Papa e della Chiesa Gallicana, a Le Veglie di Pietroburgo; nello scritto della miscellanea vengono dibattuti vari argomenti, dal libero arbitrio all’onnipotenza divina, alla psicologia, al rapporto tra Dio e i cuori; a p. 7 è detto di De Maistre: «Non s’imbatté mai l’abbietta filosofia del Secolo XVIII. in un più terribile avversario. Né la scienza, né il genio, né i grandi nomi lo arrestano: senza posa si avanza rovesciando nel cammino questi colossi, che hanno le gambe di creta: ha armi d’ogni specie per combattere, il grido della indignazione, il dardo pungente del sarcasma, una dialettica che atterra, tratti di eloquenza, che fulminano. Niuno penetrò mai con più sagacità i tortuosi giri di un sofisma per metterlo nel maggior lume, e mostrarlo, com’è assurdo, o ridicolo; non s’impiegò mai una erudizione più estesa, e più varia con arte, e giudizio, onde rassodare il raziocinio con tutta la forza delle testimonianze». Si cfr., ultimamente, sull’autore savoiardo, JOSEPH DE MAISTRE, Lettres à sa famille. Vol. I: De Turin à Saint Pétersbourg, 1791-1826, Paris, Paleo, 2006; ma non si dimentichi il DE MAISTRE prefatore (1811) del Voyage autour de ma chambre, ora in un’edizione che comprende anche l’Expédition nocturne autour de ma chambre, del fratello FRANÇOIS-XAVIER-JOSEPH-MARIE
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de MAISTRE: cfr., appunto, di quest’ultimo, Viaggio intorno alla mia camera. Spedizione notturna intorno alla mia camera, Presentazione di EMILIO ISGRÒ, Introduzione, Traduzione e Note di CARMELO GERACI, illustrazioni di FRANCESCO DE FRANCESCO, Bergamo, Moretti & Vitali, 1999, pp. 213216. Nella prefazione, pur intelligentemente indirizzata ad introdurre la prosa del fratello, è dato cogliere qualche passaggio non lontano dall’espressione della cifra ideologica dello stesso de Maistre: «La metafisica è una scienza che di rado s’incontra sulle rotte dei viaggiatori: tuttavia, per una eccezione che fa molto onore al Viaggio intorno alla mia camera, troviamo in esso un completo sistema di filosofia trascendentale; sicché anche le signore, che non amano e non leggono molto i grossi libri, ne sapranno, sulla Critica dell’anima, quanto il defunto professor Kant, di nebulosa memoria» (ivi, p. 214; si ricordi che l’antikantismo – considerato Kant come tedesco maître-à-penser dello scetticismo e dell’“individualismo”, il «sofista di Koenigsberga» del citato articolo Spirito del tempo di Antici sulla scia di Johann Georg Pflister, del 1825 – è una, pur se non certo la principale, delle linee che appartengono alla pubblicistica cui partecipa Antici, una “linea” che non è indotta dalle proprie coordinate di pensiero a tributare la necessaria attenzione alla Kritik der Urteilskraft, alla Critica del giudizio). Ed è assolutamente d’obbligo ricordare la traduzione, da parte di PAOLINA LEOPARDI, proprio del XAVIER de MAISTRE di Viaggio intorno alla mia camera, Pesaro, Nobili, 1832; ulteriori indicazioni su tale esperienza di francesista della sorella di Giacomo in RAFFAELE DE CESARE, Paolina Leopardi traduttrice di Xavier de Maistre, in «Studi francesi», XXXIX, 2 (1995), pp. 265-272, e in ELISABETTA BENUCCI, Paolina Leopardi, Viaggio notturno intorno alla mia camera. Traduzione dal francese dell’opera di Xavier de Maistre e altri scritti. Presentazione di FRANCO FOSCHI, Prefazione di LUCIO FELICI, Venosa, Edizioni Osanna, 2000. E rimane sempre vero che, da Chambéry a San Pietroburgo, dalla Savoia alla Russia, i fratelli De Maistre («Mio fratello ed io eravamo come le lancette di un orologio. Lui era quella grande ed io soltanto quella piccola, ma segnavamo la medesima ora, sebbene in modo differente» – citato in CARMELO GERACI, Introduzione. Un viaggio intorno all’anima, in Viaggio intorno alla mia camera. Spedizione notturna intorno alla mia camera, cit., p. 15), ciascuno nella propria cifra mentale e letteraria, diramavano sollecitazioni che, condivisibili o meno agli occhi e all’ideologia dei posteri, sarebbero comunque state riprese e fatte oggetto di attenzione e di studio; è la “lancetta” «più piccola» dei due fratelli savoiardi a fornire consistenti motivi d’ispirazione alle novelle del ginevrino Rodolphe Töpffer (concitoyen d’un Rousseau indicato a modello di vagabondaggio esistenziale fino a quarant’anni), alla sua pur resistibile flânerie di smagato-ironico voyageur franco-svizzero-alpino (cfr. CARMELO GERACI, Introduzione, cit., pp. 26 e 223 n. 58); e «la flânerie est chose nécessaire au moins une fois dans la vie», secondo il celebre passo de La Bibliothèque den mon oncle (cfr., per l’interesse ancora rivestito dall’Introduction, RODOLPHE TÖPFFER, Nouvelles genevoises, Choix, Introduction et Notes par MASSIMO COLESANTI, Roma, Angelo Signorelli – «Scrittori francesi», Collezione diretta da Pietro Paolo Trompeo, n. 19 –, 1958, p. 9); di più, «il donna lui-même l’exemple: tous les ans, à la belle saison, il s’en allait faire un tour dans les Alpes, en France, en Italie, en Suisse même, emmenant avec lui sa femme, ses enfants, ses élèves» (MASSIMO COLESANTI, Introduction, cit., ibidem; di diversa connotazione è la resocontistica di viaggio di Friedrich Leopold von Stolberg). È esattamente nella sottile espressione d’insofferenza rispetto alla società borghese che Xavier de Maistre, ben più di Sterne e di Charles Lamb e della loro, rispettiva scrittura, si pone quale ispiratore di Töpffer: «On a comparé souvent Töpffer à Sterne, à Charles Lamb à Xavier de Maistre; mais, comme il arrive lorsq’on fait des comparaison, on a parois confondu les deux ou les trois termes de la comparaison. Il faut d’abord distinguer de Töpffer le deux humoristes anglais, ca, quelque action qu’ils aient pu avoir sur l’écrivain genevois, l’esprit de celui-ci resté de marque typiquement française, ou franco-suisse, si l’on veut. Avec son quasi-concitoyen (Chambéry, la patrie de Xavier de Maistre, n’est pas loin de Genéve), au contraire, il a bien des traits communs: l’amour de la peinture et de la nature, la véridicité des récits, et surtout cette sorte de légère moquerie, qui ne veut avoir aucune profondeur, ni d’autres buts que celui d’amuser et de s’amuser, se rencontrent chez l’auteur du Voyage autour de ma chambre avant d’apparaitre chez Töpffer. Ce serait d’ailleurs nier l’évidence que de nier l’influence de Xavier sur la formation de Töpffer, surtout si l’on considére ses premiers écrits. Le jeune Jules, le protagoniste de la Bibliothèque de mon oncle, enfermé dans sa chambre pour étudier Grotius et Puffendorf [entrambi sono spesso citati da Antici], ressemble comme un frère à l’officier Maistre qui est aux arrêts» (ivi, p. 12). Né è difficile cogliere, nei passaggi novellistici di Töpffer, l’effetto rovinoso che ha avuto il passaggio della storia sulle morigerate e religiosamente devote comunità montano-valligiane; se ne veda un esempio, in un brano che tematicamente rinviene qualche area comune con la Svizzera di Friedrich Hurter: «Ce hameau, comme les autres de la valléè, avait sa part de bien et de vertus; comme dans les
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autres, le travail, la simplicité des moeurs y faisaient regner l’ordre, une modique aisance; les générations s’y succédaient, obscures, mais unies et paisibles. Cependant quelques-uns, à la fin des guerres de de l’empire, revenus dans leurs foyers, y rapportèrent des habitude d’oisivité, d’ivrognerie; ils y ensegnérent comment ailleurs on délaissit l’église, comment on s’y moquait du curé; ils dirent que les Savoyards sont en stime a Paris, qu’en peu d’années ils y recueillent, pour des services point rudes, une grosse somme d’argent; en sorte que plusiers, séduits, s’expatrièrent, pour revenir après quelques années; ils rapportaient la grosse somme, mais, en même temps, des vices inconnus, un libertinage honteux, la science et le besoin de la débauche. Déja auparavant le dédain des vieilles maximes, le mépris des rustiques usages, des pratiques religieuse, avaient préparé le sol; la corruption y germa, prit racine, s’étendit, pénétra jusqu’au coeur de tous ces foyers; l’intempérance, la maladie, la misére, comme autant d’ulcères, rongèrent ces familles jadis saines et aisées, et au bout de peu d’années, cette petite societé, ruinée par l’abandon des habitudes d’ordre et de labeur, et unie seulement par le lien du vice et du besoin, formait contre la propriété des communes voisines un abominable complot» (Le col d’Anterne, ivi, p. 36). Altra connotazione avrà, in Italia, nell’àmbito della novellistica alpina, la produzione di Novelle e paesi valdostani di Giuseppe Giacosa. Ma resta indubbio che anche Xavier esprime, sia pure in forma indiretta e molto meno esplicita rispetto al fratello, le conseguenze negative della Rivoluzione francese: «La rivoluzione francese, che ormai straripava da ogni parte, aveva già superato le Alpi e si precipitava sull’Italia. La prima ondata mi trascinò fino a Bologna. Conservai ad ogni modo il mio eremo, nel quale feci trasportare tutti i mobili che possedevo, in attesa di tempi più tranquilli. Da alcuni anni ero senza patria: un bel mattino appresi che ero anche senza impiego» (Spedizione notturna intorno alla mia camera, cit., pp. 128-129). 36 In Francia, il 15 dicembre 1825, nella cappella particolare di monsignor Arcivescovo di Parigi, Madamigella de Joux de la Chapelle «ha abbiurato gli errori di Calvino e Lutero, per entrare nel seno della Chiesa Cattolica. Il di lei genitore, non ha molto, avea nella stessa cappella fatta la sua abbiura». Di JOSEPHINE JOUX DE LA CHAPELLE cfr. Lettera di madamigella DE JOUX DE LA CHAPELLE a sua sorella per informarla del suo ritorno al seno della chiesa cattolica, ed esporle i motivi della conversion sua, Modena, Eredi Soliani, 1826; II edizione italiana: Imola, dalla tipografia Galeati, a spese della Società de’ Calobibliofili, 1830. Si aggiunge che, se in queste miscellanee, come appunto avviene nel presente caso, si affaccia il nome di un Giulio Perticari, ciò è dovuto all’argomento celebrativo-religioso dell’opera commentata o riprodotta; si veda, alle pp. 1-17, Il Prigioniero Apostolico, cantica del Conte GIULIO PERTICARI, tre canti in terzine, dedicate a Pio VI ed alla vicenda del suo forzato pellegrinaggio; non stupisce, dati i legami letterari ed umani che intercorrevano con il Monti, il tono da imitazione della Bassvilliana, come termine di riferimento vicino nel tempo; risalendo a più antichi modelli, vi si colgono molte suggestioni della Gerusalemme liberata e dell’Eneide. 37 Negli «Annali di scienze religiose», rivista nella quale Antici è attivissimo, e più volte presente con i propri scritti, è ancora citato – IX, 25 (luglio-agosto 1839) –, p. 28, il JOUX DE LA CHAPELLE père di Lettres sur l’Italie considerée sous le rapport de la religion. Lettre XLI, nell’articolo del dotto collaboratore GIACOMO MAZIO, La vedova Woolfrey contro il Vicario di Carisbrooke, o il Pregare pe’ Morti. – Trattatello pei tempi – Pubblicato sotto la soprantendenza [sic] dell’Istituto Cattolico della Gran Brettagna, Londra, 1839. Il nome del De La Chapelle, come si vede, è spesso riattivato in articoli o saggi che interessano l’Inghilterra, o in generale la Gran Bretagna, e che hanno incroci tematici con argomenti legati al cattolicesimo inglese, scozzese o irlandese. Ovvia la connessione con il lungo periodo trascorso dal De La Chapelle in Gran Bretagna, ed ai suoi punti di riferimento scozzesi ed oxfordiani. 38 Si può utilmente aggiungere l’esperienza (posteriore all’epoca di Stolberg ma contemporanea alle riprese editoriali, al recupero d’interesse e alle discussioni sulla sua Storia della Religione di Gesù Cristo) dell’abate tedesco Esslinger, ex protestante convertito al cattolicesimo; cfr. «Annali delle scienze religiose», n. 6 (maggio-giugno 1836), pp. 321-383: Apologie de la Religion Catholique par des auteurs protestants sourtout allemands et anglais, operetta dell’abate ESSLINGER; probabilmente il saggio d’analisi critica è di ANTONIO DE LUCA (tutto il materiale risulta infatti indirizzato al Compilatore degli «Annali» ai quali collabora Antici); l’«Invariabile» di Friburgo annuncia nel 1832 L’Apologia del ritorno del sig. Esslinger alla Chiesa cattolica, pubblicato in tedesco, poi dallo stesso giornale pubblicato in francese, e ora, nel suo primo volume, tradotto in italiano da DE LUCA; a conferma della vivezza, del dinamismo spirituale all’insegna dei quali si sviluppano queste tematiche, e in particolare quella dei convertiti al cattolicesimo da una partenza tedesco-protestante (ma non sono esclusi, come si è visto, i calvinisti, gli anglicani, i valdesi, né lo sono gli ebrei), ed a conferma della prevalente appartenenza di quest’area di riflessione cultural-religiosa all’evoluzione di pensiero del romanticismo tedesco, sono citati, fra gli
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altri, a p. 329 lo SCHLEIERMACHER del «Sistema dommatico», a p. 333 il LESSING delle Opere postume teologiche (cfr. LUIGI QUATTROCCHI, Lessing teologo, ovvero la «predica» del «Nathan der Weise», in «Humanitas», LX, 5 – settembre-ottobre 2005 –, pp. 956-997), a p. 335 il WEGSCHEIDER delle Institutiones Theologiae Christianae dogmaticae, alle pp. 343-344 lo stesso HERDER, a p. 344 JOHANN von MÜLLER, da non confondere, quest’ultimo, con l’ADAM MÜLLER più volte citato nelle riviste in cui lavora Antici, e citato con stima anche da KARL LUDWIG von HALLER (Restaurazione della scienza politica, cit., I, p. 477, nota a, appunto riguardo all’ADAM MÜLLER di Elemente der Staatskunst. Offentliche Vorlesungen – 1808-1809 –, Berlin, 1810, vol. I, pp. 39, 40, 76; ora in ID., Vom Geiste der Gemeinschaft, a cura di F. BÜLOW, Leipzig, 1931, pp. 1-238; anche Adam Müller utilizza con forte significanza il termine Staatswissenschaft). JOHANN von MÜLLER, da parte sua, appare anch’egli citato abbondantemente nello Haller della Restaurazione della scienza politica, dalla lettera del 4 settembre 1808 (in cui Müller è destinatario), vol. I, p. 21, alla storia degli Svizzeri (Die Geschichte der Schweizer, Bern, 1781, e Die Geschichte der Schweizerischen Eidgenossenschaft, Leipzig, 1786 ss.), ivi, p. 188, nota b, alla Weltgeschichte, più volte ricordata, anche nella sua traduzione francese (JOHANN von MÜLLER, Histoire universelle, opera postuma trad. dal tedesco a cura di J. G. HESS, Paris-Genéve, 1814-1817), ivi, p. 47, nota c, alle Gesammelte Werke, e altresì rammentato in molti altri loci dell’opera halleriana. Egli appare ricordato anche in GEORGES LEFEBVRE, La Rivoluzione francese (La Révolution Française, Paris, Presses Universitaires de France – «Peuples et Civilisations» –), Traduzione di PAOLO SERINI, Torino, Einaudi («Biblioteca di cultura storica», n. 60), 1958; VIII ed.: 1972, p. 219 (in un passo nel quale è ben sottolineata la soggezione della Baviera al gesuitismo, proprio mentre la Svizzera – «Nella Svizzera alemannica, l’influsso dell’Alsazia ebbe gli stessi effetti che nella Renania», p. 221 – è percorsa da focolai rivoluzionarî: «Soltanto la Baviera, dominata dai gesuiti, resisté a lungo al contagio» – p. 219 –). 39 Cfr. WOLFGANG GOETHE, Faust. Urfaust (Faust. Der Tragödie erster und zweiter Teil. Urfaust), Traduzione, introduzione e note a cura di GIOVANNI VITTORIO AMORETTI, 2 voll., Milano, Feltrinelli, 1965 (I ediz. Amoretti: Torino, UTET, 1950), I, p. 219. 40 Ivi, pp. 219-221. 41 Si tratta dell’autore d’una satira del Werther, che gli attira più volte nel tempo (si vedano gli Xenien, pubblicati da Goethe insieme a Schiller) molti strali responsivi, e autore altresì di volumi di viaggi che nell’ottica dello stesso Goethe apparivano illuministicamente caratterizzati dalla precisione descrittiva, fedelmente restitutiva dei paesi visitati (Germania e Svizzera), un autore di Reisen, insomma, ben diversi da quello che era l’Italienisch Reise dello stesso Goethe e da quello che nel futuro letterario della lingua tedesca si affermerà come il Reise heiniano; qui presente come il «viaggiatore curioso» («NEUGIERIGER REISENDER»), egli mostra banale mancanza di fantasia nel fruire “teatralmente” della figura di Oberon: «Ist das nicht Maskeradenspott? / Soll ich den Augen trauen, / Oberon, den schönen Gott, / Auch heute hier zu schauen?» («Non è questa la caricatura di una mascherata? Se devo prestar fede ai miei occhi, anche Oberon, il bel Dio, è, oggi, visibile qui, con gli altri»); di lui, poco oltre, si dirà: «Er schnopert, was er schnopern kann. / “Er spürt nach Jesuiten”» («fiuta, ovunque possa fiutare. “Egli va in cerca di gesuiti”») (cfr. WOLFGANG GOETHE, Faust, cit., I, pp. 219-220). Sulla figura e sull’azione politico-ideologica di Friedrich Nicolai, cfr. ANTONIO TRAMPUS, I gesuiti e l’illuminismo. Politica e religione in Austria nell’Europa centrale (1773-1798), Firenze, Leo Olschki, 2000, passim; Friedrich Nicolai non va confuso con il poeta e diplomatico Ludwig Heinrich von Nicolay (1737-1820), riguardo al quale cfr. ENRICO GARAVELLI, Quattro lettere di Carlo Denina a Ludwig Heinrich von Nicolay, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXXII, f. 598 (aprilegiugno 2005). Stolberg è ricordato, per i riferimenti che ne fa Leopardi (sempre in relazione alla Vita di Gesù Cristo tradotta dallo zio), anche in PAOLO ROTA, Leopardi e la Bibbia. «Sulla soglia d’alti Eldoradi», cit., pp. 10 e 226. Il fratello poeta è a sua volta ricordato anche in GEORGES LEFEBVRE, La Rivoluzione francese, cit., p. 219. 42 Il testo della traduzione anticiana della Storia avrà, da parte sua, due ulteriori edizioni: in 2 voll. (4 tt.), Torino, per Alliana e Paravia, 1825, e in 3 tt., Prima edizione milanese arricchita di nuove annotazioni, Milano, dalla tipografia Pogliani, 1828. In una lettera a Paolo Barola del 28 maggio 1841 (la lettera si trova nella Biblioteca Estense Universitaria di Modena, Autografoteca Càmpori), Antici annuncia un’altra edizione, chiedendo con chiarezza al destinatario, nel Post Scriptum, di dissuadere il tipografo dal fare il suo nome: «questo foglietto non vada in mano altrui […]. Quando il Tipografo stamperà gli avvisi per lo smercim[ento]. dell’opera, dica e dell’autore e di essa ciò che crede: ma non nomini mai il Traduttore, e non lodi la traduzione»; riportiamo un passo della lettera: «Il Msê Antici inoltra all’egregio
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Sig: Prof. Barola la prima parte dello Stolberg. Essa, come vedrà è squinternata perché se ne staccò il lungo discorso preliminare, e il Tipografo deve stare attento a non perdere qualche pagina. È altresì tutta coperta di correzioni, alcune delle quali esigono occhi esperti per leggerle. / Si avverte altresì che nell’originale trovasi, oltre la genealogia di G. C., quella della sua augusta Madre, che nella traduzione fu ommessa. Se il Sig Prof: la crede necessaria, saprà presto rinvenirla nell’Evangelista che la riportò ed inserirla nel luogo che stimerà conveniente. / Quella di G. C. leggesi nella pagina 36. / Dopo il Frontispizio, ed il brano di Rousseau devesi inserire una breve prefazione del traduttore che quanto prima si accingerà a [tesservi?] quindi segua l’altra dell’autore, e tutto il resto va ristampato nell’ordine in cui si trova». Base della nuova edizione è dunque una stampa precedente (il «lungo discorso preliminare», che dovrebbe diventare «breve» nella nuova edizione, si è staccato, e ha reso «squinternata» la copia a stampa che Antici possedeva: non ci si riferisce, quindi, alle bozze), che si raccomanda di rispettare con assoluta fedeltà, secondo un ordine di capitoli che deve rimanere del tutto immutato; la stampa base sarà certo l’edizione Pogliani di Milano, 1828, l’ultima dopo la De Romanis 1822 e la Paravia 1825, e la più ricca di nuove annotazioni esegetiche; le correzioni a mano indicate nella lettera sono da apportare su una struttura di testo a stampa la cui costituzione è intatta. La prefazione è prevista «breve», ma nuova. Se questa rinnovata edizione non giunge in porto (almeno a nostra notizia), certamente la Storia della Religione di Gesù Cristo continua, ancora nei tardi anni Trenta e nei primi anni Quaranta, ad attirare interesse, e non mancavano riedizioni in varie lingue (cfr. la nota seguente). Su Stolberg e sulla sua opera, cfr. L. SCHEFFCZYK, Friedrich Leopold zu Stolberg, «Geschichte der Religion Jesu Christi», Münchener teologische Studien, I. Historische Abteilung, III, 1952, nell’opera collettiva The Oxford Dictionary of the Christian Church, Edited by F. L. CROSS, Second edition edited by F. L. CROSS and E. A. LIVINGSTONE, New York-Toronto, London-Oxford University Press, 1974, p. 1312. Per un inquadramento generale, e insieme per ravvicinate focalizzazioni storico-dottrinarie sugli argomenti e sugli autori di cui si occupa Antici, e così sulle correnti di pensiero nelle quali essi si inseriscono nell’àmbito della storia della Chiesa e sui centri di cultura teologica universitaria, vedi l’opera collettiva Storia del Cristianesimo. Religione, politica, cultura, 14 voll., sotto la direzione di JEAN-MARIE MAYEUR, CHARLES E LUCE PIETRI, ANDRÉ VAUCHEZ, MARC VENARD, Paris, Declée, 1995-2000; Edizione italiana a cura di GIUSEPPE ALBERIGO, Roma, Edizioni Borla Città Nuova, 1995-2003. In particolare, si ricordi il vol. IX: L’età della ragione (1620-1750), a cura di MARC VENARD, edizione italiana a cura di PAOLA VISMARA, parte quarta: Il Cristianesimo nella civiltà tradizionalmente cristiana, cap. I: RÉGIS BERNARD, I modelli di vita cristiana, par. I testi sacri alla portata dei fedeli? (paragrafo di singolare rilevanza, data la scelta affermatasi nel corso del XVIII secolo di incrementare, quasi in una sorta di “illuminismo della Chiesa”, l’esegesi divulgativa delle Scritture: si cfr., più oltre, l’importanza del commento di monsignor Martini); e si ricordi il vol. XI: Liberalismo, industrializzazione, espansione europea (18301914), cap. III: JACQUES GADILLE, Le grandi correnti dottrinali del mondo cattolico, edizione italiana a cura di PIETRO STELLA. Si cfr. inoltre, sull’esegesi biblica, HENNING GRAF REVENTLOW, Storia dell’interpretazione biblica, cit.; del REVENTLOW sono da consultare soprattutto, nel IV vol., i capp.V e VI, La Bibbia nel Pietismo e nell’Illuminismo tedesco, pp. 147-268, e La scienza biblica nel secolo XIX, pp. 269-386; si ricordi, ancora, su un’importante esperienza novecentesca di ermeneutica luterana capace di rinvenire elementi di dialogo tra le varie confessioni, SERGIO CARLETTO, La teologia ermeneutica di Gerhard Ebeling, Pisa, ETS («philosophica», 14), 2004. Si veda, a proposito della decisiva innovazione apportata dall’ermeneutica novecentesca, e della stessa linea maestro-allievo, Bultmann-Ebeling, insieme alla linea di Bonhoeffer, la definizione di «ermeneutica» in BATTISTA MONDIN, Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale, Milano, Massimo, 1994, ad vocem, pp. 295-296: 296; dopo essersi riferito all’Erlebnis di Dilthey e a Gadamer, l’autore passa a considerare Ricoeur, «il quale identifica l’e[rmeneutica]. con lo studio dei simboli religiosi, in particolare della simbolica del male […] / Il problema suscitato dalla nuova e., quello della natura e del carattere della conoscenza storica, tocca ovviamente molto da vicino la teologia, giacché i documenti fondamentali su cui si basa questa disciplina (gli scritti biblici) sono documenti sostanzialmente storici: raccontano la storia della salvezza (Heilsgeschichte). Per questo motivo alcuni studiosi hanno cercato di applicare i principi della nuova e. alla teologia. Coloro che si sono maggiormente distinti in questo lavoro sono: Bultmann, con l’e. della demitizzazione, Bonhoeffer, con l’e. della secolarizzazione, Fuchs con l’e. della parola come sacramento e Ebeling con l’e. della situazione linguistica, situazione in cui Dio si fa parola. / In campo propriamente biblico oggi l’e. si occupa dei problemi riguardanti: 1) la forma del testo: lingua, caratteristiche dello stile, cioè dei generi letterari, linguaggio figurato, cioè presenza di allegorie e di parabole, sviluppo formale del testo
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(storia delle forme e della redazione); 2) il contenuto dei testi per risolvere la questione del valore dell’interpretazione che si rifà alla storia delle religioni e all’importanza delle analogie, sorte da questo studio, con l’A. T. e il N. T. e le tematiche, come l’esegesi cristologica dell’A. T., la demitizzazione dello stesso e del N. T., il rapporto tra l’essenziale dell’insegnamento ed i suoi particolari, il contenuto e il significato delle «visioni» nella letteratura apocalittica» (la “voce” prosegue con i riferimenti alle encicliche di Pio XII, Divino afflante Spiritu, del 1943, e Humani generis, del 1950, ed il riferimento alla costituzione Dei Verbum, frutto del Concilio Vaticano II). Citiamo altre opere di Stolberg: Die Insel, Leipzig, George Joachim Goschen, 1788; Gedichte, herausgegeben von HEINRICH CHRISTIAN BOIE, Carlsruhe, Christian Gottlieb Schmieder, 1783; FRIEDRICH LEOPOLD Grafen zu STOLBERG, Leben Alfred des Grossen, Königer in England, Münster, In der Aschendorff ’schen Buchandlung, 1815; Streitschriften uber Stolbergs Konversion, vorwort von JURGEN BEHRENS (ristampa anast. delle ediz. Frankfurt 1819; Hamburg 1820; Stuttgart 1820), Bern-Frankfurt am Main, Lang, 1973; Lettres de M. CHARLES-LOUIS DE HALLER à sa famille, pour lui declarer son retour a l’Eglise catholique, apostolique et romaine, d’apres la 3.ème édition de Paris. Suivie d’une lettre de M. le comte de STOLBERG sur le même sujet, et d’une autre de M. le comte DE MAISTRE à une dame protestante, Turin (Torino), H. Marietti, 1821; Nuova completa collezione di quanto è stato finora pubblicato sulla conversione alla Chiesa cattolica apostolica del signor professore e consigliere Luigi De Haller di Berna con appendice che contiene due lettere una del conte di Stolberg, l’altra del conte De Maistre sopra la di loro conversione alla cattolica religione, Venezia, 1823 (Biblioteca Nazionale di Firenze, Misc. Capretta 1539. 2); Vier Tragödien des Aeschylos, ubersetzt von FRIEDRICH LEOPOLD GRAFEN ZU STOLBERG, Hamburg, bei Perthes und Besser (Gedruckt bei Johann Georg Langhoff ’s Wittwe), 1823; Gesammelte Werke der Brüder CHRISTIAN und FRIEDRICH LEOPOLD Grafen zu STOLBERG, Hamburg, Bei Perthes und Besser, 1820-1825; ancora CHRISTIAN GRAF VON STOLBERG, FRIEDRICH LEOPOLD GRAF VON STOLBERG, Gesammelte Werke, 20 Bande in 10 Banden, Hildesheim-New York, Olms, 1974; Balladen und Romanzen der deutschen Dichter Bürger, Stolberg und Schiller Erläutert und auf ihre Quellen Zurückgeführt von FR. WILHELM VAL. SCHMIDT, Berlin, 1827; Due lettere del conte FEDERICO LEOPOLDO DI STOLBERG, Imola, Dalla Tipografia Galeati, a spese della società dei Calobibliofili, 1830; Stolberg in den zwei letzten Jahrzehnten seines Lebens, Lettere a cura di J. H. HENNES, F. Kirchheim, 1875; Ein Buchlein von der Liebe: mit Vorwort und Ueberschriften, neu herausgegeben von FRIEDRICH LEOPOLD GRAFEN ZU STOLBERG, Freiburg im Breisgau, Herder, 1881; Uber die Fulle des Herzens: frühe Prosa, herausgegeben von JURGEN BEHRENS, Stuttgart, 1970. Si rammenti, ancora, sul piano d’un interesse per Platone che coinvolgerà, nella scia del clima spiritualistico della Reazione, anche Antici (è ben noto il tentativo di affidarne al nipote Leopardi la traduzione integrale), Auserlesene Gesprache des Platon, ubersetzt von FRIEDRICH LEOPOLD GRAF zu STOLBERG, Wien und Prag, bei Franz Haas, 1803-ss. Su Stolberg e il romanticismo, cfr. anche (presente nella Biblioteca Alessandrina alla Sapienza di Roma – coll: P. 231) PIERRE BRACHIN, Friedrich Leopold von Stolberg und die deutsche Romantik, in Literaturwissenschaftliches. Jahrbuch. Erster Band, 1960, Berlin, 1961, pp. 117-131; ivi, pp. 133-147, anche SIEGFRIED SUDHOF, Herder und der «Kreis von Münster». Ein Beitrag zur Beurteilung von Friedrich Leopold von Stolbergs Konversion. Per i celebri viaggi di Stolberg, cfr. STOLBERG, FRIEDRICH LEOPOLD GRAF ZU, Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien (ripr. facs. e rist. anast. dell’ed. Mainz, 1877), 2 vv., neu herausgegeben im Anschlu an die Stolberg-Biographie von J. JANSSEN, Bern, Lang, 1971 (si tratta di due corposi volumi, di 539 e di 566 pagine). Si cfr. inoltre, in italiano, ID., Viaggio in Calabria, Introduzione e traduzione di SARA DE LAURA, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1986; ID., Viaggio in Sicilia, a cura di GRAZIA PULVIRENTI, con uno scritto di GIORGIO CUSATELLI, traduzione di VINCENZA SCUDERI, La Spezia, Agorà, 2002; ancora il Viaggio in Sicilia. Valdemone (con le “Esperidi”), a cura di MARIA FEDERICA DE PASQUALE, Caltanissetta, Lussografica, 2001. 43 Per altre edizioni tedesche della Storia cfr. Geschichte der Religion Jesu Christi, von FRIEDRICH LEOPOLD GRAFEN zu STOLBERG, Erster /-fünfzehnter Theil, 15 voll. Wien, gedruckt und verlegt bei Carl Gerold, Hamburg, bei Perthes und Besser, 1817-1818; Geschichte der Religion Jesu Christi von FRIEDRICH LEOPOLD GRAFEN zu STOLBERG, fortgesetzt von FRIEDRICH v. KERZ (poi da JOHANN NEPOMUK BRISCHAR), Mainz-Wien, S. Muller-B. Wallishausser; voll. dal 16 al 22.1 dal 1825, e voll. dal 36 al 52 dal 1831 al 1859 (in Italia, tali volumi sono posseduti dalla Biblioteca Statale Isontina di Gorizia). Come strumento di consultazione, a mo’ di regesto enciclopedico, ci si può avvalere di JOSEPH MORITZ, Universal-, Real-, Personal- und geographisches Register zur Geschichte der Religion Jesu Christi von FRIEDRICH LEOPOLD GRAFEN zu STOLBERG, Bearbeitet in encyklopädischer Form,
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
mit voranstehender Uebersicht der Oekonomie aller 15 Theile, von JOSEPH MORITZ,… Erster-zweitere Band, Wien, Druck und Verlag von J. B. Wallishausser-Hamburg, bei Friedrich Perthes, 1825 (I: «A» bis «K»; II: «L» bis «Z»). Si cfr., inoltre, l’interesse critico per la Storia stolberghiana, sempre vivo in importanti riviste come gli «Annali delle scienze religiose»; ad esempio, X, 28 (gennaio-febbraio 1840), pp. 144145: «Histoire de N. S. J. C. [Nôtre Seigneur Jésus-Christ] ec Istoria del N. S. G. C. del sig. conte di Stolberg, tradotta dall’alemanna in lingua francese da P. D. Antico professore dell’Istituzione de’ Cavalieri di s. Luigi, Parigi, presso Parent-Désbarres, 1839 [ossia, «Histoire de N. S. Jésus Christ de Frédéric Léopold, comte de Stolberg», traduit de l’allemand par P. D. (PIERRE FRANÇOIS PARENT-DESBARRES), Paris, À l’Administration de l’Encyclopédie et de la Révue Catholiques, Imprimérie de H. Vrayet de Surcy et C.ie, 1838, 2 voll. (Per il nome del traduttore cfr. «Catalogue général des livres imprimés de la Bibliothèque de Paris, vol. 1778, col. 899) – Biblioteca Nazionale di Firenze, Palat. (14). X. 1. 5. 6 –]»; prima, fra le tante altre traduzioni, era apprezzata quella del gesuita P. de LIGNY, ma Stolberg è preferibile per la snellezza dell’esegesi, pur precisa, quest’ultima, e attendibile, oltre che appagante per il lettore cólto, e in genere per il credente. Stolberg, inoltre, ha recato importanti aggiunte: tre appendici: I: intorno alla doppia genealogia di G. C. secondo gli evangelisti s. Matteo e s. Luca (si ricordi il riferimento alla p. 36 nella lettera del 28 maggio 1841, citata nella nota precedente, di Carlo Antici a Paolo Barola); II: sulla celebrazione della Pasqua da parte di Nostro Signore e dei suoi discepoli, e sulla vigilia della sua morte; III: sugli ossessi; inoltre, vi è un commento sulle prime parole di GIOVANNI, «In principio erat verbum». Si veda, inoltre, «ivi», pp. 153-154, ancora su STOLBERG, «Geschichte der Religion Jesu Christi, Storia della Religione di Gesù Cristo di Federico Leopoldo conte di Stolberg, continuata da Federico di Kerz [17631849], Mainz, presso Kircheim Schott e Thielmann, 1838», di cui è in particolare segnalato il vol. XXXI, da Ottone il Grande (anno 936) a Capeto: «Sebbene l’autore si occupi, quanto è sufficiente, della storia degli Imperatori, nondimeno la storia speciale della Chiesa, e de’ Pontefici è quella, in cui si trattiene più lungamente»; ne esce, quindi, confermato l’interesse, insieme culturale e politico, professato da queste riviste (pur in chiave di realistica consapevolezza dei dati offerti dalla contemporaneità; e ad Antici non manca davvero alcun elemento per essere pienamente partecipe di queste coordinate) per la ricostruzione dei percorsi storici riguardanti le simultanee affermazioni dell’Impero e della Chiesa. Ancora, «ivi», pp. 157-158, si cfr. Das Leben Jesu, a cura di JOHANN KUHN, Mainz, presso Florian Kupferberg, 1838, vol. I, di pp. XIV-488, in cui la recensione avverte significativamente che nel volume di Kuhn risultano confutate le teorie del razionalista prof. Strauss nella sua stessa Tübingen. Infatti, sempre in «Annali delle scienze religiose», VIII, 23 (marzo-aprile 1839), pp. 161-196, era uscita una recensionesaggio dello stesso Direttore-Compilatore, ANTONIO DE LUCA, Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet von D.r DAVID FRIEDRICH STRAUSS, 2 voll., Tübingen, Osiander, 1837, Zweite verbesserte Auflage; e, successivamente, ancora negli stessi «Annali», cfr. XIV, 42 (maggio-giugno 1842), pp. 368-385, uscirà, senza nome d’autore ma con probabilissima ispirazione di Antonio De Luca, La vie de Jésus par Strauss et les Église protestants; ossia La Vita di Gesù di Strauss e le Chiese protestanti, articolo tratto dalla «Révue de Bruxelles», fasc. 2, febbraio 1842. 44 Si cfr. quanto detto nel testo con questa breve “aria” lirico-spirituale di Wackenroder, cit. in BONAVENTURA TECCHI, Introduzione a WILHELM HEINRICH WACKENRODER, Scritti di poesia e di estetica, Introduzione e traduzione dello stesso BONAVENTURA TECCHI, Firenze, Sansoni («Biblioteca Sansoni», n. 25), 1967, pp. LII-LIII: «un temperamento come quello di Wackenroder non fu attratto soltanto dalla suggestione dei colori e delle fantasie, ma anche dalla simpatia per quella ingenuità e semplicità di costumi che pareva ci fosse stata allora e che, nel tempo in cui viveva lui, era perduta. / “O Norimberga! tu che fosti un tempo famosa in tutto il mondo! Come mi aggiravo volentieri in quelle tue viuzze strette, con quale gioia infantile guardavo le tue vecchie case e le tue chiese, dove è impressa così fortemente l’orma dell’arte dei nostri antenati! Con quanto amore io custodisco le immagini di quel tempo, che ci parla un linguaggio così forte e sano!”. / Un linguaggio forte e sano. “Derbe, kräftige und wahre Sprache” detto nel testo. Si noti ancora questa importante contraddizione: Wackenroder, il romantico, timido Wackenroder, che andava sempre appartato e pensieroso, e come con le orecchie intente a scoprire dovunque il profondo, il misterioso – sì che gli amici alle volte, come racconta il Köpke, lo beffavano per questa specie di mania – è il primo che sente e proclama il fascino di un’arte sana, forte, perfino un poco derb, fondata sul vero umano. Egli è lo scopritore di Dürer. […]. Vedeva famiglie ben salde, semplicità di cuori, purezza di vita, lavoratori tenaci e seri. / “Allora la vita era da considerarsi come un bel mestiere, al quale tutti gli uomini si dedicavan. Dio era considerato come il capomastro di una grande fabbrica, il battesimo come certificato d’entrata e il nostro pellegrinare sulla terra come un tiro-
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cinio… così gli uomini conducevano le ore della loro vita lenti e pensierosi, passo per passo, e sempre coscienti del buon presente che vivevano. Alla fine, quando il grande capomastro li chiamava dalla fabbrica, essi si rendevano a lui, disciolti in santi pensieri, e consegnavano tutto il loro lavoro, con allegrezza, nelle sue mani». La celebrazione della vita delle città tedesche, non a caso condotta riattivandone il mito medioevale, artigianale, di purezza, di religiosità convinta, di ordinata laboriosità, è propria della tradizione letteraria tedesca, della quale, certo, anche Antici risente. Per un esempio più recente, e a parti apparentemente scambiate (Germania-Italia), si ricordi la presenza di più d’un passo strutturato su questa tipologia d’atmosfera nella biografia di Michelangelo di Herman Grimm (HERMAN GRIMM, Michelangelo, II ed., Milano, Dall’Oglio, 1943). Ma, insieme, si ha conferma, qui esattamente tramite Wackenroder, di quell’avvicinamento dell’intellettuale protestante al cattolicesimo che contrassegna varie linee e varie esperienze del romanticismo tedesco negli ultimi anni del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento: «Wackenroder fu più protestante che cattolico, o viceversa? E anche se non arrivò alla conversione cattolica, come ci arrivarono Federico Schlegel e altri del primo e del secondo gruppo romantico – fu egli contento del suo protestantesimo e praticò questa religione; o si contentò di una religiosità forte, eppure in certo senso non definita, cioè senza aderire ad alcuna forma positiva di religione? / Nelle Herzensergiessungen è narrata la conversione al cattolicesimo di un pittore tedesco, avvenuta in una chiesa di Roma. Ma dato il modo come la conversione è raccontata – per suggestioni estetiche di colori e di suoni […] – per tutto questo e per un certo colorito eccessivo e un abbandono quasi sensuale di tono nello stile, si è voluto attribuire questo brano non a Wackenroder, ma a Tieck che indubbiamente mise le mani negli Sfoghi del cuore. / Il titolo stesso del libretto Sfoghi del cuore di un monaco, innamorato dell’arte [Herzensergiessungen eines kunstliebenden Klosterbrüders] implicherebbe una confessione cattolica, in quanto che monaci veri e propri non esistono nel protestantesimo» (BONAVENTURA TECCHI, Introduzione, cit. p. XXXIX); più sotto (p. XL n.), Wackenroder è definito, nel suo carattere di giovinetto, «come un monaco», e in séguito (p. XLI) si dice del suo sentimento religioso che era «tanto semplice e forte da esser disposto ad ammettere tutte le personificazioni della fede cattolica: la madonna, gli apostoli, i santi»; e ancora (pp. XLI-XLII): «ci pare che la questione se proprio il Nostro sarebbe arrivato al cattolicesimo o no, non sia di grande importanza; una volta affermato […] che l’opera di Wackenroder contribuì senza dubbio al movimento di simpatia che portò Federico Schlegel alla conversione, e Novalis e Tieck a simpatie non dubbie per la chiesa di Roma»; sotto, in nota, Tecchi ricorda il GOYAU de L’Allemagne religieuse. Le Catholicisme (1868-1878), dove si dice che «Novalis e Federico Schlegel furono portati verso il cattolicesimo dall’aspirazione all’armonia, che essi vedevano spezzata nel protestantesimo». Sempre legata ad un fondo di sollecitazione estetica, ma in chiave di “terribilità” aliena da problematiche di conversione si pone l’affondo di resa artistica del culto cattolico nella Santa Cecilia ossia la potenza della musica di Kleist, passo noto al lettore del Thomas Mann di Adel des Geistes (Nobiltà dello Spirito), un Mann efficacissimo nel taglio interpretativo che offre, appunto, dell’HEINRICH von KLEIST dei Racconti; riferendosi come premessa a Terremoto al Chilí, Mann osserva che il giovane Nicolò attraversa una vicenda intessuta degli elementi che dànno tradizionalmente esca alla polemica anticattolica dei protestanti («Egli è di casa nelle celle dei monaci carmelitani dove a quattordici anni perde la sua castità con la concubina del vescovo, il quale copre le malefatte di lui ottenendo che sposi la donna benché ne sia ormai stufo»); ma riferendosi al bellissimo racconto Santa Cecilia, Mann aggiunge: «Queste sono tutte invettive contro la Chiesa romana e la morale fratesca – troppo grossolane perché non appaia sbalorditivo il fervore col quale il medesimo Kleist, nella leggenda miracolosa di Santa Cecilia ossia la potenza della musica, si abbandona al fascino del culto cattolico e sa infonderci il brivido dell’ingenita terribilità della sua magia e del suo travolgente potere sugli animi di nemici e di iconoclasti congiurati. I poeti sono di animo versatile. Nel Don Carlos Schiller portò sulla scena un grande tremendo inquisitore; nella Maria Stuarda invece buttò a mare tutto il suo liberalismo e a Mortimer, innamorato della bella prigioniera di Elisabetta, fece intonare una vera e propria “canzone” in giambi che elogia la magnificenza dei riti cattolici. Nella Santa Cecilia Kleist è altrettanto religioso quanto altrove è nordicamente riservato verso il cattolicesimo. Ma la sua religiosità mira soprattutto all’arte, di cui la santa è la patrona che miracolosamente interviene nell’azione: alla musica e alla sua “potenza” suggestiva, che appare orrenda […]» (cfr. THOMAS MANN, Kleist e i suoi racconti, in ID., Nobiltà dello Spirito – Adel des Geistes –, Traduzioni di BRUNO ARZENI, LAVINIA MAZZUCCHETTI ed ERVINO POCAR, Milano, Mondadori – Tutte le opere di Thomas Mann, a cura di LAVINIA MAZZUCCHETTI, vol. X, 1973 – III ed.; I ed.: 1953 –, pp. 928-929). 45 Sulla narrativa di viaggio di Stolberg cfr. qui sopra, n. 42.
VI. CARLO ANTICI TRADUTTORE (-)
46 Nelle «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura», Modena, I serie, vol. VI, anno 1824 (Biblioteca Estense Universitaria di Modena, A. 46 N. 6) sono pubblicate Due lettere del conte FEDERICO LEOPOLDO DE [sic] STOLBERG che forniscono ulteriori chiarimenti sulla sua vicenda e sulla sua Storia di Gesù Cristo; vi è un Proemio, pp. 81-85, con le notizie biografiche, un breve resoconto del viaggio in Italia, sulle orme di Goethe, nel 1791. Alle pp. 81-103 vi sono le due lettere; la prima (dopo la presentazione redazionale), al conte di Schmettau, alle pp. 87-91; la seconda al figlio ventenne, alle pp. 92103. La prima venne pubblicata in Germania ed in Italia in francese (probabilmente in origine la scrisse così) e in italiano. Venne resa nota nelle pagine dell’«Amico della religione» (t. XVIII, 1819, p. 12) e nell’«Enciclopedia Ecclesiastica di Napoli» (t. II, 1822, p. 144), rivista, quest’ultima, di cui era compilatore il già ricordato Padre D. Gioachino Ventura, Procuratore generale dei Teatini. A Napoli è stata pubblicata come lettera tradotta. Una «rispettabile e dottissima persona», «da Roma» (p. 83), probabilmente proprio Antici, consegna il manoscritto (forse in tedesco) della lettera, per una versione più compiuta e più tornita di quella che deve essere stata la base della versione uscita a Napoli. Il “messaggio” della lettera è, come prevedibile, ostile ai fautori del patto sociale, della sovranità del popolo, e si scaglia, in sostanza, contro il solito bersaglio, l’imperdonabile Rousseau. Il personaggio citato a p. 83, di cui nuovamente a p. 84 si dice che era il «coltissimo amico» che ha detto al redattore che la seconda lettera gli ricorda il Prior Vogli, con la sua semplicità, con la sua moralità, con quel cuore e con quella fluidità di linguaggio umano che lo caratterizzano (qualità che lo accomunano ai “biografati” tedeschi di Antici, da Sambuga a Sailer, e sotto certi profili allo stesso Stolberg giovane), è quasi sicuramente lo stesso Antici (del Prior Vogli si ricordi, sempre in «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura, II, t. III, 8 – marzo-aprile 1824 –, Riflessioni sul manuale dei Teofilantropi del Priore GIUSEPPE VOGLI bolognese, pp. 161-191). L’«Amico d’Italia» informa che la seconda lettera uscì in francese presso una società belga, definita come «società cattolica per la diffusione dei buoni libri», poi «purtroppo» chiusa, come l’«Enciclopedia Ecclesiastica» di Napoli; dall’edizione francese suddetta è stata fatta un’edizione torinese, elegante (e forse di non molto smercio) nel 1823, e su quella la redazione ha basato la traduzione qui offerta ai lettori. Alle pp. 84-85 si rammentano gli otto volumi in due edizioni della Storia del Cristianesimo, prima ad Amburgo, sostenuta dall’autore stesso, poi a Vienna, seconda edizione; nel 1816 la traduzione olandese a Doventer. Il quinto volume (che comprende la Vita e dottrina di Gesù Cristo) è stata tradotto dal marchese Carlo Antici nel 1822; Stolberg non riuscì a finirla, ma compose negli ultimi tempi (p. 85, nn. 4-56) la Vita di S. Francesco di Paola, la Vita d’Alfredo il Grande, il Trattato sull’amor di Dio, la Dissertazione sullo spirito del secolo (argomento simile a quello d’una traduzione, già citata, di Antici da Pflister) e molte preziose considerazioni sulla sacra scrittura (come scrive anche l’«Amico d’Italia», t. II, fasc. XII, anno 1823, p. 359); dall’esperienza di Stolberg è provenuto grande vantaggio alla causa cattolica in Germania, secondo la testimonianza de l’«Ami de la Religion et du Roi». Dopo la morte di Friedrich Stolberg la Storia si continua a Magonza dal Signor Kerz in due formati per accompagnare le due edizioni di «Hambourg» e di Vienna. La prima lettera è dunque diretta al signor conte di Schmettau; a p. 87 vi è l’allusione alla sorella dello stesso Schmettau, la principessa Gallitzin; a p. 88 l’autore afferma con chiarezza la propria scelta della religione cattolica, una scelta che è frutto di lunga e ponderata riflessione, nella quale Stolberg si è occupato, citando le sue parole, «per molti anni nel profondo esame e confronto delle due religioni, paragone che mi ha finalmente determinato a preferire con pieno convincimento la fede cattolica a quella luterana». Viene valorizzato il concetto di “tronco monoteistico”, e per allora perfetto, costituito dell’ebraismo, a séguito del quale vi sono stati il compimento e l’autentico perfezionamento rappresentati dal cattolicesimo; ne discende l’affermazione ideale di «un popolo solo» (prima gli ebrei, poi i cristiani), in un ideale d’unicità teocratica, nel quale il monoteismo riveste appunto la funzione di forma originaria e legittima della stessa teocrazia, in una concezione di unanimità, di grande e unica famiglia. A p. 89 l’autore ribadisce che il protestantesimo, già nell’etimo del nome, contiene un elemento denegante, differenziale, non costruttivo, ed anzi addirittura contrappositivo (il solo che gli sia possibile) rispetto ad un termine d’identificazione e di definizione polemica (il cattolicesimo romano), e, conseguenza quasi inevitabile nell’ottica e nelle parole del conte di Stolberg, la confessione riformata ha volto le armi contro se stessa, ha progressivamente acuminato le proprie interne divisioni, si è storicamente rovinata da sola, dilaniata da una moltiplicazione di sétte, fino a cadere, o a rischiare di farlo, nel baratro dell’ateismo; alle pp. 89-90 la riaffermazione dell’unitarietà del cattolicesimo (e vi appare chiaro che lì scrive l’uomo di cultura convertito da poco, acceso da zelo, da entusiasmo neofita, pur nel quadro, non smentibile, della serietà, della ponderatezza filosoficamente “germanica” dell’analisi delle ragioni che lo hanno condotto alla conversione); ed è unitario a tal grado che, tolto oggettivamente un elemento della
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sua dottrina, oppure allontanatosi soggettivamente un fedele da un solo suo dogma, l’allontanamento è completo: non è ammesso un inserimento parziale, o “critico”, nelle sue strutture di fede, e non è perciò consentita in esso un’adesione che non sia totalizzante (nel cattolicesimo, tout se tient). Sembra davvero che Stolberg trasferisca la rigorosa antropologia tedesco-protestante al dogmatismo (ma dogmatismo fideistico) del cattolicesimo. Vi è stata “medesimezza” di spirito, nel tempo, nello svolgersi delle ere cronologiche, nell’àmbito del cattolicesimo, sia al suo interno, sia da parte dello stesso cattolicesimo nell’atto concreto del suo relazionarsi con gli sviluppi storico-secolari ad esso eterodossi; si tratta d’una religione che resiste uguale a se stessa da diciotto secoli; e nel cattolicesimo, nella religione romana, v’è più che in altre confessioni spirito di conformità, quanto alle pratiche di vita, «alla morale teoria delle virtù che l’Evangelo richiede» (p. 90). È, in definitiva, la stessa formazione protestante, sono le stesse radici, le luterane Müttern, per dirla goethianamente, a condurre Stolberg al cattolicesimo: “ricondurlo”, per i gongolanti “ospiti” della casa cattolico-romana che ne accoglie il cosiddetto reditus ad ovile. Solo nel cattolicesimo, scrive Stolberg a rinforzo dimostrativo, a maggior tensione argomentativa del proprio passaggio prosastico, vi sono stati, ed è stato legittimo che vi fiorissero, i santi, gli eroi, i martiri (ibidem); e vi è, non inaspettata, ma anzi preveduta ed attesa a clausola immancabile di questo protocollo saggistico della pubblicistica cattolica di allora, la deprecatio antifrancese, non disgiunta da addolorato stupore, profondamente condiviso da Antici fin dall’impegnato e basilare studio su Bonnet, dato che la Francia ha dato luminosi esempi di martirio e di impronta cattolica alle altre nazioni, all’Europa ed al mondo; e a p. 91 si aggiunge che i «lumi» sono «sparsi nelle opere dei cattolici». La lettera è scritta a Münster, l’11 ottobre 1800 (quindi essa è frutto e segnale indicatore di freschezza di conversione, poiché essa è di data vicina al grande salto religioso effettuato dall’austero nobile tedesco: un aristocratico intensamente impegnato, secondo le proprie, aggiornabili coordinate culturali, nella vita intellettuale del tempo). La seconda lettera è rivolta al figlio che abbandona la casa paterna per entrare nel collegio militare di Lutchenbeek presso Münster; essa reca la data del 30 luglio 1803; lo stile è d’intonazione pedagogica, come lo saranno gli Avvertimenti paterni di Maximilian al figliuolo, tradotti da Antici (ma c’è una tradizione in tal senso fin dal cardinale Bellarmino: quella dell’istruzione, con moniti morali, al perfetto principe cristiano; nel caso del figlio di Stolberg, pur non trattandosi d’un principe regnante, si mira, se non ad altro fine, a quello della formazione del perfetto cristiano in quanto uomo). Alle pp. 92-93 vi è un’allusione alla necessità cattolica del perdono, alle mancanze da considerare con indulgenza; si tratta, e qui il dato si mostra più evidente che altrove, d’un cattolicesimo acquisito, d’un senso di fiducia nato in un ex protestante che si è aperto al possibilismo nei riguardi dell’“indulto” metafisico e morale. Ovvio, ma non per questo del tutto scontato e banale, è il monito (pp. 93-94) che consiste nel raccomandare di dedicare tempo alle preghiere, di rivolgersi alla Madonna e ai santi, e di accompagnare le stesse orazioni con un esame di coscienza: Stolberg è un cattolico di recente acquisizione, si è detto, ma è ormai “convinto”, perché la sua conversione è stata frutto di lunghi anni di riflessione e di pensiero. A p. 95 egli ricorda al figlio che occorre avere meno fiducia in sé, nella propria persona e nella “persona” naturale, storica e morale in genere, nella “persona” secolare, e che, invece, bisogna avere più fiducia in Dio; ancora (ibidem), Stolberg rammenta che il peccato (sembra in certo modo il Manzoni della monaca di Monza) ha il proprio percorso di passi perversi, e che una volta intrapreso tale tragitto di naufragio e di sfacelo spirituale il peccatore se ne può ritrarre sempre più difficilmente; alla p. 96 il conte raccomanda di essere lento a parlare e tardo alla collera (secondo l’avvertimento di San Giacomo). Alla p. 97 (passaggio che non stupisce nel contesto d’un’ottica antropologica nobiliare) vi è una precisa pronuncia di valorizzazione dell’arte militare, della cura dello status symbol rappresentato dalla valentia nell’ippica, nella cura per l’arte equestre in generale, tipica dei collegi militari improntati all’accademismo aristocratico, al bon ton, all’etichetta rigorosa e distintiva. Quanto alle letture, accanto ai fondamentali punti di riferimento costituiti dal Nuovo Testamento e da Omero, non vi è l’indicazione di romanzi, ma di opere storiche, di opere di contenuto geografico, di opere scientifiche: la preferenza, insomma, è accordata ai lavori, alle produzioni letterarie non scevre né svincolate da serietà nei loro temi; il consiglio è di fruire di periodici inglesi, e quindi (è questo il vero significato selettivo ed escludente d’una precettistica che non si pone soltanto in una cifra assertiva), deve trattarsi di periodici “non francesi”, secondo una “vulgata” internazionale tardosettecentesca e primoottocentesca che indica nella produzione francese i due rischi, fra loro opposti, da una parte, dell’eccessivo impegno ideologico e dell’inoculazione di fremiti rivoluzionari, e, invece, dall’altra, d’un eccesso di frivolezza e di superficialità, seppur non aliene, queste ultime, da tonalità e da stili brillanti (uno Stendhal ha prodotto più d’una riflessione su questo tema). Dopo che, a p. 100, l’autore ha ricordato il concetto pessimistico d’un mondo nemico di Dio, a p. 101 egli
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raccomanda al figlio, come potrebbe raccomandarlo a una ben più vasta udienza, di non ricercare l’applauso del mondo e degli uomini; a p. 103, vi è il finale, rivolto al destinatario, consistente in una benedizione impartita con tono e con “gesto” testuale quasi sacerdotale, officiante, liturgico-rituale. Contemporaneamente, la lettera è pubblicata in un volumetto di quarantatre pagine, a Firenze, nella cui Biblioteca Nazionale si trova, appunto, FRIEDRICH LEOPOLD von STOLBERG, Lettera al suo figlio di età di anni 20 scrittagli nel giorno in cui lasciò la casa paterna per entrare al servizio militare, trad. dal francese, Firenze, Pagani, 1824. Le due lettere pubblicate nelle «Memorie» modenesi hanno séguito, sempre nella rivista edita dagli eredi Soliani (VI, t. XI, 32 – marzo-aprile 1827 –, pp. 193-224), in Dissertazione del conte FEDERICO LEOPOLDO DI STOLBERG sopra lo spirito del nostro secolo. Traduzione dal tedesco; alle pp. 194-195 si ricorda, da parte della redazione, il «Personaggio» che trasmette gli scritti di Stolberg: «[…] né si omise di accennare fra gli altri suoi scritti quello stesso, che ora publichiamo gentilmente trasmessoci da un dotto e distinto Personaggio, cui stanno a cuore i buoni studi, e le sane dottrine». La pubblicazione è «tradotta dal tedesco» (p. 195), ed è estremamente probabile che essa sia stata effettuata dallo stesso Carlo Antici. In essa vi sono significative citazioni di Burke (pp. 203-205, n. 3, dalle Reflections, citate in edizione francese: Réflexions sur la Révolution de France, Paris, 1823) e dello Haller della Restauration de la science politique, Lyon, 1824 (pp. 205, n. 3, e 208, n. 4); insieme a queste (p. 208, n. 4), vi è la citazione del Visconte De Bonald della Législation primitive. Si veda, proprio dalla n. 4 di p. 208, il seguente passo: «Alle snaturate e crudeli teorie politiche dello stato selvaggio, come prototipo della natura, de’ patti sociali veicolo delle rivoluzioni e della guerra perpetua si opponga il dolce, consolante e veramente filosofico sistema del governo di famiglia, dell’autorità patria, del matrimonio, come modello, ragione, e principio d’ogni potere, e d’ogni legittimo governo. Il celebre Visconte de Bonald, e il profondo de Haller sviluppano magistralmente questa verità sino al punto di farne una completa dimostrazione […]. I Patriarchi, i Re Pastori guidano alla Monarchia: all’opposto i patti sociali, i sistemi filosofici, le costituzioni conducono all’anarchia, o al dispotismo». La prospettiva di netta prevalenza tedesco-francese dalla quale Stolberg, e con lui Antici, osserva ed interpreta, condividendoli, i percorsi culturali della controrivoluzione, è dimostrata dal giudizio di maggiore fama e celebrità tributato a von Haller rispetto a Edmund Burke; un giudizio in sé sindacabile, ma significativo degli indici di popolarità degli autori presso alcuni intellettuali della Reazione in Europa; dopo la citazione (p. 205, n. 3) del BURKE delle Réflexions («p. 65 et suiv.» dell’edizione parigina), Stolberg infatti aggiunge: «Uno scrittore anche più celebre reca profonde e giudiziose riflessioni su quella funesta misura della convocazione degli Stati Generali»; e alla fine della nota vi è la citazione del de HALLER della Réstauration, «T. I. p. 258. et suiv.» dell’edizione lionese. Nelle pagine precedenti non è comunque mancata la citazione, sempre in nota, dello storico inglese Coxe in edizione francese («Hist. de la maison d’Autriche T. I. p. 145. 169. et suiv. Paris 1810», p. 203, n. 2). È sulla base di questa fonte, e insieme delle lettere sulla Svizzera di Raoul-Rochette, commentate ed encomiate nei numeri del «Mémorial Catholique» dell’«Octobre» e del «Décembre» del 1826, che la prosa di Stolberg dimostra la differente concezione che in lui, come, in non minore misura, in Carlo Antici, si afferma in un processo analogo e con modalità valide anche per molti altri intellettuali di formazione propriamente tedesca, riguardo, da un lato, alle strutture politiche e culturali dell’impero come entità germanica, con il corollario di idee e di concezioni, di significati storici e di rappresentatività istituzionale plurinazionale e super gentes che ad esso si accompagna e, dall’altro, riguardo alla ben più circoscritta e miniaturizzata, ridimensionabile e politicamente mirata incarnazione storica rappresentata dal tragitto dinastico della famiglia austriaca degli Asburgo. Stolberg, come Antici, non sovrappone la natura dell’istituzione imperiale germanica, nella sua concezione e nella sua origine assolutizzate e sancite metafisicamente dal crisma divino, alla sua singola declinazione secolarizzata negli orizzonti espansionistici della casata asburgica, nella sua voglia di dominio, militarmente frustrata, sui cantoni svizzeri (Stolberg si riferisce alle lotte tra Alberto I, e poi Leopoldo I d’Asburgo, contro gli svizzeri, condotte fra il 1308 ed il 1315, e concluse a favore dei cantoni con la battaglia di Morgarten; ivi, pp. 200-201): «Già da secoli i paesi di Uri, Schwitz, e Unterwalden erano liberi, e vivevano a norma di proprie leggi sotto l’immediata protezione dell’Impero Germanico, quando l’Alemanno Imperatore Alberto a mal in cuor sofferendo, che non si volessero assoggettare alla dinastìa ereditaria della casa di Habsburgo, ordinò a’ suoi ministri in quelle terre di esigere i diritti del regno anche da quelle provincie; questi oppressero crudelmente quel popolo prosperoso del pari, che prode. Esso scacciò tosto i suoi oppressori, de’ quali atterrò le castella; ma lasciò intatti i beni della casa di Habsburgo, e continuò a riconoscere in Alberto qual Imperatore, e Re de’ Germani, il suo protettore, dopo essersi opposto gagliardamente alle ingiuste pretensioni, che volea far valere in qualità di Duca d’Austria, e di Conte di Hab-
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sburgo. Gli altri cantoni dell’Elvezia sostennero la lor libertà per egual modo, e comunemente si separarono mal volentieri, e quasi a forza dall’Impero Germanico». Per trovare un Asburgo nel quale compiutamente Antici vedrà realizzata la figura dell’imperatore sovranazionale fin dalle sue personali e familiari origini, occorrerà pensare, fondatamente, a Carlo V. 47 Proprio come sostenitore-teologo dei diritti umani, Nicola Spedalieri (dedicatario postumo d’un Dialogo di Terenzio Mamiani) appartiene a quelle figure che possono essere a buon diritto fatte rientrare in un’area intersettiva fra cattolicesimo ed illuminismo (una figura simile è quella, sempre settecentesca, di Giovanni Cristofano Amaduzzi). Su Spedalieri, cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., passim. 48 Cfr. BLAISE PASCAL, Pensées, in ID., L’Œuvre de Pascal, Texte établi et annoté par JACQUES CHEVALIER, Paris, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade», n. 34), 1950, p. 1056, n. 727 (605): «La seule religion contre la nature, contre le sens commun, contre nos plaisirs, est la seule qui ait toujours été». La serie di «contre» riferita alla religione cristiana (l’ascetismo rinunciatario sul piano della fisicità, l’antiedonismo, la coltivazione di valori contrari alla salute del corpo) trova particolarmente consenziente Giacomo Leopardi; l’attenzione dello zio Antici si concentra, invece, soprattutto sul finale, sulla «Perpétuité» (che in realtà, se vista in un’ottica diversa rispetto a quella del marchese di Recanati, può rappresentare un fattore moltiplicante degli stessi «contre», delle strutturali tendenzialità di mortificazione della sfera fisica costantemente veicolate nel corso della storia dal cristianesimo). 49 Su Jean Pey cfr. la citazione che si è fatto della sua lettera al cardinale Garampi, qui sopra, n. 22. Particolarmente importante è la figura di Hyacinth Sigismond Gerdil (1718-1802), cardinale, filosofo, scrittore e docente, capace di coniugare ad una notevole apertura personale alle nuove sollecitazioni del pensiero una competente difesa delle strutture e della filosofia della Chiesa cattolica; la sua presenza nelle citazioni, nelle rassegne bibliografiche di ristampe di testi del pensiero cattolico, nei richiami saggistici che gli vengono dedicati nelle riviste che fanno culturalmente capo allo Stato pontificio (pur continuando Gerdil a lavorare anche nel proprio àmbito d’origine savoiardo-piemontese, con precisi legami che lo uniscono ai titolari della corona del Regno di Sardegna; ma la sua presenza a Roma è sistematica negli ultimi venticinque anni della sua vita: egli è particolarmente legato alle strutture, anche materiali, dei Barnabiti) lo rendono uno dei più interessanti intellettuali protagonisti della prima reazione settecentesca ad un pensiero illuministico che proprio per questa finalità principale, ma, insieme, anche per interesse di singola figura di filosofo, risulta seriamente studiato, ed approfondito, da un autore che gode di un vasto riscontro bibliografico. Savoiardo di nascita come lo saranno i De Maistre, studia, a Bologna, filosofia, matematica, latino, greco. È di vari interessi; sacerdote barnabita, insegna a Macerata e a Casale Monferrato; quindi, vince la cattedra di Etica a Torino, pur mantenendo gli interessi per la metafisica. Nella Biblioteca Vallicelliana di Roma ne è disponibile l’opera completa: «OPERE EDITE ED INEDITE DEL CARDINALE GIACINTO SIGISMONDO GERDIL DELLA CONGREGAZIONE DÈ CHERICI REGOLARI DI S. PAOLO DEDICATE ALLA SANTITÀ DI N. S. PIO VII P. M. TOMO I IN ROMA MDCCCVI DALLE STAMPE DI VINCENZO POGGIOLI, 42 VOLL., 1806-1821»; ne sono curatori D. LEOPOLDO SCATI, D. GIOVANNI MARCHETTI, D. IGNAZIO FILIPPO PERINI. Tra gli «associati» (gli abbonati all’opera) che ricevono «li volumi» vi è anche il conte monsignor Pietro LEOPARDI, vescovo di Ancona, e il cardinale Pietro Francesco Galeffi. Ci sono poi due rappresentanti della famiglia «Falsacappa», il primo citato dei quali è monsignor Giovanni Francesco, Canonico di S. Pietro in Vaticano e Segretario della S. Congregazione del Buon Governo (la famiglia Falzacappa, lo ricordiamo, è stata all’origine di uno dei più consistenti “fondi” della stessa Biblioteca Vallicelliana). Sarà utile trarre qualche specimen dall’opera gerdiliana, di cui non sfuggirà l’influsso esercitato su un Antici che ne riprenderà la lezione soprattutto nell’interesse che mostrerà per l’esigenza dell’istruzione cattolica per i regnanti (si ricordino gli Avvertimenti paterni di MAXIMILIAN WITTELSBACH di BAVIERA al figlio del 1828, tradotti, in scelta, dal marchese papalino). Carlo Antici e il cardinale Gerdil (morto, quest’ultimo, come sappiamo, nel 1802) saranno persino titolari di due pubblicazioni licenziate dallo stesso editore a distanza di due anni l’una dall’altra; presso l’editore Pogliani di Milano, che nel 1828 pubblica la terza edizione della Vita di Cristo di Stolberg tradotta da Antici, usciranno nel 1830 i Pensieri intorno ai doveri dei diversi stati della vita, del cardinale GIACINTO SIGISMONDO GERDIL, tradotti in nostra lingua con un trattatello Sopra le virtù piccole di GIAMBATTISTA ROBERTI; ma già nella Collezione degli opuscoli pubblicati dalla Società de’ Calobibliofili di Imola presente nella Biblioteca Apostolica Vaticana, t. III, «Luglio Agosto e Settembre» 1825, l’opera è uscita con la titolazione di Pensieri del cardinale GIACINTO SIGISMONDO GERDIL della congregazione de’ chierici di S. Paolo intorno a’
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doveri de’ varj stati della vita recati dalla francese nella Toscana favella per un Sacerdote della stessa Congregazione Seconda Edizione (nella tipografia Pogliani usciranno, in quegli anni, anche volumi quali l’ANDREA MICHELI di L’Antico Testamento. Diviso per le vite dei santi e personaggi illustri che in esso fiorirono, 1828, il Compendio della vita di Luigi 16. Re di Francia, di GUY TOUSSAINT JULIEN ABBÉ de CARRON – altro importante scrittore cattolico francese di notevole influenza nella pubblicistica della Reazione – 1832; l’Imitazione di Cristo, tanto cara ad Antici, era uscita nel 1831). Nel t. I delle Opere complete è contenuto l’«Elogio letterario del cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil recitato dal P. D. FRANCESCO LUIGI FONTANA Procuratore Generale de’ Cherici Regolari della Congregazione di S. Paolo, nell’Adunanza generale degli Arcadi di Roma tenuta il dì 6. di Gennajo dell’anno 1804». Fontana è Procuratore generale della Chiesa regolare di S. Paolo, Consultore del Santo Uffizio e dei Sacri Riti, Segretario della Sacra Congregazione per la correzione delle Lingue Orientali, e Segretario dell’Accademia di Religione cattolica, la stessa di cui fa parte Antici. L’impegno gerdiliano si sviluppa contro Locke, contro Rousseau (ancora una volta, bersaglio elettivo dei saggisti controrivoluzionarî), contro Helvétius; già dal primo volume Gerdil inizia una vera contro-storiografia del Settecento, una controstoriografia filosofica. Alla p. VIII Fontana ricorda gli Avvisi a un Principe, a scopo di educazione, tipo di prosa che impegnerà anche l’Antici traduttore; dopo un’altra operetta, Fatti e detti notabili di Principi virtuosi e di celebri Capitani, andata in buona parte perduta, l’introduttore si sofferma sulla Regola di condotta per una Real Principessa destinata a Nozze Reali. Le opere sull’uomo in relazione alla Natura e alla Società, e relativamente alla Legge, sono ricordate alla p. IX: Gerdil combatte la morale libertina del Settecento. Vi sarà, altresì, il Saggio sulla morale, vi saranno opere di giurisprudenza, opere matematiche e scientifiche (sull’algebra e sul calcolo differenziale); alla p. XX è nominata l’Introduzione allo studio della Religione, mentre, nelle successive pp. XXVI-XXVII, Gerdil è definito «distruttore del materialismo»: «Ai raggi di questa luce [«l’essenziale diversità di natura infra la sostanza materiale, e la pensante»], come a que’ del giorno le fantasime, e i sogni, si sciolgono da se, e dispergonsi i vaneggiamenti dell’Elvezio, de la Mettrie, degli Autori dell’Uomo Macchina, della Storia Filosofica, del Sistema della Natura, e d’altretali vertiginosi Filosofi, che quanto meno ingegnosi, tanto più arditi del Maestro, tentarono d’elevare a teorema il Dubbio di lui [Cartesio], sforzandosi quali in un modo, e quali in un altro, di ritrovar nella materia il meccanismo, com’essi il chiamano, del pensiero». Alla p. XXXI, Fontana definisce il frutto della filosofia di Spinoza come il «sozzo sistema del Filosofo d’Amsterdam»; alla p. XXXIX la puntata polemica è rivolta contro Montesquieu: Lo spirito delle leggi è un’opera «che confina nell’Assemblee Popolaresche la Virtù, e la sbandisce dai Troni, e dai Consiglj de’ Reali Ministri»; e altrettanto censurati sono il Patto sociale (secondo il titolo ivi adottato) e l’Émile di Rousseau. Il Saggio d’Istruzione Teologica (p. XLVIII), per parte sua, precede ancora il Cardinalato. La funzione di Gerdil è, insomma, assimilata a quella di Bossuet (che infatti, come anche nei contributi di Antici, è assunto a campione storico della difesa del cattolicesimo), in una precisa strategia antiprotestante che s’intensifica nelle opere che egli compone a Roma, quando è vicino al Papa; ma ne ha scritte già molte, anche su Bossuet, e su Leibniz, che pure aveva cercato una prospettiva di riunione dei Protestanti con la Chiesa cattolica. Prima, Gerdil è stato teologo in Piemonte, a Torino, alla Real Corte, consultato dall’Arcivescovo locale e dal Cardinale Delle Lance. Benedetto XIV, Clemente XIII, Clemente XIV e Pio VI furono i suoi Papi, e l’ultimo lo innalzò al cardinalato. 50 Nel moto d’avvicinamento al cattolicesimo, fino all’aperta conversione e alla dichiarata adesione confessionale, confluiscono, negli intellettuali, soprattutto tedeschi, che si rendono protagonisti di tale esperienza, varie motivazioni, alcune delle quali appaiono, fino ad un netto cambiamento di tendenza negli ultimi tempi, in certa misura sottovalutate dalla storiografia culturale che se n’è occupata. È quindi doveroso sottoscrivere il lavoro a più riprese sviluppato in tal senso da STEFANO POGGI, che nell’opera collettiva intitolata La misura dell’uomo. Filosofia, teologia, scienza nel dibattito antropologico in Germania (1760-1915), appunto a cura di MASSIMO MORI e STEFANO POGGI, Bologna, Il Mulino («Percorsi». Volume pubblicato con i fondi di ricerca PRIN 2002 della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano e dei Dipartimenti di Filosofia delle Università di Firenze, Milano, Padova, Torino, Trento, Verona), 2005, si fa promotore d’una serie di studi (richiamati dallo stesso sottotitolo Filosofia, teologia, scienza nel dibattito antropologico in Germania – 1760-1915 –), a sottolineare la rete di connessioni culturali, tutt’altro che vaghe ed infondate, ma anzi testualmente suffragabili, di una teologia che dialoga, in parte anche scaturendovi ed a sua volta fornendole i propri apporti, con la riflessione scientifica romantica. La presenza d’una dimensione razionale non è, insomma, esulante dal romanticismo filosofico, né dal romanticismo letterario; e, come è ormai ampiamente provato che, nella stessa Germania, o nella stessa area tedesca nella quale sono nate esperienze di convertiti di così
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grande interesse, l’Aufklärung è «studiata ora nella complessità dell’intreccio tra temi filosofici e aspetti teologico-religiosi, letterari, giuridici e scientifici» (MASSIMO MORI e STEFANO POGGI, Prefazione a La misura dell’uomo, cit., p. 8), e come è dato accertato che le indagini sulla natura umana, nel passaggio dalla stessa Aufklärung all’età romantica, spesso «trascolorano nella riflessione teologica» (ivi, p. 9), risulta, proprio per queste ragioni, altrettanto sicuro che dalla Germania della seconda metà del Settecento si sviluppano dibattiti «in un intreccio di componenti teologiche, filosofiche, scientifiche» nelle quali «iniziano a prendere forma molte concezioni divenute poi correnti nel corso dell’Ottocento, fino a lambire il secolo successivo»; e a stretto giro di ragionamento si parla poco dopo di «polivalenza di tali progetti» e di «intricato intreccio disciplinare che li sostiene» (p. 10). In questa prospettiva vd. anche EDOARDO TORTAROLO, La ragione sulla Sprea. Coscienza storica e cultura politica nell’illuminismo berlinese, Bologna, Il Mulino, 1989, e ANTONIO TRAMPUS, I gesuiti e l’illuminismo, cit. E assume un valore fondamentale l’apporto dato al pensiero di quegli anni dal protestante Schelling (protestante al punto tale da doversi trasferire da Würzburg – assegnata a un principe austriaco – a Monaco, nel 1806, non all’Università, ma alle Accademie di Belle Arti e delle Scienze; a Monaco ritornerà, da docente universitario, dal 1827 al 1841, prima del coronamento berlinese – e antihegeliano – della carriera, dal 1841 al 1847). Sono ben noti sia l’importanza del periodo jenese (1798-1803), sia il valore formativo dell’amicizia feconda con August Wilhelm Schlegel, fratello del futuro convertito Friedrich (e Caroline Schlegel, moglie divorziata di August, sposerà Schelling), e con Tieck e Novalis, di cui si è ricordato (qui sopra, n. 44 su Wackenroder) il significativo avvicinamento al cattolicesimo. Non sarà questa la personale parabola di Schelling, che anzi si avvicinerà allo spirito di Hamann e di Jacobi. Ma ciò che maggiormente conta è la sua capacità di immettere, con coerenza, all’interno della dottrina romantica tedesca, il portato delle sue riflessioni teologiche, veterotestamentarie, evangeliche, facendo della religione, e specificamente del cristianesimo, un elemento essenziale della propria filosofia, romantica appunto, un’ammissione dei concetti di natura e di storia come ordine di necessità e di progressività nel quale ha pieno modo di esplicarsi l’infinito. E proprio la natura, rispetto al soggettivismo di Fichte e al suo «Io», è il terreno di sfida d’uno Schelling teso a salvaguardare la realtà, l’essenza oggettiva del principio d’infinità, a spiegazione della stessa natura; sia la natura, dunque, sia il principio d’infinità ricevono dal suo pensiero un crisma di legittimazione, di garanzia d’esistenza, che investe la stessa legittimità della religione presso molti approdi, non solo tedeschi, del romanticismo. Non è un caso, dunque, se in ENRICO GUGLIELMINETTI, «Herabsetzung». Ambiguità del fondamento in Schelling (in La misura dell’uomo, cit., pp. 167-194, qui pp. 176-185), si sottolinea la duplicazione mitologico-mentale del processo creativo di Dio nella coscienza dell’uomo: «La storia dell’umanità è la storia della liberazione dal mito, cioè dell’abbassamento del soggetto a complemento» (il mito, appunto, si produce da un’energia riattivata di elevazione del fondamento – il “grado” dell’essere –, fino all’identificazione con Dio: nel mito, il fondamento – il Grund – è Dio – p. 176). Dalla Filosofia della Mitologia (Philosophie der Mythologie) alla Filosofia della Rivelazione (Philosophie der Offenbarung), i «due fuochi» dell’ellisse schellinghiana, quello appunto della «Mitologia» e quello dell’incarnazione e morte di Cristo possono non soltanto esprimersi compiutamente, bensì attestare che «Nel quadro di una ricerca sulla relazione tra mondo naturale e sfera mentale nell’antropologia tedesca tra Sette e Ottocento, la filosofia della mitologia schellinghiana occupa una posizione di primissimo piano» (p. 182); «La cultura è per Schelling una ripetizione della natura», e «Le forze o potenze operanti in questo processo [un «secondo processo», quello della cultura, le cui cause sono «le stesse del primo, che si ripete qui soltanto nella coscienza umana»] non erano immaginarie, non era semplicemente l’idea di Dio, come si potrebbe pensare seguendo una certa filosofia, ma le reali, effettive, teogoniche potenze, quelle stesse che operavano anche nella natura. Ne risulta quindi chiaro […] anche il rapporto nel quale le rappresentazioni mitologiche, a prescindere dalla loro apparente assurdità, stanno tuttavia apertamente con la natura e i suoi fenomeni […]. Questo rapporto con la natura, questa forma di somiglianza che gli esseri mitologici mostrano con le cose della natura, dipende dal fatto che le stesse potenze generanti il mondo che operarono nella natura qui operano nella coscienza» (cfr. FRIEDRICH WILHELM JOSEPH SCHELLING, Filosofia della Rivelazione, Traduzione di A. BAUSOLA, riv. da F. TOMATIS, Milano, Bompiani, 2002, pp. 633-635). Giustamente Guglielminetti rileva, a questo proposito: «Questa struttura della duplicazione, o della ripetizione, spiega, tra l’altro, la peculiare oggettività delle rappresentazioni mitologiche (paragonabili in certo modo a fantasie psicotiche di incontrovertibile evidenza per chi le patisce)»; e «Proprio perché il processo nel quale si generarono quelle rappresentazioni era del tutto indipendente dal pensiero e dalla libertà dell’uomo – perché era, in questo senso, obiettivo –, l’umanità doveva prestare piena fede a quelle rappresentazioni, considerarle parimenti come obiet-
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tive» (ibidem). Il concetto viene ribadito nell’introduzione alla filosofia della mitologia: «Il contenuto del processo è dato non dalla semplice rappresentazione delle potenze, ma dalle potenze in quanto tali […]. È quindi in questo passaggio che la spiegazione introduce una dimensione perfettamente oggettiva, diviene anzi, a sua volta, una spiegazione del tutto oggettiva» (F. SCHELLING, Filosofia della Mitologia. Introduzione storico-critica – Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie –, Traduzione di T. GRIFFERO, Milano, Guerini e Associati, 1998, p. 326). Il cristianesimo sarà «la vera religione, tramite cui l’umanità si libera dalla servitù del suo passato mitologico» (ENRICO GUGLIELMINETTI, «Herabsetzung», cit., p. 184). L’incarnazione e la morte di Cristo sono «Il punto d’inversione dell’intero processo», in cui il Figlio, “abbassandosi” ad essere umano, e deponendo la forma Dei, rinuncia all’esistenza indipendente dal Padre (cfr. anche l’esegesi di Schelling alla lettera paolina Ai Filippesi, 2, 1-5). Infinito e natura (e quindi scienze della natura) sono dunque, per Schelling, reciprocamente, ontologicamente compenetrati; al di là dei “rischi” di spinozismo cui pure talvolta il filosofo pare incorrere, la sua opera assegna alla religione cristiana un luogo di assoluto privilegio nella storia dell’uomo, e soprattutto giustifica sulla base di categorie d’assoluta validità e nobiltà filosofica le indagini sulla natura: la chimica, la fisica, le scienze naturali (zoologia, botanica, mineralogia, etc.). Il cristiano poteva sentirsi perciò legittimato a considerare la scienza della natura e la scienza della storia, e così la scienza politica, come scienze del creato, o come la scienza di manifestazione dell’infinito, e poteva, altresì, considerare la religione come una vera lettura del mondo, come un sapere intimamente compenetrato con la natura e con la realtà, non come una sovrapposizione spiritualistica al sapere laico, esposta alle polemiche degli avversarî. E si può ricordare (in UMBERTO CARPI, Timpanaro e il problema del romanticismo, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da RICCARDO DI DONATO, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 157 ss.) l’«imbarazzante» concetto di «energia» nella Naturphilosophie di Schelling, e insieme la linguistica di Schlegel (Friedrich, ancora, autore della Sprache und Weisheit der Indier), «così implicata nelle analogie con fissismo ed evoluzionismo nelle scienze biologiche e zoologiche della natura»: si può dedurre che «il romanticismo […] imbarazzava il materialista settecentesco senza Hegel proprio sul terreno della materia, e non da posizioni necessariamente arretrate dal punto di vista scientifico, anzi!»; l’“imbarazzo” indicato da Carpi si riferisce proprio a Timpanaro. Non può stupire se uno Schlegel, già “implicato”, nella sua linguistica, in significative analogie con le scienze naturali, e convertito al cattolicesimo fin dal 1808, può, nel suo sistema, considerare lo stesso cattolicesimo come religione dell’armonia, della ricomposizione mite di drammatiche antinomie, e, insieme, come una religione capace di costituire il tronco culturale della civiltà occidentale: nel 1827 la Philosophie des Lebens traduce il cattolicesimo in una Weltanschauung innervata di personali coloriture, mentre la Philosophie der Geschichte del 1829 riconosce al cristianesimo una funzione elevante nella vita degli uomini, la stessa che ha esercitato nella storia medioevale, accompagnata dall’elemento rappresentato dal germanesimo: è la concezione (medievalismo, cristianesimo, germanesimo) che sostiene dai suoi fondamenti l’opera di Carlo Antici traduttore, saggista e impegnato recensore, in nome di una storica armonia tra lo stesso germanesimo e Roma, con la Germania cattolica che, assumendo in pieno in sé, ufficialmente e intimamente, tutte le istituzioni e tutti i caratteri della Chiesa latina, a sua volta la foraggia in mutuo scambio spirituale e culturale, ma anche sul piano dell’ideologia politica, dei contributi della propria attitudine filosofante, della propria disposizione allo scandaglio ed all’approfondimento nel pensiero; e questa concezione, non certo importata ma meditata, elaborata e accolta da Carlo Antici sulla base privilegiata della fruizione dei testi originali (come la sua opera di traduttore ampiamente dimostra), della lettura diretta e di prima mano, del contatto non scontato e non mediato con la realtà autentica degli scritti còlti nella loro precisa e non banalizzata (e non banalmente sdoganata) terminologia, si intensificherà, fino a mostrare una più serrata (pur se, talora, alquanto ripetitiva) proposta pubblicistica negli articoli, negli articoli-saggio, nelle recensioni degli anni Trenta, soprattutto negli «Annali delle scienze religiose», ma anche nella «Voce della Ragione», per lo più sulla scorta dell’impegno di Monaldo, e nella collaborazione anonima, o dietro le quinte, alla «Voce della Verità», nell’attività di concettoso autore d’importanti discorsi, di dissertazioni accademiche pronunciate nelle sedi romane deputate, dissertazioni che non sono rimaste nel rango di mera testualità occasionale ed allocutiva, ma si sono condensate in precise versioni (e probabilmente rielaborazioni) scritte per esteso, con mirato impegno stilistico, così ponendosi quali non fortuite tappe d’un consapevole sforzo, d’un’applicata strategia culturale e saggistica. 51 La vicenda dei passaggi e degli intrecci culturali nella Germania di fine Settecento e di primo Ottocento, soprattutto nell’àmbito del romanticismo e, in particolare, riguardo alla tematica dei con-
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vertiti, attraversa in realtà svariate, possibili graduazioni, a loro volta non prive di sfumature e di interne differenze nelle storie ideologiche personali. Di questa vicissitudine culturale di conversioni, o di avvicinamenti parziali al cattolicesimo, come si vede, Antici è pienamente e profondamente edotto; tale vicissitudine forma un nucleo decisivo e strutturale della sua riflessione di saggista cattolico che ha vissuto l’esperienza d’un’area di frontiera “traducendone” le sollecitazioni intellettuali negli scritti romani. Si tratta d’una vicenda di cui fa certamente parte, ad esempio, Novalis: «L’università di Gottinga diviene il centro di diffusione delle idee di Burke. Ma senza dubbio, la sintesi più brillante di tutte le correnti a cui abbiamo brevemente accennato è l’opera di Novalis. Educato nel pietismo, nutrito d’occultismo e di storie germaniche, lettore di Burke, egli propone, dal 1798-1799 in poi, una nuova filosofia politica che esalta l’autorità assoluta dello Stato, la struttura gerarchica della società, la forza del vincolo religioso, la missione civilizzatrice della Germania. Verso il 1800 è ormai costituito tutto il patrimonio d’idee cui attingeranno, poco dopo, i dottrinari o i poeti del nazionalismo conservatore e romantico» (cfr. LOUIS BERGERON-FRANÇOIS FURET-REINHART KOSELLECK, I paesi germanici: un pandemonio della filosofia europea – IV par. del cap. La Francia rivoluzionaria e gli stati europei (1789-1799) –, in IDD., L’età della Rivoluzione europea. 1780-1848, cit., p. 116. È il «nazionalismo», un termine non certo da poco, che si deve escludere pensando alla temperie culturale del germanesimo di Antici; ma gli altri elementi (e non solo considerati in sé), neppure essi elementi da poco, sono del tutto congrui alla concezione germanistica dello zio di Leopardi, e, per di più, essi sono pronti a dilatare la loro importanza al di là della germanistica in senso proprio. Le stesse Ideen legate al vagheggiamento d’una “missione” della Germania non sono affatto aliene dalla concezione cristiano-tedesca d’un marchese-funzionario pontificio che assume in chiave risolutamente cattolica una sorta di mito culturalmente e moralmente primatizio della Deutschtum filoromana, filolatina (o in tal modo esperita e decodificata), meridionale e pia, bavarese e credente, e insieme pura e nordicamente disciplinata nei costumi, rivissuta e ricordata da chi vi si è formato negli anni irripetibili, e indelebili per il futuro, dell’adolescenza e della prima gioventù. Perfino Novalis, nel mito cui perverrà nella sua visione culturale e poetica, e con la sua partenza protestante, deve, in fondo, traghettarsi, nel proprio percorso, al di là d’un’esperienza epocale, qual è per definizione la Rivoluzione francese, che lascerà comunque, in lui, conseguenze non eliminabili, pur se rivissute e filtrate, come avviene ai più grandi e ricettivi intellettuali tedeschi, in una versione interiorizzata e di non immediata relazione con i termini della concretezza storica (e Friedrich Schlegel, che pure è da sùbito ricettivo riguardo alla Rivoluzione, meraviglia in tal senso i connazionali, che avvertono più salde le esperienze paradigmatiche di Fichte e di Goethe, delle quali si discute quasi a contesa, e che concepiscono invece, almeno all’inizio, il sommovimento francese come un’esperienza più lontana e più astrattamente incontrollabile). Né può sfuggire il «fondamentale rapporto con Schelling» da parte d’un Novalis che condivide l’interesse per gli studi sulla natura, in specie quelli su un «grandioso processo chimico di portata cosmica», da collegarsi «alla teoria della Weltseele (anima del mondo)» (cfr. M. COMETA, Mitologia della ragione, Palermo, 1984, cit. in FERRUCCIO MASINI, Introduzione a NOVALIS – GEORG FRIEDRICH PHILIPP FREIHERR von HARDENBERG –, Inni alla notte – Canti spirituali [titoli originali: «Hymnen an die Nacht – Geistliche Lieder»]), Traduzione in versi di GIOVANNA BEMPORAD, Milano, Garzanti – «I grandi libri» – 1988 – I ed.: 1986 –, p. XVII): «Soltanto a partire da questa interpretazione complessiva delle leggi dell’universo […], si potranno capire le riflessioni filosofiche di Schlegel e di Novalis nei decisivi mesi che vanno dalla permanenza a Dresda, nell’estate del 1798, al fatidico incontro, nel settembre dello stesso anno, tra tutti i rappresentanti della futura Früromantik, al produttivo confronto infine con i testi schellinghiani della fine dell’anno» (ibidem). Anche Novalis (e tornano con lui i nomi, imprescindibili, di Schelling e di Friedrich Schlegel) dimostra, insomma, già nei Frammenti, di tendere ad una plurimità di saperi, ad una “bibbia scientifica”, nella sua «poeticizzazione delle scienze» (FERRUCCIO MASINI, Introduzione, cit., p. XIX), in una Enzyklopädistik di ispirazione schellinghianofriederichschlegeliana, «organo di questa poeticizzazione» in grado di porsi in una dimensione opposta all’Encyclopédie illuministica (in definitiva, non come summa di discipline, ma come «nostalgia organica» – Introduzione, p. XVIII – insita in un Fragmente che aspira «a confluire, insieme a tutti gli altri, in una totalità», secondo l’esigenza d’una grande “sintesi” – e si ricordi il concetto di «totalità» in Schelling –). Non può certo sorprendere l’approdo novalisiano del 1799 (pur pubblicato postumo nelle Schriften del 1826), Die Christenheit, oder Europa, scritto intriso di critica antiilluministica ed antiprotestante, e apertamente disposto a riconoscere le simpatie acquisite per il cattolicesimo: l’autore «aspirava ad imporsi nel quadro dei conflitti ideologici con la suggestione di una prospettiva messianico-spiritualista indirizzata ad una risoluzione utopica dei mali e delle contraddizioni generati dalla secolariz-
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zazione protestante ed illuminista. Non si dimentichi la connessione tra questo saggio e gli Inni e i Canti spirituali: in particolare l’“Inno” quinto non potrebbe essere compreso fuori dall’impianto dialettico di una filosofia della storia nella quale la condanna dell’Aufklärung coincide con il rifiuto contemplativoquietista di un mondo corrotto dall’affacendarsi (Geschäftigkeit) borghese. L’idea centrale dell’opera è espressa dal primato della religione che sola può ridestare l’Europa e dare sicurezza ai popoli ristabilendo visibilmente sulla terra, con nuovo splendore, la cristianità con il suo messaggio di pace. La meta appunto della pace perpetua viene qui proposta in radicale opposizione alle linee di tendenza storicopolitiche del tempo, sulla base di un’interpretazione dialettica del corso storico alla quale non sono estranee le influenze di Burke, Johannes von Müller e Herder. Ai fastigi della respublica christiana dell’età di mezzo segue lo sgretolamento di quell’universale e pacifica unione ad opera della Riforma protestante (“con la Riforma il Cristianesimo era crollato. Da allora non esistette più”), quindi, con l’Aufklärung, sua filiazione mondana, l’avvento di una ratio atea e livellatrice che riduce Dio a “ozioso spettatore del grande e commovente spettacolo che gli scienziati recitano”. Si stende così sul mondo, dove sono diffamati fantasia e sentimento, la squallida ombra di una presunta autosufficienza umana che oscura ogni armoniosa multilateralità e mortifica ogni entusiasmo creativo […]. Ma lo scopo di Novalis non sta nel reagire a tutto questo prospettando un ritorno all’assolutismo feudale […]. Novalis non poteva in alcun modo prescindere dalla possibilità d’integrare nel suo disegno provvidenzialistico il fatto della rivoluzione come espressione di una coscienza creativa diretta alla trasformazione dell’esistente […]. Tanto più perentoriamente, dunque, s’impone, in questa prospettiva, il ribaltamento utopico, la cui possibilità è data dalla riplasmazione del Cristianesimo o più precisamente della Cristianità che “deve vivere e farsi attiva, ricostruire una Chiesa visibile senza riguardo a frontiere politiche, la quale accolga nel suo grembo tutte le anime assetate dell’ultraterreno e voglia fare da mediatrice tra il mondo antico e il nuovo”». Molti concetti fin qui espressi trovano conferma in STEFANO POGGI, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Bologna, Il Mulino, 2000, passim, tra Schelling, Novalis, Friedrich Schlegel, Goethe, e molti altri filosofi e scienziati: dalla «scienza romantica» che si eleva «al rango di una nuova “teologia naturale”» (p. 14) alla ripresa del concetto di «anima del mondo» sulla scia del Timeo platonico (e sulla base del principio di Lavoisier, che fa sfumare, fin quasi ad annullarli, i confini fra vita e morte, in una natura in cui nulla si distrugge, ad attestazione, presso gli scienziati vicini a Schelling, di eterna vitalità della natura stessa, di un principio di biocentrismo dinamistico); dalla focalizzazione della vicenda degli studi scientifici schellinghiani, sviluppatisi in particolare a Monaco, nell’Accademia bavarese delle scienze (mentre a Berlino si cominciano a privilegiare gli studi prepositivistici – pp. 58 ss.) all’assunzione dell’eredità leibniziana, in questo senso consistente nel rifiuto d’una «realtà da noi separata»: «Un “sistema della natura”, di fatto, “è nello stesso momento un sistema del nostro spirito”, volto a realizzare “una grande sintesi”. Solo quando tale “grande sintesi” si fosse compiuta sarebbe allora stato davvero possibile l’avvio di un autentico lavoro analitico sulla natura, e dunque di un’autentica sperimentazione scientifica» (p. 216). Ancora, imprescindibile la presenza di Novalis (pp. 304 e 310): «È proprio nell’esplicarsi della “forza organica” che il processo chimico giunge al suo culmine nella sua capacità di autoproduzione, nella sua centralità di processo che regge l’universo. La “forza organica”, infatti, “non si limita a mettere in movimento una materia, ma la mette in movimento in modo tale che la materia in questione divenga gradualmente sempre più capace di assicurare lo sviluppo della forza medesima, trasformandosene nello strumento, nel sostrato puro e individuale, in ciò su cui la forza si imprime e a cui dà forma”. Essa è “una forza che aspira ad assimilare la facoltà formatrice”, ed è «nell’ideale di un universo che la forza organica pensa e progetta se stessa”» (e si ricordi altresì – p. 310 – l’anima come «entità proiettiva e propulsiva», con «lo spirito che “galvanizza” […] l’anima come principio vitale»); e non manca Ignaz Döllinger (senior), dotto di formazione viennese, vicino nei primi tempi a Schelling, padre di quel suo omonimo che, sul versante d’una rigorosa e insieme pensosa e sofferta dottrina teologica, sarà da citare a proposito della posizione ecclesiologica di Johann Michael Sailer. E come tutte queste posizioni si legano singolarmente alla fruizione che Carlo Antici ampiamente dimostra del romanticismo cristiano tedesco (ivi compreso quello che rimane di matrice protestante), altrettanto vi si legano le posizioni e le emergenze culturali platoniche (o, a seconda dei casi, neoplatoniche) che scaturiscono dall’atmosfera culturale della Germania primoottocentesca; si veda il caso di Gotthilf Heinrich Schubert, le cui opere sono note ai fratelli Schlegel, a Kleist, ad Hoffmann e a Goethe, e le cui idee sull’anima una e indivisibile, creatrice dell’organismo vivente, in cui essa fa nascere la coscienza, sede di una «intrinseca dinamica teleologica», si pongono in una corrente di pensiero alla quale daranno apporti anche i nomi di Burdach e di Steffens; nella bibliografia condivisa di questi
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autori insiste, e il riferimento non meraviglia, la traduzione da parte di SCHLEIERMACHER dei Dialoghi di Platone. A Novalis si arriva comunque, in quest’ottica che passa dal protestante Schleiermacher: «sotto l’influenza degli scienziati e di Schelling, [i componenti del “gruppo” jenese, che fa capo agli Schlegel] vi introdussero una “simpatia universale” che si manifestava, per esempio, nell’affinità chimica, nel magnetismo e nell’amore umano; sotto l’influsso delle effusioni religiose di Schleiermacher, finirono col prendere da Böhme l’idea di Centrum, anima del mondo e principio divino. A ogni modo, soltanto l’artista di genio, attraverso l’intuizione o anche attraverso il sogno e la magia, si pone a contatto con la vera realtà: in lui questa misteriosa esperienza si tramuta in vera opera d’arte. Il poeta è un sacerdote e la sua è una filosofia del miracolo. Sfortunatamente non si può dire che il miracolo si sia compiuto: quei romantici non hanno lasciato grandi opere; le migliori sono quelle di Novalis, principalmente gli Inni alla Notte (1798-99) […]. D’altra parte essi, nel passato, scoprirono il Sacro Romano Impero e il papato: sin dal 1799 Novalis cantò le lodi dell’unità cristiana che aveva costituito la gloria del Medioevo; il cattolicesimo li commuoveva con la sua liturgia e la sua musica: lo stesso Novalis dedicò un inno alla Vergine. Egli rimase protestante; ma poiché l’Austria aveva più cariche da offrire e resistette meglio ai colpi di Napoleone, parecchi dei suoi amici passarono successivamente al servizio di essa e si convertirono al cattolicesimo […]. La maggior parte di coloro che detestavano la Rivoluzione non s’ispiravano a motivi filosofici e, se ne sentivano il bisogno, li domandavano alle Chiese. Gli anni del XVIII secolo furono testimoni d’una rinascita religiosa favorita sì, dal pragmatismo conservatore e dall’intuizionismo sentimentale, ma che tuttavia si sviluppò spontaneamente: l’aristocrazia, come si riavvicinava ai troni, così si sentì solidale con le Chiese di Stato, e si disse che Lucifero era stato il primo giacobino; d’altra parte, le grandi catastrofi e le lunghe guerre riconducono sempre ai piedi dell’altare le folle inquiete o tremanti». Ma si veda come i nomi di filosofi e in genere di intellettuali tedeschi insistano e ricorrano, anche in riviste degli anni Trenta vocate agli studi religiosi, insieme, e in relazione, pur se talvolta contrappositiva, con i saggi della scienza teologica; ad esempio, in «Annali delle scienze religiose», X, 28 (gennaiofebbraio 1840), pp. 61-131, vi è un contributo intitolato Esamina d’una diatriba contro il R. P. Perrone scritta da uno Pseudo Lucio Sincero Ermesiano vero, a firma «G. M.» (GIACOMO MAZIO; ma, certo, vi è stata collaborazione di Antici nella fruizione dei brani in tedesco): vi sono citati Kant, Wieland, il «Giornale di Aschaffenburg», il «Journal Historique e Littéraire de Liège», e vi sono frasi intere in tedesco (p. 65 n. 1), tratte da uno scritto intitolato Sugli Acta Romana, Monaco, 1838, in cui ci sono parole di spregio commiserante per il Papa; vi sono inoltre citati Ermete Trismegisto (p. 67), Leopold Ranke (p. 69), a p. 79, n. 1, di nuovo Kant, in un discorso che mira a definire, soprattutto in chiave negativa, la Germania come paradiso del razionalismo. Risulta inoltre menzionata l’opera del THEINER, Storia dei seminari; e a p. 81 sono citati alcuni degli ecclesiastici germanofoni più vicini ad Antici, quali l’Hurter, il Möhler, il Döllinger, mentre a p. 85 la citazione, testuale, è tratta dal BYRON, nel testo inglese, di Child Harold, c. IV, XLVII; e così le Institutiones Theologicae (I, Brixiae – Brescia –, 1830, p. 68) del LIEBERMANN, pp. 86 ss., le Institutiones Theologiae Christianae dogmaticae di AUGUST LUDWIG WEGSCHEIDER, pp. 89 ss., il concetto di Germania cattolica, estremamente caro all’Antici (p. 104 e n. 1), il Leibniz, Rosmini, pp. 113-114 (Mazio si riferisce al Nuovo saggio sull’origine delle Idee, Milano, 1836, vol. II, p. 191, e vol. III, p. 82); ancora, vi è il Wieland di Hippocrates zu Abdera, pp. 116-117 e nota in tedesco; a p. 118 il POLIGNAC dell’Antilucrétius, mentre l’allusione alla polemica di Madame DE STAËL con Locke è a p. 124, e (ibidem e n. 2) vi è anche il MANZONI del III cap. delle Osservazioni sulla morale cattolica, sulla necessità della ricerca del vero nei fatti, pena un’attestazione d’insicurezza nei propri principi. Esamina d’una diatriba etc. continua nel numero X, 29 (marzo-aprile 1840), pp. 162-264. Come esempio d’una probabile collaborazione anonima (o in anonima collaborazione con l’abate Antonio De Luca) di Carlo Antici a saggi, o a recensioni impegnate a testi ecclesiologici in lingua tedesca, cfr. anche, negli «Annali delle scienze religiose», II, 5 (marzo-aprile 1836), pp. 186-197, la recensione al REV. SIG. HERMANN JOSEPH SCHMITT, parroco di Steinbach presso Lohr sul Meno, Landshut, a spese di G. T. Manz, 1834: Uroffenbarung, oder: die grossen Lehren des Christenthums, nachgewiesen in den Sagen und Urkunden der ältesten Völker, vorzüglich in den s. g. kanonischen Büchern der Chinesen, tradotto dall’«Allgemeiner Religions und Kirchenfreund», april 1835; si cfr., altresì, «ivi», VIII, 23 (marzo-aprile 1839), pp. 209-221, la traduzione di un resoconto dalla «Gazette de France», 28 novembre 1838 sui Principes de la Philosophie de l’Histoire, Paris, chéz Gaume, 1838, dell’Abbé FRÉRE. 52 Nella polemica contro il paganesimo, più che il nome di Friedrich Schlegel, che va giustamente famoso per avere comunque percorso in modo affascinato, e insieme ravvicinato e valorizzante gli studi classici (in particolare gli svolgimenti storici ed estetici della poesia greca), ritorna il nome di Ger-
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dil, come risulterà evidente dalle impostazioni e dalle preoccupazioni filosofiche e pedagogiche del pensatore savoiardo; pedagogiche, non meno che filosofiche, perché si tratta di stilare veri e propri “piani” di studio, di apprendimento, di formativa educazione di speciali discepoli, di augusti allievi (una tematica che, dalla considerazione del rapporto fra Maximilian Wittelsbach e il figlio, e del rapporto fra Sambuga, Sailer e la corte di Baviera nel comune impegno di promuovere e indirizzare in senso cristiano-cattolico la formazione degli eredi reali, attraversa in larga misura l’opera ufficiale di Antici come scrittore), di futuri regnanti: una scienza dagli specifici statuti disciplinari alla propria base, ma dagli sviluppi e dalle finalità politiche e politico-religiose al proprio vertice. Insomma, una scienza politica sostanziata della visione storica cattolico-conservatrice; sostanziata, non semplicemente “intinta” nel cattolicesimo, come è stato detto per altre esperienze, quasi a superficiale battesimo di rassicurazione religiosa. Lo si constata sùbito nelle citate Opere gerdiliane; nel I volume, p. LXV, vi è l’AntiÉmile, ou Réflexions sur la Théorie, et la pratique de l’Education, contre le principes de M. Rousseau, elaborata in una prima versione a Torino, Mairesse, 1746 (quindi, la «première édition» torinese, 1746), poi ancora nel VI volume dell’edizione bolognese delle opere gerdiliane. Vi saranno ulteriori articolazioni pragmatico-didattiche della “programmazione” culturale costruita a vantaggio di blasonati discenti: per l’immediato attendente di un principe, vi è il Plan des Études pour un jeune Seigneur appellé aux emplois les plus distingués pour le service du Prince, et de la Patrie; per il principe stesso, vi è la proposta gerdiliana d’un Plan des Études, ou Compte rendu des études de S. A. R. Monseigneur le Prince de Piemont, avec une Addition de différentes petites Pièces de l’Auteur, rélatives au même Plan; poi vi sono gli Opuscoli fatti ad uso dello stesso Regio Principe: I. Logicae Institutiones. II. Histoire des sectes de Philosophes (nell’Histoire stessa vi è, opportunamente evidenziata, secondo un metodo che sarà anche di Antici, la sconfessione di Epicuro e dell’epicureismo da parte di Montesquieu e di Voltaire, insomma la confutazione d’una tendenza, conseguita mediante l’estorsione delle contraddizioni interne dalla voce stessa dei suoi presunti mentori; Voltaire è nominato in modo indiretto e perifrastico, come l’autore del Dictionnaire philosophique, p. 245). Nel III, vi sono le Pensées sur les devoirs des differents états de la vie. Nell’Anti-Émile (titolo che già in sé rovescia terminologicamente una proposta educativa dalle potenziali conseguenze rivoluzionarie sul piano pedagogico) Gerdil attacca Rousseau sia dal punto di vista religioso, sia dal punto di vista politico: «Il ne fera pas des sauvages, mais il fera de mauvais Chrétiens, et de mauvais Citoyens», p. 3. I suoi «paradoxes politiques» «sont plus faits pour étonner le monde, que pour l’entrener» (cfr. anche, su Gerdil antirousseauiano, GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., pp. 254-255 e n. 119). Gerdil non ama, di Rousseau, la volontà (a suo dire) di tutto distruggere, di tutto sconvolgere; ma Jean-Jacques non riuscirà a rivoluzionare la società, bensì a depistare dal bene. Piuttosto, si verifichi il piano di studi per il Giovane Signore, con un metodo che consiste nell’insegnargli a far da sé, a ragionare da sé: mitologia, storia, geografia, matematica, poi le quattro parti della filosofia: logica, metafisica, fisica, morale. Il piano di studi per il Principe, Pour le Prince du Piemont (pp. 185-203), è uno sviluppo e una serie di osservazioni (Opuscules) del Plan di «Monsieur le Marquis TRIVIÉ DE FLEURI», Governatore in seconda del Duca di Savoia, poi Cavaliere d’onore di Maria Antonietta Ferdinanda, Infanta di Spagna, Gran Croce e Comandante dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro; il Plan era fatto proprio per l’erede di Savoia. Il Duca era il futuro Vittorio Amedeo III Re di Sardegna; e vi erano consigli sulla gradualità delle letture, e sulla necessità di imparare innanzi tutto la lingua italiana. Quanto alla storia antica (p. 189), è bene ricostruirne la vicenda non in un’ottica laicamente appropriata e congruente alla classicità stessa, bensì nell’ottica, ben diversa e sotto certi aspetti opposta, di uno dei più grandi scrittori cattolici, Bossuet (quindi, l’Histoire universelle nella visione cristiana, la «Politique tirée de l’Écriture sainte»): «On a fait usage […] de l’excellent discours sur l’Histoire universelle de Bossuet, qui a servi en même tems pour dresser des tablettes Chronologiques, suivant la méthode conseillée par Mons. Daguseau dans ses instructions à son fils. / On a lu la Politique tirée de l’Écriture Sainte de Bossuet, pour donner au Prince une idée générale des devoirs, et des objets de gouvernement, et le mettre ainsi à portée de faire avec plus de fruit le cours de l’histoire moderne». Più sotto ancora (pp. 189-190), si ricorda che conviene che il Principe sappia un po’ di latino (non più di tanto): «Il ne convenoit pas de laisser ignorer entièrement au Prince la langue de César, et des Loix, langue qui est devenue en quelque sorte celle de la Religion par la version authentique des saints Mystères. On a jugé qu’il suffisoit, que le Prince fut en état de l’entendre, et de le goûter. On n’a commencé qu’aprés que le François lui étoit déja devenu familier. On lui a fait apprendre par coeur les déclinations, et les conjugaisons avec les règles les plus générales de la Grammaire latine. On en a fait l’application à des petits traits, ou sentences courtes, et choisies, qu’on lui faisoit traduire». Più sotto ancora, «les œuvres de
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Boileau», «le sublime de Longin», «les harangues de Démosthène» (a segnare progressi nel gusto e acquisizione di coscienza della «saine éloquence»). Le Logicae Institutiones sono scritte in un latino settecentesco, a suo modo limpido ma anche semplicistico, fortemente didattico. Alle pp. 196-203, nelle Annotazioni dell’Autore, appunto in quelle pagine, estratte per parola dello stesso Autore da un Frammento d’Istruzione al R. Principe «sur la Lecture et le Choix des Livres», Gerdil si produce ancora, fra l’altro, in un’allusione alla «prolixité» dell’Histoire Romaine di Rollin; nel finale è detto che anche gli autori eccellenti «n’épargnent pas les abus quesqu’il soient, et en quelque genere qu’ils se trouvent; mais en réprouvant les abus, ils inspirent en même temps le plus grand respect, soit pour les institutions, soit pour le caractère: bien éloignés de ceux qui ne déclament contre les abus que pour rendre odieux et méprisable ce qu’il y a de plus sacré parmi les hommes. Il est aisé de distinguer ces deux sortes d’esprits, qui mettent une difference infinie entre les écrivains qui en sont animés. Les premiers aiment la Religion, le Prince, et la Patrie: on s’instruit, on se console avec eux, on devient et plus religieux, et plus citoyen. Les autres n’aiment que à répandre et à communiquer leur fiel, à aigrir le sentiment des maux inséparables de la condition humaine, à faire de mauvais Chrétiens, et de mauvais Citoyens». Da notare, ancora, negli altri volumi delle Opere di Gerdil, i Principes metaphysiques de la morale chrétienne (II vol.). Nel terzo, notevole, al solito, L’immaterialité de l’ame demontrée contre M. Locke. Trattato stampato per la prima volta in Torino nel 1747, quindi inserito nel Tomo III dell’Edizione Bolognese (pp. 1-265); titolo completo: L’immaterialité de l’ame demontrée contre M. Locke par les mêmes Principes, par lesquels ce Philosophe démontre l’Existence et l’Immatérialité de Dieu, avec des nouvelles preuves de l’Immatérialité de Dieu et de l’Ame Tirées de l’Ecriture, des Pères, et de la raison. Ouvrage dédié A. S. A. R. MONSEIGNEUR LE DUC DE SAVOYE. Da notare, nel quarto, la Defense du sentiment di Malebranche sur la Nature, et l’origine des idées, contre l’Examen de M. Locke. Stampata per la prima volta in Torino, 1748, quindi inserita nel Tomo III dell’edizione di Bologna. Ma anche e soprattutto il Recueil de dissertations sur quelques principes de Philosophie, et de Religion, pp. 255-271, di cui vedi l’Essai d’une Démonstration mathematique contre l’existence éternelle de la matière et du mouvement, déduite de l’impossibilité démontrée d’une suite actuellement infinie de termes, soit permanents, soit successifs (altra prosa di confutazione del materialismo, pur aggiornata a bersagli polemici posteriori a quelli della classicità), pp. 261-263 e l’Article I, cioè l’Examen des raisonnements d’un célèbre Écrivain sur les suites infinies, pp. 263-271. Su Gerdil cfr. MARCO CERRUTI, La cultura cattolica. Alfonso di Varano, II paragr. del capitolo IV (Settecento estraneo ai Lumi e Settecento antilluministico) del IV volume (MARCO CERRUTI-FOLCO PORTINARI-ADA NOVAJRA, Il Settecento e il primo Ottocento) dell’opera collettiva intitolata Storia della civiltà letteraria italiana, a cura di GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI, 8 voll., Torino, UTET, 1990-1996 (il cit. IV vol. è del 1992), pp. 225-236: 226-227; ivi sono citate L’immatérialité de l’âme démontrée contre M. Locke, l’Anti-Émile, ou Réflexions sur la théorie et la pratique de l’éducation contre le principes de M. Rousseau, i Discours philosophiques e il saggio in italiano Sul discernimento delle opinioni nelle quistioni appartenenti alla morale, dal quale ultimo traiamo (p. 226) un brano significativo riguardo alla facoltà, appartenente al cristianesimo, di compattare e cementare la società umana anche nei suoi «ordini», direbbe Machiavelli, più propriamente ed esclusivamente laici; un’ulteriore riprova dello sforzo, o, in determinati casi, del conato storico di rilegittimazione, da autentico paladinato apologetico, della religione cattolica, della sua funzionalità politico-sociale, e dell’essenziale opportunità della sua presenza: «Però è obbligo di qualunque privato lo esporre la propria vita a certo pericolo per la salute della Repubblica, del Principe, o di persona necessaria alla Repubblica: poiché l’ordine della Carità vuole che il ben privato ceda al ben pubblico. Queste massime poco conosciute e meno rispettate da miscredenti hanno forza di legge nel Cristianesimo, e sono comunemente ammesse come sacre e inviolabili da chiunque il professa veramente. Onde si può argomentare di qual vantaggio sia alla Repubblica il mantenere pura ed illibata una religione i cui insegnamenti sono sì strettamente connessi col ben pubblico della società». Ma, nell’adesione e nella partecipazione al filone polemico contro i duelli (i combats singuliers), o contro il lusso (un filone pubblicistico, questo, nel quale l’originaria mossa cattolico-moralistica di Gerdil s’unisce alla linea che a sua volta congiunge i fisiocratici all’indignatio versificata di Parini), si rintracciano, senza eccessivo sforzo, gli elementi d’un non sottovalutabile dialogo con il pensiero del Settecento, con il pensiero dei lumi, e talvolta con alcuni frutti espliciti dello stesso illuminismo, tanto da non delegittimare, almeno potenzialmente, l’idea d’un’appartenenza di Gerdil, come, del resto, di altre figure e di personaggi di quell’area cronologico-culturale (e pubblicistica, appunto), al così definito «illuminismo cattolico», ad un’Aufklärung non ribelle alle strutture della Chiesa di Roma, ed anzi tollerata nello spirito del Cardinale Lambertini, divenuto papa con il nome di Benedetto XIV (si vedano le esperienze di un Nicola Spedalieri e anche di
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un GIOVANNI CRISTOFANO AMADUZZI, ecclesiastico romagnolo, autore ad esempio, nel 1778, di La filosofia alleata della religione; lo stesso Antici, che pure è cronologicamente posteriore a questa generazione di figure gravitanti nell’orbita della Chiesa romana, non appare del tutto alieno dal suddetto movimento; ma già rispetto al suo conterraneo marchigiano ANTONIO TOCCI, autore di cui furono pubblicati postumi, a Bologna, nel 1794, i sei volumi de La felicità di tutti, egli si differenzia nettamente, poiché manca, nello stesso Antici, l’anelito utopistico al «rinnovamento radicale della società»; Antici mira, invece, e costantemente – con un intelligente adeguamento alle diversificate situazioni storiche – ad una palingenesi dello status quo antea, con la Rivoluzione francese come termine di demonizzabile negatività, rispetto al quale compiere, procedendo realisticamente in avanti, i dovuti passi qualitativi all’indietro). Ancora su Gerdil possono essere consultati Giacinto Sigismondo Gerdil filosofo e pedagogista nel pensiero italiano del secolo XVIII, Padova, CEDAM, 1952, e la voce di A. LANTRUAC. TESTORE, in Enciclopedia Cattolica, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano, edito a Firenze, Sansoni, 1948-1954, VI, 1951. Ora, si veda la ricca trattazione della sua opera storica negli anni 1789-1799 in GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., passim, e si vedano, altresì, rilevanti ragguagli sulla sua opera culturale e sulla sua azione quale si configura in quegli anni, in JOHAN ICKX, La Santa Sede tra Lamennais e San Tommaso d’Aquino, Città del Vaticano, 2005, pp. 23-24, 61, 63-64, 86, 102, 282, 559 (i riferimenti a Gerdil si giovano nell’ampio volume di Ickx della ricostruzione d’una fitta rete di rapporti diplomatici, politici e culturali intrecciatisi a livello di personalità e a livello di scritti intorno alla figura e alla vicenda di Gerard Casimir Ubaghs, una vicenda tracciata con grande ricchezza d’informazione e di compulsazione documentaria, sia in Vaticano sia in altre sedi e biblioteche romane, sia anche nelle sedi culturali ed ecclesiastiche di Lovanio, dallo studioso belga). Si ricordi che le Opere edite ed inedite furono nuovamente stampate a Napoli, Milone, 1857. Le lettere di Gerdil si trovano nell’Archivio dei Barnabiti, a San Carlo dei Catenari a Roma. 53 Ve n’è una edizione novecentesca: cfr. La Bibbia. Vecchio e Nuovo Testamento secondo la volgata, tradotta in lingua italiana e con annotazioni dichiarata da Monsignore ANTONIO MARTINI Arcivescovo di Firenze, 2 voll., Milano, Casa Editrice Sonzogno, 1936, condotta, per il Nuovo Testamento, sulla prima edizione del 1769, e per il Vecchio Testamento, sulla prima edizione del 1776; il lavoro esegetico di Monsignor Martini ottiene l’approvazione di Pio VI nel 1778 e guadagna all’autore il passaggio da vescovo di Bobbio ad arcivescovo di Firenze (cfr., su questo passaggio, C. LAMIONI, Tra giansenismo e riformismo: la nomina di Antonio Martini ad arcivescovo di Firenze [1781], in «Rassegna storica toscana», 22 [1976], pp. 3-46). Non manca, all’inizio dell’opera, la dichiarazione d’ortodossia dell’autore: «religiosamente osservando lo spirito del celebre decreto della Sacra Congregazione del 13 Giugno 1757, confermato dalla sacra memoria di Benedetto XIV (dal qual decreto ebbe questa impresa il suo principio e il suo fondamento), non solamente nella versione ho seguito costantemente a parola a parola la nostra Volgata, ma nelle annotazioni ancora mi son fatto legge di non dilungarmi giammai da’ sentimenti e dalle dottrine ricevute comunemente dalla Chiesa Cattolica»; ancora, prima della trattazione del testo, vi è il testo del Breve del Pontefice Papa Pio VI a Monsignor Antonio Martini Arcivescovo di Firenze, in cui, insieme alla coscienza del prevalere d’una pubblicistica fortemente critica verso la Chiesa, vi è la consapevolezza del pericolo costituito per la stessa Chiesa dalle letture non competenti, o addirittura fuorvianti, dei testi sacri; illuminismo e protestantesimo sono dunque i nemici, in quegli anni ancora precedenti la Rivoluzione dell’’89; ma vi è pure, sul piano d’una parziale assunzione dell’ideale illuministico, l’esigenza di divulgazione della stessa Bibbia, della sua accessibilità al maggior numero possibile di lettori («quelli sono i copiosissimi fonti, a’ quali debbe a ciascuno esser facile ed aperto l’accesso»), a scopo di sanità di dottrina e di dissipazione degli errori di lettura. Valga riportare il Breve di Pio VI, direttamente redatto da Filippo Buonamici, «Segretario de’ Brevi latini di Sua Santità»: «PIUS P. P. VI; / Dilecte fili, salutem, etc. In tanta librorum colluvie, qui catholicam Religionem teterrime oppugnant, et tanta cum animarum pernicie per manus etiam imperitorum circumferuntur, optime sentis, si Christi fides ad lectionem Divinarum Literarum magnopere excitandos exixstimas. Illi enim sunt fontes uberrimi, qui cuique patere debent ad hauriendam et morum et doctrinae sanctitatem, depulsis erroribus qui his corruptis temporibus late disseminantur. Quod abs te opportune factum affirmas, cum easdem Divinas Literas, ad captum cujusque, vernaculo sermone redditas in lucem emisisti; praesertim cum profitearis, et præ te feras, eas adidisse animadversiones, quæ, a sanctissimis Patribus repetitæ, quodvis abusus periculum amoveant. In quo a Congregationis Indicis legibus non recessiti, neque, ab ea constitutione, quam in hanc rem edidit Benedictus XIV, immortalis Pontifex, quem Nos et in Pontificatu prædecessorem, et cum in ejus familiam feliciter olim adsciti fuerimus, ecclesiasticæ eruditionis magistrum optimum habuisse gloriamur. Tuam igi-
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tur non ignotam doctrinam cum eximia pietate conjunctam collaudamus, et tibi de hisce libris, quos ad Nos transmittendos curasti, gratias, quas debemus, agimus, illos etiam, si quando possimus, cursim perlecturi. Interim Pontificiæ benevolentiæ testem accipe Apostolicam benedictionem, quam tibi, dilecte fili, peramanter impertimus. / Datum Romæ apud S. Petrum, XVI Kal. aprilis MDCCLXXVIII, Pontificatus nostri anno IV / PHILIPPUS BONAMICIUS ab Epistolis latinis Sanctitatis Suae». Si vedano due esempi dell’esegesi di ANTONIO MARTINI, sulla quale principalmente si fonda il commento annotante di Antici a rincalzo di quello di Stolberg; scegliamo un esempio veterotestamentario (Deuteronomio, XXXII, 21) e due esempi neotestamentari (MATTEO, II, 1 e 23): «[Eglino mi provocarono per amore di uno che Dio non era, e m’irritarono colle loro vanità; io li provocherò a invidia per mezzo di un popolo, e gl’irriterò per mezzo di una nazione insensata] [Nota]: Colle loro vanità. Mi contrapposero i vani e bugiardi dei loro, quasi volessero tentarmi di gelosia. / Io li provocherò a invidia per mezzo d’un popolo che non è, ecc. Profezia della vocazione delle genti, le quali riguardate già dal popolo Ebreo con sommo disprezzo, chiamate da Dio alla vera religione, ricolme de’ doni dello Spirito Santo, diveranno oggetto d’invidia e di astio agli Ebrei, come spiega l’Apostolo (Rom. X. 19) / Teodoreto (quæst. 41), spone in tal guisa queste parole: siccome voi, abbandonato l’unico Dio, molti falsi dei avete a lui anteposti; così io abbandonando un solo popolo, porterò la salute a tutte le genti; voi però avete adorati quelli che veramente non erano dei, né dei avete potuto farli coll’adorarli; ma io le nazioni stolte riempirò veramente di spirito divino, e voi a tal vista vi consumerete d’invidia. I Giudei stessi, convertiti alla fede dagli Apostoli, non potevano credere, che a’ Gentili dovesse esser aperta la porta dell’Evangelio, come si vede (Atti cap. XII, 2) e altercavano su questo punto con Pietro, e quando egli ebbe renduto conto dell’ordine datogli da Dio, e de’ singolari doni onde erano distinti da lui i Gentili che abbracciavan la fede, allora proruppero in quelle parole: Dunque anche alle genti ha conceduta Dio la penitenza, affinché abbiano vita! O non credevano gli Ebrei, che potesser giammai i Gentili, immondi, depravati e corrotti come erano, divenir popolo di Dio, o non credevano che potessero esser ammessi senza passar dal Giudaismo» (vol. I, p. 271); [Essendo dunque nato Gesù in Betlemme di Giuda, regnante il re Erode, ecco che i Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme] [Nota]: In Betlemme di Giuda. Dice di Giuda per distinguere questa Betlemme da un’altra che è nella tribù di Zabulon. Regnante il re Erode. Questi era Erode soprannominato il Grande, figliuolo di Antipatro, idumeo di origine, o, come altri vogliono, ascalonita. Così il tempo in cui dovea venir il Messia, era già arrivato, secondo la celebre profezia di Giacobbe: Non sarà tolto di Giuda lo scettro, né mancherà condottiero del seme di lui, fino a tanto che venga colui che deve esser mandato; ed ei sarà l’aspettazione delle genti (Gen. XLIX, 10). Or gli Ebrei non avean già più un capo della loro nazione, mentre erano governati da questo principe straniero, e dato loro da’ Romani. Giuseppe Ebreo (Antiq. XIV, 11) racconta che fu invenzione di Nicolò Damasceno il voler far passare Erode per ebreo; invenzione alla quale il primo e il solo, ch’io sappia, che abbia cercato di dar corpo, fu lo Scaligero, confutato abbastanza dal general consenso de’ Padri e degli autori, sì antichi come moderni. I Magi. Da qualunque parte dell’Oriente sian venuti questi Magi (imperrocché alcuni li credono della Persia, altri dell’Arabia) egli è certo che per questo nome intendevasi una classe d’uomini i quali si occupavano interamente nello studio delle scienze più sublimi e nel culto della divinità. Non è inverisimile che delle profezie di Daniele, il quale era con tanto nome vissuto nella Persia, conservata si fosse la memoria e la tradizione tra questi filosofi. Ch’ei fossero principi, o regoli, o almen primarj signori del loro paese, è stato scritto da molti Padri greci e latini» (vol. II, p. 620); «[Dove giunto, abitò nella città chiamata Nazareth; affinché si adempisse quello che era stato predetto dai profeti: Ei sarà chiamato Nazareno] [Nota]: Dai profeti. San Girolamo dice che parlando il Vangelista in plurale, vuol indicare come non ha avuto in mira alcun luogo particolare delle Scritture, dove il Cristo sia chiamato il Nazareno; ma bensì gl’infiniti luoghi dove il Messia è chiamato il Santo per eccellenza, che ciò vuol dire Nazareno. Nondimeno osserva lo stesso santo dottore che in Isaia (cap. XI, 1), secondo l’ebreo si legge: Uscirà dalla stirpe di Jesse una verga, e un Nazareno si alzerà dalle radici di lei. Netzer, virgulto, germoglio. Or egli è da notare, primo, che gli Ebrei, non meno che i Cristiani, per questo germoglio intendevano il Messia; in secondo luogo, i nemici di Gesù Cristo, davano a lui per disprezzo il nome di Nazareo, chiamandolo Gesù da Nazaret, rimproverandogli ch’ei veniva da un miserabil borgo della Galilea. L’evangelista per tanto toglie questo scandalo giudaico, facendo osservare come la dimora di Gesù a Nazaret, e ’l nome che perciò davano a lui, porgeva loro occasione di riflettere a que’ luoghi de’ profeti, nei quali per diversi rispetti il nome di Nazareo era dato al Messia; e dimostrando come la provvidenza dello stesso mal animo de’ nemici si valeva a verificare a parte a parte in Gesù tutto quello che del Messia era scritto» (ivi, p. 622). Si ricordi che una tradizione di esegesi, anche concentrata su singole sezioni delle sacre scritture, esiste anche nelle produzioni editoriali più vicine alla
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pubblicistica di Antici; si cfr., ad esempio, PIETRO BANDINI, Saggio di esegesi biblica, ossia dissertazione sulla necessità in cui oggi siamo di mostrare con la maggiore evidenza l’inseparabilità del Testamento Antico dal Nuovo, Imola, per Ignazio Galeati, 1836; Illustrazioni di una serva di Dio sul libro di Giosue premesso il sacro testo secondo la volgata e la versione in italiano del sig. LE MAITRE DE SACY, pubblicate per cura del sacerdote don LUIGI NAVARRO, Napoli ed Imola, per Ignazio Galeati, 1839; la diffusione della vulgata e della versione di monsignor Martini sono attestate anche dalle Illustrazioni di una serva di Dio sul «Cantico de’ cantici» premesso il sacro testo secondo la volgata e la versione italiana di monsignor MARTINI, ivi, 1839. 54 Dei tre tomi, il primo ricopre, tematicamente, l’area veterotestamentaria; il secondo riguarda le vite degli evangelisti e i commenti agli Atti degli Apostoli; il terzo concerne le discussioni sugli apocrifi e sui falsi (vi è un’articolazione in una seconda ed in una terza parte, dedicate ai Martirî, alla Patristica, ai Concilî). Sul «Lion d’or», insegna di diffusione europea («Au Lion d’or»), sia consentito riportare un’ipotesi etimologica: «Et s’il y a tant d’auberges qui continuent à s’appeler le Cheval Blanc, Le lion d’or, c’est qu’il s’agissait de relais de poste ou que le propriétaire jouait sur les mots: “Au lit on dort”» (cfr. PIERRE GUIRAUD, La sémiologie, Paris, Presses Universitaires de France, 19773, p. 101). 55 Si cfr. Epistula BEATI PAULI APOSTOLI Ad Colossenses, 2, 8 («Videte ne quis decipiat per philosophiam et inanem fallaciam secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi et non secundum Christum») con Prophetia Malachiae, 2, 6-8: «Lex veritatis fuit in ore eius [Levi], et iniquitas non est inventa in labiis eius, in pace et in aequitate ambulavit mecum et multos avertit ab iniquitate; labia enim sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore eius, quia angelus Domini exercituum est. Vos autem recessistis de via et scandalizastis plurimos in lege, irritum fecistis pactum Levi, dicit Dominus exercituum» (cfr. Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., rispettivamente pp. 1101 e 879). 56 Sul Lamennais cfr., ora, il citato JOHAN ICKX, La Santa Sede tra Lamennais e San Tommaso d’Aquino; importante, storicamente, per gli studi italiani su Lamennais, il GUIDO VERUCCI di Félicité Lamennais. Dal cattolicesimo autoritario al radicalismo democratico, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici in Napoli – Nella sede dell’Istituto (volumi dell’Istituto fondato da BENEDETTO CROCE, diretto da GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI, n. 15), 1963. In particolare, di quest’ultimo, cfr. i primi capitoli, La vocazione religiosa e la prima formazione culturale. Dalle «Réflexions sur l’état de l’Église» alla «Tradition de l’Église sur l’institution des évêques», pp. 9-52, e La missione politico-religiosa della Chiesa. Dall’«Essai sur l’indifférence en matière de religion» al «Des progrès de la révolution et de la guerre contre l’Église», pp. 53-151. Si veda un efficace passo di esame critico-espositivo delle Réflexions (pp. 25-26): «La prima parte delle Réflexions è un quadro delle cause vicine e lontane che hanno condotto all’attuale situazione della Chiesa francese. Il punto di partenza essenziale del pensiero di Lamennais è l’opposizione alla Rivoluzione dell’89, che è stata logicamente preparata dall’ancien régime, e i cui princìpi risalgono al XVI secolo, all’età della Riforma protestante. I riformatori del secolo XVI, per Lamennais, hanno cominciato a scalzare, con le loro massime sovvertitrici dell’esame individuale e della sovranità del popolo, al tempo stesso le basi dell’ordine religioso e dell’ordine sociale. Nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo, mentre il giansenismo, definito “… enfant hontuex de la Réforme”, con i suoi attacchi alla disciplina, e i Parlamenti, con i loro attentati ai diritti e alle prerogative della Chiesa, scuotevano fortemente la costituzione di questa, la filosofia atea aggredì la fede stessa: ma alla filosofia aprirono le porte gli errori e la corruzione partiti dall’autorità civile, dalla corte e dalle classi alte, che non si accorsero di preparare così la propria rovina. Il colmo dell’aberrazione fu raggiunto quando la filosofia atea si propagò ed entrò come sistema di vita nel popolo, nei ceti inferiori, soprattutto attraverso i “libri empi”. La Rivoluzione sopravvenne come conseguenza di tutto ciò e come castigo: dopo avere introdotto la democrazia nello Stato, essa tentò d’introdurre nella Chiesa, attraverso lo scisma costituzionale, il presbiterianismo. Ma la Chiesa uscì ancora una volta rafforzata dalle persecuzioni. / In questa prima parte sono evidenti soprattutto gli apporti di Bossuet e di Bonald, e del primo ripensato dal secondo, nel porre la Riforma come principio di dissoluzione della religione e della società, nello stabilire il nesso tra la Riforma e la filosofia atea. Ma certi temi originali e dominanti della futura polemica lamennaisiana si delineano già con vigore: l’attacco al gallicanismo, per ora limitato a quello dei Parlamenti, oltre che al giansenismo, e la chiamata in causa della responsabilità dello Stato monarchico, mostrano come sin d’ora Lamennais pensi meno a una restaurazione in pristinum religiosa e politica, che a fare tabula rasa di un passato secolare, e a riedificare tutto su nuove basi». Si rammenti, ancora, che nella Miscellanea Vaticana n. 57 (int. 1-12) (dove è compreso il Discorso di Antici sugli ordini monastici e sulla loro utilità), dalla Biblio-
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teca Adami è citato Della Religione considerata ne’ suoi rapporti coll’ordine politico e civile del sig. Abate DE LA MENNAIS Prima Parte Resa italiana dal P. M. TOMMASO BUFFA Domenicano Coll’aggiunta d’un Articolo estratto dal Memorial Catholique 1826, in Imola, Tipi Galeati e Comp., 1826; ed è ripreso il Platone, X del De legibus, a riproposta del concetto secondo il quale l’ignoranza della religione è una peste per gli Stati. 57 Si cfr. appunto Actus Apostolorum, I, 8-12: «sed accipietis virtutem supervenientis Spiritus sancti in vos et eritis mihi testes in Ierusalem et in omni Iudaea et Samaria et usque ad ultimum terrae. Et, cum haec dixisset, videntibus illis, elevatus est, et nubes suscepit eum ab oculis eorum. Cumque intuerentur in caelum euntem illum, ecce duo viri adstiterunt iuxta illos in vestibus albis: qui et dixerunt: Viri Galilaei, quid statis adspicientes in caelum? Hic Iesus, qui adsumptus est a vobis in caelum, sic veniet quemadmodum vidistis eum euntem in montem. Tunc reversi sunt Ierosolimam a monte qui vocatur Oliveti, qui est iuxta Ierusalem sabbati habens iter»; e si veda Sanctum Iesu Christi Evangelium secundum LUCAM, XXIV, 50-53: «Eduxit autem eos foras in Bethaniam et elevatis manibus suis benedixit eis. Et factum est, dum benediceret illis, recessit ab eis et ferebatur in caelum. Et ipsi adorantes regressi sunt in Ierusalem cum gaudio magno, et erant semper in templo laudantes et benedicentes Deum. Amen» (cfr. Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., rispettivamente pp. 1028 e 1005). 58 Cfr. Epistula Beati PAULI Apostoli Ad Thessalonicenses secunda, II, 1-4: «Rogamus autem vos, fratres, per adventum Domini nostri Iesu Christi et nostrae congregationis in ipsum, ut non cito moveamini a vestro sensu neque terreamini neque per spiritum neque per sermonem neque per epistulam tanquam per nos missam, quasi instet dies Domini. Ne quis vos seducat ullo modo, quoniam, nisi venerit discessio primum, et revelatus fuerit homo peccati, filius perditionis, qui adversatur et extollitur supra omne quod dicimus Deus aut quod colitur, ita ut in templo Dei sedeat, ostendens se tanquam sit Deus» (Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., p. 1106). 59 Si cfr. Epistula Beati Apostoli PAULI Ad Galatas, rispettivamente V, 1-12 e VI, 1-10 (Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., pp. 1091-1092): «State et nolite iterum iugo servitutis contineri. Ecce ego Paulus dico vobis quoniam, si circumcidamini, Christus vobis nihil proderit. Testificor autem rursus omni homini circumcidenti se quoniam debitor est universae legis faciendae. Evacuati estis a Christo, qui in lege iustificamini: a gratia excidistis. Nos enim spiritu ex fide spem iustitiae expectamus. Nam in Christo Iesu neque circumcisio aliquid valet neque praeputium, sed fides quae per caritatem operatur. Currebatis bene; quis vos impedivit veritati non oboedire? Persuasio haec non est ex eo qui vocat vos. Modicum fermentum totam massam corrumpit. Ego confido in vobis in Domino, quod nihil aliud sapietis; qui autem conturbat vos portabit iudicium quicumque est ille. Ego autem, fratres, si circumcisionem adhuc praedico, quid adhuc persecutionem patior? Ergo evacuatum est scandalum crucis. Utinam et abscidantur qui vos conturbant!»; «Fratres, etsi praeoccupatus fuerit homo in aliquo delicto, vos, qui spirituales estis, huiusmodi instruite in spiritu lenitatis, considerans te ipsum, ne et tu tenteris. Alter alterius onera portate, et sic adimplebitis legem Christi. Nam, si quis existimat se aliquid esse, cum nihil sit, ipse se seducit. Opus autem suum probet unusquisque, et sic in semetipso tantum gloriam habebit, et non in altero. Unusquisque enim onus suum portabit. / Communicet autem is qui catechizatur verbo ei qui se catechizat in omnibus bonis. Nolite errare: Deus non irridetur. Quae enim seminaverit homo, haec et metet. Quoniam qui seminat in carne sua de carne et metet corruptionem; qui autem seminat in spiritu, de spiritu metet vitam aeternam. Bonum autem facientes non deficiamus; tempore enim suo metemus non deficientes. Ergo, dum tempus habemus, operemur bonum ad omnes, maxime autem ad domesticos fidei». Il concetto su cui lavorano Stolberg ed Antici non è certo di poco momento; nella prima parte della lettera ai Galati vi è, infatti, l’importante tematica del rapporto, verificato nella basilare figura veterotestamentaria di Abramo, tra legge e fede, e nel valore metafisico, ancor più che etico, dei relativi vincoli che esse pongono fra Dio e l’uomo, e fra l’uomo e la sua discendenza; si cfr., nella prima parte della stessa epistola (III, 17-29), la distinzione paolina lex-fides (promissio), sostenuta con il tipico argomentare dell’apostolo (Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., pp. 1090-1091): «quae post quadringentos et triginta annos facta est, lex non irritum facit ad evacuandam promissionem. Nam, si ex lege hereditas, iam non ex promissione. Abrahae autem per repromissionem donavit Deus. Quid igitur lex? Propter trangressionem posita est, donec veniret semen cui promiserat, ordinata per angelos in manu mediatoris. Mediator autem unius non est; Deus autem unus est. Lex ergo adversus promissa Dei? Absit. Si enim data esset lex quae posset vivificare, vere ex lege esset iustitia. Sed conclusit Scriptura omnia sub peccato, ut promissio ex fide Iesu Christi daretur cre-
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dentibus. / Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur, conclusi in eam fidem quae revelanda erat […]. At, ubi venit fides, iam non sumus sub paedagogo; omnes enim filii Dei estis per fidem, quae est in Christo Iesu. […]. Si autem vos Christi, ergo semen Abrahae estis, secundum promissionem heredes». E la tematica è ripresa anche dalla biblistica contemporanea, sia in relazione al confronto tra opere e fede (che tanto è deflagrato nella definizione delle innovazioni dottrinarie luterane nell’epoca della Riforma protestante), sia nella relazione, anch’essa d’ordine comparativo, tra la stessa fede e la legge; si pensi all’Epistula Catholica Beati IACOBI Apostoli (Lettera di San Giacomo), II, 14-26: «Quid proderit, fratres mei, si fidem quis dicat se habere, opera autem non habeat? Nunquid poterit fides salvare eum? […]. Sic et fides, si non habeat opera, mortua est in semetipsa […]. Tu credis quoniam unus est Deus: bene facis; et daemones credunt et contremiscunt. Vis autem scire, o homo inanis, quoniam fides sine operibus mortua est? Abraham, pater noster, nonne ex operibus iustificatus est offerens Isaac filium suum super altare? Vides quoniam fides cooperabatur operibus illius, et ex operibus fides consummata est? Et suppleta est Scriptura dicens: “Credidit Abraham Deo, et reputatum est illi ad iustitiam”, et “amicus Dei appellatus est”. Videtis quoniam ex operibus iustificatur homo, et non ex fide tantum? Similiter et Raha meretrix, nonne ex operibus iustificata est suscipiens nuntios et alia via eiciens? Sicut enim corpus sine spiritu mortuum est, ita et fides sine operibus mortua est?» (ivi, p. 1126). Si veda dunque come JEAN LOUIS SKA, docente di Antico Testamento nel Pontificio Istituto Biblico, rifletta criticamente sull’epistola di San Giacomo, cogliendone gli aspetti (sui quali, nel 1827-1828, si impegna anche Carlo Antici, traduttore dal tedesco, ma anche dotto glossatore biblista di Stolberg studioso degli Actus Apostolorum) che la orientano su una lettura non modellata in senso paolino, o giovanneo, del cristianesimo, ma in senso più propriamente petrino, o romano-petrino, in un senso che manifestamente ammette un saldo fondamento sulle “opere”, a sostanziare una fides che da sola non si dimostra elemento sufficiente di vaglio dell’adesione del singolo credente al cristianesimo: «La lettera di san Giacomo contiene una celebre polemica contro un’esegesi troppo unilaterale dell’insegnamento di san Paolo sulla giustificazione per la sola fede […]. La giustificazione secondo san Giacomo può sorprendere perché il suo testo riallaccia Gn. 22 a Gn 15, 6. Per Giacomo, infatti, Abramo è giustificato non solo perché ha creduto (Gn. 15, 6) bensì perché ha accettato di sacrificare suo figlio quando Dio glielo chiese (Gen 22). In altre parole, la fede di Abramo (Gn 15, 6) fu accompagnata e perfezionata dalla sua obbedienza. Fede e opere vanno quindi di pari passo e non possono essere separate ed opposte. Per arrivare a questa conclusione, Giacomo suppone in realtà che la fede di Abramo in Gn 15, 6 non bastava, perché, se fosse bastata, Dio non avrebbe chiesto una prova supplementare in Gen 22. La prova di Abramo ha come scopo di “perfezionare” una fede alla quale manca ancora un elemento essenziale, vale a dire una conferma per mezzo di “opere” congrue alle proprie convinzioni. Su questo punto Giacomo segue una linea di pensiero presente in alcuni testi tardivi come Sir 44, 19-21; 1 Mac 2, 52 (“Abramo non fu trovato fedele nella prova e non gli fu accreditato a giustizia”?). L’espressione “amico di Dio” è anch’essa presente nell’AT (Is. 41, 8; 2 Cr 20, 7). In ogni modo, Giacomo propone Abramo a tutti i cristiani come modello di una fede che si incarna in opere buone»; e, se Paolo cerca di dimostrare la superiorità della fede sulle opere, definendo anche la fede d’Abramo come anteriore alla legge, e quindi ispiratrice dei circoncisi e degli incirconcisi, tale concezione (presente nelle lettere ai Galati, appunto, e ai Romani) rappresenta il rovesciamento d’un modello rabbinico, una «tendenza già presente nella Bibbia e che si rafforza nell’ebraismo del suo tempo, tendenza che faceva di Abramo piuttosto un osservante modello della legge e un perfetto pio ebreo […] (cf. Gn 18, 19; 22, 18; soprattutto 26, 5; cf. Sir 44, 20)» (cfr. appunto JEAN LOUIS SKA, La figura di Abramo nel Nuovo Testamento. Il nostro padre nella fede, in PIER GIORGIO BORBONE-JEAN LOUIS SKA-SEVERINO DIANICH-BRUNO DI PORTO-DOMENICO CANCIANI-ADRIANO FABRIS, Abramo padre di tutti i credenti. Alle radici delle tre grandi religioni monoteistiche, a cura di CESARE LETTA, Pisa, Edizioni ETS, 2006, pp. 35-56, specificamente le pp. 38-39, 52, 54 – e si ricordino, ivi, i contributi di SEVERINO DIANICH, Genesi 14, 1724. L’incontro di Abramo con Melchisedek, pp. 57-66, e di BRUNO DI PORTO, Abramo nella tradizione ebraica, pp. 67-102, in particolare p. 69 –). 60 Si cfr., di PUBLIUS CORNELIUS TACITUS, Historiae, V, XIII, 2-5: «Visae per caelum concurrere acies, rutilantia arma et subito nubium igne conlucere templum. Apertae repente delubri fores et audita maior humana uox excedere deos; simul ingens motus excedentium. Quae pauci in metum trahebant; pluribus persuasio inerat antiquis sacerdotum litteris contineri eo ipso tempore fore ut ualesceret Oriens profectique Iudaea rerum potirentur. Quae ambages Vespasianum ac Titum praedixerat, sed uolgus more humanae cupidinis sibi tantam fatorum magnitudinem interpretati ne aduersis quidem ad uera mutabantur»; e del citato GAIUS SUETONIUS TRANQUILLUS di Divus Vespasianus, IV, si veda il
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
passo analogo: «Percrebruerat Oriente toto uetus et constans opinio esse in fatis ut eo tempore Iudaea profecti rerum potirentur. Id de imperatore Romano, quantum postea euentum paruit, praedictum Iudaei ad se trahentes rebellarunt caesoque praeposito legatum insuper Syriae consularem ferentem, rapta aquila fugauerunt». L’interesse per questi passi di Tacito e di Svetonio sarà ritrovabile nella difesa che si farà del Lamennais (s’intende, quello della “prima maniera”) in alcuni opuscoli della Collezione dei Calobibliofili di Imola, pubblicati dall’editore Galeati, e reperibili nella Biblioteca Apostolica Vaticana; ma tali opuscoli sono anche sparsamente ritrovabili in altre miscellanee, presenti nella Biblioteca Vallicelliana; cfr., più sotto, la trattazione dell’opera di don Sambuga e del Discorso dello stesso marchese Antici del 1826, e la nota 72. 61 Non è mancato, in Italia, nel Novecento, un interesse editoriale per il prelato tedesco: cfr. JOHANN MICHAEL SAILER, Sacerdoti del Signore, introduzione di GIOVANNI COLOMBO, versione e note di B. TIBILETTI, Milano, stampa Àncora, 1944. Ma si ricordi, in Casanatense, una ripresa italiana ottocentesca di un libro di Sailer: JOHANN MICHAEL SAILER, Il giovine ecclesiastico del secolo XIX, Napoli, Festa, 1859. 62 Su Sailer cfr. C. BRAUN, Geschichte der Heranbildung des Klerus in der Diözese Würzburg, II, Mainz, 1897; G. SCHWAIGER, Johann Michael Sailer, der Bayerische Kirchenvater, München-Zürich, Schnell und Steiner, 1982; ID. (a cura di), Johann Michael Sailer und seiner Zeit, Regensburg, Verlag des Vereins für Regensburger Bistumgeschichte, 1982; H. BUNGER, Johann Michael Anton Sailer: Pädagoge und Bischof zwischen Aufklärung und Romantik, Regensburg, Mittelbayerische Druckerei und Verlagsgesellschaft, 1983. Si cfr. inoltre JOHANN MICHAEL SAILER, Briefe aus allen Jahrhunderten der Christlichen Zeitrechnung, gewalt, übersetzt, herausgegeben von SULZBACH, J. B. von Seidel, 1832; JOHANN MICHAEL SAILERS Grundlehren der Religion. Ein Leitfaden zu seinen Religionvorlesungen am die academischen Jünglinge aus allen Facultäten. 2. verbesserte Auflage, München, bei IGNAZ LENTNER, 1814 (Biblioteca Nazionale di Firenze, Palat. 15. 3. 3. 18). JOHANN MICHAEL SAILER, Uber Erziehung fur Erzieher, besorgt von E. SCHOELEN, Paderborn, F. Schöningh (collana «Schoninghs Sammlung pädagogischer Schriften. Quellen zur Geschichte der Pädagogik»), 1962. Si ricordi quella che era stata la vocazione iniziale, conciliatrice di fedi e di sètte, da parte di Sailer: «Stattler e Sailer, fautori di un irenismo interconfessionale, lavoravano in quel periodo [1771, e in genere nei primi anni Settanta del Settecento] ad un progetto di riunificazione del luteranesimo e del cattolicesimo sotto l’egida dell’Impero Romano Germanico» (cfr. ANTONIO TRAMPUS, I gesuiti e l’illuminismo, cit., p. 177, n. 34); da qui il rinvio a HUBERT JEDIN, Handbuch der Kirchengeschichte, VI (Die Kirche in Zeitalter des Absolutismus und der Aufklärung), Freiburg-Basel-Wien, Herder, 1970-1971; traduzione italiana: La Chiesa nell’epoca dell’assolutismo e dell’illuminismo, Milano, Jacabook, 1994, vol. VII, pp. 608-612. 63 Möhler appunto insegna a Tübingen dal 1823 al 1835, prima del trasferimento a Monaco, dove muore a quarantadue anni nel 1838. Möhler è autore di due grandi opere, Die Einheit in der Kirche (1825), e Die Symbolik (1832). Egli sostiene la Chiesa visibile come sviluppo dello spirito del Cristo e come diffusione della Buona Novella, come principio della fede e della vita comunitaria: «Dalla chiesa visibile deriva il compimento di una giustizia interiore in cui saranno superate le divisioni confessionali». Facendo riferimento alla teologia luterana, Möhler dà impulso ad un’esegesi fondata sulla filologia e sulla storia (cfr. Storia del Cristianesimo, cit., XI, pp. 111-112). Una sua biografia è in Catholicisme, IX, 1980, coll. 460-462 (“voce” a cura di Y. CONGAR); cfr., ancora, HUBERT JEDIN, La Chiesa nell’epoca dell’assolutismo e dell’illuminismo, in ID. (a cura di), Storia della Chiesa, cit., vol. VII, p. 296. Tübingen, come centro di studi, influenza Münster, Freiburg im Breisgau, Giessen; ad esempio, Staudenmaier, studioso che deriva la propria impostazione da questi centri di cultura teologica, pubblica Geist des Christentums (1835), lavoro che fruisce di otto edizioni e che mette l’accento, come accade anche in Möhler, sulla comunità (quindi sulla totalità) ecclesiale, con il Papa capo e «centro vivente dell’unità ecclesiale»; l’accento ecclesiale rinforza la centralità romanocratica e teocratica della stessa figura pontificale. Si cfr. la seguente messa a punto in JEAN LEFLON, Storia della Chiesa Ed. SAIE, cit., Seconda parte, cap. XIII (La vita interna della Chiesa. Il movimento intellettuale e le arti religiose), 2 (Il movimento intellettuale nelle Chiese di Germania e d’Austria), par. 498 (La scuola di Tubinga. Drey e Moehler), pp. 958-959: «Molto più fortunata sarà l’opera compiuta da Drey e, soprattutto, da Moehler a Tubinga. Malgrado certe tendenze che sfoceranno nel modernismo di fine secolo, la scuola di Tubinga resta infatti fedele all’ortodossia. In questo essa si avvicina a quella di Magonza, la quale conserva, con Liebermann, le tradizioni della scuola di Strasburgo, diretta dai Gesuiti. Ma, mentre Liebermann resta fedele alla dottrina classica e mira soprattutto all’insegnamento – come testimonia la sua opera Le istituzioni teologiche – Drey e Moehler sono piuttosto dei ricercato-
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ri che docenti; essi si applicano ad arricchire la teologia e a darle una veste che le procuri una rinnovata giovinezza e accettabilità. / Con Drey, nel quale Goyau [il già citato autore di «L’Allemagne religieuse. Le catholicisme»; cfr., qui, n. 44 su Wackenroder] saluta un precursore di Newman, nella storia dei dogmi si introduce l’idea di uno sviluppo organico e vitale. “I Padri, i concili, le decisioni papali mostrano – egli spiega – l’intelligenza collettiva della Chiesa infallibile, si applicano alla Rivelazione e maturano, conservano, rendono fertile il germe divino senza lasciarlo mai inaridire”. / Drey, precedendo il maestro d’Oxford, aveva aperto la strada a Moehler. Storico anch’egli, ma insieme acutissimo pensatore, Moehler si applica a riscoprire la Chiesa mistica sotto quella giuridica; egli reagisce contro l’individualismo moderno e ristabilisce l’idea di comunità vivente, svelando l’azione della Chiesa che garantisce, nello spazio e nel tempo, l’unità e la continuità di questo organismo umano-divino in continuo progresso. / Tale unità e continuità Moehler la scopre attraverso le sue ricerche storiche sul Medioevo, che gli rivelano “un necessario legame con l’epoca precedente ed uno sviluppo interno permanente”. Cristo ed il cristianesimo gli appaiono identici, perché Cristo “era, è e sarà sempre il medesimo”. La sua opera Die Einheit in der Kirche, oder das Princip des Katholicismus dargestelt im Sinn der Kirchenväter der drei ersten Jahrhunderte, segna, nel 1829 (ma ve ne era stata un’edizione anche nel 1827), il punto di partenza del suo sistema. / “Malgrado le sue lacune, l’incompletezza delle concezioni, questo libro pieno d’amore fu per tutta la Germania cattolica un beneficio” e commosse le anime. Moehler dichiarerà più tardi che “questo lavoro d’una giovinezza entusiasta” conteneva “molte affermazioni da rettificare”. Esso costituì un primo abbozzo: nel 1832 la citata Symbolik, ossia Symbolik oder Darstellung der dogmatischen Gegensätze der Katholiken und Protestanten nach ihre offentlischen Bekenntnisschriften (Simbolica o Quadro delle opposizioni dogmatiche dei cattolici e dei protestanti secondo le rispettiva pubbliche professioni di fede) rappresenterà l’espressione del suo pensiero definitivo» (le citazioni interne al brano sono tratte dal citato GOYAU di L’Allemagne religieuse. Le catholicisme, pp. 10, 23-24, Moehler, 20; vol. II, 34). Ma Sailer avea già improntato di sé, in chiave di potenza di «personalità», un circolo come quello di Landshut: «Come lo Stolberg e l’Overberg, Sailer si occupa di educazione, ma la sua originalità consiste, come indica il titolo del suo lavoro pubblicato nel 1807, l’Educazione per gli educatori, nell’educare i genitori. Lo stesso fine persegue nei riguardi degli ecclesiastici, colla sua Teologia pastorale. Per reazione contro il secolo XVII, che riduceva tutto alla morale naturale, la sua pedagogia mira a coltivare il divino nell’anima del fanciullo; essa è ispirata anche da una preoccupazione mistica, costante in questo sacerdote, che è stato spesso paragonato a San Francesco di Sales. / Il Sailer infatti, coi suoi libri, coi suoi innumerevoli sermoni, combatté per tutta la vita il razionalismo e l’arida religione dell’epoca precedente. Fu talvolta accusato di esagerare in senso opposto, di lasciare troppo posto al sentimento, al cuore, di propendere, con Martin Boos, che egli protegge, verso un dubbio misticismo, e ciò gli valse i sospetti di Roma. Si deve per altro riconoscere che egli infuse nella Chiesa di Baviera “uno spirito nuovo”. Le sue illusioni e i suoi difetti stessi, “una specie di patina che l’epoca aveva steso sulla sua anima, contribuivano nel mondo di allora, ad aiutare il suo apostolato”. Di fatto, egli esercitò grandissima influenza sul popolo, sul clero, cui dava questa meravigliosa parola d’ordine: “L’ecclesiastico del secolo XIX deve sapere di più, agire di più, soffrire di più di quanto un ecclesiastico di altri secoli dovesse sapere, soffrire e agire”. Ridestando e alimentando il pensiero tedesco, egli contemporaneamente lo spinse all’azione» (par. 496 – Il circolo di Landshut –, in Storia della Chiesa, cit., pp. 956-957). Diversa, ma non per questo in opposizione rispetto a Landshut, è la scuola che fa capo all’università di Monaco (ivi, pp. 961-962): «Essa gode, infatti, della protezione di Luigi I, principe dalla fede ardente e sincera, che sogna per il suo paese “un regno di bellezza che si estenda a tutta la Germania, ed in cui l’arte abbia il suo posto a fianco della filosofia, della scienza e delle belle lettere”. Il re nomina rettore di questa Università il suo confidente, Ringreis, riunisce uno scelto corpo insegnante e, soprattutto, ottiene la collaborazione di Goerres, cui affianca Doellinger, Brentano, Schelling, Baader […]. Doellinger, al suo fianco [di Görres, appunto], si lancia nella patristica, mentre Schelling, con cuore ardente e sguardo di fuoco, adatta “il ragù panteistico a una salsa cristiana”. Baader predica la filosofia dello slancio vitale e Brentano diffonde le rivelazioni di Caterina Emmerich». Per gli anni precedenti il 1820, cfr., ivi, pp. 637-655, Le Chiese di Germania. Sulla storia di Catarina Emmerich cfr., negli «Annali delle scienze religiose» (rivista alla quale Antici collabora intensamente), La dolorosa passione di Gesù Cristo, secondo le meditazioni di ANNA-CATERINA EMMERICH, religiosa Agostiniana nel convento di Agnetenberg a Dulmen, morta nel 1824; traduzione dal tedesco giusta la seconda edizione, Parigi, presso Débecourt, 1835 («Annali delle scienze religiose», II, 5 – marzo-aprile 1836 –, pp. 308-309). 64 È una data importante il 1826, quando Sailer (Storia del Cristianesimo, cit., XI, pp. 113-114) rivolge un invito ad Ignaz von Döllinger figlio: «A Monaco la crisi scoppiò quando Ignaz von Döllinger, invi-
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tato all’università della città da Sailer nel 1826, si impegnò a far recuperare alla storiografia ecclesiastica cattolica il ritardo nei confronti dei protestanti. I due volumi del Lehrbuch der Kirchengeschichte (18361838) lo consacrarono come il principale esponente della cultura cattolica nella scienza tedesca. Ma nel ventennio successivo entrò in conflitto con i metodi che si ispiravano, dal suo punto di vista, ad una scolastica eccessivamente rigorosa, direttamente influenzata da Roma». Nel 1862, Döllinger convocò a Monaco un’assemblea di studiosi tedeschi, austriaci e svizzeri, davanti alla quale pronunciò una prolusione sul «passato e il presente della teologia», reclamando la libertà necessaria per incidere «sulla formazione dell’opinione pubblica». Si tratta appunto del figlio (Bamberga, 1799-Monaco, 1890) di quell’Ignaz Döllinger (Bamberga, 1770-Monaco, 1841) che, naturalista ed embriologo, e insieme credente fino al punto da influenzare il più giovane Ignaz anche sul piano religioso, non perde per questo di vista, ma anzi grazie a tali studî ulteriormente focalizza i grandi problemi posti dal rapporto fra la concezione dell’anatomia umana (derivata in definitiva dalle benemerenze schedatrici e dagli sforzi classificatori ed onomastico-nomenclatori del primo degli Haller, Albrecht) e la concezione della fisiologia, considerata come forma superiore di organizzazione della materia, capace di autodeterminarsi e di autodinamizzarsi, e che studia, altresì, i problemi suscitati dal rapporto tra la chimica e la fisica da un lato (con i loro indiscutibili meriti di acquisizione di nuove conoscenze e di nuove prospettive della ricerca scientifica, ma anche di vera e diretta acquisizione di cognizioni e nozioni in sé valide, ed utilizzabili dalla medicina), e, dall’altro, la biologia come scienza rinverdita e proposta su nuove basi nel Settecento, ma oggetto, in epoca romantica e segnatamente nella filosofia tedesca, di un’intensa e significativa relazione con le scienze dell’anima, e con il pensiero votato a riassorbire l’individualità fisiologica nel «tutto» filosofico e nel tutto cosmologico. E si badi che il Döllinger figlio, non certo a caso, ma per precisa e pilotata strategia invitato ventisettenne da monsignor Sailer a Monaco nel 1826, è appena da quattro anni sacerdote cattolico, ma sùbito entra in contatto con la scuola di Görres e ne assorbe a sua volta le idee religiose, molto importanti anche per un prosieguo ideologico, storico e politico che lo vedrà così approfonditamente cattolico da rivendicare per lo stesso cattolicesimo, in particolare quello sud-tedesco, una sempre maggiore autonomia ed una sempre crescente libertà d’influenza dalla sede papale: sarà, questa, la posizione dei «Vecchi Cattolici», maturata in Ignaz Döllinger giovane attraverso un dissenso ed una polemica con le strutture ufficiali, con il trono e con l’altare, espressisi dapprima nella critica morale al comportamento umano di Ludwig I di Baviera, in séguito negli interventi, vibranti d’indignatio politico-civile, al parlamento di Francoforte, e quindi ancora nella citata conferenza di Monaco del 1862 in cui, dopo il viaggio del 1857 a Roma a visitare criticamente la sede di Pietro, sosterrà posizioni di polemica verso il Pontefice e verso la sua infallibilità, e di contrarietà al Sillabo, fino alla scomunica del 1871 e al definitivo abbandono della cattedra, senza che per questo motivo venga meno la sua attività scientifica, peraltro già segnalatasi negli anni che qui interessano, con il citato manuale di storia della Chiesa, un manuale che già ha una sua prima forma nel 1828, ma che comprenderà anche, nel 1846-1848, una celebre storia della Riforma, studiata nei suoi sviluppi e nelle sue conseguenze (Die Reformation, ihre Entwicklung und ihre Wirkungen). Solo otto anni prima della sua ordinazione sacerdotale, e dodici anni prima della sua convocazione a Monaco come professore di storia ecclesiastica (l’approdo bavarese, da Bamberga, è assolutamente contemporaneo a quello del padre che vi diviene professore anatomo-fisiologo), suo padre Ignaz senior aveva scritto (1814, appunto) Beitrag zur Entwicklungsgeschichte des menschliche Gehirns, uno dei più emblematici approdi del suo pensiero e delle sue ricerche sull’evoluzione embriologica dell’organismo, ricerche che aveva sviluppato, nell’àmbito umano e nell’àmbito animale, nell’università della natia Bamberga (1794), quindi nelle università di Würtzburg (1803) e di Landshut (1823), e che avrebbe poi proseguito appunto a Monaco (1826). 65 Un allievo di Sailer, JOSEF-FRANZ VON ALLIOLI, effettua (1830-1837) traduzioni della Bibbia che hanno grande riscontro: cfr., ancora, JACQUES GADILLE, Le grandi correnti dottrinali del mondo cattolico, cap. III dell’opera collettiva Storia del Cristianesimo, cit., XI (Liberalismo, industrializzazione, espansione europea. 1830-1914, edizione italiana a cura di PIETRO STELLA), p. 127. 66 La valorizzazione di questi elementi biografici accomuna peraltro Antici alla prosa degli “elogi”, alle celebrazioni della vita di personaggi ecclesiastici, di maggiore o di minore spicco, ai “necrologi in prosa” che concorrono ad incrementare le pagine delle riviste cui il marchese collabora. Ad esempio, in «Annali delle scienze religiose», VIII, 24 (maggio-giugno 1839), pp. 462-464, si traccia la Necrologia de L’abate Kentzinger, tratta da «L’Ami de la Religion», n. 3082; si tratta appunto dell’abate Franz Joseph von Kentzinger, di Strasburgo (egli ha tre fratelli, uno maire della città, uno al servizio dei reali d’Inghilterra, l’altro presidente del Tribunale di Strasburgo, tutti dediti «all’antica monarchia» – cfr. p. 464 –, ovvero alla
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cultura e alle tradizioni che sostengono e che alimentano le strutture, ancora e forse più di sempre pienamente condivise, dell’ancien régime); forse di Antici anche la successiva corrispondenza, la Necrologia dell’abate Doucet, pp. 465-468, tratta dall’«Ami de la Religion», n. 3104: sono tutti modelli di modestia; si tratta sempre di religiosi, di ecclesiastici di alto valore spirituale, morale e culturale (secondo le coordinate cattoliche), che non hanno perseguìto carriera ed onori, ed hanno optato per un’esistenza dedita ai valori dello studio e della religione, dello spirito cristiano e della rinuncia a più alte cariche (e quando, come nel caso di Sailer e di Sambuga, vi sono giunti, vi si sono risolti solo su invito, e con molta personale renitenza, o cautela); tali figure, soggette a ricostruzione del loro curriculum di vita, ricalcano il modello autobiografico di Antici: si ricordi la sua rinuncia alla laurea in Germania, la sua rinuncia a seguire Napoleone a Parigi o a Milano, e quindi la rinuncia alla carriera diplomatica internazionale, e la sua scelta d’una residenza d’àmbito più propriamente domestico – nel caso del marchese, sarà la scelta di una residenza pontificia, laziale-marchigiana, importante, certo, e corrispondente alla sua caratterizzazione ideologica e culturale, ma pur sempre tale da porsi quale approdo successivo all’astensione da una carriera ancor più brillante; cfr., inoltre, «ivi», X, 29 (marzo-aprile 1840), pp. 305-308: Il preposto Claessen, Necrologia, forse di Antici: il preposto Claessen ha esercitato il suo ministero ad Aquisgrana ed ha rifiutato la sede vescovile di Colonia, preferendo quella tranquilla ed umile esistenza sacerdotale che appare, sulle pagine della rivista di studi religiosi, particolarmente elogiabile. Si cfr., per un termine di raffronto dedicato ad un laico, «ivi», XI, 33 (novembre-dicembre 1840), pp. 471-473: Necrologia del prof. Klee, dal «Cattolico di Spira» dell’agosto 1840, pp. XCII ss. 67 Di GIOACCHINO VENTURA DE RAULICA (si ricordi che dall’agosto al dicembre del 1825 egli è anche direttore del «Giornale Ecclesiastico di Roma», subentrando al cistercense abate Giuseppe Fontana; Ventura sarà, quindi, sempre fortemente amico di Carlo Antici, a differenza di quanto avverrà nei suoi rapporti con Monaldo Leopardi e con «La Voce della Ragione») cfr. Elogio del santissimo padre Pio settimo pontefice massimo recitato in Napoli nella chiesa della regia arciconfraternita di S. Giuseppe addetta all’opera di vestire i nudi dal p. d. GIOACCHINO VENTURA teatino, Quarta edizione corretta, Foligno, 1824; Lo spirito della rivoluzione relativamente agli ordini regolari ovvero Esame dell’accusa di un giornalista costituzionale e di una disposizione del governo rivoluzionario di Napoli contro gli ordini regolari pubblicato in Napoli durante la rivoluzione del 1820, Terza edizione, In Imola, tipi Galeati e Comp., 1825; Elogi funebri del padre d. GIOACCHINO VENTURA teatino ora per la prima volta in un solo volume riuniti, Roma, nella tipografia Perego-Salvioni, 1827; Elogio funebre di Daniello O’Connell membro del Parlamento britannico recitato nei solenni funerali celebratigli nei giorni 28 e 30 giugno dal rmo. p.d. GIOACCHINO VENTURA teatino, Roma, a spese dell’editore F. Cairo, 1847; Opere complete del r. p. GIOACCHINO VENTURA, Genova, Dario G. Rossi-Milano, Carlo Turati: comprende La donna cristiana o biografia di Virginia Bruni vedova romana, Genova, Dario G. Rossi, 1852; Saggio sull’origine delle idee e sul fondamento della certezza, ivi-Milano, Carlo Turati, 1854; La ragion filosofica e la ragion cattolica. Conferenze con aggiunte e annotazioni, Tradotte dal canonico AMERIGO BARSI, 4 voll. (I e II: 1853; III: 1856; IV: 1867); Saggio sul potere pubblico, o Esposizione delle leggi naturali dell’ordine sociale del r. p. GIOACCHINO VENTURA come continuazione dell’opera Il potere politico cristiano del medesimo autore; prima versione italiana dell’abate GIOVANNI CASSINI approvata dall’autore ed eseguita sotto i suoi occhi, Genova, Dario G. Rossi, 1859 (n. ed., a cura di EUGENIO GUCCIONE, Palermo, Palma, 1988); Le parabole evangeliche predicate, vol. I, seconda ed., Milano, Libreria G. Palma di G. Daverio, 1914; si vedano, ancora, alcune riedizioni recenti delle opere di padre Ventura De Raulica: La Chiesa nell’età delle rivoluzioni, a cura di MARIO TESINI, Roma, Studium («Il pensiero politico e sociale dei cattolici italiani», n. 3), 1988; Dello spirito della rivoluzione e dei mezzi di farla terminare, a cura e presentazione di EUGENIO GUCCIONE, introduzione di ROSALIA RIZZO, sommario in inglese di RAFFAELLO MONTEFUSCO, Torino, Giappichelli, 1998; EUGENIO GUCCIONE, Gioacchino Ventura: alle radici della Democrazia cristiana, Palermo, Centro siciliano Sturzo («Cattolicesimo di Sicilia», n. 1), stampa 2000; La linea siciliana del federalismo, scritti di GIOACCHINO VENTURA ET ALII, a cura di GIUSEPPE GANGEMI, Roma, Gangemi stampa («Nuovo Millennio»), 2004; cfr. infine GIOACCHINO VENTURA DI RAULICA, Gli scritti del 1820: dall’adesione alla rivoluzione costituzionale al deluso riflusso conservatore, a cura di PAOLO PASTORI, con una premessa di MARIO D’ADDIO, Calenzano, Stabilimento poligrafico fiorentino stampa («Vetus Ordo Novus», n. 1), 2005. 68 Lettere citate in ENRICO GHIDETTI, Vita e opere di Giacomo Leopardi, in GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, cit., I, p. CCXXXVII.
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69 Sul «Giornale ecclesiastico di Roma» nel suo primo periodo (1785-1799), cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., pp. 244-252; il «Giornale ecclesiastico di Roma» ha esercitato una notevole influenza sulla pubblicistica cattolica italiana successiva, pur avendo definito la propria sfera d’intervento soprattutto sul piano polemico-contrappositivo rispetto alle francesi «Nouvelles ecclésiastiques» e agli «Annali ecclesiastici» di Firenze, di ispirazione giansenista. Alle pp. 7-8 del t. I (gennaiomarzo 1825) della Collezione di Opuscoli della Società de’ Calobibliofili di Imola, presente nella Biblioteca Vaticana, si annuncia la pubblicazione della nuova serie del «Giornale Ecclesiastico di Roma» («conterrà l’analisi di que’ libri che trattano di materie religiose e morali. Darà per intero anche qualche Opuscolo, e tutt’i Decreti e Risoluzioni che emaneranno dai tribunali di S. Chiesa a pubblica istruzione»). 70 Cfr., per una risposta di tipo manzoniano a questa grave obiezione protestante, le nn. 12 e 29 a questo capitolo. 71 Nell’a. III, t. II (aprile-maggio-giugno 1827) della Collezione dei Calobibliofili, cfr., per una difesa del missionariato, che si precisa progressivamente come una difesa dei gesuiti, le Riflessioni del Sig. Visconte DE BONALD Pari di Francia su La memoria a consultarsi del sig. Conte di MONTLOSIER (si tratta del figlio di Louis). Dopo lo scritto, tutto occupato dalla suddetta difesa dei missionari, vi è una Poscritta in cui si cita lo Chateaubriand del «Conservateur», 3 maggio 1819 (qui pp. 65-67), con la sua difesa delle missioni, e con l’accusa allo spirito rivoluzionario di «avere per trent’anni, rovesciata la Francia»; come si può, ironizza Chateaubriand, accettare da parte dei liberali estremisti che i “rigeneratori” ideologici e civili non abbiano potuto «stabilir né un governo, né una istituzione, né una dottrina durevole, e il vedere ignoranti missionari sfuggiti al martirio, poveri, nudi, insultati, calunniati, incantare il popolo con un Crocifisso ed una parola del vangelo»; è «una mentita, data alla sapienza del secolo». Alla p. 69, ancora Chateaubriand ricorda le accuse ai gesuiti di instillare tendenze regicide dopo gli assassini di Carlo I e di Luigi XVI, e cita il decreto del 1610 del Generale dell’Ordine Acquaviva che vietava di fomentare, con la predicazione, l’idea che si potessero uccidere i principi e i re. Si cfr. inoltre Risposta a nuove offese contro una celebre Compagnia ecc. di M. HENRI DE BONALD traduzione libera del Compil. (sempre Imola, Galeati, 1827). Di Tertulliano, De Bonald ricorda la celebre frase «Hesterni sumus, et vestra omnia implevimus, urbes, insulas, castella, municipia». Vi è quindi un ulteriore elogio dei gesuiti, della loro prontezza nel recuperare la precedente incisività, e soprattutto nell’avere già fatto proseliti; l’elogio vale anche per la loro capacità di ampliare la propria rete di influenza, per il loro cosmopolitismo e per il loro “esotismo”; l’«hesterni sumus» di Tertulliano si flette nell’esaltazione commovente di Francesco Saverio; ma vi sono anche citazioni da Montesquieu, da Buffon, da Robertson, dall’irreligioso Raynal, da Laland, astronomo a sua volta irreligioso ma capace di fare un’eccezione per i gesuiti, come dimostrò anche, scrivendo bene dei gesuiti stessi, il «Bulletin de l’Europe»; nella nota del traduttore si dice, a significativo commento: «Si può dunque sapere Astronomia, e non abborrire i gesuiti, ed anche stimarli» (p. 9, n. 1). Segue l’elogio di P. Bourdalue, lodato a più riprese da Voltaire come da Chateaubriand; a p. 20 si critica con forza il «Constitutionnel» (molto osteggiato anche dal giornale italiano dichiaratamente avversario, la «Voce della Verità» di Modena); a p. 23, n. 1, si dice: «I malvagi accaniti contro la Compagnia mi parvero sempre valido motivo di stimarla, quando ancora non poteva conoscerla; poiché soli dieci anni io avea, quando fu soppressa»; piuttosto, a p. 24, si ricorda l’assassinio del delfino, che da parte sua era favorevole ai gesuiti. Alla p. 27 il traduttore ricorda in nota che dai gesuiti provennero alunni leali, e che dai collegi degenerati provennero invece alunni infidi e boia; alla p. 33, a proposito dei suicidi dilagati per materialismo, definisce negativamente i concetti sostenuti in un carme come I sepolcri, «libro pestifero, esecrabile d’Ugo Foscolo»; alla p. 37 si sostiene, sempre da parte del traduttore-compilatore, che «questa congiura indubitatamente universale di tutti i malvagi fu il primo argomento per me di stimare un Ordine, che io non avea potuto conoscere». Il t. III e il t. IV della Collezione imolese sono occupati da una serie di contributi sul tema dell’importanza della religione in rapporto all’uomo, in rapporto alla società, in rapporto a Dio. 72 Si cfr., nel t. III (luglio-agosto-settembre 1826), nella citata Collezione degli opuscoli de’ Calobibliofili, RENÉ-FRANÇOIS ROHRBACHER, Catechismo del senso comune del Signor Abate Rohrbacher superiore delle Missioni nella diocesi di Nancy. Opuscolo sul Saggio sull’indifferenza in materia di Religione di Lamennais, pp. 1-44 (su quello che invece era il «Catechismo dei preti refrattari» si ricorda, qui, LUIGI MEZZADRI, La Rivoluzione francese e la Chiesa, cit., pp. 106-107), in un opuscolo appunto fondato sull’«insigne» Lamennais dell’Indifferenza, inserito anche nelle «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura» degli Eredi Soliani di Modena, rivista cui collabora anche il marchese Antici. Nello stesso tomo della collezione imolese, nelle Notizie letterarie, cfr. la seguente notizia, riguardo a Lamen-
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nais: «l’inclito abate La Mennais è stato condannato il 26 aprile 1826 dal tribunale secolare a una multa a causa d’un’opera scritta in latino, Aforismi contro le quattro proposizioni Gallicane»). Lamennais (ne viene riportata la dichiarazione a complemento dell’«aringo» di difesa dell’avvocato ufficiale) dichiara il suo attaccamento al capo della Chiesa: «La sua Fede è la mia, la sua dottrina è la mia dottrina» (estr. dall’«Ami du Religion et du Roi»). Così, anche l’abate Laurent entra nella pubblicazione con l’introduzione alla Filosofia, nella cui traduzione si confida; del Saggio è stata pubblicata la Difesa nel giornale «Le Defenseur», nel 1821, «insieme a molti interessanti Documenti fra i quali alcuni dell’autore stesso di questo Catechismo»; poi è stata «nuovamente pubblicata in Modena nella traduzion completa del Saggio sull’indifferenza di cui sono usciti 5 volumetti, e quello che uscirà fra poco darà il III. vol. del Saggio medesimo» (p. 7, nota a piè pagina); dapprima nel «Defenseur», l’affermazione di p. 7 mette a fuoco il problema e la necessità del «senso comune»: «questo modo di rappresentarle [le prove] rendevale scevre d’opposizione, mettevale alla portata di tutti, e lasciava nello spirito dei meno capaci il convincimento che la verità udita era lo stesso senso comune, e che bisognava esser pazzo per negarla»; alle pp. 4-5 si era detto: «Possa anche questa introduzione alla Filosofia [ci si riferisce a Laurent] con una buona versione esser messa senza ritardo a profitto degli Italiani, come già da qualche tempo ne profittano in Francia que’ che frequentano la nominata Scuola de’ buoni Studj. Se la F[rancia]. abbandonata alle incertezze della Ragione individuale, ed ai capricci fantastici di privati sistemi ha tratto nel doppio rapporto morale, e civile il Mondo a quel deplorevole stato in cui trovasi, venga, ed ogni anima onesta lo affretti coi voti, venga quel tempo avventuroso [felice, fortunato] e di ristauramento, in cui la religione, e il Senso Comune rimettano la Fil. nell’esercizio benefico delle sue attitudini; ché allora solo si sa bene, e si sa molto quando con una Relig. immutabile eterna, e col Senso Comune di tutti i tempi la scienza trovasi perfettamente in armonia». Alle pp. 7-8, ancora, si ricorda che mons. Flaget, vescovo di Bardstown nel Kentucky negli Stati Uniti, ne ha richiesto, dopo l’elogio, la diffusione nel Nuovo Mondo anche sotto forma di catechismo, con domande e risposte: «Quello che ci ha determinati a dar l’ultima mano a questo opuscolo, ed anche a darlo al pubblico è una lettera scritta, il 7 Maggio 1825, al Signor De La Mennais, da Monsignor Flaget, Vescovo di Bardstown nel Kentucky negli Stati-Uniti d’America. In questa lettera che ci è stata comunicata da quello a cui era diretta [Lamennais], il Venerabil Vescovo missionario, dopo aver fatto il più completo elogio del Saggio sull’indifferenza, dimostra un gran desiderio di vederne la dottrina sviluppata con dimande e risposte, in forma di catechismo. Noi ci siam riputati felici d’aver prevenuto i desiderii di questo rispettabil Vescovo del Nuovo Mondo […]» (pp. 7-8). In effetti si tratta di un catechismo con domande e risposte, strutturato (cap. VII, pp. 17-20) con molta abilità sulla base dello studio di D’Alembert; e viene citata una serie di articoli sull’Encyclopédie: Géometrie, t. VII, p. 635, il Discours préliminaire, t. I, p. VIII, gli Elémens dans l’Encyclopédie, t. V, p. 492, ed. Paris, 1751: è un D’Alembert astutamente sfruttato nelle enunciazioni di “senso comune”, ossia di non rigorosità, di non assoluta sicurezza di veridicità di affermazioni della geometria, dei concetti, se non dei procedimenti del metodo matematico; ed è citato in francese: es., p. 19 n. 3: «Qu’est-ce que la plupart des ces axiomes dont la Géometrie est si orgueilleuse, si ce n’est l’expression d’une même idèe simple par deux signes ou mot differens?… j’en dis à-peu-pres autant, quoiqu’avec les restrictions convenables, des théoremes mathèmatiques. Considérés sans prejugé ils se reduisent à un assez petit nombre de verités primitives». È il rovesciamento del Bon sens di d’Holbach, poiché qui s’identifica il buon senso proprio con il «senso comune»: l’esistenza di Dio, la provvidenza, l’immortalità dell’anima, la divinità di Gesù Cristo, l’esistenza dell’inferno; è la difesa delle tradizioni cristiano-religiose di ogni tempo e di ogni luogo, un “cattolicesimo” concepito, e soprattutto riproposto come universalità, secondo la ratio totalizzante dell’etimologia del termine. L’opera era cominciata già da vari anni, fin dall’epoca delle prime discussioni sul Saggio sull’indifferenza di Lamennais. Ecco un esempio del Catechismo: «D. Che cosa è il senso comune? / R. Il senso comune è il senso o sentimento comune a tutti gli uomini, o almeno al maggior numero. / D. Perché si chiama senso comune? / R. Per distinguerlo dal senso privato, che non è sempre il buon senso. / D. Come si chiama inoltre? / R. Si chiama inoltre ragion generale o universale, per distinguerlo dalla ragion individuale, che non è sempre la ragione. / D. Che cosa intendono generalmente gli uomini per la ragione o il buon senso? / R. Il senso comune» (p. 10). Alla p. 25, cap. IX, sono citati i tre pensatori moderni che hanno sostenuto lo stesso senso comune, e si tratta di nomi che non stupiscono nella costellazione cattolica che vige in quegli anni: Bossuet, Fénelon e Bergier (ma è citato anche San Tommaso, 2. 2, quaest. 2, art. 47). Alla p. 26 è la volta del Bossuet del III Sermon pour la Fête de tous les Saints, t. I, pp. 104 et suivants, ed. Paris, 1772 (vi si sostiene, sottolineandola, la fallacia della ragione, tanto più il dotto vi si addentra), e del Traité de connoissance de Dieu et de soi même (criterio di conoscenza sicura è appunto il
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senso comune, quello che tutti gli intelletti pensano: quello è giusto, quello è il giusto), t. X, ed. Paris, 1748, p. 641. Alla p. 26, ancora il Fénelon dell’Existence de Dieu, t. I, pp. 93 e 181-183, ed. Versailles, 1820. La ragione è fallace al massimo grado, e lo sbaglio è sempre in agguato; vi è, invece, una ragione «comune a tutti gli uomini e a lor superiore», che non può non esistere essendo perfetta e a sua volta condizionando ciò che è imperfetto, ed è quel Dio che cerchiamo. Alla p. 28 è citato il Bergier del Traité de Religion, t. X e ancor più t. IV, p. 310, ed. it., Venezia, 1782. Secondo quest’ottica, Cartesio ha rovesciato Aristotele: è vero tutto ciò che appare chiaro e distinto: ma alla fine dei Principia Philosophiae, par. IV, n. 207, p. 222, Amstel. Elzev. ed., 1672, ha rimesso tutto al giudizio dei più saggi. «At nihilominus memor meae tenuitatis, nihil affirmo: sed haec omnia tum Ecclesiae Catholicae tum prudentiorum judicio submitto, nihilque ab ullo credi velim, nisi quod ipsi evidens et invicta ratio persuadebit». Sono altresì citati il Cicerone del De natura deorum e del De divinatione (ma si veda, qui sotto, nota 75, il valore esattamente illuministico-laicizzante che può rivestire la trilogia religiosa ciceroniana – comprensiva del De fato – in una ricezione ed in una valorizzazione culturale qual è quella che ne ha a suo tempo promosso e sostenuto uno studioso come Sebastiano Timpanaro), ancora il Cicerone del De legibus, il Platone del Timeo, altri tomi e luoghi di D’Alembert, Leibniz e insieme altri filosofi antichi e moderni, il medico Baglivo (Opera, Bassani, 1737), il Boulanger di Ricerche sull’origine del dispotismo orientale, sez. X. In particolare, riguardo alla credenza che dall’Oriente, dalla Giudea, sarebbe nato il Dominatore del Mondo, sono anche qui citati lo Svetonio della Vita di Vespasiano ed il Tacito di Historiae, l. V, n. XIII, Paris, Ed. Brotier, 1771, t. III, p. 313, e il Bullet della Storia dello stabilimento del Cristianesimo, ricavata dagli scrittori ebrei e pagani (cfr., qui sopra, il paragrafo dedicato allo Stolberg, specialmente ai Fatti ed ammaestramenti più memorabili della vita degli Apostoli, e la nota 60 a questo capitolo). Il cattolicesimo rappresenta, insomma, l’approdo d’identificazione totale del senso comune (cap. XV); Lutero (il monaco Lutero) e gli eretici hanno invece sostituito il senso comune con il senso privato: si veda quanto afferma, nella citazione che ne è fatta, VINCENZO LIRINESE (ricordato anche in altri fascicoli dei Calobibliofili): «Hoc ita fiet, si sequamur universitatem, antiquitatem, consensionem» (cfr. anche Monitorio di VINCENZO LIRINESE gia tradotto da D. MARCO POLETI C.R.S., seconda edizione, in Imola, tipi Galeati e Comp., a spese della Societa de’ Calobibliofili, 1827, e, sempre di VINCENZO LIRINESE, la monografia L’Ottavio di Minucio Felice recato in lingua italiana e con opportune annotazioni illustrato da D. MARCO POLETI C.R. Somasco, in Imola, tipi Galeati e Comp., a spese della Societa de’ Calobibliofili, 1827; nel t. I – a. III, gennaio-febbraio-marzo – del 1827 vi sarà una trattazione interamente dedicata all’Ottavio di MINUCIO FELICE ed al Monitorio di VINCENZO LIRINESE); a p. 40, alla domanda sulla differenze fondamentali tra cattolici ed eretici, si risponde: «Il primo principio da cui partono i cattolici, eccolo: ciò che tutti credono esser vero, è vero; mentre che i filosofi e gli eretici pongono per principio fondamentale: ciò che ciascuno crede esser vero, è vero». Più sopra, concettualizzata, l’essenza del cattolico è stata definita: «Hoc est etenim vere proprieque catholicum, quod ipsa vis nominis ratioque declarat, quae omnia fere universaliter comprehendit» (ibidem). E sull’esistenza di Dio vengono citati ARISTOTELE (ed. greco-latina, Paris, Duval, 1629, del De mundo, a cura di LATTANZI), poi Lamennais e il Saggio sull’Indifferenza etc., e ancora Bossuet, il Voltaire dell’art. Religione del Dictionnaire philosophique, l’Apologeticum di Tertulliano, c. XXII, p. 79 ed. Havercamp. Lattanzio è invece ricordato a p. 64, n. 35: Divinae Institutiones, l. II, cap. I, t. I, Paris, ed. Buré, 1748, p. 114. In nota, a p. 86, entrano nella rassegna dei riferimenti «L’Ami de la religion», Février 1826, e il «Memorial Catholique» del Janvier 1826, ma anche del Décembre 1825, sulle polemiche riguardanti il Catechismo dalla stessa parte cattolica; e si aggiunga Varietés d’un Philosophe provincial par M. Ch. le jeune, 2 tt., Bruxelles et Paris, 1767. Dell’abate RENÉFRANÇOIS ROHRBACHER (1789-1856), prima rammentato (oltre al Catechismo, che citiamo nell’ultima edizione italiana uscita vivente l’autore, Catechismo del senso comune del signor abate ROHRBACHER, superiore delle missioni nella diocesi di Nancy, Napoli, presso la Società Editrice, 1853) si ricordino: Dés rapports naturels entre les deux puissances d’après la tradition universelle par l’abbé ROHRBACHER, suivi du Discours de réception de l’auteur dans cette dernière compagnie, Paris, Outhenin-Chalandre fils, 1838; Storia universale della chiesa cattolica dal principio del mondo sino ai dì nostri dell’abate ROHRBACHER, dal testo originale francese recata in italiano da LUIGI TOCCAGNI, 29 voll., Milano, Turati, 1843-1856; Storia universale della Chiesa cattolica dell’abate RENATO-FRANCESCO ROHRBACHER; nuova traduzione fatta sull’ultimo originale, riveduto, corretto ed accresciuto dall’autore, Firenze, Alcide Parenti, 1859; Le vite dei santi per ogni giorno dell’anno: opera utile al clero e a ogni fedele, 2 voll., scritta dall’abate ROHRBACHER, fedelmente tradotte ed accresciute dal prof. ab. GIUSEPPE TEGLIO, 2 voll., Firenze, A. Parenti, 1863; Storia universale della Chiesa cattolica: dal principio del
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mondo fino ai dì nostri dell’abate ROHRBACHER, 16 voll., prima traduzione italiana sopra la terza edizione, contenente moltissime aggiunte e correzioni dell’autore in seguito agli appunti fatti alle due precedenti edizioni; aggiuntavi la continuazione fatta dal CHANTREL, IV ed., Torino, G. Marietti, 18721873; Storia universale della Chiesa cattolica dal principio del mondo fino ai dì nostri dell’ab. ROHRBACHER, 15 voll., continuata dall’anno 1846 sino al 1876 dal prof. PIETRO BALAN con 2 copiosi indici generali delle materie, Torino, Marietti, 1876; vi erano state anche le Lettere di un anglicano ad un gallicano (a conferma dei suoi rapporti con le chiese anglosassoni), prima traduzione dal francese del sig. abate ROHRBACHER, Imola, Galeati, a spese della Società de’ Calobibliofili, 1828. Di Vincenzo Lirinese cfr. anche la sua presenza, nel tempo, in pubblicazioni, o riedizioni, di più autori; ad esempio, il FOEBADI AGINNENSIS Liber contra Arrianos, cura et studio R. DEMEULENAERE, VICTRICII ROTOMAGENSIS De laude sanctorum, cura et studio I. MULDERS et R. DEMEULENAERE, LEPORII Libellus emendationis, cura et studio R. DEMEULENAERE, VINCENTII LERINENSIS Commonitorium excerpta, cura et studio R. DEMEULENAERE, EVAGRII Altercatio legis inter Simonem Iudaeum et Theophilum christianum, cura et studio R. DEMEULEMAERE, RURICII LEMOVICENSIS Epistularum libri duo; accedunt: 1. Epistulae ad Ruricium scriptae, 2. Epistulae Fausti ad Ruricium, cura et studio R. DEMEULENAERE, Turnholti, Brepol («Corpus Christianorum. Series Latina», n. 64), 1985; e cfr., altresì, BEATI DIONYSII AREOPAGITA Opera. Cum scholiis in librum de Ecclesiastica Hierarchia a Ioachimo Perionio conuersa. Hisce accessere sanctissimorum patrum D. IGNATIJ ANTIOCHIAE ARCHIEPISCOPI, atque POLYCARPI, & MARTIALIS APOSTOLI EPISTOLAE. Praeterea VINCENTIJ LIRINENSIS liber aduersus haereseon nouationes, Lugduni, Apud Gulielmum Rouillium, 1572. A proposito dei vescovi che, come il citato Flaget, sono impegnati nella difficile realtà del Nuovo Mondo, in particolare in quella del cattolicesimo negli Stati Uniti, cfr., più tardi, in «Annali delle scienze religiose», II, 6 (maggio-giugno 1836), l’Appendice straordinaria (pp. I-XXIII) di MICHAEL ANTONY FLEMING, vescovo di Carpasio, Vicario Apostolico di Terra Nuova, sotto forma di lettera al periodico romano, da S. Giovanni nella Terra Nuova, dell’8 ottobre 1834; la missiva contiene descrizioni di stati di pronunciato disagio sociale; e un trafiletto redazionale avverte che eventuali sottoscrizioni a beneficio delle situazioni raccontate da mons. Fleming devono essere inviate al «Diario di Roma», presso il direttore Gaetano Cavalletti, Via delle Convertite presso il Corso, n. 20. Su Lamennais si ricordi, in tempi abbastanza recenti, l’edizione della “sua” Imitazione di Gesù Cristo: FÉLICITÉ ROBERT DE LAMENNAIS, L’imitation de Jésus-Christ, Paris, Éditions DFT, 2001. 73 La lotta con lo spirito del tempo trova, ovviamente, molti riferimenti nelle pubblicazioni più vicine ai testi di Antici. Nell’anno 1826, nel t. I della citata Collezione, si rammenti in questo senso Sopra l’incredulità dei falsi dotti Lettera dell’Abate GAUCHAT e Sopra gli spiriti forti. Riflessioni estratte dai Pensieri teologici del R. P. NICOLÒ JAMIN, pp. 43-83. Alle pp. 76-78 di quest’ultimo vi è la citazione come di personaggio culturale empio e scomunicabile («tenebroso») dell’autore del Sistema della natura, d’Holbach; alle pp. 1-34 vi era I cattivi non possono dolersi di non essere amati dai preti Orazione di ANTONIO CESARI; alle pp. 1-17, il citato Il prigioniero apostolico. Cantica del C. GIULIO PERTICARI. Nel t. II (aprile-maggio-giugno 1826) vi esce, quasi in contemporanea con l’evento reale, il Discorso del Marchese Carlo Antici pronunziato in Roma nell’Accademia di Religione Cattolica il di [sic] 26 giugno 1826, pp. 156. Alla fine, vi è l’Inno tratto dal canto vigesimo sesto della Consumazione del secolo di COSIMO BETTI, pp. I-IV. Dell’abate Patrick Gauchat si veda A pontificatu Clementis PP. 8. (1592) usque ad pontificatum Alexandri PP. 7. (1667), per PATRITIUM GAUCHAT, Patavii, Il Messaggero di S. Antonio, 1960; fa parte (IV vol.) di Hierarchia catholica Medii aevi sive summorum pontificum, S.R.E. cardinalium, ecclesiarum antistitum series e documentis tabularii praesertim Vaticani collecta, digesta, edita. Editio altera Monasterii: sumptibus et typis Librariae regensbergianae, 9 voll., fino al pontificato di Benedetto XV (1922; dal III voll. con il titolo Hierarchia catholica Medii et Recentioris aevi…; I vol.: Papi – 1800-1846; cardinali – 1800-1846; vescovi – 1800-1846). A proposito del parziale dissenso di Antici riguardo alle forme d’espressione estremistica del proprio pensiero da parte di Pflister, si ricordi la precisazione «Articolo comunicato», appósta al contributo da Monaldo nella redazione che ne esce nel 1832 nella «Voce della Ragione»; anche Monaldo eccepisce sulla proponibilità del contenuto dello scritto, come appare da un passo d’una sua lettera all’editore Annesio Nobili, del 13 luglio 1832: «ancorché bello è poco adattato all’Italia, ma ciascheduno ha i suoi particolari rapporti, ed io non ho potuto ricusarmi a chi me lo ha dato» (riprodotto in NADA FANTONI, «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi [18321835], cit., p. 27, n. 2).
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74 Cfr. ALAIN PILLEPICH, Napoleone e gli italiani, cit., p. 62: «Eugenio di Beauharnais uscì dalla prova quale generale in capo dell’armata francese d’Italia e sposo felice di una squisita principessa, Augusta Amalia di Baviera […]. Il matrimonio di Eugenio, celebrato a Monaco il 14 gennaio 1806, era stato oggetto di laboriosi negoziati con il principe elettore Massimiliano Giuseppe di Baviera. Questi, vittima iniziale dell’aggressione austriaca nel settembre 1805, era riuscito ad ottenere per sé la corona di re di Baviera e per sua figlia Augusta la promessa implicita che sarebbe stata un giorno regina d’Italia. Il viceré venne infatti adottato da Napoleone e riconosciuto, in mancanza di discendenti diretti, erede presuntivo del regno d’Italia. Assistettero alla cerimonia nuziale Napoleone, Giuseppina, i Murat e alcuni dignitari che ritornavano da Vienna». Sulla tenace, zelante fedeltà di ecclesiastici quali Sambuga e Sailer, e di nobili cólti e filoecclesiastici quali Antici agli istituti monarchici e alle figure che ne sono storicamente i rappresentanti, risultano utili i testi che non certo fortuitamente si accompagnano al discorso sambughiano-saileriano, tradotto da Antici, nella miscellanea della Vallicelliana – VI. 1. H. 20 (3), tom. LIX (1824-1827), peraltro anch’esso “vigilato”, quasi araldicamente, dallo stemma «Ruggero Falzacappa della Cong.ne dell’Oratorio». Vi è innanzi tutto una Oraison funébre de très grand, très haut, très puissant et très excellent prince LOUIS XVIII, Roi de France et de Navarre, Prononcée, Au nom de la Ville de Lyon, Dans l’Église Primatiale de St. Jean, le 29 octobre 1824, par M. l’ABBÉ DE BONNEVIE, chanoine, vicaire général de Lyon et de Toulouse, Lyon, Imprimérie de Durand et Perrin, succ. de Ballanche et de Cutty, «Grande Rue Mercière, N.° 49, à l’angle de la rue Ferrandière, M DCCCXXIV». Riproduciamo alcuni passi di questa dispiegata celebrazione di Luigi XVIII, il monarca borbonico, e il monarca che per antonomasia ha fruito dei ripristini legittimisti della Restaurazione (a questi testi, intendiamo dire, si accosta, per virtù propria e per altrui condivisione, una serie di operazioni pubblicistiche come quella compiuta dal dotto marchese Antici); si veda a p. 8: «Ce n’est donc pas à vous seulement que j’adresse l’ èloge de Louis; recueillons l’héritage de se vertus pour en composer le bonheur du monde […]; rassemblons plutôt autour de ce cercueil les esprits de justice, de concorde et de prudence, à l’aide desquels Louis a remédié à tant de maux qu’il n’avoit pas causés, cicatrisé tant de plaies qu’il n’avoit pas faites, fermé tant d’abîmes qu’il n’avoit pas ouverts. / Les rois célèbres, Messieurs, ne sont pas toujours les grands rois: la célebrité n’est pas la gloire; chez ces âmes ardentes que l’ambition enivre, la gloire n’est plus alors qu’en délire. Mais lorqu’une âme sur le trône est toujours ce qu’elle doit être, se modifie sans effort, se plie sans violence, simple toute ensemble et magnanime, démêlant d’un œil ferme et sûr le besoin de chaque moment et s’y portant d’un mouvement libre et uniforme, sans rien affoiblir, sans rien exagérer, c’est une faveur du ciel. Telle fut l’acomp.me de Louis»; poi, a p. 9, si allude a «lois réparatrices», a «concessions prévoyantes», a «sacrifices heroïque»; ancora: «Elle dira [l’histoire] surtout cette fin toute chrétienne et tout royale, au milieu de sa famille en pleurs et de ses sujets en dueil, dans laquelle il oppose à des souffrances qui auroient abattu tout autre cœur que le sien, un calme que semble leur imposer; où, s’oubliant lui-même et ne songeant qu’à nous, il prononce sur le seuil de l’éternité que Si le rois peuvent mourir, ils ne doivent jamais être malades. Voilà les Bourbons, voilà nos maîtres qu’il est si doux de servir: Pour eux il n’y a que la France, et pour nous il n’y a que la race de saint Louis. Le trône chez nous est comme l’autel; l’immutabilité et la légitimité sont la pierre angulaire de l’un et de l’autre». A p. 10 le tonalità ulteriormente si inarcano: «Hélas! Messieurs, à l’aspect de ce tombeau du restaurateur de la monarchie ne nous souvenons-nous pas que le martyr de la bonté a disparu sans tombeau dans une tempête furieuse? Ne nous retraçons-nous pas cet assemblage d’accusateurs et des juges, citant à leur tribunal le juste d’entre les justes? Hideuse époque, ou les ruines tomboient dans le sang et le sang dans les ruines; où s’ecrouloit de toutes parts, l’édifice social que devoit être rebâti par une main fraternelle; où une éloquence sauvage subjuguoit par sa popularité incendiaire; où l’anarchie, qui a ravagé jusqu’aux régions du trépas, croyoit que la mémoire de Louis XVI seroit détruite parce qu’elle le provoit des honneurs de son rang: comme les tyrans de la primitive église cherchoient à dérober à la vénération des chrétiens les restes précieux de confesseurs de la foi, qui reposent maintenant sur nos tables de propitiation». A p. 14 si parla di «une catastrophe, née de l’athéisme»; alle pp. 16-17 si intensifica la deplorazione: «Que des systèmes également subversifs de la religion, de la morale et de la société eussent été répandus chez nous depuis la régence; que des gens de lettres et des gens du monde, par un complot, ourdi d’abord dans les ténébres, en eussent été les promoteurs; qu’ils aient produit cette nuée de sophistes qui bouleversérent tous les entendements, c’est un fait au-dessus de toute réclamation: oui, Messieurs, ces opinions furent la cause véritable des événements qu’elles avoient appelés; elle formoient un corps de doctrine, et leur predicateurs une secte homogène; le renversement des cultes et de lois étoit le thème de ces docteurs en incrédulité et en anarchie. Je le sais, les chefs de la philosophie parisienne arborèrent quelquefois de
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einseignes différentes, et on eût dit que leur conseil de guerre délibéroit dans la tour de Babel. Les novateurs français en virent plus d’une fois aux prises entre eux; mais le but était le même, et tous, d’une émulation commune, tendoient à y arriver, maîtres dans l’art de noircir la vérité et de blanchir le mensonge. Leurs ouvrages, leurs menées, leurs flatteries étoient dirigées contre la royauté et le sacerdoce. Répandu dans toutes les classes, ils les imbibèrent de leur poisons, renonçant aux gros livres qu’on ne lit point, et infusant leurs doctrines en des romans: avec des méthodes et des argumentations, ils eussent provoqué l’ennui; ils assurèrent leurs succès en révélant qu’on pouvoit douter de tout sans rien savoir, et tout savoir sans rien apprendre». A p. 19: «La religion, Messieurs, nous a été rendue avec sa tête couronné de tous les sacrifices, et ses mains riches de tous les bienfaits: mettons autant de loyauté et de constance à la défendre, que ses déctracteurs ont mit d’opiniâtreté et d’astuce à la calomnier; eux-mêmes nous indiquent notre plan de campagne: ils s’emparent des générations naissantes, parlent de la liberté pour que la licence les écoute, proscrivent Dieu de la nature et les rois de leur trônes, brisent tous les rapports, relâchent tous les nœuds, supprimes tous les appuis. Faisons le contraire de ce qu’ils font: la victoire est à nous. Gardons-nous d’oublier que la religion est à la monarchie ce que l’âme est à l’homme; insinuons la morale chrétienne dans l’âme de la jeunesse; semons-y les vertus, à l’exemple du père de Louis; et une ample moisson nous est assurée». A p. 33 vi è la definizione della moderna dottrina come «la doctrine du néant»; alle pp. 38-39 vi è una precisa e aperta esaltazione della Vandea e della sua fedeltà alla monarchia. Fin dalle prime pagine, l’alternanza della polvere e dell’altare, delle alterne vicende, e, a p. 69, l’immagine del «Tanaïs» e del «Danube», la qualificazione geografica del turbine napoleonico, la potamografia evocativa, sembrano associarsi a quella pubblicistica napoleonica dalla quale è nato, o che ha fornito lessico al Cinque Maggio. Vi è pure un’esaltazione (breve) del sacrificio di Pio VII, mentre Napoleone è evocato e demonizzato, mai nominato. Il testo è scandito da citazioni latine: «facta est quasi vidua domina gentium, etc. auferetur a vobis regnum Dei, et dabitur genti facienti fructus ejus, plorans, ploravit in nocte, viae Sion lugent, sacerdotes ejus gementes, omnis populus ejus gemens» (GEREMIA). A p. 87 il disteso interrogativo retorico coinvolge una visione riassuntiva, e a suo modo panoramica, della funzione benefica dei conventi e delle chiese in genere, e dell’istruzione che vi si fornisce: «Dirai-je ces écoles où les petits et les simples reçoivent l’instruction seule utile; ces collège, où des instituteurs probes et studieux dégagent la science de ses épines et de ses périls; ces séminaires, où croît dans la retraite et sous la vigilance de la piété labourieuse, l’ésperance de la religion; ces temples, la maison commune du riche et du pauvre, bâtis ou réparés; ces troupeaux sans pasteurs qui bénissent celui qui leur en a envoyé; cette illustre église, tant célébrée par le grand Bossuet, et si longtemps ravagée de nos jours par le schisme, restaurée dans toute la plénitude de son unité avec la chaire apostolique dont la primauté est la source de sa propre grandeur?». Segue, nella miscellanea della Vallicelliana, il testo tradotto d’un’importante figura di cardinale cattolico scozzese, Charles Erskine (da non confondersi con l’inglese lord Thomas Erskine, ministro whig nel dicastero Grenville-Fox, nel 1806, a costituire il «ministero dei talenti» – cfr. GEORGES LEFEBVRE, Napoleone Bonaparte, cit., p. 179 –): l’«ORAZIONE PER I FUNERALI DEL SOMMO PONTEFICE PIO VI. DETTA IN LONDRA DAL CARD. ERSKINE DI CHIARA MEMORIA DALL’INGLESE NELL’ITALIANA FAVELLA RIDOTTA E PUBBLICATA DAL CAV. PIO FERRARI DA CEPRANO ROMA 1825 PRESSO FRANCESCO BOURLIÉ Con Approvazione» (Ed. originale: CHARLES ERKINE, Funeral oration for His Holiness Pope Pius VI, London, 1799). Charles Erskine è nominato e studiato da Gérard Pelletier, che, riferendosi a Francesco Maria Zaccaria, proveniente da «l’éteinte Compagnie de Jésus», scrive: «Il était un ami de Charles Erskyne, qui partira représenter le pape a Londres et sera en contact avec le milieu des émigrés français», s’intende, gli emigrati colpiti dalla Rivoluzione, e ad essa contrari (cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., p. 238); sempre in funzione antifrancese-antirivoluzionaria, il prelato agirà in qualità di ambasciatore e mediatore fra il Papa e la Gran Bretagna: «Le pape a pour sa part envoyé vers Londres un prélat écossais, protegé du Duc d’York, Mgr Charles Erskyne. Il le recommande au roi de Grande-Bretagne dans un bref du 7 septembre, où il fait état des liens entre le secrétaire d’État et Lord Grenville. Il annonce la venue d’un représentant de Rome auprès de lui et le remercie pour l’accueil des émigrés et l’envoi de la flotte au Méditerranée […]. Erskyne quitte Rome le 4 octobre 1793, passe par la Hollande, est à Londres le 13 novembre. La situation est plus délicat pour le vicaire apostolique à Londres, Mgr Douglas, qui s’était entre-temps proposé pour être le reprèsentant du Saint-Siège: le cardinal Antonelli, son supérieur au titre de la Congrégation de la Propagande, lui demande de se mettre au service de Mgr Erskyne. Le représentant diplomatique de Rome est placé au dessus de la hiérarchie locale, qui elle-même dépend de la Curie. Mgr Erskyne est reçu en véritable ambassadeur, rend visite aux ministres, est invité d’honneur à
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l’ouverture du Parlament le 22 janvier 1794, assis à côté du roi. Il a l’appui de Burke. Il expose qu’il faut défendre l’Italie contre la France et remercie le pays au nom du pape pour l’accueil réservé aux ecclésiastiques émigrés. Pitt lui réponde que son pays défendra toujours le temporel du souverain pontife […]» (ivi, pp. 421-422). Molto significativo, come certo si è notato, l’appoggio di Edmund Burke, che, dalla sua specola britannica, si pone come un punto di riferimento ideologico-culturale e letterario per la controrivoluzione nel resto dell’Europa. Si cfr., ancora, frutto del cattolicesimo inglese, PETER AUGUSTINE BAINES, Sermone sulla fede speranza e carità recitato per la dedicazione della cappella cattolica di Bradford nella contea di York il mercoledì 27 luglio 1825 da monsig. PIETRO AGOSTINO BAINES vescovo di Siga recato in italiano da FERDINANDO JABALOT, in Imola, dalla tipografia Galeati, a spese della Società de’ Calobibliofili, 1828, e si vedano anche, in séguito, esposte a prestigiosa visibilità in un periodico al quale collaborereà Antici, gli «Annali delle scienze religiose», VIII, 22 (gennaio-febbraio 1839), pp. 45-61, le Origines Biblicae, or Researches on Primeval History etc. Origini Bibliche, ovvero Ricerche sopra l’Istoria primitiva; opera di CHARLES TILSTONE BEKE, Londra, 1834 (ne è stato pubblicato il vol. primo di pp. XVI-336), articolo scritto da F. MAURIZIO BENEDETTO OLIVIERI. Nella pagina precedente della miscellanea della Vallicelliana vi è un ritratto del «Card. Carlo Erskine», con le scritte «Ant.° Bianchini Dis.» e «Piet° Ghigi Inc.» (rispettivamente, «disegnò» ed «incise»). Nell’introduzione Ai cortesi leggitori il traduttore PIO FERRARI ricorda che ci sono state tante orazioni funebri, alcune molto belle, per Pio VII; egli ne vuole pubblicare una per Pio VI, a sua volta grande Pontefice. L’orazione funebre del Cardinale Erskine è così bella, che senza la traduzione sarebbe stato un peccato che non la conoscessero gli italiani: viene svolta, anche in questo caso, un’opera divulgativa, a rinsaldare la fede anche con l’esempio di un papa precedente. Alle pp. 5-6 si esprime una deprecazione sulla vanità della vita, sulla tristezza dei funebri apparati e dei lamenti, dei cortei, il cui significato e, insieme, la cui vanificazione sono valsi anche per un papa, e che ci fanno rabbrividire, pensando che solo dalla nostra condotta dipende la nostra conquista del cielo; alla p. 7 si eroicizza, ancora, la figura di Papa Braschi: nessuno, infatti, ha mai dovuto soffrire, come sovrano temporale e come supremo pastore della chiesa universale, quanto Pio VI, capitato in un’epoca di rivoluzioni e di sconvolgimenti. Alla p. 9, dopo aver ricordato come Giovanni Angelo Braschi fosse nato a Cesena (altro eminente romagnolo nell’àmbito dello Stato della Chiesa), l’Erskine tradotto da Pio Ferrari parla della sua ascesa sotto Benedetto XIV (il Cardinale Lambertini, anch’egli, senza ricordare le fin troppo note trasposizioni scenico-teatrali e addirittura filmiche della sua figura, prelato di caratura eminentemente emiliano-romagnola, bolognese), la sua pratica di scritture dettate dal Papa, di lettere ugualmente dettate dal Papa, di lettere scritte da lui a personaggi importanti come i prelati di Francia, a quel clero perseguitato, al «Monarca prigioniero» (si abitua, insomma, ad attraversare le difficoltà riservate alla Sede di Pietro dalla Rivoluzione francese). Alle pp. 1213 viene ricordata l’opera civile e di assistenza da parte di Pio VI verso lo Stato pontificio, la costruzione di ospedali e di asili, l’incremento delle strade e delle comunicazioni, i porti restaurati, l’abolizione dei pedaggi, l’introduzione di «manifatture», ovvero fabbriche, nel Lazio, in Umbria, nelle Marche, in Romagna: l’agricoltura si risolleva (pp. 13-14); a p. 14 è ricordata la bonifica delle paludi pontine, a proposito della quale (alle pp. 16-17) viene tessuto un vero elogio, tale da coinvolgere la zona stessa della bonifica: a p. 16, Erskine considera l’impresa addirittura superiore alle piramidi egiziane e al «colossale anfiteatro di Vespasiano»; alla p. 18 il prelato scozzese ricorda la promozione del Museo Vaticano. Alle pp. 20-22 sono rammentati l’omaggio e le visite politiche, a regolamentazione del proprio comportamento con i rispettivi sudditi cattolici, da parte di principi e di sovrani di tutto il mondo: Giuseppe e Leopoldo di Germania, Gustavo di Svezia, Ferdinando delle Due Sicilie, i fratelli e i figli del re inglese ai cui sudditi il Cardinale Erskine si rivolge, lo zar Paolo I di Russia. Pio VI fu anche consultato e dette pareri a Caterina di Russia, a Federico di Prussia, ai «primi Legislatori dell’indipendente America» (p. 23). Rammentata anche la difesa contro Napoleone, l’Usurpatore (p. 25), si celebra quindi il grande zelo missionario in tutti i paesi, anche quelli esotici, tramite giovani che il Papa faceva venire a Roma e che legava a sé. Alle pp. 29-30 vengono rievocati il viaggio in Austria, il viaggio in Germania, le relative acclamazioni; le pp. 32-43 risultano tutte specificamente dedicate alla lotta di Pio VI contro la Rivoluzione francese: sullo sfondo, l’empietà ed il laicismo napoleonici, tratteggiati con tinte apocalittiche, infernali, demonizzanti: e pensare (come accadrà di dire anche a Carlo Antici) che la Francia è stata terra così capace di Luminari della cattolicità. Alle pp. 46-50 vi è l’elogio dell’Inghilterra, elogio formulato da Erskine senza problemi di coscienza riguardo al colonialismo: i Britanni hanno accolto gli esuli, anche appartenenti a paesi che erano loro rivali, e poi hanno accolto, in qualche modo, anche il «Mostro», Napoleone, mai nominato direttamente. L’Inghilterra è rimasta sola a combattere contro Napoleone, e
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questo, per Erskine, è il suo titolo di maggior gloria, più ancora delle battaglie. Alle pp. 51-55, infine, è ricordata la presa di Roma e del Pontefice. Poi, nella Miscellanea, vi è, a cura di FRANCESCO CANCELLIERI, la serie di Notizie della vita e delle miscellanee di Monsignor Antonio Tioli, Pesaro, Annesio Nobili, 1826, pp. 1-160, ricco di citazioni erudite di miscellanee e di documenti, e d’esempi di opere, di Monsignor Tioli; alle pp. 3-4, la dedica al «reverendissimo padre don Alessandro Gozzi abate della canonica del SS. Salvatore di Bologna»; Francesco Cancellieri figura come «Prosigillatore della sacra penitenzierìa e soprantendente [sic] della stamperìa della s. c. di Propaganda Fide»; ecco gli estremi esatti della pubblicazione: Notizie della vita e delle miscellanee di monsignor Pietro Antonio Tioli nato in Crevalcuore… raccolte da FRANCESCO CANCELLIERI con i catalogi [sic] delle materie contenute in ciascuno de’ 36 volumi lasciati alla biblioteca del SS. Salvatore de’ canonici lateranensi di Bologna, Pesaro, coi tipi di Annesio Nobili, nell’anno 1826, 160 pp., in «8º». Da p. 92, lo «Zibaldone di materie scientifiche e letterarie», titolo dato da Cancellieri. 75 Si cfr., in STELIO ZEPPI, Il pensiero religioso nei presocratici. Alle radici dell’ateismo, Roma, Edizioni Studium (collana «La dialettica», n. 16), 2003, la dialettica interna allo stesso Socrate (ovvero alla figura che ce ne rende Platone, soprattutto nei dialoghi giovanili) fra teocentrismo ed antropocentrismo, fra sapienza come rivelazione derivata dagli dèi e sapienza come conquista che è frutto di virtualità e di fatiche puramente umani. Tra divinità e ragione dell’uomo finisce per stabilirsi un legame collaborativo: «Divino e umano, dunque, si congiungono indissolubilmente […] nel generare gli imperativi che forniscono al vivere la sua dignità e la sua ragion d’essere» (p. 25). E tra i filosofi che mantengono, pure ciascuno con la propria struttura e con le proprie caratteristiche di speculazione, l’impostazione tradizionalistica teocentrica, si trovano anche Empedocle e Democrito, grandi rappresentanti del pensiero greco che sotto altri profili vengono non a caso rubricati nei ranghi del materialismo; si vedano i seguenti versi di Empedocle, dal secondo libro del Poema fisico, 32-33: «Beato chi si è procurata la ricchezza dei precordi divini, / misero è colui che intorno agli dei conserva una buia credenza. // Perché non è davvero possibile avvicinare (la divina essenza) / dentro agli occhi / nostri, oppure afferrarla con le mani in questo modo, / con cui larghissima / discende, per gli uomini, la strada della convinzione fino all’animo» (EMPEDOCLE, Incerti Physicorum Libri Fragmenta, in ID., Poema fisico e lustrale, Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di CARLO GALLAVOTTI, Milano, Mondadori – I edizione Oscar «Classici Greci e Latini», n. 37 [Fondazione Lorenzo Valla, 1975] –, 1993, pp. 40-41. Viceversa, sarà possibile, ad esempio nell’ottica di un Sebastiano Timpanaro, modificare in buona parte le vulgate “classificazioni” invalse su Cicerone, autore e pensatore che ha in realtà avuto una funzione non puramente eclettico-divulgativa con il suo studio della filosofia greca e con le sue opere di rielaborazione platonica, aristotelica, stoica e neoaccademica, e che può anzi accampare consistenti benemerenze proprio in chiave di illuminismo neoaccademico e di pragmatico scetticismo sulla religione, tanto da acquisire e valorizzare in misura più che apprezzabile, in particolare nella sua trilogia filosofico-religiosa (De natura deorum, De divinatione, De fato), il probabilismo antidogmatico di Carneade: si cfr., appunto, MARCO TULLIO CICERONE, Della divinazione (De divinatione), Introduzione, traduzione e note di SEBASTIANO TIMPANARO, Milano, Garzanti («Grandi Libri Garzanti», n. 360), 1988 (rist.: 1991; edizione riveduta e aggiornata: 1998; ristt.: 1999, 2001); ci permettiamo rinviare, su questo argomento, alle pagine appositamente dedicate, qui sopra, I capitolo, nel nostro L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro. 76 Su Augustin Barruel De La Beaume (Villeneuve de Berg, Ardeche, 2 ottobre 1741-Parigi, 5 ottobre 1820) si cfr. GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., passim. Possono risultare utili le Annotazioni Critiche sull’Opera intitolata Barruel = Il Papa e i suoi diritti, Biblioteca Vallicelliana, Mss. R. 79, 3 voll., I, pp. 301-345. Ci si riferisca al t. I: Trattative per il Concordato di Francia del 1801; in queste Annotazioni manoscritte si trova citato per esteso l’AUGUSTIN BARRUEL di Sul Papa e i suoi diritti religiosi, «Genova, 1803, Tom. II, Cap. 4, Quarta Epoca = pregiudizio», con riferimento alle pretese di confutazione della sua opera, e con una difesa contro tali annotazioni, in piena controdeduzione effettuata in chiave, in questo caso, antigallicana, e, ovviamente, filoromana e cattolico-papista. L’opera barrueliana fu infatti oggetto d’una vera contesa internazionale, fatta di sconfessioni e di apologie, di smentite e di difese (Blanchard, ad esempio, ne stese tre confutazioni; PIERRE BLANCHARD, lo si ricordi, è anche autore Le Plutarque de la jeunesse, ou Abrégé des vies de plus grands hommes de toutes les nations, 4 voll., Paris, Le Prieur, 1804; prima traduzione in italiano: Prato, Vestri, 1816). Nell’Articolo Primo (pp. 304-310) si dice fra l’altro (riproduciamo la situazione manoscritta, nella sua realtà accentuativa e interpuntiva, e con lo stile sottolineato): «[…] dunque la temporale [Podestà] in nulla dipende
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dalla Spirituale; e ciò è dottrina Eretica. / Pag.a 94 Segg.e Pretende l’A. [l’autore di una di queste confutazioni; forse lo stesso Blanchard], che i Dottori di massime a Lui contrarie, i quali confutano le proposizioni Gallicane vogliano assoggettare a Pietro, ed alla Chiesa i Scettri, ed i diritti temporali della pubblica Società: giammai ciò si volle, e l’A. poi confonde: non si pretende di assoggettare ai Romani Pontefici, ed alla Chiesa i Troni, mà sibbene Le Persone, che vi sono assise, e perciò si dichiara di difendere La Podestà indiretta, con cui privandoli dei Troni le Persone meritevoli, indirettamente si viene ad influire nel Trono, perché si spogliano i Sedenti del loro commando sù i Troni. Questa podestà si sostiene nei casi, in cui per un Sovrano persecutore della S. Religione Cattolica, o Eretico, il quale voglia, e tenti colla forza di corrompere L’Ovile di Gesù Cristo, e non possa ritenersi colla sola Scommunica, che disprezza, non siavi altro rimedio, se non se il privarlo del Trono. Se ciò non potesse il Papa, e la Chiesa actum esset de salute Spirituali gregis Dominicis [sic; lapsus per «Dominici»], e non vi sarebbe riparo, onde si direbbe che G. C. non abbia provveduto a più terribili casi, e mali della sua Chiesa, s’aggiunga, che un Sovrano Cattolico, che monta sul Trono, come cattolico, e giura nel suo avvenimento al Trono, di conservare La S. Religione, se a questo manchi, perde la sua Sovranità, mentre a Lui si conferisce sotto tacita condizione, finché, e purché mantenga La fede data, di non violare La Religione medesima; e quantunque non prestasse tal giuramento, pure s’hà da intendere sempre la sua esaltazione alla Monarchia colla detta tacita condizione. Quindi se il Papa assolvesse i Sudditi dal giuramento di fedeltà, non già privarebbe il Monarca del suo Scettro, mà come Capo della Cattolica Comunione dichiarerebbe, che si fece Luogo alla rescissione dè patti in sì fatta guisa condizionati frà il Sovrano, ed i Sudditi, e perciò decade il Principe dalla sua Monarchia». A p. 314 è citato Bossuet: «[…] nell’opera Defensio declarationis Lib. 11 Cap. 16, dice Bossuet: “Neque vero putent, a nobis constituta Canonum auctoritate, dispensationes esse sublatas; Absit. Has enim nemo Catholicus veri regiminis sciens, aut rerum Ecclesiasticarum gnarus abstulerit”» (pp. 314-315). Non mancano, pp. 331-332, critiche allo stesso Bossuet, quando sembra inclinare a credere che i cattolici spesso realmente non ascoltavano il parere del Papa, né manca un riferimento ad Ignazio di San Paolo, al secolo George Spencer, passionista (Londra 1799-Carstair, Scozia, 1864), dapprima ministro anglicano, convertitosi al cattolicesimo (1830), divenuto sacerdote nel 1832 (nel 1846 la scelta di divenire, appunto, passionista), dedito alla predicazione in patria e fuori, nella promozione di una «crociata di preghiere per il ritorno dell’Inghilterra all’unità della fede»: una personalità religiosa che contribì attivamente alla rinascita cattolica inglese. Tutto il manoscritto ha il proprio focus nella continuità della trasmissione a S. Pietro, e da San Pietro ai successori, dell’infallibilità, del potere decisionale direttamente rampollato a lui (il Privilegium Petri): a Pietro e non ad altri Apostoli. In questo senso, una concezione assolutamente centralizzatrice. Alla p. 340 vi è la citazione del tomo XVI della Storia universale di JACQUES HARDION, che si riferisce al Concilio Generale Lateranense IV, canone III: significativamente, ci si riferisce all’epoca del 1214, di Innocenzo III, sul potere di «scommunicare» i Signori temporali che non avranno, anche ammoniti, perseguìto gli eretici; si cita a tal proposito anche Fleury. Cfr., recentemente, AUGUSTIN BARRUEL, Gli Illuminati di Baviera. Una setta massonica del Settecento tra congiura e mistero, Introduzione di DANIELE SIRONI, Milano, Mondadori («Oscar varia»), 2004 (riproduzione in facs. parziale dell’ed. Carmagnola, Barbié, 1852 (in origine, faceva parte del vol. II di Storia del giacobinismo); per pubblicazioni precedenti, si vedano: Massoneria e illuminati di Baviera. Storia del giacobinismo, Prefazione di ALBERTO CESARE AMBESI, Carmagnola, Arktos («I classici della tradizione», n. 2), 1989; edizioni ottocentesche: Storia del clero di Francia in tempo della rivoluzione, tradotta dal francese con note e appendice, edizione per cura de’ compilatori della Biblioteca Cattolica, Napoli, all’Uffizio della Biblioteca cattolica («Biblioteca Cattolica», n. 45), 1859; Memorie per servire alla storia del giacobinismo, 2 voll., Roma, Tip. Poliglotta Della S. C. Di Propaganda Fide («Collezione di opere storico-polemiche»), 1887; Storia del Clero in tempo della rivoluzione francese, tradotta dal francese, con note ed Appendice, dall’abate GIULIO ALVISINI, Roma, Tip. Poliglotta Della S. C. Di Propaganda Fide, 1888 (nella stessa «Collezione di opere storico-polemiche» prima citata era uscito, l’anno precedente – 1887 –, il Discorso sulla storia universale di «GIACOMO BENIGNO BOSSUET»). Su Barruel cfr., ancora, la citata opera di PELLETIER, Rome et la Révolution Française, in part. pp. 33 e 250 e relative note, sull’Histoire du clergé de France pendant la Révolution, sulle sue edizioni italiane (Ferrara, 1794 e Roma-Torino, 1795: Storia del clero di Francia in tempo della Rivoluzione… tradotta dal francese con note e appendice), sul problema dell’attribuzione o meno a Barruel dell’Histoire civile, politique et religieuse de Pie VI, écrite sur des mémoires authentiques par un français catholique romain, Paris, 1801; ma dell’Histoire du clergé de France pendant la Révolution risultano altre edizioni italiane: si veda Storia del clero in tempo della Rivoluzione Francese. Opera dedi-
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cata alla Nazione Inglese dall’abate Barruel elemosiniere di Sua Altezza Serenissima la Principessa di Conti, Tradotta dal francese con note e appendice dall’abate GIULIO ALVISINI di Farfa rettore del Pontificio Collegio Gregoriano di Roma, 3 tomi, Roma, Stamperia di Giuseppe Zempel, 1794 (i principi Conti lo ospitavano in Inghilterra, dove essi si erano rifugiati in séguito alla Rivoluzione; sugli emigrati e la loro azione in Inghilterra, e sul successo delle opere di Barruel, cfr. anche GEORGES LEFEBVRE, La Rivoluzione francese, cit., p. 681); l’opera sul Papa e sui suoi diritti era intitolata Du Pape et de ses droits religieux à l’occasion du Concordat, 2 voll., Paris, Crapart, Caille et Ravier, 1803. Come bibliografia recente su Barruel, cfr. P. BIANCHINI, Religione e politica in Augustin Barruel (1741-1820), 2 voll., tesi di laurea discussa nell’Università di Torino, 1996; ma cfr. anche M. RIQUET, Augustin de Barruel, un jésuite face aux jacobins franc-maçons 1741-1820, Paris, 1989. A ricordare le discussioni dell’epoca sulla legittimità delle pretese papali, si rammenti anche la Misc. Vallicelliana (della Congregazione dell’Oratorio Ruggiero Falzacappa) S. BORR. F. VI. 173 (2), pp. 2-41; prima vi è (pp. 3-45, in numerazione autonoma d’inserto nell’àmbito della stessa miscellanea) il Breve del Sommo Pontefice Pio VI Alli arcivescovi, e vescovi Gallicani esuli nell’Inghilterra. Si premette una loro lettera al Sommo Pontefice Ambedue tradotti in italiano Nuova edizione (il Breve è scritto dalla Certosa di S. Cassiano presso Firenze il 10 novembre 1798). Quindi, vi sono appunto gli Annali cattolici che servono per conoscere le pretenzioni affacciate già dal Direttorio di Francia contro il Sommo Pontefice Pio VI; a p. 3 si riconosce una «larva di ragione» alle «truppe repubblicane francesi» per avere invaso, a suo tempo, lo Stato Pontificio; si parla, in séguito, d’un ms. inedito, comunicato da «ragguardevole personaggio», e di incognito autore; si allude alla controversia sorta tra la Francia e il Papa sui «Brevi» pontificali: essi offenderebbero il diritto delle genti. Qui si sostiene che non vi è parola, e gli “avversari” non l’hanno saputa citare, che Pio VI (il “grande Pio VI” nell’ottica martiriale nella quale appare la sua figura, non soltanto ai cattolici di quel periodo storico) abbia in tal senso usato nei suoi «Brevi». Alle pp. 12-13 viene citato, in nota (a), il primo Breve del Papa del 10 marzo 1791, p. 16: «Verumtamen quae de obedientia legitimis potestatibus debita assensimus, nolumus eo accipi sensu, ut a nobis dicta fuerint animo impugnandi novas civiles leges, quibus rex ipse praestare potuit assensum, utpote ad illius profanum pertinentes regimen, ac si per nos eo consilio allata sint, ut omnia ad pristinum civilem statum reintegrentur, iuxta quorundam calumniatorum evulgatas interpretationes, ad conflandam religioni invidiam; cum re vera nos, vosque ipsi id unum quaeramus, atque urgeamus, ut sacra jura ecclesiae, et apostolicae sedis illaesa serventur». La polemica antifrancese si rende dunque intensa (ed è anche contro questa linea della cultura francese che si batte Barruel): ben lontano dall’identificarsi nei Brevi papali, il problema va invece riferito alle esperienze scismatiche che hanno scristianizzato tutto lo Stato. Non è con la revoca dei Brevi, insomma, che si può risolvere la questione; viene a questo proposito ricordata la pronuncia pontificale del 24 gennaio 1791: «noi non lo possiamo», un Non possumus non certo privo d’altri esempi nella storia della Chiesa, a sottolineare l’impossibilità, per il Papa, di non difendere le prerogative ed i diritti acquisiti dalla Santa Sede. Alle pp. 37-39, nella nota (c), vi è la citazione del «gran vescovo», Jacques-Bénigne Bossuet, della sua giustificazione del potere temporale del Papa come garanzia di libertà per lo stesso Papato; e viene rammentato il Discorso sopra l’unità della Chiesa tenuto nell’apertura dell’assemblea del 1682, ripreso da FLEURY nel IV Discorso sopra la gloria ecclesiastica (il Fleury sarà sempre molto citato, nella letteratura dell’Ottocento, dagli autori che si occuperanno di storia della Chiesa; si cfr., ad esempio, nell’Arnaldo da Brescia di GIOVAN BATTISTA NICCOLINI, la citazione che l’autore ne fa nelle ricche note esplicative alla tragedia: si vedano infatti le nn. 35, 37, 42, 45, 61, 68, 123, 134, 163). La figura centrale nelle discussioni su quegli anni, o sui problemi e sulla riflessione riguardo ai diritti del papa, rimane sempre quella, in chiave di costante oggetto d’esaltazione, di Pio VI. 77 Alla fine dell’ed. 1827, nella miscellanea vaticana, vi è la scritta: «Imola Li 13 Maggio 1827 / VISTO ED APPROVATO PER LA STAMPA / F. CANONICO SCARABELLI REV. ECCL.», ed altre precisazioni editoriali. Rilegato con l’estratto su Sambuga, un «Estratto dal Mem. Cattol.», pp. 1-10. È una difesa, contro un concetto egoistico e opportunistico della «moderazione», dei «fanatici», dei profeti d’ogni tempo che hanno previsto le degenerazioni; interessante (pp. 4-5) la citazione del padre francese Beauregard, che tuonava accorato per la Francia, paventando un’imminenza storica scristianizzante e rivoluzionaria. Nella stessa miscellanea, immediatamente successivo, ANONIMO, L’eloquenza moderna del pulpito, «opuscolo dedicato alla santa sede apostolica ed ai vescovi cattolici, Firenze, presso la libreria Bolli in Condotta [Via della Condotta]», 1836. A suo modo scorrevole e “moderno”, come ratio prosastica, infiammato, ma scrittoriamente limpido libello contro la predicazione moderna, fatta a somiglianza di quella laica, tesa quasi a riscuotere applausi come accadrà alla Pasta ed alla Malibran in
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teatro. Nella stessa miscellanea, le più tarde Relazioni di alcuni martirj accaduti nel Tonkino, Roma, dalla Tipografia Gismondi, 1840 (pp. 1-8); protagonista la «Opera pia della propagazione delle fede». Si enumerano i missionari sacrificati sull’altare delle fede: il missionario Giovan Carlo Cornay morì il 20 giugno 1837, Francesco Saverio Cari due mesi dopo, monsignor Delgrado e Monsignor Henares nel maggio 1838; si ricorda anche, a questo proposito, il Tribunale della Provincia di Kien Lao; ancora, l’enumerazione prosegue (16 luglio 1838) con Padre Fernandez Francesco Chien, con Pietro Tuan, con Giuseppe Uyen, con Vincenzo Yen, indigeni, con Bernardo Due, con Giuseppe Nien, con molti altri del luogo. Alla fine, p. 8, si richiede un generoso contributo economico ai fedeli per poter sovvenzionare le attività missionarie, e i «buoni credenti» che hanno pagato «possono a diritto chiamarsi consocj delle passioni che quegli atleti della Fede hanno a onor di Cristo, e della Madre comune la Chiesa invittamente sostenuto». Nella citata miscellanea della Vallicelliana, VI. 1. H. 20 (3), tom. LIX (1824-1827), si ha invece, dopo l’Oraison funébre per Luigi XVIII di Borbone Francia, ma sempre significativamente accompagnato alla traduzione saileriano-sambughiana di Carlo Antici, un’interessantissima lettera di un anglicano a un gallicano, scritta, a tutto vantaggio del destinatario, in francese (per la traduzione italiana, in quegli anni, cfr. Lettere di un anglicano ad un gallicano, nella prima versione italiana realizzata dall’abate ROHRBACHER, Imola, Galeati, 1826). La confessione protestante, o l’eventuale approdo ad essa, vi è concepita come progresso negli studi di teologia: il protestante è un cristiano credente che, rispetto al cattolico, accetta, ed anzi desidera lo studio dei testi sacri, e appunto della teologia, e che compie in tal senso il proprio percorso; il gallicano è visto, da questa prospezione inglese (anche se qui espressa in lingua francese) quasi come un confratello, come un sodale religioso dell’anglicano nel comune itinerario di allontanamento da Roma e di non coincidenza con la relativa religiosità; solo che il gallicano, rispetto allo stesso anglicano, ha compiuto solo fino a metà il proprio tragitto spirituale, filosofico-culturale e teologico, e l’anglicano può allora, per così esprimersi, attenderlo con complice benevolenza sull’altra sponda della Manica, perché solo nel protestantesimo può approdare un cammino di studio e di riflessione sui rapporti tra potere spirituale e potere temporale come lo è quello intrapreso dai gallicani (meglio ancora, sembra sottintendere l’anglicano, se il gallicano sceglierà, tra le sétte del protestantesimo, proprio quella derivata dallo storico atto di rottura da parte di Enrico VIII). Si veda qualche specimen di questa lettera della miscellanea vallicelliana, e se ne tenga presente il finale, che, ricordando la disinvoltura di procedure per giungere al Concordato da parte di Napoleone e di Pio VII, insiste sull’atteggiamento interessato d’una Chiesa gallicana francese tutt’altro che coerente e incorruttibile, nel momento in cui si cancellava d’un tratto la tradizione storica di alcuni importanti provvedimenti dell’Assemblea Nazionale; e, a maggior persuasione, si ricordano esattamente i nomi che hanno contribuito in modo determinante al processo storico allora in atto, quello delle conversioni, o degli avvicinamenti al cattolicesimo: dal tentativo conciliatore del luterano Leibniz (ad imprescindibile precedente storico-culturale) all’apertura storiografica del presbiteriano Robertson (oggetto di particolare e non casuale passione da parte di Antici), dal calvinista e repubblicano Haller al citato (e anch’egli convertito) Pierre de Joux De La Chapelle: tutti i nomi, si diceva, che formano la costellazione intellettuale, religiosa e culturale di Carlo Antici e degli altri intellettuali cattolici, non certo solo italiani, che sono protagonisti sulle pagine dei periodici della Restaurazione, e, poi, dello Stato pontificio negli anni 1830: Lettres d’un Anglican a un Gallican, pp. 1-111, À PARIS, À LA LIBRAIRIE CLASSIQUE, RUE DE PAON, n.. 8, ET AU BUREAU DE MÉMORIAL CATHOLIQUE, RUE CASSETIE, n.. 35, 1826. Alla p. 2 la premessa: «Depuis long-temps, Monsieur, vous m’engagez à quitter la réforme de Henri VIII, pour embrasser le christianisme de Bossuet»; quindi, citando la «Revue protestante» du mois de mai 1826, pag. 240, «Nous savons […] avec les évangéliques rédacteurs de la «“Revue protestante” […] que les catholiques, dits éclairés (c’est-à-dire les gallicans) qui ont recuelli, exploité et enrichi l’héritage des anciens jansénistes, sont des protestants qui n’ont fait que la moitié du voyage; nous les attendons; ils viendront à nous un jour». Ancora, alle pp. 2-3: «D’abord, ces variations qu’on reproche aux protestants comme une marque certaine de l’erreur, et qui ne sont au contraire que le diverse phases du perfectionnement progressif des sciences religieuses, je le découvre parmi les gallicans comme parmi les anglicans. […] vous avez enfin le bonheur de sortir de l’état stationnaire où vos esprits étoient retenus depuis si long-temps par le joug suranné de l’autorité romaine, et de respirer enfin l’esprit de liberté qui convient aux vrais disciples de Christ. Ce qui augmente ma joie, c’est que ces variations de notre soeur, l’Église gallicane, ne roulent pas uniquement sur des questions peu importantes, mai bien sur les matières les plus fondamentales: comme par exemple la source et l’étendue de la souveraineté temporelle, la source et l’étendue de la souveraineté ecclésiastique, la règle de la foi et des moeurs. De plus, les apôtres de la perfectibilité
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ascendante du système religieux en France, ne sont pas des personnages inconnus ou de peu de consideration, mais les docteurs les plus célèbres, d’illustres prélats, enfin les assemblées du clergé gallican». Dopo aver mostrato i passaggi dalle assemblee nazionali del clero di Francia del 1625, del 1635 e del 1682 (l’ultimo aveva limitato i poteri papali alla pura sfera spirituale, ed aveva semmai legato il popolo al sovrano, subordinando la conferma dell’autorità papale all’operato del Pontefice, al quale in definitiva l’investitura veniva dal popolo stesso; la Dichiarazione si trova ora riprodotta in GÉRARD PELLETIER, Rome et la Révolution Française, cit., pp. 541-542: Déclaration du clergé de France, touchant la puissance ecclésiastique, du 19 mars 1682; segue, nello stesso volume, il Décret de l’Assemblée Nationale sur la Constitution civile du clergé – 12 julliet 1790 –, pp. 542-550), l’autore scrive: «En 1801, sous le consulat de Buonaparte, depuis l’empereur Napoléon, Pie VII, d’un seul coup, renverse toute l’èglise gallicane et la recrée de nouveau: d’un trait de plume il efface tous les sièges épiscopeaux de France, avec tous leurs privilèges, et il en établit d’autres. Trois ans après, il vient à Paris sacrer Buonaparte empereur». Due conseguenze: la «bulle» di Pio VII «étoit une violation complète de toutes leurs maximees et de toutes leurs usages»; «Ensuite, après avoit tant répéte depuis 1682 que la puissance temporelle est absolument indépendante de l’èglise et de son chef, et que jamais, sous aucun prétexte, les sujets ne peuvent être absous du serment de fidélité; en 1801 et 1804, parce qu’il voient le Pape faire un concordat avec Buonaparte, le sacrer empereur, ils se regardent comme dégagés de leur serment de fidélité envers la famille de Louis XVI, et autorisés à la prêter en sureté de conscience à une autre dynastie». Alla p. 109 è citato «le calviniste et le republicaine de Haller», poi convertitosi al cattolicesimo: «Ah! Monsieur, ne voyez-vouz pas que si ces écrivains philosophes alloient se persuader avec le luthérien Leibnitz, le presbytérien Robertson, le calviniste et républicaine de Haller [convertitosi], le président du consistoire réformé, Pierre de Joux [de la Chapelle], le radical W. Cobbet, que ce pouvoir spirituel […] se trouve tout fait dans l’Église catholique et dans la Monarchie pontificale […] ne voyez-vous pas qu’il se feroient aussitot chrétiens et que la Monarchie de l’éveque de Rome pourroit devenir aussi puissante que jamais?». Non è per nulla fortuito che la Lettre si concluda con una celebrazione (pur condotta, come si è visto, da appartenente ad altra confessione), della crescente seduzione, della ripresa del cattolicesimo e dei riti di Roma, come confermano le tangenze cattoliche degli intellettuali citati, quando non si tratti, appunto, di vere e proprie conversioni, che da parte loro si sono dimostrate capaci di grande impatto e di riscontro culturale e religioso in tutto il mondo cristiano, non solo europeo. Nella stessa miscellanea, la SANCTISSIMI DOMINI NOSTRI LEONIS DIVINA PROVIDENTIA PAPAE XII. ALLOCUTIO HABITA IN CONSISTORIO SECRETO DIE XVII. SEPTEMBRIS MDCCCXXVII. ITEM CONVENTIO INTER SANCTITATEM SUAM, ET SERENISSIMUM BELGARUM REGEM, NEC NON LITTERAE APOSTOLICAE QUIBUS EADEM CONVENTIO CONFIRMATUR ET EXPLICATUR Romae MDCCCXXVII, EX TYPOGRAPHIA REV. CAMAERAE, 1-15. Si tratta d’un altro importante successo cattolico, consistente nell’estensione alle province del Belgio settentrionale («non australes dumtaxat […], sed boreales etiam belgici Regni provincias») delle normative cattoliche valide senza riserve per la parte meridionale del paese, insomma per l’area vallona, latino-romana, nella tradizione culturale dell’adesione religiosa. L’inserto della miscellanea ha un’introduzione latina, poi testo a fronte latino e francese; Mauro Cappellari (il futuro Papa Gregorio XVI) figura Plenipotenziario del Papa. Il re è Guillelmus I (Guillaume I-er). A p. 3, dopo l’allusione a «qui tum in Gallia rerum potiebatur», Napoleone, Leone XII dice: «Primus articulus ita se habet: nova Conventio non australes dumtaxat, sicut illa PII VII, sed boreales etiam belgici Regni provincias complectetur. Altero articulo statuitur unamquamque belgicam Dioecesim Capitulo decorandam, & Seminario instruendam esse. Tertius demum articulus fert, ut quoties Archiepiscopalis, aut Episcopalis Ecclesia vacaverit, ejusdem Ecclesiae Capitulum rite congregatum ad novi Antistitis electionem procedat, quae tamen a summo Pontifice confirmanda erit […]». Controfirme: il «Card. Pacca Pro Datarius». Il fervore di religione cattolica nel clero belga è confermato, ad esempio, in Misc. Legata 315 (Biblioteca Alessandrina, Roma) dal Compendio della vita dei ventitre martiri giapponesi dell’ordine di S. Francesco del P. BENIGNO FREMAUT, francescano recolletto della provincia del Belgio, libera versione dal francese del P. AGOSTINO DA OSIMO M. O. fatta per la circostanza della loro solenne canonizzazione, Roma, Tipografia Tiberina, 1862 (vi si nomina, fra le altre città, «Nangasaki» [sic]). Sulla questione religiosa in Belgio, e sulla lotta dottrinale fra la curia romana e la cattolica Università di Lovanio, una lotta che si è protratta lungo tutti i decenni centrali dell’Ottocento (1834-1870) coinvolgendo anche la riflessione critica sul pensiero di Lamennais, cfr. l’importante, già citato volume di JOHAN ICKX, La Santa Sede tra Lamennais e Tommaso D’Aquino, un volume che, come si è detto, è esattamente centrato sulle controversie intercorse tra Roma e la viva e complessa realtà
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cattolica belga, molto presente, quest’ultima, nelle pagine delle riviste dell’epoca, e riguardante appunto, in particolare, il centro universitario di Lovanio, i suoi studiosi, i suoi teologi e i suoi docenti. Ma si ricordi, come testimonianza d’epoca a questo proposito, nella «Voce della Verità» di Modena, n. 490, 23 settembre 1834, il contributo redazionale Labia sacerdotis custodient scientiam, p. 901: vi si allude alla fondazione da parte dei vescovi del Belgio d’una scuola speciale «d’alti studj Teologici» per i migliori e «più ragguardevoli» seminaristi, a Malines, e si esibisce un brano della conferma papale di Gregorio XVI. 78 I discorsi tenutisi nell’Accademia di Religione Cattolica di Roma continueranno ad avere notevole eco, anche in anni più tardi; si cfr., ad esempio, in «Annali delle scienze religiose», IX, 26 (settembreottobre 1839), pp. 271-283: sotto il titolo di Accademia di Religion Cattolica, si riproduce il discorso del cardinale GIUSTINIANI del 23 maggio 1839. Ma le “Accademie” di Religione Cattolica registrano, nel corso dell’Ottocento, una presenza molto frequente; si vedano ad esempio: Discorso d’introduzione recitato nella sala dell’Accademia di religion cattolica in Roma il dì 16 febbraro 1805, In Imola, dalla Tipografia Galeati, a spese della Societa de’ Calobibliofili, 1828, con il sottotitolo Sopra la utilità di conoscere la letteratura teologica e religiosa delle altre nazioni cristiane; Accademia di religione cattolica, sotto gli auspici di Gregorio 16 pontefice massimo felicemente regnante, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1836; Accademia di religione cattolica, Roma, Tip delle belle arti, 1837; Accademia di religione cattolica, Roma, Tip. delle belle arti, 1838; Accademia di religione cattolica, sotto gli auspici della santità di nostro signore Leone 13, Roma, Tip. poliglotta della S. C. di propaganda Fide, 1880 (molti dei volumi monografici che compongono la serie di “Accademie” si trovano nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna). 79 La presenza di Sant’Agostino è sempre frequente in questo tipo di pubblicistica, una pubblicistica che, peraltro, appare più orientata, complessivamente e secondo logica previsione, su un’impostazione tomistica; si veda, quattordici anni dopo il Discorso del marchese, l’eco della tematica del male e dell’ingiustizia nel mondo in un’ennesima pubblicazione di Galeati, il citato, rosminiano Della Divina Providenza nel governo de’ beni e de’ mali. Sui Cristiani che lottano, che soffrono e che gioiscono, in mezzo ad una vicenda di bene e di male che è concepita in modo che ogni avvenimento, anche se negativo, concorra, in nome dell’amore per Cristo, al bene e alla sua affermazione, cfr. AGOSTINO, La città di Dio (De civitate Dei), Traduzione e note a cura di C. BORGOGNO, Introduzione e revisione a cura di A. LANDI, Alba, Edizioni Paoline, 1973, l. XVIII, LI, 1, p. 1115-1117; questo tratto testuale del De civitate Dei è dedicato anche alla letizia dei cristiani per le conversioni, tematica vicinissima agli interessi ed alle sollecitazioni personali evidenziati dalle scelte editoriali e pubblicistiche di Antici: «Coloro […] che nella Chiesa di Cristo sostengono qualche dottrina falsa e pericolosa, e, ripresi perché ritornino alla sana e retta dottrina, resistono ostinatamente, né vogliono correggere le loro teorie pestifere e mortali, ma persistono nel difenderle, diventano eretici; allora sono esclusi dalla comunione dei santi e la Chiesa li riguarda come nemici che la mettono alla prova. Ma anche con il male che essi fanno, diventano utili ai cattolici, vere membra di Cristo, poiché Dio si serve anche dei cattivi per il bene: Tutte le cose cooperano al bene per quelli che lo amano [SAN PAOLO, «Ai Romani», 8, 28]»; «Grandi consolazioni sono infine causate ai fedeli dalle conversioni degli erranti. Esse riempiono le anime dei buoni di tanta gioia quanti furono i dolori che li afflissero per la loro perdizione. / Così in questo mondo, in questi tristi giorni, e non solo dal tempo della vita terrena di Cristo e dei suoi apostoli, ma dallo stesso Abele – il primo ucciso dall’empio fratello – fino alla fine di questo mondo, la Chiesa percorre la sua via peregrinando tra le persecuzioni degli uomini e le consolazioni di Dio» (ivi, 2, p. 1117). 80 Cfr. FORTUNATO CAVAZZONI PEDERZINI, Sei libri di san Giovanni Grisostomo intorno al sacerdozio, già citato qui sopra, I cap., n. 19 (i Discorsi sono volgarizzati dall’erudito modenese con note di vari autori); nell’Annuncio bibliografico delle pp. 303-304 delle «Memorie di Religione» di Modena (1837) viene nominato Don Celestino Cavedoni, in un suo contributo su quest’opera apparso nella «Voce della Verità», sempre di Modena, nel n. 1006 (cfr. Indice ragionato dei primi dodici volumi delle «Memorie di Religione di Morale e di Letteratura»). Sulla tipografia Soliani di Modena, importante punto di riferimento per molti intellettuali cattolici, sede di pubblicazione, in quegli anni, delle «Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura» e di molte altre realizzazioni, in monografia e in periodico, e altresì sede editoriale di lunga tradizione della cultura cattolica emiliano-romagnola, cfr. il documentatissimo volume Lavori preparatori per gli Annali della Tipografia Soliani, a cura di ERNESTO MILANO, Introduzione (pp. XI-LXXII) dello stesso ERNESTO MILANO, collaboratori alla ricerca: ANNALISA BATTINI e ANNA ROSA PO, Modena, Mucchi («Società e Cultura nel Settecento in Emilia e Romagna. Studi e ricerche»), 1986. La pubblicazione comprende, per precisa scelta cronologica e qualitativa, gli anni dal 1646, data della prima edizione dei torchi Soliani, al 1799; ne è auspicabile
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una prosecuzione fino al 1870. Nel volume, che pure giunge, ufficialmente, solo a lambire l’epoca che qui interessa, è possibile riscontrare, in modo accuratamente censito, il complesso della multiforme attività e l’espressione della ricca gamma d’interessi culturali non soltanto accolti come proposta editoriale, ma anche attivamente rielaborati dalla stessa tipografia Soliani nel campo delle lettere, della filosofia, degli studi religiosi, degli studi scientifici, dei molteplici coinvolgimenti negli àmbiti musicale e teatrale. Gli strumenti di consultazione offrono la possibilità di attingere all’elenco dei volumi, dei bandi e delle pubblicazioni periodiche, dei quali vengono forniti gli indici alfabetici per autori e per titoli, gli indici per soggetti e per materie compilati per pagine e per anni, e, nel caso dei «BANDI», anche le Voci onnicomprensive utilizzate per l’indice per soggetti e per materie (per anni e per grafici). 81 Si cfr., sulla duttilità e sulla versatilità di De Maistre (pur nell’àmbito della fedeltà alla sua “funzione” di mentore internazionale controrivoluzionario), JOSEPH DE MAISTRE, Napoleone, la Russia, l’Europa. Dispacci da Pietroburgo 1811-1813, introduzione e cura di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, traduzione di GRAZIA FARINA, Roma, Donzelli, 1994; De Maistre si è notevolmente avvantaggiato, per il periodo in cui ha potuto risiedervi, del soggiorno in Russia, esperienza per lui tutt’altro che “esotica” od eterogenea rispetto alle sue coordinate romano-cattoliche e filopapali: «All’antico frequentatore della Congregazione dell’Assunta di Chambéry, organizzata dai gesuiti per la formazione dell’élite locale, all’antico “grande oratore” della Loggia dei Trois Mortiers, all’autore delle Considérations sur la France, assurte a bibbia di tutti i nemici della rivoluzione, quella temperie doveva sembrare quasi un riassunto della sua vita e una promessa. Gemesse pure l’Europa dell’ordine antico sotto i colpi del miserabile “re del Terzo Stato” […], ma solo lì, in quella parte estrema del continente, sembrava ancora possibile credere in una riscossa: respirando quel clima, quel misto di credenze esoteriche e di razionalismo settecentesco lascito di Caterina, di occultismo e di devozione cristiana, ascoltando le suggestioni circa una eventuale convergenza tra autocrazia russa e papato romano in difesa di Dio e dei popoli contro la “barbarie dotta” dei philosophes e dei loro seguaci» (I giorni di Pietroburgo. Introduzione di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, p. XII; ancora, si veda, a p. XIII, la rassegna delle opere teoriche del periodo di Losanna: l’Étude sur la souveraneité du peuple – incompiuto –, Les Lettres d’un royaliste savoisien à ses compatriots, le Considérations sur la France, giudicate da Lamartine «un grido di Isaia al popolo di Dio davanti a tutta l’Europa», e tali da affiancarsi all’opera dell’inglese Burke nella posizione di punta dell’antirivoluzionarismo). Nelle pagine di De Maistre (e nell’introduzione di Galli Della Loggia) si ritrova la figura di Laval come fuoruscito, si trovano le dame dell’aristocrazia russa, fra le quali «si era affermata da tempo una forte corrente di simpatia verso il cattolicesimo, favorita dalla presenza a Pietroburgo dei gesuiti, e costellata da non infrequenti conversioni» (p. XIX; sono, come si vede, gli ambienti ed i fenomeni, come quello delle conversioni, che popolano le pagine delle riviste alle quali collabora Antici), si trova rammentato l’utilizzo che lo zar fece di De Maistre («di quel famoso intellettuale cattolico come autorevole tramite con la Chiesa di Roma, con l’opinione pubblica polacca e con i gesuiti» – p. XXII) e l’illusione che lo stesso intellettuale nutrì riguardo ad un proprio, preteso ruolo di «plenipotenziario del cattolicesimo universale» (p. XXIII); non manca (p. 49) il memento di De Maistre sulla felicità e sulla longevità dei sovrani, dei grandi re che hanno unito le loro sorti a quelle della religione cattolica, o che non l’hanno osteggiata («Costantino, Teodosio, Alfredo, Carlomagno, Giovanni, Emanuele del Portogallo, San Luigi, Luigi XIV ecc.»; ovvio rovescio della moneta, la mancata prosperità dei monarchi ostili al cattolicesimo), né è assente da questa ricognizione (p. 51) il principe conte, generale Karl Philip von Schwarzenberg, con le sue sofferenze, con i suoi sacrifici e con le sue forzate transigenze di militare (il personaggio ritornerà nei Cenni biografici intorno famosi Alemanni, opera dello stesso re LUDWIG DI BAVIERA, tradotti da CARLO ANTICI nel 1844). 82 Si ricordi a questo proposito Lettere di monsignor THARIN già vescovo di Strasburgo al conte di S… sull’opera dell’abate di LA MENNAIS che ha per titolo «Parole di un credente», traduzione dal francese dedicata all’Apostolo San Pietro dal sacerdote GIOACCHINO PEDRELLI romano, Pesaro, dalla tipografia Nobili, 1834; Gregorio XVI bollò le Parole di un credente con l’Enciclica del 25 giugno 1834. Tharin chiama l’Antico Testamento, Gesù Cristo, San Paolo a legittimare sovrano e altare, a dire che la rivolta contro il trono è contemporaneamente contro Dio, che i re sono unti del Signore. Di CLAUDE MARIE PAUL THARIN si rammentino anche Lettera pastorale di monsignor THARIN vescovo di Strasbourg ed ora precettore del duca di Bordeaux, in Imola, dalla tipografia Galeati, a spese della Società de’ Calobibliofili, 1827 (preceduto da una Prefazione del dotto traduttore modenese), e Lettera pastorale di MONSIGNOR THARIN vescovo di Strasbourg per la Quaresima del MDCCCXXVI, ivi, pp. 3-29. 83 Al di là dell’introduzione di fondamenti laici nella concezione dello Stato, il Code Napoléon, nella
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sua natura sistematica di strumento base d’una rinnovata concezione dell’organismo politico, rimane la traduzione operativa del principio della statualità del diritto, al punto che la stessa Santa Sede, nel 1917, ha secondo le sue tempistiche in parte assunto il proprio primo Codex Juris Canonici (la common law, invece, rimarrà in vigore nei paesi anglosassoni). Più di un elemento, dunque, rimaneva lontano dalla visione di un Antici che ormai aveva superato, nel 1826, la fase napoleonica; ma si ricordi che le allusioni negative agli aspetti del regime napoleonico, più che al Bonaparte stesso, sono in genere assunte da Antici soltanto se veicolate dall’opinione di altri autori, o dalla citazione che egli viene facendo degli stessi autori, spesso appartenenti al personale ecclesiastico. È peraltro ben noto che gli stati italiani, dopo il 1815, orientarono i propri statuti, sia pure con differenze significative e con adattamenti a seconda delle singole aree, proprio sul Codice napoleonico, o Codice civile francese. Il testo del Code Napoléon fu emanato con la legge del 30 ventoso dell’anno XII (21 marzo 1804): con questo codice si supera la concezione del diritto comune, per sostituirla con quella della sistematicità espressa nel codice stesso, esempio di equilibrio fra le norme concepite durante il processo rivoluzionario e il rispetto per la tradizione basata sul consenso dei cittadini. Da parte di Antici, e della cultura cattolica di cui egli è emblematico rappresentante, non possono certo essere approvate l’assunzione statale della legislazione degli atti di stato civile e l’attribuzione al matrimonio dello statuto di cerimonia, anch’essa, a prevalente carattere civile, sebbene la possibilità del divorzio venga a sua volta regolamentata. Eppure, il Code Napoléon costituisce una soluzione, frutto della riflessione compiuta durante il periodo rivoluzionario, del problema rappresentato dalla diffidenza, se non addirittura, in molti casi, dall’avversione, che fin dalla cultura del Settecento (in Muratori, in Beccaria, in Pietro Verri) si è nutrita nei riguardi della presenza di normative etiche o pratiche derivanti dalla Chiesa. Progressivamente, la riflessione razionalista giunge ad auspicare una prospettiva giuridica che non contempli più il diritto canonico, a tutto vantaggio del diritto statuale (semmai, si salva ancora qualche impostazione del diritto romano). 84 «Delicta maiorum inmeritus lues, / Romane, donec templa refeceris / aedisque labentis deorum et / foeda nigro simulacra fumo. // dis te minorem quod geris, imperas. / hinc omne principium, huc refer exitum: / di multa neglecti dederunt / Hesperiae mala luctuosae». 85 Su Gioacchino Ventura De Raulica cfr. qui sopra, n. 67. A proposito della diffusione della fede cristiano-cattolica, in questo caso in epoca contemporanea ad Antici, si cfr., nella Miscellanea della Vallicelliana S. BORR. N. II 220-246 gli Annali della propagazione della Fede, raccolta delle lettere dei vescovi e dei missionarj delle missioni nei due mondi, e di tutti i documenti relativi alle missioni ed all’opera della propagazione delle Fede che forma il seguito delle lettere edificanti, Volume I, Parigi e Lione, Cormon et Blanc, Libraj (Lione, Stamperia di G. Rossary), 1839-1854, opera redatta e pubblicata da D. MEYNIS: cfr. BARBIER, Dictionnaire des ouvrages anonymes, I, col. 194; appunto nel I volume, p. 375, viene citato «L’ami de la Religion et du Roi»; e, articolista di questo giornale, monsieur Picot, che ebbe come maestro il prelato Guerard, di cui si traccia una breve biografia; a tal fine, viene citata una lettera, proprio del missionario monsignor Jean-Jacques Guerard, di deplorazione della Rivoluzione francese: «La Francia» è «republica, eretica, più barbara dei nostri barbari Tonchinesi». I paesi nei quali si diffonde il verbo di Cristo sono, fra gli altri, la Cina, la Cocincina, il Tonchino, il Siam, le Seichelles, il Madagascar, gli Stati Uniti, l’India, il Sud America amerindo. Si tratta della variopinta geografia gesuitica. Ancora, dagli Annali della propaganda tra la Francia e Roma, in Vallicelliana, viene ricordata la Diocesi di Macao, riguardo al vescovo lazzarista portoghese di Nanchino, residente a Pechino, che scrive al superiore del seminario di San Giuseppe a Macao. Contro la Società biblica si cita, nel II vol., sempre del 1839, il De Maistre delle Veglie di Pietroburgo, pp. 12-13, nota 1. Sono, ovviamente, soprattutto citazioni d’àmbito francese, in riferimento a città quali Bordeaux, Tolosa, Clermont, Besançon, «St.-Flour», Nantes, e a sedi quali il Seminario delle Missioni Straniere e il Consiglio superiore dell’Opera. Alla p. 17 è citata, come approdo di missione, Costantinopoli, e in séguito vengono citati il «Congense Regnum», il «Sinarum Imperium», il «Baltimorensis Episcopatum», il «Vilnense in Lithuania Collegium», «Virampatna», «Pondicherium», la «Siamensis» [regio], i «Tunchinienses», i «Cocincinenses adulescentes». Sull’esperienza missionaria durante la Restaurazione, e sui suoi forti limiti, cfr. ADOLFO OMODEO, Le Missioni di riconquista cattolica nella Francia della Restaurazione, in ID., Studi sull’età della Restaurazione, cit., pp. 283-343. In particolare, sulla vicenda e sull’esperienza dei gesuiti, cfr. JONATHAN WRIGHT, I gesuiti. Storia, mito e missione (titolo originale: The Jesuits. Missions, Miths and Histories), Traduzione di MARIA FAUSTA MARINO e ANGELA DE SIMIO, Roma, Newton & Compton editori, 2005, soprattutto i capp. VI e VII, intitolati Illuminismo e soppressione e I gesuiti dal 1814; sono qui tracciate le linee del contrasto, resosi più volte drammatico, tra gli stessi gesuiti e le monarchie europee, a cominciare da
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quella portoghese; e, insieme, vi si ripercorrono gli scontri e le lotte, ivi comprese quelle di carattere pubblicistico e culturale, tra i gesuiti, con la loro produzione scientifica e con il loro insegnamento, e la scienza laica, fino al complesso rapporto con lo scientismo illuministico. 86 Sullo studio della presenza platonica nell’ispirazione di Leopardi, cfr. MASSIMO CACCIARI, Magis amicus Leopardi. Due saggi, Caserta, Edizioni Saletta dell’Uva, 2005 (parziale edizione francese, precedente a quella italiana: Paris, Éditions de l’éclat, 1992), articolato in due saggi, Leopardi platonicus? (pp. 9-62) e Solitudine ospitale. Da Leopardi a Celan (pp. 63-105); si tratta d’un platonismo asciutto e severo, à la flamme de Michelstaedter, ma tale da distinguere lucidamente, e intensamente, tra «Idea» e «realtà»; e proprio per questo un platonismo attento, soprattutto nei canti fiorentini, nella costellazione di Aspasia, ad attribuire l’inganno non all’«Idea», ma allo «scambio» fra la stessa «Idea» e la realtà. Una presenza platonica che fornisce una ben più impegnativa connotazione a un tema che, se non supportato da questa consapevolezza, apparirebbe ancora rubricabile sotto il profilo concettuale del rimpianto, o della malinconia per la “perdita” dei valori assoluti, come mera «nostalgia» riconducibile ai motivi della giovinezza (riportiamo il testo dalla versione francese – della quale si è avuto maggiore riscontro internazionale –; pp. 26-50 dell’edizione italiana): «Mais ce type d’hétérogénése des fins, qui semble miner à la racine l’ultra-humanisme du logos, “et le fuyant et nu / Bonheur, sous le soleil bas, pourchasse” (Inno ai Patriarchi), ne peut être dit, ne peut être jugé sinon par celui qui a à cœur, dès à présent, la mémoire de ce bonheur et raisonne sans répit sur son combat avec les principes destinés à le détruire. / Demandons-nous alors si ce qui réagit de manière critique au sens immanentiste-matérialiste dominant dans le processus de la raison peut n’être que la dimension de l’“erreur de jeunesse”. Les illusions que le savoir extirpe et détruit ne sont-elles pas autres que celles du “jour de fête”? Le rire – que l’on perçoit comme un écho extraordinaire et lointain – n’est-il que l’immédiate expression de l’inconsciente et insouciante jeunesse? Que les sensations soient «nos seules maîtresses» et qu’elles nous enseignent «que les choses sont ainsi, parce qu’elles sont ainsi, et non parce qu’elles doivent être absolument ainsi, c’est-àdire parce qu’il existe un bien et un bon absolus, etc.» (Zibaldone 1339-1340, 17 juillet 1821), de cela Leopardi en est parfaitement convaincu (et, nous le savons maintenant, ceci équivaut à dire qu’il est convaincu, in uno, qu’il ne s’agit pas, dans ce savoir, de persuasion). Locke l’a démontré, selon lui, sans nul doute possible, et pour ce faire, il fallait témoigner d’une “très haute connaissance, d’une finesse et d’une acuité inventive suprêmes, d’une très vaste doctrine, d’un grand génie en somme” (ibid., 2707, 21 mai 1823). La raison des choses est toujours et seulement relative (le «quantum» nietzschéen de «bonne raison» que chaque fait posséde!); «les circonstances variant, et donc les convenances, la morale varie aussi, et il n’est aucune loi qui soit gravée primordialement dans nos cœurs» (ibid., 1638, 5-7 septembre 1821). Ainsi la philosophie dont Leopardi est convaincu apparaît sans hésitation celle qui, de manière plus cohérente, détruit la fable du système platonicien des idées (ibid., 2709, 21 mai 1821), comme «modèles éternels et nécessaires des choses» (ibid., 1638, 5-7 septembre 1821). Et une fois les idées de Platon expulsées, tout innéisme s’écroule, «l’absolu se perd» (ibid., 1462, 7 août 1821). Le «démon» anti-platonicien de la philosophie moderne ne pourrait être exprimé de façon plus lucide et précise – et qui est véritablement détrompé et connaisseur du verum-factum ne peut pas ne pas y prendre part. Mais la fable de Platon serait-elle une expression naïve de la «légende antique» qui faisait vivre un seul jour les fleurs et l’herbe et les bois (Alla Primavera) avant que l’homme ne s’en fasse un chemin? Certes, pour Leopardi, les temps de Platon, «conservaient encore bien assez de nature» (Zibaldone, 1067, 20 mai 1821), mais le système de Platon est tout autre qu’un songe vague – c’est un système très hardi qui embrasse toute l’existence, qui veut rendre raison de la nature toute entière. Platon est «le plus profond, le plus vaste, le plus sublime philosophe parmi tout ceux de l’antiquité» (ibid., 3245, 23 août 1823). Une «fable» son système, mais non point une chimère: «le système de Platon des idées qui préexistent aux choses (…) non seulement n’est pas chimérique, bizarre, capricieux, arbitraire, fantastique mais tel qu’on s’émerveillera de voir comment un ancien a pu atteindre au fond ultime de l’abstraction…» (ibid., 1713, 16 septembre 1821 [n.s.]). Si le système platonicien est illusion, il est une haute illusion; s’il est une erreur, il est une erreur divine; s’il est une fable, il l’est au sens du mythos, bien plutôt «parole vivante» que simple narration. A partir des années 1821-1823 l’intérêt pour cette “erreur” absolument extraordinaire, tel que lui apparaît être le système de Platon, continue d’être central chez Leopardi. Il est presque sur le point de “s’engager” à traduire pour l’imprimeur De Romanis toutes les œuvres de Platon (Lettre à Monaldo Leopardi, 4 janvier 1823); son intention est de traduire le Gorgias qui lui semble être «un des plus beaux dialogues de cet auteur» (Lettre à Carlo Antici, 5 mars 1825: Michelstaedter avait-il connaissance de la préférence de Leopardi?); il veut préparer l’édition d’un recueil des Pensées de Platon qui
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contiendrait «tout le beau et l’éloquent, le détachant de son éternelle dialectique qui de nos jours est insupportable» (ibidem – et il convient de rappeler à ce propos le «combat» de Michelstaedter contre le Platon des grands dialogues dialectiques). De ce dernier projet, parmi ceux de cette époque, «je m’en suis satisfait principalement» dit-il (Lettre à Carlo Bunsen, 3 août 1825) – et plusieurs années après, il persiste encore à croire que ses observations sur Platon «contiennent beaucoup de vrai, et sont même pour la plupart vraies et utiles à l’intelligence de Platon» (Lettre à Louis De Sinner, 21 juin 1832). Ce «beaucoup de vrai» était déjà exprimé dans une note du Zibaldone (1713-1714, 16 septembre 1821): Platon atteint «au fond ultime de l’abstraction» en tant qu’il découvre (donc lui aussi est philosophe qui démontre, outre que poète: cf. Zibaldone, 3245, cit. – véritable “idée”, en somme, de pensée poétante) que si nous voulons sauver les principes de nos jugements de la relativité du flux de l’opinion, nous devons faire l’hypothèse “des images et des raisons de tout ce qui existe, éternelles, nécessaires, etc., et indépendantes de Dieu luimême” car autrement elles ne seraient pas absolues, mais relatives, en tant que dépendantes de la volonté de Dieu, et ne pourraient donc d’aucune manière nous persuader. Nous serons – pour continuer dans la métaphore michelstaedterienne – effectivement vaincus, à travers les idées, par la volonté de Dieu, mais jamais persuadés par elles et en elles. Il s’agit en vérité d’une annotation “foudroyante” dans laquelle Leopardi saisit l’indépassable problème destiné à affliger toute «métaphore» du platonisme grec dans le cadre de la tradition théologique judéo-chrétienne. D’un côté, il est essentiel pour cette dernière de «sauver» la doctrine des formes ou des idées de tout relativisme historico-linguistique; de l’autre, elle est contrainte de le faire en subordonnant la constitution au vouloir de Dieu, d’un Dieu créateur personnel qui les contienne en soi comme raisons propres. Et cela ne change rien – théorétiquement – si l’on considère immuable le sens d’une telle volonté – le pas fatal a déjà été accompli: concevoir comme volonté l’essence même de l’être. «Quelque négation ou affirmation absolue que ce soit», alors, «se détruit entièrement par elle-même», et c’est pure illusion (un «merveilleux» artifice) de croire que l’on puisse sauver la possibilité de jugements ou de principes indestructibles, en détruisant, in uno, le système platonicien, ou en le trouvant faux ou inconsistant. La «fable» platonicienne, donc, n’est pas une simple illusion, mais constitue, au contraire, cet essentiel système de référence selon lequel il est possible de critiquer non seulement le caractère illusoire et hypocrite de la philosophie de ce monde, du siècle «imbécile» justement parce qu’«orgueilleux» de ses destinées (La Ginestra), mais aussi l’aporie qui informe toute la pensée de l’Europe ou de la Chrétienté. Cette pensée, malgré son avancée «victorieuse», n’est pas capable, ne peut être capable, de l’absolue rigueur de l’abstraction platonicienne; son savoir ne peut jamais atteindre la logicité du discours ardu de Platon: si nous voulons nous «sauver» de l’oscillante dénomination des «hommes à deux têtes», il est nécessaire de supposer et de considérer «indubitablement comme absolues», et donc absolues du Dieu lui-même, les images ou raisons de l’être. Celui qui, dans l’Europe ou la Chrétienté, a tenté de penser avec cette même rigueur impitoyable, a toujours dû subir – comme le Socrate de Platon – l’accusation d’hérésie, d’apostasie, d’impiété. «Exact raisonnement» que celui de Platon, et pour les exigences de «l’exacte philosophie» celui-ci réélabore et transforme sa langue même (qui était déjà «la plus riche, la plus féconde, la plus facile à produire, la plus libre, la plus habituée et donc intolérante à l’égard de la nouveauté»), au point de paraître «des plus hardies» aux grecs euxmêmes. Hardiesse, liberté, mania poétique et créatrice – et, en même temps, exercice, subtile philosophie, cohérence logique (Zibaldone, 3236-3237, 22 août 1823): telle est la profondeur du mythos platonicien, que Leopardi revisite. Si nous oublions l’idée, si son mythos se réduit à une chimère infantile, nous ne saurons pas même observer-juger ce monde effectif, car nous n’en reconnaîtrions pas l’aporie constitutive – car la raison pour laquelle, dans ce monde, la vie heureuse est impossible, la raison pour laquelle ce monde est abios bios, nous échapperait. Et cette raison est celle de Michelstaedter: une fois l’idée détruite, toute persuasion est détruite – toute possibilité de «demeurer», de en-ergheia ruinée, nous sommes destinés au désir insatiable et à l’ennui qui, finalement, l’accompagne. Mais, alors, ce ne sont pas les chimères et les illusions de la jeunesse qui rendraient cette vie heureuse, si jamais telle vie pût exister – mais seulement une Vie illuminée par l’Idée, une Vie transfuse dans l’Idée (l’homoiosis theô du Théétète). Ce ne sont pas les erreurs d’un «petit enfant» qui font un éternel contre-chant au «monde figuré» mais, bien plus profondément, la pensée dominante de l’Idée. Oui, qu’elle soit, elle aussi, erreur, mais erreur qui ne peut abandonner le jugement, et d’autant moins qu’il est plus dur et froid – car ce n’est qu’à la lumière de l’intransigeante logicité de ce système que “l’apparition du vrai» peut ne pas nous enchanter, ne pas nous séduire, ne pas nous asservir, qu’il peut être saisi dans ses immanentes contradictions propres. L’esprit «erre» véritablement le long de la réalité sensible, dans une sorte d’extase, alors qu’il «voit» l’Idée, mais dans de telles visions, « Io riconobbi i miei non falsi errori» – «je reconnus mes erreurs qui ne me
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trompaient pas» (Dante, Purgatoire, XV 117)”! Telle est la «chére beauté» de la femme aimée. […]. Si la foi dans la réalité de l’Idée est détruite, n’est pas pour autant détruite, mais au contraire plus douloureuse et vivante la «palpitation» insomniaque «de toi pensant» – la remémoration-méditation qui pour elle seule serait «cette vie bienheureuse» (Alla sua Donna, qui date de septembre 1823). […]. Puissante, dominatrice, telle est la pensée-amante du Beau, «don du ciel» comme la mania erotikè platonicienne. D’elle provient une «joie céleste» et bien qu’elle soit qualifiée de «terrible»: «cause aimée de tourments infinis» – et non pas tant parce qu’elle apparaît comme une fureur qui ne peut être contenue, telle que dès lors son «délire» serait «humain trop humain» et ne saurait être comparer aux «songes des immortels», mais bien plus parce qu’elle nous contraint à dé-lirer extatiquement de toute «conversation terrestre», du «monde stupide», de toutes les sortes de «lâches» et «âmes non généreuses, abjectes» de cet «âge présomptueux, / qui de vaines espérances se nourrit, / épris de bavardages, et de vertu ennemi» […]. Jamais Leopardi ne se trompe quant à son “état terrestre” qu’aucune “angélique beauté”, qu’aucune «apparence angélique», qu’aucun songe, fût-il songe d’immortels, ne pourrait “racheter”. Et pourtant ce penser (le terme est décisif – et conclut le Chant) n’est pas seulement plus résistant à l’avancée du vrai effectif que tous les autres enchantements “de l’âge le plus beau” (Il sabato del villaggio) – il est précisément enchantement qui pense (tout comme dans le mythos platonicien), et qui pensant-et-jugeant harcèle la sottise du monde, au moment même où il s’en sépare […]. Non seulement «de vertu ennemi» s’avère être cet âge, mais encore stupide – et justement lui qui voudrait prétendre «tout réduire à la raison pure et (…) pour la première fois, ab orbe condito, géométriser toute la vie» (Zibaldone, 160, 8 juillet 1820) – «stupide» parce que «l’utile exige / sans voir que toujours / plus inutile devient la vie». Non stupide, non chimérique est donc cette “fable” qui démontre comment serait la vraie Vie, celle-là seule capable de revenir à la vision “des idées éternelles”. D’une telle idée de la résistance tenace de son “fil” “dépend” la possibilité d’un critique radicale du nihilisme de la raison. Résistance qu’aucun ton funébre ne parvient à détruire. A y bien regarder, l’enchantement qui semble rompu dans Aspasia (composé entre 1834 et 1835), l’ardeur qui semble “éteinte” pour “cette divinité / qui en mon cœur/ eût vie jadis, / et sépulcre aujourd’hui” ne se réfèrent pas à l’«idée amoureuse» en tant que telle, mais à l’illusion qui peut se donner une réelle harmonie, ici sur la terre, entre cette Beauté «rai divin» qui suscite «l’amour démesuré», ses tourments, ses indicibles émois et «délires», et cette femme que «moi timide, tremblant… moi privé de moi» peut dire avoir vu. La tromperie véritable ne consiste pas dans l’Idée, mais dans l’«échange» entre Idée et réalité («Enfin découvrant son erreur et les objets qui s’échangent / il s’irrite» [n.s.]). Mais c’est justement cette tromperie que le platonisme dénonce! Ce qui explique comment la découverte d’une telle erreur ne peut impliquer la pure et simple extinction du rai de l’Idée! La «fille de son esprit», l’Idée (il s’agit donc précisément d’amor intellectualis, de «forme… angélique” […]) qui “contemple le mortel blessé”, et qu’elle ne disparaît à l’“apparaître du vrai” – et donc de cette tromperie des “objets échangés” –, à tel point qu’elle peut se dire seulement maintenant pleinement reconnaissable. […]. Pour saisir cette joie – joie d’un doux penser – «éprouver les tourments humains / et supporter longtemps / cette vie mortelle, ne fut pas indigne. / La route vers un tel but, / quelqu’expert en nos maux que je sois / encor je reprendrai» (Il pensiero dominante). «Platonisme» dur, donc, désenchanté, débarrassé de tous ces éléments dialectico-conciliants qui en avaient marqué lourdement la tradition, et particulièrement dans la culture littéraire artistique italienne. Il s’agit d’un «platonisme» critique à l’égard de quelqu’«harmonie préétablie», téléologisme, providentialisme, exaltation rhétorique de la dignité de l’homme que ce soit: en somme un «platonisme» tout à fait étranger à la perspective humaniste, dans le cadre de laquelle, entre le XVe et le XVIe siècles, on a pu assister au «retour» de Platon. Et pour ces motifs mêmes un «platonisme» extraordinairement proche de celui au travers duquel, paradoxalement, Schopenhauer pouvait lire Kant». 87 Si cfr., invece, sulle responsabilità della Chiesa cattolica in Italia, NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., p. 165: «E perché molti sono d’opinione che il bene essere delle città d’Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio contro a essa discorrere quelle ragioni che mi occorrono, e ne allegherò due potentissime ragioni le quali secondo me non hanno repugnanzia. La prima è che per gli esempli rei di quella corte questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione; il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini: perché così come dove è religione si presuppone ogni bene, così dove quella manca si presuppone il contrario. Abbiamo dunque con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obbligo: di essere diventati senza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa pro-
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vincia divisa. E veramente alcuna provincia non fu mai unita e felice, se la non viene tutta all’ubbidienza d’una republica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna». 88 Nella biografia anticiana di ANTONIO ANGELINI ROTA, Ritratto storicopolitico e letterario del marchese Carlo Antici, Roma, Tip. delle Belle Arti, 1854 (pp. 156-163) risulta più che mai còlto il tema dell’esaltazione della gloria di Massimiliano di Baviera-Wittelsbach (1573-1651), il «Salomone alemanno»; non mancano le citazioni dal FELLER (FRANÇOIS XAVIER de FELLER, Dictionnaire historique, ou Histoire abrégé de tous les hommes, nés dans les XVII provinces belgiques, qui se sont fait un nom par le génie, les talents, les vertus, les erreurs etc. depuis la naissance de J. C. jusqu’à nos jours, Paris et Anvers, C. M. Spanoghe, 1786), p. 162 n. 1 di Angelini, alla voce «Massimiliano primo elettore di Baviera»; ed è citata nella stessa nota l’Art de vérifier les dates des faits historiques, chronologie historique des ducs de Bavière, alla voce Maximilien; se ne passano in rassegna i meriti contro Federico elettore palatino, il contributo decisivo alla reconquista cattolica a Praga e in generale in Boemia, il comportamento variamente mostrato nei confronti di Ferdinando, dei conti di Mansfeld, del duca di Brunswick, le stragi inflitte ai nemici protestanti, vere orde barbariche per Angelini, sulla Moldava e sul Danubio. Massimiliano Wittelsbach incorporò l’alto Palatinato e nobilitò lo stemma, «montandolo a sopraccapo della corona chiusa dell’impero, entrando elettore, la qual dignità passò ereditaria nei suoi» (p. 164). Si cita, per lo stesso 1854, la già ricordata opera di Hurter che riguarda anche Massimiliano: FRIEDRICH HURTER, Geschichte Kaiser Ferdinands’ II, und seiner Eltern bis zu seiner Krönung in Franfurt [sic] (p. 165, n. 1 ANGELINI). Angelini ricorda, ancora, a p. 165, «la regale splendidezza» che a Monaco fece sorgere una statua raffigurante Massimiliano, in bronzo, modellata sul Marco Aurelio di Roma. 89 Cfr. Elementi della storia de’ sommi pontefici da s. Pietro sino al felicemente regnante Pio papa 7. ed alla Santità Sua dedicati per l’uso de’ giovani studiosi, raccolti dall’abate GIUSEPPE DE NOVAES, patrizio portoghese e canonico della Metropolitana di Siena, Siena, Francesco Rossi e figlio, 1802; si cfr., inoltre, LORENZ von WESTENRIEDER, Geschichte von Baiern für die Jugend und das Volk (1785) e Geschichte von Baier (1786); quest’ultimo (1748-1829) è un gesuita bavarese che, dopo la soppressione dell’ordine, è professore di poetica e di retorica al ginnasio di Landshut e di retorica a Monaco. In séguito (1779) è segretario della classe storica dell’Accademia bavarese delle scienze; si avvicina, quindi, al movimento degli Illuminati, mostrando, nella sua evoluzione, di far parte di quell’area culturale tedesca che risente sia del contributo della riflessione religiosa, sia dell’illuminismo. È autore di molte opere, fra le quali ricordiamo Einleitung in die schönen Wissenschaften (1777), Jahrbuch der Menschengeschichte in Bayern (1782), Die Geschichte der Baierischen Akademie der Wissenschaften (1784-1807), Beiträge zur vaterländischen Historie, Geographie, Statistik und Landwirtschaft. (1785 bis 1817), Briefe eines Baiern (1787), Abriß der baierischen Geschichte (1798), Handbuch der baierischen Geschichte (1820). Su di lui si cfr. WILHELM HAEFS, Aufklärung in Altbayern: Leben, Werk und Wirkung Lorenz Westenrieders, Neuried, 1998. 90 Cfr., in «Annali delle scienze religiose», XVI, 47 (marzo-aprile 1843), pp. 212-239; per estratto (disponibile nella Biblioteca Casanatense di Roma): Storia del Duca ed Elettore di Baviera Massimiliano I scritta in lingua alemanna dal Tenente Colonnello Barone C. M. DI ARETIN ec. ec. vol. I compendiato dal March. CARLO ANTICI, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1845. 91 Si ricordino alcuni passi dal Liber sapientiae, 6, 2-9: «Audite, ergo, reges, et intelligite; / discite, iudices finium terrae; / praebete aures, vos qui continetis multitudines / et placetis vobis in turbis nationum. / Quoniam data est a Domino potestas vobis, / et virtus ab Altissimo, / qui interrogabit opera vestra et cogitationes scrutabitur; / quoniam, cum essetis ministri regni illius, non recte iudicastis / nec custodistis legem iustitiae / neque secundum voluntatem ambulastis. / Horrende et cito apparebit vobis, / quoniam iudicum durissimum his qui praesunt fiet. / Exiguo enim conceditur misericordia; / potentes autem potenter tormenta patientur; / non enim subtrahet personam cuiusquam Deus / nec verebitur magnitudinem cuiusquam; / quoniam pusillum et magnum ipse fecit, / et aequaliter cura est illi de omnibus; / fortioribus autem fortior instat cruciatio» (cfr. Bibliorum Sacrorum iuxta vulgatam Clementinam nova editio, cit., p. 604); e si veda, secondo l’indicazione data da Oettl e ripresa da Antici, un passo da Ecclesiasticus, 1-6: «Iudex sapiens iudicabit populum suum, / et principatus sensati stabilis erit. / Secundum iudicem populi sic et ministri eius, / et, qualis rector est civitatis, tales et inhabitantes in ea. / Rex insipiens perdet populum suum, / et civitates inhabitabuntur per sensum potentium. / In manu Dei potestas terrae, / et utilem rectorem suscitabit in tempus super illam. / In manu Dei prosperitas hominis, et super faciem scribae imponet honorem suum. / Omnis iniuriae proximi ne memineris / et nihil agas in operibus iniuriae» (ivi, p. 627). Questi, e gli altri brani prescritti da Oettl, s’incentrano non a caso
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sugli oneri etici del regnante: oneri seri e pressanti, e tali da dover essere accettati e messi in atto con rigore. Ma, più ancora, essi riguardano la derivazione del potere da Dio allo stesso regnante-reggitore, come ben si vede in un segmento testuale citato del Liber Sapientiae («Quoniam data est a Domino potestas vobis, et virtus ab Altissimo») e in un altro brano, che ricordiamo dall’Ecclesiasticus («In manu Dei potestas terrae, et utilem rectorem suscitabit in tempus super illam»): la «potestas» «data est a Domino», e non da altri, e sempre «In manu Dei potestas terrae», un Deus che è soggetto unico dell’azione di scelta riguardo al governante politico: «utilem rectorem suscitabit». La scelta di Oettl, pur in sé di non ingente difficoltà, si manifesta, in ogni modo, estremamente appropriata al fine perseguìto. Sulle due potestà, e sull’origine ed istituzione divina del potere politico, cfr., in àmbito spagnolo (particolarmente significativo perché qui si tratta del personale confessore del sovrano, Carlo IV), «Annali di scienze religiose», II, 4 (gennaio-febbraio 1836): GIACOMO MAZIO fornisce (pp. 55-103) una recensione di taglio e di misura saggistici del Disegno della Chiesa Militante o Somma della Chiesa instituita dal Figlio di Dio incarnato, nella quale si vede che la Chiesa fondata sopra la Confessione di S. Pietro è edificio divino, soprannaturale, unico sempre visibile sulla terra e indestruttibile. Opera Postuma di Monsig. FILIPPO AMAT Arcivescovo di Palmira, Abate di S. Idelfonso, confessore di Sua Maestà Carlo IV. ec. [dall’originale spagnolo «Diseño de la Iglesia Militante ó Suma de la Iglesia instituida por el Hijo de Dios hecho hombre»] Si aggiungono infine le meditazioni dell’Autore contro il libro intitolato “le Rovine di Palmira” [Volney], Madrid, per le stampe di Fuentenebro, 1834; alle pp. 74-78 si tratta in particolare dell’alleanza tra potere della Chiesa e potere regale; e si legga la citazione di p. 74: «Duo sunt, Imperator Auguste, (scriveva il Pontefice s. Gelasio ad Anastasio imperatore) quibus principaliter mundus hic regitur, sacerdotalis auctoritas et regalis potestas, utraque principalis, suprema utraque, neque in officio sua alteri obnoxia. Questa bella sentenza con quel che siegue, dà occasione all’autore di svolgere e chiarir bene la natura della civile ed ecclesiastica podestà». A p. 78, coerentemente con queste premesse, vi è la difesa della specifica «gerarchia» della Chiesa e della potestà gerarchica come concetto considerato in assoluto.
L’UNIVERSO LEOPARDIANO DI SEBASTIANO TIMPANARO
Indice
Introduzione – Universi leopardiani. Studi di storiografia di Marino Biondi L’universo leopardiano di Timpanaro Il Leopardi di Citati Parole al padre. Il linguaggio degli affetti Carlo Antici e la Restaurazione
Nota bibliografica
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VII VII XXV XXIX XXXI
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l’universo leopardiano di sebastiano timpanaro e altri saggi su leopardi e sulla famiglia I. L’universo leopardiano di Sebastiano Timpanaro
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3
II. Leopardi protagonista nella nuova edizione di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano
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101
III. Postille ed annotazioni autografe di Timpanaro (Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nuovi studi sul nostro Ottocento, Per Giorgio Pasquali)
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125
IV. Il «Leopardi» di Pietro Citati
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137
V. Leopardi, la famiglia e il classicismo romagnolo-marchigiano
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VI. Carlo Antici traduttore (1815-1830). La propensione per il romanticismo religioso tedesco della Restaurazione
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Indice dei nomi
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Finito di stampare in Firenze presso la tipografia editrice Polistampa Novembre 2013