Introduzione alla filologia latina
 8884024129, 9788884024121

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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina

Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO

Volume II LA CIRCOLA ZIONE DEL TESTO

Volume III LA RICEZIONE DEL TESTO

Volume IV L'ATTUA L IZZA ZIONE DEL TESTO

Volume V CRONOLOGIA E B IBLIOGRAFIA DELLA LETTERATURA LATINA

INTRODUZIONEALLAFILOLOGIALATINA

SALERNO EDITRICE R OMA

INTRODUZIONE ALLA FILOLOGIA LATINA Direttore FRITZGRAF

SALERNO ED ITRI CE ROMA

IN TRODUZIONE ALLA FILOLOGIA LATINA Direttore FRITZGRAF

EDIZIONE ITALIANA A CURA DI MARINA MOLI N PRADEL TRADUZIONE DI SILVIA PALERMO PRE SENTAZIONE DI MARIO GEYMONAT

SALERNO EDITRICE ROMA

Titolo originale dell'opera:

EINLEITUNG IN DIE LATEINISCHE PHILOLOGIE HERAUSGEGEBEN VON FRITZ GRAF

©

© STUTTGART UNO LEIPZIG, TEUBNER, 1997 MUNCHEN-LEIPZIG, K.G. SAUR VERLAG GMBH, 2003

AGGIORNAMENTO BIBLIOGRAFICO A CURA DI GIORGIO PIRAS

ISBN 88-8402-412-9 Tutti i diritti riservati - Ali rights reserved Copyright © 2003 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riprodu­ zione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qual­ siasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfìlm, la memorizzazione elettro­ nica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

PRESENTAZIONE DELL'EDIZIONE ITALIANA

Introduzione allafilologia latina (in tedesco Einlei­ tung in die lateinische Philologie) ha richiesto anni di lavoro e un grandissimo Il testo originale di questa

impegno anche a livello internazionale, come dimostra la presenza fra i col­ laboratori di molti autorevoli studiosi al di fuori della Germania, da Fritz Graf che ha coordinato l'opera, professore a Basilea poi passato a Princeton negli Stati Uniti, all'americano RobertA. Kaster di 'Chicago (ora anch'egli a Princeton), da Jan Ziolkowski di Harvard a Josef Delz ancora di Basilea, da Mary Beard di Cambridge.Jn Inghilterra�gli italiani Gian Biagio Conte di Pisa e Sandra Boldrini di Urbino. Basta scorrere l'indice per rendersi conto dell'ampiezza del lavoro svolto: nove ampie sezioni dalla storia della filologia e dell'istruzione in Rom� fino all'archeologia e alla numismatica, attraverso la storia, la letteratura, il diritto, la religione e la filosofia, sia pagane che cristiane. Ciascuna di queste sezioni offre una vasta e puntuale informazione, sempre però presentata in forma innovativa, con tutte le necessarie aperture verso il Medioevo, il Rinasci­ mento, l'Ohocento e la stessa età contemporanea (si veda il capitolo di Wal­ ther Ludwig sulla letteratura latina dei nostri giorni). In effetti l'opera

è

uno dei piu solidi tentativi di dare prospettiva con­

temporanea a una disciplina le cui radici affondano nei secoli (per non dire nei millenni), che.�,,n ell'ambito delle discipline umanistich� ha rappresentato la punta del sapere nella tarda antichitàùcome nel secolo di Carlo Magno, nel Rinascimento come agli inizi dell'età moderna (si pensi solo all'Otto­ cento in Germania). Anche l'edizione italiana del volume ha richiesto un impegno oneroso, in primo luogo da parte della Salerno Editrice, che da anni va acquisendo specifici meriti per la filologia (non solamente classica), e che con quest'opera fa uno sforzo encomiabile per dare agli studi latini anche nel nostro paese contenuti storicamente e geograficamente convin­ centi. Oggi lo sviluppo della comunità europea sollecita la riscoperta dell'unità di lingua e letteratura quale elemento costitutivo della cultura occidentale, non solo nella formazione delle lingue romanze e delle lingue influenzate dal latino, come l'inglese e lo stesso tedesco, ma anche della letteratura di tutti i paesi occidentali e di altre manifestazioni legate alla cultura, come, fra

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PRESENTAZIONE DELL ' EDIZIO NE ITALIANA l'altro, la lingua del diritto e dell'amministrazione, sul versante linguistico, e la cultura teatrale e cinematografica, sul versante letterario. Il fatto è che la civiltà moderna, in Europa e non solamente in Europa, è radicata profondamente nel mondo antico, e che la maniera elaborata in quel tempo di concepire la società e il mondo è il piu forte elemento di coe­ sione civile in società e nazioni che pure hanno percorso strade diverse, tut­ te in ogni caso riconducibili a quella matrice comune. La preparazione del volume italiano che ora qui si presenta è iniziata tre anni or sono con la versione del difficile originale tedesco ad opera di Silvia Palermo. Questa prima elaborazione è stata ancora perfezionata da Marina Molin Pradel, anche sulla base della sua conoscenza profonda degli sviluppi che la paleografia e la filologia classica hanno avuto in ambito germanico (è suo il poderoso Katalog der griechischen Handschrifien der Staats- und Universitiits­ bibliothek Hamburg, uscito nel 2002 a Wiesbaden come J4° volume dei « Serta Graeca »): con lei ho discusso a lungo dell'opera nel suo complesso e dei sin­ goli capitoli. Infine una particolare cura ha ricevuto il problema dell'attualiz­ zazione dell'opera, in primo luogo grazie all'impegno di Giorgio Piras che ha voluto a sua volta ripercorrere con occhio critico gran parte dell'opera, con­ tribuendo a migliorare molti punti e apportando con sistematicità gli aggior­ namenti bibliografici relativi agli anni dal 1997 a oggi, e segnalato•le tradu­ zioni italiane non menzionate nell'originale, ma anche per merito della col­ laborazione dei singoli autori, che hanno contribuito alla rifinitura degli ela­ borati integrando e aggiornando, ove opportuno, la trattazione. Questi successivi contributi garantiscono una fruibilità ancora maggiore all'opera, e un maggior pregio all'edizione italiana, anche se non mi nascon­ do che si poteva fare ancora di piu. Ma bisognava evitare che il meglio di­ ventasse nemico del bene, e si corresse il rischio di bloccare l'uscita concreta di questo testo, ciò che impedirebbe ora di metterlo nelle mani di un pub­ blico esigente e capace, desideroso di usufruire di tutte le sue complesse sug­ gestioni e che non mancherà di apprezzarne anche la comoda ed elegante veste tipografica. Università Ca' Foscari di Venezia, marzo 2003 MAruo GEYMONAT

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IN TRODUZIONE ALLA FILOLOGIA LATINA

PREMESSA

Sono trascorsi quasi novant'anni da quando Alfred Gercke ed Eduard Norden, nel 1910, iniziarono a pubblicare la loro Einleitung in die Altertumswis­ senschafi, un'opera concepita come coronamento di un secolo di studi tede­ schi ed europei sull'antichità. In questo secolo la scienza dell'antichità regna­ va pressoché incontrastata nel panorama delle discipline umanistiche e ne formulava, in larga misura, le regole di insegnamento liceale, universitario e della ricerca scientifica, a poco poco però articolandosi in numerosi ambiti di ricerca particolari, dalla codicologia alla numismatica e all'archeologia. Nel frattempo, la filologia greca e quella latina si sono inserite nel concerto delle altre discipline linguistiche e letterarie e hanno raggiunto e spesso superato queste ultime sia per numero ,di studenti che per valore sociale, mentre quel­ li che erano nati come ambiti di ricerca particolari hanno cominciato gradual­ mente a rafforzarsi, fino ad elevarsi talora a discipline autonome, dotate di metodologie proprie e problematiche peculiari, trovando spesso nella strut­ tura dell'insegnamento universitario - si pensi alla storia antica e all'archeolo­ gia classica - una nuova collocazione e nuove relazioni. E anche le due disci­ pline principali, le filologie greca e latina, si sono modificate nel corso del lo­ ro reciproco confrontarsi: mentre all'inizio del ventesimo secolo il latino e il greco erano nella didattica universitaria indissolubilmente legati, oggi non è piu cosi raro che gli studenti, sia in ambito greco che latino, si dedichino allo studio di una sola di queste due lingue, affiancandola ad altre discipline. Questa situazione non riflette solamente l'evoluzione delle scuole supe­ riori, dove l'insegnamento del greco è sempre piu raro e spesso lo studio del­ l'antichità nell'attività didattica liceale si esaurisce con il solo latino: si tratta piuttosto di un crescente processo di affrancamento della filologia latina nel­ l'insegnamento universitario e spesso anche nell'ambito della ricerca scienti­ fica fu all'inizio del secolo infatti, con Friedrich Leo e Richard Heinze, che si cominciò a rendere indipendenti lo studio e l'insegnamento della lettera­ tura e della cultura romana rispetto al pendant greco. Alla fine di questo se­ colo questa indipendenza è cresciuta, e la filologia latina non viene intesa esclusivamente come una disciplina affine a quella greca, ma viene inserita nell'ambito delle studio delle lingue e delle letterature moderne, da cui ha desunto metodologie e problematiche, e verso le quali si rivolge nella conti­ nuità della ricezione tentando di gettare un ponte tra antichità, Medioevo ed -

Il

PREMES SA età moderna. Tutto questo deve rispecchiarsi non solo nel contenuto, ma anche nella forma dell'ammodernamento di un'opera imponente e insupe­ rabile: si è quindi deciso di non proporre per l'intera scienza dell'antichità un'opera completa in piu volumi, ma si è preferito realizzare per entrambe le filologie due volumi unici, uniti naturalmente da una struttura comune e da molteplici punti di contatto. Immutato rimane invece il fine dell'opera, che come il suo antecedente vuole fornire agli studenti di tutte quelle discipline che rientrano nell'ambi­ to dello studio dell'antichità - e in particolare delle due filologie -, ma an­ che all'insegnante liceale della materia, allo studioso e al docente di discipli­ ne affini una guida affidabile e conforme ai metodi e alle nozioni della scienza della letteratura e della cultura romana. E rispetto al modello di Gercke e Norden rimane immutata anche la concezione della nostra disci­ plina: come in quell'opera l'aspirazione a un concetto piu ampio di scienza dell'antichità - espressa programmaticamente da August B oeckh e rappre­ sentata esemplarmente da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff - si espli­ cava nell'ampiezza della scelta delle materie trattate, cosi qui il medesimo approccio vuole presentare una scienza dell'antichità intesa come Kulturwis­ senschafi. Al centro sta indiscutibilmente la letteratura, che viene delineata in modo completo dagli inizi della poesia latina a Roma fino a quella neolati­ na d'epoca moderna: ma questo nodo centrale è coronato dal gran numero delle altre discipline, la cui interazione rende possibile un'ampia visione d'insieme, grazie alla quale la letteratura si rivela parte costitutiva storicizza­ ta della cultura romana, e si inquadra nella totalità della cultura e della sto­ ria di Roma. Ciò si riallaccia anche all'idea predominante che ha informato il volume : è il punto di vista del latinista, dello studioso della letteratura di Roma, al quale vogliono in fondo rivolgersi le altre numerose discipline, dalla codicologia e dall'epigrafia fino all'archeologia dell'Italia e delle pro­ vince. Se i capitoli sui rispettivi argomenti risulteranno di una certa utilità anche allo studente di queste altre discipline, ciò avverrà perché la totalità della scienza dell'antichità non può appunto essere semplicemente fram­ mentata in ambiti di studio principali e secondari. Da tale prospettiva il pre­ sente volume vuole rappresentare uno stimolo e al contempo un avverti­ mento a non perdere di vista, tra tutte le problematiche, la cultura romana nel suo complesso, cosi come la sua eredità in epoca medievale e moderna: in considerazione della progressiva specializzazione e del continuo accresci­ mento delle conoscenze in tutte le discipline, questo invito risulterà forse 12

PREMESSA difficile da seguire, ma non certo meno urgente per chi si occupa di anti­ chità romane. Questo volume è pubblicato solo grazie alla comunione di numerosi sfor­ zi. Un ringraziamento va alle autrici e agli autori, che si sono - per lo piu attenuti alle direttive; si ringrazia l'editore, Heinrich Kramer, che ha pro­ mosso il progetto e l'ha seguito con intransigente spirito critico; un partico­ lare ringraziamento va anche alla àott.ssa Elisabeth Schuhmann di Lipsia, il cui zelo instancabile e il solido aiuto nella lotta con le formalità e le scaden­ ze hanno costituito uno stimolo continuo e un insostituibile aiuto. Basilea, gennaio 1997 *

NOTA ALI.:EDIZIONE ITALIANA Sono molto lieto che la Einleitung in die lateinische Philologie, opera di grande impegno e risultato di un lavoro comune, si presenti adesso agli studenti e ai colleghi italiani in questa bella veste. Per la presente edizione gli autori han­ no riletto i loro saggi, e il curatore ne ha approfittato per correggere qualche errore di fatto sfuggito ai suoi occhi, ma non a quelli dei lettori del testo tede­ sco. Si può dire, pertanto, che questa edizione italiana sia non solo una tradu­ zione, ma anche una versione piu corretta e aggiornata di quella tedesca. Worthington, aprile 2003 FRITZ GRAF * *

*

AvvERTENZA ALL'EDIZIONE ITALIANA. Gli aggiornamenti bibliografici di Gior­ gio Piras, collocati tra parentesi quadre alla fine dei capitoli o nel corpo del testo, elencano i principali lavori pubblicati tra il 1996 e il 2003 sugli argomenti trattati nel volume: essi sono rivolti a un pubblico italiano, in particolare di principianti, e pertanto si è indicata l'eventuale traduzione italiana di lavori stranieri; talvolta viene anche menzionato qualche lavoro di particolare importanza anteriore al 1996 che non figura nella bibliografia originaria. Parte delle integrazioni tra pa­ rentesi quadre interne alle bibliografie originali è frutto di interventi della Reda­ zione della Casa Editrice, a volte su indicazione degli Autori stessi. Roma, ottobre 2003 13

SIGLE E ABBREVIAZIONI*

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Archiv fur Lateinische Lexikographie und Grammatik)),

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Leipzig 1884-1908

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Arch.Sc.Soc.Rel.

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ARW BICS

Aufstieg und Niedergang der Romischen Welt. Geschichte und Kultur Roms im Spiegel der neueren Forschung, a cura di H. TEMPORINI, poi di H. TEMPORINI e W HAAsE, Berlin-New York 1972Anzeiger fur die Altertumswissenschaft Wien 1948Archaologischer Anzeiger Berlin 1849Archives de Sciences Sociales des Religions Paris 1973Archiv fur Religionswissenschaft)), Leipzig 1898-1942 1>,

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Bulletin. Institute of Classica! Studi es. University of Lon­

don )), London

1954-1983 19711971-

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, Rom-Berlin (poi Mainz a.R.) 1886Mélanges de l'École Française de Rome >> {serie Bibliothèque des Écoles &ançaises d'Athènes et de Rome », Roma 1876-) Monumenta Germaniae Historica. Auctores antiquissimi, 15 voli., Berlin 1877-1919 , Torino 1950(già ivi 1873-1943, poi « Rivista di Filologia Classica >>, ivi 1944-1949) Rheinisches Museum fur Philologie >> , Bonn (poi Frank­ furt a.M.) 1832The Roman Inscriptions oJ Britain, a cura di R.G. CoLLING­ wooo e R.P. WRIGHT et al., London 1965Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden (poi Amster­ dam) 1923Lo Spazio Letterario di Roma Antica, dir. G. CAVALLO, P. FEDE­ LI, A. GIARDINA, Roma 1989-1991, 5 voli. « Studi e Materiali di Storia delle Religioni », Roma (poi Ba­ ri) 1925-1969 « Symbolae Osloenses >>, Oslo 1923« Theologische Revue >> , Miinster 1902Theologische Realencyclopiidie, a cura di G. KRAusE e G. MOL­ LER, Tiibingen 1976« Vigiliae Christianae. A Review ofEarly Christian Life and Language », Amsterdam 1947« Wiener Studien. Zeitschrift fur klassische Philologie und Patristik >> , Wien 1969« Wiirzburger Jahrbiicher », Wiirzburg 1946« Yale Classical Studies >> , Cambridge 1928« Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik >> , Bonn 1967« Zeitschrift der Savigny-Stiftung fur Rechtsgeschichte. Ro­ manistische Abteilung », Wien 188o« Zeitschrift fur die geschichtliche Rechtswissenschaft >>, Ber­ lin 1815-1850

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I STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL'ISTRUZIONE

1 STORIA DELLA FILOLOGIA A ROMA

di RoBERT A. KAsTER La storia della filologia a Roma iniziò con i poeti e si concluse con i sacer­ doti. Durò piti di otto secoli, dagli inizi della letteratura latina - tra la fine del III e l'inizio del Il secolo a.C. - fino alla morte del vecchio Cassiodoro, ver­ so la fine del VI secolo d.C. In questo lasso di tempo occuparsi di lingua e di testi e delle reciproche relazioni culturali - la filologia nel senso piti ampio del termine - contribui a determinare il contesto nel quale si ebbero nume­ rose e radicali trasformazioni: l'ascesa della letteratura latina e l'acquisizione della lingua greca, l'ellenizzazione di Roma in un senso piti ampio, lo svi­ luppo di un'identità romana nel contesto di un impero storicamente univer­ sale e, infine, il progressivo spostamento dell'obiettivo degli sforzi umani verso il regno dei cieli, culminato con l'ascesa del cristianesimo. La filologia dette il suo contributo a tutte queste trasformazioni e prese parte, esplicita­ mente o implicitamente, alle controversie che di volta in volta ne scaturiro­ no. Le pagine seguenti offriranno una sintesi delle conquiste dei dotti roma­ ni e dei legami tra queste conquiste e la vita culturale di Roma. 1.1. ATTRAVERso LA GRECIA vERso RoMA Fino ad oggi conosciamo soltanto un autore romano che abbia cercato di descrivere il processo attraverso il quale la filologia venne accolta nel reper­ torio culturale della sua città. La sua storia è la seguente (Svetonio, De gram­ maticis et rhetoribus, 1-2) : A Roma gli studi linguistico-letterari (grammatica) erano inizialmente sconosciuti e anche in seguito ottennero poca considerazione, poiché la comunità, a quei tempi ancora rozza e occupata in imprese guerresche, aveva poco tempo per le arti liberali. Gli esordi furono insignificanti, dal momento che i primi maestri, che erano poeti e allo stesso tempo italo-greci {intendo Livio Andronico ed Ennio, dei quali si traman­ da che insegnassero in privato e in pubblico entrambe le lingue), si limitavano a spie­ gare i testi degli autori greci oppure a leggere qualche passo dalle proprie opere lati­ ne [ . . . ]. Il primo, credo, ad introdurre in città questi studi fu Cratete di Mallo, un contemporaneo di Aristarco. Inviato dal re Attalo in qualità di ambasciatore presso il

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I · STORIA DELLA FILOLO GIA LATINA E DELL' I STRUZIONE senato romano tra la n e la m guerra punica, all'incirca al tempo della morte di Ennio, Cratete cadde nello scarico di una fognatura sul Palatino e si ruppe una gamba; fini pertanto con il trascorrere tutto il tempo della legazione e della convalescenza dando lezioni e intavolando numerose discussioni: in questo modo diventò un esempio da imitare per i nostri connazionali. Questi ultimi tuttavia lo imitarono solo nell'appro­ fondita analisi di poesie non ancora molto diffuse, come opere di amici defunti o di altri che godevano della loro stima; attraverso le loro letture e i loro commenti que­ ste poesie furono rese note al resto della popolazione.

Anche se parecchi aspetti di questa colorita rappresentazione sono, almeno in parte, falsi - è esagerato soprattutto il ruolo del critico Cratete - lo schizzo contiene alcune informazioni importanti sulla nascita della filologia a Roma. Uno dei presupposti fondamentali della filologia era il tempo libero : que­ sto comportò un allontanamento dal severo stile di vita dei rozzi guerrieri­ contadini che i Romani consideravano loro antenati. Era necessario possede­ re una certa ricchezza ed essere disposti a modificare la vecchia immagine di sé. Il raffinarsi del gusto e del modo di vivere doveva essere considerato una virru, cosi come l'aspirazione a raggiungerlo doveva contribuire alla dignitas, rispettabilità sociale senza il quale una vita signorile era impossibile. Le con­ quiste di Roma nell'area mediterranea durante il II secolo a.C. contribuiro­ no decisamente a questo spostamento di valori, in quanto furono fonte di un nuovo benessere e di un nuovo e accettabile modello di vita per i Romani. Molti membri dell'élite al potere a Roma, grazie all'arrivo in Occidente di enormi bottini di guerra, si arricchirono in una maniera fino ad allora sco­ nosciuta; una gran parte di questi bottini giunse sotto forma di libri e di schiavi, di uomini di cultura che erano stati fatti prigionieri in guerra e che erano in grado di spiegare i testi. Di piu: la cultura greca, indiscutibilmente superiore e che godeva di alto prestigio, era ora, letteralmente, alla portata di Roma. C'era solo bisogno di prendere possesso di ciò che era stato conqui­ stato in guerra. Che moralisti come Catone il Vecchio lamentassero pure il declino della società romana e provassero a ripulire la città dagli elementi di disturbo, cacciando ripetutamente i filosofi e i retori: la forza di attrazione della Grecia come modello culturale non ne veniva scalfita. Grazie alle con­ quiste raggiunte in qualità di discendenti di Marte, i Romani entrarono in confidenza anche con Apollo e le Muse, e queste divinità riuscirono in que­ sto modo ad apprendere piu velocemente la lingua latina. Tale processo era già in atto quando, nell'anno 146 a.C., Corinto cadde sotto il dominio di Roma. Svetonio menziona due dotti poeti, che possiamo 20

I · STORIA DELLA FILOLOGIA A ROMA indicare come i primi filologi: Livio ANDRONico, un liberto bilingue prove­ niente dall'antica città greca di Taranto nell'Italia meridionale, ed ENNIO, un uomo libero proveniente da Rudie in Messapia (l'antica Calabria), che parla­ va correntemente latino, greco e osco. I frammenti dell'Odissea in latino, una versione del poema omerico in versi saturni arcaizzanti, suggeriscono l'ipo­ tesi che Livio, in quanto poeta e letterato di formazione alessandrina, faces­ se confluire nei suoi versi il sapere ellenistico. Con Ennio ci muoviamo su un terreno piu sicuro: lui stesso si qualifica come dicti studiosus - 'appassiona­ to della lingua' - un'espressione che da allora è considerata l'equivalente del greco qnÀ6Àoyoç (Anna/es, 209 Skutsch). I frammenti della sua opera dimo­ strano che la definizione è adeguata e che lo stesso Ennio possedeva un'am­ pia concezione della "lingua" e dello scopo della filologia. La sua opera piu importante, gli Anna/es, racconta in versi la storia di Roma dall'arrivo di Enea fino all'epoca di Ennio, e testimonia efficacemente la vastità del suo sapere. Nel campo della metrica Ennio creò l'esametro latino, mezzo d'espressione del quale egli stesso si servi, destinato a diventare il verso piu produttivo del­ la lingua latina. La sua profonda familiarità con la letteratura ellenistica risul­ ta molto evidente pur nella frammentarietà della tradizione; con pari evi­ denza emerge quale approfondita ricerca sulla storia e sulle istituzioni del­ l'antica Roma sia alla base della sua poesia. Con gli Anna/es, la prima "poesia nazionale" romana, anche la filologia venne utilizzata per la prima volta per la creazione di un'identità nazionale. Eppure Svetonio, come mostra il passo citato, non riteneva che Livio ed Ennio avessero fornito un contributo origi­ nale alla filologia. Il motivo - come risulta evidente dal complesso dei ragio­ namenti di Svetonio - va ricercato nel fatto che nessuno dei due avesse scrit­ to una trattazione erudita vera e propria. Solo nella seconda metà del II secolo a.C. con Lucio Euo "STILONE" (I50 ca.-80 a.C. ca.) compare il primo erudito "puro" di Roma, ovvero uno studio­ so che si dedicasse al lavoro scientifico indipendentemente dall'espressione artistica. Lucio Elio era un membro del ceto equestre proveniente da Lanu­ vio, una città a sud-est di Roma (Svetonio, De grammatids et rhetoribus, 3 I). I suoi scritti non sono conservati, ma sappiamo che influenzarono i piu giova­ ni Varrone e Cicerone, che frequentavano regolarmente la sua casa (Cicero­ ne, Brutus, 205-7, Academica posteriora, I 8; Gellio, Noctes Atticae, I I8 2), nonché eruditi di epoche successive come Verrio Fiacco. Particolarmente importante per la nostra storia è l'ampiezza dei temi e delle ricerche di Elio che, partendo dall'ambito d'interesse primario relativo 2I

I

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STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZIONE

alla lingua, si sviluppavano nelle tre branche principali dell'intera filologia romana: le "antichità", che si occupavano delle istituzioni e delle idee reli­ giose di Roma e dei suoi vicini, la "letteratura", che includeva le questioni di autenticità e di storia letteraria (ma meno di quanto oggi faccia la nostra cri­ tica letteraria) e lo "studio della lingua", piu o meno sistematico, rivolto so­ prattutto (in questa prima fase) all'etimologia e alla semantica. La maggior parte dei frammenti conservati testimonia l'interesse di Elio per i due ultimi temi citati; il suo trattato sulle proposizioni (proloquia Cd;ui>j.Lct-rct) - un tema della dialettica stoica imparentato con l'analisi sintattica - era ancora noto nel II secolo d.C. (Gellio, Noctes Atticae, 16 8 2-3). La competenza linguistica ("filologia" in senso stretto, nella moderna accezione del termine) e una no­ tevole familiarità con lo stile dell'autore furono di sicuro decisive per il suo tentativo di istituire un canone delle commedie autentiche di Plauto ( Gellio, Noctes Atticae, 3 3 1 sgg.). Si racconta che suo genero, Servio Clodio, un altro famoso studioso di Plauto, fosse in grado di leggere un testo e di dire: « Que­ sto verso è stato scritto da Plauto, quello no» (Cicerone, Epistulae adJamilia­ res, 9 16 4) : questa "critica dell'autenticità" ricorda i bibliotecari eruditi del Museo di Alessandria, cosi come l'impiego di segni critici (notae) in testi let­ terari, per il quale il nome di Servio Clodio viene associato a quello del gran­ de Aristarco (GLK. vn 188o, pp. 533-36). I frammenti rimandano anche, lon­ tano dall'Oriente greco, ad un interesse specificamente romano per il diritto civile e religioso e per le antichità sacre (per esempio, il commento al carmen Saliare, vd. Varrone, De lingua Latina, 7 2; a proposito delle osservazioni sul linguaggio sacro e sulla lingua delle Dodici Tavole come Aeliana studia "par excellence", vd. Cicerone, De oratore, 1 193). Nelle opere del piu importante allievo di Elio, MARco TERENZIO VARRO­ NE (n6-27 a.C.), l'ampio spettro di interessi e l'impegno nei confronti di Ro­ ma si manifestarono in maniera ancor piu palese. Dopo gli studi con Elio a Roma e presso il filosofo accademico Antfoco di Ascalona ad Atene, Varro­ ne arrivò fino alla carica di pretore, combatté al fianco di Pompeo nella guerra civile, ma fu poi graziato da Cesare. Dopo l'assassinio di questi, fu esi­ liato da Marco Antonio: la sua biblioteca a Cassino fu saccheggiata, lui stesso fuggi e nei suoi ultimi anni condusse una vita ritirata da erudito. Al compi­ mento del suo settantottesimo anno d'età aveva scritto 490 libri (Gellio, Noc­ tes Atticae, 3 10 17) : di questi ci sono noti in tutto 55 titoli, ma si stima che la sua opera abbia compreso 75 opere per un numero complessivo di 620 libri. La combinazione di analisi metodica, vasti interessi ed erudizione origina=

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STORIA DELLA FILOLO GIA A ROMA

le fece di Varrone uno degli studiosi piu importanti a Roma. I suoi scritti ab­ bracciavano praticamente ogni branca della ricerca: la storia (De vita populi Romani, sulla "storia sociale" di Roma; De gente populi Romani, nel quale la storia antica di Roma viene inserita in un contesto greco), la geografia, la re­ torica, il diritto (De iure civili libri xv), la filosofia, la musica, la medicina, l'ar­ chitettura, la storia della letteratura (De poetis, De comoediis Plautinis), la reli­ gione, l'agricoltura e la lingua (su quest'ultimo argomento redasse almeno dieci opere). Le conquiste degli scrittori augustei e dei loro successori in ambito poeti­ co e prosastico sarebbero quasi impensabili senza le basi poste da Varrone. Tra le opere di Varrone che ci sono giunte meno lacunose i 25 libri del De lingua Latinasono per noi i piuimportanti. Sono conservati i Il.v-x,dei quali il v e il VIcom­ pleti. Il libro 1 era un'introduzione; i Il.n-vntrattavano l'etimologia e il rapporto fra le parole e ciò che esse indicano; i Il. VIII-XIII la morfologia della flessione e la pole­ mica,descritta da Varrone a tinte forse un po' troppo forti, tra "anomalisti" e "analo­ gisti";i Il. xiv-xxv la sintassi e la forma corretta delle "proposizioni" (proloquia:vd.so­ pra, a proposito di Elio). Varrone, ponendo la distinzione fondamentale tra parole con forma invariabile e parole con forma variabile e, fra queste ultime, tra morfolo­ gia derivazionale (etimologia e semantica) e morfologia flessionale (grammatica in senso stretto), arrivò a raggruppare in sole quattro parti le componenti della lingua: parole con casi,parole con tempi,parole con casi e tempi,parole senza casi nétempi. Sebbene la sua terminologia si differenzi da quella dei successivi manuali,egli identi­ fica già cinque gruppi di sostantivi imparentati nella loro flessione (raggruppati se­ condo la forma all'ablativo singolare) e tre gruppi di verbi: la sua analisi anticipa quindi nell'impostazione, anche se non nei dettagli, tutte le successive analisi della morfologia flessiva latina. Due opere di Varrone,andate perdute,meritano una menzione particolare. Le Di­ sciplinae,un'opera tarda in 9libri,rappresentavano una sintesi dei concetti e dei princi­ pi piuimportanti delle artes libera/es, ossia delle "discipline" dotte che un uomo libero doveva padroneggiare:grammatica,retorica,dialettica,aritmetica,geometria,astrono­ mia,musica, medicina e architettura. Ancora piu ricca era l'altra opera, le Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in 41 volumi (47 a.C.). Non si sa molto dei primi 25 vo­ lumi sulle antichità umane (cioè romane): al 1 libro seguivano quattro parti presumi­ bilmente di sei libri ciascuna, sugli uomini (de hominibus; sugli abitanti dell'Italia), sui luoghi (de locis), sui tempi (de temporibus) e sulle cose (de rebus). I restanti 16 libri, dedi­ cati al pontifex maximus Giulio Cesare,si occupavano della costruzione umana del divi­ no: un altro libro introduttivo generale, poi 5 triadi sui sacerdoti (Il. xxvn-xx1x) , sui luoghi sacri (Il. xxx-xxxn) , sui tempi sacri (Il. xxxiii-xxxv) , sui rituali (Il. XXXVI­ xxxvm) e sulle diverse divinità (Il. xxx1x-xu) . Tra le opere perdute della prosa repub­ blicana,le Antiquitatessono certamente quelle che rimpiangiamo piu dolorosamente. 23

I · STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' ISTRUZIONE Questo paragrafo si conclude con un accenno ad uno dei piu giovani con­ temporanei di Varrone, MARco VERRIO PLACCo (55 a.C. ca.-20 d.C. ca.). Ver­ rio Placco, liberto e insegnante innovativo che diede lezioni ai nipoti di Au­ gusto, è considerato il piu importante studioso romano dopo Varrone, con il quale condivise una analoga vastità di interessi: i suoi scritti minori, oggi per­ duti, spaziavano dall'ortografia e dalla lingua di Catone (De obscuris Catonis) alle questioni sul calendario, passando per le Res Etruscae e i Saturnali (Satur­ nus). La medesima vastità di erudizione fece della sua opera principale, il De verborum significatu, uno dei contributi in assoluto piu ricchi e autorevoli della lessicografia latina. I.:opera, che era ordinata alfabeticamente (con piu volu­ mi per ogni lettera), trattava parole rare e obsolete e comprendeva testi di antichi autori ed erudizione antiquaria. Il De verborum significatu ci è noto gra­ zie ad un estratto di Pompeo Pesto, conservato solo in parte, e grazie all'e­ stratto, ricavato dal riassunto di Pesto, approntato da Paolo Diacono nell'VIII secolo. Insieme alla storiografia e ai singoli generi poetici, la scienza di Elio, Var­ rone, Verrio e degli altri defini per il cittadino colto il carattere del mos maio­ rum: alla fine dell'impero di Augusto i cittadini di Roma e dell'impero aveva­ no acquisito una comprensione della loro cultura - in merito a lingua, passa­ to e istituzioni - incomparabilmente piu chiara ed ampia di quella che era stata possibile, centosettantacinque anni prima, alla morte di Ennio. La filo­ logia assunse di conseguenza il compito importante di definire l'identità ro­ mana e prosegui questa attività nei successivi cinquecento anni, rendendo accessibile tale identità anche a coloro che non erano romani per nascita. 1.2.

LA FILOLOGIA E LA STABILITÀ DI ROMA

Nella Roma augustea Verrio Placco assume, in qualità di erudito e inse­ gnante, una posizione chiave nella storia della filologia romana. Verrio, so­ stenuto da una vasta conoscenza diretta dei testi latini antichi, prosegue quella ricerca originale il cui sviluppo può essere seguito, a partire da Elio, attraverso l'intera epoca tardorepubblicana. Verrio fa esplicito riferimento al­ le opere dei suoi predecessori, delle quali compila una selezione, per poi rac­ cogliere il materiale scelto in una nuova sintesi. In questo modo anticipa an­ che le tendenze future, giacché dal I sec. d.C. il piu importante risultato con­ seguito dalla filologia romana consiste nel consolidare l'eredità culturale del­ le precedenti generazioni e nell'utilizzarla per scopi di volta in volta nuovi. 24

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È perciò possibile ricostruire, partendo da Elio e Varrone - nessuno dei quali era insegnante di professione - una tradizione di "filologi dilettanti", che continuò per tutta la tarda antichità ed è all'origine di alcune opere si­ gnificative giunte sino a noi. PLINIO IL VECCHIO, all'epoca di Nerone e Ve­ spasiano, estese nella sua Naturalis historia i metodi della ricerca antiquaria al­ lo studio e alla catalogazione della natura. Alla metà del II secolo AuLO GEL­ uo raccolse nelle sue Noctes Atticae dei brani edificanti o divertenti tratti dal­ le sue vaste letture; nel III secolo CENSORINO scrisse un'opera sul computo del tempo e della vita umana (De die natali). L'epoca tardoantica è dominata dalle piu diverse opere enciclopediche: NoNIO MARCELLO (IV sec.?) redasse un vocabolario enciclopedico (De compendiosa doctrina) che spaziava dalle par­ ticolarità linguistiche agli aspetti della vita materiale; nel V secolo due auto­ ri, MAcROBIO e MARZIANO CAPELLA, scrivono le loro trattazioni erudite (ri­ spettivamente i Saturnalia e il De nuptiis Philologiae et Mercurii) in forma di dia­ logo o piu precisamente di racconto allegorico. Queste opere, sebbene risal­ gano ad epoche e ambienti diversi, mostrano tutte quali fossero gli elementi della cultura che i loro autori di volta in volta giudicavano importanti, rite­ nevano opportuno spiegare e conservavano per i posteri. La trasmissione della cultura fu di fondamentale importanza anche per la seconda branca della filologia latina che si sviluppò da quelle scuole di gram­ matica e di retorica sorte in gran numero a Roma a partire dal I secolo a.C.: i commenti a testi letterari e la stesura di manuali (artes) di grammatica e re­ torica. Opere normative di retorica latina sorsero già negli anni Ottanta del I sec. a.C. con l'anonima Rhetorica ad Herennium; per quanto riguarda questo genere l'opera piu significativamente rappresentativa è l'Institutio oratoria di QurNTILIANO (95 d.C. ca.), che offre un'ampia trattazione sull'adeguata for­ mazione di un oratore. Il piu anziano contemporaneo di Quintiliano, REM­ MIO PALEMONE, scrisse la prima ars grammatica latina di cui si abbia conoscen­ za, sebbene opere del genere venissero composte probabilmente già verso la metà del I sec. a.C. Dal II secolo provengono i trattati sull'ortografia di VE­ uo LoNGO e TERENZIO ScAuRo, oltre a una versione ridotta dell'Ars di Scau­ ro. Se questa risalisse veramente al II secolo, sarebbe in assoluto il piu antico manuale di grammatica tramandatoci. In caso contrario, questo onore spet­ terebbe all'Ars di SACERDOTE, che dovrebbe essere stata redatta nel tardo III secolo. Sono ugualmente attestati già nel I secolo commenti a testi letterari, soprattutto scolastici: il primo testo tuttavia che ci sia giunto nella sua reda­ zione pressoché originale è il commento di PoMPONIO PoRFIRIONE (III sec.) 25

I · STORIA DELLA FILO LO G IA LATINA E DELL ' ISTRUZIONE a Orazio. In epoca tardoantica le figure principali sono i maestri Euo Do­ NATO (metà del IV sec.), SERVIO {tardo IV/inizi V sec.) e PRISCIANO {tardo V/inizi VI sec.) : Donato in qualità di autore di commenti a Terenzio e Vir­ gilio, oltre che di due autorevoli grammatiche {Ars minor e Ars maior), Servio come autore dei commenti a Virgilio (giunti fino a noi) e dei commenti alle Artes di Donato, Prisciano, infine, come autore della piu ampia raccolta di erudizione linguistica latina tramandataci dall'antichità. Naturalmente vi erano molte piu grammatiche e molti piu commenti ol­ tre a quelli menzionati finora, ci siano essi pervenuti o meno. Un tale suc­ cesso può oggi stupirei, soprattutto alla luce della scarsa originalità di queste opere: Macrobio attinge da Gellio, che si basa su Verrio Fiacco, il quale, a sua volta, si rifà a Elio. Tanto i manuali quanto i commenti all'ars grammatica sono frutto di un lavoro di copia e ciò che è mutato si rivela spesso essere una nuova combinazione di argomenti ben noti oppure un'aggiunta poco signi­ ficativa. Sarebbe però anacronistico considerare un fallimento una tale man­ canza di originalità, che fu invece il segno del successo e della stabilità di una tradizione, la quale, come ebbe a dire un grammaticus piu tardo, « portò talen­ ti umani eccezionali ad un livello di grande raffinatezza formale >> (Diome­ de, in GLK, I 1857, p. 299 3). Questa tradizione scientifica fu una conquista straordinaria dell'ingegno umano: come tale fu degna di essere coltivata e al­ lo stesso tempo conferi una particolare dignità ai suoi cultori. Nelle regioni dell'impero in cui si parlava latino, la tutela e l'insegnamen­ to di questa tradizione costituivano in effetti l'unica esperienza condivisa da tutti i membri dell'élite economica e sociale. I suoi principali rappresentanti in particolare le scuole di grammatica e di retorica - erano, insieme con la fa­ miglia, le istituzioni piu importanti, attraverso le quali veniva riconosciuta, rinnovata e ampliata l'appartenenza alla classe dominante dell'impero: cosi la tradizione iniziata con Livio Andronico e Ennio, collocabili socialmente ai margini della società romana del tempo, divenne uno degli strumenti princi­ pali per l'individuazione dell'appartenenza all'élite romana. Il primo passo consapevole verso questa identità era l'apprendimento del­ la lingua definita "corretta". Con « memoria tenace >> e « duro lavoro )), scris­ se il grammatico Diomede, si raggiunge « l'affidabilità di una lingua corretta e l'eleganza forbita che risulta da questa capacità» : si sarà quindi superiori agli incolti, cosi come gli incolti sono superiori alle bestie ( GLK, I 1857, p. 299 18 sgg.). Naturalmente questa « ginnastica dell'anima >> (Galeno, Consue­ tudines, 4) non era aperta a tutti: le scuole nelle quali veniva insegnata erano,

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nella loro struttura sociale, decisamente esclusive. Alla maggior parte degli abitanti dell'impero, che in prevalenza non sapevano né leggere né scrivere, erano accessibili soltanto i ludi litterarii, "scuole dell'alfabeto" di basso livello, che insegnavano agli alunni le nozioni minime di lettura e scrittura; chi ave­ va accesso alle "scuole liberali" di grammatica e di retorica poteva cosi porre una distanza incolmabile fra sé e gli strati sociali inferiori. I.:accesso a queste scuole dipendeva principalmente dalle possibilità economiche: come già Lattanzio ebbe modo di osservare, Platone non avrebbe dovuto essere rico­ noscente del fatto di essere nato uomo, greco, ateniese e contemporaneo di Socrate, ma di essere nato dotato di talento, istruibile e « con i mezzi neces­ sari a ricevere una educazione liberale >> (Divinae institutiones, 3 I9). Solo pochi gruppi della popolazione disponevano dei mezzi economici necessari: tra questi naturalmente l'aristocrazia senatoriale ed equestre, quindi la maggior parte dei membri dei consigli municipali provinciali, alcuni funzionari go­ vernativi, i maestri delle arti liberali, gli esponenti di altre professioni dotte {soprattutto avvocati) e, in seguito, alcuni sacerdoti e vescovi cristiani; accan­ to a questi, solo pochi altri poterono godere di questa istruzione. I.:accesso alle rispettive scuole fu inoltre reso ancora piu difficile dalla loro scarsa di­ stribuzione geografica: nella tarda antichità, quasi tutte le scuole di gramma­ tica e di retorica conosciute si trovavano in città che erano sedi vescovili, in luoghi quindi che agivano come poli di attrazione sia della vita secolare che spirituale della zona. In questi centri veniva insegnata una visione urbana del mondo e in questo modo si trasmetteva la sensazione di essere separati dalla maggioranza della popolazione che abitava fuori dalle città. Questa impres­ sione veniva ulteriormente rafforzata dal divario linguistico fra città e cam­ pagna: la maggior parte dei contadini in genere parlava solo il dialetto loca­ le, e utilizzava la lingua colta, lo faceva presumibilmente in una maniera co­ si rozza da doversi scusare perché offendeva le « orecchie cittadine » (cfr. Sul­ picio Severo, Dialogi, I 27 2-4). I.:esclusività sociale e geografica dell'istruzione tradizionale ebbe come conseguenza due fenomeni in relazione tra loro. Da una parte, le litterae ("scienze dello spirito") vennero considerate come uno dei tre o quattro ele­ menti piu importanti che caratterizzavano lo status sociale - ai quali Paolina di Nola si riferiva come al « segno di prestigio nel mondo » (Carmina, 24 48I sg.) insieme a ) (honos, litterae, domus), o a cui pensava Girolamo, quando parlava di ), di una figura, rappresentata con vivacità, al « seguito dei potenti >), che si 27

I · STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZ I O NE distaccava dallo sfondo della « plebe l> (Epistulae, 66 6). Queste capacità cultu­ rali portavano da un lato alla notorietà, quanto meno postuma, come testi­ moniano dozzine di iscrizioni funebri che, nel ricordo patetico degli onori conseguiti o di un talento spezzato prima della maturità, serbano memoria delle capacità di giovani e bambini; dall'altro, questo tipo di istruzione era un elemento costante nel corso della vita e veniva regolarmente menzionato, per esempio, nelle iscrizioni celebrative per uomini che avevano raggiunto le piu alte cariche dello Stato. In queste occasioni le litterae (o l'eloquentia) vengono regolarmente associate ad altre virtli che questi uomini potevano rivendicare per sé, come la iustitia e l'integritas (per es., CIL, VI 1751, 1772; cfr. 1698, 1735). I.: espressione (( altre virtli l> viene qui usata con cautela: la tradizionale istruzione letteraria era considerata garante di per sé di alti valori morali, non diversamente dalla giustizia e dall'incorruttibilità. Il sapere e la capacità filologica erano un segno della tenacia, della cura e della volontà di impe­ gnarsi - caratteristiche etiche implicite in ogni (< ginnastica dell'anima » e che rendevano un uomo capace di addossarsi una parte delle fatiche dell'impero. La doctrina presupponeva i mores: essere uno studioso costituiva il presuppo­ sto per essere una persona "giusta", un gentiluomo. Le litterae giustificavano il diritto allo status morale e sociale, che, agli occhi delle persone tradizional­ mente colte, erano appena distinguibili: i dotti erano semplicemente i "buo­ ni", boni, mentre gli ignoranti erano inertes, "rozzi e pigri" (Aurelio Vittore, Liber de Caesaribus, 9 12). Questo legame concettuale tra status morale e sociale aiuta a comprende­ re la seconda conseguenza derivante dall'esclusività dell'istruzione tradizio­ nale, cioè il suo ruolo centrale nel mantenere la stabilità sociale nell'impero. Se, in teoria, un uomo dotto apparteneva naturalmente al "genere buono", l'ammissione di questo principio dava, in pratica, via libera a quell'intreccio di rapporti personali e di patrocinio attraverso cui venivano organizzati i go­ verni locali e il governo imperiale e all'interno dei quali venivano conferite le onorificenze. Colui che giungeva agli onori in questo modo, diveniva co­ si un simbolo per la continuità dell'impero, dal suo inizio alla fine, indipen­ dentemente dai rivolgimenti vissuti nel corso della sua esistenza. La minac­ cia, costituita da ciò che lo storico Ramsay MacMullen ha definito (< il disfa­ cimento della società l> (loosening ofsociety), si manifestò nel corso della storia dell'impero attraverso numerosi sintomi avvertibili nel baratro che si apri, nel II secolo, tra i consiglieri comunali di rango superiore e quelli di rango

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inferiore e che portò, agli inizi del IV, alla crisi, nella ridistribuzione della terra dopo i disordini gallici del III secolo, nell'espansione della burocrazia imperiale sotto Diocleziano e nelle maggiori possibilità di arricchimento ad essa connesse per alcuni dei suoi membri, e ancora in molti altri aspetti. Do­ po tali trasformazioni, bisognava determinare di volta in volta la funzione dell'istruzione tradizionale, stabilire chi continuasse ad appartenere all'élite, offrire la certezza che non ci fossero stati cambiamenti sostanziali, che gli uomini giusti e rispettabili fossero sempre presenti e che tenessero tutto sot­ to controllo. Tenacemente legata all'ordine stabilito, questa cultura linguisti­ co-letteraria assolse il suo compito sino al V secolo inoltrato, finché nell'Oc­ cidente latino continuarono ad esserci le strutture governative imperiali, e addirittura un po' oltre. 1.3.

DA RoMA ALLA CITTÀ DI Dw

Quando il cristiano Salviano, nel V secolo, dopo il frazionamento del po­ tere dell'impero in ampie parti dell'Occidente, scrisse sul 'governo di Dio' (De gubernatione Dei), utilizzò Cartagine come esempio per rappresentare l'Africa "impura" sotto il governo romano. Questa città, secondo Salviano, (( conteneva pressappoco tutte le cose, mediante le quali viene salvaguardato e controllato l'ordine dello Stato (disciplina rei publicae) nella totalità del mon­ do )). Egli enumerò le istituzioni preposte a questa tutela: le forze armate, la carica di governatore, gli altri apparati amministrativi e le (( scuole delle arti liberali >> - grammatica e retorica - che con le (( officine dei filosofi [ . . . ] co­ stituivano tutti insieme i ginnasi di lingua o mores >> (De gubernatione Dei, 7 6768). La visione di Salviano delinea il ruolo dell'istruzione tradizionale nella conservazione della coesione sociale dell'impero. I.:ostilità a questa visione appartiene alla lunga storia del confronto cristiano con l'istruzione e con i problemi derivati dalla funzione sociale di quest'ultima. Il dilemma era noto al cristianesimo fin dalla sua storia piu antica. Come (( religione del libro >> esso dipendeva dalle tecniche filologiche linguistico­ interpretative che l'istruzione tradizionale offriva (era addirittura ancora piu dipendente di quanto non lo fosse la religione di Roma). Ma laddove l'istru­ zione letteraria non rappresentava semplicemente un insieme di tecniche, sapere e principi estetici, bensf possesso specifico ed esclusivo di un piccolo gruppo particolarmente influente della popolazione, il rapporto fra i lettera­ ti e la grazia divina, aperta a tutti, non era assolutamente chiaro: cosa aveva a 29

I · STORIA DELLA FILOLOGIA LAT INA E DELL'I STRUZIONE che fare la dotta eloquenza con la conoscenza spirituale? Come reagi la mas­ sa letterata degli uomini colti al ricordo biblico che Pietro e Giovanni erano stati « persone senza istruzione e popolani >> (Atti degli apostoli, 4 13 ) , o all'af­ fermazione di Paolo, che dice di essere « un profano nell'arte del parlare, non però nella dottrina >> (Seconda lettera ai Corinzi, 2 6) ? Nella tarda antichità c'erano naturalmente molti cristiani in grado di ri­ durre gli attriti fra le due culture, subordinando si la vecchia cultura alla nuo­ va, ma riconoscendo tuttavia i pregi di entrambe. Il poeta Ausonio (ca. 310ca. 394) , un insegnante di grammatica e di retorica che ascese in seguito al rango di console, non poteva essere d'accordo con Paolina di Nola che dice­ va « i cuori rivolti a Cristo non sono aperti ad Apollo >> (Carmina, 10 21-22) ; il grammatico Foca - un cristiano o un autore che scriveva principalmente per un pubblico cristiano - nel V sec. parlava delle scuole delle arti liberali come del « ginnasio della saggezza, dove viene indicata la strada alla vita beata (bea­ ta vita) >> ( GLK, v 1868, p. 411 6-7), e la lista degli esempi potrebbe essere fa­ cilmente allungata. Ma voci autorevoli manifestarono i loro dubbi sul fatto che dei conflitti fondamentali potessero essere risolti cosi facilmente. Ad au­ tori come Girolamo e Agostino sembrava piu probabile che l'istruzione se­ colare potesse favorire lo sviluppo di qualità che avrebbero nuociuto all'ani­ ma e diviso la comunità: l'orgoglio per la propria intelligenza e per le capa­ cità personali, il piacere della competizione, l'adeguamento a uno status che veniva misurato con un metro effimero. Per questi uomini esercitare un controllo sui risultati della propria educazione e istruzione personale rappre­ sentò una battaglia tra due poli a stento conciliabili. « Sei un ciceroniano, non un cristiano; dov'è la tua ricchezza, li è anche il tuo cuore »: cosi parlò il giudice celeste a GIROLAMO, in un terribile incubo sulla strada per Betlemme (Epistulae, 22 30) . La « vecchia serpe >> si era presa gioco di lui. Affascinato dallo stile di Plauto, Girolamo non poteva dedicarsi nuovamente al testo delle Sacre Scritture senza provare disgusto per la roz­ zezza dello stile, eppure arrivava a dire « pensavo non fosse un errore dei miei occhi, ma del sole, se nella mia cecità non riuscivo a vedere la luce >> . Con la sua fiducia irremovibile nella propria capacità di giudizio, il "cicero­ niano" era prigioniero del suo passato, della vanagloria e dei suoi falsi valori. Poté essere liberato da tutto ciò solo attraverso l'umiliazione salutare delle bastonate che ricevette in sogno per ordine del giudice. Queste correnti tra loro contrastanti, la dotta eloquenza contro la sempli­ ce fede, l'orgoglio di fronte all'umiliazione, che allora angustiavano Girola30

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mo nel sonno, lo tormentarono anche in seguito, quando egli cercò di met­ tere a frutto la propria istruzione, fonte di alta considerazione e ammirazio­ ne. « So >>, egli dice, « che, di solito, noi cristiani non ci critichiamo reciproca­ mente per i nostri errori linguistici, ma . . . >> (Adversus Ruflnum, 2 20). I nemi­ ci vengono criticati per la loro mancanza di istruzione, e gli uomini colti che giungono dalla loro formazione liberale alle Sacre Scritture sono derisi per la loro arroganza: l'equilibrio era difficile da trovare. Tormentato da questo di­ lemma, che lo vede alle prese con la sua cultura da un lato e con la coscien­ za dall'altro, Girolamo rielaborò questi conflitti nei suoi scritti, per esempio nei commentari alle lettere agli Efesini e ai Galati, cercando di venire a capo del problema dell'istruzione di Paolo. Alcuni potevano immaginarsi Paolo completamente analfabeta oppure citavano quanto egli esclamò agitato nel­ la Lettera ai Galati (6 n: « Vedete con che grossi caratteri vi scrivo, ora, di mia mano! >>) come prova del fatto che fosse un cosiddetto "scriba lento", con una preparazione scolastica bassa. Questo è ridicolo, pensa Girolamo. Certamen­ te Paolo era un « ebreo di origine ebraica >>, istruito nel suo dialetto e incapa­ ce di articolare le sue profonde riflessioni in una lingua straniera (vd. Girola­ mo, In Galatas, 3 6; cfr. In Ephesios, 3 s). Ciò nonostante, è ovvio che cono­ scesse la figura retorica dell'allegoria, cosi come noi la impariamo a scuola, poiché anche lui aveva avuto contatti con l'istruzione secolare (ivi, 2 4). Vero è che Paolo continua a commettere errori linguistici (In Ephesios, Prol.) è naturale, secondo Girolamo, poiché la sua istruzione letteraria non è perfet­ ta (In Galatas, 2 4) - e assolutamente > (ivi, 3 6). Questa altalena di argomentazioni rende palese il tentativo di Girolamo di svincolarsi da due idee inaccettabili, ossia quella di un Paolo con troppo poca oppure con troppa istruzione secolare. Tali argomentazioni sono sintomatiche del costante conflitto interiore di Gi­ rolamo sul significato della propria istruzione secolare e del suo tentativo di trovare una posizione piu sicura tra i >, > e , parla del­ la vecchia cultura come di una cultura "estranea", l'accento è posto comple­ tamente sull'esodo dall'Egitto: i frammenti della cultura letteraria, che si possono apprendere di nascosto (clanculo vindicare), sono validi solo se vengo­ no usati per arricchire la cultura cristiana (2 40 60-61). Per gli emigranti spi­ rituali, ai quali il De doctrina Christiana si vuole rivolgere, l'istruzione lettera­ ria deve essere rigorosamente subordinata ai propri scopi, oppure completa­ mente rifiutata: altrimenti resta solo la vergognosa sottomissione ad essa. Le idee di Agostino in un primo momento non esercitarono nessun in­ flusso determinante, fino a quando, nel profondo turbamento del VI secolo, il vecchio CAsSIODORO tornò in Italia da Costantinopoli e si ritirò nel mona­ stero del Vivarium, nelle sue terre a Squillace in Calabria. Qui cominciò a concepire le Institutiones, i suoi principi per un'educazione cristiana e nella fattispecie conventuale: nel far ciò egli trovò nel De doctrina Christiana una parte delle sue formule per liberare le litterae dalla loro presunzione, defi­ nendole una disciplina ausiliaria della teologia e niente di piu. Cosi i conflit­ ti tra fonti secolari e fonti spirituali dell'autorità vennero risolti all'interno del convento a favore dell'autorità spirituale. Attraverso un sentiero cosi an­ gusto la tradizione dell'istruzione latina nell'Europa occidentale fece il suo ingresso nel Medioevo. 33

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· STORIA DELLA FILO LO G IA A ROMA

Nonio: M. DEUFERT, Zur Datierung des Nonius Marcellus, in Philologus », 145 2000, pp. 137-49· Per la controversa questione della datazione di Macrobio: A. CAMERON, The Date and Identity of Macrobius, in JRS, 56 1966, pp. 25-38, e S. DòPP, Zur Datierung von Macrobius' 'Saturnalia', in « Hermes », 106 1978, pp. 619-32. I.J. Sull'attività filologica di Girolamo: L. GAMBERALE, Problemi di Gerolamo tradutto­ refra lingua, religione e filologia, in Cultura latina cristiana tra terzo e quinto sewlo. Atti del Convegno, Mantova, 5-7 novembre 1998, Firenze 2001, pp. 311-45· Edizioni recenti di Agostino, De doctrina christiana: R.P.H. GREEN, Oxford 1995; M. MoREAu-1. BocHET­ G. MADEC, Paris 1997; M. SIMONETTI, Milano 20002.) «

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2 STORIA DELL'ISTRUZIONE. ARTES LIBERALES

di ILSETRAUT

HADOT

2.1. STORIA DELL' ISTRUZIONE 2.1.1. Età arcaica e repubblicana Per quanto concerne l'istruzione a Roma nel periodo arcaico, di certo sap­ piamo soltanto che i Romani mutuarono il loro alfabeto dagli Etruschi e che, fino ai primi contatti con la cultura greca, non ci fu alcuna letteratura latina vera e propria: di conseguenza non ci fu nemmeno un insegnamento nella materia che nell'antichità veniva chiamata "grammatica" e che comprendeva lo studio della lingua e dei poeti. Svetonio (De grammaticis et rhetoribus, 1) po­ ne significativamente i primi modesti inizi dell'insegnamento della gramma­ tica latina con Livio Andronico, l' "italo-greco" proveniente dall'Italia meri­ dionale (la cui prima rappresentazione drammatica è datata 240 a.C.) e con Ennio (nato nel 239 a.C.). Secondo Svetonio entrambi i poeti avrebbero in­ segnato a Roma greco e latino e l'Odissea sarebbe stata tradotta da Livio espressamente allo scopo di insegnare il latino. Ma il primo a introdurre a Roma un insegnamento di grammatica vero e proprio sarebbe stato il greco Cratete di Mallo che, inviato a Roma come ambasciatore di Attalo II (alla metà del II sec.), a causa della frattura di una gamba fu costretto a soggior­ narvi piu a lungo del previsto. Gli studiosi sono unanimi nel sostenere che l'istruzione nella Roma arcai­ ca, ammesso che se ne possa già parlare in questi termini, interessò solo la classe dirigente. Questa considerazione vale peraltro anche per le epoche successive. L'istruzione aveva un carattere esclusivamente privato e lo scopo preciso di tutelare la propria indipendenza economica, che derivava dalle proprietà terriere familiari, e di occupare, come politici, posizioni influenti in ambito religioso, civile e militare. Ne risultò che i punti chiave dell'educa­ zione erano le nozioni da ricavare con la pratica nell'agricoltura, l'esperienza nella strategia militare (acquisita con la pratica come soldato e come ufficia­ le), le nozioni di diritto religioso e civile (che all'inizio coincidevano), acqui­ site nell'adolescenza come membri, per cosi dire a latere, di un politico esper­ to, grazie alla quotidiana osservazione delle pratiche forensi e senatoriali. 37

I STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZIONE ·

Non sappiamo in quale momento l'élite romana abbia cominciato ad acquisi­ re nozioni di lingua greca. A tale proposito il primo esempio che ci sia possi­ bile ricostruire è quello di Appio Claudio Cieco (censore nel 312, console nel 307 e nel 296): naturalmente a condizione che, d'accordo con Eduard Nor­ den (Die romische Literatur, 1954\ p. 8 [trad. it. La letteratura romana, Roma-Ba­ ri 19842, pp. 12 sg.]), si ipotizzi che la sua raccolta di sentenze si rifacesse a un modello greco. L'educazione delle classi dirigenti di Roma antica è ben descritta in CHRISTES, Bil­ dung und Gesellschafl, che tiene conto della bibliografia principale (ma si veda in se­ guito).

Dalla seconda metà del III secolo, cioè dalla prima guerra punica in poi, si intensificano i contatti con la cultura greca, il cui influsso divenne decisivo a partire dal II secolo. Questo ebbe come conseguenza non soltanto il bilin­ guismo (greco e latino) dell'élite romana, ma anche l'adozione di alcune ma­ terie caratteristiche dell'istruzione greca di età ellenistica, come la grammati­ ca (grammatica in senso stretto + poesia), la retorica e, in misura molto mi­ nore, la filosofia. Sul bilinguismo si veda Zum Umgang mit Jremden Sprachen in der griechisch-romischen Antike. Kolloquium der Fachrichtungen Klassische Philologie der Universitaten Leipzig und Saarbri.icken, am 21. und 22. November 1989 in Saarbri.icken, a cura di C.W. MùLLER, K. SIER e J. WERNER, Stuttgart 1992, e in partic., R. WEIS, Zur Kennt­ nis des Griechischen im Rom der republikanischen Zeit, pp. 137-42; B. RocHETTE, Remarques sur le bilinguisme gréco-latin, in EtClass, 64 1996, pp. 3-20. A proposito del contesto cul­ turale ellenistico, in Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique (Paris 1984), che co­ stituisce - grazie ad una estesa analisi delle poche testimonianze letterarie e di quel­ le, piu frequenti, epigrafiche - la base delle seguenti riflessioni, sono giunta a risulta­ ti del tutto divergenti dall'opinione dominante a partire dal XIX secolo. Secondo questa opinione il ciclo delle sette arti liberali, testimoniato per la prima volta in testi filosofici di età imperiale, avrebbe costituito già in epoca ellenistica la base della cul­ tura generale greca e romana. Contro questa opinione bisogna tenere presente che, nel periodo ellenistico, a prescindere dalla particolare situazione di Atene, ogni città greca - si trovasse questa in Asia Minore, su un'isola del Mediterraneo o sulla terra ferma europea - possedeva almeno un ginnasio cittadino destinato all'istruzione dei ragazzi dai 16 ai 18 anni (efebi) appartenenti alle classi elevate. Sembra che i giovani, prima di accedere a queste scuole, imparassero privatamente a leggere, scrivere e far di conto. Le città ricche spesso avevano tre ginnasi: quello per gli efebi, un secondo ginnasio che accoglieva i maschi di età inferiore ai 15 anni, e un terzo, destinato ai giovani uomini di età superiore ai 18 anni (néoi). Il livello di istruzione raggiunto do-

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STORI A DELL ' I STRUZIO NE.

A R TES LIBERALES

po il normale iter scolastico poteva quindi essere molto diverso, a seconda che la città si potesse permettere un insegnamento scolastico minimo di tre anni o uno massimo di dieci. Le lezioni comprendevano soprattutto esercizi ginnici, premilitari e militari, esercitazioni di musica e letteratura, laddove anche per l'insegnamento della lettera­ tura venivano studiate materie propedeutiche come la storia dei miti, la storia, la geo­ grafia, l'etnologia (cfr. NILSSON, Die hellenistische Schule). Accanto a queste istituzioni cittadine, in molti centri della Grecia a partire dal II sec. a.C. esistevano anche scuole private, dove si tenevano lezioni approfondite di grammatica o di retorica, a volte an­ che di nltte e due le materie, dal momento che le lezioni di grammatica venivano considerate come un primo stadio indispensabile per le lezioni di retorica. Un'inte­ grazione di questa cultura generale, impostata su basi principalmente letterarie, era offerta dalle lezioni di filosofia, a loro volta private, che tuttavia erano frequentate so­ lo da un numero molto ristretto di giovani. Le lezioni di aritmetica, geometria, mu­ sica teorica e astronomia, materie appartenenti al tardo ciclo neoplatonico delle sette ani liberali, facevano cosi parte, come in epoca imperiale, dell'insegnamento della fi­ losofia, quando non rientravano parzialmente nella formazione professionale dei geometri, degli ingegneri e degli architetti.

A differenza dell'istruzione in Grecia, l'insegnamento in età ellenistica a Roma e nelle parti d'Italia che si trovavano sotto il suo influsso rimase com­ pletamente privato. Non sappiamo quasi niente sulla sua organizzazione ec­ cetto che, dalla seconda metà del II sec. a.C., vi erano maestri che insegnava­ no la grammatica (sia in greco che in latino, con la relativa letteratura e gli annessi programmi scolastici) e la retorica (soprattutto in greco). La gram­ matica latina, costruita sulla metodologia greca, poté prendere avvio natural­ mente solo a partire da questo momento, cioè dopo che, grazie alle opere di Ennio, Nevio, Plauto e Terenzio, vi fu a disposizione un materiale didattico sufficiente per dei commenti. Nella moderna letteratura scientifica troviamo spesso indicazioni sull'età degli alunni, all'inizio ovvero alla fine del corso di grammatica e retorica, e sull'abituale durata del corso stesso, ma questi dati sono proiettati, in modo non del tutto affidabile, dalla situazione dell'età im­ periale, relativamente meglio conosciuta, all'età ellenistica. Non abbiamo prove che l'élite romana si sia interessata alla musica e allo sport, discipline cosi importanti nei ginnasi greci: soprattutto per quanto riguarda lo sport, che i Greci praticavano nudi e che pertanto incoraggiava le pratiche omoses­ suali, in discredito presso i Romani. Il diritto invece conservò sempre un prestigio particolare (Christes, Bildung und Gesellschajt, pp. 140-50) : se la clas­ se dirigente romana fini per interessarsi alla retorica e alla grammatica, fu perché la prima si dimostrò molto utile per la redazione di arringhe e ora39

I STO RIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZIONE ·

zioni in senato, e la seconda costituiva l'imprescindibile stadio preliminare alla retorica. Anche la filosofia greca riusd ad ottenere nel contesto dell'i­ struzione repubblicana una sua posizione, seppure modesta, soprattutto gra­ zie a Cicerone, che la considerò indispensabile per la formazione dell'orato­ re ideale (cfr. Cicerone, De oratore); sotto questo aspetto Cicerone era in­ fluenzato dalla filosofia dell'Accademia (in particolare Filone di Larissa). I Romani erano consapevoli della fondamentale importanza degli influssi greci sulla loro cultura. Cosi Cicerone in una lettera al fratello Quinto (Ad Quintum Jratrem, I I 28) non si vergogna di ammettere che ciò che entrambi sono diventati, lo devono agli studi e alle arti (studiis et artibus) che la Grecia, attraverso i suoi monumenti e le sue discipline (monumentis disciplinisque), ha lasciato loro in eredità. Cosi come nelle città greche di età ellenistica, anche a Roma e in Italia non vi è alcuna traccia della presenza, come base della cultura generale, di quel ciclo di discipline che piu tardi divennero le sette arti liberali. Cfr. H.-l. MARROU, Les arts libéraux dans l'Antiquité classique, in Arts libéraux et philoso­ phie au Moyen Age. Actes du 4ème Congrès international de philosophie médiévale, 27 aoiìt-2 sept. 1967, Montréal-Paris 1969, pp. 5-27, criticato in l. HADOT, Arts libéraux et philosophie dans la pensée antique, Paris 1984, pp. 52-57.

Svetonio, in vari passi del trattato De grammaticis et rhetoribus, ci informa brevemente su famosi grammatici latini, che per lo piu appartenevano alla classe sociale dei liberti. Inizialmente giunsero a Roma come prigionieri di guerra, portando con sé dall'Oriente le nozioni grammaticali apprese quan­ do erano ancora liberi. In seguito appartennero in misura sempre crescente al gruppo degli schiavi nati in patria e successivamente affrancati, che dove­ vano la loro istruzione ai loro padroni ( Christes, Sklaven und Freigelassene). Al­ cuni di questi grammatici tenevano lezioni sia in greco che in latino; pochi altri - soprattutto nella fase iniziale dell'insegnamento della grammatica a Roma (Svetonio, Degrammaticis et rhetoribus, 4 6) - insegnavano anche la reto­ rica, o contemporaneamente alla grammatica (come per es., Marco Antonio Gnifone, che Cicerone ascoltò quando era ancora pretore, cfr. ivi, 7) , o l'una di seguito all'altra, in momenti diversi della loro attività di insegnamento. A partire dal I sec. a.C. l'insegnamento della grammatica si diffuse anche nelle province italiane (ivi, 3). Gli insegnamenti di retorica, in parte tenuti anche da liberti (ivi, 27) , si svolgevano per lo piu in lingua greca, con l'ausilio di li­ bri di testo greci e dello studio dell'oratoria greca. 40

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STORIA DELL ' ISTRUZIONE.

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Svetonio (ivi, 26) riferisce, basandosi su di una lettera di Cicerone ora perduta, che fu Lucio Plozio Gallo, quando Cicerone era ancora un bambino, a tenere per primo lezioni di retorica latina, ma che Cicerone non frequentò la sua scuola, per­ ché a quell'epoca autorevoli personalità erano dell'idea che l'esercizio in lingua gre­ ca garantisse maggiore successo. Plozio si era prefisso l'obiettivo di trasmettere no­ zioni di questa materia anche a coloro che non conoscevano il greco. La sua scuola però, dopo una breve esistenza, venne chiusa per motivi politici con un editto dei censori nel 92.

Le lezioni di retorica in lingua latina si diffusero soprattutto con e dopo Cicerone: le sue orazioni divennero materiale didattico e i suoi testi scolasti­ ci De inventione, Partitiones oratoriae e Topica adattarono il programma scolasti­ co greco alla tenninologia latina. Alla fine della Repubblica giunse a Roma un gran numero di retori greci, ma gli appartenenti all'élite romana erano so­ liti mandare i loro figli in Grecia e in Asia Minore, perché si perfezionassero. A partire dalla seconda metà del II secolo giunsero a Roma e in Italia an­ che alcuni filosofi greci, sia per soggiornarvi temporaneamente, come lo stoico Panezio - che intrattenne stretti rapporti con Scipione l'Emiliano - e l'accademico Filone di Larissa - il maestro di Cicerone -, sia per stabilirsi de­ finitivamente, come lo stoico Diodoto, che imparti lezioni a Cicerone bam­ bino. Diodoto in seguito abitò nella casa di Cicerone, tenne ancora lezioni persino in geometria, pur essendo cieco, e li mori (Cicerone, Tusculanae di­ sputationes, 5 113; Academica priora, I ns; De natura deorum, I 6; Epistulae ad Atti­ cum, 2 20 6); l'epicureo Filodemo di Gàdara visse a Ercolano nella villa di Lu­ cio Calpurnio Pisone Cesonino. 2.1.2.

Età imperiale

A partire dagli inizi del I secolo d.C. si delineò uno sviluppo nel sistema d'istruzione che portò dalle lezioni di grammatica (con le materie annesse citate sopra), di retorica e di filosofia - sino ad allora esclusivamente private ad una sorta di assunzione fissa del relativo personale docente nelle città. Il primo esempio che ci è stato tramandato è quello della città di Marsiglia. Stra­ hone (4 I s) riferisce infatti che, ai tempi di Augusto o di Tiberio, gli abitanti di que­ sta città di fondazione greca, quando erano di buona famiglia, si interessavano molto alla retorica e alla filosofia, tanto che Marsiglia era stata fino a poco tempo prima un centro culturale (greco) per le Gallie circostanti e l'influsso di questa città era cosi grande che i figli dell'élite romana si recavano a studiare non piu ad Atene, ma a Mar-

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I · STORIA DELLA FILOLOGIA LATI NA E DELL ' I STRUZ I O NE siglia {questa notizia è parzialmente confermata da Tacito, De vita Iulii Agricolae, 4 2-3: suo suocero Agricola [40-93 d.C.], figlio di un senatore romano ma nato in provincia, compi i suoi studi a Marsiglia, persino quelli in filosofia). E l'esempio di Marsiglia, ri­ ferisce Strabone, indusse altre città galliche della provincia ad assumere, a proprie spese e grazie al contributo di alcuni mecenati, retori e medici greci. Si trattava mol­ to probabilmente non piu di scegliere i maestri anno per anno, come solitamente av­ veniva in precedenza nei ginnasi greci, ma di assicurare loro un impiego fisso. Non ci può essere alcun dubbio che alla fine del I secolo d.C. numerose città ita­ liane avessero assunto stabilmente il proprio corpo docente, al quale pagavano uno stipendio. Cosi Plinio il Giovane in una lettera {4 13 6) assicura che ai suoi tempi era­ no molte le città italiane che pagavano uno stipendio al loro corpo docente. E il poe­ ta satirico Giovenale (Saturae, 15 no sgg.) constata che, alla sua epoca, tutti i paesi del mondo possedevano centri di diffusione della cultura greca e latina; che la Gallia, avanzata nell'oratoria, formava gli avvocati della Britannia {cioè li preparava a questo mestiere grazie a una formazione retorica) e che a quel punto persino Thule aveva intenzione di assumere un retore. Se, come scherza Giovenale, anche la remotissima isola di Thule vuole assumere un retore, questo significa che ormai la retorica era pe­ netrata fin nei piu remoti angoli dell'impero, e con essa naturalmente la grammatica, poiché non vi è retorica senza grammatica. A Roma Vespasiano era stato il primo ad accordare ai retori greci e latini, cosi come ai medici, uno stipendio annuale di IOo.ooo sesterzi attingendo dalle casse dello Stato {Svetonio, �spasianus, 18). Quinti­ liano fu il primo retore a beneficiare di questa situazione, dirigendo una scuola di re­ torica pubblica {Girolamo, Chronicon, 1901) nell'anno 88 {la data fornita da Girolamo è errata). Un editto di Vespasiano dell'anno 74, conservato solo in frammenti, esone­ ra medici e insegnanti {praeceptores) da alcuni obblighi civili, e in un commento del giurista Arcadia Carisio (Digesta, 50 4 18 29-30) si riferisce che Vespasiano e Adriano dispensarono maestri di scuola elementare (magistri), grammatici, retori, medici e fi­ losofi dall'obbligo di alloggiare in città e da altri oneri cittadini. In questo passo non si parla di stipendi ma, da ciò che sappiamo del I sec. attraverso Tacito, Plinio il Giova­ ne e Giovenale, e del III e IV sec. attraverso il retore Libanio e altri, possiamo con­ cludere che, per gli insegnanti e per i medici, lo stipendio e l'esonero da alcuni obbli­ ghi andavano di pari passo.

In tutte queste - peraltro scarse - testimonianze sui medici e gli inse­ gnanti di città si parla solo di grammatici, di retori e di filosofi. La gramma­ tica e la retorica venivano insegnate nelle province latinizzate in entrambe le lingue. La giurisprudenza - che sempre godette di alta considerazione pres­ so i Romani - veniva insegnata quasi esclusivamente in forma privata anco­ ra agli inizi del principato, quando iniziò a svilupparsi anche un insegna­ mento quasi scolastico, che si basava su libri di testo. Cfr. E . SEIDL, Romische Rechtsgeschichte und romisches Zivilprozefirecht, Koln 1962.

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STORIA DELL ' I STRUZIONE.

A R TE S LIBERALES

In età imperiale, infine, una formazione giuridica poteva essere consegui­ ta solo nelle scuole pubbliche di diritto romano. I.:attività didattica si svolge­ va esclusivamente in latino anche nelle scuole di diritto fondate nelle pro­ vince orientali a partire dall'inizio del III secolo, dove gli insegnanti veniva­ no pagati allo stesso modo. Nella prima metà del II secolo, il numero degli insegnanti pubblici fu sta­ bilito per legge, come apprendiamo da una lettera di Antonino Pio. Questa lettera, commentata da Modestino (Digesta, 27 I 6, I sgg.), era rivolta alle au­ torità della provincia dell'Asia: non v'è alcun dubbio però che i regolamenti in essa contenuti vigessero in tutto il territorio dell'impero. In questa lettera si dice che le piccole città possono avere ciascuna 5 medici, 3 sofi­ sti (retori) e 3 grammatici; le città di media grandezza 7 medici, 4 sofisti e 4 gramma­ tici, che insegnavano in entrambe le lingue, e le grandi città 10 medici, 5 retori e 5 grammatici. Al di là di questo numero persino nelle città piu grandi non si potevano concedere esenzioni da tasse e da obblighi civili. Come si è detto, l'esenzione da tas­ se e obblighi civili era abbinata ad uno stipendio pagato dalla città. In questa lettera il numero dei filosofi non viene espressamente fissato, probabilmente perché accadeva di rado che una città assumesse un filosofo, e forse quest'insegnamento continuò ad avere luogo soprattutto in forma privata. Sappiamo comunque che Marco Aurelio istitui ad Atene delle cattedre pubbliche di filosofia, ma sarebbe un errore credere che la filosofia potesse diffondersi solo nelle grandi città come Roma o Atene. Testi­ monianze letterarie ed epigrafiche ci informano del gran numero di città medie e piccole nelle quali erano attivi dei filosofi.

Con questa lettera Antonino Pio conferma una misura già adottata da Adriano e che certamente aveva avuto validità durante l'intero II secolo. Na­ turalmente esisteva ancora, almeno nelle metropoli dell'impero romano, un numero piu o meno elevato di insegnanti privati, come pure di famosi mae­ stri "itineranti", che si spostavano di città in città. Il quadro della situazione scolastica rimase pressappoco invariato nel III e nel IV sec., e riusci grosso mo­ do a mantenersi tale fino alla fine dell'età imperiale. Filostrato, nelle Vitae sophistarum, redatte prima del 238, si occupa non solo dei re­ tori dagli inizi fino alla sua epoca, ma anche dei filosofi, che nell'età imperiale aveva­ no in genere studiato tutti presso la scuola di retorica e consideravano essenziale per la loro professione disporre di ogni artificio di persuasione oratoria. Questo libro è istruttivo riguardo alle brillanti carriere che si schiudevano in età imperiale soprattut­ to ai retori: venivano inviati dalle città a Roma in qualità di ambasciatori, potevano accumulare ricchezze, diventare alti funzionari nell'amministrazione imperiale e oc-

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STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZ I O NE

cupare elevate cariche religiose (per il modesto ruolo sociale, al confronto, dei gram­ matici nel III e nel IV sec., cfr. KAsTER, Guardians ofLanguage). EuNAPIO (346-414 ca.) nel De vitis philosophorum et sophistarum sposta il baricentro delle sue descrizioni nel­ l'Oriente greco, cosicché non veniamo a sapere quasi piu niente di Roma e delle pro­ vince occidentali. Cfr. anche la Commemoratio professorum Burdigalensium di Ausonio e il corpus delle lettere di Libanio.

Se ci si chiede quale fosse il livello di cultura generale delle classi sociali elevate in età imperiale, si può affermare a buon diritto che questo corri­ spondeva prevalentemente al grado di istruzione impartito dagli insegnanti pubblici delle città di media grandezza: si trattava di un'istruzione esclusiva­ mente letteraria e retorica alla quale si aggiungeva, relativamente di rado, lo studio della filosofia che, se veniva approfondito e durava sufficientemente a lungo, comprendeva anche lezioni di aritmetica, geometria, astronomia e teoria musicale. Nonostante l'omogeneità esteriore delle scuole cittadine diffuse in tutto l'impero, il livello di istruzione delle province latinizzate occidentali (Italia, Spagna, Gallie, Africa settentrionale, parte dei Balcani) si differenziava non poco da quello delle province orientali, greche o ellenizzate. Nelle zone la­ tinizzate dell'impero l'insegnamento era rimasto assolutamente bilingue, co­ me alla fine dell'epoca repubblicana; a partire dal III secolo d.C., però, dimi­ nuirono la qualità e la portata dell'insegnamento greco. Dal II secolo a.C. fi­ no al II d.C. l'insegnamento del greco comprendeva lo studio approfondito della grammatica e della retorica, con il risultato che romani come Cicerone, Tacito, Quintiliano, Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, Seneca padre e fi­ glio, Adriano, Marco Aurelio non solo padroneggiavano e avevano fatte pro­ prie la lingua e la letteratura greca, ma erano anche in grado di tenere un discorso in greco secondo tutti i canoni della retorica o di comporre versi in quella lingua. Verso la fine del IV secolo, invece, la conoscenza del greco da parte di Agostino, che aveva alle spalle una formazione di retore latino e che in giovenru, nell'Africa settentrionale, aveva seguito lezioni di grammatica greca, era cosi scarsa da costringerlo a fare sforzi considerevoli per capire un testo greco, senza contare che non era ovviamente in grado di parlare o scri­ vere in greco. È anche certo che, ai tempi di Boezio (480 ca.-524), le provin­ ce latinizzate conoscevano le teorie retoriche greche solo attraverso la me­ diazione degli scritti di Cicerone e di Quintiliano. In città come Roma, Mi­ lano e Ravenna, tuttavia, continuò a sussistere nelle classi dirigenti fino alla fine del VI secolo un bilinguismo vero e proprio. 44

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Le cose andarono diversamente nelle province greche o ellenizzate del­ l'impero. I loro abitanti, almeno nei primi due secoli dopo Cristo, tranne po­ che eccezioni, non si erano mai adoperati per acquisire una cultura diversa da quella greca: da una parte perché consideravano quest'ultima di gran lun­ ga superiore a quella latina, dall'altra perché non si erano mai trovati nella si­ tuazione di dover imparare il latino. Anche se, da sconfitti e sottomessi, sot­ tostavano in una certa misura alla giurisdizione romana, potevano parlare davanti al tribunale nella loro propria lingua: gli alti funzionari romani delle province erano bilingui e non avevano bisogno di interprete. I.;amministra­ zione imperiale possedeva inoltre un ufficio ab epistulis graecis, che dava alle lettere e agli editti imperiali la forma ufficiale greca: la semplice esistenza di questo ufficio testimonia la posizione privilegiata che veniva concessa al gre­ co da parte dello Stato romano. Questa situazione si modificò leggermente quando Caracalla nel 212 concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini li­ beri delle province, provvedimento che permise loro di accedere anche a ca­ riche amministrative romane, a condizione però che parlassero latino. Que­ sto mutamento risvegliò un certo interesse per la lingua latina e per il diritto romano anche nella popolazione di lingua greca, ma fino all'ascesa al trono di Diocleziano gli sforzi per apprendere la lingua latina nelle province elle­ nizzate restarono poco efficaci. A partire da quest'ultimo e sotto tutti i so­ vrani successivi fino a Teodosio l, si può individuare una tendenza crescente a ridimensionare la posizione privilegiata di cui godeva la lingua greca: il la­ tino diviene la lingua dell'esercito e delle amministrazioni provinciali. Paral­ lelamente a ciò possiamo seguire lo sviluppo del fenomeno prima menzio­ nato: i funzionari inviati nelle province orientali erano sempre meno in gra­ do di parlare greco o addirittura non lo parlavano affatto. Queste circostanze fecero si che gli abitanti delle province ellenizzate incominciassero a questo punto ad interessarsi seriamente alla lingua latina. Il retore greco Libanio, per esempio, nelle sue lettere e nei suoi discorsi riferisce che, quando insegnava ancora a Costantinopoli, alcuni suoi allievi lo lasciarono per andare a frequentare la scuola di diritto romano di Berytos (Beirut, vd. per es. Oratio­ lles, 1 76; Epistulae, 539, 1375 ed. R. Foerster, Stuttgart-Leipzig 1903-1927) e che, quan­ do era stato insegnante pubblico di retorica nella città natale Antiochia, alcuni suoi al­ lievi o studiavano contemporaneamente latino, o abbandonavano gli studi di retorica greca per imparare il diritto romano, o ancora, dopo aver concluso lo studio di reto­ rica, iniziavano a studiare il diritto romano (per es. Epistulae, 1131 Foerster). I.:interes­ se per la lingua latina aumentò in modo cosi considerevole che la città di Antiochia

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I · STORIA DE LLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I S TRUZI O NE nel 356 istituf un posto di insegnante di latino { Orationes, 38 6; 58 21 sg.) e in seguito addirittura un posto per il diritto romano (Epistulae, 209) . Ma Teodosio II nel 439 ri­ conobbe nuovamente il greco come seconda lingua ufficiale accanto al latino: nel­ l'impero bizantino dunque quest'ultimo poté sopravvivere solo come lingua del di­ ritto codificato. Cfr. anche G. DAGRON, Aux origines de la culture byzantine: langue de cul­ ture et langue d'État, in Revue Historique 241 1969, pp. 23-56. «

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Vediamo quindi che in epoca imperiale, nonostante l'amministrazione centrale e il regolamento scolastico vigente in tutto l'impero, il livello di istruzione raggiunto nelle province latinizzate e nelle province ellenizzate attraverso gli insegnamenti cittadini non era assolutamente il medesimo, e che in entrambe le aree linguistiche esso dipendeva dall'evoluzione storica. Queste differenze di livello di istruzione sarebbero messe ancora maggior­ mente in risalto, se potessimo tener conto del contributo delle lingue e del­ le culture locali. Solo per fare un esempio: in Siria e Mesopotamia le classi dirigenti parlavano aramaico (siriaco) e greco; questo bilinguismo rese in se­ guito possibile l'ingresso di parti della letteratura greca - attraverso la media­ zione dell'aramaico - nella sfera culturale islamica. Bibliografia: fondamentale sul tema della rielaborazione della cultura greca attra­ verso i RomaniJ.-L. FERRARY, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la con­ quete romaine du monde hellénistique, de la seconde guerre de Macédoine à la guerre contre Mi­ thridate, Roma 1988. Ugualmente istruttivo J. CHRISTES, Bildung und Gesellschafi. Die Einschiitzung der Bildung und ihrer Vermittler in der griechisch-riimischen Antike, Darmstadt 1975 {fatta eccezione per l'errata interpretazione dei concetti di artes libera/es e di enky­ klios paideia). Sull'insegnamento si vedano M.P. NILSSON, Die hellenistische Schule, Mi.inchen 1955 [trad. it. La scuola nell'età ellenistica, Firenze 1973], e HA DOT, Arts libéraux et philosophie. Sulla posizione sociale dei grammatici si vedano J. CHRISTES, Sklaven und Freigelassene als Grammatiker und Philologen im antiken Rom, Wiesbaden 1979, e R.A. KAsTER, Guardians ojLanguage. The Grammarian and Society in Late Antiquity, Berkeley {Ca.) 1988. Sull'impiego a scuola di un retore in età imperiale, P. PETIT, Les étudiants de Libanius, Paris 1957· Su Agostino, I. HADOT, Erziehung und Bildung bei Augustin, in Inter­ nationales Symposium iiber den Stand der Augustinus-Forschung vom 12. bis 16. Apri/ 1987, im Schlofi Rauischholzhausen derJustus-Liebig-Universitiit Giefien, a cura di C. MAYER e K.H. CHEuus, Wi.irzburg 1989, pp. 99-139. 2.2. ARTES LIBERALES

artes libera/es, tradizionalmente resa in italiano con 'arti libera­ li', è la traduzione del concetto greco ÈÀ.t:u�epat -rtxvat e indica tutti i generi l: espressione

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di occupazione che sono degni di un uomo libero, siano essi di natura spiri­ tuale, musicale, fisica (caccia, sport) o militare. In epoca ellenistica o imperia­ le le artes liberales non possono essere di regola identificate con la enkyklios pai­ deia (èyxuxÀtoç ncnòda, -rà èyxuxÀta, èyxuxÀta lla�t11-1a-ra, èyxuxÀta 7tatòeu.... j.lata, encyclios disciplina), né si può affermare che la storia della enkyklios paideia abbia inizio nel V secolo a.C. e che la enkyklios paideia coincida con il ciclo delle "sette arti liberali" che, secondo un'opinione molto diffusa, avrebbe co­ stituito la base dell'educazione dei ceti superiori a partire dall'età ellenistica. La posizione rifiutata è sostenuta, tra gli altri, da CHRISTES, Bildung und Gesellschafl, 7 7I, e oltre; contro questa posizione, cfr. HAD OT, Arts libéraux et philosophie, pp. 263-93.

2.2.1. Enkyklios paideia I.:aggettivo èyxuxÀtoç, in unione con 1tatòda e con le espressioni affini ap­ pena citate, non va tradotto con 'generale', 'comune', bensi con 'esteso', 'en­ ciclopedico'. I.:espressione èyxuxÀtoç 7tatòda è attestata con certezza solo negli ultimi anni della Repubblica e in età imperiale. Essa non indica l'edu­ cazione generale solitamente trasmessa alla gioventti appartenente ai ceti so­ ciali elevati, ma è piuttosto il frutto di complesse riflessioni filosofiche che ri­ salgono a Platone (Repubblica, 537c; Fedro, 266b, e Epinomide, 991e-992a). Queste riflessioni portarono alla convinzione che le scienze razionali - i cui contenuti erano tutti accessibili per mezzo dello stesso metodo razionale (dialettico) - costituissero un corpus unitario, cosicché, se si padroneggiava una di esse, si potevano facilmente acquisire anche le altre. Da questa conce­ zione dell'unità delle scienze consegue viceversa che, per padroneggiare be­ ne una sola scienza, bisogna aver studiato tutte le altre, nel loro contenuto teoretico. I.:idea dell'unità delle scienze implica l'idea dell'aspirazione alla completezza del sapere. Uno scrittore "tecnico" quale VITRlNIO (De architectura, I I I2) , che visse nei primi anni dell'età augustea, obietta a coloro che non ritengono realizzabile un programma cosi vasto - egli stesso parla (I I 3-11) della necessità che il futuro architetto studi let­ teratura, disegno, geometria, storia, filosofia, musica (teorica), medicina, giurispru­ denza e astronomia - che tale progetto è invece senz'altro realizzabile, giacché a:l). Nel pri­ mo gruppo egli annovera la medicina, la retorica, la musica (teorica), la geometria, l'aritmetica, il calcolo, l'astronomia, la grammatica e la giurisprudenza. Per il secondo gruppo egli nomina solo l'arte plastica e il disegno, perché le considera le arti piu ele­ vate di questo gruppo. Nella stessa opera (5 7 sg. p. 107 4 Marquardt) Galeno rap­ presenta la suddivisione delle arti attraverso tre cori, ognuno dei quali forma un cer­ chio; questi tre cori si allontanano dal loro epicentro Ennete-Logos nella misura in cui diminuisce la loro partecipazione al logos, alla riflessione razionale. Quelli che fanno parte del cerchio piu vicino al dio sono i geometri, gli aritmetici, i filosofi, i medici, =

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gli astronomi e i grammatici, i rappresentanti cioè delle arti che si fondano su rifles­ sioni razionali. Seguono quelli del secondo cerchio: i pittori, gli artisti plastici {sculto­ ri), i maestri elementari, i carpentieri (falegnami? '!ÉX'!oveç), gli architetti e gli sculto­ ri. Del terzo cerchio egli si limita a dire che abbraccia il resto delle arti. Cfr. per es. Fi­ lone, De congressu eruditionis gratia, 79 sgg.; Plutarco, Quaestiones conviviales, 9 3 744d-f; Sinesio, Dio, 4 6 sgg.; Scholia ad Gregorium Nazianzenum, or. 9 = PC, XXXVI 914 C.

Il numero delle scienze e delle arti che appartenevano alla enkyklios paideia non era fissato. Presso gli autori che utilizzano questo termine tecnico si tro­ vano elenchi sempre diversi a seconda dei loro ambiti di interesse. In quan­ to architetto, Vitruvio elenca la letteratura ( grammatica), la geometria, la storia, la filosofia, la musica (teorica), la medicina, la giurisprudenza e l'astro­ nomia, che devono essere studiate in funzione dell'architettura. All'enkyklios paideia appartiene per lui ovviamente anche l'architettura. Galeno, come me­ dico, cita la medicina, la retorica, la musica (teorica), la geometria, l'aritmeti­ ca, l'astronomia, la grammatica, la giurisprudenza. Quando Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, PraeJ. 14) dice che nel suo trattato di storia naturale deve occuparsi di tutte le materie che i Greci annoverano nella enkyklios paideia sia che si tratti di un argomento universalmente noto, che di un tema poco conosciuto e poco studiato - pensa evidentemente, anche senza dirlo espli­ citamente, alle materie comprese nell'ambito della storia naturale, quindi ad astronomia, meteorologia, geografia, etnologia, zoologia, botanica, geologia e farmacologia. Dai diversi esempi citati risulta che la enkyklios paideia non costituiva in nessun caso la base dell'istruzione comune impartita alla giovenru delle clas­ si elevate, costituita sia in epoca ellenistica che imperiale dalla grammatica e dalla retorica e, per una piccola minoranza all'interno di una minoranza, dal­ la filosofia. Nell'ambito dell'insegnamento della filosofia - quando la mate­ ria veniva approfondita e non ci si limitava a una superficiale rassegna gene­ rale delle dottrine delle diverse scuole - venivano talora impartite lezioni in discipline matematiche, anche se questo tipo di insegnamento rimase proba­ bilmente riservato ai veri adepti della filosofia. Il concetto di enkyklios paideia formatosi nelle scuole filosofiche fu al contrario utilizzato per definire un corso completo ed enciclopedico di discipline scientifiche o artistiche che si basano su riflessioni razionali. Per i filosofi tuttavia era ovvio che la filosofia non potesse far parte della enkyklios paideia, ma che quest'ultima le fosse su­ bordinata e rappresentasse solo una preparazione, seppure indispensabile, al suo studio. =

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Riassumendo, si deve dire che la enkyklios paideia si limita ad una scelta al­ l'interno delle artes libera/es, ossia quelle arti che si basano sulla riflessione ra­ zionale. Essa non ha niente a che vedere con la consueta educazione cittadi­ na della giovenru delle classi elevate di epoca imperiale. HADOT, Arts libéraux et philosophie, pp. 263-93.

2.2.2. Il ciclo delle sette arti liberali Il ciclo delle sette arti, o meglio scienze liberali - entrambi i nostri te­ stimoni principali, AGOSTINO e MARZIANO CAPELLA, non parlano di artes {-rtxvat) ma di disciplinae (rmoTij�at) - è un prodotto puramente filosofico e, come nel caso della enkyklios paideia, non ha nulla a che vedere con l'educa­ zione generale dei giovani. Questo ciclo è stato concepito all'inizio del neo­ platonismo, dopo una graduale preparazione attraverso il medioplatonismo. Grazie alla mediazione di CASSIODORO (VI sec.) e di IsmoRo (ca. 570-636) nonché dei luoghi della loro attività, il monastero del Vivario (Vivarium) nel­ l'Italia meridionale e il vescovado di Siviglia nella Spagna visigotica, questo ciclo è stato tramandato al Medioevo latino. Come nel caso della enkyklios paideia, anche qui si tratta di un gruppo di scienze a sé stante, il ciclo delle sette scienze : grammatica, dialettica, retorica, geometria, musica, astrono­ mia, aritmetica, che Marziano Capella chiama anche disciplinae cyclicae (9 998). Oltre all'immagine del cerchio, viene utilizzata anche quella di una sca­ la a sette gradini che, sviluppando ulteriormente l'immagine di quella a quattro gradini applicata da Nicòmaco di Gerasa alle scienze matematiche, conduce alla filosofia, con un'ascesi graduale di tipo platonico dal sensibile all'intelligibile (per es., Alcuino, De grammatica, Pro!. 268 A = PL, 101 853 D9854 AI; l'idea dell'ascesa per gradi è alla base anche della rappresentazione di Agostino). Questo ciclo compare per la prima volta alla fine del IV sec. in un'opera giovanile di Agostino, il dialogo De ordine, il quale, come tutti gli al­ tri scritti a Cassiciacum, è stato inconfondibilmente influenzato dalle dottri­ ne neoplatoniche. Le affermazioni di Agostino che riguardano il ciclo delle sette arti sono con ogni probabilità da ricondurre all'opera perduta di Porfì­ rio, De regressu animae, che egli aveva letto in traduzione (De civitate Dei, 10 29; cfr. Catifessioni, 8 2 3). Quest'opera parla del ritorno dell'anima razionale umana nella sua patria, l'intelletto; esso si attua in un primo momento me­ diante un processo di conversione dell'anima su se stessa. Il secondo testo giuntoci, nel quale viene trattato il ciclo delle sette arti li50

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berali, o meglio scienze liberali, è l'opera di Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, anch'essa influenzata dal neoplatonismo nelle sue im­ portantissime parti allegoriche (ll. I-II e introduzioni delle diverse scienze al­ l'inizio dei libri enciclopedici m-Ix). V operaè stata effettivamente composta, cosi come si era ritenuto finora, intorno al 400 o un po' piu tardi in Norda&ica. Si veda SHANZER, A Philosophical and Literary Commentary on Martianus Capella's 'De Nuptiis Philologiae et Mercurii' Book 1, p. 28, che di recente ha proposto come data di redazione il periodo tra il 470 e il 480.

Il pagano Marziano Capella ci fornisce in modo ancora piu completo di Agostino la concezione della dottrina neoplatonica di base poiché affianca alle sette scienze suddette sette arti mantiche (artes) e la teurgia. Queste ulti­ me però non vengono descritte, visto che devono restare segrete. La scelta del termine disdplina, che sia Agostino che Marziano Capella utilizzano nel­ la descrizione di quelle che in seguito verranno denominate "sette arti libe­ rali", le identifica come scienze pure, che non necessitano di esperienza pra­ tica e basi concrete e che perciò sono adatte a condurre fino alla visione del­ l'intelligibile. AcosTINO, nel secondo libro del De ordine (a partire da 2 35) , descrive le sette scien­ ze (disciplinae) inventate dalla ragione (ratio), presentandole ai suoi ascoltatori come assolutamente indispensabili per giungere alla conoscenza della propria anima e di Dio. La ragione (ratio), allo scopo di comunicare, inventa prima di tutto la lingua, va­ le a dire un sistema di suoni con un preciso significato, e in seguito la scrittura. La ra­ gione, secondo Agostino, è capace di tali invenzioni poiché nel corso di questo pro­ cesso era diventata consapevole del ruolo dei numeri, ed aveva potuto essere consa­ pevole di ciò perché - come apprendiamo in seguito - possiede un'affinità antologi­ ca con i numeri intelligibili. I.:idea che il numero e la capacità di contare costituisca­ no il fondamento dell'invenzione della lingua e della scrittura rimonta in ultima istanza a Platone (Filebo, r8b 6-d 12) : l'invenzione della lingua da parte di Theuth, il dio del sapere, presuppone una misura dell'infinito, qualè appunto il numero. La ra­ gione spersonalizzata assume in Agostino il ruolo del dio egiziano Theuth, che viene successivamente identificato con il dio greco Ermete e con il dio latino Mercurio, i quali a loro volta vengono identificati col Logos nel doppio significato di 'lingua' e 'ra­ gione'. Cito questo dato perché nel De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Ca­ pella lo stesso dio Mercurio, la personificazione della ragione, viene espressamente identificato col dio egiziano Theuth (2 101-3) . Dopo la creazione della lingua e della scrittura la ragione elabora la divisione delle lettere e dei suoni, le sillabe con le loro lunghe e le loro brevi, gli accenti, le declinazioni, le coniugazioni, la stilistica e la me­ trica. La grammatica avrebbe potuto essere completata con la teoria linguistica da es-

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I · STORIA DELLA FILOLO G IA LATINA E DELL ' I STRUZIONE sa sviluppata, dichiara Agostino con rimpianto (De ordine, 2 37}, se alla sua sfera di competenza non appartenessero anche le opere della storiografia, della finzione let­ teraria (poesia} e della mitologia. Come può la grammatica avere il carattere di veri­ tà di una disciplina, se ha a che fare con le finzioni letterarie e quindi con il falso? Ago­ stino risponde a questa domanda in un passo dei Soliloqui (2 19-21), nel quale il mede­ simo problema non viene solo formulato, ma anche risolto: la grammatica esamina scientificamente terni che scientifici non sono, poiché utilizza, al pari delle altre scienze del ciclo, il metodo dialettico che sa discernere il vero dal falso. Dopo l'invenzione della grammatica, la ragione si rivolge al metodo stesso che aveva utilizzato nella creazione della grammatica e costituisce cosi la dialettica, che consta delle tre parti: definizione, divisione e dimostrazione, parti queste che anche nell'Isagoge di Porfìrio costituiscono la totalità della logica. La dialettica è la disciplina disciplinarum, la 'scienza delle scienze', che insegna contemporaneamente ad insegna­ re e ad apprendere. Nel momento in cui formula le regole dialettiche, la ragione im­ para a conoscere se stessa: ciò che è, ciò che vuole e ciò che può. La dialettica corri­ sponde quindi alla pura attività razionale, che rinuncia al sensibile in toto. Ma la ra­ gione, per poter al contempo anche convincere agendo sui sentimenti, inventa anche la retorica (De ordine, 2 38} : del resto già i membri della Nuova Accademia e i medio­ platonici erano dell'idea che la saggezza non può trasmettersi con sufficiente effica­ cia se rinuncia all'eloquenza. Agostino conclude la sua trattazione sulla grammatica, dialettica e retorica affer­ mando che queste tre scienze insieme costituiscono la parte che viene definita ra­ zionale nell'ambito della significazione (pars ista quae in significando rationabilis dicitur, 2 38}. In questo modo vengono riunite le discipline di quello che in seguito sarà chia­ mato Trivium, le quali però erano già state in un certo senso raggruppate dagli stoici. I.:elemento nuovo e di origine neoplatonica è invece il fatto che per Agostino il fon­ damento di queste tre scienze non è solo la ragione, il Logos, ma anche il Logos inteso come rapporto numerico e come misura. Dopo l'invenzione delle scienze della grammatica, della dialettica e della retorica la ragione - come dice Agostino (De ordine, 2 39) - vuole innalzarsi gradualmente per contemplare le cose divine. Questo cammino porta, nel senso del metodo platonico (cfr. Platone, Simposio, 210a-212a; Plotino, Enneadi, 1 3 2-6}, oltre la bellezza percepita dai sensi fino alla bellezza intelligibile. La ragione si rivolge innanzitutto alla musica (poesia + musica vera e propria} che costituisce il quarto grado di questa ascesa, ossia alla bellezza trasmessa attraverso le orecchie, ma riconosce che le sue manifestazioni sensibili possono essere per lei di un qualche valore solo se la loro bellezza viene de­ terminata grazie al ritmo e alle armonie che si basano sulle proporzioni numeriche, dietro le quali si lascia intravedere l'essere divino ed eterno dei numeri, in sé e per sé, liberato da ogni manifestazione sensibile. In seguito la ragione si rivolge alla bellezza percepita dagli occhi. Ma anche in que­ sto caso la ragione si rende conto che la bellezza si basa essenzialmente su figure geo«

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metriche e sulle loro proporzioni, che sono tuttavia di molto inferiori per bellezza a quelle che l'occhio spirituale percepisce senza la componente sensibile. Da queste os­ servazioni, analizzate e poste in un ordine preciso, la ragione fa nascere la geometria. Nell'osservazione della bellezza del cielo la ragione analizza le orbite delle stelle perfettamente stabilite numericamente - e le proporzioni delle loro distanze reci­ proche, e con ciò crea l'astronomia. Ma anche qui essa arriva alla conclusione che mi­ sura e numero sono detenninanti. La musica, la geometria e l'astronomia portano dunque alla conoscenza del siste­ ma dei numeri puri, liberi dal sensibile, che viene generalmente definito aritmetica. Ma Agostino evita questo tennine, al posto del quale utilizza preferibilmente peri­ frasi del tipo le leggi necessarie dei numeri » (2 I4: in numerorum necessitatibus} o >. È possibile che la stessa notizia si sia trovata una volta in una trattazione grammaticale, un'altra in una trattazione musicale. Per Ritschl non v'è alcun dubbio che, nel caso del libro nominato dei Disdplinarum libri, si tratti del libro sulla musica: ma poiché la musica, o piu precisamente l'armonia, viene trattata da Marziano Capella nel settimo libro della sua esposizione delle sette discipline, cioè nel nono libro del De Nuptiis, egli corregge tacitamente il testo dello scolio in questo senso. A suo parere si deve leggere o ) o nel terzo libro della sua trattazione Sulla lingua latina ». Con o senza indicazione del numero del libro, per lui è provato che, nel caso del libro citato dei Disdplinarum libri, si debba trattare di un li­ bro di musica - laddove potrebbe ugualmente trattarsi di un altro libro di questioni grammaticali e linguistiche - e che, in secondo luogo, questo debba essere il settimo. Questo esempio, che illustra con quale leggerezza Ritschl abbia trattato i testi, valga anche per altri. In conclusione si può dire che per un'interpretazione obiettiva della totalità delle «

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I · STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZI O NE citazioni antiche di Varrone tratte dai Disciplinarnm libri - o da opere di cui non viene dato il titolo - la ricostruzione di Ritschl non ha assolutamente alcuna affidabilità. Dal titolo non si può neppure dedurre che per Varrone il termine disciplina avesse il medesimo significato specifico che si dovette sviluppare a partire dal medioplatoni­ smo e che ritroviamo anche nel secondo libro del De ordine di Agostino e in Marzia­ no Capella. Al contrario, la presenza nei Disciplinarnm libri dell'architettura, disciplina che ha a che fare con esperienze pratiche e con dati concreti, dimostra che le cose non stanno cosi. Anche tutte le altre argomentazioni che si credette di poter addurre a favore delle tesi di Ritschl in base a testi come la poesia di Licenzio rivolta ad Ago­ stino (S. Aurelii Augustini opernm sectio n, ed. Goldbacher, Wien 1895 [« Corpus Scrip­ torum Ecclesiasticorum Latinorum = CSEL, 34], pp. 89-95) e un passo di Claudiano Mamerto (De statu animae, 2 8 = p. 130 2-9 Engelbrecht), non resistono a un esame cri­ tico. Date le circostanze è possibile solo riconoscere la nostra totale ignoranza sulla struttura e sul contenuto dei Disciplinarnm libri. HADOT, Arts libéraux et philosophie, pp. 156-90. 11

[2.1. Sulla storia dell'educazione: S.F. BaNNER, I.:educazione nell'antica Roma. Da Ca­ tone il Censore a Plinio il Giovane, trad. it., Roma 1986; R. FRASCA, Educazione eformazio­ ne a Roma. Storia, testi, immagini, Bari 1996; T. MoRGAN, Literate Education in the Helleni­ stic and Roman Worlds, Cambridge 1998; Y.L. Too (a cura di), Education in Greek and Roman antiquity, Leiden-Boston-Koln 2001. 2.1.1. Sul bilinguismo: B. RocHETTE, Le latin dans le monde grec. Recherches sur la dijfu­ sion de la langue et des lettres latines dans les provinces hellénophones de l'Empire romain, Bru­ xelles 1997. 2.2.2. Marziano Capella, ed. comm.: L. CRISTANTE, Padova 1987 (L Ix) ; l. RAME LL, Milano 2001 (intr., trad. e appendici); studi: S. GREBE, Martianus Capella, 'De nuptiis Philologiae et Mercurii� Darstellung der Sieben Freien Kiinste und ihrer Beziehungen zueinan­ der, Stuttgart 1999; datazione: S. GREBE, Gedanken zur Datiernng von 'De nuptiis Philolo­ giae et Mercurii' des Martianus Capella, in « H ermes », 128 2000, pp. 353-68. 2.2.3. Sul problema della ricostruzione delle Disciplinae di Varrone: P. o'ALESSANDRO, Agostino, Claudiano Mamerto, Cassiodoro e i 'Disciplinarnm libri' di Varrone, in MOYI:A. Scritti in onore di Giuseppe Morelli, Bologna 1997, pp. 357-70; R. ScHIEVENIN, Varrone e Marziano Capella, in BStL, 28 1998, pp. 478-93.]

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3 FILOLOGIA E ISTRUZIONE DAL RINASCIMENTO ALL'OTTOCENTO

di ANTHONY GRAFTON e GLENN W. MosT• J.I.

DAL RINASCIMENTO AL PRIMO SETTECENTO

J.I.I.

Gli inizi in Italia

Nella decisione di PETRARCA di salire sul Monte Ventoso la critica otto­ centesca volle vedere l'inizio di una nuova era. La lettera latina nella quale Pettarca racconta dettagliatamente la sua esperienza, descrivendo con gran­ de forza espressiva il panorama di cui godette dalla cima del monte, segnò l'inizio della « scoperta del mondo e dell'uomo 1> . Petrarca dimostrava - cosi ritenevano Jacob Burckhardt e i suoi successori - che gli intellettuali del Ri­ nascimento si erano liberati da quelle paure religiose che avevano impedito alla mentalità medievale di godere delle bellezze della natura. Non poteva meravigliare il fatto che essi investigassero anche altri aspetti del mondo, dai paesaggi e popoli d'Italia, descritti da Pio II in maniera cosi viva, fino ai pae­ saggi spirituali, esplorati da biografi come Girolamo Cardano o da moralisti come Giusto Lipsio. La ricerca del nostro secolo ha mostrato quanto sia problematica una tale lettura del testo di Petrarca. Il suo resoconto sulle esperienze di quei giorni fatidici fu in buona parte riscritto molti anni piu tardi: i dettagli particolareg­ giati del suo soggiorno sulla montagna derivano per lo piu da fonti letterarie. Una contraddizione apparente fra Livio e Pomponio Mela aveva spinto Pe­ trarca ad affrontare l'ascesa; un passo tratto dalle Confessioni di Agostino, che il poeta aveva letto in un codice tascabile, gli dimostrò che si era reso colpe­ vole di aver trascurato l'indispensabile impegno di ricerca e miglioramento del proprio animo. La lettera stessa - un'opera attenta ed elaborata, ricca di allusioni, che sviluppa molti temi affini - segue chiaramente dei modelli classici, soprattutto le Lettere a Luci/io di Seneca. Un testo che inizialmente venne considerato una testimonianza della scoperta di una nuova bellezza •

Il paragrafo J.I. è stato redatto da Anthony Grafton, il 3.2. da Glenn W. Most.

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STO RIA DE LLA FILOLO G IA LATINA E DELL ' I STRUZIO NE

nella natura si rivela cosi una prova della scoperta di una nuova sensibilità verso l'antico. Petrarca, in qualche modo l'iniziatore del turismo moderno, diventò il creatore di un nuovo tipo di scienza. In qualità di lettore raccolse ed emen­ dò i migliori manoscritti latini di letteratura classica e patristica che riusci a trovare. Fu il primo dopo secoli a leggere e possedere le quattro decadi di Li­ via giunte in forma completa. Per tutta la vita studiò le opere di Virgilio e nella sua copia affiancò in aggiunta a Servio un suo commento personale. Non fece mai mistero del classicismo senza compromessi nelle sue prefe­ renze letterarie, ad esempio con la lista dei libri mei peculiares che - al di là delle opere di Agostino - conteneva solo testi pagani. Già prima di lui, nei primi decenni del Trecento, soprattutto nell'Italia settentrionale, vi erano stati dotti che avevano studiato biblioteche e archivi. Giovanni Mansionario di Verona ad esempio utilizzò per la sua storia dell'impero romano un gran numero di fonti antiche e dimostrò in una breve trattazione che i due Plinii andavano separati. Nessuno fu in grado tuttavia di raggiungere l'ampiezza e l'efficacia dell'attività scientifica di Petrarca, né di anticipare le possibili ap­ plicazioni di questa scienza. Petrarca, da scrittore qual era, dimostrò chiara­ mente che i testi antichi per lui non erano auctoritates impersonali, bensf ope­ re di autori con una loro individualità, i quali avevano come lui lavorato in un preciso contesto storico e biografico. Scrisse lettere sia a Cicerone, Virgi­ lio e Livio che ai suoi posteri: sono testi critici, vigorosi, che mostrano con quale immediatezza egli leggesse gli antichi e con quale ambizione volesse uguagliarli nel loro campo. Scrisse ampie opere latine in versi e in prosa (compresi manuali storici e l Africa, un imponente poema epico sulle guerre di Roma con Cartagine), ma anche brevi trattazioni. A mano a mano che il suo sapere cresceva, Petrarca modificava la sua opera. Ogni scoperta sulla prosodia e sullo stile latino o sulle istituzioni romane affluiva subito in uno dei suoi testi latini. Petrarca creò un nuovo tipo di disciplina scientifica; si trattava di una scienza rigorosamente storica, che però doveva al contempo creare una moderna letteratura latina che potesse uguagliare l'antica. I con­ temporanei rimproverarono a Petrarca la mancanza di un rigore filosofico nella sua attività di scrittore: dall'inizio del Rinascimento in poi l'occuparsi di retorica classica e di poesia fu un'attività che dovette essere difesa, non diver­ samente da quanto accadeva nell'antichità, dagli attacchi dei filosofi. Le sue opere raggiunsero tuttavia un vastissimo pubblico - a nord delle Alpi non meno che in Italia - e il suo classicismo creativo venne salutato da molti con '

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3 · FILO LOGIA E I STRUZIONE DAL RINASCIME NTO ALL ' OTTOCENTO entusiasmo. Amici e discepoli si unirono a lui, lo aiutarono nella ricerca di nuovi testi e, dopo la sua morte, svilupparono la sua iniziativa in nuove dire­ zioni. Ciò che era corrùnciato come opera di un singolo crebbe progressiva­ mente fino a diventare un movimento spirituale di ampio respiro, dal quale nacquero anche nuove forme di educazione. A Firenze in particolare il notaio Cowcc10 SALUTATI (1331-1406) patroci­ nò e sviluppò le conquiste di Petrarca e insieme a un gruppo di arrùci piu giovani - soprattutto PoGGIO BRACCIOLINI (1380-1459), LEONARDO BRUNI (ca. 1370-1444) e NiccoLò Niccou (1363-1437) - prosegui la ricerca di testi latini. In parte grazie anche ai viaggi di ricerca che Poggio intraprese duran­ te il periodo trascorso al servizio del papa (in particolar modo durante i con­ cilii di Basilea e di Costanza), questi dotti resero di nuovo disponibili le let­ tere AdJamiliares e Ad Atticum di Cicerone, il De Rerum Natura di Lucrezio e l'opera storica di Ammiano Marcellino. La copia di Poggio Bracciolini della Cena Trimalchionis divenne la fonte di tutti i manoscritti esistenti. Forse fu ancora piu importante il fatto che essi crearono una nuova scrittura che si al­ lontanava notevolmente dalle forme carolingie: con questa trascrivevano i testi da loro letti, nei quali facevano rivivere in modo coerente le esigenze classiche dell'ortografia e della sintassi. Gli scaffali dei giovani studiosi in tut­ ta Italia si riempirono di testi classici in una nuova forma di libro, trascritti nella nuova minuscola, facilmente leggibile, solitamente senza lunghi com­ menti, spesso in un formato maneggevole. Niccolò Niccoli creò la sua rac­ colta di libri come base per la propria ricerca e per l'uso da parte di altri stu­ diosi. Nonostante la sua notoria suscettibilità prestò centinaia di opere e il suo patrimonio librario venne a costituire poi il nucleo della biblioteca fio­ rentina di San Marco, la prima biblioteca pubblica laica dell'epoca moderna. Il canone fondamentale dei testi latini era diventato ora accessibile agli studi organizzati in tutta Italia. Questo portò ad immediate conseguenze : all'im­ provviso la vita e le opere degli autori romani nella loro totalità tornarono ad essere al centro dell'interesse. Il primo storico della letteratura latina, Sicco PoLENTON (1375/6-1447), non era un pensatore originale, ma utilizzò il ricco materiale in suo possesso per contestare annose valutazioni sbagliate ed er­ rori, sia collegandosi a studiosi precedenti che basandosi sulla propria ricerca. Ma la cosa piu importante fu la convinzione di Bruni e di Salutati che gli studi classici non riguardassero solo la letteratura ma anche la morale e lo Stato. Entrambi furono attivi per molti anni come cancellieri della città-stato repubblicana di Firenze. Entrambi dettero grande importanza al fatto che al 6!

I STO RIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZIO NE ·

centro del lavoro moderno sui testi latini dovessero essere gli scritti di Cice­ rone, in quanto classico di una letteratura politica repubblicana. Lo studio delle sue orazioni e dei suoi trattati retorici costituiva la preparazione ideale per una carriera pubblica. Le sue lettere infatti descrivono una vita che aspi­ rava alla morale pubblica. Altri testi classici - come il Dialogus de oratoribus di Tacito - descrivono in maniera particolareggiata le conseguenze culturali e sociali che ebbero il declino e la caduta della Repubblica. Lo studio appro­ fondito dei latini diede al Bruni la possibilità di trovare nuove forme lettera­ rie al servizio della città di Firenze: cosi sostenne che questa non era stata fondata da Carlo Magno, ma dai veterani di Silla, per poter dimostrare che essa conservava le tradizioni repubblicane di Roma meglio di tutte le altre città vicine. Bruni scrisse infine, rifacendosi a Livio, un'ampia storia di Firen­ ze in latino. In altre parole, i classici rivestirono un ruolo di notevole impor­ tanza per il presente. Questa convinzione creò le basi perché dalla nuova fi­ lologia di Petrarca derivasse un vasto movimento culturale. I principi, cosi come le autorità cittadine di Firenze, seppero riconoscere gli effetti provocati da una dimestichezza con i classici. I papi del Quattro­ cento assumevano umanisti come segretari, mentre signori come Gianga­ leazzo Visconti di Milano, il grande nemico di Firenze, cercavano studiosi intelligenti che fossero in grado di difendere in modo eloquente la loro poli­ tica espansionistica e di dare una formazione classica ai loro figli. Molti gran­ di maestri, soprattutto GuARINO DA VERONA (morto nel 1460), si stabilirono nelle corti dell'Italia settentrionale e centrale, dove svilupparono un piano per una formazione umanistica completa. Guarino, ad esempio, fece cono­ scere ai suoi studenti a Ferrara - tra i quali l'erede al trono Leonello d'Este ­ le poesie di Giovenale e la Rhetorica ad Herennium. Nuovi manuali riassume­ vano il sapere di base: Guarino possedeva l'abilità di presentare liste di omo­ nimi latini e cose simili in sistemi di versi mnemonici. Accurate esercitazio­ ni di stile permisero ai suoi studenti di assolvere i compiti di un moderno la­ tinista: per esempio descrivere un casale o una villa, cosi come Plinio il Gio­ vane aveva fatto in modo esemplare. In una lunga discussione con i suoi con­ temporanei fiorentini Guarino dimostrò anche che il dedicarsi alla filologia e alla storia poteva essere utile sia ai principati che alle repubbliche. Guarino raccolse riferimenti alla decadenza dello Stato tratti dalle rappresentazioni storiche della tarda Repubblica e lodò le virtli di Cesare non diversamente da come Salutati e Bruni avevano lodato quelle di Bruto. La scuola di Guari­ no attirò studenti da luoghi remoti, come l'Ungheria o l'Inghilterra: essi tor-

3 FILO LO GIA E I STRUZIONE DAL RINASCIMENTO ALL ' OTTOCENTO ·

navano in patria, come disse Ludovico Carbone nella commemorazione del suo maestro, ormai non piu barbari ma pronti a fondare in tutta Europa del­ le scuole secondo il suo modello. 3-1.2. Il Quattrocento e il Cinquecento Già Petrarca aveva visto la necessità di ripristinare la semantica, la sintassi e l'ortografia del latino classico. Gli studiosi del Quattrocento, che avevano a disposizione molti piu testi, intesero lo sviluppo della lingua latina in un mo­ do nuovo e molto piu raffinato. Agli inizi del quindicesimo secolo si diffuse una discussione sul tema se i Romani avessero parlato il latino classico nella quotidianità. Leonardo Bruni argomentò contro questa tesi, lo studioso ro­ mano Flavio Biondo a favore. Prima della fine del secolo divenne chiaro che il latino nel corso del tempo si era radicalmente trasformato, che la lingua parlata dall'uomo della strada si differenziava dal latino scritto degli auto­ ri classici, e che solo la ricerca diretta e sistematica dei testi poteva procura­ re informazioni precise su questi sviluppi. LoRENZO VALLA (1407-1457) dedi­ cò la vita allo studio della lingua latina, che considerava un saaamentum. Le sue Elegantiae Latinae linguae, che si basavano sull'analisi diretta delle fonti la­ tine, erano molto diffuse, tanto da divenire il primo manuale moderno per l'uso del latino classico. Valla dimostrò l'utilità e l'attualità delle sue indagini quando nella Declamatio (una prova da virtuoso della retorica latina) dimo­ strò che la donazione di Costantino, che documentava la donazione delle terre dell'impero al papa, era un falso medievale. Con ciò gli umanisti dell'e­ poca di Valla avevano di nuovo raggiunto, se non addirittura superato, il gra­ do di conoscenza della storia della lingua latina di Servio e dei grammatici tardoantichi. Oltre allo studio dei testi, nello stesso periodo ebbe luogo un'innovazione importante. Già Petrarca e i suoi amici, come lo studioso romano Giovanni Colonna, avevano cominciato ad occuparsi delle rovine dell'antica Roma. Niccoli acquisi una particolare conoscenza di gemme e cammei antichi, in­ vestendo in libri - che erano la sua passione - i proventi della sua attività commerciale. Numerosi artisti, che fondarono l'architettura e la pittura del Quattrocento - primo fra tutti Filippo Brunelleschi -, si dedicarono intensa­ mente sia alle costruzioni che alle statue antiche. Insieme al vecchio gramma­ ticus, l'antiquarius ebbe nuova vita. CIRIACO DI ANCONA (1391-1455) con un gruppo di imitatori studiarono le antiche località dell'intero mondo mediter-

I STO RIA DE LLA FILOLOGIA LATINA E DELL ' I STRUZIONE ·

raneo, raccolsero iscrizioni romane e riprodussero, nei loro blocchi per ap­ punti, sculture greche e romane. Sotto Niccolò V, alla metà del Quattrocen­ to, furono alle dipendenze della corte papale, FLAVIO BIONDO (1392-1463) e LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472), che lavorarono con fervore non solo al­ la scoperta di singole rovine romane, ma anche a realizzarne la cartografia e la descrizione. I testi furono da loro non solo letti e spiegati: anche le istitu­ zioni e gli edifici in essi menzionati furono ricostruiti. Nuovi manuali - so­ prattutto gli studi di Biondo sull'antica Roma e il manuale di architettura dell'Alberti - riepilogarono in un modo facilmente accessibile le scoperte piu importanti. Intorno alla metà del Quattrocento uno studioso che si te­ nesse à jour sapeva non solo collocare i suoi testi nello sviluppo della lingua e della letteratura latina, ma in particolare sapeva anche osservare lo sviluppo della religione, l'evoluzione della forma di governo di Roma e la strategia bellica. Verso la fine degli anni Sessanta del XV secolo la stampa arrivò in Italia. Essa diede una forma duratura ai risultati della scienza del primo umanesi­ mo. I problemi tecnici di finanziamento e di distribuzione non erano facili. Sweynheym e Pannartz, che introdussero la stampa di testi latini a Subiaco e a Roma, andarono ben presto in bancarotta. Ancora piu gravi erano i pro­ blemi filologici. Come avevano fatto i copisti prima di loro, i tipografi sce­ glievano di solito il testo di riferimento per la loro edizione perché era a por­ tata di mano, e non perché avessero controllato la sua attendibilità attraverso un confronto testuale. La collazione con altri testi era di solito sporadica e la correzione delle bozze - ben presto compito nell'officina tipografica di spe­ cialisti mal pagati - era di rado sufficientemente approfondita da poter effet­ tivamente migliorare i testi. Immediatamente gli umanisti esperti iniziarono a lamentarsi del fatto che le edizioni dei classici latini fossero piene di errori grossolani. Uno di loro, Niccolò Perotti, propose addirittura che il papa in­ troducesse la censura formale della stampa e incaricasse di ciò uno studioso esperto. Le edizioni dei classici del tardo Quattrocento, ciononostante, con­ servarono il canone dei testi latini in misura maggiore di quanto fosse mai successo prima. Gli eleganti piccoli formati, che Aldo Manuzio stampava a Venezia, permisero a queste opere di raggiungere nuovi lettori aristocratici in tutta Europa. La stampa del libro rese accessibile ad un pubblico piu vasto anche le opere di antiquari e grammatici. Negli ultimi due decenni del Quattrocento furono inoltre definiti in ma­ niera piu precisa i problemi e i metodi della critica testuale. Il veneziano ER-

3 · FILO LOGIA E IS TRUZIONE DAL RINASCIME NTO ALL ' O TTOCENTO MOLAO BARBARO (1453-1493) redasse un commento umanistico, ampio e molto originale, alla Naturalis historia di Plinio il Vecchio (Roma, 1492-1493), un testo particolarmente difficile ma importante. Il suo contemporaneo AN­ GELO PouziANO (1454-1494), maestro dei figli di Lorenzo de' Medici e pro­ fessore allo Studio fiorentino, cercò di procedere in modo ancora piu siste­ matico. Si lamentò della semidocta sedulitas di tipografi e correttori, e quando si diede da fare per collazionare il maggior numero di manoscritti, volle svi­ luppare anche dei criteri per stimarne il valore. Fu chiaro che i codici piu an­ tichi di solito contenevano un testo meno corrotto di quelli piu recenti. Ma Poliziano andò oltre: i manoscritti di alcuni testi nelle biblioteche fiorenti­ ne - per esempio delle Epistulae adJamiliares di Cicerone o dei Digesta era­ no riconoscibili, in modo evidente, come dipendenti l'uno dall'altro. Polizia­ no poté ricostruire cosi le genealogie di questa dipendenza e pretese che per la correzione di un testo corrotto fossero impiegati solo i testimoni indipen­ denti e non anche quelli dipendenti. Sebbene la sua opera sia rimasta in­ completa, i suoi Miscellanea del 1489 comunicarono questi principi di base ad una cerchia di lettori di tutta Europa, mentre quelli fiorentini poterono ap­ prendere altro ancora dalle osservazioni a margine nei suoi libri e nelle sue carte. Nacque dunque una sorta di metodo critico-testuale piu preciso e ri­ goroso di quello degli antichi grammatici descrittoci da Gellio. -

3-1.3. Gli sviluppi a nord delle Alpi In questa epoca che dava adito a cosi grandi speranze, le invasioni dei Francesi e degli Spagnoli distrussero i beni dell'Italia, ma allo stesso tempo portarono anche gli studiosi transalpini a diretto contatto con il lavoro degli umanisti italiani. Già nel Trecento singoli chierici e colti aristocratici al di fuori dell'Italia si erano occupati dei classici. Tuttavia solo intorno al 1500 si presentarono a nord delle Alpi degli studiosi che potevano misurarsi con l'e­ rudizione e l'eloquenza degli Italiani. Questi studiosi modificarono nuova­ mente l'eredità latina che gli Italiani avevano fissato e studiato. DESIDERIO E RA sMo (1469-1536), ad esempio, redasse una serie di rigorosi manuali e libri di lettura. Uno di questi, gli Adagia, svelò con drammatica evidenza quanto i Romani dovessero ai Greci; un altro, dal titolo De duplici rerum et verborum co­ pia, era un manuale moderno di stilistica latina che, cristiano nel tono e nel­ l'ispirazione, si rivolgeva chiaramente alla pratica. Gli scritti concisi e lucidi di Erasmo riassumevano i fondamenti della latinità in maniera piu gradevo-

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STORIA DELLA FILOLOGIA LAT INA E DELL ' I STRUZ I O NE

le di quanto non avessero fatto i suoi predecessori italiani; raffinate spiega­ zioni allegoriche eliminavano ogni occasione di scandalo che poteva essere offerta dalle storie antiche degli dèi e degli eroi. I suoi libri di lettura, raffi­ nati e accessibili, ebbero anche un grande influsso sulle lingue volgari euro­ pee e trasmisero un canone di forme e di contenuti classici dalla conoscenza del quale dipese per secoli l'appartenenza alla Res publica litterarum. Educato­ ri successivi - come i protestanti JACOB STURM (1507-1589) a Strasburgo e RoGER AscHAM (1515-1568) a Cambridge o come i gesuiti fra i cattolici - svi­ lupparono e sistematizzarono i metodi di Erasmo, istituendo una rete di scuole per l'educazione classica in tutta l'Europa a nord delle Alpi. La forma cristianizzata dell'antichità a cui Erasmo diede la priorità non ricevette cam­ biamenti radicali o correzioni nelle scuole - da Cracovia a Canterbury - che usarono i suoi libri. Durante tutto il Cinquecento la filologia e l'educazione classica si svilup­ parono ulteriormente. I metodi della pubblicazione del testo erano tutt'altro che unitari. La maggior parte degli editori si basava, come prima, su testi di base scelti arbitrariamente, e la maggior parte dei commentatori si unifor­ mava ai propri predecessori. Alcuni editori stamparono semplicemente il maggior numero di commenti possibile e crearono cosi le editiones variorum, che raccoglievano i classici in un nuovo involucro di commenti. Vi furono comunque alcuni studiosi italiani o formatisi in Italia, come il fiorentino PIER VETTORI (1499-1585) o lo spagnolo ANTONIO AGusTiN (1517-1586), che seguirono l'esempio di Poliziano. I.;edizione di Cicerone di Vettori e l'edi­ zione fiorentina dei Digesta, alla quale Agustin aveva collaborato in modo so­ stanziale, testimoniano gli ingenti sforzi da parte di questi studiosi di basare intere edizioni su quei manoscritti che erano stati identificati come le fonti di tutti gli altri esistenti. Al pari di Antonio Riccobono, di Carlo Sigonio e di altri, anche Agustin cominciò a raccogliere le testimonianze di opere latine perdute. Intorno alla metà del XVI secolo uscirono le edizioni dei fram­ menti del De re publica di Cicerone, della poesia di Ennio, dell'opera storica di Claudio Quadrigario e dei libri perduti del De lingua Latina di Varrone. Un altro lettore di Poliziano, BEATO RENANO (1485-1547), cercò di trovare le migliori fonti testuali e cercò di impiegarle sia per le sue edizioni di nuovi testi latini, sia per la ricostruzione della storia e delle istituzioni delle provin­ ce romane. GuiLLAUME BuDÉ (1468-1540) si basò sui lavori di Valla, di Poli­ ziano e di altri quando scrisse il primo commento di diritto romano, dal qua­ le doveva svilupparsi una letteratura specialistica di commenti storici. Il pro66

3 FILOLO GIA E I STRUZIONE DAL RINASCIMENTO ALL ' OTTOCENTO ·

gresso metodologico prosegui. GIUSEPPE GmsTo ScALIGERO (1540-1609) tra­ sformò il suo commento a Manilio - una tipica impresa enciclopedica del tardo Rinascimento - in una ricerca dettagliata sulla storia dell'antica astro­ logia e astronomia. RICHARD BENTLEY (1662-1742) dimostrò col suo Manilius un'impresa altrettanto caratteristica del primo Illuminismo - che gli edito­ ri si dovevano liberare dall'osservanza nei confronti del testo corrente della vulgata. Anche nel campg delle antichità si delinearono nuove questioni e nuovi metodi. La cronologia della storia romana fu ad esempio rivoluzionata nel decennio successivo al 1540 grazie alla scoperta di frammenti di iscrizioni dei Fasti. Studiosi italiani di antichità come CARLO SIGONIO (1524-1584) ed erudi­ ti nordici come lo Scaligero rivaleggiarono nell'esegesi del nuovo materiale. Si arrivò anche alla formulazione di idee rivoluzionarie: piu di uno studioso del Cinquecento anticipò Niebuhr e respinse la storia tramandata dei primi secoli di Roma giudicandola solo un mucchio di leggende. Durante tutto il Seicento studiosi e antiquari pubblicarono lavori originali su tutti gli aspetti della vita e della storia di Roma. Nemmeno le scoperte geografiche e naturalistiche del tardo Quattrocen­ to e del Cinquecento, che avevano mostrato i limiti del vecchio scibile, po­ terono mettere in crisi la posizione super partes dei classici latini nei confron­ ti della scienza e dell'educazione. Nel Cinquecento inoltrato GiusTo LIPSIO (1547-1606) ammise che l'età delle repubbliche sembrava essere tramontata: Cicerone non aveva piu molto da dire ai sudditi di monarchi come Filippo II. Ma nel contempo Lipsio riteneva che la storia dell'età imperiale romana, se fosse stata studiata approfonditamente, avrebbe potuto aiutare coloro che vivevano sotto i moderni successori di Caligola e di Claudio. Nel corso dei cinquant'anni successivi, e anche oltre, la questione degli arcana imperii impe­ gnò i professori della pioneristica università di Leida, la piu grande dell'Eu­ ropa di allora. Centinaia di studenti vi giungevano per apprendere gli inse­ gnamenti pratici che grazie ad un'adeguata selezione si potevano ricavare dai testi classici. La ricerca e le lezioni di Lipsio sull'esercito romano, ad esem­ pio, ebbero delle conseguenze pratiche straordinarie: il suo allievo Moritz d'Orange ne fece dipendere una riforma degli eserciti della repubblica olan­ dese grazie alla quale poté attaccare per terra gli Spagnoli e sconfìggerli. Uno studioso di grande modernità come l'astronomo GIOVANNI KEPLERO (15711630) ritenne sensato tradurre e commentare Tacito per offrire suggerimenti pratici al suo imperatore Rodolfo Il. -

I STORIA DELLA FILOLOGIA LAT INA E DELL ' I STRUZI O NE •

La filologia latina e l'educazione classica del Seicento e degli inizi del Set­ tecento assunsero forme tali e raggiunsero un pubblico molto piu vasto di quanto Petrarca si sarebbe mai potuto immaginare. Ma i fondamenti posti da Petrarca restarono ancora validi: nonostante tutta la complessità e il successi­ vo affinamento, i loro rappresentanti continuavano ad essere dell'idea che la scienza e l'educazione dovessero costituire un'unità organica. BIBLIOGRAFIA L.D. REvNoLDs-N.G. WILSON, Scribes and Scholars. A Guide to the Transmission of Greek and Latin Literature, Oxford 19913 [trad. it.: Copisti e filologi: la tradizione dei classici dall'antichità ai tempi moderni, trad. di M. FERRARI con una premessa di G. BILLANO­ VICH, 3• ed. rivista e ampliata, Padova 1987]; P.O. KRISTELLER, Renaissance Thought and its Sources, a cura di M. MooNEY, New York 1979; P. DE NoLHAC, Pétrarque et l'huma­ nisme, Paris 19072; B.L. ULLMAN, Studies in the Italian Renaissance, Roma 19732; lo., The Origin and Development of Humanistic Script, ivi 1960; lo., The Humanism oJ Coluaio Sa­ lutati, Padova 1963; R. WITT, Hercules at the Crossroads. The Life, Works and Thought of Coluccia Salutati, Durham (N.C.) 1983; H. BARON, In Search oJ Fiorentine Civic Huma­ nism. Essays o n the Transition from medieval to moderne Thought, 2 voll., Princeton (New Jersey) 1990; R. WEISS, The Renaissance Discovery of Classica! Antiquity, Oxford 1969, 19882 [trad. it.: La scoperta dell'antichità classica nel Rinascimento, Padova 1989]; M. LowRY, The World ofAldus Manutius, Oxford 1979 [trad. it.: Il mondo di Aldo Manuzio, a cura di V. CAPPELLETTI e F. TAGLIARINI, Roma 1984]; A. GRAFTON-L. ]ARDINE, From Humanism to the Humanities: Education and Liberai Arts in Fifteenth- and Sixteenth­ Century Europe, London 1986; EJ. KENNEY, The Classica! Text. Aspects of the Editing in the Age of the Printed Book, Berkeley (Ca.)-Los Angeles-London 1974 [trad. it. Testo e metodo. Aspetti dell'edizione dei classici latini e greci nell'età de/ libro a stampa, Roma 1995]; A. MoMIGLIANO, Contributi alla storia degli studi classici e del mondo antico, 9 voll., Roma 1955-1992; J.F. D'AMico, Theory and Practice in Renaissance Textual Cn"ticism: Beatus Rhe­ nanus Between Conjecture and History, Berkeley-Los Angeles-London 1988; A. GRAF­ TON, ]oseph Scaliger. A Study in the History of Classica! Scholarship, 1. Textual Criticism and Exegesis, Oxford 1983, n. Historical Chronology, ivi 1993; W. KOHLMANN, Gelehrtenrepu­ blik und Fiirstenstaat: Entwicklung und Kritik des deutschen Spi:ithumanismus in der Literatur des Barockzeitalters, Ti.ibingen 1982; G. 0ESTREICH, Geist und Gestalt des Jriihmodernen Staates: ausgewcihlte Aufii:itze, Berlin 1969. [N. SciVOLETTO, Scalate immaginarie e loro mo­ duli narrativi (in margine a Petrarca, 'Fam.' IV 1), in Studi sull'Umbria medievale e umanistica: in ricordo di Olga Mannelli, Pier Lorenzo Meloni, Ugolino Nicolini, a cura di M. DoNNINI e E. MENESTÒ, Spoleto 2000, pp. 515-26.]

[J.I. Un repertorio delle principali figure di questo periodo si può trovare in J.-FR.

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3 · FI LOLOGIA E I STRUZIONE DAL RINASCIMENTO ALL ' OTTOCENTO MAILLARn-J. KEcsKEMÉTI-M. PoRTALIER (a cura di), L:Europe des humanistes (XIV> ['Attraverso tutti questi tratti, il carattere dei Greci divenne a tal punto l'ideale di tutta l'esistenza umana, che si può ritenere che essi traccia­ rono, in modo non perfettibile, la forma pura della definizione umana, an­ che se il compimento di questa forma si fosse potuto in seguito verificare in altra maniera'] (W. von Humboldt, Ober den Charakter der Griechen, in Id., Werke in fiinf Biinden, 11. Schrifien zur Altertumskunde und Asthetik, Darmstadt 1986, p. 69). Le riforme di Humboldt tuttavia non bandirono affatto il latino dalle scuole. Al contrario: dopo il 1812, il programma educativo dei ginnasi prussiani richiedeva 76 ore di latino e 50 ore di greco (in confronto a 44 ore di tedesco, 6o ore di matematica e le 20 ore di scienze naturali); e, dopo una nuova riforma, nel 1837, gli studenti dovettero seguire addirittura 86 ore di la­ tino e 42 ore di greco (e solo 22 ore di tedesco, 33 ore di matematica e 16 ore di scienze naturali). Vesame di maturità quindi esaminava soprattutto la ca­ pacità del diplomando non solo di comporre in latino testi già preparati op­ pure redatti al momento, ma anche di parlare latino in modo adeguato in un esame orale. La longevità del latino nelle scuole tedesche, ben oltre l'Ottocento, do­ vrebbe in verità stupire molto piu della sua graduale scomparsa negli ultimi decenni. Vallora controversa discussione sulle riforme di Humboldt riguar­ dava anche la questione se il latino dovesse essere insegnato a scuola e, in ca­ so affermativo, quante ore di lezione dovessero essere impartite: accanto ai vantaggi, spesso menzionati, del latino nei confronti del greco o di altre lin­ gue - il latino è piu semplice o piu logico o aiuterebbe ad apprendere altre lingue - si può ben immaginare che anche altri fattori abbiano svolto un ruolo importante nella duratura posizione di superiorità del latino nelle scuole tedesche, soprattutto la volontà di restare fedeli a venerabili tradizio­ ni e l'esistenza di una classe già formata di maestri di latino che proveniva in un primo tempo da scuole cristiane e poi da ginnasi. In Germania si sviluppò cosi nel corso dell'Ottocento un contrasto sem­ pre maggiore fra le elevate ambizioni umanistiche e una realtà scolastica tal­ volta polverosa, a cui si sovrappose una seconda tensione, specificamente te­ desca, fra la ricerca universitaria e l'insegnamento scolastico. Al di fuori del­ la Germania, nei paesi di lingua romanza e in Inghilterra, nello studio del la«

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3 · FILOLOGIA E I STRUZIONE DAL RINASCIME NTO ALL ' O TTOCENTO tino all'università e nelle scuole proseguirono le tradizioni culturali piu anti­ che ma sempre vitali: il latino era considerato la lingua dell'eloquenza, degli exempla morali, delle arguzie, mentre il greco assolse un ruolo piuttosto se­ condario e guadagnò prestigio solo come importazione tedesca. Cosi la Bi­ bliothèque des auteurs grecs di Ambroise Firmin Didot e la nuova edizione del Thesaurus Linguae Graecae di Henri Estienne (Stephanus) fissarono i risultati e in una certa misura anche i metodi degli studi greci di tradizione tedesca in Francia; la prima edizione della storia della letteratura greca di Karl O. Miil­ ler in lingua inglese usci a Londra nel 1840; la prima edizione tedesca, postu­ ma, risale ad un anno piu tardi. Bisogna tener presente questa situazione generale se si vuol comprendere la struttura degli studi latini in Germania nell'Ottocento. Editori intelligenti e impegnati, anche se nessuno di loro eguagliò i predecessori del Settecento, immisero, a intervalli regolari, in un mercato insaziabile edizioni attendibili di autori scolastici, e alcuni dei commenti scolastici di allora si trasformarono in duraturi strumenti ausiliari della filologia scientifica: Urlich von Wilamo­ witz ( Geschichte der Philologie, p. 65 [= Storia della filologia classica, p. 127]) nomi­ na KARL HALM, KARL LuDWIG RoTH, FruEDRICH GoTTLOB HAAsE, HEIN­ RJCH KEIL, MARTIN HERTZ, KARL NIPPERDEY. Rimase inoltre valida ancora a lungo l'edizione di Virgilio di Heyne nella quarta edizione (1830-1841) riveduta da GEORG PHILIPP WAGNER, mentre l'Orazio di Bentley fu ristampato nel 1826 a Lip sia e nel 1869 a Berlino, il suo Terenzio nel 1846 a Kiel. Un'eco piu tarda, ma oramai poco rappresentativa dell'antico prestigio della cultura latina nella sfera linguistica tedesca si coglie nei lavori di tre fra i piu importanti filologi latini dell'Ottocento: infatti in KARL LACHMANN, il piu grande innovatore della critica testuale, cosi come nel suo allievo MoRITZ HAUPT, l'acribia filologica nei confronti della poesia latina si uni al fervore verso i monumenti letterari della madrelingua;JoHAN NICOLA! MADVIG non era solo un maestro incontrastato nello stile della pro­ sa latina, ma anche un politico di grande successo; a THEODOR MoMMSEN venne conferito nel 1902 il Premio Nobel per la letteratura. I piu importanti progressi della ricerca della latinistica tedesca nell'Ottocento furono però realizzati non tanto negli ambiti centrali del canone scolastico letterario, quanto piuttosto in settori che un tempo venivano considerati marginali. Si approntarono edizioni di fonti in parte ancor oggi valide : fonti per il diritto romano e l'epigrafia (Mommsen), per il latino arcaico e gli autori del primo teatro romano (Ritschl, Ribbeck), nonché per la poesia minore tardoantica 73

I · STORIA DELLA FILOLOGIA LATINA E DELL'ISTRUZIONE tramandataci per lo piu in forma anonima (Buecheler-Reise), per i gramma­ tici (Keil, il SenJius di Thilo-Hagen), per i retori (Halm), i geografi (Riese) e gli agrimensori (Bluhme-Lachmann-Mommsen-Rudorff) ; un crescente in­ teresse per lo sviluppo storico e la molteplicità della lingua - al di là della sua considerazione normativa nella scuola - si rifletté in una intensa attività les­ sicogratìca latina (Wolffiin, Thesaurus Linguae Latinae); secondo l'esempio delle grandi raccolte greche di frammenti, furono editi ora anche i fram­ menti dei poeti (Baehrens), degli oratori (Meyer, Cortese) e degli storici (Peter) romani. In sintesi si può affermare che i maggiori contributi inter­ pretativi non riguardarono la letteratura e men che mai gli autori scolastici, bensf la storia, soprattutto quella dell'epoca arcaica e di quella tarda (Nie­ buhr, Mommsen). Solo all'inizio del ventesimo secolo, con Mommsen, ma anche grazie a FRIEDRICH LEo, la latinistica poté emanciparsi e conservare un posto, se non superiore, almeno pari a quello della grecistica. Nel 1903 uscirono sia il com­ mento di EDuARD NoRDEN al libro VI dell'Eneide che la Virgils epische Technik di RICHARD HEINZE: per la prima volta dai tempi di Heyne, latinisti tedeschi di prim'ordine si dedicavano di nuovo al grande poeta di Roma. Ad eccezio­ ne della critica testuale latina, che con ALFRED E. HousMAN poté celebrare il raggiungimento di un livello non piu ottenuto dal Settecento, le impostazio­ ni di Mommsen e di Leo furono decisive nel nostro secolo per le ricerche su Roma antica. La visione globale che Mommsen dette dello Stato romano, basata su una amplissima conoscenza di tutte le possibili fonti, si ritrova nel­ le molteplici tendenze della storiogratìa romana di questo secolo: nel rilievo dato alla storia dell'economia, alla storia sociale e alla storia della religione, nel particolare interesse per la storia dell'età imperiale e di quella tardoanti­ ca, nell'utilizzazione sistematica di tutte le fonti prosopografiche, epigrafiche e numismatiche. Per la storiografia greca solo i papiri ellenistici poterono of­ frire delle possibilità in qualche modo confrontabili. Leo, al contrario, richia­ mò l'attenzione dei latinisti sull'acquisizione e la trasformazione della cultu­ ra greca da parte dei Romani e sollevò con ciò la questione non solo esclusi­ vamente del "greco", ma ora soprattutto del "romano" nella letteratura ro­ mana. Nell'interpretazione testuale questo interrogativo produsse frutti ric­ chi e durevoli (Eduard Fraenkel). Ebbe invece poco successo il tentativo di alcuni latinisti che, dopo il 1918, riallacciandosi in parte alla teoria di WERNER JAEGER del « terzo umanesimo » di Roma, cercarono di stabilire alcuni valori ideali come punti di riferimento dopo il primo disastro europeo del ventesi74

3 · FILOLOGIA E ISTRUZI O NE DAL RI NASCIMENTO ALL ' OTTOCENTO mo secolo; la riedizione di questo tentativo durante la crisi di valori degli an­ ni 'so, seguita alla seconda catastrofe del secolo si rivelò essere una semplice dilazione rispetto al generale allontanamento della società dal carattere nor­ mativa dell'antichità, che provocò cedimenti prima nell'insegnamento scola­ stico e poi negli studi universitari del latino. In Germania la capacità della fi­ lologia latina di far fronte a questa evoluzione generale fu indebolita irrepa­ rabilmente negli anni '30 dalla cacciata dei piu illustri latinisti (Fraenkel, Norden) per motivi razziali. All'inizio del periodo di tempo qui considerato il latino veniva accusato di eccessiva modernità, alla fine, invece, di essere obsoleto. Nei paesi di lingua romanza, l'Italia in primis, il latino resterà ancora a lungo un elemento im­ portante della coscienza nazionale. Ma in Germania e in altri paesi, dove manca questo radicamento diretto in un consenso sociale, il latino potrà con­ tinuare a reclamare un posto nelle università per il valore di molti testi latini antichi e non per l'importanza fondamentale di questa lingua nella storia dell'Europa. Nella scuola il latino ha perduto da tempo la sua posizione pre­ dominante, e anche in futuro la situazione non dovrebbe mutare. Uno stu­ dio del latino all'università, che si intenda soprattutto come formazione per insegnanti, diventerà a lungo andare sempre piu problematico. Molto facil­ mente lo studio di questa lingua diventerà una fra le tante materie letterarie o storico-culturali, che, come tutte le altre, non solo forma insegnanti, ma svincolata da un unico obiettivo professionale - conduce soprattutto a una comprensione della letteratura e della cultura e perciò non teme di superare barriere cronologiche e disciplinari.

BIBLIOGRAFIA HJ. APEL-S. BITTNER, Humanistische Schulbildung 1890-1945. Anspruch und Wirklich­

keit der altertumskundlichen Unterrichtsfiicher, Koln-Weimar-Wien 1994; G. ARRIGHETTI (a cura di) , Lafilologia greca e latina nel secolo XX Atti del Congresso internazionale, 1'721 settembre 1984, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Pisa 1989; Philologie und Hermeneutik im 19. ]ahrhundert, 11. Philologie et Herméneutique au 19­ riuscirono in quest'epoca a rimuovere, per divinatio, centinaia di lezioni erross

I I · STORIA DEI TESTI E DEI LORO TESTIM O N I nee, e i n seguito le loro emendazioni sono state spesso confermate dall'ana­ lisi della tradizione manoscritta. Normalmente però la vulgata, il textus rece­ ptus, dominava incontrastata il campo. 1.3·4· Le testimonianze sull'antica critica testuale sono facilmente accessibili in J.E.G. ZETZEL, Latin Textual Criticism in Antiquity, New York 1981, e in E. P6HLMANN, Einfuhrung in die Oberliiferungsgeschichte und in die Textkritik der antiken Literatur, I. Alter­ tum, Darmstadt 1994. La prassi in uso nel IX secolo si osserva in modo esemplare nei manoscritti di Lucano: H.C. GoTO FF, The Transmission ojthe Text oJLucan in the Ninth Century, Cambridge (Mass.) 1971. Sull'attività filologica degli umanisti, troppo spesso sopravvalutata, si esprime in maniera critica EJ. KENNEY, The Character of Humanist Philology, in R.R. BoLGAR (a cura di), Classica/ Injluences on European Culture A.D. 5001500, Cambridge 1971, pp. 119-28. Per questo ambito di ricerca è indispensabile l'ope­ ra classica di S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma 1973 · Per il periodo se­ guente è basilare EJ. KENNEY, The Classica/ Text. Aspects ofEditing in the Age ofthe Prin­ ted Book, Berkeley-Las Angeles-London 1974 [trad. it. Testo e Metodo. Aspetti dell'edizio­ ne dei classici latini e greci nell'età de/ libro a stampa, ed. riveduta, a cura di A. LuNELLI, Ro­ ma 1995]. Buone informazioni di carattere generale si trovano in L.D. REYNOLDS­ N.G. WILSON, Seribes and Scholars. A Guide to the Transmission of Greek and Latin Litera­ ture, Oxford 19913 [trad. it.: Copisti e filologi: la tradizione dei classici dall'antichità ai tempi moderni, trad. di M. FERRARI con una premessa di G. BILLANOVICH, 3" ed. rivista e am­ pliata, Padova 1987].

1.3.5· La critica testuale su basi scientifiche comincia con le ricerche di KARL LACHMANN sul Nuovo Testamento greco e latino, ma soprattutto con la sua edizione di Lucrezio (Berlin 1850). Lachmann ricostruisce l'archetipo dai due manoscritti superstiti del IX secolo conservati a Leida, il Vossiano lat. F 30 (O Oblongus) e il Vossiano lat. Q 94 (Q Quadratus). Lacune testuali e una successione di versi erronea gli consentirono di calcolare con precisione il numero delle righe per pagina e il numero dei fogli che doveva avere quel­ l'esemplare. La sostanziale esattezza e importanza della sua scoperta non venne inficiata dal fatto che il codice non fosse tardoantico, come egli crede­ va, ma che si dovessero presupporre uno o due stadi intermedi di trasmissio­ ne : parte dei numerosi errori non si generò infatti durante la traslitterazione in minuscola di un antico esemplare in maiuscola, ma dall'errata lettura di un manoscritto medievale in minuscola. Da allora, il compito del critico te­ stuale e dell'editore consiste nel rintracciare per ogni testo i manoscritti su­ perstiti, ordinarli secondo l'età, stabilire, con l'aiuto degli errori comuni, i lo­ ro rapporti di parentela, ricostruire, se possibile, le fonti non conservate, e tentare quindi di ricondurre il testo alla forma il piu possibile vicina a quella =

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CRITICA TESTUALE E D ECD OTICA

dell'archetipo. Solo quando si raggiunge lo stadio piu antico della trasmissio­ ne, si può stabilire la genuinità di un passo dubbioso ed eventualmente emendarlo. Vero è che la situazione della tradizione di Lucrezio è partico­ larmente chiara, dal momento che i numerosissimi manoscritti successivi ri­ salgono tutti indirettamente a uno dei due Vossiani {ma anche questa asser­ zione presenta aspetti problematici : a riguardo si veda G.B. Alberti, Problemi di critica testuale, Firenze 1979, pp. 59 sg.; M.D. Reeve, The Italian Tradition of Lucretius, in IMU, 23 1980, pp. 27-48). Per altri autori invece il compito della ricostruzione è molto piu difficile, se non impossibile. Nel caso di testi che presentano un alto numero di manoscritti (di Virgilio piu di mille, di Teren­ zio tra 700 e 8oo, del De officiis di Cicerone circa 700, centinaia, per esempio, anche di Sallustio, di Orazio, delle Metamorphoses di Ovidio, di Lucano, Per­ sia, Giovenale, Claudiano), la mole dei testimoni piu recenti non è stata an­ cora studiata in modo approfondito: è tuttavia necessario cercare di chiarire, anche se solo parzialmente, il rapporto di dipendenza &a i testimoni e di rappresentarlo in uno stemma. Dal punto di vista teorico, il procedimento segue un duplice percorso: dapprima ci si allontana il piu possibile dalla su­ perficie visibile per avvicinarsi all'origine, poi si ripercorre storicamente ciò che si è dedotto attraverso i vari stadi fino al punto finale, cioè al testo redat­ to criticamente, che deve offrire al lettore ciò che l'autore ha scritto. 1.3.6. Laclunann ebbe predecessori e contemporanei che giunsero a risultati simili, anche se in maniera meno spettacolare. Una chiara esposizione della storia del suo metodo si trova nel brillante studio dell'allievo di Pasquali S. TrMPANARO, La genesi del metodo del Lachmann (Firenze 1963; nuova ed. riveduta e ampliata, Padova 1981; rist. corr. 1985). I suoi risultati sono stati completati da P.L. ScHMIDT, Lachmann's Method. On the History oJa Misunderstanding, in The Uses of Greek and Latin. Historical Essays, a cu­ ra di A.C. DroNISOTTI, A. GRAFTON e J. KRAYE, London 1988, pp. 227-36.

1.4· LA METODOLOGIA DELLA

RECENSIO

E DELLA EXAMINATIO

Quando la tradizione di un testo è fondata su un unico testimone (un manoscritto, codex unicus, o un'antica edizione a stampa), si deve solo decide­ re se il singolo passo riproduca il testo originale o se sia corrotto. Esempi di questo tipo di tradizione sono offerti dal De re publica di Cicerone (escluso il libro 6), dai libri 41-45 di Livio, dalle favole di Igino, dalla Cena Trimalchionis di Petronio e dai libri 1-6 degli Annales di Tacito. Lievemente piu complessa è la situazione del testo di Velleio Patercolo: un codice, in seguito perduto,

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STORIA DEI TESTI E DEI LORO TESTIMONI

sta alla base di una copia frettolosa, di un'edizione a stampa e di una succes­ siva parziale collazione, il tutto eseguito in un breve lasso di tempo a Basilea. Tutti i manoscritti derivanti da un esemplare ancora esistente non hanno valore come testimoni della tradizione e vanno dunque messi da parte (elimi­ natio codicum descriptorum) : essi possono essere utili solo se integrano una lacu­ na formatasi in seguito nell'antigrafo, o se contengono lezioni frutto di con­ getture. Tali lezioni in verità risvegliano sempre il sospetto che ci si rifaccia ad una fonte indipendente andata perduta. Per questo motivo, ed anche per altre ragioni, non deve essere eseguita la sentenza « comburendi, non conferendi >> che l'olandese Carel Gabriel Cobet ha sarcasticamente inflitto ai codices descrip­ ti, e che è stata approvata, almeno in linea teorica, anche da Maas. Esempi di questo tipo di tradizione sono, per esempio, il De lingua Latina di Varrone, i li­ bri 21-25 di Livio, il De beneflciis e il De dementia di Seneca, le Historiae e i libri 11-16 degli Annales di Tacito, l'Apologia, le Metamorfosi e i Florida di Apuleio. In questi casi l'archetipo è conservato (il significato e l'applicazione del concetto di archetipo sono animatamente discussi; si vedano a tal proposito Dain, pp. 108 sgg.; M.D. Reeve, Archetypes, in « Sileno >>, n 1985, pp. 193-201; « Stemmatic method. "Qualcosa che nonfunziona"?», in « Bibliologia », 3 1986, pp. 57-69). Se ci sono giunti piu testimoni, che non possono essere eliminati come co­ dices descripti, allora si è di fronte ad una tradizione ramificata. PAUL MAAs ha costruito il seguente schema come caso tipico (maiuscole latine = manoscrit­ ti conservati; minuscole greche = manoscritti ricostruiti) : x

Originale

a �chetipo

� S b-:s �n/. n.p-�- (K) che--:o / Y�

'"' ub archenp ·

/"�

/j'\;>: a potrebbe essere ricostruito anche se, per esempio, da p ci fosse giunto solo A e da y solo J, sempre che dopo p e/o y non si siano verificate ulteriori corruttele. Se a presenta, oltre a p e a y, ulteriori rami della tradizione (per es. K o an­ che altri), allora il testo di a viene attestato dall'accordo di due di questi rami; se questi divergono l'uno dall'altro, allora il testo di a è dubbio. Se A, B, C, (D) variano tutti fra di loro e rispetto a y, il testo di p è dubbio. Queste le­ zioni particolari vanno eliminate, in quanto sono senza valore (eliminatio lectio­ num singularium). Gli errori che sono rilevanti ai fini della costituzione dello stemma sono chiamati da Maas > o « errori direttivi >> (Leitfehler errores significativi). Da una parte, sono « errori separativi >> (Trennfehler = erro­ res separativi) : l'indipendenza di un testimone (B) da un altro (A) viene dimo­ strata per mezzo di un errore di A contro B, di natura tale da non poter es­ ser stato eliminato per congettura nell'arco di tempo intercorso tra A e B. Dall'altra, essi sono « errori congiuntivi >> (Bindifehler = errores coniunctivi) : la connessione di due testimoni (B e C) contro un terzo (A) viene dimostrata =

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per mezzo di u n errore comune ai testimoni B e C, di natura tale da poter escludere l'eventualità che i due testimoni vi siano caduti indipendentemen­ te l'uno dall'altro. n presupposto di questa ricostruzione stemmatica è che ciascun copista abbia esemplato un'unica copia, e che, inoltre, questa copia non abbia conte­ nuto varianti a margine o in interlinea. Nel caso in cui questa condizione venga a mancare, ci si trova di fronte ad una tradizione contaminata e la ri­ costruzione dell'archetipo diventa piu o meno difficile, se non impossibile. Bisogna inoltre tener conto dell'eventualità che un copista cosciente abbia corretto un errore del suo antigrafo con una propria congettura, e cosi fa­ cendo abbia complicato il rapporto di dipendenza fra le copie. Inoltre, un copista dotto può avere inserito inconsciamente una parola con lo stesso si­ gnificato al posto del termine presente nel suo antigrafo, dando cosi l'im­ pressione che si tratti di una variante utile dal punto di vista stemmatico: è il caso, per esempio, della variante demetit (come in Seneca, Agamemnon, 988) in Ovidio, Metamorphoses, 5 104: decutit ense caput. Varianti manoscritte del gene­ re (per es. siletltacet, pudoremlruborem) sono molto frequenti in poesia. Negli ultimi decenni la tradizione di molti testi è stata chiarita grazie ad approfondite ricerche, che hanno messo in luce come la contaminazione tra diversi rami della tradizione costituisca pressoché la regola. Nonostante que­ ste difficoltà, per molti testi può essere ricostruito uno stemma verosimile. Oltre che per Lucrezio, questo vale, per esempio, per il De officiis e per le Epistulae adJamiliares di Cicerone, per Catullo, Cornelio Nepote, Properzio, Manilio, per le tragedie di Seneca, per Quintiliano, per Valeria Fiacco, per le Silvae di Stazio, per Silio Italico, per i panegirici. Per altri testi, come, per esempio, per la maggior parte delle opere di Cicerone, per Cesare, Sallustio, Orazio, Lucano, Persia e Giovenale e per la Naturalis historia di Plinio, la tra­ dizione testuale non è stata chiarita a sufficienza. 1.5. EXAMINATIO

ED

EMENDATIO

risultato della recensio o è univoco, oppure produce due o piu va­ rianti, di cui si deve giudicare il valore. L'ipotesi che, in singoli casi, le varian­ ti possano anche risalire a differenti versioni dell'autore (varianti d'autore) ipotesi prima spesso addotta, ad esempio, per le varianti nella tradizione di Marziale - viene considerata negli ultimi tempi come altamente improba­ bile (sono ancora oggi controverse le presunte doppie redazioni delle Meta1.5.1. n

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morphoses di Ovidio). Per decidere quale delle due varianti sia quella genuina è spesso d'aiuto il principio della maggiore probabilità paleografica (utrum in alterum abiturum erat), cosi, ad es., in Giovenale, 15 93 sg.: Vascones, utfama est, alimentis talibus usi l produxere animas. La variante per usi è olim, e Housman chiede: « utrum facilius praecedente -us periturum putamus? »; con la lezio­ ne congetturale talibus olim si ammette una corruzione testuale causata da aplografia. In questo stadio della ricerca si ricorre spesso all'ausilio del prin­ cipio lectio difficilior potior, che tuttavia non risulta di grande utilità, visto che il confine tra "difficile" e "impossibile", nel caso specifico, è spesso labile. I.:e­ xaminatio costituisce il primo passo verso l'emendatio, dal momento che si propone di stabilire se un passo corrisponda al testo originale o se rappre­ senti una corruttela. Nel caso ci si trovi di fronte a un passo corrotto, si deve cercare un'emendazione convincente. Se per il momento non è possibile trovarne una, il passo corrotto deve essere segnalato (crux). Di grande utilità è il concetto formulato da Maas di « congettura diagnostica », con il quale si definisce una proposta di emendazione che non rappresenta sicuramente la lezione genuina, ma che tuttavia può fornire un valido aiuto : è probabile che la congettura non porti alla lezione genuina ma, pubblicata, può forse ispira­ re a qualche altro critico la soluzione definitiva. 1.5.2. Gli errori di tradizione e la loro emendazione. Nessun testo antico è giunto a noi attraverso i secoli senza errori, e la maggior parte delle corrut­ tele è sorta probabilmente già nell'antichità. Per l'emendazione di brani pa­ lesemente corrotti non v'è una teoria universalmente valida: ogni errore è un caso particolare e può avere le cause piti diverse; spesso agiscono piti mo­ tivi contemporaneamente. Una classificazione delle tipologie di errori è pos­ sibile solo in parte. La selezione che proponiamo qui di seguito riguarda so­ prattutto passi per i quali l'errore può essere fatto risalire alla piti antica delle fonti disponibili e la cui emendazione è recente. Qualora non venga nomi­ nato lo studioso responsabile dell'emendazione, va consultata un'edizione dell'autore in questione, preferibilmente una delle edizioni critiche di riferi­ mento presenti nella lista redatta alla fine di questo contributo. È necessario anticipare qui un caso particolare di emendazione, che non rimuove gli errori della tradizione, ma propone una nuova interpretazione del testo tràdito grazie ad una corretta interpunzione. Fra i numerosi passi, ne abbiamo scelti tre: 1) Catullo, 64 323 sgg.: o decus eximium magnis uirtutibus augens, l Emathiae tutamen opis, carissime nato, l accipe quod laeta tibi pandunt luce sorores lueridicum oraclum; Housman (CQ, 9 1915, pp. 229 sg. Id., The Classica[ =

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Papers, pp. 913 sg.): Emathiae tutamen, Opis carissime nato òttqn.l..e. 2) Virgilio, Aeneis, 6 882 sg.: heu miserande puer; si qua fata aspera rumpas, l tu Marcellus eris; Shackleton Bailey (in HSCPh, 90 1986, pp. 199-205) : heu miserande puer! Si qua fata aspera rumpas - tu Marcellus eris: dopo rumpas bisogna inserire una lunga pausa; le braccia di chi parla cadono. 3) Sallustio, Catilina, 4 I: non Juit consi­ lium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque uero agrum colundo aut ue­ nando, seruilibus officiis, intentum aetatem agere; la supposta rappresentazione sal­ lustiana dell'agricoltura e della caccia come attività servili fu aspramente cri­ ticata, ma il rimprovero cade se si toglie la virgola dopo officiis: seruilibus officiis intentum significa 'tutto intento alla sorveglianza del lavoro degli schiavi' (MusHelv, 42 1985, pp. I68-73). =

1.5.3· Le corruttele testuali provocate da fattori codicologici, come per esempio la perdita di un foglio o di interi fascicoli, possono essere solo con­ statate, ma non risanate. In Livio, 43, c'è una lacuna tra cap. 3 7 e cap. 4 I poi­ ché il codex unicus ha perso quattro fascicoli (quaternioni). In altri casi non ci è giunto il manoscritto che ha subito la perdita: nel Dialogus de oratoribus di Tacito, ad esempio, vi sono delle lacune fra cap. 35 e cap. 36, e in Silio Italico tra 8, I43 e 225. Nel caso di Silio Italico, il testo mancante è stato rimpiazzato da una falsificazione di età umanistica. Delle Natura/es quaestiones di Seneca sono andati perduti la fine del libro 4a e l'inizio del libro 4b, e per errore di un rilegatore si è inoltre confusa la sequenza originaria dei libri. Una para­ frasi greca di Giovanni Lido dimostra che nel VI secolo era ancora disponi­ bile un testo completo. Talora singoli fogli sono andati a finire, per cause di­ verse, al posto sbagliato. I vv 136-85 dell'vm libro delle Argonautiche di Vale­ rio Fiacco, tràditi dopo il v. 385, furono ricollocati al posto giusto dal Polizia­ no. La descrizione della clades Variana (disfatta di Varo) in Velleio Patercolo, 2 119 sg., è stata alterata dalla svista di un copista: 119 5-120 2 deve stare dopo I20 6. In poesia, i versi sono spesso fuori posto: i vv 656 sgg. del I libro di Si­ lio Italico vanno dopo il v. 645, e i vv 243 sgg. del xu libro dopo il v. 246. In Seneca, HerculesJurens, i vv 146-51 vanno dopo il v. 136: causa della confusio­ ne è qui, come spesso nelle parti corali, la disposizione del testo su due co­ lonne in una pagina. Il senso costringe spesso a spostare anche brevi passi di testi di prosa. In Seneca, Naturales quaestiones, 3 2 I, la frase aut [ . . . ] uenas ap­ partiene all'inizio di 3 2 3 · Un altro esempio è fornito da Velleio Patercolo, 2 119 2: exercitus omnium Jortissimus [ . . . ] inclusus siluis, paludibus, insidiis ab eo hoste ad internecionem trucidatus est, quem ita semper more pecudum trucidauerat, ut uitam aut mortem eius nunc ira nunc uenia temperaret. Qui la lezione corrotta trucidaue.

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rat, chiaramente originata dal precedente truddatus, è stata sostituita da trac­ tauerat; more pecudum deve essere inoltre spostato davanti a truddatus. 1.5.4· La causa di errori piu frequente è costituita dalla poca dimestichezza del copista con la scrittura dell'antigrafo. Le possibilità di confondere le let­ tere sono infinite, e già la trascrizione dal rotolo di papiro alla pergamena fu problematica per il copista. Nel codex unicus dei libri 4I-45 di Livio, la B e la D sono state confuse con grande frequenza, poiché queste lettere nella capitale corsiva dell'antigrafo avevano una forma molto simile; spesso si confonde anche R con S, e S con F (M. Zelzer, Die Umschrifi lateinischer Texte von Rollen auf Codices und ihre Bedeutung Jiir die Textkritik, in « Bibliologia », 9 1989, pp. I57-67). La confusione fra queste lettere, anche quando era evidente, non è stata sempre corretta dai copisti successivi: si veda per es. Lucrezio, 2 89I, do­ ve si legge Jedus invece di rebus. Il verso 59 del carme 66 di Catullo thi dii uen ibit cela in realtà la lezione hic liquidi. Silio ltalico, I6 208: quare, age, laetus (h) abe nostros intrare penates va corretto con adi, nostros dignare penates: intrare è nato dall'inserimento nel testo della glossa intra scritta sopra dignare. La fre­ quente confusione tra B e V nel sovracitato codice di Livio (per es. uini inve­ ce di bini) è dovuta al fatto che queste due lettere venivano usate indifferen­ temente a notare lo stesso suono, si veda anche Cicerone, Philippicae, 2 87: in diem uiuere, invece di bibere. Nei copisti tardoantichi e medievali creava poi particolare perplessità la presenza di parole greche: in Marziale, Epigramma­ fa, 24 8, si legge haec tantum res estJàcta ita pictoria invece diJàcta mxp" io·ropia.v. Particolarmente a rischio erano quindi anche le parole contenenti la y, che veniva nella maggior parte dei casi scambiata per una r: in Appendix Vergilia­ na, Catai., IO IO si legge quid orion invece di Cytorio (corretto grazie al con­ fronto con Catullo, 4 n) , e IO 22: paterna fora proximumque pectinem invece di pyxinumque (W. Schmid, in est: in questo caso, alla confusione delle lettere EIF si aggiunge l'erronea separazione delle parole e l'aplografia. Sicu­ ramente c'è una confusione di minuscole in Properzio, 4 7 69: sic martis !acri­ mis uitae sanamus amores, invece di sandmus; in Seneca, Phaedra, 965: agitare uias al posto di uices, in Medea, 307: inter uitae mortisque uias invece di uices, e Natu­ rales quaestiones, 4a Praef. 19: excludi invece di exaudi. Per la confusione fre­ quente fra d e cl, si veda, ad es., Giovenale, 3 215 sgg. (un uomo ricco ha per­ duto i suoi beni in un incendio) : ardet adhuc, et iam accurrit qui marmora donet, l conferat impensas; hic nuda et candida signa, l hic aliquid praeclarum Euphranoris et Polycliti, l haec Asianorum uetera ornamenta deorum, l hic libros da bit, ecc. In primo luogo, lascia perplessi la presenza di una donna nel gruppo degli instancabili adulatori, poi ci si domanda se i genitivi riferiti a aliquid praeclarum possano essere giustificati. Housman emenda in maniera convincente hic aliquid prae­ darum, Euphranoris et Polycliti aera: 'qualcosa del bottino (dei Romani), figure di bronzo di Eufranore e di Policleto, antichi gioielli di divinità asiatiche'. 94

I · CRITICA TESTUALE ED E CD OTICA Qui di seguito vengono presentate altre lezioni errate che, pur non essen­ do con sicurezza riconducibili ad un preciso tipo di scrittura, sono tuttavia dovute a confusioni di lettere. In Seneca, Naturales quaestiones, 4a 2 9, si ha: quidquid (Nilus) non adiuuit, sterile ac squalidum iacet, invece di adluit. In 4b n 3: non multum illi (scil. lusoriae pilae) commissurae et rimae earum nocent, quominus par sibi ab omni parte dicatur, earum non ha senso: l'esatta lezione corii ('tagli del cuoio') è diventata eoru e quindi earum, assimilata a commissurae. In Epistulae, I24 24: tunc beatum esse te iudica [ . . . ], cum uisis quae homines eripiunt, optant, custo­ diunt, nil inueneris, non dico quod malis, sed quod uelis, il verbo eripiunt è piuttosto strano: la soluzione è cupiunt (Watt, in CQ, 44 I994, p. 187). In Phoenissae, III sg., Edipo, deciso a morire, dice: in altos ipse me immittam rogos l erectam ad ignes, Junebrem escendam struem: questo è il testo tràdito da una classe di manoscritti, mentre l'altro ramo della tradizione presenta la lezione interpolata h(a}erebo. Da erectam è facile ricavare l'appropriato erepam (MusHelv, 46 1989, p. 53) . Va­ leria Fiacco, I I27 sgg. (la costruzione di Argo è terminata) : constitit ut, longo moles non peruia ponto, l puppis, et ut tenues subiere latentia cerae l lumina, picturae uarios super addit honores. Ci si è arrovellati a lungo per capire chi aggiunga le pitture. Il soggetto non è né Giunone né Minerva, ma si nasconde nel su­ perfluo super, cioè Jaber, il costruttore della nave. Vi è quindi uno scambio di lettere tra f e s, e tra a e u (ivi, 47 1990, p. 55) . In Tacito, Dialogus de oratoribus, I9 s. infine, si legge: cum uix in cortina quisquam adsistat, quin elementis studiorum [ . . . ] imbutus sit invece di corona (la lezione cortina è stata a lungo giustificata con bizzarri argomenti lessicologici). Già nelle scritture minuscole dell'VIII secolo le preposizioni (e le succes­ sioni di lettere) per, prae e pro vennero rese in forma abbreviata e, di conse­ guenza, frequentemente confuse dai copisti: cosi, per es., in Ligdamo, 3 4 69 sgg. (parla Apollo) si legge: tunc ego nec cithara poteram gaudere sonora l nec simi­ les chordis reddere uoce sonos, l sed perlucenti cantum meditabar auena. Un flauto tra­ sparente è difficile da immaginare, mentre la zampogna impedisce che egli possa suonare e cantare allo stesso tempo: praecludenti (scil. cantum o uocem) auena (ivi, 48 I991, p. 62). Anche il prefisso con- venne spesso sostituito dal simbolo :J , sostituzione che indusse ad errori : Cicerone, De legibus, 1 26 (al­ l'uomo) : natura [ . . . ] rerum plurimarum [ . . . ] intellegentias enodauit (enud-), invece di commodauit. In Petronio, 6o s. si legge noua ludorum remissio, invece dell'e­ spressione tecnica commissio. In Tacito, Dialogus de oratoribus, 31 7: neque enim sapientem informamus neque Stoicorum comitem, il manoscritto principale presen­ ta citem, gli altri ciuitatem. Fu il Vahlen a sciogliere per primo l'abbreviazione 95

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in modo corretto. Seneca, Hercules Oetaeus, 565, presenta infine: nunc congera­ tur uirus et uestis bibat l Herculea pestem, invece di ingeratur; meno probabile è la spiegazione di Bertil Axelson, al quale si deve l'emendazione, che imputa l'errore alla dittografìa della c: Korruptelenkult (Lund I967), p. no. 1.5.5· Molti errori sono nati dalla mancata o erronea separazione delle pa­ role, dal momento che l'archetipo era in scriptio continua. Un esempio è forni­ to da Cicerone, Epistulae ad Atticum, I I8 8: si ex iis quae scripsimus tanta etiam a me non scripta perspicis. Il "pluralis modestiae" scripsimus rispetto al vicino a me desta diffidenza: si ex iis quae scripsi, multa etiam a me non scripta perspicis è una emendatio palmaris (-ta è diventato tanta). Properzio, 3 20 5 ha: at tu, stulta, deos, tu flngis inania uerba, invece di a t tu stulta adeo's ?; Velleio Patercolo, 2 84 2, de il­ lius exemplis uitae naxuta Dolabella, al posto di Dellius exempli sui tenax ut a Do­ tabella. In Seneca, Controversiae, 2 I 38, si legge: consentiatis licet: duos senes iungit, che nelle edizioni precedenti fu corretto con iungitis; la lezione corretta è con­ scientia scilicet duos senes iungit. In 2 6 n: hoc castigandi genus commouent usum fu emendato con la singolare espressione commouentius uisum; corretto è com­ mentus sum. In Seneca, Naturales quaestiones, 2 42 I, si legge : quid enim tam impe­ ritum est quam credere fulmina e nubibus Iouem mittere, columnas, arbores, nonnun­ quam statuas suas petere, ut impunitis sacrilegis percussis ouibus incensis aris pecudes in­ noxias feriat. Qui qualcuno ha evidentemente cercato di evincere, dalla serie di lettere, qualcosa che si accordasse in qualche modo al contesto, ma Sene­ ca scrisse percussoribus, incendiariis. In 3 26 8 si ha: mare uero cadauera stramentaque (da correggere in instrumentaque) et naufragiorum reliqua similia ex intimo trahit: per reliquia similia è stato giustamente congetturato reliquias alias. In 3 I8 I si parla di un pesce fatto bollire ancor vivo: rubor primum, deinde pallor sulfunditur. qua m aeque uaria(n}tur et incertas Jacies inter uitam ac mortem coloris est uagatio; quam aeque porta a squamaeque. In 3 24 3: idem sub terra Empedocles existimatfleri. credebant in quibus balnearia sine igne caleflunt, è stato restituito crede Baianis, qui­ bus, ecc. In 3 28 5, si legge: par undique sibi ipsa tellus est; caua eius et plana eius exi­ guo inferiora sunt, sed istis adeo in rotundum orbis aequatus est: è un'asserzione diffi­ cilmente sostenibile, che va emendata in exiguo inferiora sunt editis; adeo, ecc. E ancora, 4b 5 4 ha: itaque cum pluuia futura erat, grando flt iniuria frigoris: nel ma­ noscritto migliore manca cum, che offre la soluzione piu facile ita, quae. In Si­ lio Italico, 6 485 sgg.: exposcunt Libyes nobisque dedere l haec referenda, pari libeat si pendere bellum lfoedere et ex aequo geminas conscribere leges, il difficile si pendere va sostituito con suspendere. Dopo numerosi vani tentativi di sanare la frase in IO 33I sg.: stimulat dona inter tanta deorum l hortatur nondum portas intrasse Quirini, fu

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CRITICA TESTUALE ED ECDOTICA

Hakanson a trovare la soluzione hoc tantum. Un caso contrario si verifica nel testo tramandato di Curzio Rufo, 4 13 38, hoc tandem, emendato da Bentley in hortantem. 1.5.6. Svariati tipi di errori derivano dalla negligenza del copista, piuttosto che dalla difficoltà di decifrare la scrittura dell'antigrafo. Un caso tipico è co­ stituito dall'inversione della successione di lettere o sillabe : la parola suscep­ tum, ad esempio, corre sempre il rischio di essere letta erroneamente suspec­ tum. In Cicerone, Pro Quinctio, 22, si legge: hoc se quo C. Aquili uosque qui adestis consilio, ut diligenter attendatis. I.:incomprensibile hoc se quo fu in un primo mo­ mento emendato in obsecro e poi in obsecro te: Cicerone scrisse hoc quaeso. In Catullo, 67 23 sg.: sed pater illius gnati uiolasse cubi/e l dicitur et miseram consceleras­ se domum, l'oggettivamente sconveniente illius va sostituito con illusi. In Livio, 42 45 7: quadraginta nauium classem instructam ortanam, quest'ultima parola priva di senso è stata corretta dal primo editore in ornatam. Lo stesso scambio di lettere in Silio Italico, 3 395 : ortano Maenas nocturna Lyaeo, ha dato spunto alle ipotesi piu inverosimili: la lezione corretta è ornatu. In Cesare, De bello Galli­ co, 3 6 2, è stato tramandato undique circumuentos interficiunt, laddove il contesto richiede intercipiunt. In Velleio Patercolo, 1 16 2: quem ad modum clausa capso alioue saepto diuersi generis animalia nihilo minus separata alienis in unum quodque corpus congregantur, la parola capsus, secondo i vocabolari e le traduzioni, do­ vrebbe in questo contesto avere il significato di 'gabbia per bestie selvagge'. Si pretende qui un po' troppo dagli animali: la lezione corretta è pascuo (MusHelv, 27 1970, pp. 45-48; secondo Livio, 24 3 4 sg.). In Ovidio, Fasti, 6 229 si legge : detonso (-a) crinem depectere buxo invece di dentosa {ivi, 51 1994, p. 96; cfr. Marziale, 14 25: multifido buxus [ . . . ] dente). In Seneca, Medea, 68o sgg., la nutrice riferisce di come Medea nella sua camera faccia ricorso a tutte le arti magiche a sua disposizione: et triste laeua comprecans sacrum manu l pestes uocat quascumqueJeruentis creat l harena Libyae. Nessuno è in grado di spiegare che cosa significhi comprecans sacrum, emendato in concrepans sistrum (ivi, 46 1989, p. 53). In Ps. Quintiliano, Declamationes maiores, 6 7: curua litora et emensum sideribusJretum et turritos urbium scopulos retro lego, le città non c'entrano nulla: il passo va emendato in turritos rupium scopulos, secondo Lucano, 8 46: rupis in abruptae scopulos. In Curzio Rufo, 8 10 25 si legge: murus urbem complectitur, cuius itiferiora saxo, superiora crudo latere sunt structa. Il manoscritto migliore presenta iam invece di inferiora, da cui si deduce che la lezione ima è quella corretta. Lucano, 2 479 sg.: tua classica seruat l oppositus quondam polluto tiro Miloni, rinvia a r 323 : Pompeiana reum clauserunt signa Milonem. Il termine improprio polluto è 97

II · STO RIA DEI TESTI E DEI LORO TESTI MONI quindi da emendare con pullato, visto che l'imputato Milone compare vesti­ to a lutto. 1.5.7· Parole di suono simile o di significato affine vengono spesso confuse, soprattutto in poesia, qualora abbiano lo stesso valore metrico : corpore (-a) e pectore (-a), dirus e durus, numen e nomen, urbis e orbis, impius e improbus, pudor e rubar. I copisti non riproducevano lettera per lettera, ma, dopo una veloce lettura, ricopiavano direttamente una parola o un intero verso. In Properzio, I I8 9: quid tantum merui? quae te mihi carmina mutant?, il poeta non vuoi certo sostenere che Cinzia sia vittima di un incantesimo, ma domanda che cosa lei abbia da rimproverargli, quindi la lezione corretta è crimina, come si trova nella tradizione secondaria. In Ovidio, Fasti, 3 303 sg.: ad solitos ueniunt silue­ stria numinaJontes l et releuant multo pectora sicca mero, il re N urna aveva lasciato nel bosco tazze colme di vino per fare ubriacare i numi silvestri: invece di pectora si deve leggere guttura (Watt, in MusHelv, 52 I995, p. I05). Silio ltalico, 2 562 sg. ha: ipsa meum uidi lacerato uulnere nostras l terrentem Murrum noctes. In base alla iunctura in Virgilio, Aeneis, 9 49I: Junus lacerum, uulnere va emendato in Junere. In Seneca, Naturales quaestiones, 5 I5 3 : a tergo lucem relinquere quae tan­ ta spesfui t? (a proposito della folle avidità che fa cercare l'oro sottoterra) Juit va sicuramente sostiruito con fecit. In Silio Italico, IO 524 sgg. si legge: Haec ait et socium mandari corpora terrae, l postera cum thalamis Aurora ruebat apertis, l impe­ rat. Sin dall' editio princeps è stato scritto rubebit al posto di ruebat, che non ha senso. Ma nella frase secondaria ci vuole il congiuntivo, quindi la lezione corretta è rubescat. Nei vv. 663 sgg. del quattordicesimo libro, fra i tesori del­ la città conquistata si trovano munera rubri l praeterea ponti depexaque uellera ra­ mis, lJemineus pudor. Già la prima edizione sostiruisce pudor con labor. La le­ zione stupor ('che suscita lo srupore delle donne'), corrotta in pudor per l'aplo­ grafia della s e la confusione tra P e T, può essere sostenuta grazie a un paral­ lelo in Terrulliano che ingiuria gli orecchini e le collane come hunc mulierem stuporem (De cultuJeminarum, I 6). 1.5.8. I nomi propri sconosciuti al copista vengono sostiruiti da altri, come in Properzio, 4 IO 4I: Rheno invece di Brenna, oppure modificati in sostantivi o aggettivi, come in Petronio, 83 3: deum invece di Idaeum, o Silio ltalico, I 46: similis invece di Simois. Un caso particolare è offerto dall'invito ad un pasto frugale che si legge in Cicerone, Epistulae adJamiliares, 9 I6 8: quod si perseueras me ad matris tuae cenam reuocare. La lezione genuina è Matris tui: il poeta di in­ ni Matris di Tebe predicava la morigeratezza dei costumi.

I ·

CRITICA TESTUALE E D E CD OTICA

1.5.9. Parole rare vengono spesso sostituite con altri termini. In Catullo, 22 6 (a proposito dell'aspetto esteriore dei prodotti di un cattivo poeta), è tra­ mandato: cartae regiae noue libri, dal XV secolo emendato in noui libri. La le­ zione genuina è cartae regiae nouae bibli, 'fogli nuovi di papiro in formato di lusso'. In Lucano, 9 157 sgg. (il figlio di Pompeo minaccia di vendicare la morte del padre) si legge : omnia dent poenas nudo tibi, Magne, sepulcra: l euoluam busto iam numen gentibus Isim l et tectum lino spargam per uulgus Osirim: l'espres­ sione euoluam busto, 'srotolerò lside fuori dalla tomba' non funziona. I morti in Egitto venivano avvolti in fasce di lino, quindi anche Osiride e Iside: al posto di busto bisogna inserire il termine greco equivalente a lino bysso (Ni­ sbet, in AAntHung, 30 1982-1984, p. 314 = Id., Collected Papers on Latin Literatu­ re, Oxford 1995, p. 188). Analogamente in Seneca, Thyestes, 449 sgg.: O quan­ tum bonum est l obstare nulli, capere securas dapes l humi iacentem! scelera non intrant casas, l tutusque mensa capitur angusta cibus: l'ultima parola va sostituita con scy­ phus. In Seneca, Natura/es quaestiones, 6 28 2, si legge che le mefìtiche esalazio­ ni del sottosuolo, a lungo trattenute sottoterra, cum exitum nactus est, aeternum illud umbrosi Jrigoris malum et infernam noctem uoluit ac regionis nostrae aerem infu­ scat. Al posto della vecchia congettura noctem il manoscritto migliore presen­ ta lucem, che ha permesso l'emendazione luem. In Medea, 457, Giasone chiede paruamne Io/con, Thessala an Tempe petam? La lezione paruamne, oggettivamen­ te sbagliata, è da sostituire con patruamne. In Petronio, 99 2 si legge: rogo [ . . . ], ut mecum quoque redeat in gratiam [ . . . ] omnem scabitudinem [ . . . ] deleret sine cicatri­ ce: il verbo de/ere è troppo drastico per questi rimedi cosmetici e il congiunti­ vo imperfetto è sbagliato. Petronio scrisse delevet, 'possa egli levigare la ruvi­ dezza' (ed. Fraenkel, in (( Glotta », 37 1958, p. 312). In Silio Italico, 14 389 sgg., una nave da guerra cartaginese cum rapidum hauriret Borean et cornibus omnes l colligeretjlatus, lento se robore agebat, l intraretjluctus solis ceu pulsa lacertis. La nave è però in piena corsa, quindi la lezione corretta è innaret. In Giovenale, 9 106 sgg., a proposito del fatto che il ricco con una numerosa serviru non può te­ ner nulla di segreto, si legge: e medioJac eant omnes, prope nemo recumbat: l quod tamen ad cantum galliJacit il/e secundi, l proximus ante diem caupo sciet, audiet et quae lflnxerunt pariter libarius, archimagiri, l carptores. Invece del termine libarius ('pa­ sticciere'), la tradizione presenta librarius, 'lo scrivano'. Il sospetto che qui un copista abbia pensato alla propria attività non è infondato. Errori psicologici del genere vengono attribuiti soprattutto al monaco copista, per es. in Petro­ nio, 43 1 : abbas secreuit invece di ab asse creuit (R.M. Ogilvie, Monastic Corrup­ tion, in G&R, 18 1971, pp. 32-34). 99

II

·

STORIA DEI TESTI E DEI LORO TESTI MONI

1.5.10. Il senso generale di un passo è spesso all'origine di una parola sba­ gliata. In Properzio, 3 n 5 sgg.: uenturam melius praesagit nauita mortem, l uulne­ ribus dididt miles habere metum. l ista ego praeterita iactaui uerba iuuenta: l tu nunc exemplo disce timere meo, ciò che il marinaio può meglio presagire non è la morte, bensi la tempesta, uentorum morem. Dopo che morem, influenzato dal seguente uulneribus, fu cambiato in mortem, si è dovuto adattare uentorum. In Seneca, Hercules Oetaeus, 1003 sg. si legge: quaenam ista torquens angue uipereo co­ mam l temporibus atras squalidis pinnas quatit? invece di angue uibrato; come in Hercules furens, 789 I8I3 sgg.: hic dira serpens cecidit, hic ales fera, l hic rex cruentus, hic tuaJractus manu l qui te sepulto possidet caelum leo. Qui un rex cruentus non ha nulla a che vedere con il contesto, mentre potrebbe avere un senso al v. I82o: hic pax cruento rege prostrato data est. Zwierlein emenda rex in sus, il cinghiale dell'Erimanto. Il re ha dunque preso il posto del cinghiale. Un errore del ge­ nere è presente anche in Thyestes, 690 sgg., quando Atreo uccide i figli di Tie­ ste : CHORVS. Quis manum ferro admouet? NvNTIVS. lpse est sacerdos, ipse funesta prece l letale carmen ore uiolento canit. l stat ipse ad aras, ipse deuotos neci l contrectat et componit et ferro admouet. Ferro admouet può avere come oggetto manum, ma non deuotos neci: Axelson ha trovato la lezione corretta in adparat. 1.5.II. Per disattenzione o per sovraffaticamento il copista, dopo aver letto una frase, anticipa qualcosa che segue o ripete qualcosa che è già stato detto prima: in questo caso si parla di "errori di anticipazione e di ripetizione". Un'emendazione convincente è, di volta in volta, una questione di fortuna. In Cicerone, Epistulae adJàmiliares, 6 9 2: cum cognorim pluribus rebus quid tu et de bonorum fortuna et de rei publicae calamitatibus sentias, il contenuto richiede pluri­ mis invece di pluribus, in Ps. Seneca, Octavia, 52 sg. si legge: mittit immitis do/or l consilia nostra invece di uincit, in I3I sgg.: inimica uictrix imminet thalamis meis l odioque nostrijlagrat et pretium stupri l iustae maritu m coniugis capta t caput, invece di poscit. In Silio Italico, I 423 sgg. si legge: postrema capessit l proelia canentem mandens aper ore cruorem l iamque gemet geminum contra uenabula torquens. Qui si intendono le zanne che luccicano: quindi ignem geminum. Stazio, Silvae, 2 5 I (Leo mansuetus) ha Quid tibi monstrata mansuescere profuit ira, invece di mutata (MusHelv, 49 I992, p. 246), Livio, 42 37 7: Jremitum in contionibusJremebant, al posto di, ad es., mouebant. In Ovidio, Amores, I 10 29 sg.: sola uiro mulier spoliis exultat ademptis l sola locat noctes, sola locanda uenit, il testo del pentametro non venne messo in dubbio fino al I965, quando Franco Munari, in un mano­ scritto fino ad allora non considerato perché datato erroneamente, trovò la lezione sicuramente genuina, licenda ('da avere al prezzo piu caro'), che non 100

I CRITICA TESTUALE E D ECDOTICA ·

sembra essere un'emendazione medievale. Non si può mai essere sicuri di fronti a tali sorprese, che vanno al di là dei risultati stemmatici. I.:imitazione in Lucano, 2 454-60 dei vv. 480 sg. dell'Agamennone di Seneca: Libycusque ha­ renas Auster ac Syrtes rapit, l nec manet in Austro;flt grauis nimbis Notus l imbre au­ get undas, permette di emendare il testo in nec manet in antro [ . . . ], sed (ivi, 46 I989, pp. 56 sg.). Petronio, 76 8: quicquid tangebam, crescebat tamquam Jauus, di­ mostra che in 43 I: ab asse creuit et paratusJuit quadrantem de stercore mordicus tolle­ re. itaque creuit quicquid creuit tamquamJauus, il secondo creuit va sostituito con te­ tigit. 1.5.I2. Un gran numero di errori è sorto per "aplografia", quando cioè il copista ha omesso una sillaba, una parola, un intero passo o un verso perché il suo sguardo, tornando all'antigrafo, si è fermato erroneamente su un grup­ po di lettere simili a quelle che chiudevano la pericope di testo appena tra­ scritta (saut du meme au meme). Questo fenomeno si può constatare solo se, ovviamente, l'errore è sorto in una fase posteriore all'archetipo e un ramo della tradizione ne è privo. Quanto piu estesa è la presunta lacuna, tanto piu difficile è tentare un'integrazione. Spesso bisogna accontentarsi di una con­ gettura exempli grafia. Si veda ad es. Cicerone, Academica, 2 53: utimur exemplis somniantiumfuriosorum ebriosorum: illud adtendimus, in hoc omni genere qua m inconstanter loquamur? {Schaublin, in MusHelv, 49 I992, pp. 43 sg.), e De divi­ natione, I 34: diuina tionem uidentur accedere (in questo caso ha contribui­ to all'aplografia anche il titolo dell'opera). In Philippicae, 2 103 si legge: ab hac perturbatione religionum aduolas in M. Varronis [ . . . ] Jundum Casinatem. quo iure, quore? Gli editori correggono in quo ore, ma la lezione corretta è evidente­ mente quo re (Nisbet, in CR, 10 I960, p. 103 sg. Collected Papers, p. 34I). In Seneca, Epistulae, 36 I si integra: (felicitas) alios in aliud inritat, hos in po­ tentiam ('sfrenatezza'), illos in luxuriam; nel caso di Agamemnon, 545 : superasse nunc pelagus atque ignes iuuat, si è optato per la congettura piu semplice supe­ rasse uum (MusHelv, 46 I989, p. 57). In Dialogi, 6 IO I si legge: liberi hono­ res opes, ampia atria et exclusorum clientium turba referta uestibula, clarum >, in cui si raggiungono quel­ le posizioni di partenza che condurranno direttamente alla aurea Latinitas. An­ che per questo obryzalobrussa); le occlusive aspirate potevano essere sostitui­ te dalle corrispondenti tenui (auj.upwvia > symphonial*sumponia [ricavabile da­ gli esiti romanzi], ltT]oaup6ç > thesaurus/tesaurus, XOyXTJ > conchalconca). p.2. La moifologia del latino nell'età classica Il latino classico è una lingua a forte struttura flessiva di tipo indoeuropeo, con una coesistenza, relativamente complessa ma poco funzionale, di diver­ se classi di declinazioni e coniugazioni. Nei nomi (sostantivi, aggettivi) e nei pronomi si distinguono tre generi (maschile, femminile, neutro), due numeri (singolare, plurale) e cinque casi (un sesto caso, il vocativo, ha una forma propria soltanto nella 2• declinazio­ ne, cioè -e; di un settimo caso, il locativo, permangono solo singole forme re­ siduali). Manca l'articolo. Il genere è intrinseco ad ogni sostantivo, ma solo il neutro presenta forme speciali al nominativo e all'accusativo : all'interno del­ le rispettive classi flessive, i sostantivi maschili non sono morfologicamente distinti da quelli femminili, e il loro genere diventa riconoscibile soltanto mediante l'aggiunta di un aggettivo. Anche se in linea di principio non ci so­ no corrispondenze fra genere e classe flessiva, è possibile formulare, fatta ec­ cezione per la 3• declinazione, delle regole approssimative: le parole della P declinazione sono femminili, salvo alcuni nomi maschili come agricola, nauta, ecc.; le parole della 2• declinazione in -us sono quasi esclusivamente maschi­ li, quelle in -um sono neutre; le parole della 4• declinazione in -us sono ma­ schili, quelle in -u sono neutre; la s• declinazione comprende praticamente solo parole femminili. La stessa funzione (ad es. l'espressione dell'accusativo plurale, salvo che per i neutri, tutti uscenti in -a) viene assunta da desinenze diverse a seconda della classe flessiva (-as, -os, -es, i"ts -es) ; d'altro canto la stes­ sa desinenza può avere funzioni del tutto diverse (-l può indicare il genitivo singolare o il nominativo plurale della 2• declinazione, come pure il dativo singolare della 3•). -

191

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III · STORIA DELLA LIN GUA LAT I NA Diamo qui un breve paradigma delle cinque classi flessive, con un esempio tipico per ciascuna (l'ordine delle forme è nominativo, genitivo, dativo, accusativo, ablativo; il singolare e il plurale sono separati da /); la separazione fra radice (ad es. domin-) e desinenza (ad es. -us) viene rappresentata dal punto di vista sincronico del latino, sen­ za prendere in considerazione gli aspetti diacronici (ad es. la radice domino- la desi­ nenza -s > *dominos > dominus, con normale passaggio -0- > -ii- in sillaba finale chiusa). Per una trattazione piu dettagliata, anche relativamente alle eccezioni rispetto al paradigma, rinviamo necessariamente alle grammatiche. P declinazione (in -ii-)·. desinenze -a -ae -ae -am -iil-ae -iirum -ls, -iis -ls. Unite alla radice jlamm- danno: jlamma, jlammae, jlammae, jlammam, jlammiiljlammae, jlammiirum, jlammls, jlammiis, jlammls; za declinazione (in -o/e-) : desinenze -us (neutro -um), -1, -o, -um, -ol-I (neutro -a), -orum, -ls, -os (neutro -a), -ls. Unite alla radice domin- danno: dominus, domini, domino, dominum, domino, voc. (senza desinenza) domine/domini, dominorum, dominls, dominos, dominls; y declinazione (temi in consonante e in -i) : desinenze -s (il neutro mostra la radi­ ce pura), -is, -1, -em (nei neutri uguale al nom.), -e (nella declinazione in -i e negli ag­ gettivi: -1}1-es (neutro -(i)a), -um (nella declinazione in -i e negli aggettivi: -ium), -ibus, -es (nei neutri uguale al nom.), -ibus. Unite alla radice urb- danno: urbs, urbis, urbl, ur­ bem, urbelurbes, urbium, urbibus, urbes, urbibus; +

'

4'

'

'

'

'

'

'

Ùec\inazione \-u/u-): Ùesinenze -us \neutro -u), -ili, -u(i), -um \neutro -u), ul -

-

iis

(neutro -ua), -uum, -ibus, -U.S (neutro -ua), -ibus. Unite alla radice Jructu- danno: Jructus, JructU.S, fructul,Jructum,fructu!JructU.S,Jructuum, Jructibus, JructU.S,Jructibus; sa declinazione (in -e-) : desinenze -es, -el (-el dopo -i-), -ei (-el dopo -i-), -em, -el-és, -erum, -ehus, -es, -ebus. Unite alla radice re- danno: res, rei, rei, rem, relres, rerum, rebus, res, rebus.

Gli aggettivi concordano in genere, numero e caso con il sostantivo dal quale dipendono. La gran parte degli aggettivi ha al nominativo tre forme diverse per i tre generi, per cui il maschile segue la 2• declinazione, il fem­ minile la P e il neutro di nuovo la 2• (tiitus, tuta, tutum); fra gli aggettivi della 3• declinazione, relativamente poco numerosi, quelli che escono in -is e i comparativi in -ior hanno una forma comune per il maschile e il femminile e una forma particolare per il neutro (m.!f. Jortis, n. forte; m.lf. mitior, n. mi­ tius), gli altri hanno una forma comune per tutti e tre i generi (teniix, concors, clemens, dlues, uetus, ecc.); solo il neutro plurale ha sempre una propria forma in -(i)a. La comparazione degli aggettivi in latino avviene in forma sintetica: il comparativo si distingue per la terminazione -ior (m.lf. tiitior, n. tiitius), il superlativo per la terminazione -issimus (m. tiitissimus, f. tiitissima, n. tiitissi­ mum). La maggioranza degli avverbi derivati da aggettivi della P e 2• declina192

3 · LA STRUTTURA DEL LATINO CLAS SIC O zione hanno la desinenza -e (ad es. tute), ma anche -o (si ha ad esempio una forma secondaria tuta); gli avverbi derivati da aggettivi della 3a declinazione hanno la desinenza -ter (ad es. fortiter), che si è trasmessa per analogia anche ad alcune forme appartenenti alla 1a e alla 2a declinazione. Il sistema dei pronomi personali latini è difettivo: mancano le forme del genitivo, che vengono sostituite dai corrispondenti pronomi possessivi; nella 3a persona c'è solo il pronome riflessivo, identico per il singolare ed il plura­ le, al dativo, all'accusativo e all'ablativo (sibi, se, se). I pronomi personali della ra e 2a persona non conoscono differenze di genere e presentano una decli­ nazione politematica che non ha niente in comune con le altre flessioni no­ minali: ego, (mel), mihi, me, melni5s, (nostri), nobis, ni5s, nobls; tu, (tul), tibi, te, te/ui5s, (uestn), uobls, ui5s, uobls. I pronomi possessivi (meus/noster, tuusluester, suus) si declinano come gli aggettivi della P e della 2a declinazione. I pronomi dimostrativi sono presenti in numero superiore che nella mag­ gior parte delle lingue moderne, perché il latino aveva un sistema a tre livel­ li di deissi (''vicino a me" = 'vicino al parlante', "vicino a te" = 'vicino all'in­ terlocutore', "vicino a lui" = 'vicino a colui di cui si parla'), ad es.: hic 'questo' ( 'vicino a me', deissi della P persona), iste 'codesto' ( 'vicino a te', deissi della 2a persona), ille 'quello' ( 'vicino a lui', deissi della 3" persona). I pronomi interrogativi, relativi e indefiniti mostrano molti punti di con­ tatto: =

=

=

no m.

quis? quae? quid?

qui, quae, quod

gen.

cuius

ace.

cuius? cui? quem ? quam ? quid?

abl.

qua? quii? qua?

quo, qua, quo

dat.

CUI

quem, quam, quod

-

-

-

qu�eumque, quaecumque, quodcumque cuiuscumque cuicumque quemcumque, quamcumque, quodcumque quocumque, quacumque, quacumque

Il sistema verbale latino è caratterizzato, se lo paragoniamo alla maggior parte delle lingue moderne, da una straordinaria ricchezza di forme, che pe­ rò si è già considerevolmente ridotta rispetto alla protolingua indoeuropea e anche a lingue come il sanscrito o il greco. Il latino ha due diatesi (genera verbi), attiva e passiva; un vero medio non c'è, anche se la presenza dei cosiddetti deponenti (forma passiva ma signifi193

I I I STORIA DELLA L INGUA LATINA •

cato attivo) ne suggerisce una precedente esistenza. Ci sono tre modi (in­ dicativo, congiuntivo e imperativo), ma non c'è una forma per l'ottativo, né un condizionale. Il sistema verbale presenta una divisione costante in due si­ stemi paralleli, quello dell'itifectum e quello del perfectum, anche se in quest'ul­ timo le forme del passivo sono costruite analiticamente, rivelandosi cosi co­ me innovazioni secondarie. Al latino manca un aoristo autonomo; la sua funzione e, in misura minore, le sue forme sono confluite nel sistema del perfetto. Nel sistema dell itifectum i verbi si dividono fondamentalmente in quattro coniugazioni (P coniugazione o in -a-, 2• coniugazione o in -e-, y coniugazione o consonantica, 4• coniugazione o in -i-); in piu ci sono alcuni casi particolari (esse, uelle,Jerre, dare,fieri, ecc.). Nel sistema del perfectum biso­ gna distinguere fra i cosiddetti "perfetti forti", che rispetto al presente hanno il raddoppiamento della sillaba iniziale (tangoltetigi) oppure un allungamento (talora accompagnato da un mutamento di timbro) della vocale radicale {fa­ ciol}èci), e i "perfetti deboli", che caratterizzano il tema del perfetto con l'ag­ giunta di un fonema suffissale (s oppure u consonantica o vocalica: carpolcar­ psi, amo/amaui, doceo!docui). La presenza di suffissi - cioè di elementi che si inseriscono fra tema ver­ bale e desinenza personale - contraddistingue anche alcuni tempi e modi: cosi nell'indicativo imperfetto troviamo -ba- (ama-ba-s), nel futuro della P e 2• coniugazione -b- + la vocale tematica (ama-bi-s), nel congiuntivo imperfet­ to -re- (ama-re-s). Le desinenze personali nel sistema dell'infectum sono: per la diatesi attiva P pers. sing. -o o -m, 2• pers. sing. -s, y pers. sing. -t, P pers. pl. -mus, 2• pers. pl. -tis, 3" pers. p l. -nt, per il passivo: P pers. sing. -(o)r, 2• pers. sing. -ris, 3• pers. sing. -tur, P pers. pl. -mur, 2• pers. pl. -mini, y pers. pl. -ntur. Nel sistema del perfetto soltanto l'attivo ha desinenze personali proprie: P pers. sing. i 2" pers. sing. -isti, y pers. sing. -it, 1• pers. pl. -imus, 2• pers. pl. -istis, y pers. pl. -erunt. Le desinenze si uniscono direttamente al tema verbale oppure al suf­ fisso (ma nella P pers. sing. della P coniugazione la -a- cade : amare dà amo). '

- ,

Per rappresentare il quadro morfologico ci limiteremo a un breve prospetto, in cui la descrizione delle singole forme va intesa come sincronica e non come diacronica, giacché non mira a un'analisi dei vari morfemi comprensiva della loro evoluzione storico-linguistica, ma si basa sulla situazione quale si presentava nel I sec. a.C.; cosi ad esempio il congiuntivo imperfetto è analizzato sincronicamente come > e non come « tema verbale (+ vocale tematica) + -r- (< -s-) + vo­ cale tematica + desinenza personale », come richiederebbe una disamina di tipo stori-

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3

·

LA STRUTTURA DEL LATI NO CLASSICO

co. Le forme attive e quelle passive sono separate da /, l'ordine è, quando non indi­ cato altrimenti, P 23 3• persona singolare, P 23 3• persona plurale. Nel tema del per­ fetto le differenze tra le quattro coniugazioni non svolgono alcun ruolo rilevante, e non compaiono forme passive sintetiche. Infinito presente attivo: tema verbale (+ vocale tematica) + -re Infinito presente passivo: tema verbale + -n (P 2• 4• coniugazione) o zione).

-1

(3• coniuga­

Imperativo presente: singolare: tema verbale (3• coniugazione: + e)/forma dell'infini­ to; plurale: tema verbale (+ vocale tematica) + -tel-mini: I' coniugazione, sing.: amii/amiire, pl.: amiite/amiimini 2• coniugazione, sing.: deleldelere, pl.: deleteldelemini 3' coniugazione, sing.: agelagere, pl.: agitelagimini 4' coniugazione, sing.: audi/audi re, pl.: audlte/audiminl. Indicativo presente: tema verbale (+ vocale tematica) + desinenza personale: coniugazione: amo/amor, amiislamiiris, amatiamiitur, amiimus/amiimur, amatisiamiimini, amantiamantur 2• coniugazione: deleoldeleor, de/esideleris, de/et/deletur, delemusidelemur, deletisldeleminl, de/entidelentur 3' coniugazione: agolagor, agislageris, agitlagitur, agimuslagimur, agitislagiminl, agunt/ aguntur 4• coniugazione: audiolaudior, audis/audiris, audit/auditur, audimus/audimur, auditislaudiminl, audiuntlaudiuntur. P

Congiuntivo presente: P coniugazione: tema verbale con cambio ii > e + desinenza personale; 2•, 3' e 4• coniugazione: tema verbale + ii + desinenza personale: I' coniugazione: amemlamer, ameslameris, amet/ametur, amemuslamemur, ametislamemi­ ni, amentlamentur 2• coniugazione : deleamldelear, deleiisldeleiiris, deleatldeleiitur, deleiimusldeleiimur, deleii­ tisldeleiiminl, deleant/deleantur 3• coniugazione: agamlagar, agiislagiiris, agatlagiitur, agiimuslagiimur, agiitislagiiminl, agant/agantur 4• coniugazione: audiamlaudiar, audiiislaudiiiris, audiatlaudiiitur, audiiimuslaudiiimur, au­ diiitislaudiiiminl, audiantlaudiantur. Indicativo imperfetto: tema verbale (+ vocale tematica) + -ba- + desinenza personale: P coniugazione: amiibamlamiibar, amiibiislamiibiiris, amiibat/amiibiitur, amiibiimus/amiibii­ mur, amiibiitislamiibiiminl, amiibantlamiibantur 2• coniugazione: delebamldelebar, delebasldelebiiris, delebatldelebiitur, delebiimusldelebii­ mur, delebiitisldelebiiminl, delebantldelebantur 3• coniugazione: agebam/agebar, agebasiagebiiris, agebatlagebiitur, agebiimuslagebiimur, age­ biitislagebiimini, agebant/agebantur

195

III STORIA DELLA LINGUA LATINA ·

4'

coniugazione: audiebam/audiebar, audiebaslaudiebiiris, audiebatlaudiebatur, audieba­ muslaudiebamur, audiebatis/audiebaminl, audiebant/audiebantur.

Congiuntivo imperfetto: infinito + desinenza personale: P coniugazione: amaremlamiirer, amares/amiireris, amiiret/amaretur, amaremuslamaremur, amaretis/amareminl, amarent/amarentur 2• coniugazione: deleremldelerer, deleresldelereris, deleretldeleretur, deleremusldeleremur, deleretisldelereminl, delerentldelerentur y coniugazione: ageremlagerer, agereslagereris, ageretlageretur, ageremus/ageremur, ageretisl agereminl, agerentlagerentur 4' coniugazione: audi remlaudlrer, audiresiaudireris, audiretiaudiretur, audire musiaudi remur, audi retislaudiremini, audirent/audi rentur. Imperativo futuro: 2' e y pers. sing.: tema verbale (+ vocale tematica) + -tol-tor, 2' pers. p!.: tema verbale (+ vocale tematica) + -tote (manca il passivo); 3' pers. p!.: tema verbale (+ vocale tematica) + -nto/-ntor: I' coniugazione: amato/amator, amatole, amanto/amantor 2' coniugazione: deletoldeletor, deletote, delentol delentor 3' coniugazione: agito/ agitar, agitote, aguntolaguntor 4' coniugazione: audito/audltor, auditote, audiunto/audiuntor. Futuro: tema verbale + -b- (+ vocale tematica) + desinenza personale (P e 2' coniuga­ zione) ovvero tema verbale + e + desinenza personale (3' e 4' coniugazione; la P pers. sing. corrisponde alla I' pers. sing. del congiuntivo presente attivo) : P coniugazione: amabolamabor, amabislamaberis, amabitlamabitur, amabimus/amabimur, amabitis/amabiminl, amabunt/amabuntur 2' coniugazione: deleboldelebor, delebisldeleberis, delebitldelebitur, delebimusldelebimur, delebitisldelebiminl, delebuntldelebuntur 3' coniugazione: agamlagar, ages/ageris, agetlagetur, agemuslagemur, agetislageminl, agentiagentur 4' coniugazione: audiam/audiar, audies/audieris, audiet/audietur, audiemus/audiemur, au­ dietislaudieminl, audientlaudientur. Infinito perfetto: tema del perfetto + -isse: amauisse, deleuisse, egisse, audluisse. Indicativo perfetto: tema del perfetto + desinenza personale del sistema del perfetto: amaul, amauistl, amauit, amauimus, amauistis, amauerunt. Congiuntivo perfetto = futuro perfetto eccezion fatta per la P pers. sing., dove si ha una neoformazione analogica in -erim: amauerim, amaueris, amauerit, amauerimus, amaueritis, amauerint. Indicativo piuccheperfetto: tema del perfetto + indicativo imperfetto di esse: amaueram, amaueras, amauerat, amaueramus, amaueratis, amauerant.

3 LA STRUTTURA DEL LATINO CLASSICO ·

Congiuntivo piuccheperfetto: tema del perfetto + -is- desinenze del cong. imper­ fetto di esse: amiiuissem, amiiuisses, amiiuisset, amiiuissemus, amiiuissetis, amiiuissent. +

Futuro perfetto: tema del perfetto + futuro di esse amiiuero, amiiueris, amiiuerit, amiiuerimus, amiiueritis, amiiuerint.

J.I.J. Sintassi e stilistica de/ latino dell'età classica La sintassi di una lingua costituisce l'estensione funzionale della morfolo­ gia, perché governa le modalità in cui singole parole morfologicamente flesse vengono messe in rapporto tra loro per esprimere connessioni di senso sotto forma di frasi (complete o difettive). Ci sono lingue (come l'inglese e la mag­ gior parte degli idiomi romanzi) nelle quali l'ordine degli elementi svolge un ruolo decisivo per la loro funzione nella frase, mentre in altre, &a cui il tede­ sco, il russo, il greco e per l'appunto il latino, la funzione degli elementi di­ pende in gran parte dal loro aspetto morfologico. Quando il latino nel I sec. a.C. fu ridotto alla sua forma classica, già comparivano i primi sintomi del fat­ to che stava per passare dal secondo tipo al primo (riduzione dei caratteri fles­ sionali attraverso la coincidenza fonetica di forme diverse); se nondimeno si ha l'impressione che il funzionamento della sintassi latina classica dipenda so­ prattutto dalla ricchezza morfologica, ciò è dovuto innanzitutto al fatto che coloro che diedero l'impronta fondamentale alla lingua erano conservatori, cioè si sforzavano di conservare fenomeni che stavano già tramontando; in secondo luogo, non bisogna trascurare il ruolo assai rilevante che svolse l'imi­ tazione della sintassi greca nella sua raffinata versione ellenistica. Non è questa la sede per esporre anche solo i tratti piu salienti della sin­ tassi latina, tanto piu che in questo àmbito si fanno reciproca concorrenza molti modelli descrittivi, che pongono al centro dell'interesse fenomeni del tutto diversi. Va in ogni caso sottolineato che uno dei caratteri fondamentali della sintassi della lingua letteraria classica è la vasta applicazione della strut­ tura periodica (che va vista sullo sfondo del ruolo istituzionale svolto dalla teorizzazione greca), per cui la rigorosa sequenza e il parallelismo di protasi e apodosi - coordinate o subordinate - assursero a caratteristica della prosa e, in una certa misura, anche della poesia latina. Deviazioni da questo modello (inconcinnitas, brevi frasi lapidarie) potevano essere utilizzate come stilemi per creare straniamento, mostrando perciò stesso in che misura una struttu­ ra frasale complessa, ma costruita con chiarezza, rappresentasse la "normale" lingua scritta. 197

4 IL LATINO DELL'ETÀ IMPERIALE

I.:aetas Augusta si presenta come un'epoca bifronte : i disordini delle guerre civili lasciano il posto alla stabilità istituzionale, che nel contempo però com­ porta la fine della libera res publica e inaugura il sistema della sovranità perso­ nale; gli stessi poeti di età augustea ci comunicano l'impressione che da un lato si avesse la sensazione di un nuovo inizio pieno di promesse, ma dall'al­ tro si deplorasse la perdita delle libertà repubblicane in un atteggiamento di fatalistica o irosa impotenza. Dopo Augusto l'ottimismo scomparve rapida­ mente, e divenne chic rappresentare il presente a tinte fosche; la visione del mondo da parte degli intellettuali fu progressivamente improntata a un ras­ segnato pessimismo culturale, e a un senso di decadenza che si compiaceva di rappresentare le imprese dei maiores come degne di essere imitate, ma ir­ raggiungibili. Questa concezione della vita si ripercuote sull'uso linguistico degli scrittori. Da sempre lo sviluppo della lingua letteraria latina era stato caratterizzato dalla dinamica fra la tendenza all'arcaismo nell'imitazione de­ gli autori del passato, e la volontà di rinnovamento mediante l'inclusione di elementi della lingua d'uso contemporanea; nell'età imperiale vengono de­ cisamente alla ribalta da un lato l'imitazione o la rielaborazione della lingua di modelli letterari affermati, dall'altro la creazione di neologismi audaci e artificiosi, mentre nella letteratura piu ambiziosa si andava nel contempo ve­ rificando un pesante deprezzamento - ai limiti della tabuizzazione - della lingua quotidiana. Una rilevante particolarità dell'età imperiale, fino al 250 d.C. circa, è il dif­ fuso bilinguismo degli ambienti colti : già verso la fine della Repubblica era divenuto naturale per l'élite romana mandare i figli maschi a completare la loro istruzione con un soggiorno in Grecia, e dobbiamo partire dal presup­ posto che, fra schiavi e liberti, in Occidente vi fosse un numero considerevo­ le di individui di provenienza orientale per i quali il greco era la lingua fran­ ca. Non c'è dunque da stupirsi se tendenze dell'evoluzione linguistica e stili­ stica del greco si trasmisero rapidamente al latino, giacché è tipico della con­ dotta dei parlanti realmente bilingui, il fatto che i concreti prestiti lessicali siano assai meno frequenti della ripresa di strutture (fonetiche, semantiche, morfologiche e soprattutto sintattiche) dell'altra lingua. Quando, verso la metà del III sec. d.C., il tradizionale canone dell'istruzione cominciò a deca199

III

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STORIA DE LLA LINGUA LATINA

dere, la conoscenza del greco fu una delle prime vittime di questo muta­ mento, e già nel IV sec. d.C. la capacità di comprendere agevolmente il gre­ co costituiva piu un'eccezione che la regola. Con la divisione dell'impero il destino delle litterae Graecae in Occidente era segnato: fino al Rinascimento, conoscenze sia pur rudimentali di greco rimasero ammirevoli casi isolati. In­ vece le strutture linguistiche greche, che avevano improntato il latino nella prima età imperiale, naturalmente si conservarono. 4.1. CoSTITUZIONE DEL CANONE LINGUISTICO-LETTERARIO Fino agli autori augustei, la possibilità di imitare la lingua e lo stile di scrit­ tori piu antichi fu, per cosi dire, un'opportunità non vincolante: Lucrezio poteva riprendere espressioni e locuzioni di Ennio, ma poteva anche non farlo. Nell'età imperiale si giunse a un decisivo cambiamento: come in àm­ bito greco l'atticismo riteneva che l'unica norma accettabile fosse la forma linguistica di una serie (neppur troppo folta) di scrittori attici del V e IV sec. a.C., la cui imitazione era inevitabile per chiunque volesse scrivere in un "buon" greco, cosi anche per i piu pregiati generi letterari della prosa latina - retorica, filosofia, storiografia - divenne norma soprattutto lo stile di Cice­ rone. In questo contesto un ruolo decisivo fu svolto da QuiNTILIANO, che as­ sunse come criterio del bello stile l'osservanza - non però l'imitazione pe­ dissequa - delle fondamentali direttrici linguistiche del latino ciceroniano. Jlirgen Untermann ha sottolineato a ragione (in « Gymnasium >>, 84 1977, p. 281), che « non sono stati Cicerone e i suoi predecessori a dare una norma alla lingua lati­ na, bensi Quintiliano e i suoi colleghi; la standardizzazione del latino non è avvenu­ ta perché Cicerone aveva canonizzato le sue virru linguistiche (cosa che, com'è noto, non gli venne mai in mente di fare), ma perché dopo di lui nessuna eminente perso­ nalità seppe fornire nuove soluzioni in modo altrettanto persuasivo ''· Poiché la com­ posizione di discorsi e di dissertazioni in stile ciceroniano era divenuta materia di in­ segnamento scolastico, la norma linguistica cosi costituita diventò sostanzialmente obbligatoria quanto meno per vasti ambiti della prosa; chi da allora in poi avesse scritto in altro modo, non operava una libera scelta all'interno di una vasta gamma di stili diversi, ma o non sapeva scrivere secondo la norma, magari a causa di un'istru­ zione incompleta, o consapevolmente non voleva farlo, opponendosi al canone lin­ guistico generalmente riconosciuto.

Con la canonizzazione dello stile ciceroniano come modello della prosa latina nel I sec. d.C., l'esercizio di riprodurre una forma linguistica apparte200

4 · I L LATINO DELL ' ETÀ IMPERIALE nente al passato divenne parte del programma scolastico. Ammettere nel la­ tino scritto i mutamenti della lingua d'uso fu stigmatizzato come "errore", mentre porre la maggior distanza possibile fra scritto e parlato fu inteso sem­ pre piu come segno di virtuosismo stilistico. La strada che alla fine condusse il latino a diventare una lingua morta, fu sostanzialmente imboccata nelle scuole di retorica dell'età imperiale. Come Cicerone assurse a modello per la prosa di scuola, cosi Virgilio di­ venne l'indiscusso autore scolastico per la lingua poetica, con l'importante differenza che, laddove si imparavano a comporre esercitazioni retoriche nello stile di Cicerone, i programmi non contemplavano la composizione di poemi epici, e gli scolari dovevano solo saperne recitare a memoria lunghi passi. Probabilmente va ricercato qui uno dei motivi per cui, durante l'età imperiale, il divario fra l'espressione prosastica e quella poetica si fece sem­ pre meno netto, fino a che divenne addirittura un segno caratteristico della prosa piu raffinata saper conferire alla lingua uno splendore lontano dalla quotidianità attraverso l'abile inserimento di parole e locuzioni poetiche. Questo orientamento conservatore adottato nella formazione scolastica, vòlta a un tipo di scrittura basato su un unico autore e - nella migliore delle ipotesi - su pochi suoi contemporanei, non implica naturalmente che in età imperiale non si siano piu avuti stili individuali. Al contrario, la scrittura ba­ sata su Cicerone era solo la norma scolastica, alla quale miravano abitual­ mente tutte le persone colte e che quindi era considerata come lo stile nor­ male, non marcato. Lo scrittore che volesse emergere sul piano linguistico, doveva pertanto o portare questo stile normale a una qualità straordinaria­ mente perfetta, comportandosi cosi come un alter Cicero, o distaccarsene stu­ diatamente. Chi a quest'epoca scriveva altrimenti dallo stile normativa, per­ seguiva di proposito una scelta linguistica controcorrente, i cui motivi pote­ vano essere i piu diversi: Petronio mira a riprodurre artisticamente l'uso lin­ guistico dell'ambiente dei liberti; Tacito vuole esprimere anche sul piano lin­ guistico la sua indipendenza dal gusto e dal sentire contemporaneo; Apuleio vuole conquistare l'attenzione ed esibire il proprio virtuosismo linguistico accumulando espressioni che contrastano con lo stile normale. In generale, la ricerca di espressioni inattese, inusuali e inaudite diviene sempre piu nella tarda età imperiale una comune caratteristica della lingua letteraria di ma­ niera, che cerca di colpire il pubblico con voluti arcaismi, con l'indebolirsi del confine fra uso prosastico e poetico, con l'accumulazione di sinonimi, la creazione di neologismi e, non da ultimo, con gli espedienti della prosa rit201

III

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STORIA DELLA LIN GUA LATINA

mica. Ma questa tecnica di scrittura propria dei virtuosi della lingua poteva dispiegare la sua efficacia soltanto sullo sfondo di una norma linguistica di ci­ ceroniana osservanza trasmessa dalla scuola e generalmente accettata. 4.2. IL LATINO DEI CRISTIANI Il latino dei primi scritti cristiani si discosta vistosamente dalla lingua arti­ stica e spesso artificiosa della letteratura piu illustre. A tal proposito vanno innanzitutto ricordate le prime traduzioni della Bibbia (Vétus Latina), ma poi anche le opere degli apologeti e, infine, dei padri della Chiesa. Non bisogna dimenticare che anche in Occidente i primi cristiani erano ebrei ellenizzati, e che per lungo tempo obiettivo dell'attività catechetica furono soprattutto schiavi e liberti di lingua greca. Cosi si spiega perché il latino cristiano fin dall'inizio abbia avuto una forte coloritura greca; quando il messaggio cri­ stiano cominciò ad avere successo anche &a gli individui colti, e questi si sforzarono di sostituire i termini greci con neologismi latini, alcuni grecismi si erano cosi stabilmente affermati come termini tecnici che nessun purista riuscf piu a eliminarli. Il latino cristiano non solo presenta un numero di parole greche decisamente su­ periore alle consuetudini della lingua letteraria dell'età imperiale, ma mostra anche molti calchi e grecismi sintattici, e ciò andrà ascritto, oltre che all'influsso di un am­ biente in larga parte grecofono, anche alla volontà di imitare la lingua della Bibbia greca. Al contrario, le affinità con l'ebraico (ovvero con l'aramaico) sono del tutto in­ dirette, cioè mediate dal greco della Bibbia.

La caratteristica piu notevole del primo latino cristiano è la sua mancanza di artificiosità, che si distacca dalla scrittura letteraria del tempo: Sacrae Scrip­ turae sermo humilis. Su ciò deve aver agito la concomitanza di tre fattori : i pri­ mi missionari che usarono il latino non appartenevano all'élite culturale, do­ vevano tener conto delle abitudini linguistiche del pubblico cui si rivolgeva­ no, e anche il greco della Bibbia aveva una forma linguistica lontana dalla norma della prosa letteraria. Le prime traduzioni latine della Bibbia, comunemente comprese sotto la denomi­ nazione di Vétus Latina, furono eseguite indipendentemente le une dalle altre su di­ versi luoghi del testo, secondo le esigenze della comunità; il loro carattere linguistico è, pur nella comune semplicità espressiva, affatto ineguale; le versioni oscillano tra una relativa libertà e un'eccessiva fedeltà alla lettera, e pullulano di errori di tradu­ zione anche grossolani. La lingua della Vétus Latina, pur differente nelle singole ver-

202

4 I L LATINO DELL ' ETÀ I MPERIALE ·

sioni, colpisce per l'assenza degli artifici della coeva lingua letteraria: gli autori di queste traduzioni non rivelano né la scuola di retorica ciceroniana, né la consapevole

adozione di un altro indirizzo stilistico, bensi scrivono per la gran parte nella loro lin­

gua d'uso quotidiano.

lungo ha trovato credito la tesi che il latino dei cristiani fosse una "lin­ gua speciale", cioè un coerente sistema linguistico proprio di un gruppo so­ ciologico chiuso in se stesso, che si distingueva dal latino dei pagani. I.:esi­ stenza di un'impronta peculiare si prova facilmente per il lessico, e non c'è dubbio che in una comunità come quella cristiana, soggetta a un'ideologia che abbracciava ogni àmbito dell'esistenza e si poneva in contrasto col con­ testo circostante, dovessero nascere nuove parole e nuovi significati per pa­ role già esistenti. A

è caratterizzato non solo da tennini tecnici tipicamente reli­ angelus, apostolus, episcopus, martyr, propheta, ecc., ma anche dalla ridefinizio­ ne semantica di parole che in ambito pagano hanno un altro significato: arare, 'prega­ re' (anziché 'domandare', 'chiedere'), paganus, 'pagano' (anziché 'abitante delle campa­ gne' o 'civile', 'borghese' in opposizione a mi/es), saeculum, 'mondo terreno' (anziché Il latino dei cristiani

giosi come

'secolo', 'era').

Ciò che però, nonostante tutti gli sforzi, non si poté provare, fu l'esistenza di particolarità morfologiche e sintattiche esclusive degli antichi cristiani, co­ sicché oggi, quando si parla di latino cristiano, ci si riferisce solo alle peculia­ rità lessicali e stilistiche. Man mano che il cristianesimo raggiungeva fasce sempre piu ampie e, so­ prattutto, elevate della società romana, fino a trionfare sul paganesimo e im­ porsi come religione di stato, si dileguava anche la divergenza linguistica fra latino cristiano e latino pagano. Nei loro scritti di propaganda, gli autori cri­ stiani dotati di cultura letteraria si sforzarono, allo scopo di conquistare al nuovo culto i loro pari, di conciliare la semplicità dell'espressione - che per i cristiani era addirittura una sorta di segno distintivo - con l'esigenza di una lingua stilizzata: se ancora MINUCIO FELICE cercava di evitare la maggior parte delle parole inconsuete per i non cristiani, già LATTANZIO seppe conci­ liare il suo latino ciceroniano, sia pur sfrondato degli ornamenti retorici piu vistosi, con l'ovvia necessità di includere il lessico speciale cristiano; AGOSTI­ NO compose le opere rivolte al pubblico colto (come il De ciuitate Dei) in una lingua orientata verso l'ideale ciceroniano, molto diversa da quella delle sue prediche destinate al popolo meno istruito, nelle quali gli innegabili espe203

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STORIA DELLA LINGUA LATI NA

clienti stilistici si nascondono dietro una parvenza di semplicità, spesso sotto­ lineata con civetteria: De doctrina Christiana, 4 61: qui utrumque non potest, dicat sapienter, quod non dicit eloquenter, potius qua m dicat eloquenter, quod dicit insipienter. Enarrationes in psalmos, 138 20: melius est reprehendant nos grammatici quam non intellegant populi.

Raffinati giochi di parole mostrano che la caratura "popolareggiante" della lingua di Agostino altro non è che un calcolato artificio stilistico: melius in bar­ barismo nostro uos intelligitis quam in nostra disertitudine uos deserti eritis (Enarrationes in psalmos, 36 26). Lo stile di GIROLAMO raggiunge un certo equilibrio fra l'am­ bizione di usare una nuova forma espressiva, adeguata nella sua semplicità al­ le pretese di umiltà del cristianesimo, e la necessità di rivolgersi a un pubbli­ co dalle ben piu accresciute esigenze letterarie, non piu costituito da individui incolti ai margini della società. Nelle prediche, nelle opere esegetiche e so­ prattutto nelle lettere Girolamo utilizza una forma linguistica modellata su Cicerone, ma aperta a poetismi ed arcaismi, e che guadagna un carattere spe­ cificamente cristiano attraverso riecheggiamenti di sermo humilis di biblica os­ servanza. Nella traduzione latina della Bibbia, la cosiddetta Vulgata - condot­ ta a termine su incarico di papa Damaso, che voleva eliminare la confusione dovuta alla coesistenza delle piu diverse versioni non autorizzate della f.ftus Latina , Girolamo non fu pienamente libero sul piano delle scelte lessicali, dovendo tener conto delle versioni già esistenti, che erano state largamente utilizzate nella liturgia e si erano pertanto impresse nell'orecchio dei fedeli. Per il Nuovo Testamento Girolamo rielaborò traduzioni preesistenti allo scopo di eliininarne gli errori di fatto, ma senza radicali modifiche della fisionomia linguistica divenuta ormai tradizionale; l'Antico Testamento fu ritradotto ex no­ va dall'ebraico, ma in una forma linguistica che si avvicinava allo stile biblico fainiliare ai suoi ascoltatori, e nei testi liturgicamente rilevanti come i Salmi Girolamo dovette limitarsi a una superficiale revisione della vecchia traduzio­ ne basata sulla versione greca dei Settanta: qui il textus iuxta Hebraeos fu con­ templato solo per le discussioni teologiche, mai per l'uso liturgico. Agostino e Girolamo furono i due autori cristiani che trovarono maggior ri­ cezione nel Medioevo; la loro scrittura, che andava da un blando ciceroniani­ smo alla semplicità della lingua biblica, offri per circa un Inillennio un punto d'orientamento stilistico, ovviamente quasi irraggiungibile per scrittori la rui istruzione classica e le cui conoscenze di latino erano spesso assai rudimentali. -

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5 DAL LATINO TARDOANTICO AL LATINO MEDIEVALE E ALLE LINGUE ROMANZE

Non è facile dare una definizione del latino medievale : non volendoci li­ mitare a una delimitazione unicamente temporale, che lo indichi semplice­ mente come il latino del Medioevo, compreso fra la fine dell'età antica e il Rinascimento, che segna l'inizio dell'età moderna, diremo che si tratta del latino nella sua funzione di lingua colta - appresa cioè nelle scuole e non piu come madrelingua -, che continuava a sviluppare organicamente aspetti del latino tardo, popolare ed ecclesiastico, che adattava con atteggiamento libe­ rale elementi dei correnti idiomi romanzi, germanici, celtici o slavi, ma che allo stesso tempo si ricollegava costantemente, in misura maggiore o minore a seconda degli autori e delle epoche, alla latinità classica; quel latino che chiunque volesse appartenere alla schiera dei litterati doveva conoscere, ac­ canto alla propria madrelingua, in una vera e propria condizione di bilingui­ smo. A differenza del latino di età moderna, davvero "morto" nella sua arti­ ficiale imitazione della lingua antica, il latino medievale potrebbe definirsi una lingua "semiviva", perché ancora dotato di una spiccata capacità di mu­ tamento, e della facoltà di rapportarsi alla pluralità delle situazioni, dei par­ lanti e degli scriventi. Naturalmente non è possibile tracciare un confine netto fra latino tar­ doantico e latino altomedievale. Chiedersi quando la lingua d'uso tardolati­ na sia divenuta protoromanza - altrimenti detto, quando si sia smesso di par­ lare latino e si sia iniziato a parlare romanzo -, è, posta in questi termini, una domanda sbagliata. Una forma linguistica segue l'altra senza soluzione di continuità, e si può soltanto dire che le caratteristiche romanze aumentano nella misura in cui diminuiscono i caratteri essenziali del latino; la commes­ sa parigina, l'impiegato di Lisbona, la maestra di Bucarest e il cappellano di Roma parlano oggi quelle che si possono definire, cum grano salis, altrettante forme locali del latino d'uso quotidiano duemila anni dopo Cicerone. Quel che invece si può fare, è individuare dei punti di riferimento per sa­ pere quando la divaricazione tra la lingua rispettosa della norma tradiziona­ le e la lingua del corrente uso spontaneo si accentuò a tal punto, che gli indi­ vidui incolti non furono piu in grado di comprendere il linguaggio dei par205

III

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STORIA DELLA LINGUA LATINA

lanti colti. AGOSTINO (354-430) anteponeva esplicitamente l'intelligibilità del­ le sue prediche per tutti i credenti all'osservanza delle regole grammaticali (Enarrationes in psalmos, 138 20: melius est reprehendant nos grammatici quam non in­ tellegant populi), ma è chiaro che aveva l'impressione che il suo latino lettera­ rio fosse compreso dalla totalità degli ascoltatori; GREGORIO MAGNO (540604) evitò scrupolosamente ogni violazione della norma, ma nel contempo si preoccupò di evitare uno stile troppo "retorico", che avrebbe creato pro­ blemi di comprensione; pare che già IsmoRo DI SIVIGLIA (570-636) dovesse sforzarsi di esprimersi in modo tale da essere capito dai simplices (PL, 83 861 A: cum autem doces, noli uerborum obscuritate uti; ita dic, ut intelligaris, nec simplicibus loquendo displiceas), ma i vescovi merovingi avevano ancora la sensazione che il loro latino, se badavano a parlare con semplicità, fosse compreso dal popo­ lo (Crodegango di Metz, PL, 89 1076 C, intorno al 745: iuxta quod intellegere uulgus possit, ita praedicandum est). Se si può quindi affermare che fino alla metà dell'VIII secolo anche gli il­ litterati potevano in gran parte comprendere un latino privo di pretese artisti­ che, non andrà però dimenticato che il numero di quanti erano in grado di esprimersi in un tale latino era diventato nel contempo assai esiguo. La cau­ sa principale è la profonda decadenza del sistema scolastico antico fra il 6oo e l'8oo: la capacità di leggere e scrivere, che in età imperiale si poteva attri­ buire a una percentuale rilevante dei cittadini maschi dell'impero, divenne un'arte conservata solo da una piccola minoranza, in genere appartenente al clero. A questa evoluzione si aggiunse il fatto che, anche nei pochi individui ancora in grado di mantenere una cultura scritta, il legame della lingua con le norme classiche andò via via attenuandosi: l'ortografia, la morfologia, la sintassi e il lessico si allontanarono sempre piu dalle regole tradizionali, e nelle aree in cui si parlavano forme embrionali di romanzo, non si può non notare nel latino scritto un vasto influsso della lingua orale d'uso quotidiano; dove il latino era invece una lingua del tutto estranea, come in àmbito ger­ manico, insieme ad autentici errori, dovuti a un apprendimento incompleto, compaiono interferenze sintattiche, e nel lessico irrompe un gran numero di germanismi superficialmente latinizzati. D'altro canto, l'eredità antica rima­ neva onnipresente sotto forma di reminiscenze dell'uso linguistico tardo e soprattutto ecclesiastico, sicché accanto agli errori di grammatica piu grosso­ lani si possono trovare espressioni cesellate, che puntano all'effetto retorico secondo la tipica maniera di età tardoantica. Nonostante il crollo del sistema scolastico e la decadenza delle competen­ ze linguistiche, sopravvisse, almeno in una piccola élite, la consapevolezza 206

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DAL LATINO TARDOANTICO ALLE LINGUE ROMANZE

che la qualità del proprio latino scritto dipendeva da una profonda cono­ scenza della scrittura dei piu ragguardevoli autori antichi, e che solo la con­ servazione delle regole tradizionali poteva impedire il caos linguistico. Un distico, che precede una modesta orthographia attribuita a un certo Albinus Ma­ gister, ci chiarisce bene questo sentimento (GLK, vn, p. 295 2-3) :

Me legat antiquas cupiat qui scire loquelas, me spernens loquitur mox sine lege patrum.

Alla luce di questa consapevolezza, ogni miglioramento del sistema d'i­ struzione doveva includere un vasto tentativo di recupero della lingua di un passato riconosciuto come esemplare; doveva mirare, in altre parole, a una rinascita linguistica e anche culturale. Il primo grande movimento di questo tipo è noto come "rinascenza carolingia": il potenziamento del sistema sco­ lastico sancito da Carlo Magno comportò un nuovo, generale orientamento verso la lingua dei modelli classici; gravi violazioni delle norme diventano visibilmente piu rade, e si può osservare come al latino merovingio, con la sua scrittura poco consapevole delle regole, vada sostituendosi uno stile im­ prontato alla prosa tardo-repubblicana. Questo tentativo, voluto soprattutto da ALcUINO (732-804), di restaurare il latino classico nella fonetica, nel lessi­ co e nella morfologia provocò l'irrevocabile rottura del continuum comunica­ tivo: gli illitterati della Francia settentrionale non potevano, con tutta la buo­ na volontà, capire il latino riformato; altrove, come in Italia, ci volle piu tem­ po prima che il continuum della comprensione fra latino e volgare si spezzas­ se del tutto, ma al piu tardi all'inizio del X secolo si arrivò dovunque a que­ sto punto. Una specie di "atto di divorzio" fra latino e romanzo è costituito, almeno per la Francia, dalla delibera del Concilio di Tours dell'anno 813, che invita i vescovi a impegnarsi ut easdem (h>omilias quisque aperte transferre studeat in rusticam Romanam linguam aut Thiotiscam, quo Jacilius cuncti possint intelligere, quae dicuntur (MGH, Conc., n 1 17). È chiaro pertanto che, a rigore, si deve af­ fermare che fino all'inizio del IX secolo la popolazione dei territori in cui stavano nascendo le lingue romanze considerava il latino come madrelingua, ma mentre i litterati, attraverso l'istruzione scolastica, avevano accesso alla tra­ dizionale e raffinata forma alta, agli illitterati restava solo la lingua quotidiana; la percezione di un contrasto tra latino e romanzo si costitui lentamente so­ lo nel IX e X secolo. Per motivi pratici si è tuttavia stabilito di segnare il confme scientifico e istituziona­ le fra latino antico e latino medievale attorno al 6oo: il crollo del sistema scolastico, la

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clericalizzazione dell'istruzione, il declino delle conoscenze letterarie e l'accelerazio­ ne dei cambiamenti nel sistema linguistico fecero sf che la letteratura del VII secolo mostrasse un carattere decisamente diverso da quello della letteratura antica. Natural­ mente questa delimitazione viene in genere applicata con elasticità, tanto che, a se­ conda delle peculiarità linguistiche del singolo autore, si può avere fino a mezzo se­ colo d'oscillazione verso l'alto o verso il basso: cosi IsmoRo DI SIVIGLIA (570-636) vie­ ne generalmente trattato come uno scrittore tardoantico, mentre il monaco irlandese CoLOMBANO (543-615) è per lo piu assegnato all'alto Medioevo. La delimitazione tra filologia latina (compreso il latino medievale) e filologia romanza non presenta inve­ ce problemi: i testi che sono o aspirano ad essere composti in latino rientrano nel campo di studio della prima, mentre quelli che si curano di registrare per iscritto i fe­ nomeni delle nuove lingue popolari sono di competenza della romanistica.

Il periodo mediolatino rimase sostanzialmente esente da uno sterile puri­ smo, quale si riscontra invece in alcuni autori bizantini o, piu tardi, presso al­ cuni umanisti, perché nessuno pensò seriamente di circoscrivere il lessico al­ le sole parole documentate in età classica, e anche nella sintassi ci si conce­ devano le libertà necessarie per un agevole impiego della lingua (ad esempio frasi con quod anziché con l'accusativo + infinito, uso disinvolto della consecu­ tio temporum). Si poteva scrivere in misura piu o meno arcaizzante, a seconda del talento e della conoscenza dei testi esemplari, e nessuno ebbe da eccepi­ re quando nuove situazioni o nuove idee resero necessarie nuove formula­ zioni. Cosi la scolastica poté crearsi il materiale lessicale di cui aveva bisogno, né si dové temere, con un titolo come De ente et essentia, di suscitare idiosin­ crasie linguistiche. Non è questa la sede per mostrare le linee di sviluppo del latino medieva­ le, che, nonostante il respiro internazionale della letteratura mediolatina, presenta numerose peculiarità regionali e nazionali, e il cui rigore nel rispet­ to dell'uso linguistico antico è soggetto a caratteristiche oscillazioni. Accanto allo sviluppo di nuove forme di lingua poetica, come la rima, l'allitterazione, il ritmo accentuativo e le strutture strofiche, si ha altresf la tendenza a con­ servare l'antica poesia quantitativa, anche se un'autentica sensibilità per le lunghe e le brevi è ormai smarrita e le regole classiche subiscono violazioni piu o meno pesanti a seconda della cultura dei poeti, i quali si accontentano perlopiu di comporre versi semplici come l'esametro e il pentametro. La ri­ ma fa il suo ingresso come ornamento stilistico anche nella prosa ("prosa ri­ mata"), mentre il cursus, cioè la studiata accentazione della parte finale della frase (due, tre o quattro sillabe atone tra le sillabe toniche delle ultime due parole), diventa un importante contrassegno dell'uso artistico della lingua. 208

6 LATINO UMANISTI CO E NEOLATINO

Se il latino medievale non rinunciò mai del tutto a richiamarsi alla lingua classica, e per l'intero corso del Medioevo si assisté a sempre nuovi tentativi di tornare a una latinità piu vicina alle forme antiche, ciò tuttavia non con­ dusse mai a un purismo arcaizzante, né all'idea che il recupero dell'antico splendore linguistico potesse in qualche modo contribuire alla restaurazione della passata grandezza di Roma. Alla fine del Duecento si sviluppò fra gli intellettuali delle città dell'Italia nord-occidentale l'ideale di una complessiva rinascita della cultura antica, e nel secolo successivo questo atteggiamento si diffuse in tutta Italia, in Spagna e in Francia, per raggiungere nel Quattro­ cento i Paesi Bassi, la Germania e l'Inghilterra e infine, nel XVI secolo, la Scandinavia. Paradossalmente, furono gli sforzi umanistici di restaurare una Latinitas pura, facendo ritorno alla lingua dell'età classica, e in particolare di Cicerone, a dare il colpo di grazia al latino in quanto lingua "semiviva", per­ ché la consuetudine medievale di adattare la forma linguistica al contesto si­ tuazionale non era compatibile con la meticolosa preoccupazione di accerta­ re se il dato termine o il dato costrutto fosse attestato o meno nei buoni au­ tori. Cosi il latino, rinnovato nello spirito antico, poté diventare uno stru­ mento elegante ed espressivo nelle mani di una ristretta schiera di artisti co­ me ad esempio Erasmo da Rotterdam, ma per utenti meno dotati scrivere in questa lingua fini per ridursi a un arido esercizio di stile, nel quale lo sforzo di raggiungere una forma quasi-antica andava spesso a scapito del contenuto. Pertanto il latino umanistico rappresentò nei fatti una fioritura soltanto ap­ parente, perché la rimozione dei tratti linguistici medievali e la restaurazio­ ne dei caratteri antichi, ancorché coronate di successo, furono una vittoria di Pirro, nella misura in cui questo virtuosismo retrogrado, necessario per pro­ durre un neo-latino accettabile, si trovò sempre piu in conflitto con le esi­ genze comunicative dell'età moderna. A partire dal XVI secolo le lingue na­ zionali, sempre piu vigorose, scacciarono via via il latino da tutte le piu im­ portanti posizioni, a partire dalla letteratura (Cinquecento) e dalla politica (Seicento), per finire con le scienze naturali (Settecento) e da ultimo con quelle umanistiche (Ottocento). Il Concilio Vaticano Secondo (1962-1965) segnò la fine dell'uso del latino nel culto cattolico, mentre le chiese prote209

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stanti avevano preferito le lingue nazionali fin dall'inizio della loro esistenza. Il fatto che ancor oggi si pubblichino alcune riviste e libri in latino, che esi­ stano società, corsi e congressi per la tutela del latino vivo e che vengano ad­ dirittura trasmessi notiziari radiofonici in latino, non cambia la realtà delle cose, e cioè che il Novecento ha decretato la fine dell'uso pubblico del latino come lingua realmente funzionale, tuttavia ammessa in determinati settori e non derisa come un'anacronistica farsa.

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7 IL LATINO DELL'USO QUOTIDIANO

È sempre un danno quando la scienza si serve di una terminologia impre­ cisa; tale è, per la sua ambiguità, la dizione "latino volgare", perché bisogna specificare di volta in volta in che senso venga intesa: se relativamente alla classe sociale, alla situazione, al luogo, al tempo o a tutto questo insieme. In latino l'espressione uulgaris sermo indicava innanzitutto una lingua d'uso quoti­ diano senza pretese, non perfezionata da limatura stilistica {cfr. Cicerone, Academica, I 2: didicisti enim non posse nos Amafinii aut Rabirii similes esse, qui nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis uulgari sermone disputant); suoi quasi sinonimi eranoJamiliiiris sermo {Ci­ cerone, Epistulae ad Atticum, I 9) e sermo cottidiiinus (cfr. Quintiliano, Institutio oratoria, n I 6). In primo luogo uulgiiris sermo era dunque inteso, come diremmo oggi, in senso diafasico, ovvero situazionale : era la lingua della spontanea conversazione quotidiana. Fin dall'inizio vi traspariva tuttavia anche una sfumatura diastratica, ovvero legata al­ la posizione sociolinguistica del parlante, intendendosi uulgaris sermo anche come for­ ma linguistica del popolo, sinonimo di plebeius sermo {Cicerone, Epistulae adJamiliares, 9 2I I}. E poiché i Romani tendevano a vedere la differenza fra "elegante" e "trascu­ rato" anche nella prospettiva {originariamente diatopica) del contrasto fra urbanitas e rnsticitas, come equivalente di uulgiiris sermo compare anche rnsticus sermo. Nel Medioe­ vo l'uso di lingua uulgiiris e lingua rnstica divenne frequente soprattutto per distinguere le nuove lingue romanze dal latino {spesso chiamato semplicemente grammatica) che andava imparato a scuola. Fra gli studiosi moderni, il termine "latino volgare" si è imposto soprattutto grazie all'autorità di Hugo Schuchardt {Der Vokalismus des Vulgiir­ lateins, r866), esattamente nel significato che il fondatore della romanistica, Friedrich Dietz, aveva dato al termine "linguaggio popolare". Circa l'origine delle lingue ro­ manze, Dietz aveva scritto nel 1836 (Romanische Grammatik, 1 4) : « Esse scaturirono non dal latino classico usato dagli scrittori, ma [ . . . ] dal linguaggio popolare, ovvero dall'idioma popolare romano, che era di uso corrente accanto al latino classico, e in particolare, come si può immaginare, dall'idioma popolare tardolatino. [ . . . ] Il latino popolare era soprattutto nelle province [ . . . ] estremamente diverso dalla fonte dalla quale era derivato ». In queste parole è già contenuto lo schema che verrà a lungo tramandato: coesistenza di "latino classico" {con cui in romanistica spesso si indica la lingua scritta senza ulteriori differenziazioni) e "latino volgare", contrasto &a "lingua colta" e "lingua popolare", coinvolgimento di una componente temporale {"latino tardo") e di una geografica {"latino delle province"). Non è questa la sede per rico­ struire le tappe della discussione sulla definizione del latino volgare, ma resta da pre­ cisare che oggi, per amor di chiarezza, si preferisce parlare di lingua d'uso latina )) «

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quando l'interesse si appunta sul latino nel suo aspetto parlato, di « latino tardo » quando si pone in primo piano la componente temporale, di « latino popolare » al­ lorché si privilegia quella sociologica, e di « latino delle province » quando si conside­ ra la variazione regionale.

Conosciamo solo indirettamente la lingua latina d'uso quotidiano, poiché la scrittura non può - e normalmente non vuole - riprodurre il parlato in un rapporto di I : I; cosi il latino orale ci è accessibile solo attraverso rifrazioni letterarie. Le commedie di PLAUTO e, in misura minore, quelle di TERENZIO, ce ne offrono numerosi elementi, ma non bisogna dimenticare che anche nei luoghi che sembrano piu fedeli alla lingua d'uso abbiamo pur sempre a che fare con una forma linguistica costruita, cioè artisticamente elaborata, e river­ sata nello schema metrico dei versi. Pari cautela vale per le altre opere lette­ rarie che presentano pagine di linguaggio popolare, come la Cena Trimalchio­ nis di Petronio: i dialoghi pullulano di volgarismi, che vengono adoperati a scopo letterario da un virtuoso della lingua, e che sono si ripresi dal parlato quotidiano degli schiavi e dei liberti, ma di certo non ne rappresentano la ve­ ra lingua d'uso. Il discorso non riguarda soltanto gli autori che usano voluta­ mente elementi della lingua d'uso: anche quelli che, a causa di carenze cultu­ rali, non sono in grado di attenersi alle convenzioni della lingua letteraria, non forniscono perciò stesso un quadro attendibile del latino parlato dalla gente comune, perché proprio questi scrittori tendono a "nobilitare" il loro stile con zeppe e formule letterarie prese a caso; la pia monaca EGERIA, ad esempio, inserisce con diligenza flosculi retorici in una lingua che è sostan­ zialmente vicina al latino dei cristiani con poca cultura "pagana". Anche i te­ sti epistolari sono prossimi alla lingua d'uso quotidiano, ma naturalmente la maggior parte delle grandi raccolte epistolografìche pervenute ci per tradizio­ ne manoscritta (Plinio il Giovane, Frontone, ecc.) fu concepita già in parten­ za per una successiva pubblicazione, e sottoposta pertanto a limatura stilisti­ ca, e anche laddove non è cosi (Cicerone), ci troviamo comunque dinanzi al sermo Jamiliaris dell'élite p ili colta; il sermo vulgaris della gente semplice emerge soprattutto dalle poche lettere private in lingua latina conservate su papiro, e il sermo plebeius si può tutt'al piu intuire da alcune missive su ostraka. Ma anche in questo caso non si deve dimenticare che la lingua della corrispondenza prevede numerose formule stereotipe, e che alla libera manifestazione del­ l'individualismo linguistico erano posti comunque limiti assai stretti. Una via del tutto diversa per schiuderei le porte del latino quotidiano è of­ ferta dalla proiezione all'indietro dei fatti linguistici presenti negli idiomi de2I2

7 · I L LATINO DELL ' USO QUOTIDIANO rivati dal latino, cioè dalle lingue e dai dialetti romanzi. È chiaro che in que­ sto caso bisogna verificare, per ogni singolo dato, se le conclusioni riguarda­ no generalmente il latino parlato in opposizione al latino scritto {ad es. pre­ dilezione per le espressioni di forte evidenza sensoriale, paratassi invece del­ l'ipotassi, ecc.), o se si tratta di un aspetto tipico della lingua d'uso degli in­ colti di età tardoantica, ma non della lingua d'uso nel suo complesso {ad es. crollo del sistema flessionale o perdita del neutro). La ricostruzione dei tratti del latino quotidiano a partire dalla situazione romanza è particolarmente promettente nell'àmbito del lessico. È ovvio che sia esistita una serie di parole latine non documentate dalle fonti scritte giun­ te fino a noi: la ragione può essere puramente casuale (ciò vale soprattutto per i termini tecnici, essendo sempre possibile che i concetti specifici cui si riferiscono non compaiano mai nella letteratura in nostro possesso, sicché non c'è da stupirsi se parole come *gimberum, 'albero di cembro' o *slodia, 'slit­ ta' non sono documentate), ma non di rado andrà ricercata anche nel carat­ tere conservativo della lingua scritta (si scriveva trahere, puella, e agricola anche se parlando si diceva tlriire, putta e ullliinus). La conoscenza delle regole che governarono l'evoluzione fonetica nel passaggio dal latino alle lingue ro­ manze consente di ricondurre parole romanze attuali all'ipotizzabile matrice latina, anche quando questa non è documentata. Naturalmente si hanno diversi gradi di attendibilità. La ricostruzione piu certa è quella che parte da una parola presente in tutte le lingue romanze e che per di piu trova un aggancio nel lessico latino documentato: il rumeno fripturiì, il francese Jriture, il provenzale, catalano, spagnolo, portoghese Jritura e l'italiano frittura devono discen­ dere da una parola latina 1nctura casualmente non documentata, ma correttamente derivata da frictum, participio passato difrigere, 'friggere'. Quanto minore è il numero delle lingue romanze concordi, e quanto meno chiaro è il collegamento col latino documentato, tanto piu incerta diviene naturalmente la ricostruzione: ad es. "tirare è ancora relativamente sicuro, benché il rumeno, contrariamente alle altre lingue ro­ manze, non abbia una forma corrispondente, e il rapporto con il lat. tiro, 'recluta' sia assai poco chiaro; invece l'esistenza di un sostantivo "peltrum, 'stagno', la cui ricostru­ zione si basa sull'italiano peltro, il francese antico peautre, il provenzale e catalano pel­ tre, è tutt'altro che certa, perché la parola è presente solo in una parte della Romània e perché il latino non offre alcun aggancio. Partendo dalle parole delle lingue romanze moderne, non soltanto si può amplia­ re il lessico latino di elementi non documentati, ma anche per parole attestate si pos­ sono ricavare significati non presenti nella letteratura (leuamen è documentato solo col significato di 'lenitivo', ma, basandoci sull'analisi delle lingue romanze, possiamo

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affermare che deve aver avuto anche il significato di 'lievito'), ed è possibile ricostrui­ re la coesistenza diastratica di diverse pronunce (per la parola 'mela', ad es., è docu­ mentata solo la forma malum corrispondente al dorico IJ.ér.ÀOv, ma sulla base delle lin­ gue romanze si può dedurre che la lingua parlata adoperava usualmente melum, che risale all'attico IJ.fiÀov).

Partendo da isoglosse romanze si possono ricavare alcuni dati anche per quanto pertiene alla morfologia del latino quotidiano, ma in questo campo la ricostruzione rimane limitata alla situazione linguistica dei parlanti incolti di epoca tarda, a meno che non si possa far riferimento a testimonianze scrit­ te. La tendenza, diffusa fra i romanisti, a voler trovare già nel latino volgare la maggior parte dei fenomeni romanzi, è altrettanto lontana dalla realtà, quanto la tendenza dei latinisti a presupporre per il latino d'uso corrente una morfologia sostanzialmente identica a quella della lingua scritta; la verità sta probabilmente nel mezzo, nel senso che già a livello del latino arcaico si può osservare come la naturale evoluzione porti la lingua ad allontanarsi dalla sua struttura prevalentemente flessiva, ma la forza d'inerzia del sistema ere­ ditato è tale che le lingue romanze possiedono ancor oggi, almeno in àmbi­ to verbale, uno spiccato carattere flessivo. Senza dubbio la perdita delle declinazioni a favore delle costruzioni preposiziona­ li è una caratteristica della lingua d'uso tardoantica, anche se già in Plauto ne sono ri­ scontrabili i primi accenni (Captivi, 1019: hunc ad carnuficem dabo e non carnufici dabo), ma, d'altra parte, la differenziazione formale del nominativo dagli altri casi si è con­ servata nel gallo-romanzo fino all'alto Medioevo, e un sistema nominale flessivo è vi­ vo ancor oggi in rumeno. Analogamente, in epoca tardolatina la formazione analitica dei tempi verbali passa in primo piano rispetto a quella sintetica (ha beo cantatum e can­ tare ha beo rispetto a cantaui e a cantabo: punto di partenza sono locuzioni già classiche o post-classiche come cognitum habeo e Jacere habeo), ma non bisogna dimenticare che al­ cune forme sintetiche (ad es. l'imperfetto, e perfino il piuccheperfetro congiuntivo) non furono mai raggiunte da questa tendenza, e che nelle lingue romanze si svilup­ parono, a partire dalle stesse forme analitiche, nuove forme sintetiche (futuro, condi­ zionale). Alla tendenza all'eliminazione analogica delle forme irregolari (si veda la sostituzione delle forme forti del perfetto con forme deboli, o l'abbandono dei depo­ nenti) si contrappone l'insorgere di nuove irregolarità (ad es. nel tema del presente). In ogni caso sarebbe del tutto erroneo voler intendere l'evoluzione del latino parlato antico negli idiomi romanzi medievali unicamente come un processo di semplifica­ zione, di passaggio da un sistema sintetico ad uno analitico e di eliminazione analo­ gica delle irregolarità; tutto ciò è presente nel mutamento, ma è spesso controbilan­ ciato da tendenze che vanno in direzione opposta.

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7 · IL LATINO DELL ' USO QUOTIDIANO Per quel che riguarda la sintassi della lingua d'uso tardoantica, è opportu­ no evitare di proiettare all'indietro la situazione romanza, perché qui il ri­ schio di ricondurre erroneamente al V secolo dati linguistici dell'XI è parti­ colarmente grande; risultati affidabili sono invece forniti dall'analisi di docu­ menti vicini alla lingua quotidiana, come i testi narrativi della Vulgata, certa letteratura omiletica o la Peregrinatio Egeriae. In via generale si può stabilire che la posizione delle parole è meno libera che nella lingua scritta classica: l'ordine soggetto-predicato-oggetto diretto-oggetto indiretto diventa la sequenza nor­ male. La connessione tra le frasi perde in complessità: il caso normale è la giustapposizione di frasi brevi e strutturate semplicemente; il rapporto logi­ co tra di esse emerge molto spesso soltanto attraverso la situazione, il conte­ sto o l'intonazione (cosa ricorrente già in Plauto, ad es. Pseudolus, 1015: argen­ tum des, abducas mulierem, 'non appena hai dato i soldi, puoi portare via la don­ na') ; la paratassi è molto piu frequente di un'ipotassi complicata (vedi ad es. un passo come Peregrinatio Egeriae, 36 1: In eo enim loco ecclesia est elegans. Ingredi­ tur ibi episcopus et omnis populus, dicitur ibi oratio apta loco et diei, dicitur etiam unus hymnus aptus et legitur ipse locus de euuangelio, ubi dixit discipulis suis: « Vigilate, ne intretis in temptationem >>; et omnis ipse locus perlegitur ibi etfit denuo oratio); al posto delle proposizioni relative possono occorrere degli incisi. Tuttavia ogni scri­ vente dell'epoca era consapevole del fatto che periodi complessi ed elabora­ ti, con chiari rapporti di dipendenza, creano un'impressione di maggior ele­ ganza che non i semplici e lineari costrutti della paratassi asindetica, e questo fece si che proprio gli autori piu lontani dalla lingua letteraria si cimentasse­ ro occasionalmente in strutture ipotattiche ampollose e complicate, ai limiti dell'incomprensibilità. Casi simili devono servire da monito: anche nel caso di autori la cui consueta forma espressiva è di stampo prettamente colloquia­ le, dobbiamo sempre tener presente il fatto che essi non aspirarono mai a fornire un'immagine fedele della lingua parlata; essi vollero o dovettero aprire la loro scrittura a tratti linguistici del parlato, ma ciò che produssero ri­ mane comunque lingua scritta, sia pure di un tipo particolare. BIBLIOGRAFIA Un'introduzione all'indoeuropeistica per cosi dire "classica", senza tener conto della teoria laringale è fornita da H. KRAHE, Indogermanische Sprachwissenschafl, Berlin­ New York 19856 [sa ed. riv. e ampliata, a cura di M. MEIER-BROGGER, ivi 2002]; la In­ dogermanische Grammatik, Heidelberg, 1 1968; 11 1968; m/1 1969, fondata da J. KuRYLO-

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WICZ e attualmente diretta da M . MAYRHOFER, prende in considerazione l'assai com­ plesso stato della questione. Entrambe le opere offrono un quadro d'insieme sulle piu importanti lingue indoeuropee. (Si vedano anche i manuali di A. GIACALONE-P. RA­ MAT, Le lingue indoeuropee, Bologna 1993, e F. VILLAR, Gli Indoeuropei e le origini dell'Eu­ ropa: lingua e storia, ivi 1997]. Sulla patria primitiva degli Indoeuropei cfr. in parti c. J.P. MALLORY, In Search of the Indo-Europeans, London 1989. Sull'avanzata degli Indoeuro­ pei verso l'Italia cfr., in partic. l'esposizione assai prudente di E. PuLGRAM, The Tongues ofitaly, New York 1958, pp. 69-236. Per le lingue non latine dell'Italia antica la raccolta di saggi edita da A.L. PRosoo­ CIMI, Lingue e dialetti dell'Italia antica, Padova 1978 (e A�iornamento, a cura di A. MARI­ NETTI, ivi 1982) costituisce il piu pratico fra i nuovi quadri d'insieme. E. PuLGRAM, Ita­ lic, Latin, Italian, Heidelberg 1978, è scettico sui confronti linguistico-archeologici; so­ no piu aperti verso le testimonianze protostoriche D. e F. RmGEWAY (a cura di), Italy Before the Romans, London 1979. Un'utile raccolta di testi è ancora E. VETTER, Hand­ buch der italienischen Dialekte, Heidelberg 1953, da integrarsi con P. PocCETTI, Nuovi do­ cumenti italici a complemento del manuale di E. �tter, Pisa 1979; piu accessibile per i prin­ cipianti è V. PISANI, Le lingue dell'Italia antica oltre il latino, Torino 19642• Sull'etrusco cfr. AJ. PFIFFIG, Einfiihrung in die Etruskologie, Darmstadt 1991. Una raccolta dei piu importanti testi latini arcaici con un buon commento lingui­ stico è offerta da V. PISANI, Testi latini arcaici e volgari, Torino 19753; i testi piu impor­ tanti con traduzione tedesca anche in Die romische Literatur in Text und Darstellung, I: H. e A. PETERSMANN, Republikanische Zeit, 1, Stuttgart 1991. Un po' discusse sono le inter­ pretazioni di G. RAnKE, Archaisches Latein, Darmstadt 1981; data la mancanza di un'in­ troduzione al latino arcaico, il quadro d'insieme sulle sue principali caratteristiche linguistiche (che naturalmente - anche se non in modo coerente - si possono trova­ re in ogni grammatica storica del latino) alle pp. 20-54 risulta però molto utile. Ri­ cordiamo qui inoltre un classico determinante quale la Lateinische Grammatik nel Handbuch der Altertumswissenschaft, che contiene: M. LEUMANN, Lateinische Laut- und Formenlehre, Miinchen 1977;].B. HoFMANN-A. SzANTYR, Lateinische Syntax und Stilistik, ivi 1965 [trad. it. della seconda parte Stilistica latina, a cura di A. TRAINA, Bologna 2002] . Di dimensioni piu modeste e, anche nella versione aggiornata, sostanzialmente ri­ producente un saggio della fine dell'Ottocento: F. SoMMER, Handbuch der lateinischen Laut- und Formenlehre, Heidelberg 19142·3; della Lautlehre esiste una nuova versione di R. PFISTER, ivi 1977. Un quadro d'insieme a scopo introduttivo: L.R. PALMER, Die la­ teinische Sprache, trad. ted., Hamburg 1990, pp. 231-72 [trad. it. dell'ed. ingl., London 19773 La lingua latina, Torino 19782, rist. 2002]. Sull'epica latina cfr. i saggi nella raccolta a cura di E. BuRCK, Das romische Epos, Darm­ stadt 1979; sulla lingua di Plauto cfr. WM. LINDSAY, Syntax ifPlautus, Oxford 1907; lo sviluppo della lingua della prosa latina è stato esposto in un classico quale E. NoRDEN, Die antike Kunstprosa (Leipzig 19153; rist. Stuttgart-Leipzig 199510 [trad. it. La prosa d'arte antica dal VI secolo a.C. all'età della Rinascenza, a cura di B. 1-IEINEMANN CAMPANA, con una

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7 · I L LATINO DELL'USO QUOTIDIANO nota di aggiornamento di G. CALBOLI, premessa di S. MARIOTTI, 2 voll., Roma 1986]}; nuovi punti di vista in A.D. LEEMAN, Form und Sinn, Frankfurt a.M. 1985. Le questioni linguistiche a proposito di Lucrezio sono affrontate da EJ. KENNEY, Lucretius, Oxford 1977, e R. MINADEO, The Lyre oJScience: Form and Meaning in Lucretius 'De rerum natura', Detroit 1969. Sulla stilistica di Catullo cfr. D.O. Ross, Style and Tradi­ tion in Catullus, Cambridge (Mass.) 1969; A.L. WHEELER, Catullus and the Traditions oj Ancient Poetry, Berkeley (Ca.) 19642. Su Sallustio cfr. la raccolta di saggi a cura di V. Pos cH L, Sallust, Darrnstadt 19812. Anche se compilata ovviamente con gli strumenti a disposizione nell'Ottocento, la descrizione grammaticale del latino classico piu completa resta quella di R. KùHNER­ F. HoLZWEISSIG-C. STEGMANN, Lateinische Grammatik, Hannover 1912-1914. Natural­ mente anche la Lateinische Grammatik di M. LEUMANN-J.B. HoFMANN-A. SzANTYR (vd. sopra), impostata storicamente, offre ampie informazioni sul latino del I sec. a.C. Sul­ la pronuncia del latino cfr. E.H. STURTEVANT, The Pronunciation of Greek and Latin, Chicago 19752, e M. BAssoLs DE CLIMENT, Fonética latina, Madrid 1971. Manca una de­ scrizione moderna e coerentemente sincronica del latino classico; nel suo miscuglio di impostazioni moderne e tradizionali risulta insoddisfacente M. HAMMOND, Latin: a Historical and Linguistic Handbook, Cambridge (Mass.)-London 1976. H. PINKSTER, La­ teinische Syntax und Semantik, Tiibingen 1988 [trad. it. Sintassi e semantica latina, Torino 1991] segue un'impostazione moderna, che mette al centro dell'analisi il predicato se­ condo il dettato della grammaire structurale del linguista francese L. TESNIÈRE (Eléments de syntaxe structurale, Paris 1959 [trad. it. Elementi di sintassi strutturale, Torino 2001]}. Sull'aetas Augusta cfr. soprattutto i tre volumi di saggi a cura di G. BINDER, Aetas Au­ �usta, Darmstadt 1988-1991. I.:avvicinamento strutturale fra il greco e il latino causato dal bilinguismo di vaste fasce della società viene descritto da J. KRAMER, Der kaiserzeit­ liche griechisch-lateinische Sprachbund, in N. REITER (a cura di), Zie/e und Wege der Balkan­ /inguistik, Wiesbaden 1983, pp. 115-31. Sul sistema educativo dell'antichità in genera­ le e sul suo crollo nell'età tardoantica in particolare resta classico H.I. MARROU, Sto­ ria dell'educazione nell'antichità, trad. it., Roma 19662 (con varie ristampe). Gli opposti aspetti nella scrittura di Petronio sono sottolineati da A. STEFENELLI, Die VOlkssprache im Werke des Petron, Wien 1962 da una parte, e da H. PETERSMANN, Petrons urbane Pro­ sa, ivi 1977, dall'altra. Lo stile di Apuleio è l'oggetto di un interessante studio di L. CALLEBAT, Sermo cotidianus dans les Métamotphoses d'Apulée, Caen 1968. Sul latino della Bibbia è ancora fondamentale H. R6NSCH, Itala und Vulgata, Marburg 18752 (rist. Hil­ desheim 1979) . I.:idea che ci sarebbe stata una "lingua particolare cristiana" fu soste­ nuta con energia da J. ScHRIJNEN e dalla sua allieva C. MoHRMANN, Études sur le latin des chrétiens, 4 voll., Roma 1961-1977 [trad. it. di una sezione del 4o vol.: I caratteri del la­ tino cristiano antico, con un'appendice di C. MoHRMANN, a cura di S. BoscHERINI, Bo­ logna 20024]; restò prudente PALME R, Die lateinische Sprache, pp. 205-30. La migliore sintesi dei problemi del latino medievale continua ad essere K. STREC­ KER, Eitifuhrung in das Mittellatein, Berlin 19393 = Introduction to Medieval Latin, ivi 19716;

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III



STORIA DELLA LI NGUA LATI NA

impostato soprattutto letterariamente è K. LANGOSCH, Lateinisches Mittelalter, Darm­ stadt 19885• Negli Atti del congresso Latin vulgaire-latin tardif (fì no ad oggi 5 voll., Ti.i­ bingen 1989-1992; Hildesheim 1995; Heidelberg 1999) si rispecchia l'attuale stato de­ gli studi. I problemi del passaggio dal latino arcaico a quello medievale vengono spie­ gati ampiamente con una ricca documentazione da M. BANNIARD, Viva voce. Commu­ nication écrite et communication orale du IV< au lX' siècle en Occident latin, Paris 1992; cfr. an­ che R. WRIGHT, Late Latin and Early Romance in Spain and Carolingian France, Liverpool 1982, e Io. {a cura di), Latin and the Romance Languages in the Early Middle Ages, London­ New York 1991. Sul latino umanistico e sul neolatino cfr. J. IJSEWIJN, Companion to Neo-Latin Studies, Leuven 199ol; Io., Mittelalterliches Latein und Humanistenlatein, in A. BucK {a cura di), Die Rezeption der Antike, Hamburg 1981, pp. 71-83; C. EICHENSEER, Leben und Sterben des Lateins: Ansiitze einer Neubelebung, in Language Reform, 4, a cura di l. FoooR e C. HAGÈGE, ivi 1989, pp. 189-219. Sul latino parlato, cosi come lo si può cogliere fuggevolmente nei testi letterari, re­ sta insuperato il lavoro diJ.B. HoFMANN, Lateinische Umgangssprache, Heidelberg 19362 [trad. it. La lingua d'uso latina, Bologna 20032] che tratta soprattutto gli aspetti sintatti­ ci. La maggior parte delle introduzioni al latino volgare partono dalle iscrizioni, dai glossari, dalle testimonianze grammaticali e dalle ricostruzioni del materiale lingui­ stico romanzo, dando quindi maggiore peso ai dati fonetici e morfologici; va men­ zionato soprattutto il lavoro di V. VAANANEN, Introduction au latin vulgaire, Paris 19813 [trad. it. Introduzione a/ latino volgare, Bologna 19823]. Le fonti testuali piu importanti si trovano in M. luEscu-D. SLUSANSKI, Du latin au langues romanes. Choix de textes traduits et commentés, Wilhelmsfeld 1991; cfr. anche ]. KRAMER, Literarische Quellen zur Ausspra­ che des Vulgà'rlateins, Meisenheim 1976. La migliore introduzione in merito, che tenga conto dei dati delle lingue romanze, è ancora J. HE RMAN, Le latin vulgaire, Paris 1975 [trad. ingl. Vulgar Latin, University Park (Pennsylvania) 2000]. [Bibliografie: F. CuPAIUOLO, Bibliografia della lingua latina (1949-1991), Napoli 1993; M. CoNDE SALAZAR-C. MARTIN PuENTE, Lexicographia y lexicologia Latina (1975-1997): repertorio bibliografico, Madrid 1998. Manuali: ]. DANGEL, Histoire de la langue latine, Paris 1995; A.L. SmLER, New Comparative Grammar of Greek and Latin, New York-Oxford 1995; G. MEISER, Historische Laut- und Formenlehre der lateinischen Sprache, Darmstadt 1998; P. PoccETTI-D. Pau-C. SANTINI, Una storia della lingua latina. Formazione, usi, co­ municazione, Roma 1999; H. MENGE, Lehrbuch der lateinischen Syntax und Semantik, riv. da TH. BuRKARD e M. ScHAUER, Darmstadt 2000. Tra gli atti di convegni si segnala­ no: ]. DANGEL-CL. Moussv (a cura di), Les structures de l'oralité en latin. Colloque du Centre A. Ernout, Univ. de Paris IV, 2-4 juin 1994, Paris 1996; B. GARCiA-HERNANDEZ et al. {a cura di), Estudios de linguistica latina. Actas del IX coloquio internacional de lin­ guistica Latina, Univ. Autonoma de Madrid, 14-18 abril 1997, Madrid 1998, 2 voll.; M. BARATIN-CL. Moussv (a cura di), Conceptions latines du sens et de la signification. Collo­ que du Centre A. Ernout, Univ. de Paris IV, 4-6 juin 1996, Paris 1999; G. CALBOLI (a cura di), Papers on Grammar, v, Bologna 2ooo; M. FRUYT-CH. NICOLAS {a cura di), La

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7 · I L LATINO DELL ' USO QUOTIDIANO création lexicale en latin. Actes de la table ronde du Ixe colloque international de lingui­ stique latine, Madrid, 16 avril 1997, Paris 2ooo; CL. Moussy {a cura di), De lingua Lati­ na novae quaestiones. Actes du x< Colloque international de linguistique latine, Paris­ Sèvres, 19-23 avril 1999, Louvain-Paris 2001. Studi particolari: CH. NICOLAS, Utraque lingua. Le calque sémantique: domaine gréw-latin, Louvain-Paris 1996; B. RocHETTE, Le la­ tin dans le monde grec. Recherches sur la d!ffusion de la langue et des lettres latines dans /es pro­ vinces hellénophones de l'Empire romain, Bruxelles 1997;].N. AoAMs-R.G. MAYER {a cura di), Aspects of the Language of Latin Poetry, Oxford 1999; A. TRAINA, Forma e suono. Da P/auto a Pascoli, Bologna 19992• 1. R. AMBROSINI, Strutture e documenti di lingue indo-europee occidentali, 1. Il latino e le lin­ gue celtiche, Pisa 2001. 2. E. CouRTNEY, Archaic Latin Prose, Atlanta 1999. J. H. RosÉN, Latine loqui. Trends and Directions in the Crystallization of Classica/ Lati n, Miinchen 1999. 5· Per il latino medievale l'opera di riferimento è ora P. STOTZ, Handbuch zur latei­ nischen Sprache des Mittelalters, I. Einleitung, lexicologische Praxis, Worter und Sachen, Lehn­ wortgut, Miinchen 2002, n. Bedeutungswandel und Wortbildung, ivi 2000, m. Lautlehre, ivi I996 ; IV. Formenlehre, Syntax und Stilistik, ivi 1998. Inoltre: K.P. HARRINGTON, Medieval Latin, za ed. riv. da J.M. Pucci, Chicago-London 1997; F.A.C. MANTELLO-A.G. RIGG (a cura di), Medieval Latin. An Introduction and Bibliographical Guide, Washington 1997; M. GouLLET-M. PARISSE, Apprendre le latin médiéval. Manuel pour grands commençants, Patis 19992. Latino tardo: B. GARCiA-HERNANDEZ {a cura di), Latin vulgar y tardio. Ho­ menaje a Véikko Viiini iinen (1905-1997), Madrid 2000. Lingue romanze: L. CALLEBAT, Langages du roman latin, Hildesheim 1998; J. HERMAN {a cura di), La transizione dal lati­ IlO alle lingue romanze. Atti della tavola rotonda di linguistica storica, Università Ca' Fo­ scari di Venezia, 14-15 giugno 1996, Tiibingen 1998; G. BoNFANTE, The Origin oJ the Romance Languages. Stages in the Development ofLatin, Heidelberg 1999. 6. S. Rizzo, Ricerche su/ latino umanistico, I, Roma 2002. Sul neolatino: C. E I CHEN­ SEER, Collectanea usui linguae Latinae dicata, Saarbriicken 1999; alcuni contributi di neo­ latino anche in J. BL!..NSDORF {a cura di), Loquela vivida. Donum natalicium Nicolao Sall­ mann sexagesimum quintum annum agenti a fautoribus linguae Latinae vivae oblatum, Wiirz­ burg 1999.]

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IV STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

1 LA LET TERATURA DELL'ETÀ REPUBBLICANA

di EcKARD LEFÈVRE 1.1. PREMESSA Il grande paradosso della Roma arcaica sta nel fatto che, mentre la Re­ pubblica esisteva da secoli, una letteratura scritta si sviluppò solo a partire dalla fine della prima guerra punica. Il confronto con la cultura greca fu fa­ vorito dallo stretto contatto che Roma - attraverso quello che fu il primo grande conflitto della sua storia - si trovò ad avere con le popolazioni di cul­ tura greca dell'Italia meridionale e della Sicilia. Fu soprattutto lo spettacolo teatrale a impressionare i soldati romani e i loro comandanti e a risvegliare in loro il desiderio di un simile intrattenimento in patria. D'altra parte, proprio lo spettacolo scenico era adatto a inserirsi nella tradizione locale e a intro­ durre un processo di fusione culturale destinato a durare fin oltre la tarda an­ tichità. Questo fu un processo abbastanza naturale, non ancora caratterizza­ to dalle aspirazioni degli autori delle generazioni seguenti a distaccarsi dai modelli in modo consapevole e riconoscibile dal pubblico. 1.2. LA LETTERATURA NELL'ETÀ D' ORO DELLA REPUBBLICA Il secolo che va dal 240 fino a circa il 130 a.C. costituisce il periodo in cui nasce e fiorisce la letteratura arcaica, che accompagna l'ascesa di Roma a po­ tenza egemone nel Mediterraneo. Ad eccezione della commedia, gli altri generi hanno una caratterizzazione nazionale. Il conflitto dell'individuo con la società è sconosciuto. Solo la guida politica che aiuta a far progredire la comunità gode di riconoscimento letterario. 1.2.1. Le tradizioni italiche Roma è sopravvissuta per secoli senza letteratura. A stento si riconoscono le tracce di forme preletterarie. Il termine carmen indicava all'inizio un testo riportato oralmente, senza implicare necessariamente una struttura metrica: 223

IV STORIA DELLA LETTERATURA LATINA ·

cosi ad esempio le leggi delle Dodici Tavole del 451, che Cicerone dovette imparare a memoria a scuola come carmen necessarium (De legibus, 2 59). Si ri­ mane allo stesso modo in un ambito piuttosto incerto per quanto riguarda gli antichi canti rituali (il carmen Saliare, il carmen An�ale) e i canti eroici men­ zionati da Cicerone, che Catone avrebbe testimoniato nelle Origines. Molto amate erano le forme teatrali improvvisate dei fescennini, delle atellane e del mimo, sebbene anche in questo campo ci si muova su un terreno incerto. Sia il verso saturnia che il versus quadratus rimandano alla poesia (orale) prelette­ rana. Per quanto riguarda i canti eroici si trattava, secondo Cicerone, Brutus, 75, e Tuscula­ nae disputationes, I 3 e 4 3, di clarorum virorum laudes, che gli antenati avrebbero cantato durante i banchetti. Mentre Barthold Niebuhr prese questa informazione sul serio, Hellfried Dahlrnann la mise in dubbio, vd. Zur Uberlieferung iiber die "altriimischen Tafel­ lieder". Abhhandlungen der Akademie der Wissenschafien und der Literatur Mainz, vol. I7, Mainz I950. Testi standard per il dramma preletterario sono Livio, Ab urbe condita, 7 2; Orazio, Epistulae, 2 I I39-63 (cfr. P.L. ScHMIDT, Postquam ludus in artem paulatim verterat. Varro und die Friihgeschichte des riimischen Theaters, in G. VoGT-SPIRA (a cura di), Studien zur vorliterarischen Periode im Jriihen Rom, Tiibingen I989, pp. 77-I34). I fescennini (dalla città etrusca di Fescennia) erano versi improvvisati recitati a canto alterno (originaria­ mente nelle feste rurali e nei matrimoni). Le atellane (da Atella in Campania) aveva­ no quattro maschere fisse: Maccus, Bucco, Pappus e Dossennus, che con varie interruzio­ ni continuarono a operare nella palliata. Il mimo, proveniente dall'Oriente ellenizza­ to e dal Sud Italia greco, è documentabile a Roma dal zizhn, ma sicuramente era co­ nosciuto già da prima. Per un bilancio complessivo si veda L. BENZ, Die riimisch-italische Stegreifipieltradition zur Zeit der Palliata, in L. BENz-E. STARK-G. VoGT-SPIRA, Plautus und die Tradition des Stegreifispiels, Tiibingen I995, pp. I39-54· Sul versus quadratus si veda TH. GERICK, Der "versus quadratus" bei Plautus und seine volkstiim/iche Tradition, ivi I996.

1.2.2. Il dramma Il dramma rappresenta la piu antica forma di letteratura romana. Esso de­ ve la sua nascita al fatto che nel 240, quando i magistrati edili, preposti all'al­ lestimento dei giochi, incaricarono l'itala-greco Livio Andronico di compor­ re in occasione dei ludi romani una commedia e una tragedia secondo i mo­ delli greci. Cosi cominciò la fase, molto interessante dal punto di vista stori­ co-letterario, della fusione dell'opera teatrale greca con le tradizioni italiche. Per le forme teatrali che mantennero l'ambientazione greca si svilupparono come

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I LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLICANA ·

denominazioni di genere {fabula) crepidata (crepida = 'scarpa bassa greca') per la tragedia e palliata {pallium = 'mantello greco') per la commedia; per i drammi di ambientazio­ ne romana praetexta {praetexta = 'toga romana listata di porpora') per la tragedia e, per la commedia, togata (toga = 'toga romana') o tabernaria (taberna = 'taverna'). Poiché il ter­ mine crepidata non si è imposto, si parlerà qui di tragedia. Gli spettacoli teatrali veni­ vano rappresentati in occasione di feste pubbliche, per trionfi militari, funerali di per­ sonaggi importanti oppure in occasioni solenni come la consacrazione di santuari. 1.2.2.1. La tragedia

Orazio descrive l'uomo romano come natura sublimis et acer e gli attribuisce il senso del tragico (spirat tragicum, Epistulae, 2 I I65 sg.). E in effetti il genere fiori quasi per un secolo e mezzo. Sono tuttora indispensabili la raccolta dei frammenti dei tragici e lo studio genera­ le di o. RIBBECK, Tragicorum Romanorum fragmenta, Leipzig 1897\ e In., Die romische Tragodie im Zeitalter der Republik, ivi 1875.

LIVIO ANDRONICO, che proveniva dall'area linguistica greca, si trovò da­ vanti al difficile compito di far conoscere ai Romani la cultura letteraria gre­ ca, i cui presupposti erano estremamente complessi. Livio Andronico, probabilmente originario di Taranto, fu affrancato dalla condi­ zione servile da un personaggio romano di nome Livio. Per spiegare la letteratura durante le sue lezioni, tradusse in latino l'Odissea. Si guadagnò una tale stima che nel 207 fu incaricato della stesura di un inno in onore di Giunone che fu cantato nel cor­ so di una processione. Quando gli fu affidato questo compito doveva essere molto vecchio, visto che aveva studiato la lingua e la letteratura greca nella città di Taranto, conquistata dai Romani nel 272. Deve essere morto poco dopo. Delle sue tragedie so­ no tramandati circa 40 versi e 9 titoli: Achilles, Aegisthus, Aiax mastigophorus, Andromeda, Danae, Equos Troianus, Hermiona, Tereus; controverso l'Ino {Terenziano Mauro, in CLK, VI 1874. p. 38J).

Già con Livio inizia la romanizzazione della tragedia greca a Roma. Il poeta scelse evidentemente quegli argomenti che assecondavano la predile­ zione dei Romani sia per il loro passato "greco" che per quello "troiano". I.:e­ sigenza di rifarsi a entrambi gli ambiti derivava dallo sforzo di nobilitare la propria origine. Il fatto che la discendenza da eroi greci e troiani fosse consi­ derata di ugual valore, potrebbe venir ricondotto all'influsso determinante dell'Iliade. Tuttavia i Romani prediligevano l'origine troiana, che in epoca ar­ caica utilizzarono addirittura come argomento politico. Inoltre, la loro men­ talità eziologica fece apparire interessante, ad esempio, l'Hermiona, per via di 225

IV

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STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

Oreste che avrebbe portato ad Ariccia l'immagine sacra di Diana, cosi come la Danae, eroina antenata di Turno e proveniente da Ardea. La novità decisi­ va introdotta da Livio Andronico fu portata avanti dai tragediografi successi­ vi: ancora nell'Atreus di Accia viene dato rilievo alla parentela dell'eroe pro­ tagonista con Evandro (Serv., In Aeneida, 8 130). E. LEFÈVRE, Die politisch-aitiologische Ideologie der Tragodien des Livius Andronicus, in QCTC, 8 I990, pp. 9-20; E. WEBER, Die trojanische Abstammung der Romer als politisches Argument, in WSt, n.s., 6 I972, pp. 2IJ-25.

GNEO NEVIO era originario di Capua in Campania, o comunque proveni­ va dai dintorni di questa città. Partecipò alla prima guerra punica (264-241) e, primo poeta italico, era dotato di originalità e versatilità straordinarie. Com­ pose tragedie e commedie, fu l'iniziatore dell'epos romano e creò la praetexta. Nevio cominciò a mettere in scena le sue opere teatrali {fabulae, vd. Gellio, Noctes Atticae, I7 2I 45) dal 235. Mori in esilio tra il 204 e il 2oi a Utica (in Africa). Solo dopo la sua morte si venne a sapere che Nevio era vissuto in contrasto con i Metelli e che nella sua opera letteraria aveva dato voce a questo dissenso. I titoli conosciuti delle sue tragedie (di cui ci sono giunti circa 70 versi) ci offrono un quadro simile a quello del predecessore: Danae, Equos Troianus, Hector proficiscens, Hesiona, Iphigenia, Lucurgus; l'attribuzione dell'Andromacha (Servio, In Georgica, I 266) è controversa. I primi due ti­ toli si incontrano già in Livio Andronico: o Nevio entrò in concorrenza con Livio, oppure rielaborò i suoi testi.

La rappresentazione del mito di Troia conquistò sicuramente ancora una volta i cuori dei Romani: l'Hector proficiscens e l'Equos Troianus richiamavano alla memoria le sofferenze degli antenati. Interessante è il Lucurgus, che, trattando della vana resistenza del mitico re tracio contro l'introduzione del culto di Bacco, alludeva forse ad avvenimenti contempora­ nei. A questo culto - che, oggetto al contempo di attrazione e sospetto, fu alla fine proibito dal senatus consultum de Bacchanalibus del I86 - fa già riferimento, ai tempi di Nevi o, Plauto nel v. IOI6 del Miles gloriosus. Probabilmente questo argomento assicu­ rò all'opera di Nevio un'insolita attenzione.

QuiNTO ENNIO (239-169), da Rudiae nell'antica Calabria, godeva di un'ot­ tima reputazione e di un grande ascendente personale. È il primo poeta ad essere stato ossequiato a Roma dai grandi del tempo. Pare che Ennio, parlando di sé, abbia detto di avere tria corda ( Gellio, Noctes Atticae, I7 I7 I), poiché conosceva il greco, il latino e l'osco. In Sardegna incontrò Catone il

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLICANA

Censore, che lo condusse a Roma. Nella capitale Ennio doveva essersi già affermato come autore scenico, quando il mecenate Marco Fulvio Nobiliare lo prese con sé co­ me cantore delle sue gesta nella campagna militare etolica (189-187) : la praetexta Am­ bracia festeggiò la presa di questa città. In seguito a ciò Ennio ottenne la cittadinanza romana. Della sua ricca produzione fanno parte il poema epico Anna/es, tragedie, commedie, brevi poesie didascaliche, satire ed epigrammi. Mori nel 169. La rappresentazione e la lingua delle tragedie possedevano una forza im­

pressionante. Ennio portò avanti sapientemente l'eredità di Livio Andronico e di Nevio. Il modello preferito era Euripide. I 20 titoli

e i circa 420 versi riescono ancora a fornire un buon quadro della sua pro­ duzione tragica. Da Eschilo: Eumenides; da Aristarco: Achilles; da Euripide: Alcmeo, Ale­ xander, Andromacha aechmalotis, Andromeda, Cresphontes, Erechtheus, Hecuba, Iphigenia (in Aulide), Medea exul, Melanippa; e inoltre: Aiax, Athamas, Hectoris lytra, Nemea, Phoenix, Te/amo, Telephus, Thyestes. Probabilmente nel 1881I87 fu rappresentato l'Achilles, nel 169 il Thyestes. Ancora una volta domina il ciclo delle leggende troiane. Compaiono inol­ tre argomenti di carattere eziologico, come quello di Medea che raggiunge perfino i Marruvi, che abitano ad est di Roma, o quello di Ifigenia, la cui statua di culto si tro­ vava ad Ariccia. Ed. commentata: H.D. JocELYN, Cambridge 1967.

MARco PACUVIO, nipote di Ennio, si distinse anche come pittore. Come poeta, si limitò a comporre tragedie. Con lui comincia la "letterarizzazione" di questo genere a Roma: questo processo fu evidentemente incoraggiato dal fatto che il poeta apparteneva al "circolo degli Scipioni", come si evince da un passo del Laelius di Cicerone (24). A questo ambiente rimanda anche il Paullus. Pacuvio nacque a Brindisi nel 220 e mori intorno al 131 a Taranto (Gellio, Noctes Atticae, 13 2 2). Rispetto alla sua lunga vita, l'elenco dei suoi componimenti è breve. Ci sono giunti 15 titoli e circa 435 versi. Da Eschilo: Armorum iudicium; da Sofocle: Chryses, Niptra; da Euripide: Antiopa; e inoltre: Atalanta, Dulorestes, Hermiona, Iliona, Mcdus, Pentheus, Periboea, Teucer; controversa è l'attribuzione dell'Orestes (R. REGGIANI, in QCTC, 8 1990, pp. 21-32), del Protesilaos (RIBBECK, Die riimische Tragiidie, p. 326), e del Thyestes (Fulgenzio, Expositio sermonum antiquorum, 57). Il pathos di Pacuvio incon­ trò il favore di Cicerone (Laelius, 24, sul Chryses). I.:Armorum iudicium, con la rappre­ sentazione dell'innocente Aiace condotto a morte, suscitò emozioni ancora durante i funerali di Cesare (Svetonio, Divus Iulius, 84 2). Sulle Satire non sappiamo nulla di piu pre oso.

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IV STORIA DE LLA LETTERATURA LATINA ·

!.:opera di Pacuvio rispecchia il confronto dell'epoca con il patrimonio spirituale greco. Secondo Cicerone, Pacuvio ha rappresentato la grande sce­ na della morte nella Niptra "meglio" di Sofocle, perché Odisseo, nella sua opera, non si lamenta come nel modello, ma la sua anima ubbidisce alla ra­ gione come un soldato al suo generale (Tusculanae disputationes, 2 48-s o). Nel­ l'Antiopa viene rappresentato il litigio, già famoso in Euripide, tra i fratelli Anfìone e Zeta, che impersonificavano il Pioç ih:wprrnx6ç e il Pioç npaxn­ x6ç. Mentre Euripide fa vincere Anfìone, sembra che Pacuvio si sia pronun­ ciato con Zeta a favore della vita activa (Ribbeck). Ed. commentata: G. D'ANNA, Roma 1967. Studio: l. MARIOTTI, Introduzione a Pacu­ vio, Urbino 1960.

1.2.2.2. La praetexta La praetexta può essere a buon diritto considerata una tipica forma della tragedia romana non solo perché ignoriamo i suoi precursori ellenistici. La tragedia dovette sembrare, piu ai Romani che ai Greci, una forma adatta an­ che per la rappresentazione di materiale tratto dalla storia, incluso il "mito" dell'età arcaica. Già il risalto dato da Livio Andronico al ciclo troiano nella tragedia mitologica aveva un carattere indubbiamente storico, cosi come la sua introduzione di elementi eziologici. Fra la crepidata e la praetexta esisteva una differenza soprattutto di argomento, non necessariamente di contenuto. Il passo decisivo, cosi come nell'epos, fu compiuto da Nevio. Nevio derivò la materia del Romulus (Lupus era forse il sottotitolo, non un testo a parte) dall'età arcaica, quella del Clastidium dalla storia contemporanea: quest'ultima celebrava la vittoria ottenuta da Marco Marcello sul gallo Viridumaro nel 222 a Cla­ stidium {Casteggio, a s.ud di Pavia). Ennio cantò nell'Ambracia le lodi della presa della città omonima in Etolia ad opera del suo protettore Marco Fulvio Nobiliare nel 189; Pacuvio dedicò il Paullus al vincitore di Pidna, Emilio Paolo {nel 168). Accio {vd. r.p) trattò nel Brutus la liberazione di Roma dai re etruschi {nel 510), nella Aeneadae sive Decius il sacrificio del giovane Decio Mure nella battaglia di Sentina {nel 295).

Se l'impostazione storica ed eziologica della tragedia mitologica poteva costituire un panegirico solo attraverso la celebrazione degli antenati troiani e greci dei Romani, la praetexta celebrava in maniera diretta sia il passato ita­ lico che la storia contemporanea. Secondo la mentalità dell'epoca, la lode del singolo e della res publica procedevano di pari passo. 228

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Nell'Ambrada di Ennio la presa di Ambracia da parte di Marco Fulvio Nobiliare era allo stesso tempo un passo verso la conquista della Grecia; nel Paullus di Pacuvio la vittoria su Perseo era allo stesso tempo la vittoria sulla Grecia. Significativa è la pre­ ghiera del giovane Decio al sacerdote, nell Aeneadae di Accio, di recitargli la formula di devozione con la quale suo padre un tempo aveva salvato lo Stato nella battaglia contro i Latini nel 340, quibus rem summam et patriam nostram quondam adauctavit pater (&. 10 Ribbeck). '

Alla praetexta spetta un ruolo di primo piano per quanto riguarda l'origi­ nalità della letteratura romana arcaica. In questo genere letterario i poeti non avevano praticamente modelli greci, ma dovevano affidarsi unicamente al proprio ingegno. Erano nella condizione di inventare intere scene e centi­ naia di versi de suo. Questa circostanza è da tenere a mente per una valuta­ zione corretta della palliata, nella quale scene "greche" si alternano a scene "romane". Edizioni: L. PEDROLI, Genova 1954; G. DE DuRANTE, Roma 1966. Studi: N. Zoa­ ZETTI, La pretesta e il teatro latino arcaico, Napoli 1980; R. HAu ss LE R, Gnmdzuge der «Fa­ bula Praetexta in > {ivi, p. 6oo). Ciononostante si distinse, secondo Orazio, per la solennità (Epistulae, 2 I 55), secondo Quintiliano per la forza (Institutio oratoria, II 97). l. MARIOTTI, Tragédie romaine et tragedie grecque: Accius et Euripide, in MusHelv, 22 I965, pp. 206-I6; A. TRAINA, Vortit barbare, pp. IBI-203. >>

I.J.J. La poesia epica Nell'epoca arcaica nessun genere letterario fu cosi legato allo sviluppo po­ litico di Roma quanto il poema epico. La crisi della Repubblica significò dunque necessariamente la crisi del poema epico. In realtà, dopo la morte di Ennio la poesia epica non ebbe alcun ruolo significativo per circa 140 anni. Solo col rinnovamento dello Stato ad opera di Ottaviano fu di nuovo pronto il terreno per l'epica intesa come poesia nazionale: nel 29 Virgilio iniziò la composizione dell'Eneide, che per molti è la massima espressione poetica dei Romani. Solo pochi nomi abbelliscono per noi il vuoto di produzione epica che intercorre fra il 169 e il 29. Che poesia epica e impegr10 politico procedessero di pari passo viene dimostrato dalla fedeltà di Cicerone all'estetica del piu importante poeta epico che Roma aveva avuto fino ad allora: Ennio era per lui un poeta egregius (Tusculanae disputationes, 3 45), e fu questo autore che Cicerone prese a modello nel poema epico De consulatu suo {in 3 libri), nel quale giustificava il suo agire durante il consolato. Catullo contrappone, nel carme 95, l'epillio Zmyrna dell'amico Cinna sia con gli Anna/es del famoso oratore Ortensio sia con quelli di un certo Volusio, che dileggia nel v. I del carme 36 come ca­ cata charta. Gli Anna/es sono vicini alla storiografìa, un genere che era entrato in crisi come l'epica. Il punto è che forse entrambe le opere, cosi come gli Anna/es belli Gal­ lici di FuRIO BIBÀCULO, erano poemi epici. A questo proposito vanno nominati altri due autori: Osno sembra abbia rappresentato, nel Bellum Histricum, la campagna mi-

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STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

litare del 129 intrapresa in Illiria da Sempronio Tuditano contro i Giapidi e VARRONE ATACINO , nel Bellum Sequanicum, la conquista della Gallia da parte di Cesare. Chiara­ mente nessuno di questi poeti riusci a legare la celebrazione a contenuti di validità generale.

D'altro canto i brevi poemi epici dei neoterici, dal nome moderno di epil­ li, funsero da surrogato di questo genere ricco di tradizione. Lo slogan pro­ grammatico IJ.Éya PtPJ..iov IJ.Éya xax6v (Callimaco, fr. 465 Pfeiffer) dei poeti alessandrini, in gran parte apolitici, valse anche per questa generazione di poeti. Il rifiuto di Catullo degli Annales di Ortensio e di Volusio era allo stes­ so tempo un rifiuto di Ennio e del pensiero di un'intera epoca che in lui ave­ va trovato espressione. Questo modo di pensare non corrispondeva piu al­ l'immagine del mondo di Catullo e dei suoi amici poeti. Sui neoterici vd. I.J.5.2. Il titolo della Zmyrna di CINNA, elogiata da Catullo, tratta il singolare tema di gusto alessandrino dell'amore illecito fra padre e figlia, molto lon­ tano dalla tematica nazionale della storiografia e dell'epica. La metamorfosi finale dell'eroina eponima in un arbusto di rnirra consente di classificare questa poesia co­ me apolitica; essa da un lato si rifà agli Alessandrini e dall'altro anticipa le Metamorfo­ si di Ovidio. Almeno a Roma deve essere stata ritenuta un'opera "provocatoria". Considerando il carme 64 di Catullo, l'epos di Peleo, sembra verosimile l'ipotesi che in questa come nella poesia di Cinna si manifesti il pensiero personale del poeta, che cioè gli epilli non debbano essere considerati esclusivamente come art pour l'art. Klin­ gner ha mostrato che il lamento dell'abbandonata Arianna, nella parte centrale del c. 64, si sviluppa specularmente rispetto all'amore appagato fra Teti e Peleo nel raccon­ to che fa da cornice. Catullo ha rappresentato nell'epillio il tema "gioia e dolore", va­ riandolo ripetutamente. Questa è la problematica che domina soprattutto nelle sue poesie. È lecito quindi ricollegare questo insieme contradditorio alla vita interiore del poeta quale rappresentazione eroicizzata )) (p. 207). «

È quindi il messaggio personale che, anche nel genere tradizionalmente piu elevato, prende il posto dell'ideologia comunemente dominante. F. KLINGNER, Catulls Peleus-Epos. Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissen­ schaften Munchen, Philosophisch-Historische Klasse, 6, Miinchen 1956 (= Studien zurgriechi­ schen und romischen Literatur, Ziirich-Stuttgart 1964, pp. 156-224) (ottimo).

1.3 ·4· La storiografia Anche dopo i disordini seguiti alle riforme dei Gracchi, a Roma la storia-

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· LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLI CANA

grafia restò fino alla fine della Repubblica un genere letterario - e politico dominante. È significativo che, dopo la "perdita" del passato, la storiografia si rivolgesse alla storia contemporanea, assumendo un carattere di parzialità che non riusd a perdere fino a Cesare e a Sallustio. Gli storici dell'ultimo terzo del II secolo, sotto l'influsso di Polibio che vi­ veva a Roma, si caratterizzano per un'apertura all'interpretazione storica di tipo pragmatico. Le loro opere rispecchiavano infatti i contrasti dell'epoca. GAIO FANNIO, allievo di Panezio e genero di Lelio, console nel 122, fu personal­ mente coinvolto negli avvenimenti politici. I suoi Anna/es iniziavano ancora con Enea, ma il fulcro della narrazione era costituito dai tempi piu recenti. SEMPRONIO AsELLIONE si limitò, negli almeno 14 libri di Res gestae (il titolo è incerto), al lasso di tempo che va dalla fine della terza guerra punica fino al 91. Sotto l'influsso di Polibio, Asellione polemizzò con l'annalistica (Gellio, Noctes Atticae, 5 18 8-9), che si sarebbe limitata a descrivere i fatti {fàbulae): il suo obiettivo era invece cercare di conoscere il consilium e la ratio degli avvenimenti (Gellio: historiae). CELIO ANTiPATRO, giurista e maestro di eloquenza, con la sua descrizione della seconda guerra punica fu il primo autore romano a scrivere una monografia storica. Mirò ad una rappresentazione drammatica; il suo stile retorico ricordò a Frontone, in seguito, quello di Ennio (Epi­ stulae, 3 3 2).

I.J.4.I. I.:annalistica piu recente Nella prima metà del I secolo alcuni autori ritornarono all'annalistica tra­ dizionale, ignorando il modello pragmatico della storiografia insegnato da Polibio. Per quanto il presente non fosse piu tranquillo dei decenni prece­ denti, nelle loro descrizioni veniva data la prevalenza alla grandezza e alla fa­ ma mondiale di Roma. Queste opere avevano soprattutto una funzione di intrattenimento. Con QUINTO CLAUDIO QuADRIGARIO (che scrisse almeno 23 libri) e VALERIO AN­ ZIATE (almeno 75) la storiografia passò alla classe non senatoriale. Entrambi aspirava­ no ad una elaborazione stilistica della materia. Nonostante la loro acriticità, furono una fonte importante per Livio. Questo vale anche per GAIO LICINIO MAcRa, che re­ dasse almeno 16 libri, e per QUINTO Euo TuBERONE, che ne scrisse almeno 14. Di al­ tro livello fu l'opera di Luc1o CoRNELIO SISENNA (pretore nel 78; morto nel 67 come legato di Pompeo nella guerra contro i pirati), le cui Historiae, in almeno 12 libri, fu­ rono continuate probabilmente da Sempronio Asellione e arrivavano fino al 78. Co­ me appartenente alla gens Cornelia, la sua descrizione dell'epoca sillana non fu im­ parziale (Sallustio, De bello Iugurthino, 95 2). Secondo Cicerone, il suo modello fu Cli­ tarco, il fantasioso storico di Alessandro (De legibus, 1 2 7); con questa notizia si accor-

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IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA d a l a sua traduzione delle leggere intorno al 100.

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(Milesiae), scritte d a Aristide di Mileto

Gli annalisti piu giovani e Sisenna erano figli del loro tempo. La celebra­ zione della grandezza di Roma era piu ostentata che sentita. In ciò sono vi­ cini ai poeti contemporanei Lucrezio e Catullo: come questi attribuirono molta importanza all'elaborazione formale e artistica del proprio lavoro. D. TIMPE, Erwiigungen zurjungeren Annalistik, in A&A, 25 1979, pp. 97-II9.

1.3.4·2· Gaio Giulio Cesare La strada percorsa dalla storiografia negli ultimi cento anni ci fa capire co­ me i Commentarii del grande statista siano potuti diventare lo strumento per l'affermazione della sua immagine politica. Nato nel 100 circa, nel 63 pontifex maximus, nel 59 console, dal 58 al 51 proconsole in Gallia, Cesare al suo ritorno ruppe con Pompeo, che sconfisse in numerose battaglie, e per un breve periodo divenne padrone assoluto di Roma, prima di essere assassinato nel 44· Fu un brillante oratore (Cicerone, Brutus, 252) e come scrittore eccelse per la chiarezza dello stile. Lo scritto grammaticale De analogia è andato perduto, cosi come il poema odeporico Iter sulla spedizione in Spagna nel 46 e il pamphlet politico contro Ca­ tone Uticense (Anticato). Legati alla lotta politica erano anche i Commentarii de bello Gal­ lico, in sette libri (per gli anni 58-52), e de bello civili, in tre libri (per gli anni 49-48). Tra le varie continuazioni possiamo attribuire probabilmente soltanto l'ottavo libro del Bellum Gallicum ad Aulo Irzio, un ufficiale di Cesare; il Bellum Alexandrinum, l'Africum e l'Hi­ spaniense invece provengono dalla sua cerchia. Per il Bellum Gallicum, che mise per iscrit­ to nel 52/51, Cesare utilizzò, tra l'altro, i resoconti ufficiali inviati annualmente al sena­ to (litterae).

Secondo Johann Gottfried Herder, la facilità con cui Cesare vinceva si ri­ flette anche nel nel suo stile narrativo. Il modello stilistico era forse Seno­ fonte. Il titolo dell'opera principale, Commentarii ('memorie', 'appunti'), che si ricollegava di proposito ai resoconti degli antichi magistrati romani, cosi come lo stile descrittivo - tanto spontaneo quanto avvincente - non possono tuttavia ingannarci: dietro una veste narrativa apparentemente oggettiva, vi era il calcolo della giustificazione della propria politica e dell'affermarsi del­ la propria autorità. Per quanto la chiarezza dello stile faccia di Cesare un au­ tore molto letto nelle scuole, gli allievi non sono generalmente in grado di comprendere la strategia che vi è sottesa.

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLICANA

Edizioni: Bellum Gallicum: F . KRANER-W. DITTENBERGER-H MEusEL, 2 voli., Ber­ lin 1913-1917V (con commento); O. SEEL, Leipzig 1961; Bellum Civile: F. KRANER-F. HoFMANN-H. MEusEL, Berlin 190611 (con commento); A. KwTz, Leipzig 195o2. Stu­ di: FE. Aoc ocK, Caesar as Man ofLetters, Cambridge 1956; M. RAMBAUD, I:art de la dé­ Jormation historique dans les 'Commentaires' de César, Paris 19662; F.-H. MuTSCHLER, Er­ ziihlstil und Propaganda in Caesar 'Kommentarien', Heidelberg 1975; E. MENSCHING, Cae­ sars 'Bellum Gallicum'. Eine Eitifiihrung, Frankfurt a.M. 1988.

1.3 ·4·3· Cornelio Nepote Come il suo amico TITo PoMPONIO ATTICO, Cornelio Nepote apparte­ neva al ceto equestre e si dedicò alla storiografia per passatempo. Attico re­ dasse una tavola cronologica molto utilizzata (Liber annalis), mentre Nepote nei tre libri dei suoi Chronica scrisse un compendio di storia universale. Atti­ co narrò del consolato di Cicerone, Nepote compose una biografia di Cice­ rone. Nel complesso i due autori rappresentano un'oasi di tranquillità nel panorama dell'altrimenti cosi agitata storiografia romana. Transpadano come Catullo, Cornelio Nepote condusse come lui una vita ritirata.

I Chronica furono composti prima del 54, dal momento che Catullo ne fa menzione nella sua poesia dedicatoria. Nepote sopravvisse ad Attico, che mori nel 32. Oltre agli Exempla, una raccolta di curiosità apparsa dopo il 44, l'opera principale di Cornelio Nepote è il De viris illustribus, in almeno 16 libri, che mettevano a confronto, libro per libro, biografie di personaggi romani e stranieri suddivise per categorie. Ci è giunto un libro con 23 biografie di condottieri stranieri, insieme alle biografie di Catone e di Attico appartenenti a un libro sugli storici romani. Nella descrizione di Nepote l'intento edificatorio prevaleva sulla veridicità storica. . Edizione : P.K. MARSHALL, Leipzig 1977. Studio: E. jENKINSON, in ANRW, 1 3 1973, pp. 703-19 (con bibliografia).

1.3 ·4·4· Gaio Sallustio Crispo A prescindere dalla forma particolare dei Commentarii di Cesare, gli scritti di Sallustio sono le prime opere di storiografia romana giunte fino a noi. Se Livio riusci, già con l'impostazione della sua opera, a scalzare tutti gli annali­ sti che lo precedettero, le monografie di Sallustio ne furono del tutto immu­ ni: a difenderle c'era la loro eccellente qualità. Nato nell'86 a Amiterno, in Abruzzo, homo novus, come sostenitore di Cesare di­ venne questore e tribuna della plebe (nel 52), ma nel so fu espulso dal senato. Preto-

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IV STO RIA DELLA LETTERATURA LATINA •

re nel 46, fu in seguito governatore della provincia di Africa Nova. Mori nel 35, dopo aver accumulato ingenti ricchezze. Sotto il suo nome sono state tramandate una In­ vectiva contro Cicerone, del 54, e due Epistulae politiche a Cesare, del 50 e del 46, la cui autenticità è dubbia. Evidentemente Sallustio cominciò a scrivere solo dopo la morte di Cesare. Le sue opere principali sono due monografie storiche, il Bellum Ca­ tilinae sulla congiura di Catilina del 63, il Bellum Iugurthinum sulla guerra del m-105 contro il re numida Giugurta, e le Historiae, opera di impianto annalistico che inizia­ va con il 78 (riallacciandosi alla narrazione di Sisenna) e si concludeva nel 67 (forse incompleta). Delle Historiae ci sono giunti, grazie ad Agostino, degli estratti dal proe­ mio e, in una tradizione separata, discorsi e lettere, oltre a numerosi brevi frammen­ ti in citazioni antiche.

Con uno stile di una pregnanza senza eguali, in rottura con la sintassi clas­ sica, e che talvolta si rifà al patrimonio linguistico arcaico, Sallustio ha analiz­ zato acutamente l'epoca della decadenza romana a partire dal 146, una data ripresa probabilmente da Posidonio. Lavorando, secondo il modello tucidi­ deo, sia con excursus che con visioni di insieme, Sallustio abbracciò nello Iu­ gurtha l'epoca dalla distruzione di Cartagine fino a Silla; nel Catilina, il perio­ do che va da Silla (modello negativo a cui si ispira Catilina) fino a Cesare. Nelle Historiae Sallustio cominciò ad analizzare piu attentamente l'epoca a cavallo tra la morte di Silla e Catilina. Critico non indulgente del declino ro­ mano, Sallustio non scrisse assolutamente sine ira et studio, senza nascondere al contrario di essere seguace di Cesare e di avere una posizione plebea. Dal fa­ moso confronto (synkrisis) del Catilina (51-54) fra Cesare e Catone Uticense, una raffigurazione magistrale, esce vittorioso il primo, anche se di poco. In­ dirizzò lo Iugurtha contro la superbia della nobiltà. La descrizione era di im­ pronta moraleggiante come quella dei suoi predecessori: a questo carattere sacrificò anche l'esattezza del dettaglio storico. I.:opera sallustiana si colloca ad un punto di svolta della storiografia romana: per la prima volta uno stori­ co non incita ma scoraggia, non costruisce ma distrugge. Solo Tacito, 150 an­ ni dopo, avrebbe proseguito in questa direzione. Edizione: L.D. R.EvNOLDS, Oxford 1991. Commenti: Bellum Catilinae: K. VRET­ SKA, Heidelberg 1976; P.M. McGusHIN, Bristol 1987; Bellum Iugurthinum: E. KOE­ STERMANN, Heidelberg 1971; G.M. PAuL, Liverpool 1984; Historiae: B. MAuRENBRE­ CHER, 2 voli., Leipzig 1891-1893· Bibliografia: A.D. LEEMAN, A Systematica/ Biblio­ graphy of Sallust, 1879-1964, Leiden 1965. Studi: R. SYME, Sallust, Berkeley 1964; A. LA PENNA, Sallustio e la "rivoluzione" romana, Milano 19692; K. BùcHNER, Sallust, Heidel­ berg 19822.

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLICANA

1.3.5. Poesia personale I poeti dell'epoca arcaica, come Ennio nelle Satire o Terenzio nei Prologhi, avevano già sporadicamente parlato in prima persona, ma le loro afferma­ zioni si limitavano a una tematica dai confini precisi: questioni letterarie od osservazioni tratte dalla vita quotidiana. Solo con lo scardinamento dell'anti­ co sistema, che portò a una maggiore libertà dell'individuo, i poeti si sentiro­ no autorizzati a porre la propria esistenza al centro delle loro creazioni. Il fatto che Lucilio, il primo autorevole rappresentante di questa nuova poeti­ ca, abbia cominciato a pubblicare intorno al 128, nel pieno dei disordini dei Gracchi, appare un'ovvia conseguenza di quanto è stato appena detto. I poe­ ti appartenenti alla generazione successiva furono chiamati, senza giri di pa­ role, aive-rai �ol xfjvoç iaoç IJémmv . . . (fr. 31 LP) ['Mi sembra pari agli dèi quell'uomo . . .'] nel c. 51, nel quale Catullo ag­ giunge una strofa di contenuto completamente personale, che esprime lo stato d'ani­ mo di chi è paralizzato dall'amore. «

>> .

I.:opera di Catullo è figlia della sua epoca. In aperte invettive dichiarò una assoluta indifferenza nei confronti della politica: questo mondo, cosi com'e­ ra, e in particolare l'ambiente di Cesare e dei suoi favoriti, non era il suo. Nel distaccarsi da questa sfera di valori nacque un'opera sottile, spiritualizzata, completamente rivolta alla propria dimensione interiore: era la testimonian­ za di una generazione che si sentiva persa. Edizione: R.A.B. MYNORS, Oxford 1958. Studi: O. WEINRICH, Die Distichen des Ca­ tuli, Tiibingen 1926; D. BRAGA, Catullo e i poeti greci, Firenze-Messina 1950; KLINGNER, Romisches Geisteswelt, pp. 218-38; K. Qui NN, The Catullan Revolution, Oxford 1969; E.A. ScHMIDT, Catuli, Heidelberg 1985; T.P. WisEMAN, Catullus and His World. A Reapprai­ sal, Cambridge 1985.

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLI CANA

1.3-6. Lafilosofia La filosofia romana è quasi sempre riflessione etica: la sua origine era dunque fondata soprattutto sul desiderio personale di un giusto sistema di vita. Ontologia, fisica, logica e dialettica continuarono invece a rivestire un ruolo secondario. Lo scetticismo accademico arrivò a Roma con FILONE DI LARISSA, un rappresentante significativo della Nuova Accademia, fuggito da Atene nell'88 durante i moti di Silla. I..:epicureismo si diffuse invece grazie a FILODEMO DI GÀDARA, che poco dopo fu attivo a Napoli. Soprattutto la dot­ trina epicurea veniva incontro al desiderio di una pace interiore in tempi di guerra civile. I.J.6.I. Tito Lucrezio Caro Sebbene la dottrina epicurea coltivasse l'amicizia, il suo massimo espo­ nente a Roma fu indubbiamente un solitario, che, in un'epoca in declino, si propose di scrivere una gigantesca diatriba contro il timore degli dèi e della morte. Scarse sono le notizie sulla vita di Lucrezio, e altrettanto incerte sono le date :

97!94-55. La notizia geronimiana del suicidio del poeta in un momento di ottenebra­ mento mentale va forse ricondotta all'ambiente cristiano, per il quale Lucrezio, che combatteva contro la religione, gli dèi e l'immortalità, era pazzo. Come i filosofi poe­ ti Parmenide ed Empedocle, Lucrezio scelse per il

De rerum natura la forma della poe­

sia didascalica. I.: opera, dedicata a Gaio Memmio (pretore nel 58), si articola in 6 libri, raggruppati in tre diadi: il primo libro espone la dottrina degli atomi (primordia rerum) e

del vuoto

(inane) ; il secondo

illustra la nascita della materia dagli atomi; il terzo lo

spirito (animus) e l'anima (anima), che sono formati da atomi e con i quali il corpo na­ sce e muore; il quarto le percezioni dei sensi; il quinto la nascita e lo sviluppo del co­ smo e della civiltà umana; il sesto la meteorologia, i fenomeni naturali e le malattie. Autentici pezzi di bravura sono i proemi, che celebrano Epicuro quasi come una di­ vinità; la tirata, che anticipa la satira oraziana, contro il timore della morte, la cui fu­ tilità è conseguenza della caducità del corpo e dell'anima (l. m); la sezione sulla na­ scita della civiltà umana (l. v). Una lingua trascinante, talvolta arcaico-manieristica, assicurò alla dottrina esposta con grande rigore un'attenzione duratura nella cultura occidentale.

In confronto ai poemi didascalici alessandrini, caratterizzati dallo sforzo artificioso dei loro autori, Lucrezio riconferi al vecchio genere la forza uni­ versale che aveva avuto presso i primi Greci. La crisi della Repubblica e la si255

IV



STO RIA DELLA LETTERATURA LATINA

ruazione d'emergenza dell'epoca fecero maturare nel poeta solitario un mo­ do di pensare che cercò di spiegare con naturalezza il mondo secondo il si­ stema epicureo e che non aveva piu comprensione né per la religione tradi­ zionale, né per l'atteggiamento ufficiale dello Stato. Per Lucrezio, che met­ teva da parte gli dèi, Epicuro era una divinità. Friedrich Marx defini la poe­ sia di Lucrezio « il canto funebre della Repubblica romana invecchiata >>. Edizioni: C. BAILEY, 3 voll., Oxford 1947 (con commento); K. MOLLER, Ziirich 1975. Studi: F. MARX, Der Dichter Lucretius, in Neue Jahrbiicher fiir das Klassische Al­ tertum )), 2 1899, pp. 532-48; O. REGENBOGEN, Lukrez. Seine Gesta/t in seinem Gedicht, 1932, in In., Kleine Schrifien, Miinchen 1961, pp. 296-386; K. SALLMANN, Lukrez' Heraus­ forderung an sei ne Zeitgenossen, in Gymnasium )), 92 1985, pp. 435-64. «

«

1.3.6.2. Marco Tullio Cicerone Il piu importante oratore di Roma fu anche il principale intermediario della filosofia greca a Roma, sia grazie ad uno straordinario talento teoretico che alla sua convinzione che l' orator perfectus dovesse avere una formazione fi­ losofica completa. La sua eccezionale padronanza della lingua, fino ad allora ineguagliata, permise, soprattutto all'inizio, la formazione del necessario ba­ gaglio lessicale. Cicerone nacque nel 106 ad Arpino, nel Lazio. Come homo novus intraprese il cur­ sus honorum suo anno, che culminò nel consolato nel 63 (annientamento della congiu­ ra di Catilina); nel 58-57 fu esiliato in Grecia a causa della contestata esecuzione dei catilinari; nel 51-50 ottenne il governatorato della Cilicia; come sostenitore di Pom­ peo fu graziato da Cesare nel 47; nel 43 mori assassinato nella lotta contro Antonio. Si formò come giurista e oratore a Roma; dall'88 frequentò le lezioni di Filone di Laris­ sa; negli anni 79-77 intraprese un viaggio di studio in Grecia e in Asia minore (incon­ trandovi gli stoici Antioco di Ascalona, successore di Filone e capo della scuola, e Po­ sidonio, ed anche il maestro di oratoria Apollonia Molone, che aveva già ascoltato a Roma). Ininterrotta attività come avvocato e pubblicazione dei suoi discorsi dall'SI; scrittore di opere di filosofia e retorica nei periodi di ozio politico forzato negli anni 55-51 (De oratore, De re publica, De legibus) e negli anni 45-44 (opere principali: Academi­ ci libri, Definibus bonorum et maforum, Tusculanae disputationes, De natura deorum, De l1Jì­ ciis). Piu di 770 Epistulae ci forniscono una conoscenza di Cicerone come non l'abbia­ mo di nessun altro romano: Adjamiliares, Ad Atticum (entrambi di 16 libri), Ad Quin­ tumJratrem (3 libri), Ad M. Brutum (1 libro).

Tra le dottrine filosofiche di cui aveva profonda conoscenza, Cicerone simpatizzò soprattutto per l'Accademia scettica, che aveva conosciuto grazie

I · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ RE PUBBLICANA a Filone di Larissa, e alla quale rimase legato per tutta la vita. Infatti l'idea che non si possa riconoscere la verità, ma solo una sembianza di veridicità, corrispondeva alla sua natura, che tendeva sempre al compromesso, alla sua franchezza spirituale, come pure agli sforzi del giurista di soppesare accura­ tamente i pro e i contra. Le trattazioni filosofiche di Cicerone evitano specu­ lazioni teoretiche fini a se stesse; nell'ambito di ampie esposizioni in cui ven­ gono presi in considerazione punti di vista divergenti, esse hanno sempre come obiettivo l'illustrazione del pensiero personale dell'autore, sia che trat­ ti della formazione dell'oratore (De oratore) che della migliore forma di stato e del rector dvitatis (De re publica), del dolore e della morte (Tusculanae disputa­ tiones), della vecchiaia ( Cato) o dell'amicizia (Laelius). Qualora la situazione lo richieda, Cicerone si riallaccia alle dottrine di altre scuole, come nello scritto De officiis, basato sugli insegnamenti di Panezio e dedicato nel 44 al figlio Marco che studiava ad Atene. Per rinvii puntuali si veda la sez. vm cap. 3 ·3 e Bibliografia.

1.3.7· I.:oratoria Nella sua acuta analisi del declino dell'oratoria nel Dialogus de oratoribus, Tacito ha riconosciuto che la straordinaria fioritura di quest'ultima nel corso del I secolo fu strettamente legata alla crisi della Repubblica. Egli defini la magna et notabilis eloquentia dell'epoca una alumna licentiae, che solo gli stolti chiamavano libertas. Essa fioriva mentre lo Stato si disgregava in fazioni dis­ cordi (Dialogus de oratoribus, 40). La vita e le opere del piu grande oratore ro­ mano, CICERONE, rispecchiano in modo esemplare questi rapporti. Mentre prima di Cicerone {Catone, Marco Antonio, Ortensio) si amava sottoli­ neare la rinuncia ad un'educazione e ad una techne greca {senza poi realizzarla nella pratica), tipica di Cicerone è la fusione di elementi greci e romani, dovuta alla sua formazione. Questo aspetto si manifesta chiaramente nello scritto De inventione {in 2 libri) - redatto all'inizio degli anni ottanta, che parte da materiale e terminologia gre­ ci - cosi come nella coeva Rhetorica ad Herennium {4 libri) : quest'opera, attribuita a Ci­ cerone ma in realtà risalente a un autorevole romano di cui si ignora l'identità, tratta in maniera sistematica l'inventio, la dispositio, la pronuntiatio, la memoria e l' elocutio, e inoltre generi e struttura del discorso. Altri scritti di Cicerone sono dedicati alla for­ mazione dell orator peifectus (De oratore, del 55, in 3 libri), alla storia dell'eloquenza ro­ mana (Brutus, del 46), alla teoria dello stile oratorio { Orator, del 46) e ai /oci communes (Topica, del 44). Negli scritti del 46 Cicerone prende posizione nella disputa contem'

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IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA poranea a proposito della giusta elevatezza dello stile. La ridondanza e gli eccessi am­ pollosi (che probabilmente provenivano dall'Asia minore greca) erano considerati propri dell'asianesimo, mentre uno stile asciutto e scarno (che avrebbe caratterizzato gli oratori attici del IV secolo), era tipico della corrente atticista. Né Cicerone, né i giovani atticisti, fra i quali Bruto, seguirono uno dei due estremi. Tuttavia si discute su dove porre il vero confine fra i due stili. Cicerone, che era piuttosto incline ad una certa prolissità, fa da mediatore: l'oggetto da trattare determina di volta in volta l'ele­ vatezza dello stile da utilizzare. Mentre gli scritti retorici e filosofici di Cicerone appartengono solo a due periodi, per le orazioni, ai quali lavorò ininterrottamente, si sono distinte dieci epoche. Dalla massa si distinguono le orazioni contro Verre del 7o, quelle all'epoca della pretura del 66 (De imperio Cn. Pompei) e del consolato del 63 (In Catilinam, Pro Murena), nonché i discorsi successivi al ritorno dall'esilio del 57/56 (De domo sua ad pontifices, Pro Sestio, Pro Caelio) e infine quelli contro Antonio del 44/43 (Philippicae).

Poiché parlava all'impronta, Cicerone rielaborò i discorsi per la pubblica­ zione. Per quanto il loro contenuto abbia un valore generale che ne giustifi­ ca ancora la lettura dopo oltre duemila anni, la pubblicazione aveva in realtà lo scopo di giustificare la propria politica nel contesto dello scontro con gli avversari. Anche in questo genere si può cogliere il pensiero personale del grande statista e oratore. A. MICHEL, Rhétorique et philosophie chez Cicéron. Essai sur /esJondements philosophiques de l'art de persuader, Paris 1960; W. STROH, Taxis und Taktik. Die advokatische Dispositions­ kunst in Ciceros Gerichtsreden, Stuttgart 1975; CJ. CLASSEN, Recht-Rhetorik-Politik. Unter­ suchungen zu Ciceros rhetorischer Strategie, Darmstadt 1985.

1.3.8. Letteratura specialistica Il posto piu importante nella letteratura specialistica dell'ultimo periodo della Repubblica è occupato dai grammatici. Fra i piu antichi grammatici, PoRcio LICINO, VoLCACIO SEDIGITO, 0TTAVIO LAM­ PADIONE o SANTRA, si distinse il cavaliere LuciO Euo STILONE (PRECONINo) , origina­ rio di Lanuvium, maestro di Cicerone e soprattutto di Varrone. Egli spiegò la lingua dei documenti piu antichi, come quella delle leggi delle Dodici Tavole o del carmen Saliare, ed ebbe un ruolo importante anche nella filologia plautina (vd. 1.2.2.3).

Lo studioso e poeta MARco TERENZIO VARRONE, di Rieti nella Sabina, in­ traprese anche una carriera politica e superò tutti gli studiosi specialistici del suo tempo per la vastità dell'istruzione e la ricchezza d'interessi.

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LA LETTERATURA DELL'ETÀ REPUBBLICANA

Nacque nel n6; intraprese il cursus honorum fino alla pretura {nel 68); sostenitore di Pompeo, di cui fu spesso legato {negli anni TJ-71 e nel 49 in Spagna, nel 67 nella guer­ ra contro i pirati); dopo Farsàlo, fu graziato da Cesare e nel 47 fu incaricato di racco­ gliere l'intera letteratura greca e latina; mori nel 27. La sua immensa opera abbraccia circa 74 scritti in 6oo libri. Ci sono giunti, accanto a numerosi frammenti, le Res rusti­ cae {in 3 libri) e il De lingua Latina (11. v-x con lacune, su 25 libri). Altre opere impor­ tanti erano le Antiquitates rerum humanarum et divinarum {41 libri sulle antichità riguar­ danti il singolo, lo Stato e il culto), il De poetis {da Livio Andronico fino ad Accia), il De poematis {in 3 libri, sui generi della poesia romana arcaica), le Disciplinae {in 9 libri, sulle artes libera/es, la medicina e l'architettura). La vena letteraria di Varrone trovò espressione nelle Saturae Menippeae {una raccolta di 150 componimenti caratterizzati dalla mescolanza di poesia e prosa secondo il modello di Menippo di Gàdara) e nei Logistorici {dialoghi in 76 libri, nei quali importanti personaggi romani dell'epoca, do­ po la loro morte, avevano la funzione di personaggio principale).

Il pensiero di Varrone era rivolto al passato, sia nella scienza che nella poe­ sia, senza che per questo il nuovo venisse rifiutato per principio. Tuttavia, la contrapposizione nelle Satire tra il buon tempo passato e la degenerazione dell'età contemporanea rispecchiava la piu profonda essenza del pensiero dell'autore. Si mosse negli ambiti della religione, della cultura e della lettera­ tura romane arcaiche come in spazi familiari che non gli erano preclusi. Il confronto tra grecità e romanità, allo scopo di nobilitare quest'ultima, rispec­ chia la sistematicità della sua opera. Se essa ci fosse giunta completa, la nostra conoscenza di un mezzo millennio di cultura romana sarebbe ben diversa. H. DAHLMANN, s.v. M. Terentius VarTo, in RE, Suppl. v r , Stuttgart 1935, coll. n72-277; F. DELLA CoRTE, VarTone e il terzo gran lume romano, Firenze 197oZ; Atti del Congresso in­ ternazionale di studi varToniani, 2 voll., Rieti 1976; TH. BAIER, Werk und Wirkung VarTos im Spiegel seiner Zeitgenossen von Cicero bis Ovid, Stuttgart 1997. [Opere generali: W. SuERBAUM {a cura di), Die archaische Literatur. Vcm den Anfangen bis Sullas Tod. Die vorliterarische Periode und die Zeit von 240 bis 78 v.Chr., Mi.inchen 2002 (= Handbuch der lateinischen Literatur der Antike, a cura di R. 1-IERZoG e P.L. ScHMIDT, r) . 1.2.2.1. Quinti Enni et Marci Pacuvii Lexicon Sermonis Scaenici, conscripsit L. CASTAGNA, Hildesheim 1996; G. MANUWALD {a cura di), Identita't und Alteritàt in derfriihromischen Tragi:idie, Wurzburg 2000. Sull'Alexander di Ennio: S. TIMPANARO, Dall'Alexandros di Euripide all'Alexander di Ennio, in RFIC, 124 1996, pp. 5-70 {vd. anche 1.2.3). 1.2.2.2. G. MANUWALD, Fabulae praetextae. Spuren einer lateinischen Gattung der Rdmer, Mi.inchen 2001. 1.2.2.3. Antologia: A. TRAINA, Comoedia. Antologia della palliata, Padova 20005• Plauto: Tm M.Accr PLAUTI Cantica, edidit, apparatu metrico instruxit C. QuESTA, Urbino

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IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA 1995; Casina, ed. C. QuESTA, Sarsina-Urbino 2001; R. RAFFAELLI-A. ToNTINI, (a cura di), Lecturae Plautinae Sarsinates, 1. Amphitruo {Sarsina, 13 settembre 1997) , Urbino 1998; n. Asinaria {Sarsina, 12 settembre 1998) , ivi 1999; m. Aulularia {Sarsina, 11 settembre 1999) , ivi 2000; IV. Bacchides {Sarsina, 9 settembre 2000) , ivi 2001; v. Captivi {Sarsina, 8 settembre 2001) , ivi 2002. Terenzio, bibliografia: M. LENTANO, Quindici anni di studi te­ renziani, 1. Studi sulle commedie (1979-1993), in BStL, 27 1997, pp. 497-564, 11. Tradizione manoscritta ed esegesi antica (1979-1991), ivi, 28 1998, pp. 78-101; e inoltre: E. LEFÉVRE, Te­ renz und Apollodors Hecyra, Miinchen 1999; A. BAGORDO, Beobachtungen zur Sprache Te­ renz. Mit besonderer Beriicksichtigung der umgangssprachlichen Elemente, Gottingen 2001. 1.2.3. I frammenti dei poeti epici e lirici sono raccolti nei Fragmenta poetarum Latino­ rum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, post W. Morel novis curis adhibitis edidit C. BOcHNER, ed. tertiam auctam curavit J. BLI..NSDORF, Stuttgart-Leipzig 1995 (FPL), e in E. CouRTNEY, The Fragmentary Latin Poets, Oxford 1993. Studi: M. voN AL­ BRECHT, Roman Epic. An Interpretative Introduction, Leiden-Boston-Koln 1999; A. PERU­ TELLI, La poesia epica latina. Dalle origini all'età dei Flavi, Roma 2000. Nevio: S. MARIOT­ TI, Il 'Bellum Poenicum' e l'arte di Nevio, a cura di P. PARRONI, Bologna 2001J. Ennio: im­ portanti contributi enniani di S. TIMPANARO si trovano in Nuovi contributi difilologia e storia della lingua, Bologna 1994; sulla ricezione antica H. PRINZEN, Ennius im Urteil der Antike, Stuttgart-Weimar 1998. 1.2.4. Annalistica: I.:annalistique romaine, 1. Les anna/es des pontifes et l'annalistique ancien­ ne (fragments), texte ét. et trad. par M. CHASSIGNET, Paris 1996. Catone, ed. con trad. e comm.: P. CuGUSI-M.T. SBLENDORIO CuGUSI, 2 voli., Torino 2001; studi: J.N. Ro­ BERT, Caton ou le citoyen. Biographie, Paris 2002. L. Cassio Emina, ed. comm.: C. SANTI­ NI, Pisa 1995. L. Calpurnio Pisone Frugi: G. FoRSYTHE, The Historian L. Calpurnius Pi­ so Frugi and the Roman Annalistic Tradition, New York- London 1994. 1.2.7. A. CAVARZERE, Oratoria a Roma. Storia di un genere pragmatico, Roma 2000. 1.3.2. Accio, edizione: ]. DANGEL, Paris 1995. 1.3·4·1. Annalistica piu recente: I.:annalistique romaine, n. I.:annalistique moyenne (frag­ ments), texte ét. et trad. par M. CHASSIGNET, Paris 1999; Licinio Macro, ed. comm.: S. WALT, Stuttgart-Leipzig 1997. 1.3.4.2. K. WELCH-A. PowELL {a cura di), Iulius Caesar as Artjul Reporter. The War Commentaries as Politica/ Instruments, London 1998; L. CANFORA, Giulio Cesare. Il dittato­ re democratico, Roma-Bari 1999. 1.3 ·4·4· Historiae, ed. comm.: R. FuNARI, 2 voli., Amsterdam 1996. 1.3.5.2. Catullo, ed. comm: N. MARINONE, Berenice da Callimaco a Catullo, testo criti­ co, trad. e comm., Bologna 19972 (carme 66) ; D.F.S. THOMSON, Toronto-Buffalo­ London 1997; studi: K. QmNN, The Catullan Revolution, London 19992. 1.3.6.1. M. DEUFERT, Pseudo-Lukrezisches im Lukrez: die unechten Verse in Lukrezens 'De rerum natura', Berlin-New York 1996; D. SEDLEY, Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, Cambridge 1998; CH. SEGAL, Lucrezio. Angoscia e morte nel 'De rerum na­ tura', trad. it., Bologna 1998.

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I · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ REPUBBLICANA 1.3.6.2. N. MARINONE, Cronologia ciceroniana, Roma 1997. Epistulae ad Atticum, ed. e trad.: D.R. SHACKLETON BAILEY, 4 voll., Cambridge {Mass.}-London 1999; studi: G.O. HuTCHINSON, Cicero's Correspondence: a Literary Study, Oxford 1998. 1.3·7· E. NARDUCCI, Cicerone e l'eloquenza romana. Retorica e progetto culturale, Roma-Ba­ ri 1997; CJ. CLASSEN, Diritto, retorica, politica. La strategia retorica di Cicerone, trad. it., Bo­ logna 1998; J.M. MAv {a cura di}, Brill's Companion to Cicero. Oratory and Rhetoric, Lei­ den-Boston-Koln 2002. I.J.8. Varrone: Y. LEHMANN, Varron théologien et philosophe romain, Bruxelles 1997; G. PIRAS, Varrone e i poetica verba. Studio sul settimo libro del 'De lingua Latina', Bologna 1998; B. CARDAUNS, Marcus Terentius Varro. Einfiihrung in sein Werk, Heidelberg 2001; ed. dei frammenti: M. SALVADORE, Hildesheim 1999 {1. Supplementum} ; vd. anche le integra­ zioni a 1 1.]

2 LA LET TERATURA DELL'ETÀ AUGUSTEA

di G rAN BIAGIO CoNTE 2.1. PREMESSA 2.1.1. Dalla 'grande paura" alla pace augustea Si sa che periodizzare i fatti storici vuol dire renderli, se non intellegibili, almeno pensabili; ma si sa anche che ogni periodizzazione è culturalmente relativa: si finisce necessariamente per oscurare la continuità dei trapassi e per chiudere in un'immagine fissa un processo in movimento. I..:etichetta la­ scia sempre qualcosa fuori o include qualcosa che propriamente non dovreb­ be essere compresa nella denominazione. Sotto il nome di "letteratura augu­ stea" gli storici usano comprendere la produzione letteraria che va dalla morte di Cesare alla morte di Augusto (o, ricorrendo a due delimitazioni cronologiche piu specifiche, dal 43 a.C., quando muore Cicerone, al 17 d.C., quando muore Ovidio). Con la battaglia di Azio e la sconfitta di Antonio (31 a.C.) si conclude l'in­ cubo delle guerre civili. Il tema dominante delle opere composte in questo periodo si potrebbe definire quello della "grande paura"; ma le cicatrici di quegli atroci sconvolgimenti resteranno a lungo nella letteratura degli anni successivi. Anche poeti come Virgilio e Orazio furono in qualche modo tra le vittime della crisi. Ottaviano, che all'inizio era solo un agitatore politico, un capo-fazione, dopo la grande vittoria di Azio venne investito di poteri che annunciavano una nuova stagione politica e gettavano le basi del princi­ pato, lo stabile controllo di un uomo solo sulla res publica. La funzione di let­ terati come Virgilio e Orazio in questo processo e nel nuovo regime è abba­ stanza chiara. La loro speranza in Ottaviano coincideva con la speranza in qualcuno che portava la pace. La nuova fase di concordia e ricostruzione è sancita nel 27 a.C. dal senato che insignisce Ottaviano del prestigioso cogno­ men onorifico di Augustus ('Magnifico'). Ciò che noi chiamiamo ideologia augustea non consiste di fatto in diretti­ ve imposte dall'alto, è piuttosto una cooperazione politico-culturale in cui i poeti hanno un ruolo attivo e individuale. Del resto la nuova ideologia non

IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATI NA è una formazione stabile e priva di contraddizioni, e le opere dei poeti sono ben lontane dal fornire un quadro pacificato dei mutamenti a cui assistono. Il nuovo potere trae la sua legittimazione dalla necessità di estinguere le guerre civili: ma Ottaviano, prima che uomo di pace e fondatore del nuovo equilibrio, è stato un distruttore, un protagonista di quello scontro apocalit­ tico. Il nuovo eroe epico creato da Virgilio, Enea, celerà nel suo animo tor­ mentato gravi contraddizioni: è chiamato a fondare la città del futuro, ma per farlo deve farsi portatore di una guerra, e affrontare sensi di colpa. Enea, sottolinea Virgilio, non provoca la guerra, ma non può neppure evitare di farsi vendicatore; dovrà persino, e sarà la prova piu dura, uccidere con furia un nemico che è ormai sconfitto e chiede clemenza. La propaganda governativa sarà meno sfumata e meno dialettica, mirerà semplicemente a cancellare il ricordo delle guerre civili: nelle Res gestae Divi Augusti il testamento politico in cui Augusto darà l'interpretazione ufficia­ le dei fatti - presenterà se stesso come il giusto vendicatore dell'uccisione del padre adottivo (battaglia del 42 a.C. a Filippi: sconfitta dei Cesaricidi), pacifì­ catore dell'Italia unita e poi vincitore della regina d'Oriente Cleopatra, allea­ ta di Antonio, il nuovo nemico di Roma (vittoria di Azio nel 31 a.C.). Nel distacco fra le Res gestae e i poeti augustei possiamo misurare lo iato che cor­ re tra propaganda e ideologia. Sul piano strettamente letterario, l'età è caratterizzata da un'eccezionale, irripetibile densità di capolavori. Nel giro di un ventennio sono attivi Virgi­ lio, Orazio, Tibullo, Properzio, Ovidio. In un certo senso questi capolavori sono voluti e attesi, quasi persino pianificati. Mecenate, il ministro di Augu­ sto "per la cultura", sceglie le giovani promesse e le incoraggia a comporre grandi opere: il suo circolo, fondato su stretti legami privati e individuali, promuove una letteratura "nazionale", di grande diffusione, non piu ripiega­ ta su temi privati e su difficili elaborazioni d'avanguardia (diversamente da quel che era avvenuto nell'ambiente dei poetae novi). -

Certo lo studio dei capolavori prodotti in questo periodo può facilmente eclissare una considerazione piu minuta del tessuto connettivo fatto di letterati minori (alcu­ ni, minori solo ai nostri occhi, per la perdita dei loro testi) : tra questi, emerge VARIO RuFO, autore di una tragedia molto celebrata, il Thyestes, e di un poema De morte (for­ se un'opera didascalica di ispirazione epicurea); fu lui a introdurre Orazio presso Me­ cenate (Orazio, Sermones, I 6 ss). Accanto al circolo di Mecenate, anche se piu indi­ pendenti rispetto alle linee del progetto augusteo, opera quello di AsiNIO PoLLIONE, storico di valore, polemista e critico d'ingegno, che esercitò una sorta di fronda al

2 · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ AUGUSTEA nuovo regime: egli fondò la prima biblioteca pubblica di Roma e incoraggiò la prati­ ca delle recitationes, conferenze pubbliche che servivano a divulgare in anteprima nuo­ vi testi. Altrettanto indipendente rispetto alle linee del progetto augusteo è il circolo di Marco Valerio Messalla, notevolissimo oratore ed erudito assai impegnato, che eb­ be tra i suoi protetti Tibullo.

2.1.2. La letteratura tra pubblico e privato La poesia romana, ormai, si sente matura per competere con i grandi au­ tori della Grecia classica. Ogni testo poetico si sceglie modelli illustri: Virgi­ lio guarda a Omero, Orazio ad Alceo, Properzio a Callimaco e all'antico Mimnermo. Anche gli autori della latinità arcaica riproponevano e spesso dichiaravano l'originale che avevano tradotto, contaminato, adattato. Ma i poeti augustei annunciano di voler (( rifare » Omero, Alceo, Callimaco, quasi di sostituirsi a loro nell'imitazione dei posteri. Virgilio, per esempio, lavora con terribile accanimento formale a ricreare per sé un nuovo stile epico nu­ trito di Omero; ma la sua scommessa non è solo quella di un'emulazione formale : l'intenzione di Virgilio è di ricreare un testo epico che abbia a Ro­ ma la stessa centralità culturale che Omero ha avuto per i Greci. Il confronto con i Greci comportava anche uno sforzo di allargamento dei temi e delle esperienze mitopoietiche - non piu, come era stato per i poetae novi, uno sforzo soprattutto formale ed espressivo. Virgilio dà forma al gran­ de mito della campagna italica; Orazio parla, nelle Odi Romane, alla comuni­ tà di tutti i cittadini, su grandi temi civili e morali. Certo, comunque, la le­ zione dei poetae novi, il loro raffinato travaglio formale, era ormai una con­ quista irrinunciabile. Ma accanto alla voce alta e impegnata di alcuni poeti che scelgono temi "grandi" e pubblici, c'è un'altra vocazione poetica che presuppone un modello di vita tutto ripiegato sul "privato", estraneo ai do­ veri e alla partecipazione politica: nasce di qui il grande slancio che prende il nuovo genere elegiaco, ma anche questo ripiegamento non è che l'altra fac­ cia del nuovo modello politico. Il poeta può rivolgersi ad Augusto con grati­ tudine, come a colui che garantisce la pace e regge lo Stato nella sicurezza: grazie a questo nuovo ordine, ora l'Amore può finalmente diventare l'unica cosa seria cui può dedicarsi il poeta. Gli elegiaci respingono qualsiasi esalta­ zione "epica" del valore nazionale e della missione civilizzatrice di Roma: « Amore - dicono - è dio di pace >> (Properzio, 3 5 1). l:etichetta di (( letteratura augustea >> non solo rischia di oscurare la conti-

IV

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STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

nuità di temi ed esperienze che erano presenti nella letteratura tardorepub­ blicana, ma (cosa ancora piu grave) rischia di oscurare la svolta che si può co­ gliere all'interno della letteratura augustea tra autori della prima generazio­ ne (che avevano vissuto la terribile peste delle guerre civili, e che da quel tormento avevano tratto sentimenti e pensieri profondi: a loro la pax Augusta aveva portato un sollievo trepido, non dimentico dei mali passati) e autori della seconda generazione (che avevano fin dall'inizio sentito la pace come un bene stabile) : questi piu giovani letterati non avevano conosciuto le tem­ peste della Repubblica morente, ma nemmeno ne avevano ricevuto le solle­ citazioni spirituali, ed erano perciò piu soggetti - come Ovidio, per esempio - al fascino delle scuole di declamazione. Certo è che l'ultima fase del principato di Augusto è tempestosa, decisa­ mente piu autoritaria (anche se in modo pur sempre coperto); anche il clima letterario è diverso. Dopo Virgilio, la poesia sembra dividersi a forbice: o si fa celebrativa (priva della tensione che animava per esempio l'Eneide, capace di esaltare Roma ed Augusto, ma anche di esprimere l'amara consapevolez­ za che la storia gloriosa del vincitore aveva richiesto le sue vittime, vittime che pure avevano le loro ragioni e meritavano di far sentire la loro voce) op­ pure diventa apolitica e disimpegnata. Lo stesso Orazio, nell'ultima fase del­ la sua produzione, non riuscirà ad evitare il rischio della cortigianeria. 2.2. VIRGILIO Bibliografie: M.T. MoRANO RANDO, Bibliografia virgiliana (1937-196o), con Addenda agli 'Studi Virgiliani del secolo XX (1goo-1936)' di Giuliano Mambelli, Genova 1987; W. SuERBAUM, Hundert]ahre Vergil-Forschung. Bine systematische Arbeitsbibliographie mit beson­ derer Beriicksichtigung der Aeneis, in ANRW, n ]III 1980, pp. 3-358; 31/2 1981, pp. 1353-99. Commenti generali: TH. LADEWIG-K. ScHAPER, Berlin I85o-18531 : I. Ed., Georg., rivi­ sto da P. jAHN (ivi 19159), n. Aeneis, I-VI, rivisto da P. JAHN (ivi 191213), m. Aeneis, VII-XII, rivisto da P. DEUTICKE (ivi 19049); J. CoNINGTON (London I858-I8711), rivisto da H. NETTLESHIP (ivi 1881-18844). Inoltre: Enciclopedia Virgiliana, Roma 1984-1987; N.M. HoRSFALL, A companion to the study ofVergil, Leiden 1995.

2.2.1. Le 'Bucoliche' Publio Virgilio Marone era nato vicino Mantova, il 15 ottobre del 70 a.C., da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. I luoghi della sua educazione devono essere stati Roma e Napoli, ma tutta la cronologia dei suoi anni giovanili è molto discussa.

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ AUGUSTEA

La prima opera sicura del poeta sono le Bucoliche, una raccolta di dieci componimen­ ti pastorali che imitano gli Idilli del greco Teocrito. La datazione di questa raccolta si collega ad un episodio non del tutto chiarito nella biografia del poeta. La storia di al­ cuni dei pastori che compaiono nell'opera, costretti ad abbandonare i loro poderi, adombra il dramma dei contadini mantovani espropriati delle loro terre nel 41 a.C., quando Ottaviano e Antonio ordinarono le confische destinate a compensare i solda­ ti che avevano combattuto a Filippi l'anno prima. Una notizia, formatasi assai presto nell'antichità, vuole che Virgilio stesso avesse perso nelle confische il podere di fami­ glia. Piu tardi, l'intervento di un potente personaggio glielo avrebbe fatto riacquista­ re. Sul nucleo originario della notizia si formò poi un romanzo biografico che coin­ volge l'interpretazione allegorica di numerosi passi delle Bucoliche. Oggi è molto dif­ ficile districare un fondo di verità.

Bucoliche significa 'canti dei bovari', e il titolo racchiude il tratto fonda­ mentale di questo genere letterario, che rievoca uno sfondo rustico in cui i pastori stessi sono messi in scena come attori e creatori di poesia. Come ab­ biamo detto, Virgilio si ispira ai carmi (gli Idilli) di TEOCRITO. I.:incontro di Virgilio con il genere praticato dal poeta greco fu straordinariamente felice. Virgilio si mette a studiare Teocrito, i suoi imitatori greci del 11-1 secolo, e persino i commentatori del poeta: si trasferisce, per cosi dire, all'interno di quel genere letterario, la bucolica, imparandone i codici come si fa pratica con una lingua straniera. Il risultato non si può ridurre a un semplice pro­ cesso imitativo. Non esiste, in pratica, una singola egloga virgiliana che stia in rapporto "uno ad uno" con un singolo idillio. La presenza di Teocrito è stata risolta in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera, realmente, sta alla pari con il modello. In questo senso, le Bucoliche ancora vicine al gusto dei poetae novi per dottrina, stilizzazione, culto della poesia sono davvero il primo testo della letteratura augustea: già ne interpretano l'esigenza di fondo, > i testi greci trattandoli come classici. -

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In omaggio al principio alessandrino della "varietà" (1tounÀia), la raccolta di Teocri­ to si allargava ad un repertorio relativamente ampio di temi, ambienti, situazioni. Vir­ gilio riduce sensibilmente i confini del genere idillico, i temi che possono essere af­ frontati da questa poesia "tenue". Per esempio, rinunciando alle ambientazioni cittadi­ ne. Ha scritto il grande umanista Giulio Cesare Scaligero che > (4 I 64): sul modello degli Aitia, egli studierà e canterà appunto le origini dei nomi, dei miti, dei culti di Roma (4 I 6 9). È cosi che, intorno al 16 a.C., vede la luce il suo IV libro di elegie. «

La poesia civile di Properzio non avrà, in genere, la gravitas di tanta poesia naziona­ le. La Roma arcaica e il mondo del mito sono per lo piu interpretati secondo il gusto callimacheo, che dà spazio alla grazia, all'ironia, talora a una leggera e garbata comi­ cità (come nell'elegia 9, su Ercole), talora anche al pathos della poesia d'amore (come nella quarta, su Tarpea). l.;amore infatti non è assente dall'ultima raccolta di Proper­ zio, e non è assente nemmeno Cinzia, ma la sua figura ricompare qui nella luce fosca del vizio e della corruzione (4 8), oppure torna, come ombra dopo la morte, a rievo­ care l'amore di un tempo e a ribadirne l'eternità tante volte proclamata dal poeta (4 7). Ma un aspetto importante, nel IV libro, è la rivalutazione dell'eros coniugale, l'e­ saltazione degli affetti familiari e delle virru domestiche (soprattutto nell'elegia 3, la lettera di Aretusa al marito lontano Licota, e nella n, il celebre epicedio di Cornelia). Properzio ha fama di poeta difficile, talora oscuro. Di fronte alla cristallina natura­ lezza di Tibullo, il suo stile si caratterizza per la concentrazione, la densità metafori­ ca, la sperimentazione costante di nuove possibilità espressive. }.;eredità callimachea, evidente nella dottrina mitologica e nella raffinatissima coscienza letteraria, si mani­ festa anche nella ricerca attenta della iunctura insolita, spesso audace, della struttura sintattica complessa, tesa e talora sforzata fino all'oscurità. Queste caratteristiche del­ lo stile e dello sviluppo compositivo dell'elegia properziana hanno contribuito ai gua­ sti da cui è complicata, e spesso irrimediabilmente sfigurata, la tradizione manoscrit­ ta del poeta (soprattutto quella del II libro) : non si tratta soltanto di corruttele, lacu­ ne, trasposizioni, ma spesso è anche arduo fissare con certezza i confini tra un'elegia e la successiva. È questo infatti il tratto piu tipico dello stile di Properzio: quell'esor­ dire ex abrupto (I 8: Tune igitur demens . . ?; I I7: Et merito . . .), quel procedere per movi­ menti improvvisi, per scatti, immagini e concetti senza esplicitare i collegamenti, ma seguendo una logica interna e segreta. Bibliografia: P. fEDELI-P. PINOTTI, Bibliografia Properziana (1946-1983), Assisi I985. Rassegna degli studi: W.R. NETHERCUT, Recent Scholarship on Propertius, in ANRW, 11 30!3 I983, pp. I813-57. Commenti: M. RoTHSTEIN, Berlin I8981, 19663; H.E. BuTLER­ E.A. BARBER, Oxford I933; W.A. CAMPS, Cambridge I96I-I967. Singoli libri, tra gli al­ tri, a cura di: PJ. ENK, Leiden I946 (l. I); ivi I962 (l. II); P. FEDELI, Firenze I980 (1. 1) ; Bari I985 (l. m) ; ivi I965 (l. Iv). .

2.5. PuBuo Ovmio NAsONE 2.5.1. Premessa Ultimo dei grandi poeti augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo 292

2

·

LA LETTERATURA DELL'ETÀ AUGUSTEA

alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena lettera­ ria quello spettro è ormai lontano, la pace è consolidata e cresce l'aspirazio­ ne a forme di vita piu rilassate, a un costume meno severo, agli agi e alle raf­ finatezze che le conquiste orientali hanno fatto conoscere a Roma e che in­ formano la società mondana della capitale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete, senza tuttavia contrapporsi rigidamente al regime e alle sue diret­ tive ideologiche, ed elabora un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto e allo stile di vita del suo tempo. Ovidio sperimenta un po' tutti i generi importanti della letteratura (l'elegia, l'epos, l'epistola, la trage­ dia). Ma non dobbiamo pensare che la sua carriera poetica - questo suo at­ traversare tutti i generi della letteratura - sia ispirata perciò a superficialità, calligrafismo, vuoto o futile formalismo. In questa prova di forme diverse, che procede per successivi ampliamenti d'orizzonte, sta tutta una diversa poetica, una nuova concezione del rapporto tra vita e letteratura. Poeta pie­ no di ironie e scetticismi, Ovidio non crede troppo che la poesia imiti dav­ vero la vita, che riproduca esperienze biografiche "reali" o eventi effettiva­ mente accaduti; è anzi decisamente contrario alla teorizzazione aristotelico­ oraziana, secondo la quale la poesia e di « manierismo » (di quest'ultimo soprattutto a proposito del

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IV • STORIA DELLA LETTE RATU RA LAT I NA gusto per i paradossi e per la concettosità, che nello stile di Lucano non ha meno pe­ so di quello per lo stile tumido). I.:io del poeta è praticamente onnipresente per giu­ dicare e spesso per condannare in tono indignato. Di qui la straordinaria frequenza, nella Pharsalia, delle apostrofi, e, in generale, degli interventi personali del poeta a commento degli eventi che sta narrando. È, indubbiamente, uno stile che di rado conosce dominio e misura: per questo, es­ so può rapidamente saziare il lettore. Ma, altrettanto indubbiamente, questo stile non è solo frutto dell'adesione alle mode letterarie del tempo: la tensione espressiva del­ l'epica lucanea si alimenta dell'impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile {Romani contro Romani) poteva ancora continuare a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genere epico offriva? La tradizione epica aveva costruito tutto un linguaggio complesso, capace di dare l'attraente forma di narrazione ai grandi modelli culturali e ai valori cui si ispirava la società romana. Lo stile grande e solenne di questi poemi, che significativamente si servivano di una lin­ gua dalle coloriture arcaiche, era quello che, nella gerarchia dei generi letterari, face­ va dell'epos la piu alta forma di espressione poetica. Ma a questo compito di positiva commemorazione dei grandi modelli eroici, l'epos non può piu far fronte ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme lette­ rarie che lo raccontavano; e insieme ha generato nuove aspettative nel pubblico. Lu­ cano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente insufficien­ te ai suoi bisogni. Piu che tentare una rifondazione del linguaggio epico, egli cerca un rimedio di compenso nell'ardore ideologico con cui ne denuncia la crisi. Cosi la pre­ senza di un'ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguag­ gio, diventa anzi tutta e solo linguaggio, perché viene gridata, ostentata: propugnara linguisticamente {in sententiae costruite ad effetto o in antitesi freddamente intellet­ tualistiche) si riduce a "retorica". Ma la retorica che anima questo linguaggio non è segno di vana artificiosità ornamentale, bensf è il gesto di uno stile che, paradossal­ mente, per ritrovare la sua autenticità, per essere sicuro di non tradire con le parole il messaggio di un'ideologia disperata, non può piu affidarsi ad un'espressione semplice e diretta, ma di necessità parla ricorrendo agli schematismi enfatici del discorso reto­ rico. Spetta cosi alla retorica, ai suoi costrutti laboriosi e calcolati, di compensare la perdita di credibilità in cui sono cadute le forme semplici del linguaggio epico. Edizione fondamentale: A.E. HousMAN, Oxford 1926. Bibliografia: W. RuTZ, Lu­ cans 'Pharsalia' im Lichte der neuesten Forschung, in ANRW, II 32/3 1985, pp. 1457-537· Commenti a singoli libri: D. GAGLIARDI, Napoli 1989 {L 1) ; E. FANTHAM, Cambridge 1992 (L 11) ; V. HUNINK, Amsterdam 1992 (L m);JJ.L. SMOLENAARS, Leiden 1994 (J. vu).

3-1.4·3 · Petronio Arbitro La figura del Petronio di cui parla Tacito nel XVI libro degli Anna/es sembra rita-

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3

· LA LETTERATURA DELL ' ETÀ IMPERIALE

gliata per il ruolo dell'autore del Satyricon, il Petronius Arbiter al quale i codici e le rare notizie antiche intestano il romanzo. Esteta per posa e per scelta di vita, il Petronio di cui racconta Tacito aveva saputo dimostrare sangue freddo e capacità intellettuali in incarichi importanti di governo. Coinvolto poi in uno dei tanti intrighi di palazzo, la sua morte è coerente al personaggio anticonformista che egli si era costruito. Mentre si lascia lentamente dissanguare, Petronio riceve i propri amici, banchetta con loro discutendo di argomenti brillanti e di poesia leggera. Da ultimo si abbandona al son­ no, rinunciando a fare dei propri ultimi attimi un evento memorabile, uno specchio di virru e di coraggio. Signore della parodia letteraria, Petronio gestisce la propria morte come una parodia della morte eroica di certi severi personaggi del suo tempo. In realtà non ci sono prove indiscutibili di questa identificazione, indubbiamente fa­ scinosa. Ma molti indizi di datazione desunti dal testo stesso, tra cui in primo luogo lo stile, concordano con l'ipotesi che riporta il romanzo all'età di Nerone. Il modo in cui si è formato il testo del Satyricon che abbiamo è assai problematico. Di certo si può dire che siamo di fronte a un frammento di narrazione che nelle sue grandi linee è continuo, ma che deve aver subito qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. La parte piu integra è il famo­ so episodio della Cena di Trimalcione; è chiaro che esso esercitava su chi ha manipola­ to l'opera di Petronio un'attrattiva particolare. Di sicuro, il testo che abbiamo era pre­ ceduto da un lunghissimo antefatto (narrato in 14 libri, stando alle indicazioni dei co­ dici) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio, l'unico personaggio (oltre a Gitone) che compare in tutti gli episodi del romanzo. Encolpio attraversa una successione indiavolata di peripezie, e il ritmo del racconto è variabile; talora scarno e riassuntivo, a volte - come nella cena in casa di Trimalcione - lentissimo e ricco di dettagli realistici.

Nella costruzione narrativa dell'intero Satyricon, il principio piu importan­ te se mbra essere quello della parodia letteraria: l'arte, comica ma anche ri­ flessiva, di parlare "addosso" ad altra letteratura, e attraverso di essa, come esprime n do la propria verità attraverso la deformazione di quella altrui. E, nella complessa trama delle associazioni parodiche che il lettore antico dove­ va riconoscere, il primo livello è quello dell'antiromanzo: il Satyricon, infatti, rovescia tutte le convenzioni piu significative e caratteristiche dei romanzi grea.

I romanzi greci sono uniti da una notevole omogeneità e permanenza di tratti di­ stintivi. Soprattutto, la trama è quasi invariabile: si tratta delle traversie di una coppia di innamorati, un giovane e una ragazza che vengono separati dalle avversità e, prima di riunirsi e coronare il loro amore, superano mille avventure e pericoli. Gli intrecci stanno tutti nella serie degli incidenti che ritardano il felice scioglimento. Il tono è

IV • STORIA DELLA LETTERATU RA LATINA

quasi sempre serio, o almeno, i protagonisti e il loro amore sono presi sul serio, visti come figure patetiche che muovono simpatia. Lo scenario può invece variare, spa­ ziando nei paesi del Mediterraneo grecizzato: scarso è l'interesse per la realtà con­ temporanea, tenue l'inquadramento storico. I.:amore è trattato con pudicizia, come una passione seria ed esclusiva: molta suspense della storia sta nei modi avventurosi con cui l'eroina conserva fino in fondo la sua castità per il giovane che ama, sfuggen­ do alle insidie piu svariate.

Almeno nella sua struttura fondamentale, anche il Satyricon racconta le av­ venture di una coppia di amanti. Ma nel romanzo di Petronio l'amore è visto in modo ben diverso. Non c'è spazio per la castità, e nessun personaggio è un serio e credibile portavoce di valori morali. Il protagonista è sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo, e il suo partner preferito è maschile; il ses­ so è trattato esplicitamente ed è visto come una continua fonte di situazioni comiche. Il legame omosessuale di Encolpio e Gitane, insomma, sarebbe co­ me la parodia dell'amore casto ed idealizzato che lega i fidanzati del roman­ zo greco. Già il titolo dell'opera denuncia l'operazione letteraria che presiede alla formazio­ ne del testo: Satyrica (Satyricon [� a·ruplxWII) libri) è apparentemente formato per con­ taminazione parodica, dove il suffisso -lx& fa il verso a romanzi greci che dovevano avere titoli analoghi ad alcuni a noi noti, per es. Aifiwmxli, KU1tplaxli, otvlxlxa, 'Eq>emax&, MlÀT)max&, Aea�lax&, mentre la designazione, di satura indica il modo parodico tenuto dal racconto (non saprei dire se ci si vuol riferire al genere letterario della satira o all'intervento corrosivo dei satiri, che nel dramma aggrediscono le con­ venzioni della letteratura alta).

Il romanzo di Petronio insomma finge di appartenere ad una letteratura "popolare" di intrattenimento e di consumo (la stessa estensione inedita del­ l'opera - almeno 16 libri, e forse molti di piu - fa pensare ai caratteri di un raccontare infinito, tipicamente "di massa"). Cosi la narrativa romanzesca e quella comica (le piccanti "storie milesie" di cui sappiamo pochissimo) di­ ventano il referente piu immediato dell'opera petroniana. Ma da sempre la letteratura "bassa", convenzionale e di consumo, guarda come modello alla letteratura impegnativa e sublime, ai generi poetici maggiori (l'epica, la tra­ gedia), e ne fa proprio - come volgarizzandolo - tutto il vocabolario dei ge­ sti retorici piu vistosi: i procedimenti narrativi d'effetto, i meccanismi della sorpresa, le tecniche del patetico e del dramma (è l'essenza di quello che la critica moderna ha chiamato Kitsch letterario). È proprio nella consapevolez-

3 · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ I MPERIALE za di questo carattere che il Satyricon trova il registro della parodia e ne fa il

principale del proprio racconto: riconosce e rappresenta in sé - fa­ cendone la caricatura - una letteratura "popolare" nostalgica della poesia sublime. codice

Per fare un esempio. Nei romanzi greci che conosciamo - tardi, questi, ma rap­ presentativi di romanzi di consumo piu antichi -, le avventure di viaggi e di ritorni si rifanno spesso al modello narrativo dell'Odissea. È un modo di alzare il tono, di nobi­ litare la storia che si racconta. Nel Satyricon le peripezie di Encolpio e degli altri per­ sonaggi diventano un'« odissea >> di pitocchi, che allude spesso alle disavventure capi­ tate all'eroe di Omero, Ulisse. Encolpio ed i suoi compagni sono protagonisti solo passivi degli eventi che accadono e li coinvolgono. Essi non portano avanti l'azione; piuttosto la commentano quando è accaduta, o sta per accadere. Studenti sbandati, Encolpio e i suoi amici hanno come l'ossessione di ritrovare grandi miti e modelli della letteratura nelle disavventure che capitano loro; la narrazione stessa sembra spesso portata avanti proprio dall'intenzione di intersecare nuovi e piu alti riferimen­ ti letterari: l'Odissea, certe tragedie di Euripide, molta storiografìa romanzata, i grandi esempi del mito. Questi modelli spesso sono proprio i personaggi a scoprirli e discu­ terli:« vedete, ci capita come a Ulisse, quando entrava nell'antro del Ciclope »; oppu­ re, «non comportatevi come i fratelli della tragedia tebana » (cioè Eteocle e Polinice delle Fenicie euripidee). L'effetto è spesso di una comicità trascinante, ma non vuole rivolgersi contro i grandi modelli della letteratura "seria" e sublime: si sorride piutto­ sto della letteratura di consumo, colta nel suo guardare con nostalgia a quella lettera­ tura alta e lontana; e insieme si denuncia la degradazione che la grande cultura ha sofferto per effetto delle scuole di retorica e per la moda delle declamazioni ampol­ lose e vacue.

Ma il Satyricon è debitore anche della tradizione delle satire menippee. La prosa narrativa è interrotta, con apprezzabile frequenza, da inserti poetici: al­ cune

di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, soprattut­

to a quella di Eumolpo, che, anche in situazioni poco opportune, dà spazio alla su a torrenziale vocazione poetica; è il caso della Presa di Troia (Troiae ha­ losis, 89) e della Guerra civile (Bellum civile, 119-24), per citare le inserzioni piu lunghe. Questi inserti sono "motivati" e hanno come uditorio i personaggi

del romanzo. Ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interven­ ti de l narratore, che nel vivo della sua storia abbandona la relazione degli av­ venimenti per commentarli. Spesso questi commenti hanno una funzione ironica, perché il commento poetico non corrisponde, vuoi per stile e per li­ vello letterario, vuoi per contenuto e orientamento, a quella situazione in cui dovrebbe inquadrarsi. Ne derivano dei contrasti, degli sbalzi tra aspetta327

IV • STORIA DELLA LETTE RATURA LATINA

rive e realtà, tra illusioni materiate di fantasmi (fantasmi a loro volta nutriti di cultura e di letteratura) e brusche ricadute anche di volgarità brutale. Il Satyricon deve dunque molto alla narrativa (sia seria che comica) per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea per la tessitura formale (il "prosimetro"), pur trascendendo, in complessità e ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Ma il dato piu originale della poetica di Petronio è forse la sua forte carica realistica, un carattere che lo distingue nettamente dal romanzo greco. !;autore del Satyricon ha un vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che (come si vede dalla Cena di Trimalcione) per il loro linguaggio quotidiano, e ci porta in luoghi tipici e fondamentali del mondo romano: la scuola di retorica, il tempio, la piazza del mercato, e cosi via. Ma la categoria interpretativa del "realismo" è sempre debole e ambigua. La trama del Satyricon - con le sue peripezie, i suoi colpi di scena, le sue invenzioni - è altret­ tanto inverosimile di quella dei tardi romanzi greci; i suoi personaggi (Encolpio, Eu­ molpo, Trimalcione . . .) sono sostanzialmente caricaturali, ci piace immaginarli con la grottesca maschera della commedia. Ma anche dove lo studio "realistico" appare piu fedele, dove il parlato e i pensieri appaiono quelli di personaggi "reali", è facile rico­ noscere la parodia di famosi episodi letterari, la caricatura di libri che il lettore antico doveva conoscere bene. Del resto non c'è in tutto il Satyricon una sola voce del tutto attendibile, portatrice di una verità che il lettore possa credere; anche nell'episodio dei liberti a tavola nella Cena (dove i personaggi esprimono i propri pensieri con quella che pare la massima naturalezza) sembra prevalere l'effetto di un'affabulazio­ ne e di uno spettacolo a tratti assurdo e surreale. Bibliografia: G. ScHMELING-J.H. STUCKES, A Bibliography ofPetronius, Leiden 1977; M.S. SMITH, A Bibliography oJPetronius (1945-1982), in ANRW, 11 32/3 1985, pp. 1624-55. Ed. commentata della Cena: M.S. SMITH, Oxford 1975. Studio: G.B. CoNTE, [;autore nascosto: un'interpretazione del 'Satyricon', Bologna 1997. p.s.

La satira: Persio e Giovenale

p.s.I.

Le trasformazioni della satira dopo Orazio

Anche se la rispettiva produzione poetica è separata da circa mezzo seco­ lo (l'uno scrive sotto Nerone, l'altro, nato tra il so e il 6o d.C. e morto sicu­ ramente dopo il 127, nell'arco di tempo da Nerva a Adriano) , Persia e Giove­ nale mostrano importanti tratti comuni. Tutti e due si collocano program­ maticamente nella tradizione di Lucilio e Orazio, ma in realtà questo gene­ re letterario conosce con essi una trasformazione piuttosto marcata. Le inno­ vazioni sono vistose sia nella forma del discorso satirico sia per quel che ri-

3 LA LETTERATURA DELL ' ETÀ I MPERIALE ·

guarda la destinazione sociale delle opere. Le satire di Lucilio e Orazio, ad esempio, assumevano come verosimile riferimento la cerchia degli amici, mentre quelle di Persia e Giovenale, pur se formalmente rivolte a un desti­ natario singolo, sono in realtà dirette a un pubblico generico di lettori-ascol­ tatori, di &onte ai quali il poeta si atteggia a censore del vizio e dei costumi. La forma del discorso non è piu quella della conversazione "costruttiva" che, mentre guarda ai difetti umani, si dispone a sorridere e a far sorridere, e fa­ ceva nascere, nella satira oraziana in particolare, una sorta di complicità &a autore e ascoltatore. Ora invece all'ascoltatore è negata ogni vicinanza e ogni possibile identificazione, e la parola del poeta satirico si pone su di un piano diverso di comunicazione: distaccato e piu in alto. La forma dell'invettiva prende il posto del modo confidenziale e garbato, del sorriso autoironico, dell'indulgente comprensione per le comuni debolezze umane che caratte­ rizzava la satira oraziana. Il poeta, mentre si erge a correggere gli uomini, fa sue quelle forme di moralismo arcigno (il rigorismo cinico-stoico) che pro­ prio la satira oraziana aveva rifiutato, anzi irriso, come uno degli eccessi da cui guardarsi. Accanto a questo mutamento di posizione e di ruolo del poe­ ta satirico, si notano nella poesia di Persia e Giovenale i segni vistosi di un nuovo gusto letterario; sono le spinte anticlassiche di quel "manierismo" che nasce in reazione al classicismo dell'età augustea e fiorisce nel I sec. d.C. e oltre. Ma al di là di altri fattori, la trasformazione dei caratteri formali della satira post-oraziana si deve anche alle mutate modalità della sua produzione e destinazione: prima che alla lettura individuale, la satira di Persia e Giove­ nale è destinata all'esecuzione orale, alla recitazione in pubblico, e punta na­ turalmente a far colpo sull'uditorio: il ricorso ai procedimenti piu appari­ scenti della retorica è direttamente funzionale a tale scopo. J.I.s.2. Aula Persia Fiacco

Persia era nato a Volterra nel 34 d.C. (mori, non ancora ventottenne, nel 62) da una famiglia ricca e nobile. Rimasto presto orfano di padre, fu man­ dato a Roma per proseguire la sua educazione nelle migliori scuole di gram­ matica e retorica, ma il maestro che segnò un'impronta decisiva nella sua vi­ ta fu il filosofo stoico Anneo Cornuto. La "conversione filosofica" di Persia ebbe importanza decisiva sulle sue scelte poetiche. I.:influsso della dottrina stoica, che aveva una concezione essenzialmente moralistico-pedagogica della letteratura, e la forte tensione morale che animava il giovane poeta lo 329

IV • STO RIA DELLA LETTERATURA LATINA

spinsero quasi inevitabilmente verso il genere satirico. Il suo spirito polemi­ co, e l'entusiastica aspirazione alla verità, trovavano nella satira lo strumento piu adatto ad esprimere il sarcasmo, l'invettiva, l'esortazione morale. Persio afferma piu volte che la sua poesia è anzitutto ispirata da un'esigenza etica, dalla volontà di smascherare e combattere vizio e corruzione, e si contrap­ pone perciò polemicamente alle mode letterarie del tempo. Per Persia la de­ generazione del gusto estetico e letterario è tutt'uno con la degenerazione dei costumi e delle coscienze. Per questo, probabilmente, egli, nei coliambi programmatici che introducono il libro delle sue Satire, si definisce semipaga­ nus: rivendicando per sé la qualifica della rusticitas, Persia vuole contrapporsi all'insulsa preziosità della poesia alla moda, per assumersi il compito di ag­ gredire, con violenza redentrice, le coscienze. La sua attività letteraria e filo­ sofica insieme si configura quindi come una drastica operazione di chirurgia morale: radere, defigere, revellere sono i singoli atti di questa severa pratica tera­ peutica, che ricorrono qua e là a indicare quel processo di "scrostamento" delle apparenze ingannevoli che è necessario per una radicale rigenerazione delle coscienze. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio e la corruzione dell'uomo si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un particolare campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttandone il ricco patrimonio metaforico. L'immagine ossessiva del ventre diventa il centro attorno a cui ruota l'esistenza dell'uomo, e l'emblema stesso della sua ambizione {l'assimilazione fra vizio morale e malattia fisica era un presupposto comune della filosofia stoica, e della sua terapia delle passioni). Proprio in quest'ambito, anzi, Persia ci dà alcuni dei suoi quadri piu celebri, dove meglio ri­ salta quel gusto della deformazione macabra del reale che è tipico dello sguardo allu­ cinato del moralista: il poeta calvo e dal ventre disfatto della prima satira {56 sgg.), o il giovane riccone della terza, abbrutito dal sonno e dai bagordi {3 sgg.), o il gaudente depravato disteso al sole {4 33-41), o, ancora, il quadro intensamente espressionistico del crapulone morente al bagno fra i miasmi esalati dal suo corpo {3 98 sgg.). Diciamo che, ad animare i versi delle Satire, concorrono insieme una forte esigen­ za realistica e una forte carica di deformazione surreale, baroccheggiante. L'esigenza di realismo è all'origine, per esempio, della scelta di un linguaggio spesso ordinario, comune {i verba togae menzionati in 5 14), e della polemica contro certa retorica idea­ lizzante e stereotipata. Ma lo stile di Persia è tutt'altro che semplice, uguale alle cose, piano. Proprio il senso di una malattia morale {che abbiamo visto ossessionante nella scelta delle immagini) produce nessi contorti, quasi inesplicabili, metafore difficili, associazioni di idee spesso volutamente sgradevoli. La lingua quindi è quella quoti­ diana, ma lo stile si incarica di "deformarla", di forzarla ad esprimere una verità non banale, a illuminare aspetti nuovi della realtà, a istituire relazioni insospettate fra le

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3 · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ IMPERIALE cose, con esiti, talvolta, davvero criptici. Nella stessa direzione muove un altro tipico procedimento di Persia, cioè l'uso audacissimo della metafora, teso a esplorare rap­ porti nuovi fra le cose, e capace di effetti di straordinaria densità e potenza espressiva. Ora, è evidente che fra l'esigenza di naturalezza della lingua e la ricerca di audaci innovazioni espressive tenda ad aprirsi uno iato, che l'asserita volontà di chiarezza fi­ nisca per essere contraddetta dall'oscurità dell'artificio stilistico. Ciononostante, la proverbiale difficoltà dello stile di Persia non è, come si è creduto a lungo, il vezzo gratuito di un poeta scolasticamente lambiccato, o la forma espressiva - aspra e ur­ tante del rigorismo stoico cui le sue satire si ispirano, ma è funzionale alle istanze estetiche - e soprattutto etiche - della sua poesia: il rischio dell'oscurità è il prezzo da pagare a un'arte capace di bagliori accecanti. La difficoltà dell'espressione non per­ mette una lettura distaccata, ma di proposito sollecita il lettore e lo costringe a reagi­ re a un messaggio che riflette le contraddizioni del nostro vivere. Ed. commentate: R.A. HARVEY, Leiden 1981; W. KlssEL, Heidelberg 1990. -

J.I.s.J. Decimo Giunio Giovenale

La fatua letteratura del tempo è ridicolmente lontana - agli occhi di Gio­ venale - dalla profonda abiezione morale in cui versa la società romana tra il finire del I secolo e i primi decenni del secondo. Di fronte all'inarrestabile dilagare del vizio sarà l'indignazione la musa del poeta (si natura negat,Jadt in­ dignatio versum, 1 79), e la satira il tipo di poesia piu adatto a esprimere la furia del suo disgusto. Cosi, nella prima satira, Giovenale enuncia le ragioni della sua poetica e la centralità che in essa occupa l'indignatio, segnando con ciò uno scarto sensibile rispetto alla tradizione satirica latina. Al contrario di Orazio, e diversamente in questo anche da Persio, Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini: la sua satira si limiterà a denunciare, a gridare la sua protesta astiosa, senza coltivare illusio­ ni di riscatto. In realtà, il rifiuto di Giovenale è ancora piu generale, investe le fo rm e stesse del ragionamento e del giudizio morale, le categorie e gli schemi del pensiero moralistico romano, patrimonio di topoi della diatriba cinico-stoica. Sono appunto le risposte della morale diatribica che Giovenale rifiuta, di quella morale che insegna a restare indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete, e a perseguire invece le mete di una superiore nobiltà dello spirito Giovenale rigetta e demistifica questa morale consolatoria con lo sdegno dell'uomo offeso dal vedere il vizio e la colpa premiati e col ran­ core dell'emarginato, di chi si vede escluso dai benefici che la società elargi­ sce ai corrotti e costretto all'umiliante condizione del cliente. l:astio sociale, il sordo risentimento per la mancata integrazione, è una .

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IV

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STO RIA DELLA LETTERATURA LATINA

componente importante della satira « indignata >> di Giovenale, di questo rappresentante del ceto medio italico che nella vita quotidiana della cosmo­ polita capitale dell'Impero vede continuamente mortificati i valori morali e politici della tradizione nazionale e repubblicana. Al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente perversa, e ha stra­ volto il ruolo delle varie classi sociali, a cominciare dalla nobiltà che ha inde­ gnamente abdicato alle funzioni che le competono (come quella di proteg­ gere e promuovere la cultura, sul modello del grande mecenatismo augu­ steo) e si abbrutisce nei bagordi. La sua furia aggressiva non risparmia nessu­ no, accanendosi soprattutto sulle figure piu emblematiche della società e del costume della brulicante metropoli: i nuovi ricchi, i liberti, gli orientali, i let­ terati esposti al rischio della fame. Bersaglio privilegiato sono le donne, le donne emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita so­ ciale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore, e gli ispirano la lunga satira sesta, uno dei piu feroci documenti di misoginismo di tutti i tempi. Questa radicale avversione al suo tempo, e la rabbiosa protesta contro le ingiusti­ zie, contro l'oppressione e la miseria in cui versano gli umili e i reietti, hanno fatto parlare di un atteggiamento (( democratico >> di Giovenale, ma si tratta di una prospet­ tiva illusoria: al di là di qualche occasionale espressione di solidarietà nei confronti dei poveri e degli emarginati, il suo atteggiamento verso il volgo è di profondo irre­ vocabile disprezzo. L'orgoglio intellettuale, unitamente all'astio nazionalistico contro greci e orientali, gli consente al massimo di rivendicare per sé agiatezza e riconosci­ menti sociali, ma lo tiene lontano dal concepire velleità di solidarietà sociale. Piutto­ sto, la sua tendenza è verso l'idealizzazione nostalgica del passato, di un buon tempo antico governato da una sana moralità agricola e polemicamente opposto al corrotto presente cittadino. Questa fuga dal presente, questa utopia arcaizzante (motivo topi­ co del pensiero moralistico romano) sembra il solo esito cui l'indignatio giovenaliana può approdare, e costituisce l'implicita ammissione della sua frustrante impotenza.

Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell'opera di Giovenale, cioè negli ultimi due libri (satire 10-16), in cui il poeta rinuncia espressamente alla violenta ripulsa dell'ind�natio e assume un atteggiamento piu distaccato, mirante all'apàtheia, all'indifferenza degli stoici, riavvicinando­ si a quella tradizione diatribica della satira da cui si era drasticamente allon­ tanato. Mentre, nella tradizione precedente, proprio l'avere come oggetto la real­ tà quotidiana aveva fatto si che la satira adottasse un livello stilistico umile, 332

3 LA LETTERATURA DELL ' ETÀ IMPE RIALE ·

tono familiare e senza pretese (il sermo, appunto), adesso che questa real­ tà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l'ha popolata di monstra, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Non piu quindi stile dimesso, ma simile a quello dei generi letterari tradizionalmente opposti al­ la satira, l'epica e soprattutto la tragedia. Di questi non avrà un tratto essen­ ziale, la finzione, ma avrà l'altezza di tono, quella grandiosità di stile che sa­ rà conforme alla violenza dell'indignatio. Giovenale trasforma quindi profondamente il codice formale del genere satirico, recidendo il legame tradizionale con la commedia (bandendo cioè il ridiculum) e accostando la satira alla tragedia, sul terreno dei contenuti (che so­ no monstra) e dello stile, analogamente "sublime". Un procedimento consueto di Giovenale è il ricorso alle solenni movenze epico-tragiche proprio in coin­ cidenza con i contenuti piu bassi e volgari, a far risaltare per contrasto con l'al­ tezza della forma espressiva l'abiezione della materia trattata. Il suo realismo (che ci fornisce una ricca documentazione su usi e costumi della vita quoti­ diana del tempo) ha naturalmente una forte spinta deformante, che si esplica soprattutto nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza in cui trova sfogo la vena atrabiliare del moralista indignato. La sua espressione, sempre pronta a esplodere nell'iperbole, e in cui si scontrano - con effetto voluta­ mente urtante - toni aulici e plebei, parole alte e oscene, è icastica e pregnan­ te, densa e sentenziosa (molti versi di Giovenale sono diventati proverbiali). un

commentata: L. FRIEDLAENDER, Leipzig 1895. Commento : E. C ouRT NEY, Lon­ don 1980. Ed.

3.1.6. La letteratura di etàflavia J.I.6.r. I.:epica di età flavia

l.:epica di questo periodo guarda come modello a Virgilio. Ma l'Eneide, che per Lucano era stata uno stimolo all'innovazione, anche come trasgres­ sione, diventa adesso una sorta di rifugio e di orizzonte chiuso. Altrettanto importante, per i letterati flavi, è l'influsso di Ovidio, che determina soprat­ tutto le costanti dello stile narrativo. J.I.6.I.I. PuBuo PAPINIO STAZIO. - Stazio scrisse molto, anche la sceneg­ giatura di un pantomima di successo, l'Agàve. Oltre ai poemi epici (la Tebai­ de, I'Achilleide e il perduto De bello Germanico, sulle gesta di Domiziano), Sta­ zio è autore di cinque libri di Silvae. I metri e i temi variano, ma per lo piu le

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I V • STORIA DELLA LETTERATURA LATI NA

Silvae sono poemetti di ringraziamento o di lode rivolti a patroni e benefat­ tori del poeta. Raccolta di "schizzi", come il titolo vuole probabilmente si­ gnificare (Quintiliano, Institutio oratoria, 10 3 17), si atteggiano a poesie di oc­ casione, quasi improvvisazioni su aspetti di vita privata (passione per le arti, affettività familiare, estetismo e consumi di lusso) e di vita "borghese" (omaggi a pubblici funzionari inseriti nelle strutture del potere imperiale): il quadro di una società gerarchica, ove il poeta possiede un suo posto e una sua funzione, un mondo che ha il suo centro immobile nel simulacro divi­ nizzato del principe. Letterato professionale, Stazio produce una poesia col­ ta e sofisticata, che, per quanto sia segnata da una forte impronta cortigiana e conformistica, raggiunge punte di alta qualità letteraria. Bibliografia sulle Silvae: H CANCIK-H.-J. VAN DAM, Statius, 'Silvae'. Ein Bericht iibrr die Forschung seit Friedrich Vollmer (1898}, in ANRW, II 32/5 1986, pp. 2681-753 {dal 1898 al 1984). Commenti a singoli libri: H.-J. VAN DAM, Leiden 1984 (1. II); K.M. COLEMAN, Oxford 1988 (1. Iv) .

La storia della Tebaide, in 12 libri, è quella dei Sette contro Tebe. Oppo­ nendosi consapevolmente a Lucano, la scelta di Stazio appare chiaramente virgiliana: salvare l'apparato divino dell'epica, ma anche renderlo piu moder­ no con l'approfondire la funzione del Fato. Del resto Virgilio è il modello che Stazio, nel dodicesimo libro, dichiara di aver seguito, anche se « a grande distanza )) e con umile, quasi religioso, rispetto (12 816 sgg.). Ma la scelta di un tema cosi profondamente negativo come la guerra fratricida porta Stazio molto vicino alla posizione di Lucano, che aveva cantato plus quam civilia brl­ la. n risultato è un compromesso che avrà grande influsso nelle letterature occidentali. Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate o appiat­ tite: le forze divine piu vitali sono invece personificazioni di idee astratte, con tonalità persino allegoriche. Una ferrea necessità universale domina la storia: schiacciate dalle leggi del cosmo e della predestinazione, le figure umane sono a loro volta appiattite. Stazio concede molto poco alle sfumatu­ re psicologiche : da un capo all'altro del poema, Eteocle è il tipo assoluto del tiranno, Tideo l'incarnazione dell'ira, Capaneo un bestemmiatore, lppome­ donte una sorta di macchina da guerra. Altrettanto schematici i pochi perso­ naggi positivi. A completare questa visione manichea, gli undici libri sulla guerra dei Sette hanno una chiusa di compensazione: il trionfo della cle­ menza e dell'umanità portato dal civilizzatore Teseo, che impone di dare se­ poltura a tutti i caduti. 334

3

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LA LETTERATURA DELL ' ETÀ I M PE RIALE

l.:assenza di riferimenti diretti all'attualità romana non costringe Stazio a eludere gli incubi propri della sua epoca (si pensi invece, per la ricerca di evasione, all'Achil­ leide o a Silio Italico). Una guerra civile vista come scontro fra tiranni specularmente uguali; la degenerazione di una famiglia regnante in dispotismo fanatico; il problema etico del "vivere sotto i tiranni" rispettando comunque una regola morale. I.:insisten­ za su questi problemi - visti in uno scenario allucinato di fosca mitologia ancestrale rende la Tebaide una lettura promettente anche per gli storici della cultura romana. Commenti ai singoli libri: H HEUVEL, Zuitphen [s.a.] (1. I); H.M. MuLDER, Gro­ ningen I954 (1. n) ; F. CAVIGLIA, Roma 1973 (11. I-n); H. SNIJDER, Amsterdam 1968 (1. m); M. DEWAR, Oxford 1991 (1. Ix); R.D. WILLIAMS, Leiden 1972 (1. x); P. VENINI, Fi­ renze I970 (1. xi).

L:altro poema di Stazio arrivato sino a noi, l'Achilleide, è incompiuto, appe­ na un libro e l'inizio del secondo. Argomento del poema doveva essere la biografia di Achille, ma quello che abbiamo contiene soltanto la descrizione delle vicende del giovane eroe a Sciro. Il tono è piti disteso e idillico che nel­ la Tebaide, anche se il progetto di narrare tutta la vita di Achille rivela ambi­ zioni letterarie grandiose. Se avesse potuto continuare, Stazio si sarebbe tro­ vato di fronte Omero, alle porte Scee; e sin dal titolo l'opera sembra mirare - ancor piti che la Tebaide - a un rischioso confronto con l'Eneide. 3.1.6.1.2. VALERia FLAcco. - I.:opera di Valeria sono gli Argonautica, in set­

te libri compiuti e parte dell'ottavo. Valeria, pur ispirandosi ad Apollonia Radio, mira a una riscrittura autonoma della vicenda, con abbreviazioni, ag­ giunte, modifiche importanti nella psicologia dei personaggi e nel ritmo del racconto. Nei punti in cui Valeria segue da vicino il testo greco la sua riela­ borazione appare guidata dalla ricerca dell'effetto patetico e drammatico. Va­ leria fallisce, però, nella creazione di scene narrative articolate: l'impressione è quella di un modo di comporre per blocchi isolati, con piu attenzione al­ l'evidenza e all'effetto della singola scena che non alla perspicuità e alla co­ erenza dell'insieme. Il fondamentale influsso di Virgilio spinge Valeria ad una poetica "reazionaria": il tema è mitologico, l'apparato divino onnipre­ sente, l'impostazione morale del racconto senza dubbio edificante. Mentre Apollonia aveva fatto di Giasone un eroe problematico e chiaroscurale, Va­ leria riporta il suo protagonista a una scala di elevatezza epica. La narrazione di Valeria Fiacco esaspera la propensione virgiliana allo stile sogget­ comporta una continua psicologizzazione del racconto, al punto da soppri­ mere addirittura la descrizione di particolari o la narrazione di eventi, anche necessa­ ri alla comprensione del testo. Ne risulta un testo narrativo difficile, spesso oscuro. tivo: ciò

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IV

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STORIA DELLA LETTERATU RA LATI N A

Bibliografia: M. ScAFFAI, Rassegna di studi su Valeria Flaao (1938-1982), in ANRW, 11 32/4 1986, pp. 2359-447. Conunenti ai singoli libri: H.M. PooRTVLIET, Amsterdam 1991 (1. u); HJ.W. WIJSMAN, Leiden 1996 (1. v); H. STADLER., Hildesheim 1993 (1. vn).

3 .1.6.1.3 . SILIO ITALICO. I.:amore di Silio per Virgilio era diventato una mania. Silio faceva incetta di cimeli del poeta, e addirittura si era comprato il luogo del sepolcro di Virgilio. In questa mentalità da collezionista sembra ben rappresentato lo spirito in cui l'anziano ex-console si accinge a produrre letteratura in prima persona. La sua opera è una fredda galleria di busti sto­ rici e curiosità antiquarie, raccolti con sincera ma indiscriminata passione. I Punica, il piu lungo epos storico latino giunto a noi, raccontano la seconda guerra punica: un argomento già trattato da Nevio e da Ennio, anche se di nessuno compaiono imitazioni sicure; evidente è invece l'uso dell'opera di Tito Livio. Ma l'impulso fondamentale venne dall'Eneide. La guerra di Anni­ bale discende direttamente dalla maledizione di Didone contro Enea e i suoi discendenti. Giunone è ancora nemica dei Troiani, ora Romani, e protegge Cartagine. Silio infarcisce l'azione storica di interventi divini sino a un livel­ lo di inverosimiglianza intollerabile: come se i suoi lettori potessero accetta­ re senza problemi non solo le convenzioni dell epos virgiliano, ma addirittu­ ra di quello omerico. I.:opera, nel complesso, aggiunge poco alla letteratura romana, ed è piu interessante in certi aspetti di contorno, come le digressio­ ni mitologiche e la ricerca di esattezza antiquaria. -

'

Conunento: F. SPALTENSTEIN, Genève 1986-1990.

3.1.6.2. Marco Valerio Marziale Di Marziale ci resta una raccolta di Epigrammi in 12 libri, composti e via via pubblicati tra 1'86 e il 102. A questi vanno aggiunti un altro libro a parte, di una trentina di epigramini, il Liber de spectaculis composto nell'So, e i due libri di Xenia e Apophoreta, raccolte di distici che accompagnano a mo' di etichet­ ta, rispettivamente i doni che si inviavano durante le feste dei Saturnali, e i doni che si offrivano ai convitati. I.:origine dell'epigramma risale all'età arcaica, dove la sua funzione (come il nome stesso attesta: 'iscrizione') era essenzialmente commemorativa: era in­ ciso ad esempio su pietre tombali, o su offerte votive. Già prima dell'età elle­ nistica, però, l'epigramma si emancipa dalla forma epigrafica, pur conservan­ do la caratteristica brevità. È un tipo di componimento adatto alla poesia d'oc-

3 · LA LETTERATURA DELL ' ETÀ I M PERIALE casione, giacché costituisce un ottimo strumento per fissare nel giro di pochi versi l'impressione di un piccolo avvenimento quotidiano. I temi sono per lo piu di tipo leggero: erotico, satirico, simposiale, ma a volte anche funebre. Marziale contrappone la mobilità e la varietà dell'epigramma alla pesan­ tezza dei generi illustri come l'epos o la tragedia, accusandoli di tenersi lonta­ ni dalla realtà della vita quotidiana. È proprio il realismo che Marziale riven­ dica come tratto qualificante della propria poesia. In realtà, Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con l'occhio deformante della satira. I..:atteggiamento del poeta è quello di un os­ servatore attento ma per lo piu distaccato, che raramente si impegna nel giu­ dizio morale e nella condanna: una satira sociale priva di asprezza (parcere personis, dicere de vitiis, 10 33 w) . I temi degli epigrammi di Marziale sono vari, e investono l'intera esperienza umana: accanto a quelli piu radicati nella tra­ dizione (come l'epigramma funerario), altri riguardano piu da vicino le vi­ cende personali del poeta (molti sono gli epigrammi di polemica letteraria) o il costume sociale del tempo (come ad esempio negli epigrammi celebra­ tivi, o propriamente adulatorii nei confronti dell'imperatore Domiziano). Ma in generale, rispetto alla tradizione greca, l'epigramma di Marziale svi­ luppa fortemente l'aspetto comico-satirico. In ciò Marziale continua un pro­ cesso avviato da un epigrammista greco, Lucillio, da cui ricava anche alcuni procedimenti formali caratteristici, come la tecnica della trovata finale (l'a­ prosdòketon, o Julmen in clausula). Una scelta di poesia realistica come quella praticata da Marziale comporta un lin­ guaggio

e uno stile che sappiano aprirsi alla vivacità dei modi colloquiali e alla ric­ chezza del lessico quotidiano. Accanto ai termini che designano la realtà umile e or­ dinaria, Marziale si compiace spesso di introdurne altri drasticamente osceni, che giustifica invocando il motivo {già catulliano e ovidiano) che, « se la pagina è lasciva, la vita [del poeta] è proba ». Ma un poeta duttile come Marziale sa alternare forme espressive molto varie, passando da toni di limpida sobrietà ad altri di maggiore ele­ ganza e ricercatezza. Bibliografia: G.W.M. l-IARRISON, in .

IV STORIA DELLA LETTERATURA LATINA ·

the Classica! Tradition Edizioni di letteratura tedesca del XV-XVIII sec.: « Biblio­ theca Neolatina�> ; « Humanistische Bibliotheb>; « Collection Classique de l'Huma­ nisme >>; >; >. 5·5·5· Antologie: F.F. BLOK, Seventy-Seven Neo-Latin Letters. An Anthology, Gronin­ gen 1985; P. LAURENS -C. BALAVOJNE, Musae reduces. Anthologie de la poésie latine dans l'Europe de la Renaissance, Leiden 1975; FJ. NICHOLS, An Anthology oJNeo-Latin Poetry, New Haven 1979; A. PEROSA-]. SPARROW, Renaissance Latin Verse, London 1979; H. ScHNUR, Lateinische Gedichte deutscher Humanisten, Stuttgart 1967; W. KOHLMANN-H. WIEGAND, Parnassus Palatinus. Humanistische Dichtung in Heidelberg und der alten Kurpfalz, Heidelberg 1989; Viva Camena. Latina huius aetatis carmina collecta et edita, a cura di ]. EBERLE, Ziirich 1961; Carmina Latina recentiora, a cura di A.E. RAoKE, Leichlingen 1974. 5.5.6. Edizioni e commenti: luuus CAESAR ScALIGER, Poetices libri septem. Sieben Bu­ cher iiber die Dichtkunst, a cura di L. DEITZ e G. VoGT-SPIRA, 2 voli., Stuttgart, dal 1994; D. ERAsMus RoTERODAMus, Opera omnia, Amsterdam, dal 1969 (diversi editori); ]. GRETSER, Timon Comoedia imitata (1584) , a cura di S. FIELITZ, Miinchen 1994; P. BRAc­ CIOLINI, Lettere, a cura di H. HARDT, 3 voli., Firenze 1984-1987; J. WIMPFELING, Briif­ wechsel, a cura di O. HERDING-0. MERTENS, Miinchen 1990; M. FICINO, Three Books of Life, a cura di C.V. KAsKE e J.R. CLARK, Binghampton 1989; Parrasios 'Epikedion' auf!p­ polita Sforza, a cura di TH. K.LEIN, Paderborn 1987; W. LuowiG, Die 'Borsias' des Tito Strozzi. Ein lateinisches Epos der Renaissance, Miinchen 1975; W. LuowiG-M. DE PANIZ­ ZA LoRcH, Zilioli Fmariensis Comediola Michaelida, ivi 1975; BARTHOLOMAEI CoLONIEN­ SIS Ecloga bucolici carminis, Silva carminum, a cura di CH. MEcKELNBORG e B. ScHNEIDER, Wiesbaden 1995; P. BRACCIOLINI, De varietate Fortunae, a cura di O. MERISALO, Hel­ sinki 1993; SIMON LEMNIUS, Y:l.morum Libri' IV. Liebeselegien in vier Biichern, a cura di L. MuNDT, Bern 1988; MICHAELIS MARULLI Carmina, a cura di A. PEROSA, Ziirich 1951; Edizione nazionale delle opere di F. PETRARCA, Firenze dal 1926 (diversi editori); l. R.EI­ NEKE, julius Caesar Scaligers Kritik der neulateinischen Dichter, Miinchen 1988; H ScHEI­ BLE, Melanchthons Briifwechsel, Stuttgart, dal 1977; B. ScHNEIDER, Das Aeneissupplement des Maffio Vegio, Weinheim 1985; H. BuLLINGER, Studiorum Ratio-Studienanleitung, a cu­ ra di P. STOTZ, Ziirich 1987; The complete Works oJThomas More, IV. Utopia, a cura di E. SuRTZ e J.H. HEXTER, New Haven 1965; G. FRACASTORO, Lehrgedicht iiber die Syphilis, a cura di G. WbHRLE, Wiesbaden 1993. 5·5·7· Monografie, miscellanee e saggi: W. BARNER, Barockrhetorik, Tiibingen 1970; A.S. BERNARDO, Petrarch, Scipio and the Y:I.Jrica', Baltimore 1962; J. B Lii.NSDORF-0 . jA­ NIK-E. ScHAFER, Bandusia. Quelle und Brunnen in der lateinischen, italienischen, Jranzosi­ schen und deutschen Dichtung der Renaissance, Stuttgart 1993; L. B RADNER, Musae Anglica­ nae. A History ofAnglo-Latin Poetry 150o-1925, New York 1940; L. BRAuN, Scenae suppo­ siticiae oder der Jalsche Plautus, Gottingen 1980; A. BucK, Humanismus, Freiburg 1987; H.O. BuRGER, Renaissance, Humanismus, Riformation. Deutsche Literatur in europiiischem Kontext, Bad Homburg 1969; CJ. CLASSEN, Cicero orator inter Germanos redivivus in « Humanistica Lovaniensia >>, 37 1988, pp. 79-I14; 39 1990, pp. 157-76; O. CLAVUOT, �> .

u) non può essere sillaba tonica. Do­ vranno essere dunque considerate indice di corruttela imputabile alla tra­ dizione manoscritta (o andranno cercate scansioni alternative), correptiot1es quali:

6 LA METRICA DEI ROMANI ·

Plauto, Mercator, 327: bene ambulato. :: bene valeto

- Truculentus, 504: venire salvom.

Ammissibili, invece, casi come: Plauto, Bacchides, 885: quid i!li molestu's ? quid illum, in quanto la prima sillaba di ille, cosf come quella di iste e ipse, risultava debolmente tonica; Plauto, Casina, 453: voluptas mea per la quasi atonicità del possessivo, pronunciato come parola unica con accentazione voluptdsmea; Plau­ to, Miles gloriosus, 1061: taléntum Philippi in quanto parole pronunciate con ac­ centazione greca (cfr. 'tliÀ.a.v'tov, ci>O tmwç) e dunque non toniche in latino; Plauto, Trinummus, 831: modésti sint perché le forme di sum vanno considerate pospositive e dunque il gruppo suonava modestisint. ..

6.2.12.2. La sillaba breve (brevis) e la brevianda devono appartenere alla stessa pa­ rola. La brevis può anche essere un monosillabo che, per lo piu, è da conside­ rare un tutt'uno con la parola successiva. Si può produrre correptio anche tra due parole in sinalefe. Non sono dunque ammissibili correptiones come Plau­ to, Bacchides, 724 sg.: evax, nimis bellus atque; Persa, 769a: date aquam manibus, apponite mensam; discutibili casi come Persa, 761: facta sunt per la pospositività delle forme di esse.

6.2.12.3. La brevis deve essere una breve isolata nella parola o, se preceduta da altre brevi, deve trovarsi in posizione dispari a cominciare dall'inizio della sequenza delle sil­ labe brevi stesse. Non è accettabile, perciò, una correptio come Plauto, Poenulus, 1176: hodie in quanto la brevis (-i-) si trova in posizione pari (hodie). Per quanto riguarda la poesia, brevis e brevianda debbono sempre concorrere a realizzare un solo elemento del verso: ciò si spiega con lo stretto legame che nella lingua unisce le due sillabe e che si riflette, come tale, anche nella pratica del­ la versificazione. Sulla base delle condizioni esposte, andranno considerate sicure correptio­ nes quali: Livio Andronico, TragoediarumJragm., n : Clutemestra; Nevio, Comoe­ diarumfragm., 9: quasi; Plauto, Pseudolus, 593: dab(o) insidias; Ennio, Praetextarum Jragm , 2: vide Jortem; Cecilia, Comoediarum Jragm., 201: nec amét nec; Terenzio, Eunuchus 8: ex Graecis bonis Latinas; Pacuvio, Tragoediarum fragm., 58 sg.: quid istuc; Lucilio, Saturarum Jragm., 378: nomen hiic; Accio, Tragoediarum fragm., 133: ve! hic qui; Afranio, Comoediarum Jragm., 5: simul limen; Pomponio, Fabularum Atellanarum fragm., 78: voluptatibus. Nella poesia di epoca postsillana non troviamo piu traccia della correptio .

IV

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STORI A DELLA LETTERATURA LATINA

iambica, ma nel 44 a.C. l'attore Roscio recitava ancora brani di poeti arcaici ricchi di correptiones, sicuro indizio, questo, che il fenomeno era ancor vivo nella lingua d'uso. La lingua, nel contempo, aveva di fatto portato a compi­ mento l'evoluzione di un altro fenomeno prosodico, l'abbreviamento delle sillabe finali lunghe, anche chiuse da un fonema implosivo (tranne quelle in -s) : in questo momento la lingua letteraria operò una scelta stilistica coscien­ te, escludendo dal proprio ambito un fenomeno prosodico, come la correptio iambica, forse ritenuto troppo popolare. 6.3. METRICA Non essendo per noi piu possibile sentire e, di conseguenza, riprodurre il ritmo quantitativo dei versi, dovremo ricostruire in schemi i modelli ideali di ognuno di essi, individuandone le singole esigenze ritmiche, con le aspetta­ tive al proposito del lettore o dell'ascoltatore. Gli schemi saranno composti di unità minime, che denomineremo elementi, e si differenzieranno uno dal­ l'altro proprio per il diverso susseguirsi e concatenarsi degli elementi stessi. Ad ogni elemento assegneremo un simbolo e di esso indicheremo le possi­ bilità di realizzazione: u

nn uu

X f.'\

elementum breve: può essere realizzato soltanto da singola sillaba breve. elementum longum: preferibilmente realizzato da una sillaba lunga, può essere an­ che realizzato da due sillabe brevi. elementum biceps: realizzato di preferenza da due sillabe brevi, può essere anche realizzato da una singola sillaba lunga. elementum anceps: può essere indifferentemente realizzato da una sillaba breve o da una sillaba lunga o da due sillabe brevi. elementum ind!fferens: è sempre realizzato da una sola sillaba, breve o lunga.

Alcuni elementi che in determinati versi sono passibili di piu realizzazio­ ni, in altri ne ammettono una soltanto: questi casi saranno indicati di volta in volta. Gli elementi si combinano in unità piu o meno estese, piedi e metri (metra) : questi ultimi possono, in certi versi, essere suddivisi in due piedi, co­ me nel caso di alcuni versi giambici (6.3.3) e trocaici (6.3.4). Si dice che un verso ha un "ritmo ascendente" se l'arsi segue la tesi, che ha un "ritmo discendente" se la precede (arsi e tesi riferite al fatto vocalico, nel senso rispettivamente di 'tempo forte' e 'tempo debole'). Indicheremo scola­ sticamente i tempi forti con accento acuto (') . I versi di una certa lunghezza presentano delle incisioni o pause (dette cesure se cadono all'interno di un

6 LA METRICA DEI ROMANI ·

piede o di un metro, dieresi se cadono tra piedi o metra) che tendono a istituzionalizzarsi e a divenire, cosi, esse stesse parte integrante del ritmo. I versi possono essere utilizzati in varie strutture: - struttura stichica o xa•à o•ixov: ogni verso mantiene la propria indivi­ dualità e autonomia e presenta indljferens l'elemento finale; la sillaba che rea­ lizza tale elemento può essere in iato con l'inizio del verso seguente. - struttura per sistema o xa1:à oUO'tT]IJ.a: si configura come un unico lun­ go verso formato da piu versi acataletti (composti di piedi o metra interi) e concluso da un verso catalettico (decurtato di una sillaba) o equivalente. I singoli versi perdono la propria autonomia, per cui l'ultimo elemento di ognuno (a parte quello catalettico) non sarà un indljferens e solo eccezional­ mente sarà tollerato iato tra verso e verso. - struttura per parasistema: presenta caratteristiche sia di struttura xa1:à otixov sia di struttura xa•à oUO'tTJIJ.Cl, con verso catalettico conclusivo, ele­ menti finali dei singoli versi indljferentia o meno, possibilità di iato tra verso e verso. - struttura strofìca: la strofe è un insieme di versi, ripetuto piu volte nel­ lo stesso componimento; essa può proporsi come una vasta unità metrico­ ritmica, come si trattasse di un unico lungo verso. 6.3.1. I versi saturni sono originariamente collegati all'attività oracolare. Non si è ancora riusciti a costruire uno schema che comprenda tutta la varietà delle attestazioni sia epigrafiche che letterarie. Sicuramente di natura quan­ titativa (sono state tentate anche interpretazioni diverse), propendiamo a credere che la quantità fosse il fattore preminente di ritrnizzazione e che in realtà esistessero piu tipi di saturni: per "saturnia" intendiamo dunque non un verso immediatamente individuabile, ma un modo di comporre versi, basato sulla giustapposizione di due cola, differenti o uguali, rigorosamente separati da dieresi senza possibilità di sinalefe. I versi saturni possono ricondursi, per lo piu, ai due schemi seguenti: X - X n l X - n 11 - un l X -n x - x n 1 x -n 11 x - x -n

È sempre presente la dieresi principale (Il) preceduta da indljferens; a volte sono assenti le incisioni minori (1), cosiddette dieresi korschiane, che ammetto­ no sinalefe, ma anche iato ed elemento indifferens:

IV · STORIA DELLA LETTE RATU RA LATINA

Epigramma dei Metelli contro Nevio: malum dabunt 1 Métélli 11 Naevio 1 poétae Livio Andronico, Odusia, I: virdm mihf, l Caména, Il fnsecé l versutum Nevio, Bellum Poenicum, 2 2: noctu Troiad l exfbant Il ciipitibus l òpértts - 46: patrém suum l suprémum Il optumum l appéllat Livio Andronico, Odusia, 3 : ib{demqué l vir summU.s Il adprfmU.s PatròclU.s 7 2: me carpento l vehéntem Il domum venfsse Nevio, Bellum Poenicum, 3 1 : eordm sectam l sequuntur Il muld morta/es. -

Esistono poi saturni che non si rapportano agli schemi visti: Livio Andronico, Odusia, 4: part(im} errant, l nequfnont Il Graeciam l redfre w : MercuriU.s cdmqu(e) co llftlius 1 Liitonas - n: nexébant mult(a) l intér se llflexd nodornm dubio - 12: nam diva l Monétas llfllia l docuft - 16: néque tamén t(e) oblftu(s} sum Il Laértie noster Nevio, Bellum Poenicum, 3 2: mult(i) ali{ l e Troia Il strénuf l viri I7 2: sacr(a) fn mensa l Penatium Il ordiné l panuntur - I7 3: fmmo/Jbat l auream Il vfctimam pulchram - I8 I: fsque sus(um} l ad caefum Il sustufft suas - 35 I: sin fllos déserant llfortfssimos viros - 35 2: magnum stuprdm popu/0 IIfteri 1 pergéntis. -

-

6.3.2. I versi dattilici. Cosi chiamati perché i metra ( 88) sono di preferenza realizzati da dattili (-uu), presentano gli elementa longa realizzabili solamen­ te con sillaba lunga. -

6.3.2.1. Vesametro, introdotto da Ennio negli Annales, diverrà il verso dell'e­ pica, ma sarà usato anche in altri generi (bucolico, satirico, ecc.). Ha il se­ guente schema: -

nn uu -

nn uu

- -

-

nn uu -

-

nn uu -

-

nn uu

- -

1-\

Il 10° elemento è, di regola, realizzato da due sillabe brevi, ma a volte, e sempre per motivi stilistici, può essere realizzato da una sillaba lunga (in tal caso il verso viene detto spondaico). La lettura scolastica usa accentare le silla­ be che realizzano i longa: Virgilio, Aeneis, I

I:

arma virdmque etinO, Troiae qui prfmU.s ab oris.

Vesametro presenta le seguenti incisioni, che possono o meno coincidere con pausa di senso:

6 · LA METRICA DEI ROMANI - cesura pentemimera o semiquinaria, ricorrente dopo la sillaba che rea­ lizza il s o elemento: Anna/es, 3: ntim latos populos l res titque SaturarumJragm., n: injàm(am) incesttim l turpémque Lucrezio, 2 10: érrar(e) titque vitim l paltintis Catullo, 64 s: aurat(am) optantés l Colchis Virgilio, Georgica, 4 288: dccolit tljfuso l stagntintem Orazio, Sermones, 2 I 2: légem ténder(e) opus l sine nérvis Manilio, Astronomica, 4 320: Libra decém partés l Geminorum. Ennio,

Lucilio,

I.:elemento che precede la cesura può essere trattato come indif{erens (r:'l) e dunque essere realizzato da sillaba breve e sopportare iato: Anna/es, I4T et densis aquila l pennis Virgilio, Eclogae, 7 23: versibus ille}àdt, l aut - Aeneis, I2 648: sanct(a) ad vos anima h l atqu(e) istius Ennio,

- cesura eftemimera o semisettenaria, cosi chiamata perché ricorre dopo la sillaba che realizza il 7° elemento; piu rara della serniquinaria, in genere è accoppiata ad una cesura tritemimera o semiternaria, collocata, cioè, dopo la sillaba che realizza il 3o elemento: Anna/es, 228: ptirerént, l obsérvarént, l portisculus Lucrezio, I 779: ntiturdm l clandéstintim l caectimque Catullo, 64 I93: Eumenidés, l quibus tinguino l redimita Virgilio, Aeneis, 4 497: qu6 peri� l superimpontis: l abolére Ovidio, Metamorphoses, I 3I4: térraJercix, l dum térra Juit, l sed Lucano, Pharsalia, 3 240: quique sutis l struxére pyrtis l vivique.

Ennio,

Ambedue le cesure possono comportare il trattamento come indifferens dell'elemento che le precede: Ennio,

Anna/es, 87: sic exspectabat populus l atque Aeneis, 4 64: pectoribus l inhians.

Virgilio,

Per imitazione dell'esametro greco si può trovare l'elemento in cesura tri­ temimera realizzato da -que se la parola successiva inizia con liquida o spi­ rante: Aeneis, 3 9I: liminaqué l laurusque 12 363: Chloreaqué l Sybarimque

Virgilio, -

I V · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

- cesura "dopo il terzo trocheo". Assai rara in latino, cade tra le due bre­ vi che realizzano il 6° elemento: Virgilio, Aeneis, 5 856: témpora ciinctantfque l ntitdntia.

Può accoppiarsi ad altre cesure: Ennio, Anna/es, 38: vfres vftaque corpU.S l meiim l nunc Virgilio, Aeneis, 2 3: fn}àndiim, l regfnti, l iìibés l renovdre;

- cesura o, piu correttamente, dieresi bucolica. Ricorre dopo 1'8° elemen­ to, generalmente realizzato da due sillabe brevi e in pausa sintattica; può ac­ coppiarsi ad altre cesure: Catullo, 62 I: Vésper adést, iuvenés, consiirgite: l Vésper Virgilio, Eclogae, 3 68: parta mede Veneri sunt miinerti: l ndmque.

6.3.2.2. Il pentametro o elegiaco presenta lo schema: nn

nn

-- - Il - uu - uu -. uu - uu

I..:elemento finale non sembra un vero ind![ferens, perché sempre realizza­ to da sillaba lunga o, comunque, chiusa: eccezionali Tibullo, I I 24 : date; 1 3 92: pede. La sinalefe è piu rara che nell'esametro e si presenta per lo piu nel primo colon. Il pentametro viene usato in unione con l'esametro nel distico elegiaco, me­ tro dell'elegia, ma utilizzato anche nell'epigranuna e in altri generi letterari: Catullo, 65 5 sg.: ndmque mef nupér l Lethaéo giirgiteJratris l pdlliduliim mandns Il adluit un­ da pedém. Tibullo, I 8 I sg.: non ego célari l possiim, l quid niitus amdntis l qufdveJerant mitf ll lénia vér­ ba sono. Properzio, 2 I I sg.: quaéritis, iinde mihf l totiéns l scribantur amores, l iinde meiis venidt Il m61lis in ore libér. Ovidio, Epistulae, I5 I sg.: écquid, ut fnspectd (e}st l studiosae lfttera déxtrae, l protinus ést ocu­ lfs Il wgnita nostra tufs? Marziale, 6 7I I sg.: édere lciscivos l ad Baética criismata géstus l ét Gadftanfs Il ludere d6cta mo­ dfs. Aviano, Fabulae, I I sg.: riistica déjlentf l parvo iurdverat olim, l nf tacedt, rabido Il quod Joret ésca lupo.

6 · LA METRICA DEI ROMANI 6.J.2.J. Un tetrametro acataletto (o alcmanico), che presenta lo schema: (ì(ì (ì(ì - (ì(ì --- - - uu uu uu uu

lo troviamo in Seneca, Hercules Oetaeus, 1944: dndè sonds trèpidtis iiurésforit?

e, cosi come altri versi dattilici, in combinazione con differenti tipi di verso e cola, nella poesia di Orazio (vd. 6.3.11). 6.J.J. I versi giambici: utilizzati in diversi generi letterari (comico, tragico, epigrammatico, favolistico, ecc.), sono organizzati per piedi (x -, tranne sedi particolari) o per metra (x - u - ) . La realizzazione degli elementi con due sil­ labe brevi è regolata da norme precise: 6.J.J.I. Un elemento non può essere realizzato da due brevi se la prima di esse è la sil­ laba finale di un polisillabo (cosiddetta norma di Ritschl). È dunque evitata la formazione di elementi bisillabici, "strappati" tra due distinte parole, quali Plauto, Casina, 94: captùs in; Poenulus, 240: cogit(a) amabo; Terenzio, Adelphre, I39: iste tiios. Regolari, invece, casi come Plauto, Miles gloriosus, 1284: propter amorem perché preposizione e sostantivo costituiscono una parola metrica unica; eventuale sinalefe tra le due parole non impedisce lo strappamento. 6.J.J.2. Un elemento non può essere realizzato dalle due sillabe brevifinali di una parola che inizia prima di esse (cosiddetta norma di Hermann-Lachmann) . So­ no dunque evitate formazioni di elementi bisillabici, anche se tali per correp­ tio iambica, come Plauto, Baahides, 615: inamabilis; Terenzio, Adelphre, 6o: dam itans; Acci o, Tragoediarum Jragm., 100: circiilòs; Fedro, Appendix Perottina, 15 I9: et uritiir impudentis. In casi quali Plauto, Rudens, no: isticine vos, o Terenzio, Hecyra, 283: hacine causa, si dovrà leggere isticin(e) e hacin(e) per caduta di -e (vd. 6.2.3). È ammessa la formazione di un elemento con due brevi che risul­ tino finali per la sinalefe della sillaba successiva. 6.J.J.J. Il 2° elemento di tutti i versi e il l0° di quelli lunghi con dieresi mediana pos­ sono essere realizzati con due sillabe brevi in maniera difforme dalle norme di Ritschl e di Hermann-Lachmann (cosiddetta norma delle "sedi con licenza", spiegabi­ le con il fatto che la parte iniziale di un verso o di un colon è ritmicamente la meno sensibile e può sopportare tratti del parlato che risultano senz'altro

IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

sgraditi nelle altre sedi). Sono perciò ammesse formazioni bisillabiche di un elemento quali Plauto, Bacchides, 960: Il detul(i) ibi; Casina, 931: decido . . . Il sup­ silit; Terenzio, Hecyra, 867: omni(a) omnes; Seneca, Oedipus, 263: quidquid ego. Questi elementi, tuttavia, non possono fruire di licenza se l'elemento che li precede è realizzato da una sillaba breve o da due brevi: di norma, dunque, a inizio di verso o di colon non possono trovarsi sequenze tipo bi5ne senex, Jacere,Jacile bonum,facilla. 6.3·3·4· Nei versi e cola a clausola Ur:ì è evitata fine di parola dopo il terzultimo ele­ mento se l'elemento precedente è realizzato da sillaba breve (cosiddetta norma di Bentley-Luchs) , vale a dire che sono vietati due giambi finali se tra di essi c'è fine di parola. Sarà evitato, dunque, un finale di verso come Ennio, Tragoe­ diarum Jragm., 297: parat putat. La norma non risulterà violata se: - le due parole sono preposizione e sostantivo: Plauto, Curculio, 477: supra lacìim. - le due parole sono usate in espressioni fisse: Plauto, Persa, 352: maliim crudm, Truculentus, 586: bonafide. - il quintultimo elemento è realizzato da due sillabe brevi appartenenti (ambedue o una di esse) alla stessa parola che realizza anche il quartultimo e il terzultimo: Plauto, Curculio, 86: réclpiat mtiré, Mercator, 399: néqu(e) habeo. :: nequ(e) hìic. 6.3·3·5· Nei versi o cola a clausola Ur:ì della poesia tragica si evita la realizzazione con sillaba breve del quartu/timo elemento se esso non appartiene alla stessa parola che realizza anche tutti gli elementi successivi. È la cosiddetta norma di Lange-Strze­ leclci secondo la quale, con quartultimo elemento realizzato da sillaba breve, la parte finale del verso può essere realizzata solamente come in Seneca, Me­ dea, 512: nepotibìis, 710: Prométhef, Troades, w8o: cticìiminé; in Seneca, in realtà, si irrigidisce quella che nei tragici arcaici era soltanto una forte tendenza. n manometro presenta lo schema: X - u f.l.

È poco usato ed è di difficile individuazione, cfr. Plauto, Casina, 708-712: s;h écfixis hOc, l sO/eas tibf l dab(o) ét anul(um) fn l digit(o) auré(um) it l bona pldrnma.

Si trova, anche frammisto ad altri versi, nei cantica di Plauto. 490

6 · LA METRI CA DEI ROMANI Il quaternario catalettico, usato nella poesia scenica arcaica, presenta lo schema: X - X - X -n.

Si trova insieme a versi giambici piu lunghi o anche frammisto a versi di

altro tipo: Plauto, Baahides, 618: hom(o) aut iimét aut adeat Terenzio, Hecyra, 731: iidgrédiiir. Baahls, salve.

Il quaternario X - X - X - un

ricorre nella poesia scenica in serie xa-rà o-rixov o frammisto ad altri versi: Plauto, Amphitruo, I07J: numn(am) hunc perrusslt Iuppitér? Terenzio, Andria, 244: quod sffit, péreo funditus.

Il dimetro X -u-X -un

si trova in Plauto in composizione con l'itifallico (vd. 6.3.4) e in Orazio in composizione con altri versi (vd. 6.3.11). Il senario X - X - X - X - X - u f.l

è nato con la poesia scenica, in cui è peculiare delle parti recitate; viene usa­

to anche in altri generi letterari, come la satura e la favola; presenta, in gene­ re, cesura dopo la sillaba che realizza il 5° elemento: Livio Andronico, Tragoediarumfragm., 8: nem(o) hiiec vostr6rnm l mminétur mulieri Nevio, Comoediarumfragm., 22: suopt(e) iitrosque l déciilt aaeptos cibo Pacuvio, Tragoediarum fragm., 64: siispéns(um) In Iiievo l briiahi(o) ostend(o) unguliim Accio, Tragoediarumfragm., 69: atqu(e) éaos ségnls l somn(o) et tarditudiné Afranio, ComoediarumJragm., IO: quiimquam non fstls l éxercétur fn laas Fedro, 4 3 4: nondum matura (e}st: l nol(o) iicérbam sumeré

ma, in alternativa, può presentarne una dopo la sillaba che realizza il 7°, spes­ so accompagnata da una dopo quella che realizza il 3°: 491

IV • STORIA D ELLA LETTE RATURA LATINA

Plauto, Rudens, u : quifiict(a) hominum morésque, l ptetiit(em) étfidém Cecilio, Comoediarum fragm., 74: prodtger(e) et, l eum n li hdbeiis, l téd l m{diér Pomponio, Fabularum Atellanarumfragm., 84: eg(o) fllam l non iimpléctiir? l égo non saviém?

Piu rari gli accoppiamenti di cesure dopo 3° e 5° elemento Ennio, Tragoediarum fragm., 13: exsurge, l prdew: l fac popul(o) audiénti.fm

e dopo 5° e 7° Lucilio, Saturarumfragm., 771: iirationem lfdcere l compend{ potés.

Nel senario è evitata fine di parola plurisillabica dopo 4" e 8" elemento se l'elemen­ to precedente è realizzato da sillaba lunga o da due sillabe brevi (cosiddetta norma di Meyer). Non sarebbero, dunque, ammissibili casi come Plauto, Bacchides, 968: e{um) eg(o) ade(o) uno, 1018: ead(em) istaec vérba dud(um) illf; piu che di una norma, però, si deve parlare di "tendenza", come sembrerebbero conferma­ re le non poche "eccezioni" che si presentano. Nel senario, inoltre, l'� elemento, se realizzato da sillabafinale di parola, può es­ sere trattato come indi.f[erens (cosiddetta libertà di Jacobsolm; gli elementi che ne fruiscono sono anche detti lod Jacobsohniani). Esso può, dunque, essere realizzato anche con sillaba breve e sopportare iato: Plauto, Mercator, 693: ni sumptu6sus fnsupér etùim siét.

Il trimetro X - u - X - u - X - u f.'l

costruito a somiglianza del suo omologo greco. La cesura ricorre, preva­ lentemente, dopo la sillaba che realizza il so elemento:

è

Seneca, Troades, 3: animumque rébiis l crédulum laetfs ded{t Petronio, Satyricon, 89 (Troiae halosin, x): iam décima maestos, l fnter ancipités metus

ma a volte ricorrono cesure anche dopo il 7° e il 3° : Seneca, Troades, 19: dlrfpitur ardens Troia, l néc ciielum patét Petronio, Satyricon, 89 (Troiae halosin, u ) : o patria! l pulsiis mflle l crédidimus ratés.

Un trimetro estremamente artificioso, composto di soli giambi "puri" {u-) e non vincolato dalla norma di Bentley-Luchs, viene utilizzato da Catullo: 492

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

4 I: phcisiliis flle, l quim viditis, h6spitis

da Orazio, in composizione con l'esametro dattilico, Epodi, r6 2: siifs et fpsa 1 Roma vfribus riift

da Virgilio Carmina xarà À.e7IT6v, 4 2: datur tibf, 1 piiilla, 1 quam petfs, datur.

Il trimetro ipponatteo o coliambo o scazonte X -v- X -v-v--n

è verso di satira e di epigramma. La cesura ricorre in genere dopo il 5° ele­

mento: Catullo, 8 I : misir, Catulle, 1 disinas iniptfre Virgilio, Carmina xarà À.enr6v, 7 7: vali, Sabfne: l iam valité,Jormosi Marziale, 5 37 r: piiilla sénibiis l dulcior mihf cfcnis piu

raramente dopo il 7°:

Catullo, 37 5: ronjutuer(e} it piittire l citeros hfrcos Virgilio, Carmina xarà À.enr6v, 7 6: tiiqu(e}, o meariim cura, l Sixte, curariim Marziale, 8 44 3: iit tu, misir Iìtulle, l nic senix vi"'vis.

Il settenario è di norma usato con dieresi mediana: X - X - X - v n ii X - X - X - f.\.

Il primo colon è vincolato dalla norma di Bendey-Luchs: Flauto, Miles gloriosus, 355: at métii{o}, iit sati{s} sis subolo/a Il :: cedo vii dec{em}, idOcibo Terenzio, Hecyra, 344: labor(em} inan(em} ipsus ciipft I l et ili{ molisti{am} adjert Afranio, Comoediarumfragm., 140: projicfscor: ris tempus IOcds, I l simiil oti{um} hOrtabiftur.

Al posto della dieresi mediana, può presentare altre incisioni, per lo piu una dopo il 9o elemento: X - X - X - X - X l - X - X -n Flauto, Rudens, 318: tortfs siipircilifs cantrticta 1 fronte Terenzio, Hecyra, 834: ets{i} hOc meretnces aliiie noliint: l néqu{e} enim (e}st.

493

IV

·

STORIA DELLA LETTE RATU RA LATINA

Nel verso agisce una forte tendenza ritmica secondo cui, in genere, è evi­ tatafine di parola plurisillabica dopo il 4" e dopo il 12" elemento se l'elemento preceden­ te è realizzato da sillaba lunga o da due sillabe brevi {norma di Meyer). Il tetrametro catalettico presenta lo schema: X - u - X - u n Il X - u - X - n

Catullo, 25 9: quae mine tufs ab unguibus ll reglutin(a) ét rémftté.

I.:ottonario, nella sua forma con dieresi mediana, presenta lo schema: X - X - X - u n I l X - X - X - un

Plauto, Amphitruo, 153: qui m(e) alter ést audacior I l hom(o) aut qui confidéntior Terenzio, Hecyra, 566: nullam poi crédo mUlierém Il me mtseriorem vfvéré Accia, Tragoediarum fragm., 461: frigft friciintem corpu(s) sax(um) I l oault(e) abstrds(o) fiuminé.

i11

In questa forma l'ottonario si presenta come una somma di due quaterna­ ri e tale potrebbe anche essere, magari perché i manoscritti, allo scopo di ri­ sparmiare spazio, hanno tramandato due quaternari su un solo rigo; gli otto­ nari con dieresi possono essere identificati con una certa sicurezza se ad essi sono frammisti ottonari "senza dieresi" (e perciò non divisibili in due qua­ ternari), che presentano per lo piu lo schema: X -X - X - X - X 1 -X - X -un

con cesura dopo il 9° elemento: Ennio, Tragoediarum fragm., 59: miser, aut qui té sic trtictavére l nobis Terenzio, Andria, 262: tum ptitri{s) pudor, qui mé tam léni l ptissus Accia, Tragoediarum Jragm., 86: sed quaén(am) haec ést muliérJunésta l véste.

Piu raramente la cesura ricorre dopo il 7o elemento: Terenzio, Andria, 398: ali(am) 6ti6sus quaéret l intere(a) tiliquid.

I.:ottonario senza dieresi è raro in Plauto e si ritrova piu spesso nei poeti posteriori. I due cola del verso con dieresi mediana, come pure la parte fina­ le di quello che ne è privo, sono vincolati dalla norma di Bentley-Luchs. Co­ me nel settenario, 4° e 12° elemento tendono ad essere formati secondo la norma di Meyer. 494

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

6.3.4. I versi trocaici. Usati pressoché esclusivamente nella poesia scenica. Gli elementi costituiti da due brevi seguono le norme che regolano gli elemen­ ti dei versi giambici (Ritschl, Hermann-Lachmann, sedi con licenza); in essi, inoltre, un elementum longum non viene mai realizzato da due brevi se l'anceps prece­ dente è realizzato da due sillabe brevi appartenenti a distinte parole (cosiddetta nor­ ma di Fraenkel-Thierfelder-Skutsch) . Questa norma riguarda le realizza­ zioni di 2° e 3 ° elemento di tutti i versi e di 10° e 11 ° dei versi lunghi con die­ resi mediana: 2° e 10°, infatti, sono gli unici elementi in cui sia ammesso lo strappamento delle brevi perché in sede con licenza. I versi catalettici, con clausola u�. sono vincolati dalla nonna di Bentley-Luchs. La dipodia - X -n

si ritrova soltanto in Plauto, frammista a versi eretici o come loro clausola: Amphitrno, 245: fmpét{u) alàcri - 247: idr(e} inidstiis.

La tripodia o itifallico presenta lo schema: - X -X-n

Plauto, Casina, 824: 6psécro méminto

- Pseudolus, 921: occupis àdfré.

I.:itifallico si trova anche in composizione con un quaternario giambico in un verso chiamato euripideo; nella poesia di Orazio lo troviamo composto con il tetrametro dattilico nel verso archilochio (vd. 6.J.II). Il quaternario catalettico - X - X -un

è usato come clausola di sistema, ma anche in strutture xo:-r& o-rixov o fram­

misto a versi eretici: Plauto, Persa, 279: nésci{o}, fnqu(am}, ulmttribii tti Terenzio, Phormio, 729: aut und(e} auxilidm pétam ?

Il dimetro catalettico - u - u - un

495

IV • STORIA DE LLA LETTERATURA LATI N A

ricorre nella poesia di Orazio in composizione con il trimetro giambico ca­ talettico (vd. 6.J.n). Il quaternario - X - X - X -(.')

viene utilizzato nella poesia scenica, sia in strutture stichiche che xatèt m:Jonu.J.a, ma può trovarsi anche fra versi eretici: Plauto, Amphitruo, 581: péstis té ténét. :: nam ciir fstiic Terenzio, Andria, 638a: nfloprist, ib{ véréntur - Eunuchus, 305: und(e} is? :: égoné? nésa(o} hérclé.

Il settenario è uno dei versi piu usati nella poesia scenica; si presenta, in ge­ nere con dieresi mediana - X - X - X -(.') 11 - X - X -U(.')

Livio Andronico, Tragoediarumfragm., I : sf maliis imitabo, trim tu I l prétium pro noxa dabts Nevi o, Tragoediarum fragm., 14: tunc ipsos adoriiint, né qu(i} hinc Il Spartiim référiit nrintium Ennio, Tragoediarum fragm., 257: séd virdm vera virtdté Il vfvér(e} animiit(um} addécét Cecilia, Comoediarum fragm., 47: faal(e) iierdmniimférré possum, Il s(i) fnd(e} abést iniuria Pacuvio, Tragoediarumfragm., 73: concértar(e} iic dfsséntfré Il part(i} iic da rilrs(um} aequitér Accio, Tragoediarum fragm., 130: nos COntinuoJérr(um} érfpimils, Il manibils maniciis néximus Afranio, Comoediarumfragm., 116: nam prob(a} ét pUdfai quod sum, Il wnsul(o} ét parco miht Pomponio, Fabularum Atellanarum fragm., 99: nésao qufs molam quas(i} asinils Il urget rixorém tuam.

In alternativa alla dieresi, può presentare cesura dopo il 7° elemento: - X - X - X - I X - X - X -U(.')

Terenzio, Heautontimorumenos, 255: qufd comédént! Quid ébibént! l quid sén(e} érit nostro mlsérius?

o anche dopo il 10°: - X - X - X - X - X 1 - X -U(.')

Plauto, Epidicus, 239: néc satis éxiiudfbiim, néc sérmonis lfallébiir tamén. .J' e 11° elemento,

se realizzati da sillabafinale di parola, possono essere trattati come in­ dif{erentia (libertà di Jacobsohn). Tali elementi, dunque, possono essere rea­ lizzati come in:

6 LA METRICA DEI ROMANI ·

Comoediarumfragm., 93: primum ad vfrtut(em) ut redeatis, Il abeatfs ab ignavia Asinaria, 199: cétera quae volumus uti I l Graéca mércamurjìdé Terenzio, Phormio, 556: noli métuer(e): una técum Il bona malii tolmibimus. Nevio , Plauto,

Nel settenario, poi, agisce una forte tendenza ritmica per cui è evitata fine di parola dopo 1'1 1° elemento se i/ 10° è realizzato da sillaba lunga o da due sillabe brevi {norma di Meyer). Il tetrametro catalettico - u - X - u - n ll - u - X - u n Seneca,

Phaedra, 1203: fmpidm rapit(e) atqué mirsum I l prémité pérpétufs malfs

è usato anche in composizioni di carattere popolare: Svetonio,

Divus Iulius, 49: Gallias Caesar subégit, Il Nfcomédes Ciiesarém

I.:ottonario - X - X - X - n ii - X - X - X - r-'1

Tragoediarum fragm., 219: quae Corfnth(um) arc(em) alt(am) hàbétis, Il matron(ae) opulent(ae), optumates Pacuvio, Tragoediarum fragm., 44 sg.: dolét pigétqué magi(s) magfsqué Il mé ci5nat(um) hi5c néquiqu(am) ftiner.

Ennio,

Anche in questo verso, come per il settenario, agisce la stessa tendenza rit­ mica detta norma di Meyer. 6.3.5. I versi anapestici. Sono molto usati nella poesia scenica {mai, però, da Terenzio) nelle parti cantate; fanno eccezione i settenari del Miles plautino {vv. 1011-93) destinati alla mxpaxa't'aÀoytl, cioè a una sorta di recitativo con accompagnamento musicale non particolarmente complesso. Per la forma­ zione degli elementi con due sillabe brevi non sono vincolati dalle norme di Ritschl e di Hermann-Lachmann, mentre la sequenza di quattro brevi è re­ golata dalla norma di Fraenkel-Thierfelder-Skutsch {vd. 6.3.4) che può esse­ re ampliata nel seguente modo: due elementi consecutivi non possono essere realiz­ zati da quattro sillabe brevi se la prima appartiene a una parola e la seconda alla parola cui appartengono anche le sillabe seguenti. Questa norma riflette ragioni di tipo linguistico e non riguarda le sequenze di sillabe di cui la seconda subisca cor­ reptio iambica: sono ammessi, infatti, casi quali Plauto, Miles gloriosus, 1062: nem!n(e) aalplet, Persa, 775: ben(e) omnlbiis; Pseudolus, 593: dab(o) lnsldlas.

497

IV · STO RIA DELLA LETTERATURA LATINA

Tranne casi particolari dovuti a ragioni stilistiche, i versi ad uso stichico deb­ bono avere almeno un elemento realizzato da due sillabe brevi. La dipodia (Ì(Ì (Ì(Ì - - - (.')

uu

uu

di difficile identificazione, può essere usata xcnà o-rixov e come verso di clausola: Plauto, Menaechmi, 354: lnllcébr(a) cinimost Seneca, Phaedra, 74: tulit fn siiltds.

Il quaternario catalettico o paremiaco (Ì(Ì

(Ì(Ì -

-

uu

-

(Ì(Ì -

-

-

(.')

uu

uu

viene utilizzato sia stichicamente sia come clausola di sistemi e parasistemi: Plauto, Baahides, 616: ég(o) éss(e) tillrs. crédibil(e) hoc est? Ennio, Tragoediarumfragm., 255: pécUd{ dciré vfvci manto.

Il quaternario acataletto (Ì(Ì

-

uu

(Ì(Ì

-

(Ì(Ì

-

uu

uu

(Ì(Ì

(.')

uu

usato in strutture xa-rà o-rixov o xa•à ooonu.J.a (nel caso con ultimo e l e­ mento trattato come longum e non come ind!lferens) o di parasistema (con ul ­ timo elemento trattato come longum o come ind!lferens) : è

Plauto, Truculentus, 124:}èr contra mtin(um) ét pciritérgrcidérl Ennio, Tragoediarum fragm., 81: o pdtér, o pdtri(a), o Prtciml domUs Seneca, Agamemnon, 641: di«:dnt turmas, hiiecféminéils.

Il settenario si presenta, tranne rari casi, con dieresi mediana, spesso accom­ pagnata da incisioni minori dopo il 4o e/o il I2° elemento: (Ì(Ì -

uu

(Ì(Ì -

-

uu

(Ì(Ì -

-

uu

-

(Ì(Ì (.') -

uu

11

(Ì(Ì -

uu

(Ì(Ì -

-

uu

(Ì(Ì -

- -

(.')

uu

Plauto, Cistellaria, 205: qu(i) omnfs hominés supér(o), antldéO Il crUciabilitatibU5 tinimi.

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

Un settenario senza dieresi mediana può anche concludere un sistema: Plauto, Baahides, 1085a-w86: iit éum, si wnvénft, sciòftass{e): éost lngéniò ndtùs.

I.;ottonario (Ì(Ì -

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(Ì(Ì -

-

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-

(Ì(Ì r-'1 -

uu

11

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-

uu

(Ì(Ì -

-

uu

-

(Ì(Ì r.'l

-

uu

Plauto, Casina, 182: créd{o), écastor, niim vfantim Il némtn{em) iimo mérito magì{s) quiim té Ennio, Tragoediarum fragm., 28: caernlé{a) lncfnct{ae} iingu(i) fncédunt, Il arcdmstiint c{um)

drdéntfbii(s) tiiedfs. 6.3.6. I versi eretici. Realizzano raramente gli elementi con due sillabe brevi,

e comunque nel vincolo delle norme di Ritschl e di Hermann-Lachmann. La dipodia - U - - U r-'1

è di uso raro; 2° e 5° elemento, indicati come brevia perché normalmente rea­

lizzati da una breve, molto raramente possono essere realizzati da sillaba lunga: Livio Andronico, Tragoediarumfragm., 21: qutis péto qutis précor Plauto, Amphitruo, 245: cum cliimor{e) fnvòltint.

La tripodia - X --U--Ur-'1

è utilizzata pochissimo: Plauto, Baahides, 623: quf patri réddìd(i) omn{e) tiur(um) amtins Terenzio, Andria, 637: at tamén - ubìfidés ? - sf rògés.

Il quaternario - X - - U r-'1 11 -U--U r-'1

nei pochi casi in cui il verso non presenti dieresi il 6° elemento viene trattato come un longum. È di uso assai diffuso, sia in strutture xcm'l a'tixov che xa'tà aUOTIJI..La (in quest'ultimo caso 6° e 12° elemento sono dei veri e propri e/e­ menta longa); 1'8° elemento, normalmente realizzato da sillaba breve, può ec499

IV

·

STORIA DELLA LETTE RATURA LAT INA

cezionalmente essere trattato come un longum; non piu di un elemento, di norma, è realizzato da due brevi: Plauto, Casina, 189: vfr m(e) habét péssumfs Il déspiciltam modfs Ennio, Tragoediarnm fragm., 77: iirc(e) et urb(e) orba sum. Il qu(o) accedam ? qu(o) applicém? Cecilia, Comoediarnmfragm., 153: qufs vostrardm fuit Il integr(a) aetatuta Terenzio, Andria, 630: dénegando modo Il qufs pUdor paul(um) adést.

Il colon eretico si presenta sotto svariate forme, tutte riconducibili allo schema: - X - X f.\

ptu frequentemente realizzato - u - u u , - u - - u , - - - u u , ma anche - u u - - u , - - - u u u . Di norma ogni colon non realizza con due sillabe brevi piu di un elemento: Plauto, Bacchides, 622: nullils ést homo - 633: quid mih(i) {d prodést? - 665:jéat éx patré Terenzio, Andria, 635 (2 cola) : qufs tu (e)s? quid miht (e)s? quor meam tib(i) ? héus.

6.3.7. I versi baahiad. Al pari dei versi eretici, sono di uso molto frequente nelle parti cantate della poesia scenica; i pochi elementi realizzati da due sil­ labe brevi sono sottoposti ai vincoli delle norme di Ritschl e di Hermann­ Ladunann. La dipodia X -- X - f.\

verso di difficile identificazione, è poco usato; lo ritroviamo tra altri versi bacchiaci, anche come clausola di serie xa-rà o-rixov o di sistemi: Plauto, Bacchides, 619: inimfcos qu(am) amfcos Cecilia, Comoediarumfragm., 151: e(am) Ut{ vénderém. nunc Pacuvio, Tragoediarumfragm., 340: quiimqu(am) annfsqu(e) et aetat(e).

La tripodia catalettica X - - X -- X f.\

è

un verso raro, per lo piu usato in unione con un colon bacchiaco: soo

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

Amphitruo, 648: virtus praemium (e)st 6ptumum - Baahides, 1130: vidin lfmulfs, 6psecr6. Plauto,

La tripodia acataletta X - - X - - X - 1-'\

è, anch'essa, poco usata: Baahides, 625: cons6landU5 hic mfst, ib(o) dd eum Cecilio, Comoediarum Jragm., 108: mOdoJft 6psequins htliirn(s) c6mfs.

Plauto,

Il quaternario X - - X -- X - - X - 1-'\

ha, in genere, cesura dopo il 5° elemento, ma può presentare dieresi dopo il

6°, in tal caso trattato come ind!{ferens, o, ancora, cesura dopo il 7°: Casina, 704: tim6r praepedft virbii l vir(um), 6psecr6 ti Tragoediarumfragm., 303: nolft(e), h6spitis, l ad m(e) iidfr(e): flic(o) fstf Cecilio, Comoediarum fragm., 276: projirt6que n6bfs Il in mund6Juturnm.

Plauto, Ennio,

Nel quaternario agisce una tendenza ritmica per cui è evitata fine assoluta di polisillabo dopo il5" elemento se il 4" è realizzato da sillaba lunga o da due sillabe brevi {cosiddetta norma di Spengel-Meyer, erroneamente espressa, in realtà, an­ che a proposito dell'no elemento) . Il senario X - - X - - X - - X - - X - - X -1-'\

è un verso ranss1mo: Plauto,

Amphitruo, 633: siitfn parvii ris ist voluptat(um} in vft(a) atqu(e) in aetat(e) iigunda.

Il colon bacchiaco può riportarsi a due schemi: X - - X l-'\ X - X -f.'\.

Uno o, al massimo, due elementi possono essere realizzati da due sillabe brevi: Plauto, Bacchides, 619= aequ6mst m(e) hiibiré - Il30: ut fntUintur

501

IV

·

STORIA DELLA LETTERATURA LATINA

- Captivi, 788: prociil quim vidé6 - Casina, 69r: séd étiamn(e) hàbit - Persa, 8rr : énis d(um) htnc àbist Cecilio, Comoediarumfragm., rsr: cred(o) fntir suas Pacuvio, Tragoediarum Jragm., 340: hèic afrpds putrit.

6.3.8. I reiziani. Il colon Reizianum X - X -n

non sempre facilmente individuabile, piu di una volta può essere confuso con forme di cola bacchiaci; ricorre in serie xa'tà o•1xov, ma lo si trova anche tra versi giambici, anapestici, bacchiaci. Non è sottoposto ai vincoli di Ritschl e di Hermann-Ladunann, mentre sembra rispettare la norma di Fraenkei­ Thierfelder-Skutsch: Plauto, Casina, 843-45: corpdsrulum malàcum! l m(ea) iVcorculà - quae res? l :: quid èst? :: fnstitit p/Jntiim.

Il versus Reizianus presenta lo schema: X - X - X - u n Il X - X - n

La seconda parte si identifica con il colon Reizianum; la prima non è, come potrebbe invece sembrare, un quaternario giambico, in quanto non vincola­ ta dalla norma di Bentley-Luchs: Nevio, TragoediarumJragm., 13: numqu(am) hOdi(e) èjfugies qufn mea Il mànd moriarè Plauto, Aulularia, 417: quià cdltr(um) hàbis. :: coquom décét. ll :: quid comminatils Terenzio, Adelphre, 6roa: hoon d(e) lmprovlso màl{ Il mih(i) obici tantum.

6.3.9. I versi ionici. Non sono sottoposti ai vincoli sulla formazione degli elementi bisillabici: questo fatto, a volte, può aiutarci a distinguerli dai versi bacchiaci con cui possono essere facilmente confusi. Il quaternario "a maiore" o sotadeo è usato nella forma brachicatalettica (senza gli ultimi due elementi): - - u u - - u u -- u u -- .

La sequenza di due brevi può essere "condensata" in una sillaba lunga (come si trattasse di un elementum biceps) e i longa possono essere realizzati da 502

6 · LA METRICA DEI ROMANI

due brevi; la sequenza - - u u può assumere, per anaclasi, la forma - u - u o anche quella - u - - : Amphitmo, I68: noctésque diésqu(e) adsiduo sads supérqué (e)st Variomm fragm., 25: lbifnt malacf viére Vlneriam ci5rollam Afranio, Comoediamm Jragm., 202: mult(a) atque mOlésta (e}s: potin ut dieta facéssas? Marziale, 3 29 I: has eum gemina wmpede dédicift caténas. Plauto,

Ennio,

Gli ionici "a minore" sono serie di sequenze u u - - : Carmina, 3 I 2 I-3: mìserifriim (e}st nequ(e) amOri dare ludum neque dulcf l mala vino laver(e) aut éxaminan metuénds l patrnae vérbera llnguife.

Orazio,

Il galliambo, usato da Catullo nel carme 63, parrebbe trarre origine da un quaternario a minore catalettico, con anaclasi e possibilità di realizzare i longa con due brevi e "condensare" i due brevia realizzandoli con una lunga: nn

nn

- -u-u-- 11 - - u -uf.l. uu uu

La realizzazione piu usuale è u u - u - u - - Il u u - u u u u n : 63 I: super alta véctUs Attis I l celeri rate maria 22 : tiblcen ubi ciinft Phrjix Il rurvo gravé calamo - 23: ubi capita Maenadés v1 11 iaaunt hedérigerae - 35= itiiqu{e) ut domum Cjibélles Il tetigére lifssulife - 63: ego mUlier, ég(o) adoléscens, Il eg(o) ephébiis, égo puér - gi: dea magnii, déa Cjibélle, Il dea domina Dlndyméi. Catullo,

-

6.3.10. I versi eolici. Hanno la loro origine nella metrica indoeuropea; in la­

tino ne troviamo già nella poesia scenica di epoca arcaica, ma il loro uso si fa­ rà frequente con Catullo e, soprattutto, Orazio. A parte alcuni casi, general­ mente limitati al periodo arcaico, i versi eolici constano di un numero fisso di sillabe. Varie teorie si sono susseguite fin dall'antichità sulla natura di que­ sti versi; noi osserviamo che, tranne l'enneasillabo alcaico (vd. sotto), tutti hanno in comune almeno una sequenza coriambica (- u u - ) che, in certi versi, è preceduta da un gruppo di due sillabe chiamato base. La dipodia coriambica catalettica o aristofanio o archilochio si presenta con ana­ clasi del secondo coriambo secondo lo schema: - U U -U-1-\

503

IV · STORIA DELLA LETTERATURA LATINA Orazio, Carmina, I 8 I: Lydia, dlc per omnis.

Nella commedia arcaica ricorrono: I) la dipodia acataletta Plauto, Bacchides, 636: sid nis(i} amis, non habeam

2) la tripodia acataletta: Plauto, Epidicus, 537: noscit{o} eg(o} htinc, tuim videor nisci(o} ubl Terenzio, Adelphre, 613: pietore cifnslstere nll consili quft

3) la tetrapodia acataletta: Plauto, Casina, 634: vae tib(i}! :: imm(o} lstuc tibi slt. :: ni cad{am} amabo tene mi Terenzio, Adelphre, 6u: ut neque quid mifaaam nic quid agam cirtu{s} siim

4) il gliconeo: X X - u u - x n.

In epoca arcaica possono venire realizzati da due sillabe brevi sia ancipitia che longa: Plauto, Bacchides, 629a: Inmerito tib(i} iratu{s} fui - 630: hiiiii, bon{um} hab(e} tinim{um}. :: und(e} habeam?

ma in Catullo, Orazio, Seneca, questi elementi sono realizzati monosillabi­ camente (sempre da sillaba breve il penultimo ) . I primi due elementi, la ba­ se, sono singolarmente realizzati da lunga o da breve in Catullo (ma mai in una sequenza di due brevi) : 34 2: puell(ae) it puer(i} Integri 34 7: quam matir prope Diiiam 6I 6: cinge timporafloribus,

da due lunghe in Orazio (unica eccezione lgnls di Carmina, I I5 36) : Carmina, I 6 8: nic saevam Pelopls domum,

mentre in Seneca possono essere realizzati, oltre che dal piu usuale spondeo: Medea, 78: ixercit iuvenum modo

anche da un trocheo: 504

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

Oedipus, 88J:ftngér(e) arbitri6 mé6, e,

almeno una volta da un dattilo:

Agamemnon, 635: iÙJrémuft màlé sdbd0/6.

Ilferecrateo si presenta come la forma catalettica del gliconeo: X X - U U-1-'l.

In Catullo la base viene normalmente realizzata da un trachea: 61 10: ldtédm pédé s6t:eUm

piu raramente da un giambo: 34 4 : puelliiequé ciinamus

o da uno spondeo: 61 205: n6n abswndis àm6rem.

In Orazio la base è sempre realizzata da due sillabe lunghe: Carmina, 3 7 3: Thyna mércé béiitum - 4 13 3: vfsjlmn6sà vidéri.

Nei versi di Seneca si individua con certezza un solo ferecrateo: Agamemnon, 636: parens Pjrrhiis Olfxi.

Il priapeo - X - uu - u - JI - X - u u - 1-'l

è il risultato dell'unione di un

gliconeo e di un ferecrateo, ma si presenta con una propria individualità ritmica perché tra le due parti, sempre rigorosa­ mente separate da dieresi, non c'è interruzione di sinafia; tra di esse è anche ammessa sinalefe. Gli ancipitia sono sempre realizzati da una sola sillaba, per lo piu una breve: Catullo, 17 1 : 6 col6niii, quae rupfs Il p6nte liiedere Mngo - 17 4= né supfniis eat ciivaqu(e) Il fn pàldde recdm bat

- 17 1 9 : fnfossa LigUrf iàcét I l suppernatà seruri.

s os

IV • STORIA DELLA LETTE RATURA LATINA

Il difilio risulta dall'unione di un colon chiamato hemiepes maschile, che cor­ risponde alla prima parte di un pentametro o di un esametro dattilico, e di un telesilleo, che si presenta come forma acefala del gliconeo: -

(ì(ì -

uu

-

(ì(ì -

uu

n ii X - uu - x n

Plauto, Curculio, 96:jlos vétéris vlnf Il meis naribiis obiéctdst.

Il wilamowitzianus X X X X -u u n

è

usato nella commedia:

Plauto, Bacchides, 639: écciim Chrysiildm vidéO.

I:adonio -u u- n

ha funzioni di clausola: Plauto, Casina, 645: quae m(e) hiibiifstl Catullo, n 8: aéquorii Nfliis Orazio, Carmen saeculare, 48: ét déciis omné Seneca, Medea, 615: idra piavlt Stazio, Silvae, 4 7 I6: conwlor auro? I: endeCflSillabofalecio

X X - uu - u - u - n

consta di una base piu spesso realizzata da spondeo (cosi sempre in Marzia­ le), ma anche da trocheo o da giambo; del tutto eccezionali i falecii catullia­ ni del carme 55 (e s8a) che condensano in una lunga 4° e 5° elemento. La ce­ sura ricorre piu frequentemente dopo il 6° elemento, ma anche altrove, co­ me dopo il 5°: Catullo, I I: cUi dano lépiddm l navdm libéllum - I 2: arida modo l pdmic(e) éxpolftum? - I 4: méas éss(e) iiliqufd l piitaré ndgas - 55 I: oramds, si forté non maléstiimst Marziale, 2 4I r : ride, sf siipis, l o piiélla, ride Stazio, Silvae, I 6 I: ét Phoebds piitér l ét sévérii Pallas.

so6

6 LA METRICA D E I ROMANI ·

Il saffico minore o endecasillabo saffico -u- X -uu-U-(.')

è utilizzato in strofe, ma anche in struttura xa:tà o•ixov. Il 4° elemento è di

norma realizzato da sillaba lunga, ma in Catullo è realizzato anche da breve e, raramente, da due brevi in Seneca che, inoltre, in qualche caso "condensa" 6° e 7° elemento realizzandoli con una sillaba lunga; la cesura ricorre gene­ ralmente dopo il 5° elemento, a volte dopo il 6°, altre volte sembra assente o secondaria: Catullo, 51 1: tlle mf par isse 1 dM vidétur - 51 13: 6tidm, Catdlle, 1 tibt mo/istumst Orazio, Carmina, 1 22 15: nic Iubtie tellds l generiit, IMnum - Carmen saeculare, 21: cértU5 dnden6s l deciis per annos Seneca, Medea, 636: sdmer(e) fnnumùas l solitdmfigdriis - Agamemnon, 809: Argos {ratae l cardm novircae Stazio, Silvae, 4 7 I: iam did lat6 1 sOciata cJmpo.

Il saffico maggiore -u--- l uu- 11 -uu-u-(.')

ricorre in una ode di Orazio come secondo verso di una strofe distica (vd. sotto, 6.3.11). Presenta una cesura dopo il 5° elemento e una dieresi dopo 1'8°: Orazio, Carmina, I 8 4= 6dent cJmpdm, l pàtiins l pdlveris atque s6lis.

{;asclepiadeo maggiore ---uu--uu--uu-U(.')

è usato da Catullo e Orazio in strutture xa•à o•ixov; le cesure, una dopo il 6°

elemento e una dopo il 10°, non sono ancora del tutto istituzionalizzate in Catullo: Catullo, 30 4: nicfact(a) fmpiàfallac(um) homindm l cJelicolfs plàcént - 30 12: quae t(u) ut paeniteat 1 p6stmodofacdfàciit tuf Orazio, Carmina, I n 1: td ne quaesiens, l sdre nifas, l quim mihi, quém tibt - I 18 6: qufs nan tipotids, l Bacche pàtir, 1 tique, decéns Vends.

Vasclepiadeo minore ---UU--UU-U(.')

507

I V · STORIA DELLA LETTERATU RA LATINA

usato in strofe e in strutture xa-rà o-rixov; l'incisione ricorre in genere dopo il 6° elemento; Seneca realizza il 2o elemento anche con due sillabe brevi: è

Orazio, Carmina, I II I: Maceniis, atiwfs Il Mite rigibds - 2 I2 I: nolls longaflrae Il billa Numantiae Seneca, Hercules Oetaeus, 524: o Fortdna vin""'s I l fnvidafortibds Agamemnon, 59I: �ugi(um) it miseros ii lfbera mors vOcét.

I..: enneasillabo alcaico X -u ---U-r:ì

usato in strofe e presenta una incisione dopo il 6° elemento; il primo ele­ mento può essere realizzato sia da sillaba lunga sia da sillaba breve: è

Orazio, Carmina, I I6 23: temptavit fn dulcf l iuvinta - 29 n: omftte mfrari l beatiie Stazio, Silvae, 4 5 3:jort(em) atquefJcunddm l Sevimm.

Il decasillabo alcaico - U U-UU-U-r:ì

utilizzato in strutture strofìche; l'incisione ricorre in genere dopo il 4° ele­ mento, ma anche altrove: è

Orazio, Carmina, 2 3 8: fnteriore l nota Falirni Stazio, Silvae, 4 5 4: non solitfs l fldibds saldto.

I.: endecasillabo alcaico X -u---UU-Ur:ì

anche esso usato in strofe; il 1° elemento è spesso realizzato da sillaba lun­ ga, piu raramente da breve; l'incisione ricorre per lo piu dopo il so elemento:

è

Orazio, Carmina, I 9 I: vidis ut alta l stit nive candiddm Stazio, Silvae, 4 5 I: parvf beati4s l rdris honoribds.

6.3.11. Le strofe. Si propongono come unità metrico ritmiche piu ampie dei singoli versi che le compongono; all'interno di ognuna è spesso presente la sinafìa, con possibilità di sinalefe tra verso e verso. La strofe saffica, usata da Catullo, Orazio, Seneca, Stazio, consta di tre endeso8

6

·

LA METRICA DEI ROMANI

wsillabi saffici e un adonio; pochissime le interruzioni della sinafia, non rara­ mente si trova sinalefe tra verso e verso; una stessa parola può concorrere a realizzare la parte finale del terzo endecasillabo e quella iniziale dell'adonio. Seneca usa strofe saffìche "ampliate", composte di otto endecasillabi conclu­ si dall'adonio. In Catullo si incontrano due strofe di gliconei eJerecratei: la prima si compone di tre gliconei e un Jerecrateo, e tende a proporsi come un unico verso per l'as­ senza di interruzioni della sinafìa e per le molte sinalefì; la seconda è com­ posta da quattro gliconei e un Jerecrateo, e anch'essa, tende a non presentare in­ terruzioni di sinafìa. Orazio utilizza la seconda strofe asclepiadea, che consta di tre asclepiadei minori e u n gliconeo, e la terza strofe asclepiadea, composta da due asclepiadei minori, un fe­ recrateo e un gliconeo. La strofe alcaica è composta da due endecasillabi, un enneasillabo e un decasillabo alwici; la sinafìa è interrotta spesso, per cui i singoli versi sembrano godere di una propria individualità: è usata, oltre che da Orazio, in un componimento di Papinio Stazio (Silvae, 4 s). I versi asinarteti, composti, cioè, di due cola di ritmo diverso, possono essere considerati delle vere e proprie strofe distiche (vd. sotto), graficamente di­ sposte su di un solo rigo, per le numerose assenze di sinafìa tra le due parti che li compongono: I) l'elegiambo -uu-uun ll X - u - X - u n

è il risultato della giustapposizione di un trimetro dattilico catalettico e un dimetro

�iambico. Le coppie di brevia del versetto dattilico non sono mai realizzate da sillaba lunga; gli elementi del dimetro giambico sono sempre realizzati mo­ nosillabicamente: Epodi, II IO: arguit ét lateré Il pedtits fmo spfritus II I4: fervidiore mero h Il arafna promorat foco,

Orazio, -

2) il giambelego X - u - X - U f.'\ 11 -UU-UUJ.'\

è una sorta di contrario ritmico dell'elegiambo, constando di un dimetro giam­

bico e un trimetro dattilico catalettico, e realizza gli elementi come l'elegiambo stesso: 509

IV

·

STORIA DE LLA LETTERATURA LATINA

Orazio, Epodi, 13 10: lévtiré dfns pictòrti I l s6llicitiidinibiis,

3) il verso archilochio (Ì(Ì (Ì(Ì (Ì(Ì - - - - - - - UU 11 -U-U - r.'\ uu

uu

uu

è il risultato dell'unione di un tetrametro dattilico (o alcmanico) e un itifallico; l'ici­ fallico realizza i longa soltanto con sillaba lunga e 2° e 4° elemento con sillaba breve. Tra le due parti non è ammesso iato: Orazio, Carmina, 1 4 3: tic néqué idm stiibulfs gaudét pécU5 Il tiut iirtitòr fgnl.

Le strofe distiche, che constano, cioè, di due versi distinti, sono assai nume­ rose nella poesia di Orazio: 1) strofe formata da un gliconeo e un asclepiadeo minore; 2) strofe saffica maggiore, che consta di una dipodia coriambica catalettica (aristofa­ nio) e un saffico maggiore; 3) strofe di un esametro dattilico e un tetrametro dattilico catalettico (che, chiama­ to anche archilochio, presenta lo schema - nn - nn - uu - n ); uu uu 4) strofe formata da un esametro dattilico e un trimetro dattilico catalettico (-uuUUJ.) : le sequenze di due brevia non sono mai realizzate da sillaba lunga); non si trovano interruzioni di sinafìa tra i due versi; s) strofe constante di un verso archilochio e un trimetro giambico catalettico (il quale presenta lo schema X - u - X - u - u - (7) ) ; 6) strofe composta da un dimetro trocaico catalettico ( - u - U - U f.) , con i longa sempre realizzati monosillabicamente) e un trimetro giambico catalettico; 7) strofe formata da un trimetro giambico e un dimetro giambico: non infre­ quenti le interruzioni della sinafìa; 8) strofe composta da un trimetro giambico e un elegiambo: varie le interruzioni della sinafìa; 9) strofe composta da un esametro dattilico e un giambelego; 10) strofe formata da un esametro dattilico e un dimetro giambico; n) strofe formata da un esametro dattilico e un trimetro giambico (che presenta tutte le realizzazioni "pure": u -) .

510

6 · LA METRI CA DEI ROMANI

BIBLIOGRAFIA I.;Odusia di Livio Andronico è citata secondo l'ed. a cura di S. MARIOTTI, Urbino 19862 ; il Bellum Poenicum di Nevio secondo l'ed. a cura dello stesso, Roma 19702 [3• ed., a cura di P. PARRONI, Bologna 2001); gli Annales di Ennio secondo l'ed. a cura di]. VAHLEN, Leipzig 19032; Lucilio secondo l'ed. a cura di F. MARX, ivi 1903-1904; la poe­ sia drammatica frammentaria secondo l'ed. a cura di O. RIBBECK, ivi 1897-18983• Tut­ ti gli altri poeti sono citati secondo le edizioni critiche piu usuali. Per la Bibliografia si faccia riferimento a S. BoLDRINI, La prosodia e la metrica dei ro­ mani, Roma 1992 (e successive ristampe), pp. 185-204. [Bibliografia: F. CuPAIUOLO, Bibliografia della metrica latina, Napoli 1995. Concordan­ ze:]. LuQuE MaRENO (a cura di), Scriptores Latini de re metrica: Concordantiae, Indices, 18 voli., Granada 1987-2002 (in proseguimento). Manuali: L. CECCARELLI, Prosodia e me­ trica latina classica, con cenni di metrica greca, Roma 1998. Studi: J. LuQUE MaRENo-P.R. OiAZ v DiAZ (a cura di), Estudios de métrica latina, 2 voli., Granada 1999; ]. SoLANA Pu­ JALTE (a cura di), Estudios de prosodia y métrica latina tardia y medieval, Cordoba 1999 · Studi particolari, sul saturnia: G. MoRELLI, Metrica greca e saturnia latino. Gli studi di Gennaro Perrotta sul saturnia, Bologna 1996; J. PARSO N, A New Approach to the Saturnian Verse and its Relation to Latin Prosody, in (.!)

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3 · L ' ETÀ TARDOANTICA ce favorita divenne - come già per suo padre - Sol invictus, che nel III/IV se­

colo veniva interpretato sia come una concreta divinità che come l'essenza di tutte le forze cosmiche. Secondo Lattanzio (De mortibus persecutorum, 44 s) ed Eusebio (Vita Constantini, I 27-

32) Costantino ebbe prima della battaglia contro Massenzio delle visioni che lo spin­

sero a far combattere i suoi soldati sotto un nuovo segno che si richiamava a Cristo (i:). A questo episodio è legata fino ad oggi l'idea di una conversione di Costantino al cristianesimo (cfr. recentemente TH. GRùNEWALD, Constantinus Maximus Augustus, Stuttgart 1990, pp. 78-86; W. KuHOFF, in Chiron » , 21 1991, pp. 167-68), mentre se­ condo altri studiosi (ad es. T.D. BARNES, Constantine and Eusebius, Cambridge [Mass.] 1981) l'imperatore era cristiano già prima del 312. Secondo Jochen Bleicken (Constan­ tirz d. Grofle und die Christen, Mi.inchen 1992) Costantino ha preso la sua decisione a fa­ vore del cristianesimo soltanto negli anni precedenti l'ultima guerra contro Licinio. I motivi per questo dissenso risiedono nella diversità delle fonti: sull'arco di Costanti­ no a Roma non ci sono testimonianze cristiane; i panegirici non nominano il Dio dei cristiani; nel conio delle monete domina ancora a lungo Sol invictus. D'altro canto Co­ stantino ha favorito i cristiani dal 313 e ha fatto donazioni alla comunità romana; su un famoso medaglione d'argento del 313 o 315 compare il monogramma di Cristo sulla cresta piumata anteriore dell'elmo imperiale; in un patto a Milano (313) Costantino e Licinio riconfermarono l'editto di Galerio e vararono disposizioni vantaggiose per i beni della Chiesa. Probabilmente l'imperatore, che si fece battezzare solo sul letto di morte, intendeva il Dio dei cristiani come una concretizzazione del Sol, in ogni caso non deve avere fatto chiare distinzioni fra i due (cfr. A. ALFòLDI, The Conversion oJCo­ stantine and Pagan Rome, Oxford 19692 [trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-Bari 1976], e da ultimo LIEBESCHUETZ, Continuity and Change, p. 280). ·N

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3 ·

I L CRISTIANE SIMO: DALLE O RI G I N I FINO ALLA TARDA ANTICH ITÀ

trattiva maggiore anche per strati piu ampi e piu istruiti; il modello origina­ rio conservò tuttavia una forza contagiosa finendo con l'essere di nuovo vin­ colante per i movimenti devozionali del IV secolo (vd. avanti, pp. 696-70) . Nel periodo post-apostolico non si cambiò solo il profilo teologico ed eti­ co. La nuova religione spostò, verso la fine del I secolo, il suo baricentro geo­ grafico e cosi anche la sua struttura organizzativa e religiosa. Poiché Gerusa­ lemme, in seguito alle due rivolte ebraiche nel 70 e nel 132-135 d.C., era stata radicalmente distrutta dalle truppe romane e l'ingresso alla città, ricostruita come Aelia Capitolina, vietato agli ebrei, il significato di questo centro idea­ le della cristianità, d'impronta cristiano-giudaica, era notevolmente diminui­ to. Al suo posto subentrarono Antiochia, Roma e la regione del Meandro in Asia Minore con i suoi dintorni (da Efeso fino a Ierapoli). Cosi si chiarisce anche il carattere spiccatamente "cristiano-pagano" e cittadino dell'antico cristianesimo, che ora emergeva. Quest'ultimo è sbocciato attraverso le re­ golari evangelizzazioni di regioni ampiamente rurali nel IV secolo (E. Plii­ macher, Identitiitsverlust und Identitiitsgewinn, Neukirchen-Vluyn 1987, con la recensione di G. Schollgen, in ThRev, 84 1988, pp. 298-300) . Ad Antiochia e anche a Roma, il cristianesimo sembra aver raggiunto rapidamente le classi sociali piu abbienti e meglio istruite. I.:esistenza di una categoria impegnata di "guide ecclesiastiche" (come, per esempio, il vescovo Ignazio di Antiochia all'inizio del II secolo), nonché la formazione nel II secolo di una teologia "scientifica" - almeno secondo i criteri dell'epoca -, è correlata al pubblico cittadino della nuova religione. Dichiarazioni ulteriori sulla struttura sociale della comunità cristiana sono difficili anche per luoghi piu grandi, dai quali derivano maggiori quantità di testi. Intanto i clichés piu antichi, come quello di una "religione degli strati inferiori", sono da considerare a malapena cor­ retti (G. Schollgen, Ecclesia sordida?, inJbAC, App., 12 1984, pp. 7-12, 268 sg.). 3-l

IL II SECOLO

Il II secolo appare come una "fase di chiarificazione". Dapprima esisteva­ no fianco a fianco, in grandi pluralità, diverse forme e successive evoluzioni del cristianesimo dell'epoca apostolica e post-apostolica - sempre piu in con­ correnza le une con le altre. Le immagini di "ortodossia" e "eresia", svilup­ patesi alla fine del II e nel III secolo, non colgono la realtà di un periodo nel quale un common sense teologico e una struttura gerarchica ad ampio raggio delle comunità cristiane si formano solo lentamente. Questo era stato visto

VII

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RELI G I O NE ROMANA

già nel 1934 da Walter Bauer (Rechtgli:iubigkeit und Ketzerei im i:iltesten Christen­ tum). Sarebbe tuttavia sbagliato dedurne l'assenza di un nucleo centrale for­ mativo, postulando cosi diversi "cristianesimi" senza riferimento l'uno all'al­ tro {come ha fatto invece, per esempio, D. Georgi). Ugualmente astorico sa­ rebbe capovolgere semplicemente la visione tradizionale, facendo passare le correnti del cristianesimo marginalizzate alla fine del II secolo, a priori, come piu progressive o interessanti dal punto di vista storico-spirituale {come fa G. Liidemann, tra gli altri). La situazione generale della nuova religione, in tutte le sue manifestazio­ ni, era difficile, o meglio instabile: l'esplicita ammissione pubblica di adesio­ ne al cristianesimo era di per sé punibile in quanto confessio nominis, come mostra lo scambio epistolare, determinante dal punto di vista giuridico, fra Traiano e il governatore della Bitinia Plinio negli anni 112/113 (Epistulae, 10 96, con rescritto, 10 97) . I cristiani dovevano quindi fare i conti con le accuse e le condanne (in genere il summum supplicium), alle quali però si giunse nel II secolo solo in particolari luoghi e in certi periodi. In teoria, le persecuzio­ ni sistematiche scoppiarono solo alla metà del III secolo (W.H.C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church, Oxford 1965; R. Freudenberger, Das Verhalten der romischen Behorden gegen die Christen im 2. ]ahrhundert, Mi.in­ chen 19692) . Come una teologia straordinariamente gravida di futuro si manifestò quella che il vescovo di Antiochia, IGNAZIO, formulò in sette lettere alla sua comunità in Asia Minore, intorno al 110 o 115, durante il suo trasporto come prigioniero a Roma (o che fu formulata da un altro autore, sotto il suo nome, verso la metà del II secolo: la datazione di questo testo che pone al centro sia il vescovo che la cristologia è controversa). Lo {pseudo?-)lgnazio intese la sua carica vescovile come rappresentazione dell'unità della Chiesa (« dove appare il vescovo, deve esserci la comunità, cosi come dove c'è Gesti Cristo, c'è tutta la Chiesa )), Ignazio di Antiochia, Epistula ad Smyrnaeos, 8 2; la prima attestazione dell'espressione xa.�oÀtxiì èxxÀ11oia.) e la sua passione come imi­ tazione della passione di Cristo (IJ.tllllnlç: Epistula ad Romanos, 6 3) . Le lettere sottolineano inoltre la veridicità della passione di Gesu e la sua esistenza nel­ la forma delle due nature: « di carne e di spirito, generata e non generata, un Dio nato nella carne '' (Epistula ad Ephesios, 7 2) . Nel II secolo i cosiddetti apologeti rappresentano un progetto di cristiane­ simo urbano, relativamente istruito. Gli apologeti erano teologi che redasse­ ro delle èmoÀoyia.t e le dedicarono agli imperatori per promuovere la tolle-

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IL CRISTIANE S I M O : DALLE O RI G I N I FINO ALLA TARDA ANTICHITÀ

ranza giuridica nei confronti della loro religione. Con questi testi essi voleva­ no al contempo giustificare il cristianesimo contro le accuse di pagani colti (com e quelle del filosofo medioplatonico CELso, seconda metà del II seco­ lo). Alcuni di questi autori, per esempio GIUSTINO (che scrisse intorno alla metà del II secolo, a Roma), o TEOFILO (vescovo di Antiochia, che visse alla fine del II secolo), avevano una solida conoscenza della mitologia pagana e una certa misura di sapere filosofico popolare, cosicché si può parlare di una nascita graduale di una teologia "scientifica". Giustino - philosophus, habitu quoque philosophorum incedens (cosi Girolamo, circa duecento anni dopo, nel suo catalogo degli scrittori: De illustribus viris, 23 I) - è anche un buon testi­ mone della vita quotidiana religiosa a Roma, perché riferisce sia sulla funzio­ ne religiosa del battesimo (Apologia, I 6I 65; cioè l'iniziazione con la successi­ va eucarestia) sia sulle normali funzioni religiose domenicali (ivi, 67 I) : inse­ gnamento, voto e un digiuno battesimale precedono il battesimo; esso viene inteso come "rinascita" (con Paolo, Lettera ai Romani, 6 I-n, e Giovanni, 3 s). Solo chi è battezzato può prendere parte alla celebrazione del banchetto che, secondo una preghiera di ringraziamento, si chiama cùxapta-ria. Gli elemen­ ti del pane e del vino, durante la recitazione della narrazione liturgica neote­ stamentaria in forma abbreviata, sono offerti come « il corpo e il sangue di quel Gesu fatto carne >> (Apologia, I 66 2; l'analogia con il banchetto dei miste­ ri di Mitra, storicamente di secondaria importanza, è spiegata come « con­ traffazione dei demoni ») La domenica, cioè il giorno dopo il sabato, si riu­ nisce un'assemblea per la lettura delle scritture, l'interpretazione (l'omelia, ovvero la predica), la preghiera e l'eucarestia. La scelta di questo giorno viene motivata con la data della resurrezione di Gesti (Apologia I 67 I). .

Un modello di cristianesimo, in alcuni punti del tutto opposto, talvolta invece molto affine, si trova nei movimenti gnostici, normalmente definiti oggi in modo ar­ tificiale gnosticismo (sull'argomento, in modo critico, CH. MARKSCHIES, s.v. Gno­ sis/Gnostizismus, in Neues Bibel-Lexikon, I, Zi.irich 1991, pp. 868-71), le cui prime testi­ monianze scritte sono ugualmente datate al II secolo. Una chiara analogia fra gli apo­ logeti e i singoli gnostici risulta dal fatto che essi si riunivano, appoggiandosi a scuole filosofiche pagane, come gruppi intorno a singole personalità importanti della cultu­ ra, come il "valentiniano" romano ToLOMEO (metà del II secolo). Accanto ai valenti­ niani sull'argomento vd. CH. MARKSCHIES, Valentinian Gnosticism. Toward the Ana­ tomy oJa School, in A.M. McGuiRE (a cura di), 50'1' Anniversary ofthe Discovery ofthe Nag­ Hammadi-Texts, Leiden 1997 vanno qui anche nominati, per esempio, i basilidiani o i marcioniti. Con i reperti copti, in prossimità del luogo di Nag Hammadi nell'Egit­ to superiore, ci sono ora anche 53 scritti originali di una "biblioteca gnostica", oltre al-

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VII



RELI G I O NE RO MANA

le relazioni e alle citazioni finora note degli eresiologi cristiani (cioè dei critici di que­ sto movimento appartenenti alla maggioranza ecclesiale, come ad esempio lRENEO m LI ONE [fine del II sec. ] o EPIFANIO di SALAMINA [fine del IV sec. ]. Lo sviluppo del movimento viene concluso dal manicheismo, che lo stesso fondatore della religione persiana MANI (216-276 d.C.) definf come la nuova religione mondiale ('Kephalaia' copti, par. I54).

Se si analizza la sua origine, la gnosi prima di tutto non è una "religione mondiale" sui generis (come ritiene, per esempio, G. Quispel, Gnosis als Wel­ treligion, Zi.i rich 1951) , che si serva in modo parassitario di diverse forme di culto. Sulla base delle fonti, si tratta di un tentativo - forse nato nella cerchia del giudaismo ellenistico e che perciò integrava anche tradizioni giudeo­ apocalittiche - di sviluppare la teologia cristiana come un sistema, secondo l'esempio delle contemporanee teologie e filosofie pagane. La risposta cri­ stiana alle domande generali sull'origine del male, dell'uomo e della sua re­ sponsabilità (Clemente Alessandrino, Excerpta e Theodoto, 35 r) sembra sia sta­ ta resa piu comprensibile alla luce dell'antico sincretismo religioso, anche se in parte viene privilegiata una chiara rielaborazione delle diverse tradizioni (ad esempio, attraverso la cosiddetta "esegesi della protesta", nella quale la storia della creazione giudaica viene letta contro il suo senso originale: cfr. Apocrifo di Giovanni, Nag-Hammadi Codex m, 1 capp. 23 14-28 23 con Genesi, 2 7-3 6). I testi gnostici sono caratterizzati dalla libera miscela di un mito fitti­ zio, che integra in parte anche settori della mitologia biblica rimasti scoperti (per es. nell'ambito precosmologico), allegorie di miti e teoria filosofica dei principi. Questa combinazione si trova naturalmente non solo nella "gnosi imperiale", ma anche, per esempio, in propaggini del contemporaneo plato­ nismo (andrebbero nominati, tra gli altri, Plutarco, Apuleio, Numenio o gli oracoli caldei; dr. A. Bohlig-Ch. Markschies, Gnosis und Manichaismus, Ber­ lin-New York 1994, pp. v-vm). La teologia gnostica si differenzia essenzial­ mente da quella degli apologeti soprattutto attraverso l'introduzione di un proprio dio creatore - definito con il termine platonico orunoupy6ç, e rap­ presentato come in parte ignorante {Jes., 45 sa), in parte anche cattivo - e la valutazione del mondo e della materia come "creazione cattiva" (diversa­ mente che nel platonismo). infine, un movimento originario di piccoli paesi della Frigia nato nella seconda metà del II secolo intorno a MoNTANO e alle profetesse MAssiMILLA e PRISCILLA, conservò diverse caratteristiche o tendenze del cristianesimo dell'età apo­ stolica: il ruolo religioso paritario fra uomini e donne, l'attesa di un imminente ritorIl montanismo,

3

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IL CRISTIANE S I M O : DALLE ORIGINI FINO ALLA TARDA ANTI CHITÀ

no di Cristo e l'elemento estatico-profetico. Questi tratti "conservativi" testimoniano l'esistenza di Logia profetici, con la loro continuità storico-formale nei confronti dei rispettivi testi del U?cchio Testamento, equivocamente chiamati per lo piu anche « ora­ coli >>. In una seconda fase del movimento, nel III secolo, si indebolirono l'aspetto dell'attesa imminente e il carattere profetico per far posto al dominio di un'etica ri­ goristica. A questa forma di montanismo si collegò, all'incirca nel 205 d.C., il teologo nordafricano TERTULLIANO di Cartagine.

Solo alla fine del II secolo le condizioni si sono stabilizzate al punto che, all'interno del cristianesimo, si possono osservare contorni netti e si può parlare dell'identità consolidata di una maggioranza, che si chiama i] xafio­ Àtxtì txxÀTjoia; le tradizionali espressioni "ortodossia" ed "eresia" implicano valori teologici; le espressioni apparentemente senza valore come "chiesa della maggioranza" non sono a dire il vero particolarmente felici. Il proces­ so di consolidamento degli "ortodossi" e della "chiesa della maggioranza" può essere bene illustrato dalle cosiddette "tre norme cattoliche" (è questo un concetto della storia teologica protestante del XIX secolo, anche se una riproduzione storica dettagliata di questo processo, per mancanza di fonti evidenti, è difficile; chiaro è solo il risultato alla fine del II secolo) : I) una formula teologica di base, fissa nella sostanza e variabile nell'espressione (xavwv -rfjç 1tion:wç, regula fidei ovvero lleritatis, per esempio in Ireneo di Lio­ ne, Adllersus haereses, I IO I) ; 2) un insieme di scritti del Nuovo Testamento che presenta un nucleo fisso e delle parti (marginali) che variano a seconda dei luoghi, che dal IV secolo viene ugualmente chiamato xavwv; 3) la carica ecclesiastica a tre livelli, con i gradi di diacono, sacerdote e vescovo. A capo di ciascuna comunità, dalla fine del II secolo, c'è prevalentemente un singo­ lo vescovo (o meglio: un "monoepiscopato" inteso come 'episcopato mo­ narchico'); dal III secolo la carica originaria degli anziani si trasforma in una carica sacerdotale, come può testimoniare tra l'altro l'uso crescente dei ter­ mini corrispondenti (sacerdos, ecc.) (H Freiherr von Campenhausen, Kirchli­ ches Amt und geistliche Vollmacht, Ttibingen I953) . Una spiegazione di queste tre norme solamente come 'delimitazione antieretica' è insoddisfacente (per esempio, del canone neotestamentario contro Marcione: cosi H. Frei­ herr von Campenhausen, Die Entstehung der christlichen Bibel, ivi I968, pp. 193-200). Piu conforme al fenomeno appare l'idea che queste norme siano il risultato di una trasformazione creativa di un movimento interno ai giudei, di impronta apocalittica, in una religione di piu ampio respiro, orientata verso il futuro.

VII

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REL I G I O NE ROMANA

3·4· IL III SECOLO Il III secolo può essere definito come la fase di "maggiore acculturazio­ ne" della religione cristiana: sommi studiosi e illustri teologi, anche fra i non cristiani, come CLEMENTE DI ALESSANDRIA (t prima del 215 d.C.), GIU­ LIO AFRICANO (t dopo il 240 d.C.) e 0 RIGENE (t 253/254 d.C.) fecero degli ulteriori sforzi per attirare la classe colta verso la nuova religione, e a questo scopo raccolsero molto materiale desunto dalla filosofia contemporanea {soprattutto dal medioplatonismo) e dalle altre scienze. Giulio Africano de­ dicò ad Alessandro Severo, al quale sistemò la biblioteca del Pantheon (POxy, 412; Giorgio Sincello, p. 439 ll. 18-20 Mosshammer), una specie di Realenzyklopadie {Kco·roi, 'Ricami') e redasse una cronaca mondiale cristiana {F.C.R. Thee, ]ulius Africanus, Ti.ibingen 1984). Origene si confrontò con il filosofo medioplatonico Celso, scrisse la prima dogmatica {Ilepì apxG:Jv, De principiis) ed elaborò, per scopi scientifici, una grande sinopsi delle diverse traduzioni greche del Vecchio Testamento col testo originario (Hexapla). Fra il 218 e il 222 egli tenne discorsi ad Antiochia, davanti alla madre del­ l'imperatrice Giulia Mammea. Il fatto che il filosofo neoplatonico Porfirio (forse conobbe personalmente Origene: Eusebio di Cesarea, Historia ecclesia­ stica, 6 19 5-7) si occupasse dettagliatamente di testi biblici, testimonia inol­ tre l'importanza che assunse il cristianesimo in epoca imperiale nella vita spirituale degli antichi. La religione cristiana stessa era diventata, allo stesso tempo, anche un ) accentua fortemente le differenze a danno delle continuità. La ricca tradizione archeologica e letteraria relativa alla tarda antichità cristiana consente un quadro della pietà cristiana molto piu differenziato di quanto non si verifichi per i tre secoli precedenti. Essa permette tuttavia di dimostrare che la struttura organizzativa e devozionale della religione cristiana si era costituita soprattutto nel III secolo. Nel IV se­ colo si stabiliscono però anche forme nuove di devozione, o meglio, forme vecchie acquistano una nuova attualità. Va qui ricordato soprattutto il monachesimo, che è nato da movimenti ascetici piu antichi, nel tardo III secolo, in Siria, Palestina ed Egitto. Il morra702

3 IL CRISTIANESIMO: DALLE ORIGINI FINO ALLA TARDA ANTICH ITÀ ·

chesimo si rifà, in fondo, alle tendenze del modo di vivere di Gesti e alle for­ me di esistenza del periodo apostolico, che si erano conservate nel II secolo, soprattutto in Siria, come ascetismo vagante ed encratismo (èyxp&:reux). Li forse nacque anche la parola "monaco" per indicare colui che vive da solo (f.Lovax6ç, come traduzione del siriano ihidaya). Come stadi successivi per la nascita del monachesimo cristiano vanno inoltre considerati sia l'ideale di una vita filosofica (&axTJmç, CataO eta, ecc.) che i movimenti ascetici giudaici. In Egitto sorse un movimento di imitazione radicale che praticava il ritiro nel deserto (ecvcqwpTJmç dç -ròv epTJIJ.OV, da cui "anacoreti" o "eremiti"). Un rappresentante straordinario di questa forma è il copto ANTONIO (ca. 255356) che, colpito dalla lettura di Matteo 19 21, si converti, in tutta solitudine, al digiuno, al rifiuto del sonno, alle preghiere e a una vita legata alla Scrittu­ ra. Un insediamento di eremiti, noto già nell'antichità e molto frequentato, con soltanto, fino ad allora, 1.500 celle scavate (in verità piccole fattorie), è Kellia (Quocour, a quasi 6o chilometri a sud est di Alessandria). Senza una concorrenza diretta nacque una seconda forma: il copto PACOMIO (t ca. 346 d.C.) creò intorno al 323/325 nell'Egitto superiore un monastero (IJ.ovamt1ptov) con regole di vita collettiva, funzioni religiose e lavoro in comune. La sua istituzione di monasteri si organizzò rapidamente intorno ai settemila monaci, che vivevano da cenobiti. La Vita della sorella maggiore del teologo Basilio (vd. sopra, p. 702: Gregorio di Nissa, Vita s. Macrinae) mostra che an­ che delle donne parteciparono a questo movimento. Una forma particolar­ mente spettacolare di ascetismo in Siria è rappresentata dagli stiliti. Essa risa­ le a SIMEONE IL VECCHIO (t 459 d.C.; testi importanti in « Texte und Unter­ suchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur », 32-34 1908), che, al­ l'inizio del V secolo, si ritirò su una colonna per motivi legati alla pratica del­ l'ascesi: ma ciò aumentò ancora di piu l'affluenza di visitatori. Dopo la sua morte fu costruita intorno alla colonna, a Kal'at Sim'an ad Antiochia, una chiesa immensa con un ospizio per i pellegrini. In Occidente, alla fine del IV secolo, Martino di Tours documenta il passaggio da un eremitismo isolato ad un cenobitismo legato alla chiesa. Centri di questo monachesimo gallico fu­ rono l'Aquitania, l'isola-monastero di Lerinum/Lérins e quello di Massil­ la!Marsiglia (F. Prinz, Friihes Monchtum im Frankenreich, Mi.inchen 19882). La differenza fra una "religiosità popolare" e una "religiosità superiore" delle élites colte, diffusasi nella ricerca a partire da Hume, nasconde il fatto che apparenti "feno­ meni di substrato" di una devozione "concreta" - come ad esempio, la magia, la su­ perstizione e la fede nei miracoli o il culto delle reliquie - erano molto diffusi nel-

VII RELIGIONE ROMANA •

l'antichità cristiana (P. BROWN, The Cult of the Saints. Its Rise and Function in Latin Chri­ stianity, Chicago 1981 [trad. it. Il culto dei santi. I:origine e la diffusione di una nuova religiosi­ tà, Torino 1983) ; Io., Society and the Holy in Late Antiquity, Berkeley 1982 [trad. it. La so­ cietà e il sacro nella tarda antichità, Torino 1988]). D'altra parte, non si deve neanche sot­ tovalutare quanto i circoli piu ampi fossero partecipi alle discussioni cristologiche e teologiche sulla Trinità del IV e del V secolo; lo mostrano soprattutto le prediche del IV secolo - ad esempio, di Giovanni Crisostomo, predicatore in Antiochia e, negli anni 397-403 d.C., patriarca di Costantinopoli -, ma anche rovine archeologiche e te­ stimonianze testuali documentano la diffusione e il significato di amuleti ovvero di reliquie. Il culto delle reliquie è in relazione alla grande importanza che singoli cristiani e cristiane particolarmente esemplari guadagnano ora come "santi" (originariamente un titolo per tutti i membri della comunità: cfr. Lettera ai Romani, 1 7 e la definizione communio sanctornm). Dalla fine del I I secolo, sulla base della tradizione teologica giu­ daica (per es., 4 Libro dei Maccabei, 6 13-27) e della devozione, furono venerati i testi­ moni di Gesu che resistettero alla persecuzione (!J.ap•uç come IJ.liJ.T}'tTJç xpto•ou). I racconti delle loro passioni (passiones) costituiscono il nucleo della ricca letteratura agiografica (cfr. sull'argomento, H. DELEHAYE, Les Légendes hagiographiques, Bruxelles 19734 = 1955 [trad. it. Le leggende agiografiche, Firenze 1910, con varie rist.]). La categoria scientifico-religiosa del itdoç avijp si è invece dimostrata non senza problemi (H.D. BETZ, s.v. GottmetiSch, n, in RAC, xn, Stuttgart 1983, pp. 234-312; cfr. in generale G. ANDERSON, Sage, Saint, and Sophist. Holy Men and their Associates in the Early Roman Em­ pire, London 1994). Le virtutes del santo motivano il suo ruolo come "difensore civico" nei problemi quotidiani del singolo ovvero della comunità, ma anche di intercessore presso e davanti a Dio, prima e dopo la morte (cfr., ad esempio, i graffiti nella zona Ad catacumbas sotto San Sebastiano a Roma: ) secondo E.R. Dodds, Pagan and Christian in an Age of An­ xiety. Some Aspects oJ Religious Experience _{rom Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge 1965 [trad. it. Pagani e cristiani in un'epoca d'angoscia: aspetti dell'espe­ rienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze 1997]). BIBLIOGRAFIA Per i testi delle fonti, in particolare: E. DEKKERs-A. GAAR, Clavis Patrum Latinorum (= CPL}, Turnhout 19612 [19953], e H J . FREDE, Kirchenschrijtsteller. Verzeichnis und Sigel, I I, Freiburg 19954, nonché M. GEERARD, e/avis Patrum Graecorum (= CPC), 5 voli. e I suppl, Turnhout 1979-1988; inoltre CH. MARKSCHIES, Arbeitsbuch Kirchengeschichte, Tii­ bingen 1995, pp. 46-49; cfr. anche gli annali della Bibliographia Patristica, I 1956 (Berlin I956), 33-35 1988-1990 (Berlin-New York 1997). In generale: B. ALTANER-A. STUIBER, Patrologie. Leben, Schrifien und Lehre der Kirchen­ viiter, Freiburg 19809; C. ANDRESEN (a cura di), Handbuch der Dogmen- und Theologiege­ schichte, I, Gottingen 1988 (= 1982); H. CHADWICK, Die Kirche in der antiken Welt, Berlin­ New York 1972; A. GRILLMEIER, jesus der Christus im Glauben der Kirche, 2 voli. in 4 par­ ti, Freiburg 1979-1991 [trad. it. Gesu il Cristo nella fede della Chiesa, Brescia 1982-2001]; W.D. HAUSCHILD, Lehrbuch der Kirchen- und Dogmengeschichte, I. Alte Kirche und Mittelal­ ter, Giitersloh 2ooo2;J.N.D. K.ELLY, Early Christian Creeds, London 19723 [trad. it. I sim­ boli di fede della Chiesa antica: nascita, evoluzione, uso del credo, Napoli 1987]; H. LIETZ­ MANN, Geschichte der Alten Kirche, Berlin-New York 19755 (= 1932-1944); CH. MARK­ SCHIES, Zwischen den Welten wandern. Strukturen des antiken Christentums, Frankfurt 1997 [trad. it. In cammino tra due mondi: strutture del cristianesimo antico, Milano 2003]; M. VE­ NARD-CH. PIÉTRI (a cura di), Geschichte des Christentums, n . Das Entstehen der einen Chri­ stenheit (250-430}, Freiburg 1996 [trad. it. La nascita di una cristianità, 250-430, Roma 2000]. [Opere generali: F. WINKELMANN, Geschichte desJtiihen Christentums, Miinchen 1 996 ; G. FILORAMo-E LuPIERI-S. PRicoco, Storia del cristianesimo, I. I.:antichità, Roma-Bari I997; N. HYLDAHL, The History oJEarly Christianity, Frankfurt a.M. 1997; A. PINCHERLE, Introduzione al cristianesimo antico, Roma-Bari 19986; PH.F. EsLER (a cura di), The Early Christian World, 2 voli., London-New York 2ooo;j. GNILKA, I primi cristiani: orWni e ini­ zio della Chiesa, trad. it., Brescia 2000. E inoltre: L.V. RuTGERS, Subterranean Rome: In Search of the Roots cif Christianity in the Catacombs cif the Eternai City, Leuven 2ooo; G. THEI SSEN, Die Religion der ersten Christen: eine Theorie des Urchristentums, Giitersloh 2000; G. LùDEMANN, Das Urchristentum: eine kritische Bilanz seiner Erforschung, Frankfurt a.M. 2002; P. BROWN, The Rise oJWestern Christendom: Triumph and Diversity, A.D. 20o-1ooo, Oxford 20032; H.-J. KLAUCK, Religion und Gesellschtift im Jtiihen Christentum: neutesta.

VII

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RELIGIONE ROMANA

mentliche Studien, Tiibingen 2003. Rapporti con le altre religioni: R. MAcMuLLEN, Christianity and Paganism in the Fourth to Eighth Centuries, New Haven 1997; K. HoPKIN S, A World Full of Gods: Pagans, Jews and Christians in the Roman World, London 1999; R. voN HAE HLING (a cura di), Rom und das himmlischeJerusalem. Diefriihen Christen zwischen Anpassung und Ablehnung, Darmstadt 2ooo; W.H.C. FRENO, Orthodoxy, Paganism and Dissent in the Early Christian Centuries, Aldershot 2002. Rapporti con l'impero: A. BRENT, The Imperia/ Cult and the Development ojChurch Order: Concepts and Images ofAu­ thority in Paganism and Early Christianity bifore the Age oj Cyprian, Leiden 1999; E. DAL Covo w-R. UGLIONE (a cura di) , Chiesa e Impero. Da Augusto a Giustiniano, Roma 2001. p. ].D. CROSSAN, The Birth oj Christianity. Discovering what happened in the Years im­ mediately after the Execution oj]esus, San Francisco 1999; G. THEISSEN-A. MERZ, Il Geszl storico: un manuale, trad. it., Brescia 1999; A. MERZ (a cura di) Jesus als historische Gesta/t: Beitriige zurJesuiforschung. Zum 6o. Geburtstag von Gerd Theiflen, Gottingen 2003. Pietro: ]. GNILKA, Pietro e Roma: lafigura di Pietro nei primi due secoli, trad. i t., Brescia 2003. Pao­ lo: C.K. BARRETT, La teologia di san Paolo: introduzione al pensiero dell'apostolo, trad. i t., Ci­ nisello Balsamo 1996; G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo: abbozzi informa epistolare, Bo­ logna 1999;].D.G. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, trad. it., Brescia 1999;].P. DICK­ soN, Mission-Commitment in Ancient]udaism and the Pauline Communities: The Shape, Ex­ tent and Background ofEarly Christian Mission, Tiibingen 2003; ] . MuRPHY-O'CoNNOR, Vita di Paolo, trad. it., Brescia 2003. E inoltre : K.P. DoNFRIED-P. RICHARDSON (a cura di),Judaism and Christianity in First-Century Rome, Grand Rapids (Mich.) 1998. 3·3· Ignazio di Antiochia: TH. LECHNER, Ignatius adversus Valentinianos? Chronologische und theologiegeschichtliche Studien zu den Briifen des Ignatius von Antiochien, Leiden 1999. Giustino, Apologia, ed. comm.: C. BuRINI, Roma 2001. Gnosticismo: K. RuooLPH, La gnosi: natura e storia di una religione tardoantica, trad. it., Brescia 2000; in partic. sulla "bi­ blioteca" gnostica di Nag Hammadi: P. MIRECKI-J. BEDUHN (a cura di), Emergingfrom Darkness: Studies in the Recovery ofManichaean Sources, Leiden-Boston-Koln 1997; D.M. ScHOLER, Nag Hammadi Bibliography, 1970-1994, ivi 1997; P. MI RE CKr J. BEDUHN (a cu­ ra di), The Light and the Darkness: Studies in Manichaeism and Its World, ivi 2001. Monta­ nismo: CHR. TREVETT, Montanism: Gender, Authority and the New Prophecy, Cambridge ,

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1996. 3·4· Persecuzioni: Y. D uvAL, Chrétiens d'Afrique à l'aube de la paix constantinienne. Les premiers échos de la grande persécution, Paris 2000; O. ANDREI, M'. Acilia Glabrione ed il leo­ ne. Domiziano tra ebraismo e cristianesimo, Torino 2002; R. SELINGER, The Mid-Third Cen­ tury Persecutions ofDecius and Valerian, Frankfurt a.M. 2002. 3 ·5 · Sin odi: J.A. FISCHER-A. LuMPE, Die Synoden von den Anfiingen bis zum Vorabend des Nicaenums, Paderborn-Miinchen-Wien-Ziirich 1997. Monachesimo: V. DESPREZ, Le monachisme primitif: des origines jusqu'au conci le d'Ephèse, Begrolles 1998; A. DE VoGuE, Regards sur le monachisme des premiers siècles: recueil d'articles, Roma 2000. Simeone il Vec­ chio: M.D. GRASSIANO, I:uomo sulla colonna: Simeone di Sis, lo Stilita, Roma 1998.]

706

VIII F I LO S O F IA RO MANA

AvvERTENZA. !:intera sezione è opera di MICHAEL ERLER.

1 I NTRO D U Z I O NE

1.1.

VALUTAZIONE E DEFINIZIONE

But for mine part, it was Greek to me >> , Casca dice a Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare (1 2) , ammettendo la sua ignoranza della lingua greca. L'atteggiamento diffuso a Roma nei confronti delle conquiste della cultura greca - e in particolare della filosofia, che era percepita come una delle nu­ merose "importazioni" dalla Grecia (Cicerone, De oratore, 3 135: adventida doc­ trina) - fu a lungo contraddistinto non tanto dall'ignoranza, quanto dall'inca­ pacità di comprenderne i contenuti. Astrusità, mancanza di utilità, superflua pedanteria, ipocrisia, alienazione dal mondo, sete di denaro, ribellione all'au­ torità e al governo (cfr. Seneca, Epistulae, 73) sono solo alcune delle accuse che la filosofia greca e i suoi protagonisti dovettero subire. La filosofia greca veniva accettata tutt'al piu come occupazione secondaria, insieme all'alleva­ mento dei cavalli o alla caccia (Terenzio, Andria, 56 sg.); ciò che valeva per la rultura greca in generale doveva valere anche per la filosofia, ovvero biso­ gnava occuparsene con misura (Catone, Adfllium, 1 Jord.an: inspicere non perdi­ scere). Ennio, in una tragedia che non ci è pervenuta, fa dichiarare a Neotto­ lemo, il figlio di Achille, che della filosofia gli sono necessarie solo poche pa­ role, giacché, aggiunge, egli non prova piacere ad occuparsene (Ennio, Scae­ tlica, 376 Vahl en3 fr. 95]ocelyn); ancora Cicerone cita diversi personaggi che rifiutano completamente la filosofia oppure la praticano, ma con grande di­ stacco (Definibus bonorum et malorum, I I) . La filosofia col tempo viene si ac­ cettata come parte della cultura generale, che può essere utile anche ai poeti (Orazio, Ars poetica, 310 sgg.), ma, significativamente, fra le artes libera/es viene inclusa solo la "dialettica". «

=

La diffidenza dei Romani nei confronti della filosofia è evidente anche nell'uso lessicale {U. KLIMA, Untersuchungen zu dem Begr!fJSapientia. V> (per es. nel libro I : « la morte è un male >>). Questo procedimento parte chiaramente ogni volta da due premesse differenti, anche se Cicerone, nell'esposizione della seconda tesi, si ricollega non di rado a ciò che ha già confutato (per es. I I7-24: « la morte muore con l'anima >> ; I 26-8I: « l'anima sopravvive >> ; I 82 sgg.: « l'anima muore >>). In questo modo il carattere dialettico dell'esposizione è salvo. La 739

VIII · FILOSOFIA ROMANA tesi si dimostra contraddittoria e l'antitesi {mors malum non est) viene rafforza­ ta e guadagna in probabilità. Accanto ad una ricerca razionalmente argomentativa delle posizioni probabili e perciò accettabili, nelle opere filosofiche di Cicerone si può osservare anche un altro elemento che va piuttosto considerato come soggettivo. Cicerone lascia trasparire le sue preferenze verso determinate posizioni (G6RLER 1974) senza poterle consolidare dal punto di vista argomentativo, o addirittura, pur ammettendo che tali posizioni siano difficili da motivare o poco verosimili. Le tesi "preferite" da Cicerone sono desunte soprattutto dalle scuola stoica e platonica: tra queste si annoverano l'im­ mortalità dell'anima, l'autosufficienza della virru ( Tusculanae disputationes, s) , la me­ schinità delle passioni (ivi, 2-4), la provvidenza divina, il valore intrinseco dell'amici­ zia, l'incertezza di ogni conoscenza - e perciò la conseguente astensione da ogni giudizio -, e addirittura la tesi dell'identità fra oratoria e filosofia. Se queste tesi ve­ nissero confermate, esse darebbero senso, valore morale e sicurezza alla vita. Uno sguardo alla realtà tuttavia fa dubitare sempre della loro plausibilità. I.:immortalità dell'anima, per esempio, nel Pedone di Platone è resa si attendibile da un punto di vi­ sta argomentativo, ma, dopo la lettura, sorgono sempre dei dubbi (ivi, 1 24). Questa incertezza può essere eliminata solo richiamandosi alla tradizione (cfr. Laelius de amicitia, 13), all'autorità dei maestri filosofici (De officiis, 2 w) e agli exempla tratti dalla storia romana. Le condizioni necessarie per avvicinarsi alla posizione ideale sono dunque una fiducia incrollabile nella validità della tesi, la disponibilità a lasciarsi convincere ( Tusculanae disputationes, 2 15) e uno sforzo costante di rafforzarla. I dub­ bi, le controargomentazioni, e l'inquietudine dell'anima che ne deriva, devono esse­ re superati attraverso l'esercizio costante e la meditazione (meditari; vd. Tusculauae disputationes, 2 66; Cato maior de senectute, 74). Alle posizioni "desiderate" ma non "di­ mostrate" si contrappongono tesi che si basano su principi materialistici, utilitaristici e sensistici (di solito Epicuro). Tra i due gruppi ci sono posizioni intermedie che so­ no in accordo con l'esperienza e la realtà, sono dimostrabili razionalmente e perciò accettabili: nella critica della conoscenza, per esempio, l'adesione occasionale al "molto probabile". I.:istruzione è almeno in parte indispensabile per l'oratore (cosi Antonio nel De oratore) , le passioni possono giovare e accanto alla virru ci sono an­ che altri beni esteriori (cosi le tesi dell'aristotelismo e di Antioco). Si può dire che mentre la ragione di Cicerone mira a un grado intermedio raggiungibile, il senti­ mento mira alle posizioni superiori. In questa maniera si giunge in Cicerone a una specie di >, in RhM, 114 1971, pp. 27-43). L'epicureismo infatti resistette ancora nei due secoli successivi, in particolare nelle province, anche come forza antagonista alla nascente "irrazionalità" religiosa. Ne so­ no testimonianza gli scritti di Luciano, ma anche la monumentale iscrizione di Dio­ gene di Enoanda in Asia Minore.

Nel I secolo l'influenza della Stoa raggiunse con Seneca il suo apice. I principi di questa scuola, che erano in grado di influenzare la guida dell'im­ pero mondiale, ebbero ripercussione in importanti opere letterarie. Una ra­ gione del successo della Stoa può essere attribuita al forte risalto della virtus pratica come ideale per lo Stato e per il comportamento individuale. In tem743

VIII · FILOSOFIA ROMANA pi di libertà politica limitata, lo sguardo si rivolse meno al cittadino ideale e allo Stato perfetto di Cicerone, orientandosi piuttosto verso un'etica indivi­ duale piuttosto rigoristica, non priva di un risvolto cinico. Essa si manifestò per esempio nel fatto che il suicidio, spesso imposto, venisse poi inscenato come imitatio Socratis. Quando, sotto Claudio e Nerone, la vita del singolo non fu piu garantita, ci fu una grande richiesta di testi che aiutassero ad af­ frontare i pericoli quotidiani, a superare le debolezze del carattere e che aiu­ tassero a prepararsi alla morte, che poteva toccare a chiunque in qualsiasi momento. Il suicidio di Catone, motivato filosoficamente come esempio di libertà individuale e di vittoria sulle circostanze esterne avverse, si accorda agli exempla corrispondenti a tratti dalla storia romana; e forse proprio per questo ha lasciato una profonda impressione, come mostrano la Pharsalia di Lucano o le osservazioni di Seneca. Cicerone, e come lui Seneca, sono inol­ tre colpiti dalla coerenza dell'etica stoica nella teoria (Cicerone, Definibus bo­ norum et malorum, 5 83) e dalla sua applicabilità nella pratica {Seneca, Dialogi, 2 1). Dopo le guerre civili dell'ultimo periodo della Repubblica, durante le quali molti Romani mostrarono interesse verso la spiegazione atomistica di Epicuro e la sua concezione della lontananza del mondo degli dèi, la pace di Augusto aveva promosso una nuova disponibilità a rivolgersi al panteismo degli stoici e alla loro visione del mondo. Il principio diffuso dalla Stoa, che ogni avvenimento segua il migliore fine possibile, che l'uomo non può in­ fluenzare, ma che può di certo accettare e comprendere, portò ad una fidu­ cia nel corso delle cose e all'idea che non siano importanti i fatti esterni, ben­ si la coscienza interiore. Alla base c'era la concezione di un ordine del mon­ do, nel quale la natura (qrumç), insieme con l'intelletto {).. 6yoç), agisce finali­ sticamente come principio divino. Il mondo quindi, in quanto organismo vi­ vente e per via dell'immanenza della divinità stessa, può essere considerato esso stesso come dio. Il cosmo ordinato fu il punto centrale di un modello di realtà che vede nell'uomo una parte di questo cosmo, dal quale egli riceve la propria determinazione. Questa visione del mondo si accordò bene al sentimento dell'epoca; come si può chiaramente vedere anche dalla forte risonanza che la cosmologia stoica ebbe nella letteratura romana (M. BILLERBECK, Stoizismus in der ri:imischen Epik neronischer undjla­ vischer Zeit, in ANRW, n 32/5 I986, pp. 3116-51) . Virgilio ricorre ad essa ( Georgica, 4 219-22; Aeneis, 6 724-31 ) ; Manilio offre, con i suoi Astronomica, l'alternativa stoica al De rerum natura di Lucrezio; Lucano ha familiarità con essa; Seneca vi rimanda nelle Na­ turales quaestiones. Videa che in tutte le parti del cosmo bene ordinato sia possibile in-

744

4 ·

LA FILOSOFIA DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE

contrare la ragione divina offre uno stimolo a rintracciare e documentare questo logos in tutte le sue manifestazioni, sia terrestri che celesti.

L'influsso crescente della dottrina stoica fra le classi dirigenti sembra che sia stato legato anche a determinate situazioni di pericolo. Seneca respinge l'accusa che la dottrina stoica educhi alla ribellione e alla rivolta contro il po­ tere (Epistulae, 73 1) . Ma è innegabile che la Stoa offrisse argomentazioni a favore della rinuncia alla vita pubblica, per giustificarla o nasconderla. Sene­ ca visse in un'epoca nella quale si compi il passaggio dal principato al potere imperiale: il rapporto fra l'aristocrazia senatoriale e l'imperatore era caratte­ rizzato da una reciproca sfiducia. I due rappresentanti piu importanti dell'opposizione senatoriale al principato nel I sec. d.C., che pur con qualche esitazione rifiutarono la potestà imperiale, negando ogni rispetto alla tirannide, furono collegati alla filosofia stoica. Trasea Peto, che Ne­ rone fece giustiziare nel 66, è stato rappresentato nelle biografie successive come una sorta di martire stoico. Palesemente piu radicale fu suo genero Elvidio Prisco, che mori sotto Vespasiano e fu venerato da Epitteto come il Socrate romano (Dissertatio­ nes, 4 I 123). È tuttavia dubbio se il comportamento di Trasea Peto o di Elvidio Prisco fosse mo­ tivato solo da riflessioni filosofiche. Un impulso morale fu dato forse anche dai mores maiorum, la cui comprensione tuttavia poté essere favorita da una interpretatio stoica. La filosofia stoica può essere servita soprattutto a riflettere e ad articolare il proprio agi­ re. Se Nerone si senti minacciato dalla filosofia stoica e dai suoi rappresentanti - egli spinse alla morte anche Seneca e Lucano -, questo accadde proprio perché i critici, influenti per stato sociale e provenienza, si servirono della terminologia di questa scuola, cosicché i praecepta stoici divennero argomentazioni e quindi armi nello scon­ tro politico (Tacito, Anna/es, 16 22). 4.2.

SENECA

LA VITA. La figura di Seneca, che il greco Giovanni Lido indica come il piu grande filosofo romano (De mensibus, 4 107 = p. 144 15 Wiinsch), è di importanza centrale per la filosofia romana nel I sec. d.C. Una doppia erma trovata a Roma lo raffigura insieme a Socrate: viene quindi messa in risalto l'affinità di Seneca col filosofo greco, figura di centrale importanza sia per la filosofia romana in generale che per Seneca stesso. Come la filosofia elleni­ stica e Cicerone, anche Seneca vide nel filosofo greco una guida per una vi­ ta esemplare (artifex vitae), che si distingue grazie all'unità di sapere teorico e 4.2.1.

745

VIII · FILOSOFIA ROMANA morale (Epistulae, 75). Se Cicerone si era dedicato alla filosofia nei periodi in cui non si dedicò all'attività pubblica (De officiis, 2 3-5), Seneca vi si dedicò an­ che durante il periodo di attività politica. La sua carriera, che lo portò a posi­ zioni di grande potere, non lo risparmiò certo dai contraccolpi, concluden­ dosi con un suicidio forzato. Egli fu perciò indotto ad un confronto fra le pretese della filosofia e la realtà pratica. Seneca giunse a Roma da Cordova, la capitale della provincia Betica, in Spagna, dove era nato, figlio del maestro di retorica Seneca, probabilmente nell'anno I a.C. Nella capitale ricevette un'istruzione retorica e filosofica e fu un avvocato di succes­ so. Dopo un soggiorno in Egitto, protrattosi a causa di una malattia, nel 3I fece ritor­ no a Roma, dove riscosse grandi successi come oratore. Sotto Caligola fu implicato in uno scandalo che lo portò all'esilio in Corsica. Nel 54 rientrò a Roma, per iniziativa di Agrippina, in qualità di educator e praeceptor di Nerone (Tacito, Anna/es, 15 62). Do­ po l'ascesa al trono di quest'ultimo, Seneca fu defacto la guida dell'impero mondiale, finché lo permise l'evoluzione della personalità di Nerone. Dopo l'assassinio della madre di Nerone, nel 59 d.C., vi fu un raffreddamento dei rapporti: Seneca rinunciò ai suoi incarichi, ma Nerone non accettò il suo ritiro. Tuttavia Seneca andò a vivere nei suoi possedimenti. Quando nel 65 falli una congiura contro Nerone, Seneca fu accusato di connivenza e costretto al suicidio. Si tolse la vita - secondo la descrizione di Tacito (Anna/es, 15 61 sgg.) - in un modo che voleva ricordare la morte di Socrate (Phaedo, n8a), ma forse anche quella di Catone. La carriera offri quindi piu volte a Se­ neca l'occasione di rendere proficua a se stesso l'arte di vivere da lui promossa. Ma ta­ le interpretazione non ha convinto tutti i successivi interpreti.

Spesso anzi gli si è rinfacciata una contraddizione fra vita e dottrina. In particolare l'immagine di Seneca, di fatto che venne in seguito danneggiata dalla descrizione di Tacito, ha ricevuto critiche spesso aspre, non solo da par­ te di Petrarca (EpistolaeJamiliares, 24 5). Come mostra il suo scritto De vita bea­ ta, già Seneca stesso si vede costretto a una presa di posizione. Quando Taci­ to gli fa lasciare in eredità ai suoi amici, nell'ora della morte, « l'immagine della sua vita 11 (Anna/es, 15 62 1) , Seneca sembra essere in grado di giudicare la propria esistenza. Gli si deve comunque concedere di aver cercato di eser­ citare la filosofia seriamente. Non pretese mai di aver raggiunto l'ideale del­ lo stoico saggio, ma piuttosto di aver sottolineato l'imperfezione dell'aspira­ zione umana. Seneca considerava suo compito favorire la volontà di perfe­ zionamento. L'oPERA. La produzione letteraria di Seneca documenta questi sfor­ zi. A Seneca non interessò l'esposizione di un sistema o di un modo di filo4.2.2.

4 LA FILOSOFIA DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE ·

sofare originale. I suoi scritti dovevano aiutare ad alleviare l'imperfezione umana (Dialogi, 7 17 4) . La comprensione dei suoi scritti si ricava dall'intento pedagogico dell'autore: la conoscenza trasmessa deve diventare una parte della personalità del destinatario, ovvero del suo habitus. Se Cicerone vuole allargare la cultura spirituale del suo lettore, per Seneca si tratta invece di formare spiritualmente un pubblico che ha già una familiarità almeno su­ perficiale con le idee basilari delle scuole piti importanti. Come Lucrezio prima, o Marco Aurelio dopo di lui, Seneca si considera una guida spirituale (I. Hadot 1969) . Questo aspetto è di importanza essenziale per poter espri­ mere un giudizio non solo su Seneca filosofo, ma anche su Seneca letterato. La sua peculiarità si basa, non da ultimo, sulla componente retorica del suo metodo. Seneca ritiene che uno stile buono sia adatto a conquistare anche i principianti in filosofia (Epistulae, 108 8 sgg.). E proprio sotto questo aspetto egli fu chiaramente vincente (Quintiliano, Institutio oratoria, 10 125) . La stretta connessione tra la vita pratica e "l'intento terapeutico" verso il destinatario guidano la struttura del contenuto e della forma dei suoi scritti e sono perciò anche dei punti di vista essenziali per la loro interpretazione. Accanto a que­ sti aspetti non vanno naturalmente trascurati l'auroterapia (per esempio, il conforto) e il tentativo di avere influenza politica (per esempio, Ad Poly­ bium). I.:unione tra struttura formale, contenuto e finalità dei suoi scritti è ammirevole e dimostra come a Seneca non stia a cuore solamente un'esposi­ zione valutativa della dogmatica filosofica: i testi devono piuttosto costituire un aiuto per la meditazione. Come la poesia didascalica di Lucrezio, essi so­ no, per cosi dire, "filosofia applicata". In conseguenza della sua concezione della filosofia, Seneca ha redatto molti essays, riferiti a determinate situazioni o rivolti a particolari destinatari. Essi devono chiarire problemi, aiutare ad in­ quadrarli e mostrare come debbano essere superati secondo i doveri di uno stoico. Ne consegue che questi testi riguardano soprattutto la condotta di vi­ ta, e che trattano quindi varie questioni etiche. I.:aspetto formale delle opere di Seneca chiarisce l'idea dell'autore su come vada trasmessa una tale dottri­ na. Si tratta di un processo caratterizzato dalla continua meditazione di prin­ cipi sicuri che, richiamati alla mente ininterrottamente, contribuiscono al raggiungimento della saggezza stoica. Lo scopo è una vita felice, che deriva dalla conquista della sicurezza e della magnanimità (Epistulae, 92 3) . Il pro­ cesso di apprendimento si realizza attraverso vari gradi: le verità generali (de­ creta) vengono studiate, apprese mediante un continuo esercizio di ripetizio­ ne (ivi, 71 31) e quindi vengono fatte proprie attraverso un adeguato com747

VIII FILOSOFIA ROMANA •

portamento (ivi, 94 46 sg.). I testi di Seneca, in questo processo, sono "terau­ petici" su due livelli. Risultano utili al lettore favorendone la meditazione, che lo può proteggere - con l'aiuto di sentenze (cfr. ivi, 47 1), metafore, esempi (ivi, 98 12 sgg.), norme generali (decreta) o consigli concreti (praecepta) - contro l'imprevedibilità del destino; costituiscono un aiuto per l'autore nella misura in cui l'esposizione scritta delle riflessioni filosofiche lo porta a formulare, per cosi dire, nuovi pensieri e a renderli disponibili (cfr. ivi, 115 1). È solo infatti mettendo per iscritto i pensieri filosofici che si riesce ad appro­ priarsene veramente (cfr. ivi, 84). Seneca si serve della sua arte stilistica e re­ torica (ivi, 108 8 sgg.) per favorire il dialogo col lettore, ma anche la propria riflessione. Vengono esposti pensieri di altri filosofi per potersene impadro­ nire, integrandoli nel proprio agire (ivi, 108 38). La forma delle opere lettera­ rie serve quindi allo scopo medesimo della filosofia di Seneca: serve a pla­ smare l'uomo ( tranifìgurari) e a guidare la sua anima. Seneca infine si serve dell'effetto catartico di immagini martellanti (Dialogi, 5 2 35 3) per arrivare al­ la conoscenza di sé attraverso l'esame di coscienza (ivi, 4 36 1). Dei dodici trattati di Seneca indicati come Dialogi, dieci hanno un contenuto filo­ sofico. A questi vanno aggiunti gli scritti De clementia, De benificiis, le Natura/es quae­ stiones e le Epistulae mora/es. Anche se vengono definiti dialogi, questi scritti si differen­ ziano dai dialoghi di Platone e di Cicerone e si avvicinano piuttosto al genere della diàtriba. La maggior parte delle opere filosofiche di Seneca che ci sono giunte fu composta nell'ultimo terzo della sua vita, caratterizzato dall'attività di consigliere di Nerone (54-59: Dc brevitate, De constantia, De tranquillitate, De clementia, De vita beata, Dc benificiis) e dal suo ritiro dalla vita pubblica (Dc otio, Epistulae mora/es, Natura/es quaestio­ nes). La datazione esatta è spesso controversa. Al periodo centrale, ancora prima del­ l'esilio, appartengono forse, insieme alla Consolatio ad Marciam, i tre libri del De ira. So­ no redatti chiaramente su iniziativa del fratello Novato (Dialogi, 3 I r) , ma si rivolgo­ no a tutti gli uomini che vogliono assicurarsi contro questa pericolosa passione (ivi, 5 39 r) . Lo scopo terapeutico della trattazione è reso evidente già dalla sua struttura: in primo luogo viene trattata l'essenza dell'ira, poi si parla dei diversi tipi d'ira, della sua corrispondenza in natura, della sua utilità e curabilità. In una sezione pratico-tera­ peutica si parla della profilassi e della cura di questa passione che, secondo Seneca, si può ridurre attraverso un atto di volontà, fino ad un "residuo", che non può essere considerato una passione vera e propria. Anche gli altri scritti hanno un contenuto morale-filosofico e talvolta un carattere terapeutico: il De brevitate vitae (Dialogi, IO, forse composto tra il 48 e il 55) è un'esortazione protrettica allo studio della filosofia rivolta a Paolina, che sostiene la tesi che il lamento dell'uomo sulla presunta brevità della vita è ingiustificato. Importante è il comportamento della coscienza del saggio nella vita, al pari della disposizione interiore verso la morte. L'oblio della morte (obli-

4 LA FILOSOFIA DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE ·

vio mortis) è il motivo per cui gli uonùni sprecano cosi tanto tempo. Se Seneca svalu­

la vita activa a servizio dello Stato a favore della vita contemplativa dell' otium filoso­ fico, ciò prelude a un allontanamento dall'ideale romano di un servizio alla comuni­ tà. Del ruolo del saggio si parla nel De constantia sapientis (Dialogi, 2; forse dopo il 47), che è in stretto rapporto con il De providentia. In quest'opera Seneca, che aderisce apertamente alla Stoa, coinvolge però anche Epicuro, per sottolineare che l'uomo sa­ piente, nel possesso personale di sé, è inespugnabile (Dialogi, 2 16 1 sgg.). Argomento dello scritto, rivolto a Sereno, è la consapevolezza del saggio che l'ingiuria e l'offesa non hanno valore, infatti il suo bene - la disposizione razionale dell'anima - non ne è colpito. L'epilogo è rivolto a coloro che aspirano alla saggezza (projìciens), ai quali dà indicazioni su come dimostrarsi superiori al male. Anche nel De tranquillitate animi (forse collocabile tra il 51 e il 54), si parla di pericoli in tempi incerti. Seneca esorta a non rinunciare troppo presto, ma anche ad avere una certa flessibilità. Nel De vita bea­ ta Seneca si confronta con il rimprovero {forse di Suillio) per cui il filosofo benestan­ te contravverrebbe ai suoi principi. Non da ultimo, questo scritto deve respingere le chiacchiere malevole a proposito del patrimonio di Seneca. A questo periodo di in­ tensa attività politica appartengono anche le due trattazioni piu lunghe, il De clemen­ tia e il De benificiis. L'opera di orientamento filosofico-governativo De clementia {scrit­ ta fra il 55 e il 56), dedicata a Nerone nella forma dello "specchio per il principe" (Fur­ stenspiege� di orientamento stoico, vuole mostrare al sovrano, in due libri, le norme di comportamento umanitario che debbono valere per il potere assoluto, altrimenti pri­ vo di qualsiasi freno. Il De benificiis, in sette libri, è dedicato agli spiriti liberali; venne redatto dopo il De vita beata e ha un contenuto etico-individuale. Seneca, trattando del giusto dare e ricevere, dell'essere caritatevole e della riconoscenza, vuole contri­ buire al benessere dell'uomo. Viene messo in evidenza come sia importante il mo­ mento di volontà dell'azione, non già il suo successo esterno. Il valore del benificium non consiste esclusivamente nella manifestazione esterna, ma nella volontà di chi lo compie {1 5 2) . Accanto a riflessioni di importanza basilare vengono trattati anche sin­ goli problemi. Altre opere di Seneca risalenti al suo tardo periodo creativo cadono già negli anni della sua separazione dal centro del potere. Lo scritto De otio offre il fon­ damento teorico per un ritiro dall'engagement politico e sviluppa nuovi aspetti a pro­ posito del rapporto tra i due concetti negotium-otium. L'insegnamento delle due co­ munità (res publicae), quella degli dèi e quella degli uomini, mostra che ci si può im­ pegnare in due ambiti e che l'otium può essere utile anche nella pratica dell'attività fi­ losofica (Dialogi, 8 4 2) . Inoltre serve a soddisfare la curiosità della natura umana e a mostrare come la lotta contro un sistema del tutto corrotto sia insensata. Questa spi­ ritualizzazione dell' otium come vero negotium - uno sviluppo che già si intravede nel tardo Cicerone (Laelius) - suona come giustificazione del proprio comportamento. La teodicea è l'argomento del De providentia, un'opera ascrivibile ad una fase tarda, da alcuni anche datato nel periodo dell'esilio di Seneca. Poiché in essa vengono discusse in maniera particolare prospettive fondamentali, questo scritto si trova all'inizio della ta

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VIII · FILOSOFIA ROMANA raccolta dei dialoghi (Dialogi, r) . Lo scopo dell'argomentazione è quello di indurre il destinatario a sottomettersi volontariamente al fato (amorfati, vd. ivi, 1 5 8). Le avver­ sità possono sf colpire anche gli uomini moralmente apprezzabili, ma esse non sono un male, perché non sono in grado di colpire veramente l'uomo buono, ma solo di metterlo alla prova. L'esistenza del male permette infatti all'uomo buono di mettere alla prova le sue qualità: quindi Dio manifesta il suo amore all'uomo buono attraver­ so il dolore. Alle opere filosofiche dell'età tarda appartengono le Natura/es quaestiones in sette libri, che presentano nel contenuto un'articolazione secondo gli elementi na­ turali (11. 1 e u : il fuoco; 11. 1 1 1 e rva: l'acqua; ll. rvb e v: l'aria; l. vr: la terra; il libro vr è databile sulla base del riferimento al terremoto di Pompei avvenuto il s febbraio 62). Essi trattano diversi fenomeni naturali come le comete, i venti, i terremoti, le inon­ dazioni del Nilo. Seneca pensa deluso al periodo della sua vita in cui era al servizio dell'imperatore e cercava di guidare il destino degli uomini (3 praeJ. 2). Ora per lui è importante decifrare i segreti del sistema cosmico (3 praeJ. 5 sgg.). Il compito della sua vita si realizza nell'accettazione del tutto, dal punto di vista panteistico (3 praef. 10). Il suo scopo è la trattazione dei caelestia (mondo sopralunare), dei sublimia (�t:tÉwpa, nell'accezione aristotelica, �t:tapota, in quella di Teofrasto: spazio aereo), e dei terre­ stria (acqua, terra, mondo vegetale). Forse fu la morte ad impedire a Seneca di com­ pletare l'opera. Egli considera la fisica come la parte piu illustre della filosofia (r praif. r) ; infatti il suo oggetto è il cosmo inteso come divinità universale. Nelle Natura/es quaestiones non vengono trattate solo questioni puramente fisiche. L'opera costituisce piuttosto una propedeutica per l'etica (3 praeJ. r8), in quanto il lettore, attraverso l'a­ nalisi di fenomeni eccezionali, può essere liberato dalla paura (2 59) e il suo spirito innalzato (introduzione ai 11. 1 e m) . Questo intento ricorda quello che Lucrezio per­ segue con la poesia didascalica. Formalmente, ma non funzionalmente distinte dalle altre opere filosofiche sono le Epistulae mora/es, che risalgono all'ultima fase creativa (data di composizione: 62-63, pubblicazione: 64-65). Le centoventiquattro lettere, suddivise in venti libri, presentano varie meditazioni e sono strutturate in maniera corrispondente. Se si tratti di una corrispondenza reale o fittizia è controverso, tutta­ via molte considerazioni vanno a favore della seconda ipotesi (Abel). Sebbene le let­ tere a Lucilio abbiano un destinatario reale - e nei confronti dei suoi problemi l'au­ tore cerchi di prendere posizione -, la maniera espositiva e il loro contenuto dimo­ strano che Seneca deve avere avuto in mente una cerchia di destinatari pili ampia. Se­ neca si propone espressamente come precettore dell'umanità (Epistulae, 89 IJ). A par­ tire dall'ammonimento a non sprecare tempo (ivi, r r) , il destinatario viene progressi­ vamente educato; in passi sempre piu ampi viene introdotto all'esercizio continuo e cosi guidato, in distinte fasi, alla filosofia stoica. In un primo gruppo di lettere, Sene­ ca parte da alcune sentenze, si adegua - seguendo metodicamente il Therapeutikòs di Crisippo - alle tendenze epicuree del suo interlocutore e sviluppa principi basilari della scuola stoica. In un successivo gruppo di lettere (a partire dall'epistola 31) si al­ lontana dalle sentenze (cfr. 33) e offre compendi (breviaria) delle sue posizioni filoso-

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4 ·

LA FILOSOFIA DELLA PRIMA ETÀ IMPERIALE

fiche che, però, non rendono superflui gli insegnamenti successivi. Del resto, un compendio del genere, sulla fisica stoica, è offerto da Seneca nelle Natura/es quaestio­ ncs: un'esposizione completa dell'etica stoica era chiaramente prevista. Nelle lettere la filosofia stoica fa da sfondo ad esposizioni, che presentano a livello metodologico dei prestiti dalla dottrina epicurea (cfr. Epicuro, Epistula ad Herodotum, 35 sgg.). Scopo dell'epistolario è rendere l'uomo padrone di sé (Epistulae, I I: itaJac, mi Luci/i: vindica te tibi). È vero dunque anche qui che i temi sono morali, che il compito dei testi è pro­ trettico e che la loro struttura serve alla guida spirituale. Spesso anche alle tragedie di Seneca è legato un intento filosofico. Tuttavia esse non vanno considerate come testi didascalici, quanto piuttosto come illustrazioni del comportamento umano (per esem­ pio, l'agire male in modo consapevole [ma/a voluntas]), che vogliono quantomeno ri­ mandare alla necessità della pratica della filosofia razionale, e in questo sono protret­ tiche. S'intende con ciò che bisogna prendere in considerazione anche il genere let­ terario, e non interpretare tutto alla luce del contesto filosofico. 4.2.3.

IL FILOSOFO. Seneca ha avuto numerosi maestri di filosofia.

Sozione era un allievo dei Sesti, influenzato dal pitagorismo, che predicava l'esame di coscienza serale e un regime alimentare vegetariano; Seneca inizialmente segui questi precetti e in seguito vi rinunciò per ordine del padre. Attalo era considerato stoico e portò Seneca dal sapere teorico alla filosofia pratica (Epistulae, 9), aveva inte­ resse per le questioni scientifico-naturali e psicologiche ed era anche aperto al pen­ siero epicureo. Publio Papirio Fabiano, che, come Seneca, era stato dapprima retore e in seguito era diventato filosofo grazie all'influenza della scuola dei Sesti, ha mani­ festamente ispirato Seneca nella sua letteratura consolatoria (Ad Marciam), ma ha esercitato un'influenza anche sulla sua filosofia (De brevitate vitae). Papirio Fabiano era interessato all'etica e alla teoria dello Stato, ma anche alla fisica e alle scienze natura­ li; si espresse decisamente contro la filosofia cattedratica (Dialogi, IO IO I) . Nell'insie­ me, accanto alla Stoa svolsero un ruolo importante per Seneca la scuola dei Sesti e quella cinica, in particolare nella persona di Demetrio. Seneca stesso nomina anche filosofi dell'età augustea come Ario Didimo - l'eclettico stoico (Ad Marciam, 4-5) -, Atenodoro - il filosofo della casa di Marco Porcio Catone - e, soprattutto, Ecatone, oltre a Posidonio e Panezio. I.:influsso di Posidonio è tangibile, per esempio, nelle questioni sociali e nell'interesse enciclopedico di Seneca (Epistulae, 88 2I sgg.). Pane­ zio è riconoscibile, tra l'altro, nella disponibilità di Seneca a tener conto, accanto all'i­ deale del saggio, anche dell'imperfezione dell'uomo. Seneca è consapevole di appog­ giarsi con la sua filosofia sulle spalle di altri. Non pretende in nessun modo di essere un filosofo innovativo, ma desidera accrescere la grande eredità ricevuta (ivi, 64 7 sg.), anche se, a suo parere, rimane la necessità di scegliere e di fissare un momento favo­ revole per l'uso "terapeutico" della medicina filosofica. Seneca, come anche Cicero­ ne, vede il suo compito nella scelta, nella sistemazione e nell'uso di ciò che altri han­ no trovato. Sebbene Seneca sia uno stoico dichiarato, egli segue l'autorità del capo-

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VIII · FILOSOFIA ROMANA scuola non in maniera incondizionata (Dialogi, 8 3 1) ; talvolta si discosta espressamen­ te dalle argomentazioni del suo maestro, reclama per sé una propria strada (Epistulac, 33 4 sgg.), e si appella all'assenza di "padroni della verità". Secondo lui, l'ancorarsi alla dogmatica della propria scuola è un comportamento che assomiglia a quello di un av­ versario politico, non a quello di un membro del senato (Dialogi, 8 3 1) . Il rilievo dato alla propria indipendenza conferma la libertà nei confronti di questa scuola. Seneca si concede anche "passeggiate" nei campi di altri filosofi, prendendo in prestito ciò che gli sembra utilizzabile e considera degne di essere prese in considerazione addirittu­ ra le norme etiche di Epicuro (ivi, 7 13 4) . Soprattutto per questo Seneca è stato defi­ nito un filosofo eclettico. A dire il vero il suo accostarsi nelle prime trenta lettere, ad esempio, all'epicureismo, va giudicato anche da un punto di vista terapeutico. E già Crisippo aveva sottolineato, nel suo Therapeutikòs, che nei "tentativi di guarigione" ci si dovesse conformare all'opinione del paziente. Anche all'interno della tradizione stoica, Seneca non si senti in obbligo nei confronti di un solo maestro (Epistulae, 33 3) : ad esempio, mostra riserbo verso l'intelletrualismo di Crisippo (G. MAzzou, Le 'Epi­ stulae Mora/es ad Luciliurn' di Seneca. Valore letterario efilosofico, in ANRW, 11 36/3 1989, pp. 1823-77) . I..:aspetto religioso del suo stoicismo nel linguaggio e l'atteggiamento verso la natura, il cosmo e le divinità lo legano piuttosto a Cleante (cfr. Epistulae, 107 n) . Fra le discipline filosofiche, Seneca non stima molto la logica (ivi, 45) . Alle artes attribui­ sce un valore propedeutico (ivi, 89 14 sgg.).

Che Seneca non offra nei suoi scritti alcun sistema filosofico, è dovuto al­ la funzione delle sue opere, ma anche alla sua concezione della filosofia co­ me ars vitae. Tuttavia è possibile ricavarne alcuni tratti fondamentali. Se­ guendo la tradizione socratica, Seneca vede nella conoscenza di sé l'inizio di ogni aspirazione alla saggezza. All'origine del processo di guarigione vi sono la conoscenza e l'ammissione sia della propria imperfezione (Epistulae, 6 r), che della falsa valutazione delle circostanze esterne, che deriva dalla paura per i mali futuri, come la perdita dei beni o la morte. A dire il vero, Seneca riconosce in errori del genere una debolezza comune a tutti gli uomini. Per­ ciò vede sf nel saggio l'ideale a cui tendere per il futuro, ma accetta l'aspira­ zione a questo ideale già come un passo essenziale. È significativa innanzi­ tutto la volontà dell'uomo di liberarsi dagli errori (ivi, 81 13). La volontà co­ stituisce l'impulso per l'ambizione umana e può svilupparsi attraverso l'eser­ cizio continuo della virru operante (bona mens: ivi, 16 1). La filosofia si distin­ gue quindi, secondo Seneca, per il suo carattere dinamico. Essa infatti signi­ fica non solo possesso, ma, nel senso platonico, anche aspirazione alla sag­ gezza e alla felicità (ivi, 90 26 sgg.), che si compie in piu gradi: il superamen­ to delle passioni piu basse (avaritia, libido), quindi dei ma/a animi, sino all'espe­ rienza della vita reale, quando le passioni sono già superate (ivi, 75 9). In que752

4 LA FILOSOFIA DELLA PRIMA ETÀ I MPERIALE ·

sto processo è fondamentale la riflessione continua sulla futilità di ciò che di solito ci appare importante (ricchezza, potere, vita), la cui perdita viene vista come infelicità. È possibile abituarsi ad una tale sottomissione alla ragione (ivi, 49 n) . La giusta valutazione delle cose e una vita orientata alla ragione aiutano a conseguire la vera libertà (ivi, 66 39) . È quindi indispensabile rico­ noscere l'essenza delle cose e fare una scelta giusta a tempo debito. Per que­ sto anche lo studio del mondo (me prius scrutar, deinde hunc mundum: ivi, 65 I5) appartiene allo studio di sé: l'osservazione della natura infatti rende chiara l'azione della Provvidenza che tutto governa, nobilita l'animo umano (ani­ mam laxare) e lo porta alla conoscenza di Dio (Natura/es quaestiones, I praeJ. 6), che è ragione immanente e causa prima di tutto (Epistulae, 65 12) . Questo principio divino va venerato non attraverso normali atti di culto (ivi, 4I I), ma attraverso un giusto atteggiamento interiore e il giusto sapere (ivi, 95 47 sgg.). Considerando la realtà nel suo insieme, le disgrazie non risultano esse­ re un male (ivi, 9I) , ma rappresentano una prova voluta da Dio per l'uomo buono (Dialogi, I I s). Attraverso la previsione dei mali {praemeditatio malorum) la disgrazia inoltre è attenuata nel suo effetto, poiché in questo modo l'uomo conquista una sicurezza interiore davanti all'assalto del caso (Epistulae, 23 2) . Egli può raggiungere questo obiettivo perché la ragione umana è parte della ragione universale (ivi, 4I 5) e può liberarsi da ciò che è terreno. I.:appello di Seneca « renditi felice da te >> (ivi, 3I 5 ) è sostenuto dalla convinzione che ci si possa salvare da soli (ivi, 52 2) . Dalla dottrina stoica, secondo la quale tutti gli uomini partecipano del logos cosmico, deriva un atteggiamento umano an­ che nei confronti degli schiavi. Seneca fa propria questa concezione stoica, > (ivi, 44), e la radicalizza nel momento in cui fa derivare da questa tesi anche per lo schiavo il principio di un'individualità con capacità morali proprie e diritti (De bemificiis, 3 I8; Epistulae, 47) . Anche la sua tesi, che il modo di pensare sia essenziale nelle azioni {per esempio, nel dare e nel ricevere), conduce a relativizzare le barriere di classe. È interessante notare come Seneca non sembri considerare Dio come un principio esclusivamente immanente o da confrontare col mondo. In alcuni passi il principio divino riceve tratti spirituali e personali, con cui Seneca sembra andare oltre l'antolo­ gia stoica (Epistulae, 41 1-5) . Nella psicologia la tradizione medioplatonica svolge chia­ ramente un ruolo, quando Seneca sottolinea, ad esempio, la dicotomia di anima e corpo (ivi, 92 30). Quando si parla dell'ora della morte come dell'ora della nascita del­ l'immortalità (ivi, 102 24) si ha l'impressione di una certa distanza dal materialismo stoico. Se Seneca ritiene un dovere rendere conto a se stessi delle proprie azioni (Dia­ logi, 5 3 36 1-4), ha forse subito l'influsso di Sesto e dei pitagorici. Ma anche nell'epi-

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VIII • FILOSOFIA ROMANA cureismo ci si aspetta che i discepoli si comportino sempre come se il maestro li stes­ se osservando {ivi, 7 20 4) .

Seneca con il suo atteggiamento che esige la libertà indiscussa non abban­ dona affatto i fondamenti della scuola stoica, ma vi pone degli accenti perso­ nali. Si è richiamata l'attenzione su una sua tendenza all'interiorizzazione, che trova espressione per esempio nel concetto di Dio (cfr. fr. 123 Haase) o nella concezione dell'otium. I nuovi aspetti posti in risalto da Seneca sono tal­ volta conseguenza dello sforzo di collegare la filosofia greca con le idee ro­ mane. Nel De clementia, ad esempio, si constata un'ellenizzazione del pensiero romano, allorché il principato è messo in rapporto al ) . Il successo crescente del platonismo si basa sul fatto che esso assecondò quel bisogno sempre piu forte di trascendenza, di liberazione e di religione, che si manifestò, tra l'altro, anche nell'interesse per il pitagorismo {per esempio, in Moderato di Gades). .

4.4.1. APULEIO. Il medioplatonismo nel II secolo trovò in Apuleio, retore originario di Madaura in Numidia, un autore che espose i temi filosofici in latino nella maniera piu comprensibile per un pubblico romano istruito. Oltre alle Metamorfosi, la versione latina del noto romanzo greco Lucio o l'asino, Apuleio redasse una trattazione sulla dottrina divina platonica (De deo Socratis). Lo scritto De Platone et eius dogmate rappresenta una trattazione sistematica della dottrina platonica, importante per le nostre conoscenze del medioplato!Ùsmo, in particolare

VIII · FILOS OFIA ROMANA della fisica e dell'etica. Nell'Apologia (o De magia) Apuleio si difende dall'accusa di magia. Controversa è la paternità di Apuleio di una trattazione sulla logica (Ilepì i:ptJ.T)VEi�tç). I suoi scritti filosofici testimoniano l'influsso crescente delle correnti reli­ giose all'interno del platonismo. Nel suo romanzo, le Metamorfosi, accanto a compo­ nenti religiose (culto di Iside), trovano espressione anche idee filosofiche (per esem­ pio, l'amore terrestre e celeste).

Sebbene in tempi moderni Apuleio - che si considerava philosophus Plato­ nicus (Apologia, ro) alla pari di Albino e Attico - non sia stato sempre stimato come tale, nell'antichità fu molto apprezzato. Per Agostino, Apuleio è un platonico che si distingue in entrambe le lingue, nella greca e nella latina (De civitate Dei, 8 12). Il bilinguismo di Apuleio è documentato da un rifacimento latino dello scritto De mundo, che era considerata un'opera di Aristotele o di Teofrasto, ma che forse risaliva a soli cento anni prima. Apuleio tradusse il Pedone di Platone: nel farlo, seppe porre il proprio accento e contribui in questo modo all'ulteriore sviluppo di una prosa latina adatta alla filosofia.

5

LA TARDA ETÀ I M PE RIALE

5.1. PREDOMINIO DEL NEOPLATONISMO

La crisi del III secolo, che portò all'anarchia, devastazione, calo economi­ co e crollo dello standard di istruzione, svolse un ruolo fondamentale anche per la storia della filosofia a Roma. La Stoa, che offriva al singolo un aiuto per orientarsi tra quelle che erano le esigenze sociali e personali nella comu­ nità della polis, non ha piu alcun peso. Al suo posto subentra il cosiddetto neoplatonismo, del quale PLOTINO (205-270 d.C.) può essere considerato il creatore; le strutture fondamentali del neoplatonismo sono determinanti an­ che per autori romani come Agostino, Macrobio o Boezio. Il concetto di "neoplatonismo" è, a dire il vero, moderno e fuorviante. Come i fi­ losofi di tutte le maggiori scuole filosofiche, Platino non volle altro che essere esege­ ta del suo maestro (5 I [ro] 8 ro-14). Platino però pose degli accenti personali nell'in­ terpretazione degli scritti platonici. Come il medioplatonismo, anche il neoplatoni­ smo fu aperto nei confronti dell'etica stoica, della logica e della metafisica aristotelica e nei confronti della religiosità pitagorica; andò incontro all'aspirazione degli eruditi di conservare e di raccogliere la tradizione del passato. Dopo un lungo periodo di studio con Ammonio Sacca ad Alessandria, Platino aveva fondato, nel 244 d.C., una scuola a Roma, della quale fecero parte sia studenti provenienti dall'Oriente greco che dai circoli dell'aristocrazia senatoriale. Sembra che l'imperatore Galliena (253-268 d.C.) abbia sostenuto un progetto di Platino per fondare in Campania una comunità che sarebbe vissuta sulla base di principi platonici.

L'interesse di Platino si rivolse soprattutto all'antologia, che interpretò co­ me teologia: da essa Platino fece derivare coerentemente tutti gli altri ambi­ ti del suo pensiero. Di conseguenza, tutto ciò che esiste è determinato dal­ l'Uno e riceve dall'Uno la sua perfezione. L'Uno si irradia, per emanazione, agli stadi successivi dell'Intelletto e dell'anima, intesi come « ipostasi >>, e, in uno sviluppo successivo, fino alla materia. In conseguenza della loro separa­ zione dall'origine, le ipostasi via via piu basse sono di grado inferiore rispet­ to alle ipostasi superiori; portano però con sé una traccia della loro origine e tendono alla riunificazione con la Causa suprema. L'intero cosmo è struttu­ rato sui movimenti dell'allontanamento (7tp6oooç) e del ritorno all'Uno (èm­ otpoq>t1), mentre l'ultimo grado del ritorno all'Uno avviene non piu grazie

VIII FILOSO FIA ROMANA ·

all'Intelletto, ma in un "uscire fuori di sé" (6 9 [9]), poiché l'Uno è posto al di là dell'Intelletto. Anche l'anima umana partecipa delle discese ed ascese. Per il suo ritorno l'anima deve distogliersi da tutto ciò che è esterno (5 3 (49] 17 38) e rivolgersi in se stessa (I 6 [I] 8 3). I.:etica neoplatonica non educa piu, come nella Stoa o nell'epicureismo, a un'arte di vita (ars vitae) sulla terra. La psicagogia (la guida dell'anima) diventa piuttosto un insegnamento della pu­ rificazione interna dell'uomo e del cammino dell'anima all'indietro, fino al­ l'Origine divina trascendente (I 6 [I] 8 2I sg.). Il ritorno tanto desiderato può avvenire poiché, nella sua discesa, una parte dell'anima è rimasta nel mondo intelligibile (4 7 [2] 10 30 sgg.). Tutto ciò è importante per la comprensione delle trattazioni latine a sfondo filosofico della tarda antichità. In particolare, ebbe grande importanza per la filosofia romana un allievo di Platino, PoRFIRIO (ca. 234-30I/304). Porfìrio accentuò la trascendenza dell'origine assoluta e moltiplicò il numero degli stadi intermedi (ipostasi). Considerò il cosiddetto "oracolo caldaico" come una rive­ lazione divina. Porfìrio non solo introdusse la logica aristotelica come propedeutica allo studio dei dialoghi platorùci, ma si occupò anche di retorica, di musica, di com­ menti a poeti e di medicina. Pubblicò gli scritti di Platino, scrisse sentenze che dove­ vano sostenere l'arùma del lettore nel suo sforzo per l'ascesa e il ritorno (Sentelltiae ad intelligibilia ducentes), commentò sia Omero che scritti platorùci e aristotelici. In parti­ colare il suo scritto introduttivo all'Organon aristotelico, l'Isagoge, nel quale furono trattati i cinque concetti di genere, tipo, differenza, caratteristica peculiare e acciden­ te (da cui il titolo Quinque voces) esercitò una notevole influenza, e fu commentato da Boezio. Nel Medioevo esso venne considerato un'introduzione alla logica.

Porfìrio è stato definito « la guida spirituale �� dell'Occidente (Courcelle) . Ha influenzato, nella terminologia e nel metodo, la teologia cristiana e spe­ cialmente Agostino, soprattutto grazie alla mediazione di Mario Vittorino. Porfirio cercò di collegare la filosofia neoplatonica all'educazione tradiziona­ le e alle tradizioni delle religioni sincretistiche. Questo atteggiamento era in accordo con gli sforzi dell'epoca di far rinascere la cultura greco-pagana, che non si basavano esclusivamente sulla forza "di un pensiero particolare" nel­ l'aspirazione alla redenzione. Platino, all'invito di recarsi a una funzione religiosa, aveva reagito con l'osservazio­ ne che gli dèi sarebbero dovuti andare da lui e non lui da loro (Vita Plotini, IO 34). Quest'atteggiamento verso gli dèi e verso gli atti sacrali però mutò radicalmente. Certo, anche per il platorùco Porfìrio il ritorno dell'anima all'Origine divina passa at­ traverso la conoscenza di se stessi: egli però tiene conto della rrùnore fiducia nella ca-

5 · LA TARDA ETÀ IMPERIALE pacità di poter compiere l'agognato ritorno solo con le proprie forze e riconosce, co­ me faranno i platonici successivi, che determinate pratiche religiose popolari posso­ no rivelarsi utili nel cammino di salvezza dell'anima (De regressu animae) . Si fece ricor­ so sempre piu spesso a pratiche religioso-cultuali e ci fu un'apertura a rivelazioni sal­ vifiche pseudo-filosofiche, quali i cosiddetti "scritti ermetici" o gli Oracoli caldaici, che risalgono al II sec. d.C. Una causa va forse ricercata nel fatto che l'abisso fra l'Origine suprema, come scopo del ritorno, e l'anima umana venne avvertito come sempre piu grande. GIAMBLICO (IV sec.), un allievo di Porfìrio - che, a dire il vero, in Occidente non è stato quasi mai studiato dai latinisti -, e PROCLO - un importante filosofo pla­ tonico ad Atene (412-485 d.C.), i cui scritti hanno influenzato, tra gli altri, Boezio -, contestarono addirittura l'idea che tra l'anima e l'ambito intelligibile rimanesse un contatto (Proclo, In Platonis Parmenidcm commentarii, 948 14 Cousin) e dubitarono che fosse possibile un ritorno solo con le proprie forze. In questo modo si diede spazio in un contesto filosofico alle pratiche religiose (teurgia). Proclo si sforzò, mediante il collegamento tra filosofia e culto, di non far perdere il contatto fra immanenza e tra­ scendenza. La triade è costituita dal permanere della causa in se stessa, dal procedere dell'essere che deriva da essa e dal ritorno dell'essere derivato alla causa originaria, struttura il cosmo (Elementatio theologica, 31). Ne consegue un movimento circolare (dialettica triadica), al quale partecipa anche l'anima umana. Il cosmo spirituale di Proclo è strutturato gerarchicamente, con una grande quantità di stadi intermedi; al­ cuni sono provvisti di nomi di divinità tradizionali, ed è a loro che l'anima rivolge lo­ di e preghiere affinché favoriscano l'ascesa. La loro benevolenza, si potrebbe quasi di­ re la loro grazia, è imprescindibile per il successo dell'ascesa desiderata dall'anima (cfr. anche Giamblico, De mysteriis, 4 1 = p. 181 8 des Places). L'aspirazione al ritorno nella zona trascendente, l'accento posto sull'aspetto religioso e l'integrazione di pra­ tiche religiose tradizionali andarono chiaramente incontro ad un bisogno religioso di redenzione, che si manifesta anche nel cristianesimo nascente. È significativo che i culti dal canto loro, per esempio quello di Mitra, si abbellissero filosoficamente e, in quest'occasione, si servissero dalla « cesta delle spezie aromatiche di Platone >> (Ter­ tulliano, De anima, 23 5).

Dopo la crisi del III secolo la filosofia platonica andò quindi incontro al crescente bisogno di redenzione. Questo anelito ha influenzato scrittori cri­ stiani come Mario Vittorino, Ambrogio, Agostino e Boezio. Ma anche a pionieri dell'opposizione pagana, come Quinto Aurelio Simmaco, Vettio Agorio Pretestato e Virio Nicomaco Flaviano - nei quali il conservatorismo religioso si uni allo sforzo di rinnovare la tradizione pagana -, il platonismo forni le basi e la terminologia per la riflessione e il sostegno delle loro posi­ zioni (J. Flamant, Macro be et le néo-platonisme latin à lafin du I Ve siècle, Leiden 1 977) .

VIII · FILOSOFIA RO MANA La terza relatio di Simmaco (384/385), un rapporto indirizzato all'imperatore reg­ gente (nel caso specifico, a Valentiniano Il), a proposito della disputa sull'altare della Vittoria, fa capire come la tradizione (mos) e la filosofia arrivino a un patto, quando quest'ultima aiuta a chiarire e a motivare la tradizione. Le usanze religiose, nelle loro forme piu varie, vengono giustificate attraverso la concezione (platonica) secondo la quale in ogni usanza o culto viene alla luce un accesso alla sfera divina, cioè spiritua­ le (cap. vm: suus enim cuique mos, suus ritus est). La filosofia viene considerata anche qui ancella della tradizione (ancilla traditi ab antiquiis moris), un compito che le era stato as­ segnato dai tempi della sua introduzione a Roma. È anche caratteristico che si conti­ nui a mantenere una certa distanza nei confronti della discussione filosofica (sed haec otiosorum disputatio est: R. KLEIN, Symmachus: eine tragische Gesta/t des ausgehenden Heidetl­ tum, Darmstadt I97I).

È significativo il fatto che ora la convergenza di tradizione e filosofia ven­ ga tematizzata. Nei Saturnalia, un libro dedicato all'educazione del figlio, lo scrittore MAcROBIO (inizi del V secolo) erige un monumento ai capi dell'op­ posizione pagana in quel periodo. In questa importante testimonianza di erudizione viene diffusa una sintesi della cultura greca e romana, che si vuole "cucinare insieme" fino a formare un'unità (Sa­ turnalia, I 7-10). Nella conversazione, si dice, devono venire introdotte norme, dottri­ ne o esempi da diversi periodi: la loro pluralità deve convergere in un'unità (multarum aetatium exempla, sed in unum conspirata). Iscrizioni (per es., la no 63 Moretti su Claudia­ no) testimoniano che in questo modo viene raggiunta l'atmosfera che caratterizzerà quest'epoca. Il commento di Macrobio al Somnium Scipionis, la parte finale del De re publica di Cicerone, mostrano che anche la filosofia viene inclusa negli sforzi di sinte­ si (conspiratio). Ora non si tratta piu esclusivamente di una ricezione adeguata dei pen­ sieri greci, anzi: la filosofia greca, quindi platonica, viene impiegata per l'interpreta­ zione di Cicerone, un "classico" della filosofia romana. Macrobio vuole chiarire il contenuto del Somnium Scipionis (sopravvivenza dell'anima dopo la morte e ricom­ pensa del politico) partendo dal punto di vista della metafisica neoplatonica ( Com­ mentarii in Ciceronis somnium Scipionis, 2 I5 I) . Le trattazioni dei filosofi romani devono essere commentate e consolidate attraverso l'accumulo (coacetVatio) del patrimonio spirituale platonico. In questo modo Cicerone, l' aemulus Platonis, viene equiparato al suo modello. Come ai platonici prima di lui, neanche a Macrobio interessa essere originale o creare tesi nuove: vuole dimostrare, da fedele esegeta, la concordanza di Cicerone con Platone. Macrobio riesce a superare le difficoltà che sorgono grazie a particolari sfumature della dottrina platonica (C. ZINTZEN, Romisches und neoplatoni­ sches bei Macrobius. Bemerkungen zur 1tOÀltlX'IÌ apeni im Comm. in Somn. Scip. I 8, in P. STEINMETZ [a cura di], Politeia und Res publica. Gedenkschrifi R. Stark, Wiesbaden I969, pp. 357-76). I.:idea di una ricompensa per l'attività pratico-politica svolta in vita, che

5 · LA TARDA ETÀ IMPE RIALE attende l'uomo politico nell'habitaculum caeleste, ben si adatta all'atteggiamento roma­ no di base; questa idea è però difficile da accordare con la dottrina platonica, nella quale la teoria ha la precedenza. Macrobio tuttavia, richiamandosi a Porfìrio e a Pio­ tino, suggerisce l'idea che la tradizione platonica sia da intendere in senso ciceronia­ no. [;interpretazione può oggettivamente essere "poco ortodossa", ma rende possibi­ le l'affermazione che ci sia una convergenza di idee romane e di filosofia platonica. Anche dal punto di vista platonico, dunque, un "uomo pratico" come Romolo può arrivare in cielo ( Commentarii in Ciceronis somnium Scipionis, 2 I7 5 sgg.}. Salone e Li­ curgo, Numa, i Catoni e Scipione rappresentano una lodevole unione di teoria e pra­ tica (ivi, 2 17 8}. Vagognata conspiratio fra la filosofia greca e la tradizione romana vie­ ne resa evidente attraverso exempla.

Tutto ciò ricorda il procedimento utilizzato dai filosofi greci nell'introdu­ zione della filosofia a Roma (Panezio, Filodemo). Allora le sfumature furo­ no accettate per dimostrare l'affinità della filosofia greca ai mores romani. Ora invece si tratta della conformità e dell'equiparazione di un "classico" romano della filosofia con la filosofia greca. Il processo di avvicinamento, che era ini­ ziato nel II e nel I sec. a.C., arriva a una sorta di conclusione. A causa del for­ te calo del bilinguismo nella classe colta, la filosofia diviene, in misura cre­ scente, dominio di autori che scrivono in latino. Ora scrivono in questa lin­ gua anche greci come CLAUDIO CLAUDIANO e AMMIANO MARCELLINO (pri­ ma del 333-ca. 395). Ammiano compone partendo da Porfirio, ma anche uti­ lizzando florilegi e manuali che erano stati redatti, forse, in latino. Le Res ge­ stae di Ammiano testimoniano inoltre che la filosofia platonica in Occidente era diffusa anche fra i non filosofi (J. Szidat, Der Neuplatonismus und die Gebil­ deten im Westen des Reiches. Gedanken zu seiner Verbreitung und Kenntnis auflerhalb der Schultradition, in MusHelv, 39 1982, pp. 132-45). La fruizione di letteratura filosofica in greco non era piu ovvia, persino fra gli eruditi. Non è perciò un caso che la maggior parte delle opere latine a contenuto filosofico di questo periodo siano delle traduzioni. Un esempio importante è dato dalla traduzione del Timeo di Platone fatta da CAL­ CIOlO {sono tradotte le pp. 17a-53c} e da un commento {nel quale vengono discusse le pp. JIC-53 del dialogo} : queste due opere rimasero fino al XII secolo l'unico accesso a Platone in lingua latina. Vautore si distingue piu per il modo di presentare il testo, nel quale si sforza di trovare una terminologia latina, pensata quindi per un pubblico la­ tino, che per l'originalità del contenuto.

Di importanza centrale è la figura di MARIO VITTORINO (281/291-dopo il 363). Mario Vittorino ebbe la cattedra di retorica a Roma sotto l'imperatore

VIII · FILOSOFIA ROMANA

Costanzo (337-361), forse insegnò anche filosofia ed annoverò numerosi se­ natori fra i suoi allievi. Era originario dell'Africa e fu per molto tempo paga­ no. Favori le tradizioni religiose di Roma e volle contribuire agli sforzi di rinnovamento culturale della sua epoca con lavori sulla retorica, sulla gram­ matica o logica e con traduzioni, dimostrando di essere filologo e filosofo. Con la redazione dei suoi Libri Platonicorum, fra i quali si devono immagina­ re forse traduzioni di scritti di Platino e di Porfìrio, Mario Vittorino ha for­ temente influenzato l'evoluzione spirituale di Agostino. Accanto a scritti di grammatica e di retorica, Mario Vittorino redasse un commen­ to ai Topica di Cicerone. Una sua versione latina dell'Isagoge di Porfirio ci è giunta at­ traverso Boezio. Con le sue traduzioni, ma anche con le sue trattazioni filosofiche (pervenuteci solo in modo lacunoso), Mario Vittorino collegò la retorica alla logica aristotelica. Nell'epoca della dura lotta della Chiesa contro l'eresia ariana (forse prima del 357), si converti al cristianesimo e si fece battezzare (Agostino, Confessiones, 8 5 10). Successivamente, oltre a numerose altre opere teologiche scrisse un commento a Paolo. I suoi scritti, soprattutto quelli su Plotino, contribuirono alla creazione di un linguaggio specialistico latino nell'ambito della filosofia, linguaggio che incentivò la ricezione della filosofia greca, nonostante il calo del bilinguismo. Fortemente in­ fluenzato dal punto di vista filosofico dal pensiero porfìriano, Mario Vittorino fece in modo che questo linguaggio risultasse fertile per la discussione teologica. Egli, desi­ derando collegare il patrimonio delle idee neoplatoniche a quello delle idee cristiane, ha sviluppato riflessioni autonome sulla Trinità (Adversus Arium libri quattuor). Acco­ stando la triade porfiriana dell'anima, essere-vita-intelletto, alla trinità cristiana, Pa­ dre-Figlio ( /ogos) Spirito Santo, e definendo il Figlio come voluntas et potentia dei (Ad­ versus Arium, 1 31 18 sgg.), Mario Vittorino conservò in un contesto cristiano l'idea do­ minante nell'antichità del collegamento tra volontà e intelletto. Sostenne energica­ mente la tesi dell'unità dell'essere (òlloouawç) fra il Padre e il Figlio e rifiutò la teoria di un'essenza simile (òj.Lotoumoç). Si può perciò parlare di un platonismo cristiano. Mario Vittorino ha influenzato Agostino sia con l'esempio della sua conversione ( Confessiones, 8 2 3-5) che nella discussione sulla Trinità (P. HADOT, Das Bi/d der Drei­ jàltigkeit in der Seele bei Victorinus und dem heiligen Augusti nus, in G. MAuRACH [a cura di), Romische Philosophie, Darmstadt 1976, pp. 298-340). -

5.2. AGosnNo 5.2.1. VITA E FORMAZIONE. Aurelio Agostino (Tagaste, 13.11.354-Ippona, 28.8.430, entrambe in Africa) non è solo il piu importante padre latino della Chiesa: alcuni vogliono fare iniziare veramente la filosofia romana solo con lui (Btichner). In realtà, Agostino accoglie soprattutto parti importanti del-

5 · LA TARDA ETÀ I MPERIALE l'intera filosofia neoplatonica, ma apporta delle modifiche innovative su punti centrali. Sostituisce, ad esempio, al quadro ciclico della storia una sua trattazione lineare, grazie a cui riprende criticamente accenni, quali quelli chiaramente espressi, per esempio, nel quadro storico di Virgilio. Agostino radicalizza il divario che si estende anche nel platonismo fra l'anima umana e l'origine divina, contestando all'uomo ogni partecipazione personale nella ricerca della beatitudine. Di grande importanza è anche la sua analisi della volontà e, in generale, la sua psicologia {G. O'Daly, Augustine's Philosophy of Mind, London 1987). Secondo Agostino, è possibile dare una risposta alla questione della salvezza dell'uomo non attraverso l'osservazione del cosmo, ma solo con uno sguardo alla propria anima e a Dio. Scopo delle sue rifles­ sioni è conoscere Dio e l'anima {Soliloquia, I 7). Agostino è convinto che il suo cuore trovi pace solo se riposa in Dio ( Corifessiones, I I I) . Dando una scorsa al primo suo scritto che ci è stato tramandato, il Contra Academi­ cos, risulta che il neoplatonismo lo ha influenzato in maniera persistente (3 17 37 sgg.). Una ragione è forse la differenza platonica fra mondo spirituale e mondo sensibile, che può essere inteso come rappresentazione spirituale e cosi ciò potrà aiutare a su­ perare il materialismo, per esempio, della Stoa. In ogni caso, l'incontro col platoni­ smo rappresenta un momento di fondamentale importanza nel cammino di Agosti­ no verso la definitiva conversione alla fede cattolica. Già la madre Monica aveva vo­ luto che il figlio si familiarizzasse presto con il credo cristiano. Il giovane Agostino però considerò in un primo momento il cristianesimo un cumulo di fandonie. Le Sa­ cre Scritture gli ripugnavano per le loro contraddizioni interne e per motivi letterari. Agostino trascorse la giovinezza a Tagaste, a Madaura e a Cartagine. In queste città frequentò alcune scuole di formazione e insegnò poi come maestro di retorica. In questo periodo lesse l'Ortensio di Cicerone, che lo attrasse per la sua struttura forma­ le e gli rivelò l'importanza della filosofia per la vita. La ricerca di un Dio personale indirizzò tuttavia Agostino dapprima verso i manichei ( Co'!fessiones, 3 n 20) . Il fatto che qui si parlasse di salvezza, di risveglio e di Cristo, che venisse offerta un'immagi­ ne del mondo fondata razionalmente (De utilitate credendi, 14 31) , nonché il fatto che i manichei non accettassero le contraddizioni delle Sacre Scritture, fecero si che la set­ ta manichea esercitasse su di lui una certa attrazione. Il loro dualismo però, che vede il Dio dell'oscurità in perenne contrasto con il Dio della luce, fu per Agostino un problema, giacché un tale conflitto presuppone la possibilità della sofferenza e della mutevolezza del Dio della luce ( Co'!fessiones, 7 2 3) . Agostino fu inoltre disgustato dal comportamento pretenzioso di alcuni seguaci della dottrina (ivi, 5 7 I3). Si distaccò quindi dai manichei e si trasferi a Roma (nel 383), dove esercitò la professione di in­ segnante di retorica. Dopo essersi rivolto per un breve periodo allo scetticismo acca­ demico (ivi, 5 14 25), ed essersi trasferito a Milano - dove iniziò a lavorare come ma-

VIII



FILOSOFIA ROMANA

gister rhetorum -, ricevette gli impulsi decisivi per il suo successivo sviluppo spirituale. Determinante fu l'incontro col vescovo Ambrogio, la ([pioç] ftewpT}nx6ç: Philosophiae consolatio, I pr. I 4): ricondurre l'anima alla propria forza e purezza naturale. Se ciò ricorda Seneca (cfr. Epistulae, 90 26 sgg.), evidenzia però anche una dif­ ferenza: dalla filosofia come ars vitae è nata un'arte anagogica, che deve aiuta­ re l'anima a cambiare strada e a tornare all'Origine divina. 5.3.2. LA FILOSOFIA. Boezio distingue nella filosofia una parte speculativa e una parte pratica (In Porphyrii Isagogen commentarii, I lib. I 3; 2 lib. I 3). La filo­ sofia speculativa si occupa delle pure cose spirituali separate dalla materia (intellectibilia), delle anime degli uomini che sono unite alla materia (intelligi­ bilia), e delle cose del mondo materiale che permettono un accesso spiritua­ le (naturalia), e che quindi, diciamo, appartengono alla sfera del quadrivium: aritmetica, musica, geometria e astronomia (si veda il contributo di I. Hadot, sopra, pp. 37-58). La filosofia pratica cerca la strada giusta per la virru, insegna come la giustizia e la saggezza dominino nello Stato e come si debba guida­ re una famiglia. Le riflessioni di Boezio sull'esistenza di un Dio superiore (intellectibile) si basano sull'argomentazione che non ci possono essere due beni supremi diversi. Dio è per Boezio anche il Bene supremo (Philosophiae consolatio, 3 pr. 10). Nella psicologia Boezio segue la dottrina neoplatonica

VIII

· F I L O S O FI A RO MANA

della discesa dell'anima e dei suoi sforzi per tornare all'Origine, con l'aiuto della filosofia. Mentre si occupava dell'Isagoge di Porfirio, Boezio non poté non imbattersi nel problema degli universali. Determinazioni come il gene­ re (genus) e la specie (species) vanno considerate come realtà, o si tratta nel lo­ ro caso di pure forme di pensiero? (In Porphyrii Isagogen commentarii, 2 lib. I IO sgg.) . Boezio mostra che le due posizioni conducono a un'aporia. Particolarmente interessante è la discussione di Boezio sulla questione della Prov­ videnza nella Philosophiae consolatio (c&. Philosophiae consolatio, 5; E. GEGENSCHATZ, Die Freiheit der EntscheidunR in der 'Consolatio Philosophiae' des Boethius, in MusHelv, 15 1958, pp. no-29, ripreso in M. FuHRMANN-J. GRUBER (a cura di], Boethius, Darmstadt 1984, pp. 323-49}. Come ci può essere libertà, se Dio sa tutto in anticipo? L'aporia era la conseguenza di un'idea di prescienza falsa perché intesa temporal­ mente. Essendo Dio onnipresente, egli ha una vera conoscenza completa sulla realtà presente, senza che per ciò venga esclusa l'ipotetica necessità. Insoluta resta, a dire il vero, la questione di come si concilino la predestinazione e il libero arbitrio, se si ve­ de in Dio un'artista che tutto crea (Philosophiae consolatio, 4 pr. 6}. Boezio ci è debitore di una risposta. Egli ha appagato il suo desiderio di conservare uno spazio libero per premi e pene. Infatti ora le preghiere e gli sforzi morali non restano vani, cosi come la possibilità di ritornare al mondo dell'Essere, attraverso la salvezza dell'anima e il suo orientamento verso il bene.

Con Boezio la filosofia antica di ambito romano giunge alla fine. Boezio è stato definito >

1.6.3. Forme della cultura materiale Il cambiamento che si verifica nelle forme di vita quotidiana nel II sec. a.C. è testimoniato dalle case e dalle ville che ora per la prima volta vengono individuate nei ritrovamenti in aree suburbane - soprattutto a Pompei, Fre­ gellae e Vulci - e disseminati nella regione. Le case acquistano dimensioni talvolta sbalorditive, la loro superficie viene strutturata in modo diverso, per esempio con i porticati (peristili), grandi sale

da pranzo e atri spaziosi. Le vil­

le vengono fatte risaltare nel paesaggio grazie a poderose costruzioni sotter­ ranee (sostruzioni) e mediante altri elementi, come le mura di cinta. I.:arredamento

è caratterizzato da una certa sontuosità,

che da una parte

è

costituita dalla pittura parietale, alla maniera del cosiddetto "primo stile" che imita una parete rivestita da lastre di pietra colorata -, dall'altra da son­ tuosi mosaici - come il mosaico di Alessandro nella Casa del Fauno a Pom­ pei. Anche il decoro architettonico degli ingressi, degli atri e dei peristili rag­ giunge un livello qualitativo completamente nuovo nel dettaglio delle for­ me, nello sfarzo degli ornamenti e nella ricchezza delle sue variazioni. Que­ ste tendenze si affermano però chiaramente soltanto nel corso del II secolo, toccando l'apice verso la fine di esso. Parallelamente alla sontuosità delle abitazioni, per la prima volta nelle ne­ empoli di Roma sorgono impianti funerari piu grandi. A questi appartiene la Tomba degli Scipioni sulla via Appia, con il suo sfarzoso sarcofago e la lus­ suosa facciata. Da altri complessi ci giungono solo pochi altri frammenti di decorazione architettonica o di arredamento scultoreo.

813

IX

·

ARCHEOLOGIA E STO RIA DELL ' ARTE A ROM A

La trasformazione della cultura materiale mostra una grande quantità di innovazioni. Il commercio e l'approvvigionamento di beni di lusso aumen­ tano all'improvviso: lo si può vedere dagli abbondanti rinvenimenti di anfo­ re da trasporto, ma lo testimoniano anche le grandi quantità di ceramica pro­ dotte in Italia, fra le quali soprattutto la cosiddetta "ceramica campana", a vernice nera. Si assunsero abitudini di vita greche, per esempio l'usanza dei banchetti, in seguito adattate ai modelli romani. Gli accampamenti romani in Spagna mostrano cosi i primi triclini e, allo stesso tempo, testimoniano quale importanza abbiano acquistato queste forme di vita per i membri del­ la nobiltà romana.

A. LAIDLAW, The First Style in Pompeji. Painting and Architecture, Roma 1985; ].-P. Mo­ REL, Céramique à vernis noir du Forum Romain et du Palatin, Paris 1965.

1.7. LA TARDA REPUBBLICA (DAL 100 FINO AL 31 A.C.) 1.7.1. Urbanistica e architettura Attività edilizie di ampia portata proseguono a Roma senza soluzione di continuità nel corso del I secolo.

È

comunque chiaro l'intento, tra i vari

committenti, di impressionare quanto piu possibile la popolazione con le co­ struzioni. Dopo le guerre fra Mario e Silla, sorge, al limite settentrionale del Foro Romano, il

Tabularium, con un'enorme facciata. Contemporaneamente

viene rinnovata un'intera serie di arredi del Foro e, insieme, la sua pavimen­ tazione. Viene anche eretto di nuovo il Tempio Capitolino, bruciato nei di­ sordini bellici di quegli anni. Questi edifici però non portano il nome di Sii­ la, bensf quello del suo avversario di partito Quinto Lutazio Catulo. Altre costruzioni furono successivamente edificate da Pompeo, che occupa il cen­ tro del Campo Marzio con il suo enorme teatro e l'ampio portico adiacente. La risposta a questo impianto, consacrato nel

55 a.C., è rappresentata dal Fo­

ro che Cesare erige nuovamente ai lati del vecchio Foro Romano e che cam­ bia in maniera determinante i rapporti di spazio in questa zona, facendo scomparire la venerabile costruzione del

Comitium.

La curia, sede ammini­

strativa del senato, viene allestita in modo completamente nuovo. Altri am­ biziosi progetti di Cesare non vengono però piu realizzati, come per esem­ pio la costruzione in marmo, nel Campo Marzio, dei

Saepta o l'edificazione

del piu grande tempio del mondo, che Cesare aveva previsto per il Campo Marzio. Tutti questi impianti restano curiosamente eterogenei: assolvono si

814

I

· ARTE E ARCH E O L O G I A A ROMA

compiti sacrali e politici, ma il loro scopo principale consiste evidentemente nella ricerca del consenso popolare e nella conseguente autorappresentazio­ ne dei committenti che, con progetti di volta in volta diversi, cercano di le­ gare la schiera dei loro seguaci e di affascinare la popolazione di Roma. A un livello completamente diverso, questo stesso scopo si può notare nell'attività costruttiva degli edili. Un Appio Claudio Pulcro, all'inizio del I secolo, ave­

va montato per le sue rappresentazioni un palcoscenico dipinto con effetti straordinariamente realistici. Ne seguono altri con decorazioni d'oro e d'ar­ gento, ma lo sviluppo raggiunge il culmine, nell'anno

58

a.C., con la scena

del Teatro di Scauro, che sembra abbia riunito su tre piani

360

colonne e

un'enorme quantità di figure. Un'altra meraviglia è offerta dall'apprestamen­ to scenico di Curio: due gradinate teatrali semicircolari dove sedevano gli spettatori

(cavea) potevano

essere congiunte oppure fatte ruotare in direzio­

ne opposta, in modo da comporre un anfiteatro o due teatri. Nella fisiono­ mia della città dominano quindi opere volte agli effetti speciali. Non abbia­

mo praticamente alcuna notizia di edifici di pubblica utilità o assistenziali. Nella tecnica di costruzione vengono continuate le tradizioni del II seco­

lo. Nell'opera muraria a getto si trova un rivestimento all'esterno fatto di tu­ felli quadrangolari, disposti a formare un reticolo

(opus quasi reticulatum). Il ri­

vestimento continua a presentare decorazioni in stucco. Nella forma esterna però si incontrano ora piu spesso e in maniera piu intensa decorazioni in marmo.

Un esempio tipico è offerto dal tempio circolare costruito a cavallo tra il II e il I sec. a.C. sul Tevere, presso il Foro Boario, con capitelli e fusti di colonna importati dalla Grecia. Le fonti tramandano l'utilizzo di parti corrispondenti nella costruzione di abitazioni. Con altrettanta evidenza le città d'Italia proseguirono le tradizioni del II secolo.

A Pompei, per esempio, che dovette accogliere, dopo la deposizione di Silla, il nu­ mero maggiore dei suoi veterani come nuovi cittadini, si costrui un nuovo grande tempio dedicato a Venere. Accanto al Teatro nasce l'Odeion, un piccolo salone coper­ to, che forse serviva come luogo di riunioni proprio per quei veterani e per i loro rappresentanti politici. Nelle città di provincia italiane mancano delle costruzioni spettacolari paragonabili a quelle di Roma. Esse però sono spesso dotate, all'epoca di Silla, di nuove cinta murarie, cosi a Ostia, a Cori o forse anche nella stessa Pompei. H. DRERUP, Zum Ausstattungsluxus in der ri:im. Architektur, Miinster 19812; A.M. REeB IS

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' A R C HE O L O G IA E S T O RIA D E L L ARTE A R O M A

GIAN!, Ipotesi di recupero del teatro di Pompei, in AA.W., Roma. Archeologia nel centro, 11. La città murata, Roma 1985, pp. 370-75; C.M. AMICI, Il Foro di Cesare, Firenze 1991.

1.7.2. Scultura e mondofigurativo Le statue onorarie di ogni epoca si riallacciano ai modelli del periodo pre­ cedente. Tuttavia c'è da osservare da un lato un certo aspetto piu severo, dal­ l'altro anche un coinvolgimento di strati piu ampi della popolazione. Con la cosiddetta "statua dell'arringatore", che ritrae un Aula Metello, appare per la prima volta il tipo del togatus che, con una gran quantità di simili opere sta­ tuarie, deve essere stato presente in tutti i luoghi pubblici di Roma e delle città italiche. I.: opera stessa appartiene alla prima metà del I sec. a.C. Il ritrat­ to presenta caratteristiche tipiche del tempo, che consistono nell'esibizione della fatica e nell'ostentazione dei tratti della vecchiaia, pur non scomparen­ do completamente il pathos ellenistico. Altri ritratti di famosi condottieri e politici del tempo - sono per esempio identificabili quelli di Pompeo e di Cesare - sono costituiti da una miscela simile di tali elementi. Schematiz­ zando, si può dire che questa forma caratterizza i ritratti dei liberti degli ul­ timi decenni della Repubblica. Inoltre, ci sono statue-ritratti che presentano il soggetto in eroica nudità. I ritratti sono costituiti talvolta solo da busti, con una piccola parte del petto, o da busti entro clipeo: famosi sono i clipei della Basilica Emilia. Le statue di donne seguono lo schema ellenistico del tipo co­ siddetto della pudicitia, nel quale la veste copre, con un panneggio abbondan­ te, corpo e capelli. Per la prima volta appaiono i rilievi storici eseguiti in marmo o i rilievi con indicazioni che rimandano a fatti storici.

Il primo, e forse il piu famoso esempio del genere è offerto dalla cosiddetta ''Ara di Domizio Enobarbo", che su una parte di fregio riproduce lo svolgimento del census romano, mentre le tre parti restanti raffigurano un tiaso marino greco. Da un altro monumento di simile tenore provengono i rilievi con rappresentazioni di armi che si riferiscono a battaglie in Nord Africa. Queste parti appartengono probabilmente a un ex-voto che il re Giugurta fece innalzare per Silla sul Campidoglio. Si aggiungono poi altri fregi, che descrivono avvenimenti relativi alla fon­ dazione di Roma, fregi di scene dalla più antica storia della città. Essi si tro­ vano non solo in costruzioni pubbliche, come la Basilica Emilia, ma anche in strutture private, come le tombe private dell'Esquilino, della via Appia o di altre località.

816

I · ARTE E ARCH E O L O G I A A ROMA

V. KocKEL, Portratreliefs stadtrom. Grabbauten, Mainz 1993; T. H6LSCHER, Beobachtun­ geu zu rom. historischen Denkmalern, in ArchAnz, 1979, pp. 33'7-48. J.7.l Forme della cultura materiale Nell'epoca qui considerata lo sfarzo delle case aumenta notevolmente. Vengono segnalate a Roma diverse forme di allestimento marmoreo con preziose colonne nei peristili. A questo tipo di sviluppo corrispondono an­ che gli altri elementi della decorazione : nasce cosi, nel I secolo, il cosiddetto "secondo stile p ompeiana" della pittura parietale.

È

caratterizzato dall'illu­

sione di un enorme sfoggio di materiale nei piu disparati tipi di marmo e di metallo, di ampie fughe, che sono simulate grazie a vedute prospettiche ar­ chitettoniche e mediante una grande quantità di indicazioni di dettagli lus­ suosi, ad esempio pesanti tende, elementi di arredamento d'oro, oggetti eso­

tici o anche animali di lusso, come pavoni. I pavimenti mostrano altresf in­ serzioni di costosi materiali lirici, le porte sono costruite in maniera partico­ larmente dispendiosa e, soprattutto, nelle case ci si imbatte in grandi sale da pranzo, disposte in maniera piuttosto varia. Mentre sono noti singoli am­ bienti piu piccoli a Roma sul Palatino, queste forme di costruzione e di alle­ stimento sono riconoscibili al meglio a Pompei e a Ercolano. Le ville seguo­ no nel loro arredamento i modelli cittadini, aumentano visibilmente in estensione e, poggiate su sostruzioni, dominano il terreno circostante. Notevoli esempi di queste ville si trovano nelle vicinanze di Roma, presso Tivoli o lungo la costa tra Roma e Napoli e nelle zone sepolte del Vesuvio, come la Villa dei Misteri a Pompei o l'estesa Villa presso Oplonti. Già nel II secolo le case, e soprattutto le ville, contenevano complessi scultorei di mag­ giori proporzioni, ora però tale corredo appare addirittura obbligatorio: la Villa dei Pisani a Ercolano rappresenta un esempio significativo. I discorsi di Cicerone contro Verre testimoniano la passione da collezionisti dei nobili di quel tempo e le loro conoscenze artistiche, che trovano conferma in vario modo nei reperti delle case e delle ville di quell'epoca. Un evidente passo avanti nello sviluppo si incontra anche negli edifici fu­ nerari. Lungo le strade di uscita da Roma si scorgono ora piu spesso impian­

ti

estesi, come tumuli rotondi o anche alti piedistalli con statue, incorniciati

da edicole. Anche i liberti costruiscono, in alcune zone, recinti fittamente al­ lineati, con costose facciate che contengono gallerie di ritratti dei defunti. In maniera piu evidente di prima, nel patrimonio della ceramica e degli

81 7

IX

·

A R C H E O L O G I A E S T O RIA D E L L ' A RTE A R O M A

utensili domestici si incontrano stoviglie di lusso. Vi

è

un'evidente abbon­

danza nell'importazione di recipienti di vetro, per i quali in seguito la Siria costituirà un importante centro di produzione. Sono sempre piu frequenti i recipienti fatti di metalli nobili. Anche tutte le suppellettili domestiche, co­ me ad esempio i tavoli o le fontane, realizzate in marmo con grande dispen­ dio, entrano a far parte dell'arredamento di case e ville.

G. ZIMMER, Das Sacrarium der C. Heius, in Gymnasium )), 96 1989, pp. 493-520; R.A. «

TYBOUT, Aedificiorum figurae. Untersuchungen zu Architekturdarstellungen desJriihen Zweiteu Stils, Amsterdam 1989; A.E. R1z, Bronzegefafie in der pompejanischen Wandmalerei, Mainz 1990.

1.8. AuGusTo (31 A.C - 14 .

o.C.)

1.8.1. Urbanistica e architettura Roma assume sotto Augusto un volto completamente nuovo. L'imperato­ re dice di sé che ha trasformato Roma da una città di mattoni a una città di marmo (Svetonio,

Divus Augustus, 31). Questo processo di trasformazione ab­

braccia tutti gli ambiti cittadini. Il principe promuove la costruzione di edifi­ ci di culto: già all'inizio del suo impero sorge la grande area di Apollo sul Pa­ latino con le sale circostanti, la biblioteca e gli ampi annessi. Il santuario è espressione del ringraziamento del sovrano nei confronti della divinità pro­ tettrice, rappresenta un monumento alla vittoria sull'Egitto ed

è leggibile an­

che come un segno di riconciliazione dopo le molte guerre civili e i tempi della proscrizione. Negli stessi anni, immediatamente dopo la vittoria di Azio

(31 a.C.), Au­

gusto inizia la ricostruzione con la trasformazione del Foro Romano. Al li­ mite meridionale erige, in una posizione particolarmente in vista, il tempio del Divo Cesare e, dalla parte opposta, completa la costruzione della Curia. Membri del partito di Augusto si occupano della ricostruzione di altri im­ pianti elevati in questa zona: Lucio Munazio Planco, dopo Azio, del Tempio di Saturno e prima, nel

36

a.C., Gneo Domizio Calvino della

Regia dietro il

Tempio di Cesare. Inoltre, in questo periodo vengono portati avanti i lavori delle due grandi basiliche del Foro Romano, la Basilica Emilia e la Basilica Giulia. Il Foro Romano offre quindi un'immagine completamente nuova già dopo il primo decennio del principato di Augusto. Ne fa parte anche l'Arco di Trionfo costruito accanto al Tempio di Cesare, immediatamente dopo la

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I

·

A RTE E ARC H E O L O G I A A ROMA

battaglia di Azio. Dopo la vittoria sui Parti un nuovo arco, ancora piu son­ tuoso, con tre fornici, e ricco di decorazioni figurative sull'attico, lo sostitui nello stesso posto. In città si costruisce ovunque. Sembra che siano stati restaurati fino al

a.C.

28

ottantadue templi, oltre a quelli ristrutturati dai discendenti dei fonda­

tori. Il Mausoleo di Augusto - forse iniziato prima di Azio e completato do­ po la battaglia in pochi anni -, col suo diametro di tezza di

50

9 0 metri circa e la sua al­

metri, separa in direzione nord il Campo Marzio in un punto

preciso tra la via Flaminia e il Tevere. Anche nel Campo Marzio si costruisce in maniera febbrile. Un membro del partito di Augusto, Agrippa, crea con l'erezione del Pantheon un nuovo centro religioso.

Il Pantheon si trova al centro di un esteso parco, al quale appartengono anche ter­ me con una stanza a cupola di 30 metri ca. di diametro, un canale artificiale (euripus), il piu grande edificio coperto di Roma, il Diribitorium, i Saepta e (inoltre) molte altre costruzioni. Un nuovo genere di parco di svago e divertimento per la popolazione romana si aggiunge a complessi come il Teatro di Pompeo e alle zone restanti dall'e­ poca della Repubblica, che vengono tutte rinnovate. In questa regione si aggiungono altre costruzioni di teatri. Augusto completa, nel 23 a.C., il teatro di Marcello, Balbo un altro piccolo teatro nelle vicinanze e Statilio Tauro il primo anfiteatro in legno. Roma risplende nella nuova lucentezza marmorea : la cura e al contempo l'ostentazione di potere del principe e dei suoi sostenitori

è evidente in tutte

le costruzioni e negli impianti annessi. In una seconda fase, all'incirca dopo il 10 a.C., le costruzioni acquistano una qualità del tutto nuova. Il Foro di Au­

gusto, che

è costruito in diretto collegamento col Foro di Cesare in direzio­

ne della Suburra, il quartiere piu densamente popolato di Roma, costituisce un

esempio significativo del genere.

Il Tempio di Marte Ultore, già votato nella battaglia di Filippi nel 42 a.C., fu con­ sacrato solo nel 2 a.C. L'architettura, nella maturità della sua concezione e nella fi­ nezza della costruzione manuale, può essere considerata un esempio del classicismo augusteo. Il suo effetto deve essere stato immenso, poiché molti dettagli vengono imitati e adottati molto presto al di fuori di Roma. Il possente tempio, con otto co­ lonne corinzie sulla facciata, viene fiancheggiato su entrambi i lati da alti colonnati. Dietro ai colonnati sono annesse delle grandiose esedre, ornate con serie di statue ce­ lebrative. Un'altra costruzione importante di questi anni

819

è

costituita dall'Ara

Pacis,

IX

·

' ARCHE O L O G IA E S T O RI A D E LL ARTE A R O M A

l'altare che dopo la fine della guerre in Spagna viene consacrato nel 9 a.C. sulla via Flaminia, in collegamento con il gigantesco orologio solare, eretto da Augusto. A questa serie di costruzioni, con decorazioni estremamente raffinate, appartengono infine i due templi che i successori in pectore del prin­ cipe, Tiberio e Druso, innalzarono sul Foro Romano, il Tempio della Con­ cordia e il Tempio dei Dioscuri. Questi edifici conferiscono in modo pro­ grammatico un'impronta notevole alla successione dinastica collegata alla fa­ miglia giulia. Accanto alle attività della casa imperiale, Roma si trasforma in maniera di­ versificata. Soprattutto i numerosi edifici funerari tramandano le intenzioni della nobiltà e degli altri cittadini, e documentano allo stesso tempo, nel lo­ ro sviluppo verso forme piu semplici e piu sobrie, la profonda trasformazio­ ne che porta a un abbandono dell'autorappresentazione in pubblico, un cambiamento chiaramente causato dall'ideologia del principato. L'immagine della città di Roma alla fine dell'impero di Augusto deve essere stata caratte­ rizzata da una grande quantità di costruzioni marmoree: lo testimoniano, ac­ canto agli esempi menzionati, anche i numerosi piccoli complessi come i tempietti e gli altari che i liberti, a partire dagli ultimi anni prima della svol­ ta di fine secolo, dedicavano al culto dei Lari nei vici. Il cambiamento nell'architettura dell'epoca augustea si percepisce soprat­ tutto nei materiali da costruzione e nella struttura delle singole forme. Il ta­ glio delle pietre di rivestimento della muratura a gettata acquista ora una for­ ma regolare (opus reticulatum). Nella realizzazione delle forme decorative dell'architettura marmorea appare ora evidente il rapido passaggio - da mo­ delli che all'inizio erano rispettosi dello stile della tarda Repubblica -, verso un nuovo stile classicistico da intendere come creazione personale dell'età augustea, che si afferma ad un alto livello creativo solo per pochi decenni. Le città d'Italia offrono per molti aspetti un quadro simile a quello di Roma. A Pompei, ad esempio, sorge un'intera serie di costruzioni rivestite di marmo, so­ prattutto nel foro della città. Ma anche il teatro riceve una facciata di marmo, e allo stesso modo sono nuovamente innalzati, proprio in questo periodo, il vecchio Tem­ pio di Venere e un nuovo Tempio per la Fortuna Augusta. Cambiamenti simili con­ trassegnano la maggior parte delle città d'Italia, per esempio Ostia, Luni e molte altre ancora. Cosi in alcune zone crescono delle città modello, come Aosta ai piedi delle Alpi o Torino con la sua pianta rettangolare e le sue alte e possenti mura che circon­ dano l'intera città. La forma urbana si coglie non solamente nelle forme architettoni-

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l

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ARTE E ARCH E O L O G I A A ROMA

che esterne, ma soprattutto anche nel rifornimento della città con acqua e nella sua integrazione nel paesaggio circostante. In seguito si aggiungono le strade interurbane che, in età augustea, vengono ugualmente rinnovate. Un esempio rimarchevole è of­ ferto dalla via Flaminia, i cui estremi, a Roma e a Rimini, sono abbelliti con archi onorari dedicati ad Augusto. Altre città tuttavia persistono nella loro vecchia forma senza che la vita in loro si estingua, per esempio, Cosa e Cori. P. GRo s, Aurea Tempia. Recherches sur l'architecture religieuse de Rom à l'époque d'Auguste, Roma 1976; E. SJMON, Augustus, Miinchen 1986; P. ZANKER, Augustus und die Macht der Bi/der, Miinchen 1988 [trad. it. Augusto e il potere delle immagini, Torino, 1989]; M.R. HoFTER-W.D. HEILMEYER (a cura di), Kaiser Augustus und die verlorene Republik. Eine Ausstellung im Martin-Gropius-Bau, Berlin, 7· juni-14. August 1988, Mainz 1988; H. VON HESBERG-S. PANCIERA, Das Mausoleum des Augustus: der Bau und seine Inschrifien.

Abhandlungen der Bayerischen Akademie der Wissenschafien, Philosophisch-historische Klasse, n.F., 108, Miinchen 1994.

1.8.2. Scultura e mondo figurativo Con l'età augustea si afferma definitivamente il canone della statua ritrat­ to e della statua onoraria romana, fra le quali quelle destinate agli uomini si possono in sostanza distinguere in cinque tipi. Fra questi prevalgono le sta­ tue con la toga. Augusto stesso viene spesso raffigurato con il capo coperto, cioè nel momento del sacrificio: questo modello viene spesso imitato. Per lo piu, però, è raffigurato il cittadino romano, il cui status sociale viene espresso dalla veste. La toga come veste è perciò messa particolarmente in evidenza con i suoi ricchi drappeggi. l:armatura, e in particolare la corazza, contrasse­ gna i detentori di gradi o di funzioni militari. Nel caso soprattutto dei mem­ bri della casa imperiale, compaiono piu spesso corazze riccamente decorate con un vero e proprio programma figurativo. La piu famosa fra queste è la corazza della statua di Augusto di Prima Porta, che riproduce la restituzione delle insegne militari dai Parti all'interno di una visione cosmologica. Nell'e­

tà augustea sono piuttosto rare statue in posa eroica o in pose che emulano le immagini degli dèi o famosi

opera nobilia. Piu spesso si trovano invece, nelle

piazze centrali delle città, statue equestri : Pompei ed Ercolano ne offrono buoni esempi. A dire il vero si conservano ancora poche statue di questo ti­ po: da ricordare sarebbero le statue equestri di Cartoceto o quella di Augu­ sto ritrovata in mare, davanti all'isola greca di Melo. Le statue mostrano ca­ valieri sia nell'habitus civile con la toga, che in quello militare con la corazza. Nel nostro repertorio mancano esempi del tipo piu dispendioso di statua ce-

821

' IX · A R C HE O L O G I A E S T O RIA D E L L ARTE A R O M A

lebrativa, cioè le bighe o quadrighe, che incoronano i grandi monumenti ce­ lebrativi, come gli archi o i possenti basamenti nel Foro. Per le donne ven­ gono utilizzati tipi statuari del IV sec. a.C., con l'aggiunta, a volte, di ele­ menti del vestiario romano, per esempio la stola, e le si adegua cosi alle mu­ tate esigenze. Un fenomeno caratteristico dell'età augustea e dei decenni se­ guenti al I sec. d.C. è costituito da grandi gruppi a piu figure. Da menziona­ re sono le serie dei summi viri nel Foro di Augusto: romani famosi del passa­ to, che vengono rappresentati in statue come esempio per le loro imprese e per le loro esemplari qualità personali. Al centro di ciascuna serie, da un lato del Foro c'è Enea con i suoi familiari e dall'altro Romolo con gli spolia opima. Questo modello viene a sua volta imitato nelle città dell'Impero Romano, per esempio a Pompei o a Mérida {Spagna). I ritratti di quest'epoca seguono inizialmente modelli tardorepubblicani o meglio ellenistici; cosi è per il primo tipo di ritratto di Augusto con i suoi elementi di pathos. Anche i ritratti di privati, per esempio quello di Agrippa, si collegano ai modelli della Repubblica. Solo il secondo tipo di ritratto di Augusto, che ha preso il nome dalla Statua di Prima Porta ("tipo di Prima Porta") cosi dalla statua di Prima Porta, mostra forme molto rilassate che, con un ricorso ai principi delle forme classiche, si trasformano fino a rag­ giungere una serenità atemporale. Cambiamenti simili caratterizzano anche i ritratti femminili, fra i quali si affermano le capigliature semplici, rivelando un rifiuto del lusso dell'età tardorepubblicana. Questo esempio viene ora applicato a tutti i tipi di ritratto dell'epoca e dà un'impronta ai ritratti sia ma­ schili sia femminili. Il processo di formazione della società viene rappresentato in modo dura­ turo nei fregi dell'Ara Pads, consacrata nel 9 a.C. nel Campo Marzio. Sui lati lunghi del recinto appaiono processioni con i membri dell'élite romana, da­ vanti ai quali Augusto stesso compie un sacrificio. È circondato da membri del clero romano, da lui ripristinato, e accompagnato dai suoi familiari, una serie dei quali può essere identificata grazie ai ritratti. l.:idealizzazione e l'astrazione atemporale dell'av­ venimento diventano evidenti solo per il fatto che fra i partecipanti appare anche Agrippa, morto già nel 12 a.C. Le immagini sui lati d'ingresso dell'Ara Pacis offrono la rappresentazione concentrata dell'aurea aetas. Il rilievo meglio conservato rappresenta una matrona con i suoi figli, forse la Pace o l'Italia, che appare adagiata in un paesag­ gio bucolico. Nell'immagine sull'altro lato è raffigurato Enea nell'atto del sacrificio, in occasione del prodigio di buon auspicio della scrofa di Lavinia.

Il linguaggio figurativo dell'età augustea è caratterizzato da simili scorci 822

I

· ARTE E A R C H E O L O G I A A R O M A

emblematici basati su pochi espressivi veicoli di immagine, ricchi di molte­ plici riferimenti semantici. Cosi appaiono, in tutti gli ambiti possibili, simbo­ li come gli alberi di alloro, che dinanzi alla casa di Augusto ne fiancheggia­ vano l'ingresso, o anche altri riferimenti al suo impero felice. Non scompaiono tuttavia le consuete categorie dei rilievi storici, dei qua­ li i fregi interni del Tempio di Apollo accanto al Teatro di Marcello offrono un buon esempio. Li sono raffigurati le battaglie di Augusto e il suo triplice trionfo dopo la battaglia di Azio. In seguito, simili rappresentazioni sono sta­ te caricate, a dire il vero, di un significato eccessivo, come dimostrano le sce­ ne sulla Gemma Augustea e sulle tazze di Boscoreale, che raffigurano Au­ gusto come padrone del mondo, senza che egli stesso debba intervenire atti­ vamente negli eventi bellici. A partire da quest'epoca, spesso anche i cittadi­ ni privati sono ritratti nello svolgimento di azioni sacrali. Esempi autorevoli sono offerti dalla cosiddetta "Ara dei Vicornagistri", l'ara cioè di quei liberti che, dopo il nuovo ordinamento a Roma ad opera di Augusto, si occupa­ vano del culto dei Lari nei vici. Essi compiono per lo piu sacrifici, talvolta rappresen­ tano i membri della casa regnante in sorprendenti combinazioni legate al contesto sa­ crale.

Fuori Roma si ricerca nei rilievi storici il riferimento ad avvenimenti loca­ li: per esempio nell'Arco di Susa, il cui fregio raffigura il patto tra Roma e Marco Giulio Cozio, praefectus alpium, a capo delle quattordici popolazioni che abitavano la valle. H. JucKER, Dokurnentation zur Augustusstatue von Prirnaporta, in Hefte des Archao­ logischen Seminars Bern 3 1977, pp. 16-37; K. FITTSCHEN, Zur Panzerstatue von Cher­ chell, in Jdl, 91 1976, pp. 175-210; Die Bildnisse des Augustus. Ausstellung Miinchen, Miinchen 1979; B.l., ScHoLz, Untersuchungen zur Tracht der rom. Matrona, Koln-Wien 1992; D. BoscHUNG, Die Bildnisse des Augustus, Berlin 1993. «

>> ,

r.8.3. Forme della cultura materiale Un esempio molto istruttivo per la struttura delle case all'epoca di Augu­ sto è offerto dalla casa dell'imperatore sul Palatino a Roma. Paragonata alle case del periodo precedente, o anche ai successivi sviluppi soprat­ tutto dell'architettura di palazzo, è piuttosto modesta. Con i suoi pavimenti in opus sectile, ossia un rivestimento di mattonelle di manno colorato, con le decorazioni alle pareti del tipo del tardo "secondo stile", non si distingue particolarmente dalle altre 823

IX



' ARCH E O L O G IA E S T O RI A D E L L ARTE A R O M A

case dell'epoca, cosi come ci sono note grazie a Pompei o a Ercolano, né per la forma né per i contenuti delle decorazioni. Una struttura come la Villa di Agrippa, sotto la piu tarda Farnesina, si discosta dalla Casa di Augusto per la grandezza e soprattutto per la sua accentuata decorazione ellenistica, che mostra chiari elementi del cosid­ detto "terzo stile".

In generale, le strutture danno l'impressione che si rinunci all'ostentazio­ ne di lusso delle grandi sale da pranzo e alla corrispondente decorazione sfarzosa delle pareti. Nel cosiddetto "terzo stile" di decorazione pompeiana, caratterizzante l'età augustea, domina un'organizzazione discreta degli spazi parietali, che consta di semplici pannelli monocromatici e di una suddivisio­ ne architettonica solo accennata. Le immagini al centro di queste campiture, di argomento mitologico, contengono un messaggio dalla coloritura morale o rivolgono l'azione in una direzione bucolico-sacrale. Contenuti simili so­ no ancora messi in risalto anche nei rilievi decorativi di quel tempo, fra i quali meritano una menzione il cosiddetto "rilievo del contadino" a Monaco o i cosiddetti "rilievi Grimani". Un perfezionamento corrispondente segna gli oggetti di arredamento in marmo, testimoniati in molteplici varianti per l'età augustea. Fra questi vanno nominati i candelabri e i crateri in marmo, o anche gli osdlla, oltre a determinate forme di mobili. Si riscontra ora una maggiore eleganza negli oggetti preziosi della vita quotidiana, il cui gusto appare improntato a una pili alta attenzione ai valori morali. Cosi il vasellame da mensa in ceramica a vernice rossa prodotto ad Arezzo, all'epoca molto diffuso, mostra soprattutto argomenti sacrali, e per­ fino le scene erotiche vengono sublimate. E le stesse scene erotiche vengono sublimate. Questo vale anche per un'intera serie di servizi d'argento che ci giungono da quell'epoca, ad esempio i reperti di Hildesheim o della « Casa del Menandro » a Pompei. Si incontrano fra questi talvolta temi tradizionali dell'età della Repubblica, come i bicchieri ornati con scheletri o anche con scene a contenuto bucolico. Una serie di questi recipienti mostra però un nuovo decoro dalla linea sottile. M.T. MARABINI MOEus, The Roman Thin Walled Pottery Jrom Cosa, Roma I973; M. CiMA-E. LA RoccA (a cura di), Le tranquille dimore degli dei: la residenza imperiale degli horti Lamiani. Mostra di Roma, maggio-settembre 1986, Venezia 1986; W EHRHARDT, Sti/geschichtliche Untersuchungen an ri:im. Wandmalereien, Mainz 1987; A. VANNINI, Matrici di ceramica aretina decorate, in Museo nazionale romano, v. La ceramica, 2, Roma I988; I. BRAGANTINI-M. DE Vos, Le decorazioni della villa romana della Farnesina, 11 1, ivi 1982; G. CARETTONI, Das Haus des Augustus aufdem Palatin, Mainz 1983. 824

I · ARTE E ARCHE O L O G IA A R O M A 1.9.

LA DINASTIA

1.9.1.

GIULIO-CLAUDIA

(14-69 D. C.)

Urbanistica e architettura

Sotto i successori di Augusto, Roma cambia in modo significativo. Infatti già Tiberio cerca di costruire la sede del suo potere al centro della città. Per questo la vecchia zona residenziale di Augusto sul Palatino viene pianeggia­ ta per poter essere ampliata con un parco esteso. Abbiamo notizia del pro­ getto di Caligola di unire il Palatino e il Campidoglio con un grande ponte. Anche Claudio allarga la zona residenziale dei Cesari sul Palatino, e Nerone infine innalza, tra il Palatino e l'Oppio, il vasto complesso della sua Domus Aurea, una specie di villa all'interno della città. Proprio quest'idea di estende­ re ampie zone verdi e parchi di natura privata su tutta Roma suscita scalpo­ re. Tutti gli imperatori si danno da fare per far risaltare la loro residenza a Roma e con ciò la loro posizione di sovrani. I.:architettura pubblica viene promossa in modo diverso dagli imperatori qui citati. Abbiamo notizia di diverse costruzioni di archi, ad esempio quello per Tiberio sul Foro. Un imponente arco di Claudio sovrastava la via Flami­ nia sul Campo Marzio. Il suo ornamento a rilievo fu probabilmente supera­ to da un arco di Nerone, di cui possiamo farci un'idea solo grazie ad alcune effigi su monete. Fra i templi spicca quello ultimato sotto Tiberio per il Di­ vo Augusto. In seguito, il tempio per il Divo Claudio sul Celio deve avere avuto un'importanza capitale, anche se sono riconoscibili solo le sue ampie sostruzioni. Sotto Claudio l'approvvigionamento della città è decisamente migliorato, grazie alla costruzione di un enorme porto vicino a Ostia e gra­ zie al restauro e alla ricostruzione degli acquedotti. La città deve forse a Ne­ rone i primi impianti termali a pianta simmetrica, che anticipano il tipo del­ le cosiddette "Terme imperiali", che saranno costruite nel Campo Marzio vicino al Pantheon, presso i giardini di Agrippa. Tutti gli imperatori si adoperano in seguito per un abbellimento genera­ le della fisionomia della città. Tiberio, ad esempio, allestisce per i pretoriani a nord della via Nomentana fuori dal pomerio un grande accampamento costruito in mattoni e protetto da un alto muro. Claudio è il primo impera­ tore dopo Augusto ad allargare in modo considerevole i confini della città. E Nerone, dopo l'incendio che distrugge Roma, si preoccupa di una nuova solida ricostruzione anche dei caseggiati a piu piani (insulae) . È innegabile l'aspetto populistico di tutti questi provvedimenti. Dalla cura per il popolo gli imperatori fanno derivare la giustificazione del loro potere. La pietas, co825

' IX · ARC H E O L O G I A E S T O RI A D E L L ARTE A R O M A

sf fortemente sottolineata all'epoca di Augusto, si assoggetta a questi sforzi. Come materiale di costruzione si afferma l'opus caementicium con rivesti­ mento in mattoni. In seguito, al tempo di Claudio, si può osservare nella muratura a blocchi squadrati una particolare tecnica di bugnato che non dà piti importanza alla levigatezza della superficie. Ne sono esempi l'acquedot­ to a Porta Maggiore e le sostruzioni del Tempio di Claudio. Le città in Italia non acquistano in questo periodo un aspetto sostanzial­ mente nuovo. In modo inaspettato si ampliano ancora le fortificazioni, cosi accade a Ravenna o a Verona, con grandi porte sfarzosamente ornate. In questo periodo vengono costruiti molti nuovi edifici destinati all'intratteni­ mento, anfiteatri e terme. Claudio intraprende l'opera di bonifica del lago Fucino. Vengono recuperare grandi superfici di terra; in questa zona nasco­ no anche nuove città. In confronto alle iniziative dell'età augustea, l'attività edilizia di questo periodo porta piuttosto a un completamento di strutture preesistenti. F.S. KLEINER, The arch oJNero, Roma 1985; C. KRAusE, Domus Tiberiana, 1. Gli scavi, ivi 1994; M. BERGMANN, Der Kolofi Neros, die Domus Aurea und die Mentalitiitswande/ im Rom derfriihen Kaiserzeit, Mainz 1994; V.M. STROCKA {a cura di), Die Regierungszeit des Kaisers Claudius (41-54 n.Chr): Umbruch oder Episode? lnternationales interdisziplinares Symposion aus AnlaB des hundertjahrigen Jubilaums des archaologischen Instituts der Universitat Freiburg i.Br., 16.-18. Februar 1991, ivi 1994; L.F. BALL, A Reappraisal of Nero's Domus Aurea, in L. LA FoLLETTE {a cura di), Rome Papers: The Baths ofTrajan De­

cius Iside e Serapide nel Palazzo ». A late Domus on the Palatine and Nero's Golden House, > ,

.

I.9·3 ·

Forme della cultura materiale

La struttura delle case private segue lo schema stabilito, anche se l'apertu­ ra verso l'esterno e il rapporto con la collettività, che prima era chiaramente visibile negli atri delle case, tendono ad essere meno presenti. Ma

è

soprat­

tutto in analogia allo sviluppo che si ha a Roma che le ville imperiali mo­ strano un evidente cambiamento.

Un eccellente esempio è offerto dalla Villa di Tiberio a Capri, che si trova sulla punta di una roccia a picco sul mare. Presenta ampi portici con una vista sull'intero golfo di Napoli, enormi sale da pranzo e terme. In particolare Nerone costrui, insie­ me alla già menzionata Domus Aurea, imponenti residenze di campagna. Arredò nel­ la maniera piu lussuosa la vecchia villa imperiale di Anzio. A Subiaco la villa poggia su sostruzioni in una zona rocciosa a picco su una cascata. Intorno alla metà del I secolo si affermò un nuovo tipo di decorazione pa­ rietale, il cosiddetto "quarto stile" pompeiana. In questo stile vengono accol­

ti elementi decorativi molto diversi, disposti abbastanza liberamente in vari punti della parete a mo' di ornamentazione. Il pathos ellenistico del "secondo

827

IX · ARCHEOLOGIA E STO RIA DELL ' ARTE A ROMA

stile" ha perso la sua forza vincolante. La Domus Aurea costituisce un impor­ tante esempio databile del nuovo tipo di decorazioni. Inoltre, si afferma in questo periodo un tipo di rivestimento parietale con pannelli di marmo (in­ crostazione). Le navi-palazzo di Caligola sul lago di Nemi ne offrono un esempio databile. In generale, tutti questi retaggi della cultura privata testimoniano, da un lato, un nuovo raffinarsi della forma, dall'altro una casualità sempre maggio­ re nei riferimenti contenutistici. Negli arredamenti d'interni, ad esempio, gli oggetti voluminosi in marmo perdo­ no di importanza. Al contrario si diffondono forme piu piccole e semplici, per esem­ pio, rilievi di maschere. !.:accumulo di simili rilievi è ben percepibile nella Casa degli Amorini Dorati a Pompei.

Anche le tombe, che rinunciano alle facciate costose, consentono di nota­ re un discostarsi dalla precedente tendenza alla comunicazione. Vengono in­ vece piu spesso premurosamente addobbati gli interni delle costruzioni fu­ nebri: ne fanno parte piu spesso altari e urne marmoree. F. BARATTE, Le trésor d'orfèverie romaine de Boscoreale, Paris 1986; M. ANNECCHINO (a cura di), [;"instrumentum domesticum" di Ercolano e Pompei, Roma 1977; F. SEILER, Casa degli Amorini Dorati, in V.M. STROCKA (a cura di), Hduser in Pompeji, 5, Miinchen I992 (vol. speciale); H.V. CAIN, Chronologie, Ikonographie und Bedeutung der rom. Maskenreliifs, in m Beginn der Kaiserzeit bis zum Ende des 4.]hs. n.Chr., Berlin-New York 2001; D. ZHURAVLEV (a cura di), Fire, Light and Light Equipment in the Graeco-Roman World, Ox­ ford 2002. Gioielli: A. BòHME-ScHòNBERGER, Kleidung und Schmuck in Rom und den Provinzen, Stuttgart 1997; A. D'AMBROSIO-E. DE CAROLIS, I monili dall'area vesuviana, Roma 1997. Gemme: H. GUIRAUD, Intailles et camées romains, Paris 1996; H. MEvER,

Prunkkameen und Staatsdenkmiiler riimischer Kaiser. Neue Perspektiven zur Kunst derJrnhen Prinzipatszeit, Mtinchen 2000. 1.1.3. Piazze: E. LA RoccA, I Fori imperiali, Roma 1995. Necropoli: M. HEINZELMANN, Die Nekropolen von Ostia. Untersuchungen zu den Griiberstrafien vor der Porta Romana und an der Via Laurentina, Miinchen 2000; J. PEARCE-M. MILLETT-M. STRUCK, Burial, So­ ciety and Context in the Roman World, Oxford 2000. Vita cittadina: CH. KuNsT (a cura di), Romische Wohn- und Lebenswelten. Quellen zur Geschichte der riimischen Stadt, Darm­ stadt 2000. Giardini: B. AN D REAE, 'lim Birnbaum". Giirten und Parks im antiken Rom, in den VCsuvstiidten und in Ostia, Mainz 1996; M. C iMA-E. LA RoccA (a cura di), Horti Ro­ mani. Atti del Convegno internazionale, Roma, 4-6 maggio 1995, Roma 1998; L. FAR­ RAR, Ancient Roman Gardens, Stroud 1998. Immagini: A. KLòcKNER, Poseidon und Nep­ tun. Zur Rezeption griechischer Gotterbilder in der romischen Kunst, Saarbrticken 1997; É. DENIAUX (a cura di), Rome Antique. Pouvoir des images, images du pouvoir. Actes du collo­ que de Caen, 30 mars 1996, Caen 2000; P. ZANKER, Un'arte per l'impero:funzione e inten­ zione delle immagini nel mondo romano, trad. it., Milano 2002. 1.2. R.R. HoLLOWAY, The Archaeology ofEarly Rome and Latium, London-New York 1994·

86o

I

· ARTE E ARCHE O L O G IA A R O M A

1.5.2. Ciste: Caelatores: incisori di speahi e ciste tra Lazio ed Etruria. Atti della Giornata di studio, Roma, 4 maggio 2001, Roma 2002. r.6.r. F. CoARELu-P. G . MoNTI (a cura di), Fregellae, 1 1 . Lefonti, la storia, il territorio, Roma 1998. 1.7.3· E. HEINRICH, Zweite Stil in pompejanische Wohnhiiusern, Mlinchen 2002. r.8.1. A. VrscoGLIOSI, Il Tempio di Apollo "In Circo" e laformazione de/ linguaggio architet­ tonico augusteo, Roma 1996. Foro di Augusto: M. SPANNAGEL, Exemplaria Principis. Un­ tersuchungen zu Entstehung und Ausstattung des Augustus-Forums, Heidelberg 1999; J. GANZERT, Im Allerheiligsten des Augustus}òrums: Fokus oikoumenischer Akkulturation, Mainz 2000. Pantheon: S. SPERLING, Das Pantheon in Rom. Abbi/d und Mafi des Kosmos, Neuried bei Mlinchen 1999. r.8.2. Ara Pacis: D. CASTRIOTA, The Ara Pacis Augustae and the Imagery oj Abundance in Later Greek and Early Roman Imperia/ Art, Princeton 1995; D.A. CoNLJN, The Artists of the Ara Pacis. The Process ojHellenization in Roman ReliifSculpture, Chapel Hill-London 1997; G. SAuRoN, I.:histoire végétalisée. Ornement et politique à Rome, Paris 2000. E inoltre: G. SENA CHIESA, Augusto in Cisalpina. Ritratti augustei e giulio-claudi in Italia settentrionale, Milano 1995; A. CELANI, Opere d'artegreche nella Roma di Augusto, Napoli 1998; E. BART­ MAN, Portraits oJLivia: Imaging the Imperia/ Woman in Augustan Rome, Cambridge 1999. r.8.3.

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IX



ARCH E O L O G I A E S T O RI A D E L L ' ARTE A R O M A

moderna ricerca di storiografia antica che va presupposta eo ipso l'inclusione delle testimonianze letterarie (specialmente storiografiche), epigrafiche e nu­ mismatiche. È pertanto necessario presentare qui i risultati che, grazie a que­ sti tributi supplementari, l'archeologia delle province romane è in grado di consegmre. 2.3.2. Si tratta prima di tutto di risultati di scavi condotti in modo accurato, che siano documentati e misurati con esattezza. Di particolare importanza, in ciò, non è solo un'osservazione attenta della successione degli strati e del loro collegamento ai muri e alle tracce di pareti in legno e terra, ma anche un'operazione di recupero minuziosamente documentata di tutti i reperti minori, di qualsiasi categoria, che vengono alla luce. Dalla somma di queste osservazioni minuziose scaturisce la cosiddetta cronologia relativa. Essa mira a chiarire e a documentare la successione dei differenti stadi di costruzione l'uno in rapporto all'altro. Viene perciò dato massimo valore a una precisa documentazione della situazione dei reperti minori fra loro e in rapporto al contesto piu ampio (spazio, edificio, tomba, ecc.), poiché essi possono avere un significato e una forza espressiva determinante per il passo seguente, ver­ so la cronologia assoluta. I.:archeologia delle province romane reputa gli oggetti e i prodotti di ogni tipo che non siano stati estratti secondo questi severi criteri e la cui precisa si­ tuazione e connessione non siano state documentate come dei reperti estre­ mamente ridotti nella loro forza espressiva storica. Tutt'al piu, essa può al massimo assegnare loro un valore estetico.

Dove gli scavi per varie ragioni non sono stati o non sono ancora possibili, ci si può procurare il materiale documentario supplementare anche con altri metodi di prospezione. Va ora qui menzionato, prima di tutto, l'ae­ reofotoarcheologia che, negli ultimi anni, ha registrato dei successi significa­ tivi. A lei si debbono scoperte che hanno un influsso determinante sulla sto­ ria delle singole province e, in generale, anche sulla storia militare dell'impe­ ro. Senza l'aereofotoarcheologia conosceremmo a malapena gli insediamen­ ti di ampie regioni. Le villae rusticae, i templi e i relativi teatri di un culto, i vi­ d e le necropoli appaiono nelle foto aeree e producono una densa trama in­ sediativa che non sarebbe altrimenti conoscibile. Anche lo studio della rete stradale romana è fortemente debitore nei confronti dell'aereofotoarcheolo­ gia: alla luce della rete stradale realmente esistente documentata dall'aereo­ fotoarcheologia è risultato infatti che le carte stradali tramandate e gli itine2.3.3.

868

2 · ARCH E O L O G IA D E L LE PROVI N CE R O M A N E

rari (Tabula Peutingeriana, Itinerarium Antonini) devono essere considerati gra­ vemente incompleti. Molti studiosi continuano però ad accordare loro un'importanza eccessiva. R. AGACHE, La Somme pré-romaine et romaine d'après !es prospections aériennes à basse alti­ tude, Amiens 1978; R. AGACH E et al., Spécial archéologie aériennc. Les grandes découvertes dues à la séchercsse, in Dossiers d'archéologie , 22, Mai!Juin I977 (num. spec. Dijon 1977); G. CHOUQUET et al., Découvertes d'archéologie aérienne, ivi, 43, Mai 1980 (num. spec. ivi 198o); R. CHRISTLEIN-0. BRAASCH, Das unterirdische Bayern, Stuttgart 1983. «

))

2.3.3.1. Come esempi dei successi dell'aereofotoarcheologia vanno qui menzionate, tra le altre, le scoperte degli accampamenti dei legionari dell'ot­ tava legione di Mirebeau-sur-Beze (presso Digione) o quelle dei castelli di terra romani e di altre strutture militari nel bassopiano dell'alto Reno presso Biesheim (vicino a Neuf-Brisach, clip. Haut-Rhin). Entrambe le scoperte fu­ rono possibili esclusivamente grazie a fotografie aeree, poiché le rispettive zone erano si (in parte) famose per i ritrovamenti di mattoni timbrati, ma non permettevano di cogliere le originarie strutture dei reperti. I.:interpreta­ zione delle fotografie aeree, che oggi è stata ulteriormente coaudiuvata da scavi, ha mostrato in entrambi i luoghi aspetti completamente nuovi del modo di procedere operativo e logistico dell'esercito romano, sinora scono­ sciuti e che non era possibile ricavare da nessuna fonte scritta. Appartengono agli stessi ambiti le scoperte degli accampamenti, già sopra menzionati, di Marktbreit e di Lahnau-Waldgirmes. R. GoGUEY-M. REooÉ, Le camp légionnaire dc Mirebeau, Mainz 1995; R. FELLMANN, Le site gallo-roman de Bieshein-Oedenbourg dans le cadre des camps et postes militaires dans la plaine méridionale du Haut-Rhin, in Y. LE BoHEc (a cura di), Militaires Romains en Caule civile. Actes de la Table-ronde de mai 1991, Université Lyon m, Paris 1993, pp. 73-81. 2.4. I

' METODI DI LAVORO DELL ARCHEOLOGIA DELLE PROVINCE ROMANE

2.4.1. I.:archeologia delle province romane da un lato è chiaramente una disciplina che studia i campi militari. In primo piano ci sono gli scavi e la lo­ ro documentazione sul luogo. Il passo necessario dall'accertamento della cronologia relativa verso la cronologia assoluta, cioè verso l'ordinamento cronologico il piu possibile preciso dell'insieme di reperti, dal quale poi do­ vrebbe - anche includendo il materiale documentario fornito dalle discipli­ ne affini - essere tentato il passo verso una affermazione storica, dovrebbe in

IX



' A R C H E O L O G I A E S T O RIA D E L L ARTE A R O M A

fondo già seguire lo scavo stesso. Il direttore degli scavi preparato scientifica­ mente, nel momento in cui vengono alla luce singoli reperti o complessi di reperti, dovrebbe avere una conoscenza storica tale da rendergli possibile in­ tendere immediatamente in quale cornice temporale e in quale collegamen­ to storico e storico-culturale i reperti si trovino. Infatti già sul posto, nel luo­ go stesso dello scavo, devono essere tratte conclusioni e risoluzioni per lo sviluppo dei lavori di scavo. Se per esempio, durante gli scavi in un campo legionario, che, come è stato dimo­ strato, è stato abbandonato intorno al 100 e mostra al suo interno in gran parte la fab­ bricazione di case con muri in legno e terra o pareti sottili su fondamenta in pietra, affiorano improvvisamente possenti mura e oltre a ciò strati e insiemi di reperti del II secolo, allora alla direzione responsabile degli scavi, preparata scientificamente, do­ vrebbe risultare subito evidente la problematica relativa alla tipologia di possibili in­ sediamenti successivi del campo legionario, e, in particolare, il problema Jortress into city. Da quanto detto consegue che non basta far dirigere e documentare gli scavi so­ lo a un tecnico: ciò sarebbe controproducente per il ruolo di disciplina storica che ha l'archeologia delle province romane. G. WEBSTER, Fortress into City, London 1988.

Nell'archeologia delle province romane molti lavori vengono effet­ tuati anche dopo lo scavo, cioè nella fase che va dalla valutazione del reper­ to fino al momento della pubblicazione; questi lavori possono avvenire al­ l'interno del deposito del museo, nel laboratorio e, non da ultimo, anche al­ la scrivania. I.:archeologia delle province romane si adopera a stabilire la da­ tazione dei complessi di reperti, mirando cosi al passaggio alla cronologia as­ soluta, in primo luogo soprattutto con i diversi tipi di "reperti minori", che è indispensabile conoscere e che sono perciò qui di seguito brevemente elen­ cati. 2.4.2.

Reperti in argilla: ceramica, lampade, ceramica per costruzione e ceramica grezza. A. LEIBUNDGUT, Die romischen Lampen in der Schweiz. Bine kultur- und handgeschichtli­ che Studie, Bern 1977; ]. GARBSCH, Terra sigillata. Ein Weltreich im Spiegel seines Luxusge­ schirrs. Einfuhrung und Katalog, Miinchen 1982 (buona visione d'insieme); S. MARTIN­ KILCHER, Die romischen Amphoren aus Augst und Kaiseraugst. Ein Beitrag zur Handels- und Kulturgeschichte, Augst 1987-1994· Reperti in vetro: recipienti, vetri per finestre. B. CzuRDA-RUTH, Die romischen Gldser vom Magdalensberg, Klagenfurt 1979; B. ROT­ TI, Die romischen Gldser aus Augst und Kaiseraugst, 2 voli., Augst 1991; S. BIAGGIO SIMO­ NA, I vetri romani provenienti dalle terre dell'attuale Canton Ticino, 2 voli., Locarno 1991.

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Reperti in metallo: fibule, monete, recipienti, strumenti e attrezzi. E. RIHA, Die romischen Fibeln aus Augst und Kaiseraugst, [Liestal] 1979; M. fEUGÈRE, Lesflbules en Caule méridionale de la conquéte à la fin du V< siècle après ].-C., Paris 1985; R. PETROVSZKY, Studien ZU romischen Bronzegefaflen mit Meisterstempeln, Buch am Erlbach 1993; w. GAJTZSCH, Eiserne romische Werkzeuge, Oxford 1980; M. PIETSCH, Die romischen Eisenwerkzeuge von Saalburg, Feldberg und Zugmantel, in Saalburg-Jahrbuch 39 1983, pp. 5-132. «

»,

Reperti di materiale organico: legno, pelle, ossa. R. FELLMANN, Holzerne Kleitifunde aus dem Vicus Vitudurum-Oberwinterthur, Ziirich 1991; J. GoEPFERJCH, Romische Ledeifunde aus Mainz, in Saalburg Jahrbuch >>, 42 1986, pp. s-67; J.-CL. BÉAL, Catalogue des objets de tabletterie du Musée de la Civilisation gallo-ro­ maine de Lyon, Lyon 1983. «

Non è questa la sede per analizzare dettagliatamente questi tipi di reperti. Tuttavia si impongono alcune osservazioni di principio.

Lo studio delle ceramiche romane è quasi diventata una scienza spe­ ciale all'interno dell'archeologia delle province romane. Ha fatto grandi pro­ gressi soprattutto lo studio della produzione e della tipologia della cosiddet­ ta "terra sigillata" (l'antica definizione era probabilmente vasa Samia). Esso ha fornito dei chiarimenti di natura politico-economica e politico-commerciale che non vanno sottovalutati. Lo stesso discorso vale per lo studio delle anfo­ re romane per il vino e per l'olio. I.:occuparsi di ceramiche romane, che ha portato anche all'identificazione di numerose serie tipologiche (estrema­ mente importanti per la datazione), può sviluppare la fatale tendenza a di­ ventare una ricerca fine a se stessa. Per quanto possano essere valide possibi­ li determinazioni cronologiche in base all'analisi spettrografica delle cerami­ che, viene tuttavia volentieri dimenticato che malgrado tutti i progressi si­ gnificativi che la conoscenza di questo genere di ritrovamenti ha fatto, una datazione attraverso la sola ceramica non può essere piu precisa di un lasso di dieci anni. Questo fatto (conseguenza della durata d'uso della ceramica, la cosiddetta durata di validità) dovrebbe essere sempre tenuto in considerazio­ ne. Lo stesso vale naturalmente anche per i vetri. Per entrambi, sulla base degli inventari di scavo coperti, le osservazioni possono essere ricchissime di chiarimenti. Le pubblicazioni di studi accurati sulle necropoli sono perciò particolarmente preziose. Le lampade forniscono in genere, a loro volta, so­ lo aiuti molto approssimativi nella datazione. Lo stesso vale per le fibbie. Comunque, tutti questi tipi di reperti generano delle possibili datazioni che pur sono molto valide, in particolare se possono essere collegate l'una all'al2.4.3.

IX · A R C HE O LO G I A E S T O R IA D E L L ' ARTE A R O M A

tra, attraverso attente osservazioni e registrazioni di complessi di reperti e delle loro relazioni. 2.4.4. I ritrovamenti di monete possono aiutare a precisare e a delimitare le datazioni ottenute grazie agli altri reperti minori. È importante per far que­ sto l'ultima moneta di una serie completa di monete, poiché essa forse docu­ menta la cessazione di un insediamento (per esempio, se è stata estratta dal­ lo strato di un incendio). Osservazioni del genere possono, sul luogo del ri­ trovamento stesso, aiutare a confermare gli avvenimenti tramandati dagli an­ tichi scrittori e poi, da parte loro, produrre di nuovo criteri di datazione vali­ di in base ai reperti minori, criteri che possono eventualmente essere appli­ cati ad altri luoghi di scavo. Con questo procedimento si poté fissare con una certa esattezza intorno agli anni 8/9 d.C. la data dello sgombero del campo legionario di Haltern nel Lippetal grazie allo studio attento delle monete. Risulta cosi accertato il legame con la catastrofe del

bellum Varianum. J.-S. KOHLBORN, Der augusteische Militiirstutzpunkt Haltern, in lo. (a cura di), Germa­ nia m pacavi Archiiologische Stiitten augusteischer Okkupation, Miinster 1995, pp. 82-102. .

2.4.5. Spesso anche le cosiddette "carte di distribuzione" (di reperti parti­ colari come le villae rusticae, i templi o le colonne raffiguranti Giove contro i Giganti, cosi come di reperti singoli) aiutano ad ottenere degli interessanti chiarimenti, che possono essere considerati elementi costitutivi del corso storico-culturale. A questo proposito, non si devono far coincidere i limiti di queste "carte di distribuzione" con gli attuali confini nazionali. Lo stesso di­ scorso vale per le carte stradali, nelle quali, soprattutto nei bassopiani dell'al­ to Reno, il fiume sembra costituire una barriera insormontabile (che natu­ ralmente non c'era nell'antichità). 2.4.6. Anche le statistiche sono non di rado inserite nelle ricerche. Incon­ trano qua e là grande scetticismo soprattutto le cosiddette "statistiche com­ binatorie", nelle quali (in particolare presso le necropoli) sono elencate le singole categorie di reperti mentre i complessi tombali sono spostati qua e là all'interno della tabella statistica, fino a ottenere una disposizione continua crescente o decrescente, dalla quale possono poi essere tratte delle conclu­ sioni cronologiche. H. HINGST, Erjàhrungen im Umgang mit Kombinationsstatistiken, in Hanunaburg n.F., 3-4 1976-1977, pp. 23-32. «

»,

2 · ARC H E O L O G I A D E LLE PROV I N CE R O M A N E

Nella ricerca di una cronologia assoluta e di una datazione precisa so­ no inclusi in misura crescente anche metodi delle scienze naturali. La loro elaborazione deve essere prima di tutto affidata ai relativi specialisti, ma al­ cune conoscenze di base dei rispettivi modi di lavorare sono tuttavia neces­ sarie a chiunque si interessi dell'archeologia delle province romane e in se­ guito rielabori i risultati. Mentre il metodo della cosiddetta datazione "04", in generale è troppo approssimativo per l'archeologia delle province romane, la cosiddetta "den­ drocronologia" {metodo che indica la data di abbattimento di un albero in base alla serie degli anelli annuali) acquista sempre piu importanza. Il meto­ do, oggi migliorato fino alla perfezione in diversi laboratori speciali, ha for­ nito in base alle "curve standard", numerosi risultati interessanti e ha chiari­ to diversi problemi di datazione da lungo tempo insoluti. Le date ottenute in questo modo, talvolta molto precise, formano d'altra parte degli elementi costitutivi per la storia delle province romane e talvolta trovano applicazione anche nella storia generale dell'impero. 2.4.7·

E.

HoLLSTEIN, Mitteleuropaische Eichenchronologie, Mainz 1980.

Gli esempi che seguono vogliono esserne una prova. 2.4.7-I. La conoscenza della data assoluta della costituzione del campo di Oberaden è dovuta alle ricerche dendrocronologiche. Per la costruzione del muro legno-terra vennero utilizzati dei pali di quercia con linfa fresca, tagliati nella tarda estate dell'an­ no u a.C. Questa datazione è in perfetto accordo con i dati sinora forniti solo da Dio­ ne Cassio (54 33 4 ) . Anche la chiusura del campo di Oberaden poté essere circoscrit­ ta agli anni 8/7 a.C., attraverso un referto dendrocronologico. L'identità del campo le­ gionario di Oberaden con il campo menzionato da Dione Cassio sembra essere quindi assicurata. KOHLBORN, Das Romerlager Oberaden, in lo. (a cura di), Germaniam pacavi pp. 120-24. «

''•

2.4.7·2· Grazie alla dendrocronologia è stato possibile datare la costruzione delle mura della città di Aventicum (con la datazione degli abbattimenti degli alberi sotto le sue fondamenta nel 73 e 77 d.C.) in relazione alla sua elevazione a caput coloniae. La costruzione del grande santuario di Cigogniers poté essere ricondotta, nella stessa maniera, all'età dell'imperatore Traiano. ].-P. 0EWARRAT, Avenches, enceinte romaine, in .l

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scavi nei luoghi sacri di Gournay-sur-Aronde, Ribemont-sur-Ancre, Saint­ Maur-en-Chaussée, Aventicum/Avenches (e n Chaplix), Octodurus/Forum Claudii/Martigny, Genava/Ginevra (Église Saint-Gervais), e Lousonna/Lo­ sanna (Vidy, Route de Chavannes), solo per citarne alcuni. È perciò del tut­ to possibile, e l'esempio di Losanna ne è prova, che ancora nel I sec. d.C. si costruissero santuari nel vecchio stile, cioè nella forma di sistemi di fossati e palizzate; è persino testimoniata la continuità di un luogo di culto preistori­ co ( menhir) . Solo nel II sec. d.C. a Losanna viene innalzata una costruzione in pietra nella forma di un tempio gallo-romano a deambulatorio "di osservan­ za classica" (vd. sopra, fig. 2) . Poiché questo tipo di tempio, che rappresenta evidentemente una creazione gallo-romana, fu anche monumentalizzato (il cosiddetto Tempio di Giano a Augustodunum/Autun, il Tempio di Vesunna a Périgueux e altri), è possibile ricostruire con grande precisione l'esterno di tali templi. Si ritrovano frequentemente zone che sono vere "regioni di tem­ pli" (Trier/Altbachtal). Spesso sono accoppiati con i cosiddetti "teatri di cul­ to" del tipo teatro-anfiteatro gallico, un'ulteriore creazione originale delle province galliche e germaniche (l'esempio piti bello è rappresentato dal San­ tuario di Grand, in Lorena). Rilievi (Pilier di Mavilly nel Museo di Digione, il Pilastro dei Nauta a Pari­ gi) ci mostrano il mondo degli dèi gallo-romani in rappresentazioni che so­ no talvolta definite anche epigraficamente con note marginali. Sculture, tal­ volta con iscrizioni bilingui, confermano e ampliano le dichiarazioni di Ce­ sare. Statue di culto in legno e offerte votive (provenienti da un tempio ro­ mano alle sorgenti della Senna e della Source de la Chamalière a Clermont­ Ferrand) sono spesso mischiati, in questi luoghi di ritrovamenti, a esemplari in pietra, che talvolta recano iscrizioni celtiche e documentano con ciò la so­ pravvivenza di questa lingua, soprattutto in ambito religioso. Ciò che Tacito ( Germania, 43 3), definisce interpretatio Romana, lo troviamo documentato da testimonianze epigrafiche e anche figurative negli stadi piti diversi di sviluppo. Se ai nomi delle antiche divinità celtiche viene preposta la definizione deusldea (per es., dio Gobano, dea Artio, dea Nehalennia), questo può essere considerato come il primo gradino della interpretatio Roma­ na. Se ai nomi delle divinità celtiche vengono aggiunti quelli di una divinità romana presa dal Pantheon classico (Marte Caturix, Mercurio Cissonius, Apollo Grannus), siamo evidentemente in presenza di uno stadio già succes­ sivo della romanizzazione. Statue come quella di Mercurio proveniente da Puy de Dome (nel Musée cles Antiquités Nationales a Saint-Germain-en-

2 · ARC H E O L O G I A D E L LE PROVI N CE R O M A N E

Laye presso Parigi), che sulla facciata anteriore in una tabula ansata viene con­ siderata Mercurio e, sulla facciata posteriore di un'altra tabula ansata, Eso, rappresentano all'incirca lo stesso gradino della interpretatio Romana e confer­ mano allo stesso tempo le dichiarazioni di Cesare (De bello Gallico, 6 17 1). Dobbiamo anche ricordare le numerose rappresentazioni delle matres, prov­ viste spesso di un epiteto locale. Le troviamo, talvolta rappresentate in grup­ po, non solo nella bassa Germania, ma anche fin nelle province galliche. Le colonne di Giove rappresentano un modo di venerare gli dèi circo­ scritto specificamente alle province galliche e germaniche e talvolta alla Re­ zia. Su una caratteristica colonna embricata (talvolta ornata anche con tralci d'uva), che fa da base poggiando su una o due pietre raffiguranti dèi pagani, si innalza il gruppo statuario con Giove che travolge un gigante calpestando­ lo con il cavallo o travolgendolo con il carro, sempre brandendo il fulmine. Queste colonne, che appaiono sia in zone rurali (presso le villae rusticae), che anche in piccoli villaggi (vid) o addirittura in ambito urbano (Mogontia­ cum/Magonza), sono limitate a una zona definita abbastanza precisamente, come mostrano le relative carte di distribuzione. Di molte di queste colonne ci sono rimasti alcuni elementi, poiché nella tarda antichità furono demolite da cristiani zeloti e gettate in pozzi. Questo getta una luce sui processi di cri­ stianizzazione, tanto piu che sappiamo che il paganesimo fu assai difficile da sradicare e che talvolta ci furono delle ricadute (Walahfrid, Vita Galli, 6). J. ZwiCKER, Fontes historiae religionis Celtiwe, 3 voli., Bonn 1934-I935; MJ.T. LEWIS, Temples in Roman Britain, Cambridge 1968;].-L. BRUNAUX, Les Caulois. Sanctuaires et ri­ tes, Paris 1986; l. FAuouET, Les temples de tradition celtique, ivi 1993; Io., Atlas des sanctuai­ res romano-celtiques de Caule. LesJànums, ivi 1993; M. ALTJOHANN, Bemerkungen zum Ur­ sprung des gallo-riimischen Umgangstempels, in HOsSEN (a cura di), Provinzialriimische For­ schungen, pp. 169-203; R. FELLMANN, La religion, in lo., La Suissegallo-romaine, Lausanne 1992, pp. 251-89. É. THEVENOT, Le monument de Mavilly. Essai de datation et d'interpréta­ tion, in Latomus 14 1955, pp. 75-99; P.M. DuvAL, Le groupe des bas-relitifS des "Nautae Parisiaci", in Monuments et mémoires Fondation Eugène Piot 48 1956, pp. 63-90; lo., Les dieux de la Caule, Paris 19762; G. ZECCHINI, I druidi e l'opposizione dei Celti a Ro­ ma, Milano 1984; G. BAUCHHENss-P. NoELKE, Die ]uppiter-Siiulen in den germanischen Provinzen, Kèiln 1981. «

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' ARCH E O L O G I A E S T O RI A D E L L ARTE A R O M A

BIBLIOGRAFIA INTRODUTIIVA QuADRO COMPLESSIVO. Non esiste attualmente una vera e propria introduzione al­ l'archeologia delle province romane. A. GRENIER, Manuel d'Archéologie gallo-romaine, Paris 1931 sgg., è superato; una nuova edizione è in programmazione. Hanno co­ munque carattere introduttivo a questa disciplina: T. BECHER, Romisches Germanien zwischen Rhein und Maas. Die Provinz Germania Itiferior, Miinchen 1982, e i volumi usci­ ti, risp. sotto il titolo Die Romer, in . . . (. . . Baden-Wiùttemberg, Hessen, Nordrhein-Wesifàlen, Rheinland-J:falz, der Schweiz, Bayern), presso la Konrad Theiss-Verlag di Stoccarda. Stu­ di sulle singole regioni: ]. BELLOT-W. Czvsz-G. KRAHE (a cura di), Forschungen zur provincia/ Romischen Archeologie in Bayerisch Schwaben, Augsburg 1985; R. FELLMANN, La Suisse gallo-romaine, Lausanne 1992; G. PICCOTTINI, Die Romer in Kiirnten, Klagenfurt 1989; W. A. VAN Es, De Romeinen in Nederland, Harlem 1981; R.G. COLLINGWOOD-1. RrcHMOND, The Archeology ofRoman Britain, London 1969; P. SoMERSET FRY, Romain Britain, Newton Abbot 1984; P. GRos, La France gallo-romaine, Paris 1991; A. KlNG, Ro­ man Gaul and Germany, London 1990. Seguono le opere di argomento specifico. EsERCITO ROMANO. G. WEBSTER, The Roman Imperia/ Army, London 1969 [Norman 19983]; G.R. WATSON, The Roman Soldier, ivi 1969; Y. LEBoHEC, I.:armée Romaine sous le Haut-Empire, Paris 1989 [20023; trad. it. I.:esercito romano: le armi imperiali da Augusto alla fine del III sewlo, Roma 2001]; B. lsAAc, The Limits ojEmpire. The Roman Army in the East, Oxford 1990; M. KLEE, Die Saalburg, Stuttgart 20002. LIMITES. G. ULBERT-TH. FISCHER, Der Limes in Bayern, Stuttgart 1983; E. ScHALLMA­ YER, Der Odenwald-Limes, ivi 1984; M. KLEE, Der Limes zwischen Rhein und Main, ivi 1989; ]. HErLIGMANN, Der '� lb-Limes", ivi 1990; T. BECHERT-WJ.H. WrLLEMS (a cura di), Die romische Reichsgrenze von der Mosel bis zur Nordseekuste, ivi 1995; Z. VIsY, Der pan­ nonische Limes in Ungarn, ivi 1988; K. GENSER, Der osterreichische Donaulimes in der Romer­ zeit, Wien 1986; M. KANDLER-H. VETTERS, Der romische Limes in Osterreich, ivi 1986. INSEDIAMENTI. R. BEDON-R. CHEVALLIER-P. PINO N, Architecture et urbanisme en Cau­ le romaine, 2 voll., Paris 1988; A. FERDIÈRE, Les campagnes en Caule romaine, 2 voll., ivi 1988; G. DuBY (a cura di), Histoire de la France urbaine, I. La ville antique, ivi 1980; H BENDER-H WoLFF (a cura di), Léindliche Besiedlung und Landwirtschafl in der Rhein-Do­ nau-Provinzen des Romischen Reich. Vortrage eines internationalen Kolloquiums vom 16.-21. April 1991 in Passau, Espelkamp 1994;].-P. PETIT-M. MANGIN-PH. BRUNELLA (a cura di), Atlas des agglomérations secondaires de la Caule Belgique et des Germanies, Paris 1994; M. MANGIN-R. GoGUEY-L. RoussEL (a cura di), Les agglomérations antiques de CO­ te d'Or, ivi 1994. VITA QUOTIDIANA. A. BIRLEY, Life in Roman Britain, London 19812; P.-M. DuvAL, La vie quotidiane en Caule pendant la paix romaine, Paris 1981; G. ComoN, Les Gallo-Ro­ mains, !Vl 1990. [QuADRO COMPLESSIVO. E. SAVINO, Città difrontiera nell'impero romano:forme della ro­ manizzazione da Augusto ai Severi, Bari 1999; ]. BouzEK (a cura di), Gentes, reges und

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ARC H E O L O G I A D E L L E P ROVI N CE R O M A N E

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3 N U M I S MATI CA RO MANA

di HANS-MARKUS VON KAENEL 3-1. LA REPUBBLICA ROMANA J.I.I.

Pezzi e barre. Roma senza una moneta propria (VI:fine IV sec. a.C.)

Nei primi secoli della sua storia Roma non coniò nessuna moneta. Diver­ samente dalle poleis greche dell'Italia meridionale e della Sicilia che, sporadi­ camente, già nella seconda metà del VI sec. a.C. iniziarono a coniare mone­ te d'argento e nel V e IV sec. disposero di una consistente coniatura in ar­ gento e bronzo, la coniazione di monete romane iniziò solo intorno al 320/300 a.C. Questo tuttavia non significa che prima di questo periodo l'uso del denaro fosse sconosciuto a Roma. È importante tenere separati i concetti di "moneta" e di "denaro". Il concetto piu generale di denaro viene definito atttaverso le sue funzioni: il denaro trova il suo uso come misura di valutazione, come mezzo di scambio, di pagamento e di tesaurizza­ zione. Una moneta, invece, è denaro nella forma di un pezzo di metallo maneggevo­ le (oro, elettto, argento, bronzo, ottone, rame), di forma generalmente tonda. Men­ tre l'utilizzo delle monete iniziò relativamente tardi, solo verso la fine del VII sec. a.C. in Asia Minore, l'uso del denaro è invece molto piu antico, e per tale funzione si sono impiegati i beni piu diversi, metallo compreso. Una moneta viene coniata, oppure fusa, secondo un "titolo": ha un peso definito e il suo metallo presenta una lega stabilita, ossia un fino preciso. La moneta è, di rego­ la, parte di un sistema di diverse unità in relazione tra loro (sistema nominale). Sul di­ ritto (DI) e sul rovescio (RI) la moneta presenta un segno, un'immagine e spesso una leggenda che permette di riconoscerla come prodotto di quella istituzione (so­ vrano o popolo) che ha predisposto il suo conio. La moneta veniva poi legittimata dall'istituzione stessa, nel momento in cui questa la accettava come forma di paga­ mento. Questo fatto assunse in seguito una particolare importanza, quando il valore nominale di una moneta era superiore al valore reale (moneta di credito). L'utilizzo delle prime monete lascia pensare che il valore nominale e il valore materiale fosse­ ro strettamente collegati l'un l'altro e che una moneta rappresentasse al contempo una "merce". Nel corso della storia monetaria, il rapporto fra valore nominale e va­ lore materiale mutò. La moneta tuttavia non assolse solo la funzione di denaro; attta­ verso le rappresentazioni delle monete, che svilupparono una propria tipologia e un

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proprio linguaggio figurativo, essa divenne al contempo portatrice di messaggi e con ciò mezzo di comunicazione.

Secondo gli autori antichi, la parola latina pecunia ('denaro', 'patrimonio') risale a pecus ('bestiame'). Questa etimologia presuppone il fatto che in epoca antica i bovini e gli ovini avessero la funzione di denaro. Questa asserzione viene oggi messa in dubbio. Anche se per il periodo precedente alla metà del V sec. le fonti scritte testimoniano il grado della pena calcolato sulla base del valore del bestiame, resta aperta una questione: gli autori che scrissero nei secoli successivi si basarono sulle fonti originali o non fecero piuttosto deri­ vare i menzionati valori in bestiame dall'etimologia controversa di pecunia? Si è tuttavia in possesso anche di precoci testimonianze a proposito dell'utiliz­ zo del metallo come metro di valore. Le leggi delle Dodici Tavole (450 a.C.) fissavano il grado della pena in precise quantità di metallo, per quanto certa­ mente non si intendessero ancora monete. Il piu antico denaro metallico documentato in Italia può essere diviso in due gruppi. Il primo, indicato nelle fonti scritte antiche come aes rude o aes itifectum, è costituito da barre informi di metallo, senza un peso standardizza­ to. Non mostrano alcun motivo o segno. I pezzi si scambiavano secondo il peso e, per avere il valore desiderato, all'occorrenza dovevano venire frantu­ mati. In base alla testimonianza dei reperti, pezzi di aes rude venivano depo­ sti spesso in luoghi sacri come offerte votive. Vi erano inoltre barre fuse di forma rettangolare che, analogamente a quelle informi, non avevano un pe­ so standard e venivano frantumate in caso di bisogno. Esse però mostrano su entrambi i lati un segno, un semplice motivo a forma di ramo ("ramo sec­ co"). Queste barre sono costituite da una lega con una percentuale di rame molto alta (dal 20 al 30%): una composizione metallica particolare che non poteva essere utilizzata come materiale grezzo senza ulteriori processi di trattamento. I "rami secchi" vengono inseriti dalla letteratura specialistica nel gruppo dell' aes si­ gnatum, una definizione generale moderna non del tutto appropriata che, sulla base del significato del termine signatum, indica tutte le barre di bronzo fuse di forma ret­

tangolare che presentano un motivo o un segno su uno o su entrambi i lati.

Né i pezzi di aes rude, né i "rami secchi" possono essere messi in relazione specificamente con Roma o con il Lazio. Entrambi i gruppi appaiono molto piu frequentemente in zone periferiche della penisola italica e anche in Sici­ lia. Sulla base della diffusione e del contesto dei ritrovamenti si può sostene882

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re con una certa sicurezza che l'aes rude ebbe origine nella regione della civil­ tà di Villanova (IX-VIII sec. a.C.) e che fu utilizzato fino al III secolo a.C. Certamente etruschi sono i "rami secchi" usati dalla prima metà del VI fino al III secolo inoltrato. 3.1.2. Le prime monete romane e lo sviluppo della coniazione a Romafino alla seconda guerra punica {320/]00-218 a.C.) La piu importante testimonianza scritta per la storia dell'antica moneta­ zione a Roma viene fornita da Plinio (Naturalis historia, 33 42-47). In un excur­ sus nel libro dedicato alla natura dei metalli, Plinio fa una relazione dettaglia­ ta, anche se inesatta sotto alcuni aspetti fondamentali, sulla nascita e sullo sviluppo del sistema monetario romano. Alla ricerca numismatica mancò a lungo la necessaria critica delle fonti e la prima storia della moneta a Roma venne ricostruita soprattutto in base a queste indicazioni. Solo in tempi piu recenti la ricerca numismatica è giunta a una propria rappresentazione delle prime fasi della monetazione a Roma, convincente dal punto di vista storico e supportata dalla documentazione numismatica e dai ritrovamenti archeologici. Le piu antiche monete romane non costituiro­ no in seguito un sistema omogeneo, ma formarono un accostamento di quattro diversi tipi che non entravano in relazione l'uno con l'altro: barre di bronzo fuso di forma rettangolare, monete di bronzo fuso di forma rotonda, cosi come monete coniate d'argento e di bronzo. Semplificando, possiamo parlare di barre fuse per la tradizione italica e di monete rotonde coniate per la tradizione greca, mentre le monete fuse rotonde presentano una mesco­ lanza delle due tradizioni. Solo nel corso del III secolo si costitui un sistema di valori monetari in argento e in bronzo che facevano riferimento l'uno al­ l'altro. 3.1.2.1. Barre romane in bronzo (aes signatum) Un gruppo caratteristico di barre di bronzo fuso di forma rettangolare si distingue dai "rami secchi" e dalle altre. La loro diffusione ne conferma la nascita a Roma, dove la fabbricazione iniziò probabilmente intorno al 320/300 a.C., ed era già terminata intorno alla metà del III secolo. Le barre misurano circa 18 x 9 cm., e pesano di regola da 1,5 a 1,6 kg., peso corrispon­ dente a uno standard di circa cinque libbre romane. Anche la composizione

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del metallo si distingue da quella dei "rami secchi": le barre romane conten­ gono, al posto dell'elevata percentuale di ferro dei "rami secchi", una per­ centuale altrettanto alta di piombo. Esse tuttavia vengono caratterizzate so­ prattutto da disegni che si alternano, come, per esempio, anfora/punta di lancia; spada/fodero di spada; spiga di grano/tripode; àncora/tripode; to­ ro/toro; elefante/scrofa, ecc. In totale si possono distinguere undici tipi, il che fa pensare a una serie di emissioni caratterizzate di volta in volta da dise­ gni ben precisi. Un tipo di barra (RRC, 41Ia) mostra un'aquila su un fascio di fulmini su un lato e un Pegaso con la leggenda ROMANOM (Romanorum) sull'altro. Questa formula si ricollega alle leggende su coniazioni greche: in queste l'iscrizione ha la funzione di legittimare la moneta come conio del governo democratico della polis a cui si fa riferimento. 3.1.2.2. Monete di bronzo fuso di forma rotonda (aes grave) Nel corso dei primi anni del III sec. a.C., in una data non precisabile da collocarsi presumibilmente tra il 280 e il 270, furono fabbricati a Roma i pri­ mi esemplari di un tipo particolare di moneta, per definire il quale oggi si utilizza l'espressione generale, non del tutto appropriata, di aes grave ('metal­ lo pesante'). Le monete in questione, come le barre romane di aes signatum, sono costituite da un bronzo ad alto contenuto di piombo e come queste ul­ time venivano fuse in forme; a differenza di queste sono però rotonde e re­ cano un disegno sul diritto e sul rovescio. Il peso (asse) di una libbra (libra) è alla base delle prime monete in aes grave (standard librale). Il peso preciso della libbra romana non è certo e i calcoli moderni non giungono a un risul­ tato concorde: qui viene utilizzato il valore di circa 324 grammi. Le monete in aes grave non vennero fuse solo a Roma, ma anche in altre città etrusche e italiche. Vunità è costituita dall'asse (1) (vd. tav. f.t., no 3) che, corrispondendo alla libra e perciò a 12 once, era suddiviso in metà (semis, S), terzo (triens, ) quarto (quadrans, ) sesto (sextans, ), e oncia (uncia, ) Diverse serie avevano unità ancora piu pic­ cole come l'oncia, la semioncia (semiuncia, E), oppure, molto raramente, la quartoncia (quartuncia). Unità maggiori dell'asse ebbero emissioni isolate : dupondius (simbolo 11 = 2 assi), tressis (m), quincussis (v), decussis (x) . Nel sistema avanzato, alla suddivisione in •••• ,

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unità corrispondevano anche disegni ben precisi delle monete. Le monete fuse non presentano di regola alcuna leggenda.

Quando a Roma fu coniato l'argento, all'incirca a partire dal 270 a.C., le

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monete d'argento foggiate secondo il modello campano e le monete di bronzo fuse secondo il modello romano si trovarono in un rapporto difficile da gestire. A causa del cambiamento del peso standard di entrambe le mo­ nete, esse furono dapprima messe nel rapporto I didramma (argento) = 2,5 assi (bronzo), e in seguito I didramma = 3 assi. Riduzioni ulteriori seguirono negli anni fino alla seconda guerra punica: standard semilibrale ovvero standard post-semilibrale. 3.1.2.3. Le prime monete romane coniate: bronzo/argento La piu antica scritta su moneta che presenta i Romani come autorità emit­ tente non si trova su barre di metallo fuso o su monete in aes grave, bensi su monete coniate in bronzo. Su un tipo di moneta documentato solo da pochi esemplari (RRC, III) che sul D/ mostra la testa di Apollo e sul R/ la parte anteriore di un toro dalla testa umana, si legge RQMAIQN ([moneta] 'dei Ro­ mani'). Queste monete, in base alla tipologia delle effigi e alla loro foggia, si possono collegare alla zecca della città greca di Napoli, in Campania. In que­ sta importante città, alleata di Roma, venne coniata, all'incirca fra il 320 e il 300 a.C., non solo questa prima emissione romana di monete, ma anche una seconda in bronzo e forse anche la prima di monete d'argento. Le relative scritte sulle monete concordano nel presentare i Romani come autorità emittente, ora però in lettere latine: ROMANO(rum). Il primo tipo d'argento romano (RRC, 13/1) mostra sul DI la testa di Marte e sul Rl una testa di cavallo. Nell'immagine, nello stile, nella foggia, nel titolo (7,3 g. = standard campano) e nell'unità di misura (didramma) queste monete appaiono gre­ che; solo la leggenda ROMANO{rum) dimostra che sono romane. Questo vale anche per altri due tipi di monete in bronzo con la leggenda ROMANO{rum), delle quali una è stata coniata probabilmente nella colonia romana di Cosa (si pensa nel 273), l'altra in Sicilia durante la prima guerra punica (264-241 a.C.).

A Roma si coniò l'argento a partire dal 270 a.C. circa. Le monete sono an­ cora greche nello stile, nella foggia e nel sistema (unità = didramma): per questo motivo nella letteratura piu moderna esse vengono spesso definite > . Uno dopo l'altro vennero emessi tre diversi tipi in ar­ gento con la leggenda ROMANO(rum) (vd. tav. f.t., no I) , nei quali il peso standard scese da 7,2 g. circa a 6,6 g. Intorno al 240 a.C. la scritta ROMANO(rum) fu sostituita dal nome della sss

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ARCH E O L O G I A E S T O RI A D E L L ' ARTE A R O M A

città di Roma (ROMA). Con questi coni, prodotti in tre diversi tipi di mone­ te (vd. tav. f.t., no 2), si può parlare per la prima volta di un sistema moneta­ rio romano, che includeva monete fuse (aes grave) e monete coniate in ar­ gento e in bronzo. L'omogeneità delle emissioni è dimostrata da simboli pre­ cisi (falce, clava). L'ultimo tipo in argento, che appartiene al gruppo dei primi argenti roma­ ni, è il quadrigato detto cosi dalla quadriga guidata dalla Vittoria con Giove sul R/; il D/ mostra Giano bifronte giovane (vd. tav. f.t., no 4). L'unità è an­ cora il didramma, ora nel peso di 6,5 g.; vennero però coniate anche dramme e una frazione di appena 1 g. Il conio di quadrigati, secondo la testimonianza dei ritrovamenti, iniziò intorno alla metà del penultimo decennio del III se­ colo e terminò nei primi anni della seconda guerra punica. p.2.4. Diffusione e importanza delle prime coniazioni di monete romane

Nel corso del III secolo Roma emise monete in un modo assolutamente discontinuo e tra un'emissione e l'altra trascorsero periodi di tempo piutto­ sto lunghi. Anche la consistenza delle prime coniazioni romane in argento fu relativamente scarsa. Come si può evincere da un'analisi del materiale oggi a nostra disposizione, per la produzione delle quattro emissioni di didrammi con la leggenda ROMANO sembra che siano stati utilizzati in tutto circa 90 diversi coni per il D/, e per lo meno 70 per le tre emissioni con la leggenda ROMA. Negli studi piu recenti vengono calcolati va­ lori diversi per la durata di un conio per il D/. Se per esempio si ammette che con un conio per il D/ venissero realizzate 20.000 monete, e moltiplichiamo questa cifra per il numero dei coni noti e per il corrispondente peso della moneta, si ottiene la som­ ma di 3,16 milioni di didrammi, che corrispondono ad un peso di circa 21.300 kg. di argento. È poco, se paragonato ai bottini che affluirono a Roma nel corso dei secoli presi in analisi. Se poi si mette a confronto la prima coniazione romana in argento con il volume delle emissioni di argento di importanti zecche come Taranto, Eraclea o Napoli, è evidente quanto questa somma fosse insignificante. Si suppone che Car­ tagine durante la prima guerra punica abbia coniato un volume di metallo prezioso circa 70 volte maggiore rispetto a Roma (BuRNETT 1989).

Nel periodo che precede la seconda guerra punica il denaro in forma di moneta non sembra aver avuto particolare importanza per lo Stato romano. Le paghe militari, motore della coniazione di monete in stati come Cartagi­ ne, non costituiscono al contrario un fattore rilevante per le prime coniazio886

3 · N U M I S MATICA ROMANA

ni a Roma; le emissioni per tale scopo sono infatti troppo sporadiche ed esi­ gue. La paga militare a Roma, anche decenni dopo la sua introduzione, non veniva consegnata in monete, ma in merci. Neppure nella vita quotidiana le monete assunsero un ruolo di particolare importanza: solo nel corso della prima guerra punica furono emesse in notevole quantità delle piccole unità di moneta, anche se non si può affermare che la moneta spicciola abbia suc­ cessivamente sostituito il baratto o le altre forme di pagamento. Il motivo per cui Roma iniziò a fondere e a coniare monete proprie sembra non deb­ ba essere cercato in riflessioni e necessità di tipo politico o economico, quan­ to piuttosto nella adozione consapevole, per quanto esitante, di un'istituzio­ ne da tempo nota alle comunità greche dell'Italia meridionale. Grazie a que­ sto sistema fu reso molto piu agevole l'adempimento di una serie di impegni da parte dello Stato romano, ormai ingranditosi, come per esempio distri­ buire parti di bottino ai cittadini, effettuare le spese per gli impianti militari e per la flotta, restituire i prestiti o pagare le costruzioni pubbliche. J.I.J. Cambiamenti decisivi durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.). I.:introdu­ zione del sistema del denario Durante la seconda guerra punica Roma si trovò inizialmente in una si­ tuazione pericolosa: Annibale si era impadronito di ampie zone dell'Italia centrale e meridionale e minacciava Roma, e un esercito romano combatte­ va allo stesso tempo in Spagna contro i Cartaginesi. Probabilmente è in que­ sta situazione di emergenza che furono coniate per la prima volta delle mo­ nete d'oro (RRC, 281!). Esse mostrano sul diritto la testa di Giano giovane, come i quadrigati, sul rovescio la scena di un giuramento (coniuratio), che si riferisce probabilmente a un arruolamento ufficiale di truppe. Il peso dell'u­ nità (statere) è di 6,75 g.; fu coniato anche un pezzo di metà valore. Sotto la pressione degli elevati costi di guerra e in vista della difficoltà di procurarsi metallo per le monete, furono ridotti il peso standard dell'argen­ to e quello del bronzo; contemporaneamente diminui anche il titolo delle monete d'argento. Roma fu costretta a contrarre debiti ingenti. In seguito, si arrivò al crollo del primo sistema monetario romano. Intorno al 212 a.C. fu introdotto al suo posto un nuovo sistema, la cui unità era il denario (vd. tav. f.t., no s). Questa moneta d'argento pesava 4 scripula o 4,5 g. {1 scripulum = 1/24 oncia = 1,125 g.); il titolo d'argento del denario continuava a essere molto alto. Il sistema del dena-

' IX · ARCH E O L O G IA E S T O RI A D E L L ARTE A R O M A

rio si poggia sullo standard sessantario: l'asse pesava 1/6 libbre (54 g.}, secondo il rap­ porto comune di 1:120 dell'argento rispetto al bronzo, 1 denario valeva 10 assi. Da ciò il nome denarius (da deni, 'a dieci', simbolo x}. Oltre al denario furono coniati due no­ minali d'argento piu piccoli: il quinario (il pezzo da metà, simbolo v; vd. tav. f.t., no 6} e il sesterzio (il pezzo da un quarto, simbolo ns; vd. tav. f.t., no 7). Questa unità di moneta corrispondeva nel peso al diobolo, spesso coniato durante il III secolo nel­ l'Italia del sud.

Le nuove unità in argento (vd. tav. f.t., ni 5-7) presentano le medesime im­ magini: sul DI la testa della dea Roma rivolta a destra, a sinistra il simbolo che indica il valore della moneta; sul Rl i Dioscuri, Castore e Polluce, al galoppo verso destra; sotto gli dèi protettori di Roma compare la leggenda ROMA. Sul momento preciso e sulle modalità d'introduzione del sistema del denario ven­ gono sostenute nella ricerca moderna tesi divergenti. In base all'interpretazione dei dati numismatici (consistenza della documentazione; raffronto tra i reperti; riconia­ zioni} e tenendo presenti i ritrovamenti archeologici nell'antica città di Morgantina (Serra Orlando in Sicilia, in provincia di Enna}, gran parte della critica sostiene che questo sistema venne introdotto « poco prima del 2u a.C. Negli scavi di Morganti­ na, in determinati strati che portano tracce di un incendio furono identificate accan­ to ad altre monete anche coniazioni del primo sistema del denario. Gli archeologi mettono in relazione questi strati che portano i segni di un'opera distruttrice con le due occupazioni della città da parte dei Romani, negli anni 214 e 211 a.C. (BuTTREY­ ERIM-GRovE s -H oLLOWAY 1989). •) .

Pressoché contemporaneamente al sistema del denario, Roma introdusse un'altra moneta d'argento, il vittoriato {vd. tav. f.t., no 8). Essa mostra sul D/ la testa incoronata di Giove rivolta a destra, sul Rl una Vittoria che corona un trofeo, nell'esergo ROMA. Il vittoriato pesava 3 scripula (3,3 g. ca.} e la sua lega d'argento (percentuale dal 75 fi­ no al 95%} era un po' piu scadente di quella delle tre unità del sistema del denario. Per quanto riguarda il suo peso il vittoriato è una dramma e fu raramente coniato an­ che come pezzo doppio o metà. Si collega nel peso e nel titolo al quadrigato: analo­ gamente, i piu antichi luoghi di ritrovamento sono concentrati nel sud della penisola italica, la zona del sistema valutario greco.

Al nuovo sistema valutario romano appartenevano anche monete d'oro (RRC, 44/2-4), che furono coniate in tre diverse unità da 6o (3,3 g.), 40 (2,2 g.) e 20 assi (1,1 g.). Le effigi mostrano sul D/ la testa di Marte e sul Rl un'a­ quila sul fascio di fulmini, sotto la scritta ROMA. 888

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· N U M I S MATI CA ROMANA

Con la riduzione dello standard di bronzo, durante la seconda guerra pu­ nica, si rinunciò alla colata delle unità di moneta pesanti. Dopo che già pre­ cedentemente le unità piu piccole non venivano piu fuse ma coniate, con l'introduzione dello standard sessantario si passò alla coniazione di tutte le unità in bronzo. Il volume della coniazione di monete romane aumentò considerevolmente con l'introduzione del sistema del denario. I nuovi suc­ cessi militari portarono ricchi bottini di guerra (nel 212 Siracusa, nel 211 Ca­ pua, nel 209 Taranto, ecc.) e al contempo Roma trovò, di conseguenza, ulte­ riori fonti di denario. Diverse zecche in Italia, Sardegna e Sicilia, e in Spagna coniarono monete romane. 3.1.4. La coniazione di monete romane nel II e nel I sec. a. C Con la fine della seconda guerra punica, la coniazione di monete si con­ centrò nella città di Roma. Le emissioni in argento del primo decennio del II sec. consisterono quasi esclusivamente in denari e in vittoriati. Il peso del denario scese da 1/72 libbre (4,5 g.) a 1/84 libbre (3,86 g.), peso che corri­ spondeva al vittoriato. Intorno al 141, il denario fu nuovamente tariffato e il suo valore fu fissato a 16 assi contro i precedenti IO (simbolo XVI o ligatur) (vd. tav. f.t., ni 9 e IO) . Il peso del denari o non mutò per oltre 200 anni, la relazio­ ne 1 : 16 tra denario e asse restò stabile addirittura fino ai primi anni del III sec. d.C. Nei tre secoli di coniazioni di monete repubblicane, Roma diventò una delle mag­ giori potenze del Mediterraneo. Per quanto riguarda la sfera d'azione del denario ro­ mano, i responsabili perseguirono la stessa politica pragmatica adottata in altri ambi­ ti. Mentre nel fulcro del potere, in Italia centrale e meridionale e nelle isole, fu im­ posto il monopolio del denario e già durante la seconda guerra punica fu abolita la coniazione locale in argento, per cui le monete vennero fuse, in Italia settentrionale, in Gallia e in Spagna accanto a denari romani circolarono monete d'argento battute in alcune zecche locali. In Grecia, in Asia Minore e in Siria il denario iniziò a svolge­ re un ruolo dominante solo nel corso del I sec. a.C. Solo in Grecia esso riusci a sop­ piantare completamente la coniazione locale in argento. Nelle province di Asia e di Cilicia prosegui la coniazione regionale in argento cistofori; fra i nomi dei governa­ tori tramandati sulle monete troviamo, per esempio, quello di Marco Tullio Cicero­ ne, che governò la provincia di Cilicia negli anni 51/50 (vd. tav. f.t., no 17}.

La coniazione di monete d'oro continuò a rimanere riservata a situazioni particolari. Nel II secolo a Roma non venne affatto coniato oro, nel I sec. fe-

' IX · A R C HE O L O G IA E S T O R I A D E L L ARTE A R O M A

cero coniare oro dapprima Silla, poi Giulio Cesare e infine gli avversari nel­ le guerre civili. La maggior parte di queste emissioni in oro, alcune delle quali importanti, non fu a dire il vero coniata a Roma, ma nei rispettivi cen­ tri di potere dei partiti della guerra civile. n volume delle coniazioni in bronzo nella prima metà del II secolo fu par­ ticolarmente consistente. Le monete in questione, soprattutto gli assi {vd. tav. f.t., no n) , circolarono molto a lungo; sulla base dei ritrovamenti, esse erano ancora presenti in cospicua quantità nella prima età imperiale. n peso standard delle monete in bronzo continuò a diminuire; intorno alla metà del II secolo un asse corrispondeva ad una uncia (27 g. ca.; standard onciale) . Nella seconda metà del II secolo invece fu coniato molto meno bronzo. Nel 91 a.C. la !ex Papiria fissò lo standard semionciale {un asse 13,5 g.). Queste monete leggere in bronzo tuttavia non riuscirono ad affermarsi e verso la fi­ ne degli anni Ottanta sembrano essere già state di nuovo demonetizzate. Da questo momento fino all'inizio della riforma monetaria di Augusto (23 a.C.) lo Stato romano non coniò piu monete di bronzo. =

J.I-5 ·

Organizzazione e diffusione della coniazione di monete nella Repubblica

Sappiamo poco sulle zecche della Repubblica. Vcfficina Monetae, secondo Livio, 6 20, si sarebbe trovata presso il tempio di Giunone Moneta sulla roc­ ca capitolina (ar.x). Oggi si hanno buone ragioni per ritenere che per la zecca della tarda Repubblica venisse utilizzato un complesso di spazi nelle sostru­ zioni del tabularium ( Coarelli 1994; per la localizzazione si veda avanti, 3.2.4). Vorganizzazione della zecca è da. immaginare nella maniera seguente: le ba­ si della valuta romana {peso standa.rd, titolo, nominale) erano di regola fissa­ te in una legge. Quando, quanto e in quale unità di moneta si dovesse conia­ re, sembra che fosse stabilito dal senato, che aveva il controllo sulle uscite ed entrate dello Stato. I questori responsabili dell'amministrazione del tesoro di Stato (aerarium populi Romani), conservato nel tempio di Saturno, consegnavano alle zecche la quantità di metallo necessaria e la ricevevano di nuovo in forma di mone­ te appena coniate. Responsabili dell'organizzazione e del controllo delle procedure di coniazione erano i magistrati monetali, i tresviri aere argento auro jlandoJeriundo (mVIRI AAA FF 'triumviri per la fusione e il conio di metal­ lo, argento e oro'). Non si sa esattamente quando fu istituita questa carica, che apparteneva =

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N U M I S MA T I CA R O M A N A

alle cosiddette "magistrature minori". Il titolo mVIR compare sulle monete per la prima volta nel 71 a.C. (RRC, 401), mentre la sigla AAA FF nell'anno 44 a.C. (RRC, 480/19) (vd. tav. f.t., no 15), tuttavia le sue origini risalgono a molto prima, probabilmente alla seconda guerra punica, o forse sono ancora piu antiche. Le monete stesse tramandano una grande quantità di nomi di magistrati monetari (vd. tav. f.t., ni 9-10; 12-15). La coniazione delle monete era un procedimento costituito da numerose fasi: la produzione della lega necessaria, la colata e la preparazione dei ton­ delli, il taglio del conio e il processo di coniazione (si veda al riguardo 3.2.4). Il lavoro della zecca era strettamente controllato. Dal tardo II secolo si osser­ vano piu volte segni di controllo sulle monete. Ogni conio veniva singolar­ mente contrassegnato con un numero, una lettera, un simbolo o con una lo­ ro combinazione. In questo modo conosciamo per l'emissione in questione, allo stesso tempo, il numero dei coni utilizzati. Per la coniazione di uno dei tre magistrati monetali dell'anno 82 a.C., Publio Crepusio (RRC, 361), i cui denari (vd. tav. f.t., no 13) testimoniano un sistema di controllo particolar­ mente complesso, possono essere distinti in totale 479 diversi coni per il D/ e 519 per il Rl. Questi costituiscono tuttavia solo una parte della coniazioni di denari dell'anno 82, poiché allo stesso modo coniarono anche gli altri due magistrati monetali, Lucio Censorino e Gaio Limetano. Un altro tipo di mo­ neta porta il nome di tutti e tre i magistrati monetali. Secondo le ricerche di Th. Buttrey, per la coniazione in argento dell'anno 82 sono da calcolare al­ meno 1.206 diversi coni per il D/ e 1310 per il Rl (Buttrey 1976). Per avere un'idea della grande quantità di denari che sono stati coniati con i coni menzionati, si dovrebbe sapere quante monete potevano essere o furono coniate con un singolo conio per il D/. Con l'ausilio di diversi metodi di calcolo, ma anche gra­ zie agli esperimenti di coniazione, si è cercato di determinare quanti diritti di mone­ ta si riuscissero a ottenere con un conio. Ne sono risultate indicazioni molto diverse, che vanno dalle s.ooo alle so.ooo monete per un conio di DI {sull'argomento, da ul­ timo, DE CALLATAY 1995}. Per contro, il numero di coni calcolato statisticamente o stabilito attraverso il metodo del confronto dei coni, è in grado di darci un'idea del­ l'entità relativa delle singole emissioni. A giudicare dal numero di coni, le emissioni di denari del II e nel I sec. a.C. non erano assolutamente unitarie: si osserva piuttosto una forte oscillazione che è da mettere in relazione con diversi fattori. Un motivo importante per cui furono coniate le monete è costituito dalle spese per l'esercito. Si coniò relativamente molto, per esempio, durante la guerra sociale degli anni 91-88 o durante gli anni delle guerre civili (49-31). Sarebbe tuttavia sbagliato sottovalutare e tralasciare altre uscite, come le spese per le costruzioni.

' IX · ARC H E O L O G I A E S T O R I A D E L L ARTE A R O M A

3.1.6. La datazione delle monete repubblicane La date precise di coniazione fornite nei moderni repertori non devono far credere che sia possibile conoscere tutte le datazioni dei tipi piu piccoli di moneta. I nomi dei magistrati monetali citati sulle monete non costituiscono un aiuto in questo caso, almeno fintanto che non emerga da qualche fonte quando i singoli collegi detennero la carica. È dunque solo confrontando i reperti e calcolando in quale percentuale vi si trovino le singole monete che si riesce a costituire la base fondamentale per l'elaborazione di una cronolo­ gia relativa. Dal momento che alcuni tipi di monete possono essere collega­ ti a date storiche precise, è possibile, grazie alla loro elaborazione, ottenere una datazione completa anche per le restanti. Date queste premesse non stu­ pisce, a dire il vero, che nella letteratura nurnismatica per uno stesso tipo di moneta vengano spesso fornite diverse datazioni. Generalmente si ritiene che ci siano pochissimi punti fermi per stabilire le date della coniazione di monete del III e II secolo: al confronto, è migliore la situazione per il I seco­ lo, periodo che offre maggiori elementi per nuove precisazioni. 3.1.7.

I tipi delle monete

Dal III fino al I sec. a.C. i tipi delle monete si distinguono complessiva­ mente per una varietà fino ad allora sconosciuta nella coniazione antica. Se si considera la coniazione nel suo sviluppo temporale, si intravede un processo che include varie fasi e che qui può essere solo delineato sommariamente. La maniera migliore per descriverlo è domandarsi chi "parli" attraverso que­ ste raffìgurazioni. Per semplificare, possiamo distinguere tre periodi. Nel primo periodo (III sec.-prima metà del Il) "parla" lo Stato romano; nel secondo (seconda metà del II-inizi del I sec.) "parlano", attraverso i magistrati monetali, le gentes ro­ mane; nel terzo (a partire dal 100 ca.) "parlano", non esclusivamente ma spesso, le frazioni politiche, o per meglio dire i loro capi. Dopo la morte di Cesare, con la guerra civile, dalla quale Ottaviano esce vittorioso e, con il nome di Augusto, crea il principato come nuova forma di potere, questo svi­ luppo si conclude. Le raffigurazioni delle monete delle prime coniazioni in argento (didrammi), so­ prattutto quelle dalle zecche dell'Italia meridionale, sono vincolate al repertorio del­ la koiné greco-ellenistica (vd. tav. f.t., no 2) e presentano citazioni o per meglio dire va-

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NU M I S MA T I CA R O M A N A

riazioni di modelli desunti da questa tradizione. Senza la leggenda ROMANO/ROMA tali figure non verrebbero necessariamente collegate a Roma. Solamente un unico ti­ po di IV, recando l'effigie della lupa, si riconosce chiaramente come romano (vd. tav. f.t., no 1) . I riferimenti agli avvenimenti contemporanei nelle raffigurazioni delle mo­ nete in argento del III secolo sono tuttavia inconfondibili, e questo vale anche per una parte delle barre in aes signatum (armi, elefanti, tridente). Con l'introduzione del sistema del denario, intorno al 212 a.C., non si verificano cambiamenti sostanziali. Denari, quinari e sesterzl mostrano concordemente la testa di Roma e i Dioscuri (vd. tav. f.t., ni 5-7). Con queste immagini, cosi come con la Vittoria con trofeo del vitto­ nato (vd. tav. f.t., no 8), vien fatto riferimento alla seconda guerra punica.

Nella prima metà del II secolo i singoli magistrati monetali appaiono sul­ le monete sempre piu esplicitamente con sigle o con i loro nomi. Nella se­ conda metà del secolo la coniazione romana in argento perde l'unitarietà dell'aspetto esteriore e amplia il suo repertorio di motivi, fino ad allora limi­ tato e chiaramente riferito alla comunità della Res publica. Sul D/ dei denari troviamo ora una varietà multiforme di "quadri di famiglia" dei magistrati monetali, nei quali si rappresentano l'origine della loro gens, le gesta impor­ tanti degli antenati, ecc. (vd. tav. f.t., no w) . n R/, dapprima riservato alla te­ sta della dea Roma, scompare anch'esso di pari passo con lo sviluppo ulte­ riore e la differenziazione del linguaggio dell'immagine. Al suo posto ap­ paiono altre divinità, ritratti di antenati mortali e immortali dei magistrati monetali (vd. tav. f.t., no 12); si moltiplicano anche le personificazioni (vd. tav. f.t., no 14), le allegorie e i simboli. Non sorprende l'assenza della leggen­ da ROMA su molti tipi di monete del tardo II e del I secolo. Al suo posto i magistrati monetali in molti casi considerarono indispensabile semplificare la comprensione della figura con una leggenda, ovvero di pilotare il suo messaggio nella direzione desiderata (vd. tav. f.t., ni 14 e 16). n linguaggio dell'immagine delle monete tardo repubblicane in argento permise di formulare messaggi complessi e anche attuali. Politici ambiziosi del I secolo come Mario, Silla, Pompeo, Cesare, Marco Antonio e Ottaviano si servirono di queste possibilità tramite i loro seguaci o anche personalmen­ te. Esiste un repertorio straordinario di tipi di monete risalenti agli anni del­ le guerre civili (vd. tav. f.t., no 16). Col diritto concesso a Cesare poco prima del suo assassinio di raffigurare, primo tra i Romani, il proprio ritratto sulle monete (vd. tav. f.t., no 15), si compi l'ultimo passo verso un genere di auto­ rappresentazione fino ad allora sconosciuta a Roma. Già per i protagonisti delle guerre civili fu ovvio far porre il proprio ritratto sulle monete.

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' A RC H E O L O G I A E S T O RI A D E L L ARTE A R O M A

3.2. L ETÀ IMPERIALE '

ROMANA

3.2.1. La nascita del sistema monetario imperiale sotto Augusto e il suo sviluppo nel I e nel II sec. d. C. Negli anni fra il 31 e il 27 a.C. OTTAVIANO fece coniare numerose emissio­ ni in metallo prezioso (vd. tav. f.t., no 18), talora di cospicua entità. Dopo la battaglia di Azio e soprattutto con la conquista dell'Egitto nel 30 a.C., egli era entrato in possesso di un enorme bottino di guerra (il tesoro dei Tolomei), che in seguito utilizzò, tra l'altro, per pagare gli stipendi alle truppe e per re­ stituire i prestiti. Ottaviano si mostrò generoso anche nei confronti dei sena­ tori, dei cavalieri, della plebs urbana e dei debitori verso lo Stato. Le insolite quantità di monete d'oro e d'argento che entrarono in circolazione devono aver portato a Roma a una forte ascesa dei prezzi e a un contemporaneo calo degli interessi di credito (Svetonio, Divus Augustus, 41; Cassio Diane, 51 21 s). E se Ottaviano, negli anni delle guerre civili, derivò il diritto di conio dai poteri straordinari che gli erano stati trasmessi o, per meglio dire, dai poteri che egli stesso si era attribuito, cosi egli dovette legittimarlo di nuovo, dopo il ristabilimento della Res publica, nel gennaio del 27 a.C. In alcune province poté appellarsi nel farlo alla procedura che accordava al governatore il dirit­ to di far coniare monete. Il senato aveva conferito ad Augusto già nel 27 a.C. l'imperium proconsulare e, nel 23 a.C., aveva considerevolmente ampliato que­ ste funzioni. Grazie a ciò Augusto aveva fatto coniare in Spagna (vd. tav. f.t., no 20) e in Gallia grandi quantità di metallo, prezioso e non. Ma anche nella parte orientale greca dell'impero furono battute monete in suo nome. Per la storia della moneta fu importante il tentativo di introdurre in Asia Minore (vd. tav. f.t., no 21) un sistema monetario, le cui unità erano costituite da oricalco (le­ ga di 75-80% rame e 20-25% zinco) e da bronzo (lega di ca. 70% rame, 10% stagno e 20% piombo). L'oricalco (aurichalcum} come metallo per moneta è documentato già nella prima metà del I sec. a.C. (ad Amiso, nel Ponto} e il suo uso si diffuse in segui­ to nelle zecche dell'Asia Minore.

Con la radicale riforma della coniazione del metallo da parte di Augusto, presumibilmente nel 23 a.C., i tipi di moneta interessati recarono non solo la sigla se, ma ancora una volta il nome dei magistrati monetali (vd. tav. f.t., ni 22 e 23). Il significato di se (senatus consulto, 'su deliberazione del senato') è controverso: forse si riferisce alla deliberazione del senato che stabili il nuo­ vo sistema (Wallace-Hadrill, 1986). Esso comprendeva le unità del sesterzio

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· N U M I S MATI CA R O M A N A

(vd. tav. f.t., no 22), del dupondio (vd. tav. f.t., no 25), dell'asse (vd. tav. f.t., no 23), del semisse e del quadrante (vd. tav. f.t., no 27), che stavano tra loro in rapporti fissi: I sesterzio = 2 dupondi = 4 aSSI = 8 sernissi I dupondio = 2 ass1 = 4 serruSSI 1 asse = 2 sem1ss1 I semiSSe

= = = =

I6 quadranti 8 quadranti 4 quadranti 2 quadranti

Il sesterzio (ca. 27,3 g. = I uncia), il dupondio (ca. I3,6 g.) e il sernisse (ca. 4,5 g.), che era coniato raramente, erano di oricalco. I.:asse (ca. n g.) e il quadrante (ca. 3,2 g.) era­ no invece di rame. In un lasso di tempo di circa venti anni vennero coniati a Roma tipi di monete che portano i nomi complessivamente di 45 magistrati monetali (I4 collegi). Dopo ciò i tresviri aere argento aurojlandoJeriundo non si trovano piu sulle mo­ nete, sebbene questo incarico continuasse ad esistere fino al III secolo inoltrato. Le nuove monete in oricalco e in rame presentano un aspetto uniforme: il Rl del sesterzio (vd. tav. f.t., no 22) mostra la corona di foglie di quercia (corona civica) e due rami di alloro, quello del dupondio solo la corona di foglie di quercia. Il conferimen­ to della corona di salvatore (oh cives servatos) e di alloro faceva parte degli onori (vd. tav. f.t., ni I9 e 20) che il senato conferi ad Augusto nel 27 a.C. Il Rl degli assi (vd. tav. f.t., no 23) presenta invece l'immagine del primo princeps. Sul D/ di sesterzi, dupondi ed assi (ibid.) si trova, in grande, la sigla SC circondata dal nome di uno o piu magi­ strati monetali. I quadranti si discostano da questo schema: su di essi non vi è né l'im­ magine di Augusto né il suo nome.

nuovo sistema di monete di metallo rimase in vigore essenzialmente fino a poco dopo la metà del III secolo, ma le figure delle monete in realtà variava­ no da emissione a emissione. Il Rl mostra di regola il ritratto dell'imperatore, il DI presenta i piu vari contenuti figurativi. Su quasi tutte le monete coniate in oricalco e in rame compare la sigla SC (vd. tav. f.t., ni 25, 27, 28, 32). La coniatura dei magistrati monetali di Augusto si estese non solo alle nuove unità di metallo, ma, fra il 19 e il 12 a.C., dai magistrati monetali a Ro­ ma fu çoniato anche metallo prezioso. Il

I.:aureo (vd. tav. f.t., no I9) pesava sotto Augusto 7,9-7,8 g., il denario (vd. tav. f.t., no 20) 3,9-3,8 g. Fuori Roma l'imperatore fece coniare sporadicamente anche pezzi da mezzo in oro e argento (quinario d'oro o d'argento). Le monete d'oro e d'argento dell'età augustea presentano un titolo molto elevato. Per il I e il II secolo, tra le mo­ nete in metallo nobile e quelle in metallo valsero le seguenti relazioni:

I aureo = 25 denari I denario =

4

sesterzi = 8 dupondi = r6 assi

=

64 quadranti

IX

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ARC H E O L O G IA E S T O RIA D E L L ' ARTE A R O M A

A partire dalla prima età imperiale, sulla base dei compensi stabiliti e delle indica­ zioni di prezzo, è possibile farsi un'idea del valore delle differenti unità di moneta. Lo stipendio annuale lordo di un soldato legionario, da Augusto a Domiziano, am­ montava a 225 denari (9 aurei), una paga giornaliera (a Pompei) andava da 5 assi a un denario (forse con vitto gratis). Secondo i graffiti sulle pareti delle case di Pompei un modius di grano (ca. 6,5 kg.) costava 30 assi; il vino (forse 0,55 l.), a seconda della qua­ lità, da 1 a 4 assi; una tunica 15 sesterzl; un piatto d'argilla un asse. A Roma l'ingresso in un bagno pubblico costava un quadrante. A Pompei una persona aveva bisogno, per il proprio sostentamento giornaliero di circa 8 assi.

In base ai ritrovamenti numismatici, nell'impero romano erano in uso monete delle piu differenti valute. Solo la coniatura di oro, che rappresenta­ va la spina dorsale della valuta dell'età imperiale, era centralizzata. I.:aureo rappresentava l'unica moneta d'oro e circolava come tale in tutto l'impero. Gli imperatori fecero coniare argento nella parte occidentale dell'impero ro­ mano esclusivamente come denario, nelle province orientali invece furono coniate ancora unità a uso regionale, come i cistofori (vd. tav. f.t., no 26) in Asia Minore, o i tetradrammi (vd. tav. f.t., no 33) in Siria. I.:Egitto godette di una posizione privilegiata. Questa importante provincia conobbe infatti fino alla fine del III sec. d.C. un proprio sistema di valuta con unità d'argento di mistura e di bronzo (vd. tav. f.t., no 29). Le monete d'argento contengono so­ lo una piccola percentuale d'argento. Corsi di cambio sfavorevoli e altre dis­ posizioni tennero lontana la moneta straniera, anche il denario, e garantiro­ no il monopolio delle monete coniate ad Alessandria. I sesterzi, i dupondi, gli assi e i quadranti coniati a Roma erano destinati al­ l'inizio alla capitale e all'Italia. Il loro uso si estese solo lentamente anche alle province occidentali. Nell'Oriente dell'impero la circolazione di monete di metallo provenienti dalla zecca di Roma era pressoché nulla; in queste zone un gran numero di comunità, soprattutto città, coniavano denaro spicciolo in bronzo, in oricalco e in rame. In alcune zecche Augusto permise il conio di monete di bronzo (Nemausus) oppure di monete d'oricalco e di rame (Lug­ dunum [Lione), vd. tav. f.t., no 24) per le paghe militari. Nonostante ciò, an­ che queste monete non coprirono il bisogno di piccole unità e le vecchie monete, per esempio gli assi repubblicani (vd. tav. f.t., no n) del II sec. a.C., restarono in circolazione nei primi anni dell'età imperiale. Per recuperare i piccoli valori mancanti in certi luoghi vennero divise in due le monete me­ talliche, specialmente gli assi. Soprattutto nei grandi insediamenti militari sul Reno, all'inizio dell'età imperiale, in diverse occasioni le monete di metallo

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3 · NUMISMATICA ROMANA vennero dotate di "contromarche" come IMP, AVG, TIB, TIB IMP, TIB AVG, CAESAR, ecc. La mancanza di monete di metallo aumentò inoltre con la chiusura delle zecche locali ancora rimaste in Sicilia, in Africa settentrionale, in Spagna e in Gallia. A ciò si aggiunse, con la conquista della Britannia (a partire dal 43), la necessità di organizzare ex nova nei nuovi territori una cir­ colazione di denaro sotto forma di monete. Sotto gli imperatori Caligola, Claudio e Nerone (37-68) la scarsità di monete di metallo portò, nella parte occidentale dell'impero romano, a coniazioni locali incontrollate di grandi quantità di imitazioni in rame e in oricalco, che erano di fattura qualitativa­ mente inferiore e di minor peso in confronto alle monete regolari. NERONE (54-68) ridusse nel 64 il peso prescritto dell'aureo a ca. 7,3 g. e quello del denario a ca. 3.4 g. Allo stesso tempo egli ridusse leggermente il ti­ tolo dell'argento. All'origine di queste riduzioni vi furono probabilmente le distruzioni che aveva compiuto il grosso incendio di Roma. Attraverso la manipolazione della valuta del metallo prezioso dovettero forse essere cofi­ nanziati gli alti costi per la ricostruzione e gli ambiziosi progetti edilizi del­ l'imperatore. I decenni seguenti furono caratterizzati da una continua crescita del volu­ me della coniazione delle monete e, di conseguenza, da una standardizza­ zione della quantità di monete in circolazione. Nel contempo divennero tangibili le prime conseguenze delle speculazioni di moneta e dell'inflazio­ ne. L'aureo (vd. tav. f.t., no 30) rimase stabile, e il suo peso - con un titolo im­ mutato - diminuf solo fino a 7,2 g. con l'impero di CoMMODO (180-192). Nel­ lo stesso periodo invece il peso del denario scese a ca. 2,8 g. e il titolo di un buon 70%. Cambiamenti nella composizione dell'oricalco portarono, nei primi anni del II secolo, alla scomparsa delle "vecchie" monete di metallo. Nel corso dello stesso secolo, come conseguenza della crescita dei prezzi, vennero coniate sempre meno monete di rame e al loro posto sempre piu monete di oricalco (vd. tav. f.t., no 28). 3.2.2. Il crollo del sistema monetario della prima età imperiale nel III sec. d.C. e la costi­ tuzione di un nuovo sistema Nel corso del III secolo si arrivò al crollo del sistema monetario vigente, e solo col nuovo secolo, grazie alla riforma dioclezianea, furono introdotte nuove norme. Questo sviluppo faceva parte di un'epoca, come le crisi politi­ che, le guerre civili, i grandi sforzi per consolidare i confini dell'impero e il

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bisogno di denaro sempre piu grande da parte dello Stato, nonché le diffi­ coltà a procurarsi argento per la coniazione di monete. Nel 215, l'imperatore CARACALLA (211-217) introdusse una nuova unità d'ar­ gento. Oggi noi la denominiamo antoninian(us), dal cognome dell'impera­ tore. I.:antoniniano (vd. tav. f.t., ni 34-36), che, al pari del contemporaneo denario, non conteneva ormai che circa il 50% di argento, si differenzia da quest'ultimo non solo per la grandezza e per il peso, ma anche perché l'immagine dell'imperatore porta la corona radiata. Anche se la nuova moneta pesava solo poco piu che una volta e mez­ za il denaro, ne valeva probabilmente due. La sopravvalutazione dell'antoniniano ri­ spetto al denario fu una circostanza che accelerò il crollo di quest'ultimo: intorno al­ la metà del III secolo il denario non era piu in circolazione.

Ma anche la nuova unità in argento crollò rapidamente. All'epoca dell'au­ tocrazia di GALLIENO (260-268), il titolo dell'argento dell'antoniniano dimi­ nuf di pochi punti percentuali. Di conseguenza gli imperatori, per effettuare i pagamenti fissati, dovettero far coniare grandi quantità di antoniniani sva­ lutati. Istituirono inoltre nuove zecche, che si trovavano piu vicino agli "utenti principali", cioè alle truppe, per esempio ad Antiochia, a Cizico (in Asia), a Viminacium, a Siscia (in Illiria), a Milano, a Lione, a Treviri e a Co­ lonia. Parallelamente al crollo della valuta d'argento, l'aureo perse valore. Il suo titolo, dopo la metà del III secolo, diminuf fortemente. Contempora­ neamente, la coniazione d'oro calò in modo significativo e venne meno il rapporto fisso di valore fra l'oro e l'argento. Alla luce di questi sviluppi non sorprende che, nella parte occidentale dell'impero, non si coniassero quasi piu assi, e che anche i dupondi e i sesterzi (vd. tav. f.t., no 32) venissero emes­ si sempre piu raramente. Dopo che per un periodo erano stati battuti addi­ rittura doppi sesterzi, nel corso del settimo decennio del III secolo anche la coniazione di sesterzi si interruppe definitivamente. Nelle province orientali si osserva un processo consimile. Nel corso del II secolo il numero delle comunità che coniavano monete di metallo aumentò fino a raggiungere, nei primi anni del III, la cifra massima di 250 (vd. tav. f.t., no 33). Dopo la metà del secolo tuttavia il loro numero diminuf rapidamen­ te, e negli anni Settanta chiuse l'ultima zecca locale o, per meglio dire, regio­ nale; soltanto Alessandria d'Egitto costituf ancora per breve tempo un'ecce­ zione. Questo processo fu accelerato dalle grandi quantità di antoniniani svalutati messi in circolazione, e di conseguenza vennero a cadere le diffe-

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renze, fino ad allora esistenti, tra la circolazione del denaro nella parte orien­ tale e in quella occidentale dell'impero. I.:imperatore AuRELIANO (270-275) stabilizzò la coniazione in oro e rifor­ mò l'antoniniano, che si era svalutato fino a diventare una piccola e leggera moneta di rame con tracce d'argento. I nuovi antoniniani (vd. tav. f.t., no 36) furono di nuovo piu grandi e piu pesanti {ca. 4 g.) rispetto a quelli messi pre­ cedentemente in circolazione e mostrano una percentuale d'argento fissa del 4-5%. La circolazione di monete in ampie zone dell'impero romano fu tutta­ via caratterizzata, anche sotto Aureliano, dai vecchi antoniniani, o meglio dalle imitazioni prodotte localmente in massa, molte delle quali di pessima fattura. DIOCLEZIANO (284-305), con la sua radicale riforma del governo e del si­ stema amministrativo, trasse le conseguenze dei profondi cambiamenti veri­ ficatisi nel corso dei tre secoli del principato. Anche la coniazione di mone­ te fu completamente rinnovata, mentre, in conformità alla nuova suddivisio­ ne dell'impero, venne aumentato il numero delle zecche. Dopo la riforma monetaria del 294, il sistema, che prevedeva ora una coniatura unitaria in tutto l'impero, era costituito dalle seguenti unità: I) L'unità aurea, del peso di ca. 5.4 g. 2) Una nuova unità {vd. tav. f.t., no 37) d'ar­ gento puro (argenteus), nel peso standard neroniano di ca. 3,4 g. 3) Una nuova unità {vd. tav. f.t., no 38) di bronzo argentifero {percentuale d'argento ca. 3%), del peso di piu di 10 g., e due sottounità senza argento, delle quali una, del peso di 3 g., riprodu­ ce il ritratto dell'imperatore radiato, mentre l'altra, del peso di 1,3 g., il ritratto del­ l'imperatore laureato. I nomi antichi di queste tre unità di moneta non ci sono noti; l'unità pesante piu di 10 g. viene oggi definita nummus o follis. Un Jollis è in realtà un borsellino che contiene il numero di monete corrispondenti a un preciso valore. I rapporti di valore delle diverse unità possono essere ricavati dall' "editto della ri­ forma monetaria", emanato all'incirca nell'anno 301, contemporaneamente all"'edit­ to dei massimi prezzi" {ERIM-REYNOLDS-CRAWFORD 1971). Con l'editto non vennero piu introdotte nuove unità, ma raddoppiati i valori nominali delle unità d'argento nei confronti di quelli fissati con la riforma del 294: in seguito a ciò, un pezzo d'oro vale­ va nuovamente 1.600 denari, l'argenteo 100 e il nummus 20. Pezzi di nummus con l'ef­ figie dell'imperatore radiato o laureato conservarono invece il loro vecchio valore di 5 oppure 2 denari. Il concetto di denario tramandato dalle iscrizioni non rappresenta del resto una moneta, ma una "unità di conto". La riforma valutaria del 301 non sem­ bra essere stata solo una conseguenza dell'inflazione, ma forse, nel contesto della ri­ forma monetaria del 294, la relazione fra l'argento e il metallo era stata fissata in mo­ do non realistico.

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3.2.3. Unità monetarie e sistema monetario della tarda antichità I.:imperatore CosTANTINO (306-337) nel 309 ridusse lo standard dell'oro fa­ cendo coniare monete - la prima volta nella zecca di Treviri - del peso di ca. 4,5 g. (1/72 di libbra). Questa nuova moneta d'oro (solidus) (vd. tav. f.t., no 39) si affermò già nel corso del governo di Costantino in tutto l'impero e rimase l'unità monetaria d'oro della tarda antichità e dell'impero bizantino. Il titolo del solido fu sempre elevato. Negli anni 365-368 furono presi alcuni prov­ vedimenti che permisero che fosse coniato oro "puro". La maggior parte delle mo­ nete d'oro (vd. tav. f.t., no 41) presentano da allora sul R/ le lettere OB (obryziacum au­ rum, 'oro fino', laddove OB in lettere greche significano anche 72, cioè 1/72 di libbra); la coniazione dell'oro fu centralizzata nella città di residenza dell'imperatore (COM sul Rl sta forse per comitatus). Oltre all'unità vennero emessi anche pezzi, soprattutto da metà solido (semisses) e da un terzo di solido (tremisses). Il tremissis (vd. tav. f.t., no 42) acquistò importanza soprattutto nel V secolo. Dalla fine del III secolo furono emesse, in occasione di determinati eventi, diverse coniazioni a scopo celebrativo (multipla, 'medaglioni') in oro (vd. tav. f.t., no 40) e in argento (vd. tav. f.t., no 43), la cui assegnazione fa parte del cerimoniale di corte tardo antico.

Il volume della coniazione in argento rimase basso nei primi decenni del IV secolo e solo sotto il governo dei figli di Costantino (a partire dal 337) sembra essere di nuovo aumentato. Nella seconda metà del secolo furono coniate invece grandi quantità di monete d'argento (vd. tav. f.t., no 44) di ca. 2,3 g. (definizione moderna: siliqua) , e di 1,1 g. (mezza-siliqua) . Molte di que­ ste presentano sul Rl le lettere PS (per pusulatum argentum, 'argento fino'). Dopo il 400 la coniazione in argento regredi fortemente. I pezzi piccoli del sistema monetario dioclezianeo, i nummi, furono ripe­ tutamente svalutati nel corso del IV secolo. Nel 313, l'unità standard era di soli 3,1 g., con un titolo dell'argento dell'I%. Nel 318, il loro titolo dell'argen­ to, mantenendo lo stesso peso, fu innalzato a circa il 5%. Fino al 348 si può seguire di nuovo un calo di peso e della percentuale d'argento, che tuttavia si svolse gradualmente e in genere col cambio del tipo di Rl. Nel 348 si cercò di arrestare questo processo con una nuova riforma. Fu­ rono introdotte tre nuove unità che presentavano sul Rl la medesima leg­ genda: FEL(icium) TEMP(orum) REPARATIO (vd. tav. f.t., ni 45-47). I.:unità piu grande pesava ca. 5,2 g. (2,5-3% di argento), quella media ca. 4,3 g. (1-1,5% di argento) e la piccola ca. 2,3 g. (senza argento). Anche questa riforma non ebbe un successo duraturo. Quando, nel 358, venne introdotto un nuovo ti900

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po di rovescio (SPES REI PVBLICAE), l'unità era ormai solo una moneta di rame di appena due grammi. Da fonti contemporanee risulta che erano inoltre in circolazione molte coniazioni contraffatte. I.:imperatore GIULIANO (360-363) introdusse una nuova grande unità di metallo, che tuttavia non gli sopravvisse a lungo. Dopo che dal 364 al 378 non era stata coniata che una piccola moneta di rame di ca. 2,3 g., l'imperatore GRAZIANO introdusse nuo­ vamente nel 379 una unità piu pesante (ca. 4,8 g., REPARATIO REI PVB(licae). Negli ultimi venti anni del secolo la circolazione del denaro fu caratterizza­ ta da piccole monete di rame (vd. tav. f.t., no 48) del peso di poco piu di un grammo. Queste piccole monete furono fabbricate in massa anche nel V se­ colo, sia nell'impero romano occidentale che in quello orientale. Verso la fi­ ne del V secolo solo gli effimeri imperi germanici d'Mrica settentrionale e d'Italia coniarono di nuovo unità in bronzo piu grandi. La riforma moneta­ ria dell'imperatore bizantino ANASTASIO, condotta a cavallo fra il V e il VI sec., riordinò radicalmente la coniazione in rame. Per la descrizione delle unità in metallo tardo romane vengono oggi utilizzati no­ mi antichi come maiorina e centenionalis, peraltro da non porre in sicura relazione con queste monete. Si è affermato un semplice sistema che conserva la grandezza relati­ va delle monete: aes I (grande), aes 2, aes 3, e aes 4 (molto piccolo).

3.2.4. Zecche e organizzazione della coniazione Mentre la coniazione in metallo della prima età imperiale è senza dubbio localizzata a Roma, l'identificazione dei luoghi nei quali si coniava metallo prezioso rappresenta un oggetto di ricerca controverso. Augusto fece conia­ re sia a Roma (magistrati monetali) che soprattutto a Lugdunum [Lione], dove aveva istituito nel 15 a.C. una zecca. Non è chiaro se Lugdunum sia ri­ masta nei secoli seguenti l'unica zecca imperiale nella quale si coniavano oro e argento, e quando (sotto Caligola o sotto Nerone?) la coniazione di metal­ li preziosi fu trasferita a Roma. Probabilmente in seguito ai danni arrecati da un incendio nell'So sul Campidoglio e sulla rocca (arx), Domiziano (81-96) fece spostare la zecca di Roma dalla rocca alla conca valliva fra l'Esquilino e il Celio (Coarelli 1994). In questo quartiere di Roma, la moneta non è localizzata solamente da tardi elenchi regionali; qui, presso la chiesa di San Clemente, fu trovata anche una serie di iscrizioni votive dell'età di Traiano (98-117), che erano state commis­ sionate da membri della zecca (Alfoldi 1958-1959). Infine poco tempo fa è 901

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stato possibile identificare un frammento della forma urbis, comprendente una parte della pianta di un impianto indicato con MON(eta), con i resti di un esteso complesso di edifici dell'età imperiale situato sotto la chiesa di San Clemente. Le iscrizioni traianee testimoniano una serie di diverse cariche all'interno della Jamilia monetalis. Per il processo di coniatura sembrano essere stati com­ petenti il signator, il suppostor e il malliator. Il malliator batteva col martello sul­ la matrice superiore, sotto la quale il suppostor aveva messo il tondello, e il si­ gnator, da parte sua, si occupava dei coni, della loro scelta, del loro stato, del loro allineamento. Entrambi i coni, sui quali erano incisi specularmente il DI e il Rl della moneta, venivano tagliati dagli scalptores. Il conio superiore ­ il cosiddetto conio di martello - era mobile, quello inferiore era inserito in una incudine (conio d'incudine). Altri professionisti si occupavano della fu­ sione del metallo da conio, della produzione della lega, della colata e della preparazione del tondello, della prova delle monete, della contabilità, del conteggio e del confezionamento delle monete coniate. La zecca era suddivisa in piu sottosezioni, le officinae, che facilitavano l'organizzazione e il controllo del processo di coniazione. Il numero delle officine può essere ricavato in parte, per il I e il II secolo, dai tipi di rove­ sci. Per la prima volta sotto FILIPPO L'ARABo (244-249) le officine firmaro­ no sui timbri del Rl (P, S, T, ecc., per prima, secunda, tertia officina, vd. tav. f.t., ni 38 e 39). Con l'istituzione di nuove zecche imperiali in Italia e nelle province, dalla seconda metà del III secolo, divenne consueto caratterizza­ re i rovesci dei timbri a secondo della zecca di origine, per esempio ANT, 'Antiochia'; AQ, 'Aquileia' (vd. tav. f.t., no 44); CONIS, 'Costantinopoli'; K, 'Cizico'; LVG, 'Lugdunum (Lione]' (vd. tav. f.t., no 46); SIS, 'Siscia' (vd. tav. f.t., ni 43 e 48) ; T, 'Ticinum [Pavia]' (vd. tav. f.t., no 38); TR, 'Treviri' (vd. tav. f.t., ni 39, 41, 45). Un procurator monetae, nominato dall'imperatore, dirigeva la zecca. Questa carica, testimoniata per iscritto solo in età traianea e per l'ultima volta intorno al 400 d.C., era rivestita di norma da appartenenti all'ordine equestre. La carica del procurator mo­ netae era subordinata al "ministro delle finanze" (a rationibus, dalla metà del IV secolo comes sacrarum largitionum). Non chiarito rimane il rapporto fra il procurator monetae e i

tresviri moneta/es.

La carica tradizionale del magistrato monetale continuò a esistere fino al­ la metà del III secolo circa, anche se i suoi compiti e le sue competenze re­ stano oscuri. 902

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Condizione essenziale per la coniazione di monete era la disponibilità di metallo. Ricchi giacimenti minerari si trovavano nella penisola iberica, dove furono estratti oro, argento e rame. C'erano altre miniere, per esempio, nel Norico, in Illiria e in Dacia. Le miniere erano di norma parte del patrimonio dell'imperatore. Non molto tempo fa sono state trovate in Carinzia (Austria) due forme per colata di barre d'oro. Iscrizioni incassate specularmente nel terreno dichiarano Caligola proprietario del giacimento aurifero norico (PiccoTTINI 1994).

3.2.5. Le tffigi delle monete

Nelle zecche dell'impero romano vennero coniate migliaia di tipi mone­ tali diversi. Questo repertorio figurativo non è superato per ampiezza, den­ sità e completezza di documentazione da nessun altro genere di fonte anti­ ca. Analizzare i messaggi delle figure nel loro contesto storico presuppone certamente la comprensione del linguaggio figurativo delle monete romane che, in tutte le sue caratteristiche tipiche del genere, è parte del linguaggio figurativo dell'arte di rappresentanza dell'età imperiale. Ne siamo ancora molto lontani, nonostante alcuni inizi molto promettenti e qualche risultato SlCUro. Sulla maggior parte dei tipi monetali sono presenti il ritratto dell'impera­ tore e la relativa leggenda, che spesso ne cita il nome e il titolo. I.:immagine dell'imperatore ne testimonia il potere, è un segno della sua autorità (vd. tav. f.t., ni 19 e 21) e fa capire chi è che "parla". Dal I sec. fino alla fine del IV si possono notare delle importanti trasformazioni nella realizzazione del ritrat­ to dell'imperatore, nella fisionomia, nella foggia dei capelli, nella direzione dello sguardo, nel portamento del capo, nella corona, negli abiti e nelle inse­ gne. Tra un'immagine di Augusto (vd. tav. f.t., no 19) e una di Teodosio I (vd. tav. f.t., no 44) si riscontrano, al di là delle divergenze stilistiche, delle pro­ fonde differenze, che sono espressione del mutato modo di concepire la so­ vranità imperiale. Al ritratto imperiale, che normalmente occupava il diritto delle monete, si aggiunse la corrispondente immagine sul rovescio, che nella sua piu libe­ ra elaborazione formale dava la possibilità di formulare messaggi. Si distin­ guono figure singole, gruppi di figure, edifici, ma anche elementi tratti dal­ la "natura", per esempio acque, e inoltre insegne, attributi e simboli. A ciò si aggiungeva la scritta, che poteva completare o precisare l'immagine. Dal­ l'unione di questi elementi formali si sviluppò un linguaggio figurativo ca­ ratteristico che era in grado di esprimere fatti concreti e atti simbolici, cosi 903

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come concetti astratti. La suddivisione della grande quantità di metallo da coniare in diversi tipi di rovesci, impartita dall'organizzazione della conia­ zione di monete, permise inoltre di differenziare i messaggi con effigi com­ plementari. La tematica centrale delle effigi è rappresentata dall'imperatore, dalla sua autorità e dalla sua legittimazione, che si fondavano sulla sua nascita/prove­ nienza e sulle sue gesta. Le figure trattano di lui, dell'imperatrice, degli ante­ nati, dei figli ma anche delle classiche virru del sovrano (vd. tav. f.t., no 20), come la virtus, la clementia, la iustitia (aequitas), la pietas, ecc. Queste virru pos­ sono essere rappresentate attraverso immagini di azioni - per esempio, l'im­ peratore mentre compie sacrifici (pietas), come dominatore dei barbari (vir­ tus), mentre elargisce denaro (liberalitas) - o attraverso personificazioni corri­ spondenti. l:imperatore si presenta come trionfatore e dominatore del mon­ do, cosi come pacator o meglio restitutor orbis terrarum. Viene ritratto mentre insedia re vassalli, accetta la sottomissione di popolazioni straniere, parla alle truppe (adlocutio), si mette in marcia (profectio) e ritorna vittorioso (adventus). Nel corso del IV secolo acquista importanza la raffigurazione dell'imperato­ re sul trono, in lussuose vesti ufficiali e con le proprie insegne (vd. tav. f.t., ni 40, 41, 43). Il repertorio di personificazioni di concetti astratti, già formatosi in età re­ pubblicana, continuò a svilupparsi in età imperiale: erano in uso, per nomi­ narne solo qualcuna, Constantia, Concordia, Felicitas, Fides, Fortuna, Honos, Laeti­ tia, Libertas, Pax, Providentia, Salus, Securitas, Spes, Victoria, ecc. Questo sistema era in grado di rappresentare figurativamente un evento eccezionale come l'abdicazione degli imperatori Diocleziano e Massimiano Erculeo nel 305 at­ traverso la personificazione della quiete ( Quies, vd. tav. f. t., no 38). Le effigi testimoniano anche l'espansione dell'impero romano (AEGYP­ TO CAPTA, GERMANIA CAPTA, e altri), cosi come, attraverso la personifi­ cazione delle province, viene tratteggiata la sua grandezza. Molte monete presentano le immagini delle principali divinità di Stato, Giove Ottimo Mas­ simo, Giunone, Minerva, Vesta, Marte, ecc., sia in forma di statua, ovvero di immagine di culto, che attraverso il tempio corrispondente. Leggende espli­ cative stabiliscono in ogni caso un rapporto con l'azione dell'imperatore, co­ me per esempio Marte vittorioso, Minerva pacifera. Messaggi precisi sono rappresentati da simboli. Due mani destre intreccia­ te (dextrarum iunctio) per esempio potevano significare concordia tra l'impera­ tore e l'esercito ovvero tra piu sovrani, o ancora fldes tra l'esercito e l'impera-

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tore. Sulla base delle monete si può seguire bene anche la diffusione del mo­ nogramma di Cristo Chi-Rho. Esso apparve per la prima volta sull'elmo di Costantino, su un grande pezzo d'argento coniato nel 315 d.C., e successiva­ mente diviene un simbolo utilizzato spesso, soprattutto sullo stendardo del­ l'imperatore (labarum, vd. tav. f.t., no 43). La mano di Dio, un altro simbolo importante, è per la prima volta documentata su monete in relazione con la "divinizzazione" di Costantino. A chi si rivolgevano queste effigi monetarie? Ci sono molteplici risposte a questa domanda. Per alcuni tipi monetari, sulla scorta della concordanza fra la funzione della moneta e il messaggio dell'immagine, crediamo di poter capire quale fosse il tipo di "pubblico": per esempio, la guardia pretoriana o alcuni reparti dell'esercito che, avendo facilitato l'ascesa al potere di molti imperatori, venivano per ciò da questi premiati con ingenti somme di dena­ ro. Altri tipi monetari si rivolgono alla plebs urbana, singoli tipi invece a sena­ tori e a cavalieri. La maggior parte però sfugge a una chiara attribuzione, al­ meno allo stato attuale delle conoscenze; sembrano essere piuttosto delle di­ chiarazioni generali, autorappresentazione dell'idea "imperiale". 3.2.6. Funzione e significato della coniazione di monete in epoca imperiale Risulta difficile valutare che importanza ricoprisse il denaro in moneta nella vita quotidiana dell'età imperiale. Oggi negli scavi di insediamenti civi­ li e militari vengono ritrovate soprattutto monete metalliche. Monete in ar­ gento e oro, che a causa del loro valore venivano difficilmente perdute, sono state ritrovate principalmente come parti di tesori. Solo in casi particolari di­ venta possibile comprendere l'uso del denaro in moneta nel suo complesso: è il caso ad esempio di Pompei, dove la vita si è "fermata", a causa dell'eru­ zione del Vesuvio, al 24 agosto del 79 d.C. (Breglia 1950). I dati finora in no­ stro possesso sulle monete e sulle testimonianze scritte indicano che le mo­ nete a Pompei erano utilizzate in tutte le diverse funzioni di denaro accen­ nate nell'introduzione, anche come mezzo di pagamento e di scambio nella vita quotidiana degli abitanti. Tuttavia il grado di monetarizzazione sembra essere stato relativamente profondo persino in un insediamento con una lunga tradizione urbana: una constatazione ancora piu valida per la maggior parte degli insediamenti nelle province. Oltre alle monete sono sempre sta­ te utilizzate anche altre forme di denaro, ovvero altre forme di pagamento. Le monete in età imperiale sono state messe in circolazione in genere nel-

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A R C HE O L O G I A E S T O RI A D E L L ' ARTE A R O M A

la forma di pagamenti statali. Le uscite dello Stato romano erano costituite dalle spese per il sostentamento dell'esercito, da quelle per le costruzioni pubbliche, per l'amministrazione, per elargizioni e pagamenti straordinari, ecc. Dalla parte delle entrate vi erano tasse, tributi e altro ancora. Dal mo­ mento che né le entrate né le uscite erano costituite unicamente da denaro sotto forma di moneta, risulta oggi difficile farsi un'idea dei valori comples­ sivi a cui queste ammontavano. Le grandi disposizioni dei pagamenti in de­ naro sotto forma di moneta non sono in grado di precisare nemmeno il tipo di moneta, giacché in esse si riesce appena a differenziare il ruolo che vi svol­ gevano le monete "vecchie" e quello delle monete fresche di conio. Attra­ verso il nominale coniato (oro, argento, oricalco, rame) e il volume di conia­ zione da interpolare, risulta tuttavia evidente che i pagamenti statali veniva­ no effettuati soprattutto in valori elevati, cioè in metalli preziosi. Lo Stato ro­ mano accettava tasse e tributi in oro e in argento. Le monete metalliche ri­ vestirono sempre un'importanza minore, anche se le monete in questione, ad esempio le monete di rame tardoromane, sono state coniate in quantità enorm1. BREVE BIBLIOGRAFIA SULLA NUMISMATICA ROMANA DIZIONARI. J.M. JoNES, A Dictionary of Ancient Roman Coins, London 1990; F. voN ScHRòTTER (a cura di), Worterbuch der Miinzkunde, Berlin-Leipzig 1930. NuMISMATICA ANTICA (INTRODUZIONI E MANUALI). M.R.-ALFÒ LDI , Antike Numisma­ tik, 1. Theorie und Praxis, Mainz 1978, 2. Bibliographie, ivi 19822; K. CHRIST, Antike Numi­ smatik. Einfiihrung und Bibliographie, Darmstadt 19913; R. GòBL, Antike Numismatik, 2 voll., Mi.inchen 1978; [G.G. BELLONI, La moneta romana, Roma 1993; A. SAVIO, Monete romane, ivi 2001]. NuMISMATICA ROMANA (INTRODUZIONI E MANUALI). A. BuRNETT, Coinage in the Ro­ man World, London 1987; K. BuTCHER. Roman Provincia/ Coins. An Introduction to the "Greek Imperials", ivi 1988; R.A.G. CARSO N, Coins oJ the Roman Empire, London-New York 1990; R. GòBL, Einfiihrung in die Miinzkunde der romischen Kaiserzeit, Wien 19602; C.H.V. SuTHERLAND, Miinzen der Romer, Mi.inchen-Freiburg 1974· ETÀ REPUBBLICANA. A.M. BuRNETT, The Authority to Coin in the Late Republic and Early Empire, in , 39 1958-1959, pp. 35-48; J. ANDREAU, Recherches récentes sur /es mines à l'épo­ que romaine, in Revue numismatique 31 1989, pp. 86-112; F. DE CALLATAY, Calcula­ ting Ancient Coin production. Seeking a Ba/ance, in The Numismatic Chronicle 1>, 155 1995, pp. 289-311; G. PICCOTTINI, Gold und Kristall am Magdalensberg, in