Intercultura. Report sul futuro 8831104209, 9788831104203

Solo da pochi decenni, per effetto dell'immigrazione e della globalizzazione, la società italiana sta sperimentando

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Italian Pages 216 Year 2012

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Intercultura. Report sul futuro
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Introduzione

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fondamenti dell’educare collana diretta da Ezio Aceti, Michele De Beni, Giuseppe Milan

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E - percorsi La collana intende proporre qualificati contributi sull’educazione intesa come esperienza fondamentale e costitutiva del singolo e della comunità. Per comprenderne la profondità, la complessità e la problematicità è necessario adottare una prospettiva interdisciplinare, che attinga alle diverse scienze della formazione e sappia nel contempo – attraverso il ricorso all’autentico approccio pedagogico – recuperare il senso dell’unità e dell’integralità del fatto educativo. La collana si suddivide in due sezioni: l’una orientata a chiarire teoreticamente i «fondamenti dell’educare», con particolare attenzione alle nuove metodologie; l’altra più interessata alla dimensione pragmatica dell’«esperienza dell’educare», dedita perciò soprattutto a proporre significativi strumenti che siano supporti utili e stimolanti agli educatori in genere (genitori, insegnanti, animatori, educatori professionali, operatori sociali, ecc.).

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Introduzione

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Anna Granata (ed.)

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report sul futuro

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Introduzione

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Un grazie vivissimo a quanti, nelle diverse fasi di preparazione del testo, hanno donato il loro generoso contributo di idee e suggerimenti, in particolare alla dott. Francesco Châtel e alla dott.ssa Sara Mastrotto. Sono debitore a tutti quegli studiosi che, lungo gli anni, mi hanno aperto allo sconfinato, meraviglioso mondo della cultura e della scienza educativa. Ma, soprattutto, a tutti quei genitori e insegnanti, veri maestri di vita, ogni giorno appassionati testimoni dell’educazione. Un grazie speciale a mia moglie Letizia per la delicata e saggia collaborazione.

Grafica di copertina di Rossana Quarta © 2012, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0420-3 Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via Pieve Torina, 55 00156 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Introduzione

la rivoluzione pluralista

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Anna Granata

«C’è un’unità umana. C’è una diversità umana»1, scrive Edgar Morin nel suo libro sul tema dell’identità. Parliamo, infatti, dell’intelligenza umana, ma la concepiamo soltanto attraverso singole forme di intelligenza molto diverse tra loro. Parliamo del linguaggio, che accomuna gli uomini, ma che si esprime in lingue e alfabeti distanti tra loro. Parliamo della società, ma per dare concretezza al concetto dobbiamo fare riferimento a società collocate storicamente e geograficamente. Parliamo anche dell’idea di cultura, che è possibile però circostanziare solo attraverso singole culture, anzi, attraverso il modo in cui le persone incarnano e veicolano quelle stesse culture che altrimenti ci paiono del tutto astratte. Ci dice sempre Morin che coloro che vedono la diversità delle culture tendono a minimizzare l’unità umana, mentre coloro che vedono l’unità umana tendono a considerare come secondaria la diversità delle culture. Tenere insieme unità umana e diversità delle culture: è questo il presupposto teorico da cui prende le mosse questo libro. Non è possibile infatti parlare di intercultura senza considerare il valore della diversità di approcci e contesti culturali distinti, e allo stesso tempo non è possibile parlare di intercultura senza avere come sfondo la comune esperienza umana. L’incontro tra persone di culture diverse richiama necessariamente un’idea di unità (la condivisione di un contesto, di una prospettiva, di un codice comunicativo) e al contempo un’idea di diversità (la diversa origine, la biografia, il sistema di valori di riferimento).

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E. Morin, Il metodo, 5. L’identità umana, Raffaello Cortina, Milano 2002.

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L’approccio interculturale si tiene in equilibrio tra queste due dimensioni, cercando di non trascurarne nessuna. Non ha tanto lo scopo di andare a vedere cosa accade dentro le singole culture, che difficilmente si caratterizzano per compattezza e coerenza, ma piuttosto di andare a vedere «quanto accade fra culture che risultano assai più sfumate e sfrangiate di quanto immagineremmo»2. Al termine “pluralismo culturale” siamo abituati, istintivamente, ad attribuire un’immagine negativa. Il moltiplicarsi delle idee, degli stili di vita, delle appartenenze, sollecita un senso di incertezza che mette a disagio e destabilizza. Per diretta conseguenza, l’eterogeneità che caratterizza i contesti educativi viene considerata quasi sempre come un handicap, un problema, e in certi casi addirittura la fonte principale della loro disfunzione. Nella società italiana, in particolare, siamo ancora ancorati a una forte tradizione di omogeneizzazione, per cui la differenza (culturale o di altra natura) viene letta come elemento di disturbo che interrompe una presunta quiete precedente. È forse questo uno dei motivi forti per cui la società italiana fatica ancora ad accettare di essere divenuta una società multiculturale e multireligiosa, al pari di altri Paesi europei. Scopo di questo libro è contribuire a diffondere l’idea che la pluralità è oggi la norma entro la nostra società, mentre l’omogeneità è una forma di coercizione che rischia di annullare le differenze e silenziare le voci fuori dal coro. Questa infatti è, in estrema sintesi, la “rivoluzione copernicana” introdotta dall’approccio interculturale3. Un approccio che si è prestato talvolta a letture ideologiche e semplificanti, ma che ha ormai alle spalle una solida tradizione di ricerca4. 2 D. Zoletto, Il gioco duro dell’integrazione. L’intercultura sui campi da gioco, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 68. 3 Cf. M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, Presses universitaires françaises, Paris 2011 (ed. or. 1999). 4 Cf. C. Camilleri - M. Cohen Emerique, Chocs de cultures: concepts et enjeux pratiques de l’interculturel, L’Harmattan, Paris 1989; C. Camilleri - G. Vinsonneau, Psychologie et cultures: concepts et methods, Colin, Paris 1996; C. Clanet, L’interculturel: introduction aux approches interculturelles en éducation et en sciences humaines, Presses Universitaires de Mirail, Toulouse 1990; F. Lorcerie, L’école et le défi ethnique, ESF-INRP, Paris 2003; F. Ouellet, L’éducation interculturelle. Essai sur le contenu de la formation des maîtres, L’Harmattan, Paris, 1991; M. AbdallahPretceille, L’education interculturelle, Presses universitaires françaises, Paris 2011

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Cultura, campo d’azione aperto Ci si trova, non di rado, a leggere parole e gesti di altre persone, così come a interpretare scelte e atteggiamenti di gruppi cui non apparteniamo, come il risultato, diretto e indiscutibile, di una determinata “cultura”. Quasi che le culture fossero costrutti rigidi e definiti, costituiti da elementi e caratteristiche facilmente enumerabili. La realtà è tuttavia molto più complessa, e ce ne rendiamo subito conto nel momento in cui tentiamo di dare noi stessi una definizione chiara e precisa della cultura nella quale siamo cresciuti. All’interno di questo volume cerchiamo di indagare come le culture si esprimono “in situazione”, così come è tipico dell’approccio della pedagogia interculturale5. Spesso, infatti, tra le definizioni teoriche della cultura, e delle culture particolari, e la loro messa in atto nella pratica quotidiana, esiste una profonda distanza ed è proprio questa distanza che la pedagogia interculturale prova a colmare. Utilizzare la cultura come concetto operativo permette di evitare di ridurla a essenza, a concetto statico e omogeneo, come quando si parla di “cultura africana” come fosse un monolite riferito a un intero continente caratterizzato da esperienze, storie, tradizioni difficilmente paragonabili tra loro. O come quando sentiamo parlare della “cultura cinese”, paragonando l’esperienza di un anziano contadino della campagna dello Zhechang a quella di una giovane studentessa giunta in Europa da Hong Kong, o a quella di un discendente di una famiglia cinese che vive negli Stati Uniti da generazioni. O come quando, nelle pagine di cronaca dei nostri giornali, si descrivono comportamenti devianti di singole persone come il frutto della loro cultura, ora marocchina, albanese, romena, anziché l’esito di storie individuali, esperienze contingenti, fragilità maturate indipendentemente dal contesto di provenienza. (ed. or. 1999). Nel contesto italiano, cf. F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive di pedagogia interculturale, Roma, Carocci 2006; G. Favaro - M. Napoli, Ragazze e ragazzi nella migrazione. Adolescenti stranieri: identità, racconti, progetti, Guerini Studio, Milano 2004; F. Pinto Minerva, L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2007; M. Santerini, Intercultura, La Scuola, Brescia 2003. 5 C. Camilleri - M. Cohen-Emerique, Chocs de cultures, cit.

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Le culture sono realtà dinamiche e in perenne mutamento, influenzate da esperienze e contatti tra persone con origini diverse, declinate in maniere diversificate in base all’età, all’identità di genere, al vissuto e ad altre numerose dimensioni di chi le incarna. L’identità stessa delle persone, di cui la cultura è una componente fondamentale, è mutabile. Come sostiene infatti Martine AbdallahPretceille: [L’identità] non è una categoria stabile, ma è soprattutto una dinamica, una costruzione permanente, che è fonte di adattamenti, di contraddizioni, di conflitti, di manipolazioni e disfunzioni. […] Non è quindi più sufficiente conoscere o apprendere a conoscere l’altro a partire da un’identità unica o omogenea, ma [occorre] piuttosto apprendere a riconoscerlo6.

Il termine “riconoscimento” è una delle parole-chiave dell’intercultura. Riconoscere l’altro è qualcosa di molto diverso dal categorizzare le identità entro sistemi rigidi e impermeabili. Riconoscere l’altro significa considerare la sua complessità, la fluidità della sua identità, che è sempre “in ricerca” potremmo dire, in dialogo con una cultura ricevuta dalla generazione precedente, rivista e reinterpretata in chiave personale e in dialogo col contesto in cui si trova a vivere. Cultura e identità, continua ancora Abdallah-Pretceille, si declinano ormai sempre di più al plurale, ed è di questa pluralità che si occupa la pedagogia interculturale, poiché è diventata la norma nel mondo globalizzato. I tentativi di ridurre l’identità delle persone a una sola dimensione sono tuttavia continui, nel contesto quotidiano, in quello mediatico, e non di rado anche nell’ambito della ricerca sociale: un’opera di semplificazione che porta a guardare in maniera sommaria gli individui e a “miniaturizzarli” nella gabbia di un’unica e vincolante dimensione, ora la cultura ora la religione ora un altro aspetto, come sostiene Amartya Sen7. Questo approccio miniaturizzante, seppure sia in parte l’esito della naturale tendenza dell’uomo a orientarsi nella realtà che è complessa, risulta del tutto inefficace nel contesto attuale in cui le identità sono sempre più sfumate, intrecciate tra loro, “si dialettalizzano”8 e sono quindi 6 7 8

M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, cit., p. 15. A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. F. Cambi, Incontro e dialogo, cit.

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anche più difficili da cogliere nella loro completezza e dinamicità. Oggi, più che in ogni tempo, è avvertita l’esigenza di un riconoscimento delle identità che tenga conto di tale complessità intrinseca. La pluralità delle appartenenze caratterizza la condizione della maggior parte delle persone in un mondo che risulta globalizzato e interdipendente. L’attenzione si dovrebbe quindi spostare da un concetto di cultura singolare e statico, a un concetto più ampio e sfumato, sostituendo il termine “cultura” con quello di “tratti culturali”9 o “formule culturali”10, due espressioni affini che permettono di leggere l’esperienza culturale delle persone come un insieme di vari fattori, intrecciati tra loro, che danno vita a una sintesi unica e irripetibile, oltre che fluida e dinamica. Così che la cultura italiana di cui si fa portatore oggi un teenager ha dei tratti specifici diversi da quelli di sua nonna, nata e cresciuta nel dopoguerra. E la formula culturale di un uomo nato e vissuto a Palermo, da una famiglia cattolica, è probabilmente molto diversa da quella elaborata da una donna ebrea, discendente di una famiglia ucraina, nata e cresciuta a Venezia. L’espressione “formula culturale” ci permette in modo particolare di comprendere come ciascun uomo o donna di questo mondo interpreti a proprio modo il bagaglio culturale ricevuto e modifichi, nonostante alcuni fondamentali elementi di continuità, significati e valori lungo il corso della propria vita. La cultura non è un destino, ma piuttosto un campo d’azione sempre aperto: il luogo, personale, della «messa in scena di sé», per riprendere un’efficace e sempre attuale espressione di Erving Goffman11. Nella relazione con l’altro, il soggetto mette in scena significati e valori della propria cultura e li mette in dialogo con quelli del proprio interlocutore, uscendo trasformato da questa esperienza di condivisione che caratterizza la quotidianità dell’incontro tra persone. È in questo modo che i tratti culturali di ognuno di noi vengono messi in gioco, utilizzati, modificati, rinnovati nell’interazione tra persone che appartengono a contesti culturali diversi fra loro. 9 10 11

Cf. M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, cit. Cf. F. Ouellet, L’éducation interculturelle, cit. E. Goffman, Espressione e identità: gioco, ruolo, teatralità, il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. 1956).

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La definizione stessa di cultura nasce quindi dalla concezione secondo cui l’uomo, per vivere, necessita di un’appropriazione simbolica, oltre che materiale, della realtà. Le culture, infatti, rappresentano modi diversi di appropriarsi del mondo, distinti dall’appropriazione materiale del reale. Da questa concezione deriva una teoria della cultura come «universo condiviso di significati»12 e allo stesso tempo una teoria dell’identità che non può prescindere dal concetto di alterità e dalla possibilità di interazione tra le persone. La coscienza dell’identità, così come quella della cultura, è infatti quella di un rapporto, come sostiene Simard: L’identità è prima di tutto un’alterità percepita. Un gruppo ci appare diverso da noi perché siamo diversi da lui. Così, il confronto con l’altro è generatore di una doppia polarità di identificazione: differenza dell’osservatore, differenza del gruppo osservato. L’uno e l’altro sono indissociabili come la faccia concava e quella convessa di uno specchio, perché la coscienza dell’identità è quella di un rapporto13.

L’identità è, poi, prima di tutto un progetto, sia essa identità individuale o collettiva, spiega sempre Simard. Un progetto, potremmo aggiungere, che varia nel tempo con movimenti di identificazione e alterazione rispetto al modello ricevuto. A questo proposito Camilleri, tra i fondatori della pedagogia interculturale, parla di “cultura promozionale”, a cui si associa una particolare idea di “uomo colto”: «L’uomo colto è colui […] che non si accontenta di ciò che ha ricevuto dai suoi genitori e dal suo ambiente, e da ciò che la sua condizione sociale o il suo stato fanno di lui, ma che, per i suoi propri sforzi, tenta deliberatamente di emanciparsi, di formare la sua sensibilità e il suo spirito»14. A partire da questa concezione, Simard vede la nascita di una vera e propria rivoluzione, la “rivoluzione pluralista”, che tiene in sé nel concetto di cultura anche le eresie, le devianze, le innovazioni e le trasgressioni del pensiero critico. Per sintetizzare si potrebbe dire che 12 13

C. Camilleri - M. Cohen-Emerique, Chocs de cultures, cit. J.-L. Simard, Autour de l’idée de nation. Appropriation symbolique, appropriation matérielle, socialité et identité, in Nation, souveraineté et droits, Actes du IVe colloque interdisciplinaire de la Société de philosophie du Québec: la question nationale, Bellarmin, Montréal 1980, pp. 11-47. 14 C. Camilleri, Anthropologie culturelle et éducation, Unesco, Paris 1985, p. 25.

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la rivoluzione pluralista considera l’individuo come un soggetto attivo all’interno della propria cultura, in grado di mutarla, di rinnovarla, di aggiornarla, perché sopravviva al passare del tempo.

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Dal multiculturale all’interculturale I termini “multiculturale” e “interculturale” tendono spesso, nel linguaggio comune, a essere utilizzati in maniera interscambiabile. In realtà alludono a due paradigmi profondamente diversi e per molti aspetti in contrasto tra loro. Se il primo tende a “fotografare” la realtà, ovvero a descrivere la presenza di più approcci culturali entro uno stesso contesto (per cui si parla ad esempio di “società multiculturale”), il secondo individua un elemento di risorsa in questa stessa pluralità e si concentra sugli scambi che possono avvenire tra persone di culture diverse (per cui si parla ad esempio di “relazioni interculturali”). Da questo secondo approccio, come vedremo nelle prossime pagine, può derivare una riflessione più specificamente educativa che faccia della pluralità un terreno fertile per la crescita e lo sviluppo della persona. Per avviare una riflessione sull’intercultura non si può prescindere tuttavia da un’analisi, seppure sintetica, dell’approccio multiculturale, con il quale essa si confronta costantemente, anche solo per distinzione. Il multiculturalismo nasce negli Stati Uniti intorno agli anni Sessanta e viene associato alla lotta per i diritti delle minoranze e alla politica migratoria del melting-pot, secondo cui è necessario integrare i migranti di qualsiasi origine entro una stessa cultura, quella del Paese d’adozione. Il multiculturalismo si basa su alcuni principi e postulati che possiamo sintetizzare in questo modo: – il comportamento di un individuo si legge come il risultato diretto dell’appartenenza al gruppo e per questo motivo viene accordata molta importanza ai gruppi e alle comunità, con i loro valori e le loro istanze; – ogni gruppo ha diritto ad avere un proprio spazio di collocazione ed espressione (che si realizza, a volte, attraverso forme di ghetti);

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– ogni gruppo deve essere tutelato nei propri diritti, con regole precise, politiche mirate ed eventuali interventi di «discriminazione positiva»15 nei confronti dei gruppi più emarginati; – un approccio etnocentrico deve lasciare spazio ad un approccio basato sul relativismo culturale, che considera la pari dignità di tutte le culture di cui i diversi gruppi si fanno portatori; – le differenze culturali e religiose possono essere espresse nello spazio pubblico, nella misura in cui ciascun individuo può dichiarare agli altri la propria appartenenza16. L’approccio multiculturale declina i suoi principi in ambito educativo e scolastico in particolare, ponendo forte attenzione ai diritti di tutti gli alunni, alle istanze dei diversi gruppi, in sintesi, alle differenze più che alle somiglianze. Un approccio di questo tipo, basato su assunti per molti aspetti condivisibili (come la tutela dei diritti, il riconoscimento delle differenze, l’attenzione ai gruppi marginali, ecc.), rischia però di accentuare il peso dei tratti culturali, segnare confini netti tra le diverse appartenenze e favorire così l’insorgere di comportamenti di esclusione e discriminazione. Le differenze si trasformano facilmente in disuguaglianze, creando una gerarchia tra i diversi “gruppi” e dando vita a fenomeni di stereotipia e pregiudizio che possono sfociare in forme di «razzismo culturale»17. Allo stesso tempo, l’approccio multiculturale rischia di limitare i processi di mobilità sociale, condannando l’individuo a un destino segnato, quello del proprio gruppo, senza prevedere la possibilità di mutazioni, cambiamenti, tradimenti, innovazioni nelle scelte personali della persona. Entro categorie così stagliate faticano a collocarsi tutti gli “ibridi”, i “meticci”, gli individui dalle appartenenze plurali, che costituiscono la stragrande maggioranza dei cittadini del mondo, che si possono sentire ad un tempo inglesi e pakistani, francesi e musulmani, afroamericani e buddisti, ebrei italiani di origine iraniana, con un gra15 Cf. P. Le Tréhondat - P. Siberstein, Vive la discrimination positive! Plaidoyer pour une république des égaux, Syllepse, Paris 2004. 16 M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, cit. 17 M. Wieviorka, Il razzismo, Laterza, Roma-Bari 2000.

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do di varietà nella definizione di sé continuamente crescente nell’era della globalizzazione. Non si riconosce, in sintesi, l’importanza che ha l’individuo all’interno del gruppo, il suo modo unico e particolare di interpretare la propria appartenenza e di gestire le proprie differenze, accordando alla variabile di gruppo un peso che rischia di opprimere e svalutare le specificità individuali. Entro questo paradigma la cultura assume un grande rilievo, forse maggiore rispetto alle sue possibilità di influenza. Si parla per questo di “approccio culturalista”, che attribuisce le cause di scelte e atteggiamenti a variabili culturali e prevede l’accentuazione sistematica ed esclusiva della dimensione culturale nella spiegazione delle pratiche sociali ed educative18. Per ovviare a queste critiche, e alle altre numerose che sono state rivolte all’approccio multiculturale nel corso dei decenni, sono stati introdotti alcuni aggiustamenti: la presa in considerazione di tutte le minoranze (non solo culturali, ma anche religiose, sessuali, ecc.), la valorizzazione del ruolo degli individui e non solo dei gruppi, la considerazione di ciò che accomuna gli esseri umani secondo un approccio universalista e la riaffermazione dei valori comuni. Nonostante questi elementi di cambiamento, l’approccio multiculturale continua a risentire di una visione fortemente relativista che non favorisce certamente l’incontro e la comprensione, nonché la convivenza, tra persone di culture diverse. Questo è invece lo scopo principale dell’approccio interculturale.

Intercultura, arte di incontrarsi Il termine “interculturale” appare in Francia nel 1975 non a caso in ambito scolastico: un approccio che si è imposto a partire da contesti concreti, di “campo”, che gli hanno conferito uno stile operativo e fortemente legato a un approccio educativo.

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I primi studi interculturali risalgono agli anni Ottanta19 e si concentrano sulla possibilità di favorire relazioni efficaci e profonde tra persone che appartengono a culture diverse. Il prefisso inter, come suggerisce Franca Pinto Minerva, pone in primo piano l’aspetto di “relazione” e di “reciprocità” come elemento fondante dell’intercultura e descrive così l’incontro interculturale come un «terreno fecondo di negoziazione e di scambio», da cui possono nascere nuove idee e progettualità. Con un semplice prefisso, si sottolinea però l’esigenza di superare una logica “mono-culturale” per riconoscere e praticare in campo educativo le dimensioni del confronto e dell’arricchimento reciproco20. Non a caso l’approccio interculturale nasce in Francia entro la tradizione filosofica, storica e giuridica che riporta al centro l’individuo, con le sue caratteristiche, le sue istanze, le sue percezioni non interamente riconducibili alla sua collocazione in un determinato gruppo, come era tipico dell’approccio multiculturale anglosassone. L’approccio interculturale non riconosce però soltanto l’esistenza di un “io” (il famoso “ritorno dell’io” o “ritorno dell’attore”), ma riconosce anche la presenza del “tu”, e pone la sua attenzione alla dimensione della relazione: «il prefisso “inter” nel mondo interculturale rinvia al modo in cui […] si vede, si percepisce e ci si presenta all’altro. Questa percezione non dipende dalle caratteristiche dell’altro o dalle mie, ma dalle relazioni intrattenute tra me e l’altro»21. Non esistono, potremmo dire, culture che si incontrano, secondo l’approccio interculturale. Ma esistono solo persone di diverse culture che stabiliscono tra loro una comunicazione: è la relazione con l’altro che conta, e non la relazione con la sua cultura in senso astratto. Il tentativo, non sempre riuscito, dell’approccio interculturale è dunque quello di stabilire un giusto equilibrio tra la singolarità di ogni individuo e l’importanza accordata al contesto culturale nel quale si colloca. 19 Nel 1986 si è tenuto il primo congresso dell’ARIC (Association pour la Recherche InterCulturelle), associazione che raccoglie i principali esponenti della ricerca interculturale in area francofona, arrivato ad oggi alla sua tredicesima edizione. Gli atti del primo convegno ARIC, che raccolgono contributi di Claude Clanet, Martine Abdallah-Pretceille, Carmel Camilleri e altri, possono essere considerati come la prima pubblicazione di studi e riflessioni sull’interculturale. 20 F. Pinto Minerva, L’intercultura, cit. 21 M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, cit., p. 58.

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L’approccio interculturale permette così a ogni individuo di poter essere se stesso, di avere un’identità complessa, non priva di contraddizioni, per cui non è possibile evincere dalla sua appartenenza (di gruppo, di genere, di origine, ecc.) la sua stessa identità. Un esempio ci può aiutare nella comprensione dei due approcci. Se per l’approccio multiculturale è importante analizzare la condizione di “un immigrato”, o di “un gruppo di immigrati”, per l’approccio interculturale è importante imparare a entrare in relazione con una persona che è (stata) un immigrato (tra le altre esperienze e caratteristiche) e con cui si vuole stabilire una relazione efficace. Anche l’approccio interculturale, tuttavia, conosce le sue contraddizioni. Per esempio, il fatto di essere sorto in contesti operativi caratterizzati dalla presenza di immigrati, lo porta a essere costantemente associato alla realtà dell’immigrazione e a concentrarsi su un tipo particolare di esperienza della diversità, che ne trascura altre (le differenze interne all’Europa, le differenze religiose, gli effetti della globalizzazione, ecc.). Il rischio più grave è quello di pensare che esista una cultura autoctona e una cultura “immigrata”, che non distingue tra le diverse origini ma fa dell’esperienza migratoria un tratto culturale statico e definitivo. Mentre l’immigrazione «non è una caratteristica definitiva ma un momento nella vita»22. La confusione tra studi interculturali e studi sull’immigrazione ha contribuito a banalizzare la natura stessa dell’approccio interculturale. Aprire la tematica interculturale all’analisi di molteplici forme di relazione tra persone, come questo volume intende fare, significa provare a uscire da un paradigma ristretto che rischia di ridurre l’approccio interculturale a uno studio delle relazioni tra immigrati (il più delle volte neoarrivati) e autoctoni (che vivono qui da generazioni). Così come il taglio “di seconda generazione” adottato da questo volume, che vede concentrare l’attenzione su soggetti che hanno origini diverse ma un percorso di vita simile, entro un contesto di vita comune, quello italiano, permette di ragionare sulle relazioni interculturali in una logica “post-migratoria”23. 22 23

Ibid., p. 88. S. Vertovec, Migrant transnationalism and modes of transformation, in «International migration Review», 38, 3 (2004), pp. 970-1001.

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La poca chiarezza è data anche dal fatto che non esiste, ancora oggi, a distanza di decenni, una terminologia chiara che definisca i concetti-chiave dell’approccio interculturale, ma si tende a confondere termini come “interculturale” con “multiculturale” e “transculturale” (che allude, quest’ultimo, a trovare i punti in comune tra le diverse culture), termini come “universalità” con la sua versione distorta dell’“universalismo” (che trascura del tutto l’importanza delle culture), così come “pluralità” come dato di fatto e “pluralismo” come istanza, “identità” che non significa “identico”, e così via. L’intercultura, poi, data la sua attenzione ai contesti sociali e alle relazioni interpersonali, rischia di lasciarsi coinvolgere da un eccessivo investimento affettivo e da riflessioni a tratti ideologiche e militanti, perdendo così la propria scientificità e lucidità nell’analizzare i fenomeni. Non di rado chi si occupa di intercultura viene visto per questo motivo “a favore” delle differenze e del loro riconoscimento, quando in realtà parte dal presupposto che tali differenze esistono e che possono divenire una risorsa relazionale oltre che educativa. Al di là di questi rischi, va riconosciuto come l’approccio interculturale abbia saputo riportare al centro della riflessione sulle differenze culturali l’importanza della relazione, particolarmente importante per le sue implicazioni in campo educativo.

Intercultura, arte di educare Una buona educazione, oggi, non può che essere interculturale. La variabile culturale interviene infatti, oltre che nei processi politici e sociali, anche nei processi educativi, che d’altra parte riflettono le dinamiche della società. Ma quale ruolo ha la dimensione culturale nei processi educativi? E, in secondo luogo, come possono le relazioni interculturali divenire occasione di crescita e formazione di chi le vive? È questo il tema di cui si occupa in modo particolare la prima parte di questo volume, andando a trarre, da esperienze concrete di relazione interculturale, delle indicazioni per una valorizzazione delle differenze in campo educativo.

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Introduzione

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L’approccio interculturale in educazione, come spiega Milena Santerini, cerca di inserirsi nel dibattito sul dilemma tra universalismo (che sostiene l’inviolabile principio di uguaglianza tra gli uomini, ma nega le differenze e rischia di imporre un singolo modello dominante, etnocentrico) e relativismo (che invece tende a sottolineare le differenze, riconoscendo la dignità di ogni cultura, ma rifiutando qualsiasi giudizio di tipo etico in merito ad esse, ostacolando quindi la possibilità di confronto e incontro tra i soggetti che le incarnano). Tenendo insieme gli aspetti più corretti di entrambi gli approcci (la dimensione dell’uguaglianza dell’universalismo e la dimensione della dignità di tutte le culture del relativismo), l’approccio interculturale valorizza così le possibilità di arricchimento della diversità culturale senza trascurare i valori e gli obiettivi condivisi, valorizzando ad un tempo somiglianze e differenze. In questo senso, l’educazione interculturale si rivolge a tutti e non soltanto ai membri delle minoranze straniere, con lo scopo di favorire la convivenza e la reciproca comprensione tra persone di culture diverse: «In questa linea, secondo cui la pedagogia si costituisce come “scienza della relazione” e l’educazione come “rapporto”, va inquadrata la prospettiva interculturale». Infatti, nel tempo attuale, le relazioni tra persone riguardano sempre più soggetti che hanno origini e culture diverse. «Il modello della relazione non può prescindere dai diversi “mondi” che ogni individuo porta con sé e che influiscono in varia misura sulla sua personalità e sul suo sviluppo»24. Quando ci si riferisce ai contesti educativi, appare molto chiaro come sia rischioso sottolineare le differenze a discapito delle somiglianze e occorra piuttosto promuovere orizzonti culturali condivisi pur non trascurando di riconoscere le specificità culturali. Si può dire che i contesti educativi suggeriscono un’istanza particolare dell’intercultura: quella che porta prima a riconoscere le somiglianze (il fatto, per esempio, di essere tutti allievi di una stessa classe) e poi le differenze (il fatto, per esempio, di appartenere a religioni diverse), nell’ottica di una promozione delle differenze entro un quadro condiviso di valori e prospettive. 24

M. Santerini, Intercultura, cit., p. 35.

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Nel contesto scolastico, per esempio, gli allievi vengono introdotti a una cultura particolare, quella del Paese in cui vivono, ma è auspicabile che vengano anche aiutati a vivere l’esperienza del decentramento dalla propria cultura e imparino a riconoscere che vi siano modi diversi di interpretare i fenomeni, di attribuire i significati, di condurre la propria vita. Una buona educazione, oggi, deve aiutare gli allievi a superare le frontiere della loro cultura particolare per costruire con gli altri un mondo in cui la vita abbia un senso condivisibile da tutti. Solo un’educazione di questo tipo permette di formare dei cittadini che sappiano muoversi nel contesto di una società plurale dove non esiste più un modo soltanto di vivere. Imparare a giocare con somiglianze e differenze diviene quindi lo scopo di un’educazione che faccia delle nuove generazioni dei veri cittadini del mondo, abituati ad attraversare approcci culturali diversi. Già nel 1986 Parekh sosteneva che il motivo principale per cui bisogna promuovere l’educazione interculturale è che l’educazione monoculturale non è una «buona educazione»25. Per dimostrare la sua tesi, ricordava quali sono gli obiettivi tradizionali di un percorso formativo scolastico (ma non solo): imparare a ragionare, esercitarsi ad argomentate, sviluppare l’amore per la verità, avvicinare bambini e ragazzi alle grandi realizzazioni intellettuali, e così via. Nella prassi educativa questi obiettivi si declinano nella capacità di stimolare l’immaginazione e concepire delle alternative, sviluppare la curiosità verso altri modi di pensare e di vivere, formarsi una capacità critica, accrescere la sensibilità verso il vissuto altrui, e così via. Se questi sono gli obiettivi di una buona educazione, è evidente come l’educazione interculturale, naturalmente votata a favorire la comprensione tra le persone, sviluppare curiosità e immaginazione, favorire il senso critico e la capacità di ragionare, può certamente divenire un antidoto forte a una cattiva educazione. Importa poco che coloro che devono ricevere questo tipo di educazione siano cittadini, figli di famiglie autoctone, oppure stranieri, figli di immigrati. Importa 25 B. Parekh, The concept of Multi-Cultural Education, in S. Modgil - G. Verma K. Mallick - C. Modgil (edd.), Multicultural Education. The Interminable Debate, The Falmer Press, London 1986, pp. 19-31.

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invece che vengano accompagnati in un percorso di consapevolezza e apertura mentale di cui qualsiasi “cittadino del mondo”, indipendentemente dalla nazionalità, necessita. Vero è anche, però, che l’educazione interculturale non si risolve in una buona educazione: essa introduce una novità e una specificità, che può offrire un’ulteriore chiave di lettura del percorso educativo, sottolineando l’importanza di dare a ciascuno la possibilità di esprimere se stesso nella relazione con l’altro, e dare vita così a qualcosa di nuovo. Come infatti già affermava Lamberto Borghi: «È educativa l’intercultura quando tende alla realizzazione della personalità di tutti sotto la più ampia forma della collaborazione sociale, al tempo stesso in cui riconosce ed eleva la personalità di ciascuno». E riprendendo un concetto di John Dewey, conclude: «Tale finalità essa attinge se volge la sua attenzione a ciò che vi è di unico in ogni individuo concepito come “qualcosa di incommensurabile”»26.

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L. Borghi, Educare alla libertà, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 163.

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Parte Prima

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I LUOGHI DELL’INCONTRO INTERCULTURALE

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I. Così uguali, così diversi a scuola 23

INTRODUZIONE

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Anna Granata

Per lungo tempo abbiamo adottato l’approccio interculturale per mettere a fuoco le dinamiche di relazione tra persone che appartengono a contesti culturali diversi: italiani, che vivono in questo Paese da generazioni, e immigrati, che giungono da lontano portando lingue, tradizioni, stili di vita diversi da quelli diffusi in Italia. Una vasta bibliografia si è concentrata poi sulla possibilità di sviluppare “competenze interculturali”, ovvero competenze che permettano di stabilire una relazione profonda ed efficace tra persone che parlano lingue e culture diverse, concentrandosi in particolare sugli incontri tra professionisti entro contesti lavorativi internazionali1. L’incontro interculturale “tra lontani” ha appassionato molti studiosi di discipline diverse e sollecitato la nascita di una vasta letteratura anche in Italia, Paese d’immigrazione da meno di quarant’anni. Questo tipo di riflessione, fondamentale per una società che passa da una geografia quasi totalmente monoculturale a una multiculturale e multireligiosa, appare però già superata2. La popolazione straniera in Italia è ormai costituita non solo da migranti che sbarcano sulle nostre coste, quelli che tutti ci raffiguriamo con l’immagine del barcone che arriva a Lampedusa, ma soprattutto da bambini, ragazzi e giovani nati in Italia da genitori stranieri, inseriti all’interno di famiglie che hanno deciso di costruire qui il proprio fu1 Cf. D.K. Deardorff, The Sage handbook of intercultural competence, Sage publications, Thousand Oaks (CA) 2009. 2 Storicamente, già dal 1973 l’Italia ha visto il numero di immigrati superare per la prima volta il numero degli emigrati. Ed è da qui che ha preso inizio la conformazione plurale dal punto di vista culturale e religioso del nostro Paese. Cf. A. Treves, Politica natalista in un paese di immigrazione? Un problema italiano, in «Acme», LIX, 3 (2006), pp. 251-278.

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turo. Sono le cosiddette “seconde generazioni” a cui stanno seguendo gradualmente le terze, “stranieri sulla carta” a motivo di una legge sulla cittadinanza ancorata a un’idea di Paese di emigrazione piuttosto che di immigrazione (L. 91/92), “italiani di fatto”, che parlano e studiano in italiano, immaginano qui il proprio futuro, frequentano le scuole, le università e popolano diffusamente i mondi delle professioni. Ci insegnano con la loro stessa presenza che ci sono oggi molti modi diversi di essere italiani: italiani musulmani o cristiani ortodossi; italiani dagli occhi a mandorla o dalla pelle nera; italiani il cui cuore batte per ciò che accade oggi in Tunisia, il Paese dei propri nonni; italiani che parlano perfettamente romeno in famiglia e veneto non appena attraversano la soglia di casa, e così via. Accostarsi all’esperienza interculturale entro questa generazione implica un cambio netto di mentalità. Non si tratta più di evidenziare le caratteristiche dell’incontro “tra lontani”, ma di mettere in luce le sfumature, spesso impercettibili, che caratterizzano l’incontro tra persone cresciute entro uno stesso contesto, ma a partire da origini familiari e culturali diverse. La scelta che ha guidato la selezione dei contributi di questa prima sezione del volume va esattamente in questa direzione: si raccontano qui storie di vita, esperienze, processi di cambiamento, che coinvolgono attori, per lo più bambini, ragazzi e giovani, italiani o stranieri sulla carta, ma accomunati da una comune prospettiva di vita. Filo conduttore è l’approccio interculturale “di seconda generazione”, così come lo ha definito Milena Santerini, in relazione al contesto scolastico, che si colloca in una società «dove il pluralismo è la norma e affronta le problematiche legate a un’immigrazione non transitoria, ma stabile, costruendo un futuro per la convivenza»3. Attraverso le pagine che seguono compiremo quindi un viaggio entro i luoghi quotidiani dell’incontro interculturale: dalla scuola alla famiglia, dalla città alla rete internet, alle reti amicali, attraverso contributi con taglio interdisciplinare che ci permettono di accostarci alla dimensione quotidiana di questa esperienza. 3 M. Santerini (ed.), La qualità della scuola interculturale, Erickson, Trento 2010,

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Introduzione 25

Potremo quindi osservare, attraverso il contributo pedagogico di Caterina Martinazzoli (cap. I), come giocano con le proprie differenze e somiglianze i bambini a scuola, provenienti da famiglie italiane e straniere, e come si possono relazionare con loro gli insegnanti in un contesto segnato, ormai in maniera decisiva, da una popolazione scolastica sempre più “di seconda generazione”4. Potremo poi riflettere sul fatto che un numero sempre crescente di questi stessi bambini parla e pensa attraverso due lingue e due culture diverse, attraversando la soglia di casa e aprendosi a un campo aperto e creativo di costruzione della conoscenza, non più legato a un pensiero monolingue e monoculturale, col contributo psicologico di Afef Hagi (cap. II). Potremo poi soffermarci sul fatto che il pluralismo culturale richiede oggi a educatori e insegnanti di capovolgere il loro modo di fare educazione e di ripensare i confini entro cui questo processo avviene, con l’esperienza di chi sceglie, da insegnante, di andare a “fare scuola” presso un campo rom, ritrovandosi in qualche modo in minoranza dentro quella che diviene in quel contesto la nuova maggioranza, attraverso il contributo antropologico di Alice Sophie Sarcinelli (cap. III). La riflessione si aprirà quindi, a partire da qui, sull’esperienza della città, come contesto in grado di educare al pluralismo, specialmente per quei ragazzi che stanno abbandonando l’infanzia per aprirsi all’età dell’adolescenza, con il contributo interdisciplinare, pedagogico e urbanistico, di Anna Granata ed Elena Granata (cap. IV). Il viaggio ci condurrà poi a scoprire come i giovani che navigano oggi in rete, spesso, indipendentemente dalle proprie origini, scam4 Può essere utile segnalare il fatto che, secondo i dati della Fondazione Agnelli (2010), in seguito alla “grande regolarizzazione” della Legge Bossi-Fini (2002/2003) e ai suoi effetti di stabilizzazione lavorativa, legale e abitativa per un gran numero di cittadini stranieri, numerose famiglie immigrate hanno deciso di mettere al mondo un figlio, il cui arrivo era stato fino ad allora rinviato per condizioni di precarietà. I demografi parlano di un vero e proprio “baby boom” nel 2004 e negli anni a seguire, col conseguente sorpasso delle “seconde generazioni” all’interno della popolazione scolastica straniera, già registrato dalla scuola primaria nel 2010 e che coinvolgerà la scuola secondaria inferiore presumibilmente nel 2015. La condizione di “seconda generazione” diverrà così, gradualmente, tratto diffuso del cittadino italiano medio. Cf. S. Molina - R. Fornari, I figli dell’immigrazione sui banchi di scuola: una previsione e tre congetture, documento disponibile sul sito internet http://www.fga.it.

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biano significati, visioni, concezioni entro cerchie di relazione sempre più ampie e globali che li portano a essere, sempre più, cittadini del mondo, come viene raccontato nel contributo di taglio pedagogico di Anna Granata e Magda Pischetola (cap. V). E vedremo infine come l’esperienza universale dell’amicizia può divenire una via privilegiata alla socializzazione anche nella prima età adulta, attraverso il contributo di taglio sociologico di Davide Girardi (cap. VI). In tutti queste riflessioni emerge chiaro e lampante il fatto che non possiamo più, soprattutto in qualità di insegnanti ed educatori, ragionare in termini di “problema” di fronte alla presenza di differenze linguistiche e culturali nei nostri contesti di vita, e nemmeno in termini di “emergenza”. C’è una normalità da far emergere, che se colta e valorizzata, può portare a scoprire con occhi nuovi le straordinarie potenzialità che stanno crescendo attorno a noi.

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I. COSÌ UGUALI, COSÌ DIVERSI A SCUOLA

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Caterina Martinazzoli

Al suono di quella voce dolce, calda, gli occhi di Amanthi hanno cominciato a brillare. Un’attività didattica per tutti, l’ascolto di una storia della tradizione cingalese, registrata da una voce madrelingua, è stata per lei una sorpresa personale, carica di emozioni. Con orgoglio ha riconosciuto di fronte ai suoi compagni di avere una qualità unica e particolare: conoscere suoni e significati di una lingua agli altri incomprensibile, così speciale e affascinante. Amanthi si sente un’alunna italiana, come tutti i suoi compagni, ma al tempo stesso ha compreso di avere una particolarità, degna di essere valorizzata, come accade per altri suoi compagni di origine straniera. Kai, per esempio, era felice mentre ascoltava una storia in cinese, ma ha voluto sottolineare di essere un italiano come tutti gli altri quando Matteo gli ha detto: «Che bravo sei! Riesci a capire quelle parole così difficili! Allora sei cinese!»1. Joanna invece ha appreso la particolarità di ogni compagno puntualizzando: «Mia mamma parla rumeno, ma la mamma di Alice no, lei sa solo l’italiano. La mamma di Kamal parla in arabo, quella di Amanthi non mi ricordo». Vivere la quotidianità della scuola multiculturale permette di comprendere l’importanza delle origini di ogni alunno, espresse in questo caso attraverso i suoni della lingua madre, la lingua dell’intimità e delle emozioni, e nel contempo permette di capire come l’identità degli alunni che un insegnante si trova di fronte, siano essi figli di italiani o di migranti, si giochi su più piani, intersecati tra loro. Ogni alunno ha il diritto, con l’aiuto degli insegnanti, di scoprirsi uguale e diverso dagli altri, di appartenere al gruppo e di differenziarsi senza che ci sia in questo alcuna contraddizione. 1 Primo di alcuni stralci di dialoghi raccolti dall’autrice nel contesto scolastico in cui opera in qualità di insegnante.

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A scuola di diversità La scuola appare, più di qualsiasi altro contesto educativo, come la palestra delle diversità: un grande puzzle di volti, abilità, origini e caratteristiche. Riprendendo la citazione di Edgar Morin con cui è stato aperto questo volume, l’uomo è unità e diversità al tempo stesso: appartiene alla specie umana e ha una singolarità genetica, anatomica e fisiologica; presenta caratteri comuni e caratteri propri di tipo cerebrale, mentale, psicologico, affettivo, intellettivo e soggettivo2. Il puzzle di diversità che caratterizza l’essere umano comporta un grado di complessità elevato nella formazione e nell’educazione delle persone, ognuna con i propri bisogni, i propri interessi, le proprie capacità e potenzialità. Nella scuola “di tutti” si presentano sfide educative diverse, bisogni multipli, reazioni e azioni che si devono necessariamente adeguare alle specificità degli alunni. La diversità deve essere assunta sia come punto di partenza sia come punto di arrivo del percorso educativo, un valore da favorire e al tempo stesso il criterio che ispira l’intera azione didattica3. Le diversità sono lo stimolo e il principio per un’educazione basata sul confronto, la condivisione e l’infinità di conoscenze che ne derivano, trasformando le differenze, di qualsiasi natura esse siano, da ostacolo a risorsa per tutti. Filo conduttore di questo capitolo è un particolare tipo di diversità presente nella scuola: la diversità culturale. La scuola “di tutti” è il luogo in cui oggi si incrociano culture diverse: presenta una crescita costante di alunni di origine straniera, dato ormai strutturale e in costante espansione del sistema scolastico4, originari di 191 Paesi differenti e parlanti sessanta lingue diverse5. 2 Cf. E. Morin, Il metodo, 5, cit. 3 M.G. Francia, Personalizzazione dell’azione educativa: significato e funzioni del-

la normativa vigente, in M.T. Cairo (ed.), Pedagogia e didattica speciale per educatori ed insegnanti nella scuola, Vita&Pensiero, Milano 2007, p. 118. 4 Il documento ministeriale Focus in breve sulla scuola. La presenza degli alunni stranieri nelle scuole statali (MIUR, marzo 2010) evidenzia la presenza del 15% di stranieri nelle scuole italiane di ogni ordine e grado, con significative differenze da zona a zona; infatti, in alcune città ad alta percentuale di tasso migratorio la presenza degli stranieri nelle scuole supera il 30%. 5 Cf. M. Santerini, Intercultura, cit.

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Tale situazione comporta una composizione culturale della popolazione scolastica molto variegata e una complessità nella gestione della classe e di ogni differenza ed esigenza educativa presente (di genere, culturale, abilità diverse, ecc.), considerate anche le difficoltà della scuola stessa che oggi si vede caratterizzata dalla drastica riduzione delle proprie risorse professionali ed economiche. La presenza di un numero importante di alunni con varie origini ha notevoli implicazioni per la scuola che si trova, per prima, ad integrare le esigenze specifiche di questi bambini, rendendosi protagonista dell’inserimento scolastico – ma anche sociale – di tali alunni6. La scuola è il luogo in cui la diversità delle culture può diventare normalità, permettendo all’intercultura di diventare una forma di pensiero che trasformi ogni tradizione e ogni unicità in una risorsa da condividere7.

Spazi di identità migranti Uno dei compiti principali della scuola è tutelare e favorire i percorsi di formazione dell’identità dei bambini, considerando ogni alunno secondo le caratteristiche proprie, attraverso un approccio educativo globale, individuando e valorizzando le abilità e le risorse già dalla scuola dell’infanzia in un’ottica di centralità del bambino. Tale compito prevede la costruzione di percorsi che sappiano mettere in primo piano la pluralità delle identità presenti in ogni classe e caratterizzate da numerose sfaccettature. L’identità di ogni alunno si forma in relazione a diversi spazi simbolici8, integrati tra loro (Fig. 1): spazi di appartenenza e spazi di abi6 Si è scelto di utilizzare all’interno del capitolo la locuzione “figli di migranti”, comprensiva dell’eterogeneità delle esperienze migratorie e riferita sia a persone nate in Italia da genitori migranti, sia a persone che hanno vissuto esse stesse la migrazione, non per scelta ma al seguito dei genitori. 7 G.G. Valtolina (ed.), Una scuola aperta al mondo. Genitori italiani e stranieri nelle scuole dell’infanzia a Milano, Franco Angeli, Milano 2009. 8 Le riflessioni proposte in questo contributo traggono spunto da C. Martinazzoli, Bambini con disabilità provenienti da contesti migratori: aspetti culturali, educativi e didattici, Tesi di dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore, XXIII ciclo, a.a. 2009/10, Milano, consultabile sul sito internet: http://hdl.handle.net/10280/1027.

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lità, inseriti in uno spazio di contesto. Ogni alunno va osservato e valorizzato per ogni singolo spazio, ponendo un’attenzione particolare in questa sede alla conservazione della sua identità culturale.

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Spazi di contesto Spazi di abilità Alunno Spazi di appartenenza

Fig. 1 - Spazi di identità

Gli spazi di abilità consistono nell’insieme di capacità e competenze di tipo motorio, cognitivo ed emotivo che ogni bambino sviluppa nel corso della sua esistenza in modo variabile9. Possiamo suddividerli in: spazio fisico; spazio mentale; spazio emotivo. 9 Lo spazio fisico e quello mentale assumono particolare rilevanza quando gli alunni figli di migranti hanno una disabilità motoria, cognitiva o psichica. Tale tipologia di alunni è relativamente recente nella realtà scolastica, ma ormai fondante; si stima infatti fino al 20% di alunni figli di migranti sulla totalità di alunni con disabilità nelle zone ad alto flusso migratorio. Avere una disabilità e al contempo una diversa appartenenza culturale – entrambi aspetti a rischio di emarginazione – è una doppia sfida per l’integrazione perché alle questioni legate alla disabilità si uniscono quelle legate al vissuto migratorio, alla difficoltà nell’apprendere una nuova lingua, alle rappresentazioni culturali di disabilità e all’accettazione degli interventi educativi e didattici proposti, cf. ibid.

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Nello specifico dei figli di migranti, assume particolare rilevanza lo spazio emotivo, caratterizzato da vulnerabilità o, al contrario, da una potenzialità creatrice. Gli alunni con diversa appartenenza culturale possono manifestare una fragilità particolare (vulnerabilità specifica10) alla quale la scuola deve porre attenzione, per un percorso di integrazione adeguato. Marie Rose Moro11 definisce la vulnerabilità come una debolezza nel processo di sviluppo: si manifesta con una disfunzione, una sofferenza, un arresto, un’inibizione del potenziale di sviluppo, con periodi di depressione, di ricoveri e malattie più frequenti, con difficoltà di apprendimento, abbandoni scolastici e difficoltà di integrazione. È originata dall’insicurezza, dalla confusione e dalla depressione dei genitori che possono fare fatica ad inserirsi nel nuovo contesto culturale. Essa si sviluppa e si manifesta in modo particolare in alcuni periodi della vita: il periodo perinatale, il periodo scolastico e il periodo dell’adolescenza. Nel periodo perinatale le madri possono trovarsi a trasmettere ai figli la loro fragilità12 e una visione del mondo “caleidoscopica”13, cioè frammentata, confusa e instabile, che si trasforma in fragilità appresa del bambino, angoscia e insicurezza. A scuola i bambini si trovano talvolta ad affrontare un equilibrio/ squilibrio tra diverse appartenenze. Nel bambino, essendo solo di fronte ad un nuovo ambiente potenzialmente traumatico e così differente da quello familiare, «le energie psichiche sono rivolte verso la gestione dell’equilibrio dei due universi culturali. C’è quindi spazio cognitivo ed emotivo ridotto per l’apprendimento»14. Le possibili reazioni sono aggressività, rifiuto, disinteresse, incapacità a esprimere le proprie potenzialità. Durante l’adolescenza (periodo critico per gli interrogativi legati all’appartenenza e all’identità) questi ragazzi possono manifestare in 10 Il termine “vulnerabilità” è un concetto che si è sviluppato in psichiatria e, in seguito, in etnopsichiatria e psicologia transculturale per descrivere le difficoltà che i migranti e i figli di migranti incontrano nella migrazione. Vulnerabilità significa, nella definizione classica, debole capacità a resistere ai traumatismi. 11 M.R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, Franco Angeli, Milano 2005. 12 M.L. Cattaneo - S. Dal Verme, Donne e madri nella migrazione. Prospettiva transculturale e di genere, Unicopli, Milano 2005. 13 M.R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, cit., p. 49. 14 M.L. Cattaneo - S. Dal Verme, Donne e madri nella migrazione, cit., pp. 61-62.

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modo significativo la propria vulnerabilità: hanno bisogno di capire a quale mondo appartengono, se a quello familiare o a quello della società in cui vivono, spesso più a partire da domande poste dagli adulti che da una problematica da loro stessi elaborata. Alcuni bambini riescono a sviluppare una particolare resilienza, una potenzialità creatrice, riuscendo ad accrescere le proprie capacità di integrazione dei propri molteplici mondi di riferimento. Moro15 individua tre tipologie di figli di migranti che ottengono buoni risultati di integrazione scolastica e sociale: coloro che godono di un clima rassicurante e ricco di ogni sorta di stimoli in famiglia e a scuola; coloro che trovano negli adulti un “iniziatore”, cioè colui che conduce e guida nel mondo nuovo; coloro, infine, che hanno grandi capacità individuali. L’insegnante può assumere, quindi, un’importanza particolare nella mediazione e nella creazione di ponti tra le due culture in gioco, per dare stabilità all’identità e per favorire la potenzialità creatrice di ognuno. Agli spazi di abilità si aggiungono gli spazi di appartenenza, che identificano modi diversi di entrare a far parte dei contesti di riferimento. Tra gli spazi di appartenenza, assumono rilevanza: lo spazio corporeo; lo spazio geografico; lo spazio culturale; lo spazio linguistico. Ogni alunno ha un suo spazio corporeo, che comporta differenti modalità di relazione. A seconda della cultura di origine, ogni persona comunica linguaggi del corpo differenti e modalità di prossimità fisica diversificate. Poggi e Panero16 utilizzano il termine multimodalità per riferirsi all’utilizzo di più canali sensoriali (uditivo, tattile e visivo) nelle modalità comunicazionali; infatti, per comunicare, ogni persona utilizza la voce, gli occhi, i gesti e il movimento. In particolare, oltre all’udito e alla vista, è possibile percepire l’altro attraverso la mimica facciale, i gesti e la postura. Ogni cultura ha le proprie modalità di “muovere” la comunicazione attraverso diversi tipi di gesti e linguaggi del corpo. Per esempio, in alcune culture guardare negli occhi una persona mentre parla 15 M.R. Moro, Bambini immigrati in cerca di aiuto: i consultori in psicoterapia transculturale, Utet, Torino 2001. 16 I. Poggi - T. Panero, La multimodalità della comunicazione in diverse lingue e culture, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università Roma Tre, documento disponibile sul sito internet: http://www.uniroma3.it, 2010.

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è segno di attenzione e franchezza, ma non è così in molti Paesi arabi, dove può significare “sfida” ed è segno di maleducazione; al contrario, tenere gli occhi abbassati quando si ascolta una persona mentre parla può significare, per alcune culture, disattenzione, per altre, invece, rispetto; in certi Paesi è buona norma parlare uno per volta e la seconda persona si inserisce nel discorso solo in caso di pause chiare e marcate, in altri le persone interrompono i parlanti per commentare, protestare o rispondere, invadendo lo spazio fisico e mentale. Queste differenze dei codici comunicativi (verbali e non verbali) incidono fortemente anche sulle dinamiche educative, per quanto concerne in particolare la relazione tra l’insegnante e le famiglie straniere. Il concetto stesso di educazione, ma anche quello di abilità e di capacità, cambia, in relazione alle diverse culture17; al tempo stesso cambiano le modalità di relazione, di comunicazione e di prossimità fisica. In ogni alunno c’è poi uno spazio geografico, costituito dalla propria terra, dalle proprie origini, dal luogo in cui si è nati, quello in cui si è vissuti e quello in cui si vive. A questo livello esiste una differenza sostanziale tra l’esperienza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri (che conoscono la terra di origine solo in fotografia o come luogo in cui trascorrere le vacanze) e i bambini nati nel Paese di origine che, a seconda dell’età in cui hanno compiuto l’esperienza migratoria, hanno impresse nella mente e nel cuore immagini vive del contesto geografico di origine. Nella memoria del bambino, anche laddove la migrazione è avvenuta in tenera età, permangono spesso suoni, colori, immagini e odori del luogo di origine, abitudini e modalità di essere e di vivere. Maggiori sono gli anni trascorsi al proprio Paese di origine, maggiori e più nitidi sono i ricordi. Esiste però uno spazio geografico legato al luogo di origine anche per coloro che sono in Italia dalla nascita: pur non essendo nati in quei luoghi, essi vivono quelli dei propri genitori o dei propri nonni, fatti di racconti e di ricordi, di canzoni e ninne nanne, di fotografie e di immagini che rimangono ancorate alla loro memoria. È uno spazio 17 L. Udd (ed.), We are all unique and yet more alike than we imagine. A book about disability, ethnicity, reception and treatment, SIOS, The cooperation group for ethnic association in Sweden, 2004.

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spesso conosciuto anche in prima persona dai bambini perché luogo di vacanza nei mesi estivi. Un ulteriore spazio geografico dei figli di migranti è caratterizzato dal Paese d’accoglienza: luogo a volte ostile, a volte accogliente, imperniato di suoni, colori, immagini e odori spesso completamente differenti. È un luogo in cui le distanze e le modalità di vivere gli spazi e le relazioni si modificano e si differenziano notevolmente. È un luogo in cui la quotidianità assume attività e sfumature diversificate rispetto a quelle vissute nel Paese di origine che comportano spaesamento nell’orientamento spazio temporale e ridefinizione dei propri spazi e dei propri confini e della propria identità. È lo spazio in cui essere riconosciuti per le proprie differenze e, al tempo stesso, ritrovare ciò che accomuna per appartenervi18. Nel bagaglio culturale dei bambini provenienti da contesti migratori ci sono, così, spazi geografici multipli, vari, ricchi di sfumature, che uniscono i vissuti antichi e nuovi, gli “immaginati”, i “raccontati”, e creano un luogo geografico altro, personale, costituito dall’intreccio della percezione dei diversi spazi geografici vissuti con il corpo e con la mente. In ogni alunno c’è anche uno spazio culturale, che consiste in particolari abitudini, usi e costumi trasmessi durante la crescita nel contesto della propria famiglia. È uno spazio formato da rappresentazioni culturali e religiose, ma anche semplicemente da rappresentazioni e abitudini familiari. Le persone appartengono a gruppi culturali specifici, ormai privi, però, di confini per le innumerevoli migrazioni e contaminazioni che nel mondo globale si creano. Lo spazio culturale mantiene vivo il rapporto con la cultura di origine e con la famiglia allargata terrena e spirituale19. È uno spazio che assume una rilevanza particolare perché ogni persona è permeata dalla propria cultura. I bambini migranti vivono una duplicità: se da un lato hanno conosciuto la propria cultura di origine, dall’altra sono inseriti in una nuova società, caratterizzata da una cultura spesso mol18 Cf. A. Granata - E. Granata, L’esperienza dello spazio nel tempo della crescita, in D. Cologna - A. Granata - E. Granata - C. Novak - I. Turba, La città avrà i miei occhi. Spazi di crescita delle seconde generazioni a Torino, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2009, pp. 58-111. 19 Con “mondo spirituale” si intende l’insieme di antenati e avi, presenza riconosciuta e significativa nella vita delle persone entro alcuni contesti culturali.

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to distante. Le rappresentazioni culturali sui vari fenomeni che accadono nel mondo coinvolgono in modo significativo i figli di migranti che si incontrano o scontrano con rappresentazioni culturali diverse, abitudini considerate “bizzarre”. Lo sforzo dei bambini migranti o figli di migranti è integrare la propria cultura, o quella dei propri genitori, con quella del Paese ospitante, cercando di mantenere salde le proprie origini e di adattarsi al nuovo mondo. La «sospensione tra due mondi» di cui parla Nathan20 è determinata dalla separazione fisica da un mondo, conosciuto, già esplorato e di intuitiva comprensione, per addentrarsi in un altro che è, in un primo tempo, misterioso e disorientante. Spazi culturali differenti creano una particolare vulnerabilità, ma al tempo stesso una particolare ricchezza, una moltitudine di stimoli e di pensieri, caratterizzati dalla «forza creatrice»21 che garantisce di vivere la migrazione con modalità funzionali positive e serene. Bisogna poi dire che gli spazi culturali di ogni persona sono diversi uno dall’altro perché passano attraverso la soggettività e l’originalità di ognuno. Il vissuto culturale che ogni persona porta con sé è l’unione di tanti spazi culturali: il contesto di origine, il contesto familiare del periodo in cui si viveva nella terra di origine, il contesto di vita attuale, il contesto familiare attuale. Non di rado i figli di migranti divengono, crescendo in questa palestra delle diversità, dei “traduttori di mondi”, capaci di attraversare con estrema disinvoltura lingue e culture diverse, anche solo varcando la soglia di casa, e di costruire dei “ponti” agili e flessibili tra i diversi contesti che frequentano22. In ogni alunno c’è, strettamente connesso allo spazio culturale, uno spazio linguistico costituito dalla lingua di origine e da quella appresa nel Paese ospitante; dalle lingue che si apprendono a scuola e dalla lingua materna, quella che corrisponde al lessico familiare e alle prime parole sentite e imparate23. Lo spazio linguistico dei bambini migranti è, così, 20 21

T. Nathan, Principi di etnopsicanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1996. M.R. Moro, Bambini immigrati in cerca di aiuto: i consultori in psicoterapia transculturale, cit. 22 Cf. A. Granata, Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni, Carocci, Roma 2011. 23 Il tema della dimensione linguistica e dell’esperienza bilingue nei minori di origine straniera è oggetto del capitolo Lingue e legami sulla soglia di casa di Afef Hagi, proposto nelle pagine successive.

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caratterizzato da una lingua familiare e da una sociale, da una lingua parlata in certi ambiti e da un’altra parlata in altri. In certi casi, la lingua di origine è essa stessa plurale: è lingua ufficiale del proprio Paese di origine ed è il dialetto locale e familiare. Le parole, i suoni e le strutture delle diverse lingue si uniscono, così, in uno spazio terzo, caratterizzato dall’immagine e dall’unione di più sistemi linguistici. Il patrimonio linguistico di ogni persona migrante o figlia di migranti si manifesta come flessibile, in continuo cambiamento e da, come viene definita da Graziella Favaro, «una costellazione fluida, nella quale l’egemonia di una lingua sull’altra, la gerarchia interna, il grado di padronanza assoluto e relativo, variano continuamente nel tempo e nello spazio»24. La lingua ha il potere di evocare l’universo fisico e affettivo, conoscitivo ed esperienziale degli individui25. È per questo che la lingua di origine va valorizzata là dove possibile anche a scuola, accanto all’apprendimento dell’italiano come L2, lingua necessaria per l’integrazione nella società italiana. Se gli alunni figli di migranti percepiscono che la loro lingua di origine, veicolo della cultura, deve essere nascosta e negata a scuola, si formeranno l’idea di una totale scissione tra i due contesti e, cosa ancora più grave, che esiste una parte di loro da nascondere perché suscita vergogna e umiliazione. E come è possibile «apprendere e costruirsi un’identità serena con un’immagine negativa di sé, di una parte di sé che è la più intima, la più infantile, la più affettiva nella misura in cui è legata ai legami genitoriali e familiari?»26. Come hanno dimostrato ampi studi in Francia27 e in altri contesti di più consolidata esperienza multiculturale, queste dinamiche di negazione delle origini linguistiche, culturali e famigliari, incidono negativamente anche sui percorsi di apprendimento degli alunni. Separare gli alunni con cittadinanza straniera dalle proprie origini significa impedire loro di essere dei buoni alunni. Infine, lo spazio di contesto si profila come quello che comprende sia gli spazi di appartenenza sia quelli di abilità: è lo spazio di vita 24 G. Favaro, Tante lingue, una storia. Alunni immigrati tra L2 e lingue di origine, in G. Favaro - L. Luatti (edd.), L’intercultura dalla A alla Z, Franco Angeli, Milano 2004, p. 274. 25 S. Inglese, Introduzione, in T. Nathan, Principi di etnopsicanalisi, cit. 26 F. Lorcerie, L’école et le défi ethnique, cit., p. 33. 27 Cf. ibid.

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dell’alunno, uno spazio caratterizzato dall’ambiente in cui è inserito, dagli atteggiamenti delle persone attorno a lui, dalle reti di risorse umane e sociali presenti, di servizi, sistemi e politiche presenti nel Paese in cui vivono. Tra la cultura di origine e di appartenenza e la società italiana in cui i figli di migranti sono inseriti si instaura una relazione che si sviluppa su un continuum di aspetti legati all’accoglienza e all’apertura da un lato, e alla presenza di diffidenze e pregiudizi dall’altro. È evidente che uno spazio di contesto orientato verso modalità accoglienti, dialoganti, ospitali e di valorizzazione delle diversità permette una maggiore serenità nella costruzione delle loro identità plurali e la scuola costituisce in questo senso il primo luogo in cui è possibile costruire percorsi positivi di crescita e accettazione di ogni alunno, futuro cittadino della società italiana.

Costruire percorsi interculturali a scuola L’attenzione alle diverse identità presenti nelle classi rientra in quello che può essere definito “pensiero interculturale”, un pensiero pronto a formare alunni guardando alle specifiche singolarità, un pensiero che ostacola modalità educative che si muovono su un’idea astratta di bambino28 e che parte, invece, dai bambini stessi e dai loro contesti personali, familiari e sociali29. 28 Cf. E. Compagnoni, Mondo rotondo. Materiali ed esperienze di intercultura nella scuola dell’infanzia, La Meridiana, Molfetta 2003. 29 Gli Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali (D.M. 3 giugno 1991) sono i primi documenti ministeriali a richiamare l’attenzione degli insegnanti sulla nuova società multiculturale e plurietnica. Gli Orientamenti prevedono la valorizzazione dell’identità dei bambini, invitando gli insegnanti a sottolineare gli elementi di somiglianza e distinzione tra esperienze culturali diverse. Da qui, successivamente, la legislazione in merito all’educazione interculturale ha avuto un forte slancio e ha assunto importanza in tutti gli ordini di scuola, declinando in modo preciso il termine “educazione interculturale”, proponendo la modalità di gestione, le finalità e i paradigmi culturali per una scuola accessibile e valorizzante per tutti. Emerge, negli anni, l’importanza della figura del mediatore culturale e l’idea di una scuola inclusiva e interculturale, valorizzante il plurilinguismo, la centralità della persona e la comunicazione con la famiglia, ponendo l’attenzione su un’educazione più ampia, quella alla cittadinanza.

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L’accoglienza iniziale dell’alunno figlio di migranti assume un ruolo primario nell’azione educativa e nella valorizzazione della sua identità: è il primo – e complesso – passo da compiere e pone le basi per un positivo percorso scolastico. Non si tratta di accogliere unicamente l’alunno nella classe, ma anche di accogliere la famiglia, le sue aspettative, le sue domande e curiosità. È un processo relazionale e organizzativo, volto a facilitare l’inserimento nella scuola. L’accoglienza da parte degli insegnanti si manifesta nella ricerca di un’approfondita comprensione dell’alunno, delle sue abilità, del suo carattere, dei suoi spazi di identità e delle caratteristiche della sua famiglia e del suo eventuale percorso migratorio. Solo tale comprensione permette una progettazione educativa e didattica adeguata per ogni alunno, a partire da una valorizzazione del contesto: per un’integrazione scolastica di qualità, Franca Pinto Minerva30 individua lo spazio come caratteristica fondamentale di cui tener conto. Accogliere un bambino figlio di migranti significa programmare una scuola accogliente per tutti gli alunni, indipendentemente dal loro percorso precedente, con un’organizzazione dello spazio che abbia una dimensione aperta a tutte le differenze e peculiarità. Lo “spazio interculturale” è quello che “parla” a tutti e si lascia comprendere e percorrere da tutti, rendendo visibile la capacità di accogliere segni, oggetti, immagini e parole relativi ai diversi contesti di provenienza. Lo spazio scuola potrebbe, per esempio, prevedere cartelli di benvenuto nelle varie lingue, indicazioni, comunicazioni, opuscoli informativi e avvisi in alfabeti e linguaggi differenti, immagini della tradizione di altri Paesi o fotografie di altri luoghi, che aprano le menti di tutti i bambini, non solo di quelli di origine straniera, come già accade in molti contesti scolastici31. La scuola può, inoltre, creare spazi interculturali (lo spazio delle storie, lo spazio delle musiche, lo spazio della vita quotidiana) in cui vi sia una visibilità delle differenze culturali ma all’interno di uno sfondo comune. Gli spazi interculturali favoriscono 30 31

F. Pinto Minerva, L’intercultura, cit. A tale proposito, è stata condotta di recente una ricerca interessante sulle esperienze interculturali nelle scuole italiane, entro diversi ordini di scuola e diversi contesti geografici. Per un approfondimento, cf. V. Ongini, Noi domani. Un viaggio nella scuola multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2011.

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l’accoglienza e la permanenza dei bambini nella scuola, valorizzando le loro peculiarità culturali e creando un clima accogliente sia per gli alunni stessi che per le loro famiglie. Callari Galli32 pone l’attenzione ad una dimensione più ampia, definendo il luogo dell’intercultura come “spazio dell’incontro”, dove persone di culture, identità, appartenenze, alterità, si incontrano, si incrociano, si confrontano. La scuola può e deve divenire sempre di più questo “spazio dell’incontro” sereno e fecondo tra concezioni diverse e prospettive comuni. A partire dal necessario processo di accoglienza, è possibile attivare pratiche e azioni educative interculturali nella scuola, che seguono due linee principali interconnesse tra loro: la prima fa riferimento alle strategie didattiche per l’accoglienza e l’integrazione dei bambini migranti, la seconda all’educazione interculturale, aperta a tutti e auspicabile anche in contesti in cui non vi siano ancora bambini di origine straniera. L’inserimento nella classe comporta per l’alunno un’azione educativa volta a colmare eventuali difficoltà innanzitutto di ordine linguistico, legate soprattutto alla limitata conoscenza della lingua italiana, e culturale, legate invece alla difficoltà della scuola di costruire programmi che tengano conto del contesto globale e culturale in cui si colloca la scuola oggi33. Gli ambiti di lavoro possono essere suddivisi in questo modo: – progetti di accoglienza; – progetti di alfabetizzazione dell’italiano come L2; – progetti di valorizzazione della lingua e cultura di origine34; – attività interculturali comuni che favoriscono lo scambio e la conoscenza reciproca. Collante di tutti questi interventi educativi è la creazione di un clima interculturale. L’educazione interculturale, che riguarda la scuo32 M. Callari Galli, Lo spazio dell’incontro. Percorsi nella complessità, Moltemi, Roma 1996. 33 G. Favaro, Tante lingue, una storia, cit., p. 57. 34 Per un approfondimento del tema, cf. M. Rezzonico, L’insegnamento dell’arabo come lingua di origine: un percorso verso l’educazione interculturale, in P. Branca - M. Santerini, Alunni arabofoni a scuola, Carocci, Milano 2008, pp. 123-133.

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la nel suo insieme, innesca un processo più radicale e complesso della semplice attenzione alle diverse culture presenti nella classe e all’insegnamento della L2. Essa si rivolge alle pratiche culturali – comprese quelle italiane –, alla vita quotidiana degli allievi – compresi quelli italiani –, ai loro modi di vivere, alle comunità in cui vivono, alle loro rappresentazioni culturali. Fare educazione interculturale significa analizzare questi aspetti in modo critico e valutarne la continua trasformazione, accogliendo ogni differenza sia di tipo culturale che di tipo individuale. L’educazione interculturale mira alla «revisione, rivisitazione e rifondazione dell’asse formativo della scuola, che ha il compito di mirare alla formazione del cittadino italiano e del mondo»35. Le scuole italiane, più che una vera educazione interculturale, sono caratterizzate spesso dalla presenza di pratiche di integrazione basate su un’idea emergenziale delle differenze culturali a scuola. In esse si cerca soprattutto di risolvere l’emergenza dell’arrivo di alunni provenienti da contesti migratori con soluzioni temporanee e speciali, ma appare necessario spostare l’attenzione dall’emergenza alla quotidianità, con progetti interculturali volti a formare cittadini del mondo, “italiani” delle più svariate origini36. Come sostiene già da diverso tempo Lorcerie in riferimento al contesto francese, è quanto mai urgente che la scuola passi da scuola “etnica” a scuola “pluralista”37. Per fare questo non bisogna negare l’importanza delle differenze, minimizzandole e talvolta banalizzandole, ma nemmeno arrivare a estremizzarle, negando ciò che accomuna tutti gli alunni, una prospettiva comune al di là delle origini e dei percorsi familiari e culturali. Ogni alunno, con la propria storia e le proprie caratteristiche, merita di essere valorizzato e reso protagonista della propria storia scolastica38. Inoltre, attraverso la conoscenza e la valorizzazione della 35 M. Fiorucci (ed.), Una scuola per tutti. Idee e proposte per una didattica interculturale delle discipline, Franco Angeli, Milano 2008, p. 41. 36 M. Santerini (ed.), La qualità della scuola interculturale, cit. 37 F. Lorcerie, L’école et le défi ethnique, cit. 38 Valtolina afferma che «affrontare nuove differenze significa attuare un processo di continua riorganizzazione del senso e del significato di ogni incontro e di ogni rapporto, processo che porta il bambino verso una identità sempre più diffusa e distribuita […]. Ogni bambino è l’occasione per quell’apertura comunicativa e rela-

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cultura di origine, è possibile creare ponti, stabilire legami significativi, condividere un percorso educativo e didattico con la famiglia, prima protagonista del processo educativo e di integrazione del figlio. L’esperienza educativa e didattica interculturale può divenire, così, patrimonio per tutti, anche per i figli di italiani, e permette di sentirsi “diversi”, senza vergognarsi delle proprie origini, e di sentirsi, al tempo stesso, “uguali”: alunni italiani, cittadini del mondo. «In quale altro posto si può trovare un simile insieme di persone diverse? Ricchi e poveri, di tanti Paesi, dalle storie diverse, che credono in Dio, YHWH, Allah, o che non credono in niente? E giocano insieme, imparano gomito a gomito e fraternizzano?»39, si chiede Murail. In quale altro posto è possibile costruire le premesse per una società realmente interculturale, in cui ci si possa sentire simili e al tempo stesso unici, in cui si possa custodire il passato e allo stesso tempo sognare il futuro?

zionale, che libera dalla paura e da una prospettiva autocentrata», cf. G.G. Valtolina (ed.), Una scuola aperta al mondo, cit., pp. 15-16. 39 M.A. Murail, Cécile. Il futuro è per tutti, Giunti, Milano 2010, p. 126.

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II. LINGUE E LEGAMI SULLA SOGLIA DI CASA

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Afef Hagi

Per il primo tirocinio in psicologia mi sono inserita in una classe di italiano L2 per bambini stranieri appena arrivati in Italia1. Ho avuto la preziosa possibilità di osservare le prime lezioni di italiano e di seguire l’evoluzione di questi bambini per i primi tre mesi di apprendimento di una lingua che non avevano mai sentito prima. Intendevo analizzare le interferenze e le alternanze di codici nel loro linguaggio, ma osservandoli, quello che mi ha stupito e mi ha interessato di più è stata la velocità di apprendimento, l’efficacia dei loro adeguamenti linguistici, la loro flessibilità mentale che faceva sembrare questo compito facile, quasi naturale. Il confronto tra la realtà sul campo e la letteratura scientifica che spesso affronta il tema in termini di difficoltà, sforzo o addirittura di “handicap” del bilinguismo dei bambini migranti, mi ha fortemente interpellato. Anche nel discorso politico, nelle politiche sociali e nel sistema di istruzione la questione delle lingue degli immigrati è ricorrente e centrale. La società italiana, di fronte alla forte mobilità transnazionale che caratterizza i tempi moderni, deve affrontare e gestire il rapporto all’alterità. In particolar modo la scuola, luogo di prima socializzazione e di costruzione dell’identità nazionale, dovrebbe accogliere nel suo sistema la diversità linguistica e culturale che riflette la multiculturalità della società italiana contemporanea. In questo ambito, la gestione del rapporto con le differenti lingue che compongono l’universo linguistico dei bambini di origine straniera condiziona il tipo di relazione che si instaura tra scuola e famiglia e influisce in modo significativo sull’esito del processo di integrazione nella società di accoglienza. In una pro1 Tirocinio condotto nell’ambito del progetto “Arcobaleno” della città di Firenze.

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spettiva “utilitaristica” le lingue materne minoritarie non sono pertinenti all’istruzione nella scuola pubblica italiana; la priorità è quindi posta sull’apprendimento dell’italiano e le competenze reali o potenziali dei bambini in altri codici linguistici sono ignorate o per lo meno trascurate, non essendo di utilità immediata all’inserimento del bambino. Addirittura, il loro bi/plurilinguismo, spesso caratterizzato come un bilinguismo (casa/scuola), è non di rado considerato come una delle ragioni dell’insuccesso scolastico che caratterizza una forte percentuale di questa popolazione2. Affrontare la particolarità linguistica e identitaria dei bambini stranieri in termini di ostacolo e problema significa non prendere in considerazione la complessità di una questione che ha profonde implicazioni sociali, psicologiche e pedagogiche che superano la linearità con la quale una visione prevalentemente monolinguista ed etnocentrica valuta le competenze specifiche di queste popolazioni. In questo senso è utile ricordare che più della metà della popolazione mondiale è bilingue e che il bilinguismo è la norma in quasi tutti i Paesi africani e asiatici3. Gli immigrati stessi sono spesso plurilingui (parlando diversi dialetti regionali e almeno una lingua internazionale). La questione che il “plurilinguismo migrante” solleva non può però essere affrontata soltanto dal punto di vista linguistico, ma richiede una lettura multidimensionale che coinvolga le dimensioni sociali e psicologiche dell’immigrazione internazionale della metà del XX secolo. Preme innanzitutto precisare che i bambini stranieri ai quali ci si riferisce in questo capitolo sono essenzialmente i bambini migranti o nati nel Paese di accoglienza ma che appartengono a famiglie migranti da Paesi extraeuropei e quindi le cui lingue sono essenzialmente non 2 Il ritardo scolastico dei bambini e dei ragazzi stranieri è un fenomeno molto importante nelle scuole italiane, specialmente in quelle di ciclo superiore dove il 70% dei ragazzi ha maturato almeno un anno di ritardo scolastico. Un fenomeno che riguarda soprattutto i neoarrivati mentre presenta percentuali del tutto ridimensionate nel caso delle seconde generazioni. Per un approfondimento del tema e per avere i dati precisi del fenomeno a livello nazionale, cf. l’intervento di Andrea Gavosto, Il quadro dell’integrazione scolastica in realtà multiculturali: il contesto europeo, documento disponibile al sito internet http://www.fga.it. 3 B. Comrie - S. Matthews - M. Polinsky, The Atlas of Languages (Facts On File), New York 1996.

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occidentali, costituendo di fatto minoranze etnolinguistiche nel contesto italiano. Il fatto che queste lingue siano considerate minoritarie è relativo, anche perché alcune di esse non lo sono affatto in una prospettiva globale: l’arabo, il cinese o lo spagnolo sono lingue tra le più parlate nel mondo, ma ricollocando queste popolazioni in un contesto migratorio, le stesse lingue perdono valore e prestigio. In questo capitolo, dopo aver delineato le caratteristiche del bilinguismo dei bambini di origine straniera, si discuteranno i contesti sociali che lo determinano e le implicazioni psicologiche che ne conseguono, ponendo particolare attenzione alla dimensione familiare che è strettamente connessa a esse.

Il bilinguismo dei bambini di origine straniera La situazione linguistica delle minoranze etnolinguistiche ricopre realtà molto diverse, caratterizzate essenzialmente dalla presenza di una o più lingue in famiglia diverse dalla lingua dominante, quella del Paese di accoglienza. A questa situazione ci riferiamo con il termine “bilinguismo” inteso non soltanto come la conoscenza di due lingue, ma anche di due sistemi di pensiero, quindi di due culture. Al bilinguismo corrisponde una “biculturalità”, perché un’accettazione del bilinguismo in una prospettiva allargata è insieme immersione e partecipazione attiva a contesti culturali di cui sono portatrici le due lingue di appartenenza4. In primo luogo inizieremo col precisare il concetto di bilinguismo. Cos’è il bilinguismo? E chi è bilingue? La risposta non è così semplice: possiamo dire che esistono tante definizioni del bilinguismo quante comunità bilingue nel mondo. L’età precoce dell’acquisizione e la capacità di parlare come un monolingue in ciascuna delle due lingue sono i criteri, secondo alcuni autori, per essere considerati bilingue5. Altri invece ritengono significativa soltanto la padronanza e danno poco peso all’età di acquisizione. Altri autori ancora, di fronte a una definizione rigida 4 R. Titone, Bilinguismo precoce ed educazione bilingue, Armando Editore, Roma

1972.

5 F. Grosjean, Life with two languages. An introduction to bilingualism, Harvard University Press, Cambridge 1982.

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del bilinguismo, ne danno una definizione minimalista: McNamara6, ad esempio, ritiene che una persona debba possedere almeno una competenza minima in una delle quattro competenze linguistiche (comprensione, produzione, lettura o scrittura) per essere considerato bilingue. Questo punto di vista tiene conto del fatto che le capacità della persona bilingue non sono necessariamente sviluppate in modo equilibrato in ogni lingua. Infatti sono diversi i criteri da prendere in considerazione per rendere conto delle competenze linguistiche di un individuo o di una comunità (bilinguismo) e dello stato psicologico che include anche fattori non linguistici (bilingualità). La prima distinzione da stabilire è quindi il tipo di bilinguismo: precoce, se il bambino è nato in Italia e quindi è sempre stato esposto alle due lingue, o tardivo, se l’italiano è una seconda lingua che il bambino incontra per il fatto stesso dell’immigrazione in un momento preciso del suo sviluppo linguistico, cognitivo, psicologico, ecc. La lingua madre può essere molto presente nella vita del bambino (la usa di continuo fuori dalla scuola) o può essercene un uso sporadico, intermittente. Il bambino, poi, può avere diversi interlocutori, di diverse età, o averne pochi, sostanzialmente i genitori. La lingua madre può essere una lingua standard o un dialetto, e in questo caso può non avere una realtà scritta. Ad esempio, la situazione linguistica degli arabofoni caratterizzata dalla diglossia, ossia la marcata differenza tra la lingua parlata e la lingua scritta, veicolo delle comunicazioni ufficiali (giornali, telegiornali, libri, ecc.), riflette la dualità dialetto/lingua, visto che in tutti i Paesi arabi l’arabo classico e i diversi dialetti nazionali convivono e tracciano, in funzione dell’ambito in cui vengono usati, in modo differenziato, spazi sociolinguistici distinti. Quindi con il termine “bilinguismo” ci si riferisce a realtà molto diversificate. Negli ultimi quarant’anni le ricerche si sono moltiplicate per dimostrare che il bilinguismo è una fonte di arricchimento della personalità del parlante e che un bilingue riceve da questa sua condizione vantaggi cognitivi, metalinguistici e comunicativi. Tuttavia, raramente si parla del bilinguismo o del plurilinguismo dei bambini di origine 6 J. McNamara, The effects of instruction in a weaker language, in «Journal of Social Issues», 23, 2 (1967), pp. 121-135.

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straniera in termini positivi7. Più spesso, nel senso comune, il fatto di parlare in famiglia una lingua diversa dalla lingua di istruzione è stato ritenuto fonte di difficoltà per questi bambini, con implicazioni sul percorso scolastico, più facilmente esposto all’insuccesso. Il tentativo più completo e ambizioso di descrivere questi legami in anni recenti è il rapporto dell’OCSE sui Fattori scolastici collegati alla qualità e all’equità8, basato su un’analisi dei dati PISA 2000, che ha valutato le competenze in comprensione, lettura e matematica degli studenti delle scuole secondarie (dell’età di quindici anni) in 32 Paesi differenti, tra cui l’Italia. I risultati dimostrano una netta discrepanza tra i risultati ottenuti dagli studenti nativi (di cui almeno uno dei genitori è nato nel Paese di residenza) e non nativi (i cui genitori non sono nati nel Paese ospitante), che essi siano nati o meno nei Paesi interessati. La media dei figli degli immigrati è inferiore a quella dei bambini nativi. I confronti sono stati fatti anche secondo il criterio della lingua parlata in casa, evidenziando, per i bambini che parlano a casa una lingua diversa dalla lingua del test, una differenza significativa a loro svantaggio. D’altra parte, però, diversi studi internazionali hanno messo in discussione tale legame tra bilinguismo e fallimento scolastico, richiamando l’attenzione sulla differenza significativa tra lo status socioeconomico dei figli di nativi e dei figli di migranti. Uno studio francese ha dimostrato che la distanza tra gli alunni stranieri e i loro compagni di classe francesi è inferiore rispetto alla differenza rilevata secondo lo status socioeconomico, prendendo in considerazione variabili quale l’impiego del padre, il livello di istruzione della madre e la composizione della famiglia9. I loro risultati evidenziano il ruolo centrale dello status socioeconomico dei genitori e il loro livello di istruzione. In questo senso, un confronto tra nativi e non-nativi non è abbastanza pertinente per spiegare o giustificare il tasso di insuccesso scolastico o ritardo all’interno del sistema educativo. 7 8

Cf. M.A. Abdallah-Pretceille, L’éducation interculturelle, cit. OCSE, Where immigrant students succeed. A comparative review of performance and engagement, in PISA, 2003, http://www.oecd.org/. 9 J.-P. Caille - L.-A. Vallet, La scolarité des enfants d’immigrés, in A. Van Zanten (ed.), L’école: l’état des savoirs, La Découverte, Paris 2000, pp. 293-301.

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Inoltre, sempre secondo lo stesso studio, gli alunni di nazionalità straniera avrebbero un’evoluzione accademica positiva, malgrado una situazione socioeconomica svantaggiata. E quando un bambino investe sulle sue due lingue in maniera indifferenziata e segue un percorso di istruzione bilingue, lo svantaggio socioeconomico e le sue probabili ripercussioni sullo sviluppo cognitivo dei bambini possono essere superati o compensati dallo sviluppo di un bilinguismo. Carlson e Meltzoff hanno realizzato uno studio comparativo tra un gruppo di bambini bilingue inglese/spagnolo, di livello socioeconomico basso, e un gruppo di coetanei statunitensi di classe media10. I risultati non riportano nessuna differenza tra le performance dei due gruppi a test di flessibilità mentale e risoluzioni di conflitto laddove ci si aspettava una differenza significativa a vantaggio dei nativi. Un risultato simile è stato raggiunto da uno studio che abbiamo realizzato a Firenze11 e che ha fatto emergere la maggiore flessibilità mentale dei bambini arabofoni alfabetizzati in italiano e in arabo. Anche in questa occasione il bilinguismo sembra portare vantaggi cognitivi a prescindere della situazione socioeconomica dei bambini. Tali considerazioni evidenziano che la situazione linguistica dei figli di migranti è complessa e strettamente collegata a fattori sovralinguistici, tra i quali risulta determinante lo status sociale delle comunità straniere e le loro competenze nella lingua madre. La fluttuazione nella pronuncia e nel lessico che caratterizza le lingue parlate da parte degli immigrati adulti che alternano dialetto e lingua standard, ad esempio, dimostra secondo Lucchini che il linguaggio dei genitori non è stabilizzato dal punto di vista formale12. Tale problema è stato rilevato studiando il linguaggio delle prime generazioni di immigrati italiani in Francia e potrebbe essere applicato anche agli immigrati nordafricani. La mancata padronanza funzionale degli standard influenza lo sviluppo delle competenze linguistiche dei bambini, che 10 S.M. Carlson - A.N. Meltzoff, Bilingual experience and executive functioning in young children, in «Developmental Science», 11, 2 (2008), pp. 282-298. 11 A. Hagi, Impact du bilinguisme sur les processus exécutifs d’enfants issus de l’immigration: rôle de la flexibilité cognitive?, Université Paris VIII - Vincennes, non pubblicato. 12 S. Lucchini, L’enfant entre plusieurs langues: à la recherche d’une langue de référence, in «Enfance», 4, 57 (2005), pp. 299-315.

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sembrerebbero non avere una lingua di riferimento. Sarebbe questa, secondo Lucchini, una chiave esplicativa delle difficoltà scolastiche dei bambini di origine straniera13. I bambini, infatti, devono essere guidati nel loro apprendimento linguistico, ma se i genitori non hanno almeno un sistema linguistico standardizzato che si manifesta in un linguaggio orale stabilizzato, quest’acquisizione potrebbe essere deficitaria. Coloro la cui lingua madre è strutturata secondo uno standard elevato spesso appartengono a un gruppo più avvantaggiato14. In questo caso, i membri della comunità mostrano un elevato grado di competenza (sia orale che scritta) in entrambe le lingue e continuano ad avere l’opportunità di usare la loro lingua madre in contesti sociali e istituzionali variegati15. Di fatto, sia nell’opinione pubblica, nelle rappresentazioni sociali legate al bilinguismo, sia nelle pratiche istituzionali, si nota una netta distinzione tra il bilinguismo della comunità internazionale, che coinvolge lingue prestigiose e persone di un certo livello intellettuale e sociale, e il bilinguismo dei migranti, detto anche “di massa”, che implica lingue minoritarie e figli di lavoratori migranti. Il paradosso è quasi tangibile se si prende in considerazione il prestigio legato alle ambite scuole internazionali e l’entusiasmo dei monolingue per i percorsi educativi bilingui di eccellenza, e dal lato opposto l’indifferenza che avvolge le competenze dei bambini bilingui provenienti da famiglie immigrate. È evidente la contraddizione che porta a guardare con uno sguardo di profondo riconoscimento e stima un bambino che parla perfettamente l’italiano e l’inglese, e con uno sguardo di commiserazione misto a indignazione un bambino che parli con assoluta padronanza l’italiano e il marocchino. Il prestigio delle lingue, così come dei Paesi da cui provengono, incide fortemente sull’attitudine a leggere in maniera differenziata lo stesso identico fenomeno.

13 14 15

Ibid. C. Hagège, L’enfant aux deux langues, Odile Jacob, Paris 1996. R. Landry - R. Allard, L’exogamie et le maintien de deux langues et de deux cultures: Le rôle de la francité familioscolaire, in «Revue des Sciences de l’Éducation», 23, 2 (1997), pp. 561-592.

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Lingua minoritaria, lingua dominante Non esiste nessuna distinzione né gerarchia tra i diversi codici linguistici che compongono le lingue usate dalle diverse popolazioni nel mondo. Lo yoruba non è superiore né inferiore al portoghese o al giapponese. Ma la realtà dello status sociopolitico delle lingue è tutt’altro che paritaria. Le lingue nel corso della storia dell’umanità sono state investite da poteri simbolici e politici che sono andati oltre la sfera linguistica o culturale dando valori differenziati alle diverse lingue a seconda del periodo storico e soprattutto in funzione del peso economico delle nazioni coinvolte. Riprendendo un esempio proposto da Hélot, la lingua spagnola non ha lo stesso valore in Europa, in quanto lingua di un Paese membro della Comunità Europea, e negli Stati Uniti, in quanto lingua degli immigrati messicani16. Questo tipo di percezione si ripercuote direttamente sui percorsi di apprendimento dei bambini di origine straniera, la cui situazione linguistica è caratterizzata in Italia dallo squilibrio tra la lingua madre e la lingua del Paese di accoglienza. Il loro bilinguismo è profondamente ineguale, la lingua madre è infatti in svantaggio rispetto alla lingua del Paese di accoglienza. Di conseguenza, è spesso esclusa dalla pratica del linguaggio quotidiano e dell’apprendimento nella scuola. Questo fatto relega la lingua madre a una realtà solo orale e il suo utilizzo si limita, quando presente, alla sfera domestica. Il bambino ovviamente percepisce questa ineguaglianza che riflette l’atteggiamento della società verso le sue origini. Invece, è stato verificato che lo status della lingua madre ha un ruolo centrale nello sviluppo del linguaggio dei bambini bilingui. Hamers e Blanc sostengono che la disuguaglianza dello status socioculturale delle due lingue è all’origine del fenomeno del “bilinguismo sottrattivo”, termine usato per indicare una forma di bilinguismo che non porta benefici al parlante, ma genera difficoltà di tipo linguistico, cognitivo e sociale17. Quindi, se il bambino si trova ad affrontare uno squilibrio tra il prestigio economico, culturale e linguistico di una 16 C. Hélot, Bilinguisme des migrants, bilinguisme des élites, analyse d’un écart en milieu scolaire, HEP Bejune, Neuchâtel (Suisse) 2004, pp. 8-27. 17 J. Hamers - M. Blanc, Bilingualité et bilinguisme, Mardaga, Bruxelles 1983.

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comunità rispetto a un’altra, questo squilibrio rischia di manifestarsi non solo in termini di competenza linguistica in entrambe le lingue, ma anche a livello intellettuale18. E dal momento in cui le due lingue divengono concorrenti e non più complementari, quando per esempio si instaura un bilinguismo casa/scuola che evolve verso un monolinguismo nella seconda lingua, l’unica riconosciuta e valorizzata, il rischio è quello di dar vita a forme di vero e proprio “semilinguismo”, cioè una difficoltà linguistica in entrambe le lingue. Jim Cummins, una delle voci più autorevoli nel campo degli studi sul bilinguismo, ha elaborato due ipotesi per spiegare le discrepanze tra il bilinguismo equilibrato, additivo, che ha un impatto positivo sullo sviluppo cognitivo dei bambini, e il bilinguismo sottrattivo, specifico dei bambini di origine immigrata e che talvolta si traduce in un ritardo o un fallimento scolastico. Il suo approccio verte attorno all’analisi del complesso legame tra sviluppo della lingua materna e della lingua seconda, e tra padronanza linguistica e abilità cognitive: l’ipotesi del livello soglia e l’ipotesi dell’interdipendenza delle lingue. Entrambe le ipotesi sono articolate in modo da giustificare la situazione linguistica dei bambini bilingui provenienti da famiglie immigrate. L’ipotesi del livello soglia si propone di spiegare i risultati contrastanti di una serie di ricerche riguardanti la relazione tra bilinguismo e sviluppo cognitivo: Cummins ipotizza che esista un livello soglia di competenza comunicativa in entrambe le lingue di un bilingue che permette lo sviluppo delle abilità cognitive superiori. L’ipotesi dei livelli minimi di competenza suppone che una prima soglia di competenze, una soglia di conoscenza di base della prima lingua, deve essere raggiunta per imparare la seconda lingua senza difficoltà, e una seconda soglia di competenza linguistica deve essere superata per permettere un’influenza positiva del bilinguismo sulle funzioni cognitive. L’ipotesi dell’interdipendenza presuppone invece che, data una sufficiente competenza in entrambe le lingue (livello soglia), ciò che viene appreso attraverso una lingua sia trasferibile nell’altra. Quindi, secondo questa teoria, se il primo o secondo livello di conoscenza 18 M.A. Pinto, Le développement métalinguistique chez les enfants bilingues. Problématiques théoriques et résultats de recherche, in «Scientia Paedagogica Experimentalis», 30, 1 (1993), pp. 119-148.

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della prima lingua non è raggiunto (il caso di alcuni bambini che abbandonano la lingua madre all’ingresso nel sistema di istruzione), la conseguenza logica è profondamente sorprendente: le lingue di origine devono essere rafforzate in modo tale da permettere un’azione positiva sui processi di apprendimento della seconda lingua19. Questa ipotesi contrasta la visione, condivisa da molti, della padronanza linguistica dei bilingui vista come coesistenza di due meccanismi separati, nei quali l’aumento della competenza in una lingua fa diminuire la competenza dell’altra lingua. In altri termini, sono gli aspetti di superficie delle due lingue a essere differenziati, ma a entrambe le lingue sono comuni gli aspetti più profondi, legati allo sviluppo cognitivo e al successo scolastico, che possono essere trasferiti da una lingua all’altra. E di fatto, non di rado le difficoltà di apprendimento della scrittura o della lettura che i bambini stranieri incontrano nei primi anni della scolarizzazione possono essere superati dal momento in cui il bambino impara a leggere e a scrivere anche nella lingua madre. L’importante conclusione che si può trarre dalle ricerche di Cummins e di tutti coloro che hanno lavorato in questi ultimi decenni sulle sue teorie, è che non è la condizione di bilinguismo a costituire un vantaggio in sé, ma determinati rapporti tra la competenza in lingua materna e quella in L2. Da questo punto di vista, la soluzione sta nello sviluppo sociale e istituzionale delle lingue minoritarie. Questo approccio è essenzialmente centrato sulla competenza linguistica del bilingue, misurata rispetto a norme pensate e costruite attorno alla competenza di un soggetto monolingue con una padronanza quasi perfetta della propria lingua, orale e scritta. Il bilingue però non è la somma di due monolingui, il bilingue ha una competenza propria, uguale alla competenza comunicativa del monolingue ma di natura diversa20, di cui l’alternanza dei codici, lo scambio, l’interferenza o la mescolanza tra i codici sono le specificità. Ed è proprio questa specificità che è stigmatizzata come imperfezione dal punto di vista monolingue. La presa in considerazione della competenza co19 J. Cummins - M. Swain, Bilingualism in Education: Aspects of Theory, Research and Practice, Longman, London-New York 1986. 20 Cf. F. Grosjean, Life with two languages, cit.

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municativa dei bilingue o plurilingue può permetterci di esaminare la situazione linguistica dei bambini di origine straniera sotto una luce completamente diversa.

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Dare legittimità alle competenze Il concetto di plurilinguismo e pluriculturalismo sviluppato da Coste offre un quadro teorico pertinente per rendere conto, in una prospettiva della complessità, della competenza singolare del bambino di origine straniera21. Collegando lingua, cultura e comunicazione gli autori riescono a cogliere la multidimensionalità della competenza comunicativa del bilingue/plurilingue, collocando la sua competenza specifica in una storia personale e di gruppo che coinvolge l’individuo, attore sociale, e lo iscrive nella continuità di una traiettoria familiare e nelle dinamiche di trasmissione generazionali. Con l’espressione «competenza plurilingue e pluriculturale» Coste e i suoi collaboratori intendono «la capacità di comunicare attraverso una lingua e di interagire attraverso una cultura posseduta da un parlante che controlla, a livelli diversi, più lingue e, l’esperienza di più culture, gestendo l’insieme di questo capitale linguistico e culturale»22. Non vi è una sovrapposizione o una giustificazione di competenze del tutto distinte, ma l’esistenza di una competenza plurale, complessa e talvolta eterogenea, che include competenze specifiche, talvolta parziali, ma che è allo stesso tempo un repertorio disponibile per il soggetto coinvolto. Questo concetto pone l’accento dunque sull’uso delle lingue a fini specifici e differenziati, senza peraltro affermare che esse si sviluppino in maniera lineare ed equilibrata, o prevedano competenze del tutto identiche a quelle dei monolingui. Secondo questo punto di vista, le competenze parziali in una lingua non pregiudicherebbero la sua utilità funzionale per l’individuo. Nei casi particolari dei bambini 21 D. Coste - D. Moore - G. Zarate, Compétence plurilingue et pluriculturelle, in «Le Français dans le Monde/Recherches et Applications», numéro spécial: Apprentissage et usage des langues dans le cadre européen, 1997, pp. 8-67. 22 Ibid. (trad. nostra).

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di origine straniera, e secondo questo approccio, la separazione delle lingue casa/scuola è legittima, in quanto ogni lingua viene impiegata in contesti diversi e per fini diversi. Il disequilibrio tra le competenze linguistiche diventa una caratteristica del plurilinguismo, riflesso della storia personale, del vissuto del parlante, ed evolve a seconda delle scelte dei genitori, del contesto sociale ed educativo. La competenza plurilingue è quindi fondamentalmente dinamica. L’integrazione tra sapere linguistico, comunicativo e culturale, caratteristica unica e personale di ogni bambino di origine straniera, è una componente della sua personalità a prescindere dal livello di competenza raggiunto in una data lingua. Questa visione legittima di fatto l’importanza di conservare la lingua familiare e permette di superare l’ostacolo posto della concorrenza tra lingue internazionali e minoritarie. Si tratta di considerare come un vantaggio ogni competenza raggiunta dal bambino in contesto scolastico o extrascolastico. Il parlato del bi/plurilingue è molto particolare: spesso il parlante passa da una lingua all’altra anche nella stessa frase, fenomeno molto diffuso nelle famiglie e nelle comunità bilingue o plurilingue. Anche in situazione di apprendimento scolastico si riscontra un’importante alternanza tra le lingue che mette in luce lo sforzo intellettivo che comporta la negoziazione tra i due codici, ma la lettura di questo fenomeno non deve essere fatta in termini di competizione, o “sovraccarico” di informazioni, ma piuttosto come un modo di appoggiarsi su una determinata lingua per accedere al lessico nella seconda lingua. Una visione piuttosto dinamica di scambio e di interazione tra i due codici, che per il parlante esperto diviene strategia comunicativa, volta a negoziare il senso, a precisare le sfumature del messaggio e anche a negoziare l’identità culturale e sociale durante una conversazione23. Il parlato bilingue, per un ascoltatore che non condivide la bilingualità, potrebbe sembrare confusione, “charabia”, interlingua, ma in realtà un’analisi attenta degli enunciati dimostra una struttura complessa che mantiene intatti i due sistemi linguistici distinti e allo stesso tempo rispetta regole sovralinguistiche che regolano e organizzano 23

Ibid.

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lo scambio e l’alternanza tra le lingue24 sviluppando un pensiero più creativo, «trasversale», «relazionale e dialogico», «mobile e flessibile», «migrante ed eratico» come è il pensiero interculturale secondo la definizione di Franca Pinto Minerva25. Avere accesso simultaneamente a due lingue permette dunque a un bambino di scoprire che le visioni del mondo sono tutte relative, con una consapevolezza delle differenze culturali che il monolingue più difficilmente possiede26.

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Custodire un lessico familiare Far crescere un bambino bilingue non è soltanto un evento linguistico, ma è anche un evento culturale e il concetto di pluriculturalismo iscrive questo fenomeno in una dimensione familiare. La famiglia in quanto sistema sociale, quando migra, cerca di non perdere la propria coesione anche attraverso il mantenimento della lingua, e inoltre produce, tramite le parole della sua lingua, «il proprio sistema di lettura, le credenze condivise da tutti i membri della famiglia e che danno senso a tutti i comportamenti e azioni di ognuno e dell’insieme»27. Le lingue della famiglia migrante sono quindi il medium della trasmissione del sistema di idee e cognizioni, degli affetti e delle credenze condivise dai membri della famiglia. L’evento migratorio comporta la rinegoziazione di questo modello mantenendo il legame di appartenenza al gruppo di origine e dialogando allo stesso tempo con la società di accoglienza. In questa dinamica l’accento è posto sull’importanza della trasmissione culturale interna, cioè la trasmissione della cultura di origine nell’ambito della famiglia che condiziona la funzionalità e la statizzazione della trasmissione esterna, quella effettuata dalle istituzioni della società d’accoglienza. 24 25 26 27

Cf. F. Grosjean, Life with two languages, cit. F. Pinto Minerva, L’intercultura, cit., p. 20. A. Granata, Sono qui da una vita, cit. J. Barudy, Migration politique, migration économique: une lecture systémique du processus d’intégration des familles migrantes, in «Santé mentale au Québec», 17, 2 (1992), p. 49 (trad. nostra).

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La migrazione del nucleo familiare destabilizza anche le dinamiche interne alla famiglia, e può avere conseguenze sullo sviluppo del bambino, come ha ampiamente spiegato Marie Rose Moro28. Il momento dalla scolarizzazione e dell’apprendimento della lettura, della scrittura e della matematica (quindi tra i 6 e i 10-11 anni) e l’adolescenza sono due periodi-chiave nello sviluppo del bambino, nonché momenti di vulnerabilità29 in cui il legame tra il bambino e la famiglia vengono profondamente rimessi in discussione. Tobie Nathan afferma che la difficoltà dell’immigrazione consiste nel fatto che la persona migrante deve ricostruire da sola, e nel giro di qualche anno, ciò che generazioni hanno lentamente elaborato e trasmesso30. In questo processo di rielaborazione la lingua di origine, lingua dei genitori trasmessa ai figli, assume un ruolo centrale. La trasmissione di una lingua comune al gruppo contribuisce a istaurare una preziosa continuità tra le generazioni, con l’accesso alla storia della propria famiglia attraverso un lessico complesso e approfondito, e tessendo così il legame di filiazione, come sentimento di appartenenza alla famiglia, e quello di affiliazione, che indica l’appartenenza alla comunità etnica o culturale. Inoltre, la lingua della famiglia è essenziale nella costruzione della genitorialità che una lingua impoverita rischia di privare della sua autorevolezza. Infine, mantenere una lingua madre viva e utile nel contesto sociale delle famiglie migranti rafforza i legami intrafamiliari dando al bambino più sicurezza e una migliore stima di sé e della sua famiglia facilitando di conseguenza il contatto con il mondo extrafamiliare. Articolare trasmissione linguistica e culturale colloca inevitabilmente la lingua madre al centro del processo di inserimento dei figli di migranti nella società di accoglienza in una prospettiva globale e plurale della lingua e della cultura.

28 M.R. Moro, Parents en exil. Psychopathogie et migrations, PUF, Paris 1994. 29 Concetto di Marie Rose Moro già ampiamente approfondito nel contributo

di Caterina Martinazzoli Così uguali, così diversi a scuola, presentato nelle pagine precedenti. 30 T. Nathan, Principi di etnopsicanalisi, cit.

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Conclusioni Il bi/plurilinguismo dei bambini e dei ragazzi di origine straniera è spesso trascurato e non valorizzato delle istituzioni e della società di accoglienza, anzi non di rado viene chiamato in causa per spiegare eventuali ritardi o difficoltà scolastiche. Valorizzare la lingua di origine del bambino straniero diviene un investimento prezioso per la famiglia immigrata, che riesce a mantenere un livello complesso e approfondito di comunicazione al proprio interno, ma anche per la scuola, là dove vi siano spazi di valorizzazione di diversi codici, sfumature di significato, prospettive culturali, e infine per la società nel suo complesso, dove il capitale linguistico introdotto dai bambini di origine straniera può aiutare ad aprire l’intera comunità ad una prospettiva globale e non più solo nazionale. In questo processo sono coinvolti attori diversi: i genitori dei bambini stranieri, che non devono temere di trasmettere ai propri figli il bagaglio prezioso costituito dalla loro lingua madre, ma anche gli insegnanti, che possono contribuire a dare valore e prestigio alle lingue minoritarie all’interno della classe e della scuola, nonché tutti i membri della società, che possono contribuire a superare l’idea, del tutto infondata, che parlare, pensare, sognare in più lingue sia un problema prima che una risorsa.

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III. MAESTRE Al CAMPO ROM

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Alice Sophie Sarcinelli

Marisa1 insegna da trent’anni in una scuola di uno dei quartieri periferici più degradati di Milano. Ha insegnato a bambini delle famiglie più povere e disagiate: figli di immigrati meridionali che vivevano nelle baracche e parlavano solo dialetto, bambini ospiti di uno dei più antichi centri di prima accoglienza per minori, e poi le “seconde generazioni” dei migranti meno abbienti. Ciononostante, l’arrivo dei bambini rom nel 2008 è stata per lei un’esperienza nuova, in quanto l’allarme sociale e la paura che si sono creati nei loro confronti non si erano mai verificati prima. Marisa stessa, assieme alle sue colleghe e ai genitori, appresero non senza preoccupazione la notizia dell’iscrizione di alcuni bambini rom nella scuola: Non sapevamo assolutamente niente dei rom, se non quello che si sa: che rubano, che sono sporchi, che si vestono in maniera diversa, che hanno la regina dei rom e altre sciocchezze di questo genere. Poi, sono arrivati questi bambini: stavano con gli occhi bassi, a terra. Di solito, un bambino che viene trasferito da una scuola all’altra dà il bacio alla mamma, piange perché non si vuole staccare, chiede «A che ora vieni a prendermi?»; mentre loro proprio non guardavano, non parlavano, non reagivano. Poi, un po’ alla volta si sono “sciolti”. Alla fine di quell’anno, sarà stato maggio, il papà di una bambina ha invitato tutte le maestre al campo al battesimo della figlia. Non avevo avuto il coraggio di andare al campo fino ad allora, perché comunque entri in casa d’altri. E poi anche un po’ per paura; pensavo: «E se poi è vero che sono delinquenti e tirano fuori il coltello?». Quella volta siamo andate in tre. Ci siamo chieste: «Chiudiamo le biciclette o no? La borsa ce la teniamo stretta o no?». Insomma, i pregiudizi ce li portavamo dentro, poi ti accorgi di averli e finisce lì, oppure diventa una chiave di lettura statica, che è quello che succede quasi sempre. 1 Per questione di anonimato, i nomi sono stati modificati. Un caloroso ringraziamento va a tutte le insegnanti che hanno condiviso con me la loro esperienza, in particolare L.B., G.L., F.R., S.V. ed E.B.

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Intercultura. I luoghi dell’incontro interculturale È stata la prima volta che ho visto l’interno delle loro piccole case, la prima volta che li ho visti cucinare: mi hanno voluto far vedere tutto il loro mondo. È stato bello: c’erano le casette dove dormivano e poi uno spazio comune, un po’ come le nostre cascine di una volta. Un divano scalcagnato, un tavolo, delle panche, dei passeggini e varie cose. I bambini scorrazzavano e giocavano, gli adulti chiacchieravano sotto l’ombra di una pianta. Da allora, quando andavo lì, ero sempre trattata come un’ospite di riguardo e mettevano sempre un tappeto sulla panca prima che mi sedessi. Poi, è arrivata la notizia dello sgombero del campo. Erano 36 bambini: 26 nelle nostre scuole e 10 in altre scuole del quartiere. Abbiamo detto: «Non possiamo perdere 36 bambini così!». Allora abbiamo scritto una lettera che è stata firmata da metà dei maestri e poi anche dai genitori e da altre persone che non erano legate alla scuola, ma che si sono attivate. E abbiamo cominciato a vederci, a martellare di mail e di fax il Comune, gli assessorati, la Prefettura, l’arcivescovo, i giornalisti... E da quel momento quei rom non li abbiamo lasciati più soli2.

La storia di Marisa racconta delle barriere che molto spesso separano le comunità zigane dalla popolazione. Ci mostra come esse siano state superate e da lì sia iniziato un percorso comune. La scuola non fa più paura né ai genitori rom né ai loro figli, il campo è diventato un luogo di incontro, le mamme rom non sono più viste come ladre di bambini, ma semplicemente come mamme più in difficoltà di altre, ma con gli stessi desideri. Eppure, questa storia è un’eccezione alla regola: nella stragrande maggioranza dei casi queste barriere esistono e hanno una lunga storia. Per comprendere ciò, occorrerà comprendere chi sono questi gruppi e in che modo si sono formate le barriere spaziali, culturali e morali, che ostacolano la frequenza scolastica dei bambini.

Rom: stranieri come gli altri? L’Italia è uno dei Paesi europei con la minor percentuale di rom e sinti (0,10-0,15%, ossia intorno alle 130.000-150.000 persone), di cui la metà ha la cittadinanza italiana e l’80% è sedentario. Parliamo di una popolazione molto giovane: il 45% ha meno di sedici anni e 2

Stralcio di intervista con un insegnante della scuola di primaria.

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il 70% ne ha meno di trenta. Questo non è solamente dovuto all’alto tasso di natalità, ma anche alla speranza di vita, minore di quella dei Paesi in via di sviluppo, e al tasso di mortalità infantile, maggiore rispetto a tutte le altre popolazioni europee. L’appellativo “zingari”, caduto in disuso perché divenuto discriminatorio, era un termine generale che indicava l’insieme delle popolazioni rom, sinte3, gitane e i numerosi altri sottogruppi, sia italiani (rom abruzzesi, sinti piemontesi e lombardi in Italia dal 1500) che stranieri (rom di origine slava e rumena) emigrati dall’ultimo secolo fino ad oggi. Si tratta di gruppi molto eterogenei, da cui il termine «galassia di minoranze»4 e quello di «mondo di mondi»5. Inoltre, ognuna di queste comunità non si identifica quasi mai con l’insieme delle comunità zigane, ma con la rete di famiglie a cui appartengono. Nonostante la diversità, hanno in comune la volontà di preservare il loro gruppo attraverso il matrimonio endogamico, ma soprattutto condividono gli stereotipi di cui sono oggetto e gli atti di discriminazione etnicorazziali che ne derivano. Fin dal loro arrivo in Europa nel medioevo i gruppi zigani conobbero un processo di alterizzazione alimentato da stereotipi sia negativi – incestuosi, privi di Dio e di educazione per la progenitura6 – che positivi – figli del vento, disinibiti, sensuali7 –. I loro rapporti con le popolazioni maggioritarie sono stati costellati da persecuzioni, tentativi di assimilazione o di allontanamento forzato, nonché dall’etnocidio e dallo sterminio durante la Seconda guerra mondiale. Ma questo non impedì in alcuni casi una forte integrazione economica e sociale, per 3 I sinti sono un gruppo zigano giunto in Italia dalla Germania durante il XIX secolo. Vivono anche in Germania, in Austria e in Francia, dove sono chiamati manouches. 4 E. Dell’Agnese - T. Vitale, Rom e sinti, una galassia di minoranze senza territorio, in A. Rosina - G. Amiotti (edd.), Identità ed integrazione. Passato e presente delle minoranze nell’Europa mediterranea, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 123-145. 5 L. Piasere, Un mondo di mondi: antropologia delle culture rom, L’Ancora, Napoli 1999. 6 L. Piasere, Popoli delle discariche. Saggi di antropologia zingara, Cisu, Roma 2005. 7 T. Vitale, Interprétations du changement social, pédagogie et instruments de l’action publique. Catégorisation et bases informationnelles dans les interventions avec les Sinti en Italie, in J. Gautherin, F. Lantheaume, M. Mc Andrew (edd.), Le particulier, le cummun, l’universel. La diversité culturelle à l’école, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, in corso di pubblicazione.

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esempio nei piccoli paesi abruzzesi dove avevano un lavoro come gli altri abitanti o nel nord dell’Italia dove giostrai e altri sinti praticavano mestieri itineranti. Molto lontani dall’essere cittadini del mondo, avulsi da qualsiasi contesto, erano ben radicati nelle comunità locali. Lo stesso vale per gran parte dei rom migranti, che considerano il Paese di provenienza la loro madrepatria dal punto di vista simbolico, ma anche attraverso delle pratiche sociali. Da lì giungono periodicamente persone, beni materiali e simbolici: membri delle loro famiglie, spose per i loro figli, ma anche generi alimentari e prodotti culturali (per esempio, le nuove canzoni che arrivano dalla patria originaria tramite cd, internet e attraverso i gruppi musicali che vengono in Italia per suonare alle feste di matrimonio). I rom migranti hanno una storia di migrazione e di un modo di vita trans-locale e non di popolazioni itineranti8. Possiamo definire transnazionali le loro famiglie in quanto costituite da reti familiari estese i cui membri mantengono tra loro rapporti stretti, anche quando disseminati in Paesi diversi. Alcune famiglie slave si spostano in vari Paesi europei, ma anche questi spostamenti si avvicinano più a uno stile di vita cosmopolita che al nomadismo. Ciononostante, queste comunità (soprattutto quelle presenti in Italia da più tempo) sono ben radicate nelle società locali e hanno stabilito un legame duraturo con il territorio nel quale si sono stabilite. Dunque, i concetti di mobilità e stabilità vanno relativizzati: rappresentano i «poli di un continuum di situazioni di vita in cui è impossibile individuare un confine netto»9.

8 Paolo Boccagni propone il termine “translocale” per indicare la partecipazione transnazionale dei migranti alla vita quotidiana su scala locale attraverso orientamenti affettivi e pratiche sociali nella società di origine e in quella di insediamento. Secondo Leonardo Piasere si può considerare sedentaria «una famiglia che si sposti poco e viva normalmente in un domicilio fisso, non mobile né trasportabile». 9 L. Piasere, I rom d’Europa: una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 12.

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La buona infanzia Come sono stati e come sono percepiti i rom? Cosa desta tanto allarme sociale? Come si guardano reciprocamente rom e gagi10 nella società italiana? Accostarsi all’esperienza dei bambini rom può costituire una via privilegiata per provare a rispondere a queste domande. Le principali rappresentazioni dei bambini rom li vedono come individui pericolosi o esseri innocenti vittime di una cattiva educazione. I loro genitori sono considerati cattivi educatori o persone animate dalle migliori intenzioni ma incapaci di esercitare il proprio ruolo educativo. Queste rappresentazioni sono state usate come giustificazioni per le azioni nei confronti dei gruppi zigani, siano esse violente, persecutorie o assimilatrici. Pur non potendo parlare di una persecuzione permanente, non si può negare che la riprovazione dei genitori per razza o per cultura e i tentativi di rieducazione dei genitori rom sono un tratto costante della storia dei rom che, in alcuni casi, persiste ancora oggi. In particolare, c’è stata una forte condanna delle pratiche educative delle popolazioni rom, considerate inadempienti per quanto riguarda il ruolo genitoriale. Le rappresentazioni dei rom come genitori inetti e come bambini che hanno perso l’infanzia sono stati degli strumenti per mantenere e riprodurre le frontiere con la società maggioritaria. Nello spazio pubblico italiano i bambini rom vengono generalmente considerati “fuori dall’infanzia”11, in quanto la società maggioritaria giudica la loro situazione come moralmente reprensibile e condannabile. Questa concezione dell’infanzia rom si basa su principi di giudizio che dividono tra la “buona” e la “cattiva” infanzia. Nel seguente prospetto ho sintetizzato i giudizi e le osservazioni più comuni di due punti di vista diversi, quello degli adulti rom e degli adulti gagi, in riferimento all’infanzia dei bambini rom:

10 Il termine gagè è il vocabolo con cui la lingua rom si riferisce alle persone non rom e qualifica tutto ciò che non appartiene al mondo rom. 11 A.S. Sarcinelli, Enfants hors-de-l’enfance. Enquête ethnographique sur le garçons de rue à Salvador de Bahia, Mémoire de Master Recherche en Sciences Sociales, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris 2008.

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Visione dei non-rom

Vissuto dei rom

I genitori rom sono incapaci di cre- Paura che vengano loro tolti i figli dai scere i figli servizi sociali I genitori rom non si occupano dei Idea che si debba lasciare che i figli loro figli imparino per imitazione, anche sbagliando!

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Bisogna rieducare i bambini per ri- Trasmettere i propri valori e la proportarli sulla “buona strada” pria cultura ai figli

A fondamento delle differenti “strategie” educative troviamo due caratterizzazioni profondamente diverse dell’infanzia: per i rom, quest’ultima è un periodo della vita dell’individuo che ha una breve durata, mentre per la gran parte del mondo gagio possiamo senz’altro parlare di “lunga infanzia”, protratta sempre di più e priva di confini certi. Inoltre, i rom hanno modalità educative peculiari, quali quella di lasciare la possibilità ai figli di apprendere anche dai loro errori, di tentare di imitare le azioni degli adulti. Vediamo dunque come le rappresentazioni dei rom li portano a essere generalmente considerati incapaci di crescere i loro figli. I genitori rom, la cui storia è segnata da secoli di politiche di rieducazione e persino di sterilizzazione e di allontanamento dei minori che venivano dati in adozione, vivono nel terrore che vengano loro tolti i figli. Questa paura deriva anche dal fatto che a volte esistono elementi oggettivi per i quali i servizi sociali potrebbero intraprendere queste azioni. In altri casi, invece, è stato riscontrato che i servizi sociali identificavano i minori rom come minori maltrattati, tendendo così a darli in affidamento o in adozione, come evidenziato dalla ricerca condotta dall’antropologa Saletti Salza12. In altri casi ancora, la negligenza dei genitori viene giustificata dal fatto che sono rom, come in una recente sentenza del Tribunale di Bologna che ha assolto dei genitori rom che non mandavano i bambini a scuola “perché è nella loro cultura”. In questo modo, le condizioni oggettive di alcuni bambini rom (per quanto riguarda l’abbandono scolastico, i matrimoni precoci, la 12 C. Saletti Salza, Dalla tutela al genocidio? Adozione di bambini rom e sinti in Italia (1985-2005), Cisu, Roma 2010.

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delinquenza o il lavoro minorile) sono stati generalizzati come dato che accomuna tutti i gruppi, in quanto tratto essenziale della loro cultura. I rom sono accusati di strappare l’infanzia ai loro figli e allo stesso tempo di non divenire mai completamente adulti, uno stereotipo che ha una lunga storia, come possiamo notare da una citazione di una delle prime associazioni di studi zigani: «La nazione zingara rappresenta infatti l’infanzia. L’infanzia dell’anima» (Gispy Lore Society, 1871). Questa rappresentazione ricorda molto le modalità che le società occidentali hanno adottato per screditare le altre culture, in particolare quelle delle società indigene e tribali.

Bambini che giocano tra due mondi Le nuove generazioni occupano un punto di intersezione tra la cultura di provenienza e il mondo gagio. I gruppi zigani, in quanto minoranza che ha sempre vissuto immersa nella società maggioritaria, hanno un bagaglio storico di radici e di “competenze interculturali”13 che fa parte dell’educazione della prole da generazioni. Infatti, la loro sopravvivenza si deve soprattutto alla capacità di gestire e di riprodurre le differenze. Non a caso la loro lingua esprime una differenza cognitiva tra rom e non-rom, chiamati appunto gagi in lingua romanès. Questa distinzione quasi ontologica non impedisce loro di essere immersi nelle società locali; al contrario: è ciò che permette loro di continuare a distinguersi, pur essendo continuamente a contatto con la società maggioritaria. Per fare questo, i genitori trasmettono ai figli un forte senso di appartenenza alla comunità e, allo stesso tempo, insegnano loro a nascondere la loro identità, se necessario. È su questi presupposti che si basa la pratica educativa nei confronti dei bambini, a cui viene insegnato dai genitori a essere degli “equilibristi interculturali”14, ossia ad imparare e a rispettare i codici comportamentali della società di minoranza e di maggioranza di cui fanno parte. Spesso, ai bambini vengono dati due 13 14

Cf. D.K. Deardorff, The Sage handbook of intercultural competence, cit. A. Granata, Sono qui da una vita, cit.

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nomi, uno da usare con i gagi e l’altro nella comunità, cosa che li aiuta a scegliere la presentazione di sé più adatta ad ognuno di questi due mondi sociali. Inoltre, i bambini apprendono le informazioni da condividere con i gagi e quelle da nascondere in un’ottica di protezione della privacy del proprio gruppo. Imparano che mantenere dei segreti, a costo di dare informazioni inesatte, dire bugie o rimanere in silenzio, lungi dall’essere un comportamento riprovevole, significa invece mostrare fedeltà al proprio gruppo. I bambini crescono dunque immersi in un crocevia di stili educativi diversi, interiorizzano molteplici codici culturali che devono costantemente negoziare. Il quadro si fa ancora più complesso se aggiungiamo la caratterizzazione di genere: il contrasto tra i due mondi culturali è immediatamente evidente nel confronto del ruolo delle ragazze, dai comportamenti delle quali dipende la moralità stessa dell’intera famiglia. Ciononostante, i valori e le strategie dei genitori non vengono automaticamente riprodotte dai bambini. Al contrario, essi ridefiniscono il confine sociale tra il sé e l’altro. Come si può evincere dalle analisi di Csordas presso un altro gruppo minoritario, questo è un processo dinamico nel quale i bambini non danno per scontato né assimilano passivamente i codici della loro cultura di origine, ma li reinventano secondo dei propri criteri15.

Il paese dei campi L’elemento centrale che contribuisce all’esclusione sociale dei rom, per quanto riguarda l’Italia, è senza ombra di dubbio la segregazione spaziale, che non ha uguali in Europa. L’Italia è stata infatti nominata campland, il Paese dei campi (cf. ERRC, 2000). I cosiddetti campi nomadi italiani sono comparsi negli anni Settanta da un movimento di attivisti gagi per il diritto alla sosta dei cosiddetti nomadi. Seppure nati con le migliori intenzioni, queste aree attrezzate per la sosta divennero campi permanenti: l’esito delle politiche degli enti 15 T.J. Csordas, Growing up Charismatic: morality and spirituality among Children in a Religious Community, in «Ethos», 37, 4 (2009), pp. 414-440.

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locali è stato così la creazione di un inedito regime di precarietà abitativa per questi gruppi sociali (si pensi che la maggior parte dei rom migranti non aveva mai vissuto nelle roulotte). Esistono oggi vari tipi di campi: i campi abusivi più o meno tollerati, i campi autogestiti, ma creati in collaborazione con le autorità locali, i campi gestiti dalle autorità in collaborazione con ong o cooperative sociali e alcune aree di stazionamento di famiglie che praticano una vita seminomade16. Negli ultimi anni l’accanimento contro i gruppi zigani si è diffuso a livello nazionale ed europeo. Un’ondata di disprezzo, di paura e di odio etnico li ha tramutati in poco tempo nel gruppo meno apprezzato dagli italiani. Facendo leva su questi sentimenti, dal 1998 in poi molti governi locali (soprattutto nelle grandi città) hanno fatto ricorso alla violenza istituzionale, agli sgomberi continui dei gruppi più precari e al rinforzo dei sistemi di controllo e di esclusione nei campi nomadi17. Nonostante i rom siano divenuti lo straniero pericoloso per eccellenza, le politiche nei loro confronti variano da città a città e a seconda del gruppo. Nel corso degli anni si sono verificate politiche molto poco lungimiranti, ma anche esempi di buone pratiche, effettuate da governi di entrambe le coalizioni18. Per quanto riguarda le grandi città, possiamo individuare tre tipi di politiche. Innanzi tutto, le “politiche degli sgomberi”, che consistono in misure repressive volte allo smantellamento dei campi abusivi 16 L. Piasere, Che cos’è un campo nomadi?, in «Achab», 8, 6 (2006), pp. 8-16. 17 Nel 2006 assistiamo ai primi episodi di violenza a Opera, nei pressi di Milano,

e nel 2007 l’omicidio di Giovanna Reggiani nella periferia di Roma da parte di un rumeno presunto rom fa esplodere il razzismo anti-zigano. La mediatizzazione e la politicizzazione della “questione rom” (M. Bordigoni, “Terrain désigné”, observation sous contrôle: quelques enjeux d’une ethnografie des Tsiganes, in Ethnologie Française. Terrains minés en ethnologie, n. 1, vol. XXXI, Presses Universitaires de France, Paris, pp.117-126) hanno posto le basi per la dichiarazione dell’emergenza “nomadi”, ad opera dell’ultimo governo Berlusconi nel maggio del 2008. Questa procedura, solitamente impiegata in casi di catastrofi naturali, ha permesso al governo di nominare una serie di commissari straordinari in alcune città. Le misure per fronteggiare “l’emergenza” sono il censimento etnico e il rilevamento delle impronte digitali. Un tentativo di raccolta delle impronte digitali dei bambini è stato fermato grazie alla reazione di ong e grandi istituzioni nazionali e internazionali. 18 T. Vitale, Politiche possibili. Abitare le città con i rom e i sinti, Carocci, Roma 2009.

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abitati principalmente da rom rumeni di recente immigrazione e con le condizioni socioeconomiche peggiori19. In secondo luogo, esiste la “politica di controllo” dei campi municipali i cui abitanti devono sottostare a condizioni sociali e giuridiche sempre più restrittive e che vengono normalmente presidiati da associazioni nominate dai Comuni. In altri casi, vi sono delle “politiche di abbandono” che consistono nel tollerare e lasciare a se stessi alcuni campi abusivi, permettendo il moltiplicarsi di condizioni di illegalità combinate a condizioni di vita particolarmente degradanti.

Frontiere morali I campi costituiscono spazi sistematicamente svalorizzati, che divengono vere e proprie enclave etniche, cosa che favorisce processi di esclusione e d’isolamento. Piasere ha coniato il termine «popoli delle discariche»20 perché nella maggior parte dei casi i luoghi scartati dai gagi sono gli “ecosistemi” di queste popolazioni che, allo stesso tempo, sono viste dall’esterno come produttori di rifiuti. Oltre alla distanza, all’isolamento e alle barriere fisiche che solitamente separano i campi dall’esterno, la percezione e il trattamento dello spazio abitato contribuiscono alla formazione delle microfrontiere, e barriere mentali quasi impercettibili delimitano le città, che potremmo chiamare “frontiere morali”. I campi vengono rapidamente considerati dalla società maggioritaria come spazi immorali, e le barriere, siano esse fisiche, simboliche o immaginarie, servono a proteggere i cittadini dagli abitanti dei campi e a escluderli dalla propria comunità. Se nella maggior parte dei casi gli spazi marginali vengono percepiti come «corpo estraneo, come gemello cattivo rispetto allo stereotipo urbano buono di quartiere tranquillo e ordinato»21, questo 19 Per esempio, l’amministrazione della città di Milano 2006-2011 ha effettuato cinquecento sgomberi, senza una politica lungimirante e senza portare a una soluzione soddisfacente per le parti sociali coinvolte. 20 L. Piasere, Popoli delle discariche, cit. 21 J. Foot, Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Feltrinelli, Milano 2003, p. 161.

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è ancora più accentuato quando si tratta di spazi abitati dai rom. In questi casi infatti, il legame tra luoghi abitati, insalubrità ed etnicità è particolarmente forte. Inoltre, gli abitanti dei campi non vengono generalmente riconosciuti come residenti veri e propri, nemmeno quelli che sono stabili sul territorio da decenni. Essi non vengono identificati né per la loro nazionalità, né per il loro status di migranti o di stranieri, ma come “nomadi”. Non sono solo trattati come “non-persone”22 alla stregua degli altri migranti, ma come “cittadini imperfetti”23. Infatti, anche i rom e i sinti cittadini italiani, che dovrebbero avere pari diritti e doveri dei loro connazionali, di fatto non li hanno: categorizzati come nomadi, subiscono spesso provvedimenti legislativi differenziali. Ne sono una dimostrazione le politiche pubbliche e i numerosi regolamenti destinati ai “nomadi” o ai rom.

Alunni rom a scuola… La scuola è un territorio tutt’altro che neutro per i giovani rom24. Nei loro vissuti si riflettono le discriminazioni da parte della scuola (che consistono alle volte in provvedimenti illegittimi dell’autorità scolastica diretti a limitare il numero di scolari rom per classe o al rifiuto alla refezione gratuita), le resistenze dei genitori (genitori gagi che spesso paventano la presenza di bambini rom nelle classi dei propri figli; genitori rom, la cui considerazione del valore dell’educazione scolastica è a volte bassa), e in alcuni casi le difficoltà economiche e sociali. 22 A. Dal Lago, Non Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999. 23 N. Sigona - L. Monasta, Cittadinanze imperfette. Rapporto sulla discriminazione razziale di Rom e Sinti in Italia, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2006. 24 Sulla scolarizzazione dei rom pesa l’eredità delle “classi speciali”, in vigore in Italia tra il 1965 e il 1982, che prevedevano che i rom entrassero, uscissero e mangiassero separatamente dagli altri alunni. Il progetto si basava sulle teorie di Karpati e Sasso, conosciute come “pedagogia zingara”, secondo cui la scuola doveva rimediare alla mancanza di educazione genitoriale entro le comunità rom. Cf. L. Bravi, Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dei Rom e dei Sinti in Italia, Unicopli, Milano 2009.

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Siccome molti di loro non vanno alla scuola materna, quasi tutti arrivano a scuola senza i prerequisiti non solo dal punto di vista didattico o cognitivo, ma anche sociale. All’inizio, la scuola risulta una gabbia fisica, ma anche comportamentale e psicologica. I piccoli alunni rom vengono catapultati nel mondo gagio, di cui devono decifrare le regole implicite, un compito oggettivamente difficile per un bambino di cinque o sei anni che si ritrova in un ambiente che viene spesso percepito come ostile dalla sua famiglia. Come le maestre all’inizio accolgono l’arrivo dei rom con una certa preoccupazione, così i bambini giungono a scuola con paura e mancanza di fiducia nei confronti degli adulti che hanno davanti. Come racconta una maestra: «Finché non si fidano, finché non sentono che si possono fidare, sono delle casseforti, non si aprono. Lo senti tantissimo, e io ho visto proprio questo i primi giorni»25. Così come i bambini devono decifrare il mondo sociale gagio, le maestre devono imparare a leggere i comportamenti e i bisogni impliciti dei loro alunni. Per facilitare questo processo, è importante fornire agli insegnanti una serie di informazioni che permettano loro di comprendere e sapere entrare in relazione con questo pubblico. A Milano è stata creata la Rete Rom e Sinti, un network di scuole volta a raccogliere informazioni e dati statistici per favorire l’iscrizione a scuola e contrastare la dispersione scolastica: la città è divisa in quattro aree, ognuna delle quali ha una scuola di riferimento con un’esperienza trentennale con i rom e i sinti. Le scuole di riferimento possono dare risposte specifiche ai bisogni delle altre scuole che, pur non avendo una presenza consistente di alunni rom tale da ottenere risorse specifiche come la facilitatrice interna, hanno bisogno di competenze specifiche. A questa rete si affiancheranno i Poli Start, promossi dall’Ufficio Scolastico Provinciale, che proporranno strumenti più operativi per condividere le buone pratiche. Un esempio sono i corsi di formazione per insegnanti che informano sui contesti di provenienza e le condizioni di vita, contestualizzandoli in una dimensione culturale. Gli insegnanti sono così in grado di comprendere atteggiamenti che rimarrebbero altrimenti inspiegabili e di venire a conoscenza di bisogni specifici che a volte non emergono. In questo modo, possono 25

Stralcio di intervista in profondità con un’insegnante della scuola primaria.

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strutturare una serie di interventi e non cadere in una serie di equivoci che spesso interrompono drasticamente il percorso educativo. In alcuni casi, occorre pensare a interventi specifici dal punto di vista metodologico: ad esempio, alle volte questi allievi soffrono di bilinguismo sottrattivo26, in quanto non hanno acquisito competenze sufficienti nella lingua madre, ma hanno competenze diverse in romanès e in italiano. Questi interventi devono innanzi tutto accompagnare il bambino ad apprendere una serie di ritmi, di regole e di rapporti dello stare insieme agli altri che spesso non conosce. Ciò non significa rinunciare agli obiettivi formativi che ci si prefigge con gli altri bambini, ma al contrario riconoscere una serie di bisogni di cui loro sono portatori in modo specifico e a cui bisogna dare risposte operative e didattiche. Questo non deve portare, d’altra parte, a separare i bambini rom dalla propria classe, ma semplicemente creare alcuni momenti volti alla strutturazione dei prerequisiti necessari.

…maestre gagie al campo Purtroppo, però, una buona accoglienza a scuola spesso non è sufficiente a conquistare la fiducia del bambino rom. Come superare i muri che si creano tra maestre e bambini? Vittoria, maestra che segue da vent’anni la scolarizzazione dei bambini rom, racconta le varie tappe che ha percorso. Innanzi tutto, occorre creare condizioni che permettano ai bambini di poter stare in classe insieme agli altri. Al contrario delle classi speciali, oggi si insiste con fermezza che l’obiettivo finale deve essere l’integrazione nella classe e il rapporto con i coetanei. Per fare ciò, bisogna innanzi tutto fornire servizi che permettano ai bambini che vivono in luoghi dalle condizioni igienico-sanitarie molto precarie di essere presentabili in classe. Molto spesso, i bambini e i ragazzi si vergognano di andare a scuola sporchi, non avendo la possibilità di lavarsi al campo. In secondo luogo, occorre allacciare relazioni significative con gli adulti della 26 Il tema del bilinguismo è stato approfondito nel capitolo di Afef Hagi Lingue e legami sulla soglia di casa, presentato nelle pagine precedenti.

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comunità. Questo permette di favorire un atteggiamento di fiducia da parte del bambino. Commenta Vittoria: «Se il bambino ti vede al campo almeno una o due volte, entri a fare parte del suo mondo. Se ti vede solamente a scuola, anche se sei una persona estremamente accogliente, è comunque diverso. All’inizio, si vergognavano molto di incontrarmi al campo, che ne vedessi le condizioni, perché vivevano un profondo senso di inadeguatezza»27. Inoltre, i progetti di scolarizzazione devono essere concretamente legati a politiche locali di inserimento lavorativo, necessarie viste le fortissime discriminazioni che i rom subiscono sul lavoro. Questo è fondamentale per il successo di politiche di scolarizzazione in quanto molti gruppi rom non riconoscono la scuola come un luogo educativo, poiché essa trasmette una cultura che non gli appartiene. Al contrario, la scuola viene valorizzata per le competenze che trasmette nell’ottica di un percorso professionale. L’approccio di Vittoria è diametralmente opposto a quello che viene adottato solitamente e che si propone di delegare la relazione casa-scuola agli operatori sociali. Un esempio può chiarire i due diversi approcci: l’accompagnamento a scuola dei bambini rom. Le istituzioni hanno deciso di organizzare il trasporto dal campo con un pulmino, rischiando così di rafforzare le barriere tra i due mondi e precludendo la possibilità di far incontrare, sulla soglia della scuola, genitori rom venuti ad accompagnare i propri figli e insegnanti. Qualora sia strettamente necessario organizzare un sistema di trasporto per via dell’ubicazione del campo, è importante trovare comunque dei modi per favorire lo scambio tra i genitori e gli insegnanti. Questo tipo di percorso richiede un impegno non scontato da parte delle maestre, in larga parte volontario. Eppure non mancano progetti innovativi attivati senza la necessità di investire grandi risorse finanziarie. È il caso del Comune di Casalmaggiore, dove un’insegnante delle scuole medie inferiori ha creato un progetto grazie al quale per un certo numero di anni tutti i bambini del piccolo campo rom locale frequentavano le scuole dalle materne fino alle superiori (arrivando in alcuni casi a frequentare persino i licei), cosa molto rara per 27

Stralcio di intervista in profondità con un’insegnante della scuola primaria.

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questi gruppi. La scuola è stata il punto di partenza per creare vie di comunicazione. Sono stati aperti gli oratori, le palestre e altre strutture, dando agli alunni rom la possibilità di partecipare ad attività extrascolastiche. Inoltre, ha organizzato una serie di iniziative per favorire e incentivare le relazioni tra adulti rom e gagi. I ragazzi cresciuti in quegli anni, una volta adulti, hanno dimostrato di avere una progettualità che non era presente nelle generazioni precedenti. Anche in Comuni più grandi per un certo numero di anni sono state investite risorse in questo senso. In entrambi, però, è necessario dare continuità a queste attività, basarle su percorsi di emancipazione e risolvere il problema strutturale della segregazione spaziale, al fine di non riprodurre delle situazioni che vanno poi risolte a posteriori.

Conclusioni In queste pagine si è cercato di mostrare le frontiere morali che separano i rom e i gagi. Esse sono state il prezzo che i gruppi zigani hanno scelto di pagare al fine di salvaguardare la loro identità minoritaria. In alcuni casi, tanto i rom quanto i gagi contribuiscono al processo di esclusione sociale e al mantenimento delle frontiere. Così come i loro genitori sono trattati da “cittadini imperfetti”, i figli risultano “bambini imperfetti”, a cui non vengono garantiti gli stessi diritti degli altri. Le istituzioni hanno spesso chiuso gli occhi davanti a queste situazioni, lasciando che i non-luoghi dove queste popolazioni sono state relegate si degradassero. In altri casi, invece, si sono creati dei varchi: alcuni genitori non sono più disposti a pagare questo prezzo e tentano percorsi nuovi di inclusione senza perdere la propria identità. Al loro fianco, alcune maestre hanno contribuito alla realizzazione di questi percorsi, in un’ottica propriamente interculturale che non chiede ai membri delle minoranze di perdere le proprie origini, ma piuttosto di valorizzarle all’interno di un contesto di valori e prospettive condivise. I bambini e gli adolescenti sono spesso i protagonisti di questi tentativi, facendo da “ponte” tra genitori e insegnanti e rinnovando le proprie strategie

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di “equilibristi interculturali”, in grado di giocare con le proprie appartenenze molteplici e di tradurre concezioni e stili di vita diversi con estrema disinvoltura28. La scuola è l’istituzione che più si è messa in gioco per ridefinire la natura degli spazi e dei rapporti tra gli abitanti. Ha bisogno di altre istituzioni per completare questo cambiamento, ma può farsi per prima promotrice di un modo diverso di convivere all’interno della società.

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Cf. A. Granata, Sono qui da una vita. Dialogo con le seconde generazioni, cit.

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IV. città in cui perdersi e ritrovarsi

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Anna Granata ed Elena Granata1

«Una città è quel luogo dove un bambino girovagando vede qualcosa che gli preannuncia quel che farà per il resto della vita»2, scrive l’architetto Louis Kahn. L’esperienza della città – e più in generale l’esperienza dello spazio, delle sue forme, dei colori e degli odori – è un’esperienza che una persona fa ogni giorno nel corso della vita, attraverso cui sperimenta emozioni e riceve stimoli, positivi o negativi. È centrale nella crescita di un bambino che si apre alla prima adolescenza prendere confidenza con la città in cui vive, con i suoi linguaggi, i suoi messaggi, la sua storia e le sue regole. Imparare a orientarsi è un modo per divenire autonomi, prendere le misure del contesto circostante, segnare punti di riferimento o anche vagare senza una meta. Provare a orientarsi implica sempre la possibilità di perdersi, esperienza anch’essa salutare per crescere, oltre che condizione che ci accompagna nel corso dell’intera esistenza. Orientarsi e perdersi, uscire dalle mura domestiche, dall’ambiente familiare protetto, per affrontare un ambiente imprevedibile, dinamico dunque, sono componenti della crescita: ragazzi italiani e ragazzi stranieri (nati in Italia o arrivati bambini a seguito dei genitori) sono accomunati da questa tappa cruciale dello sviluppo, in cui cominciare ad addentrarsi nella città senza il bisogno di essere accompagnati da un adulto. Tuttavia, questo processo di orientamento ha connotati differenti a seconda delle biografie e dei tempi di arrivo nel Paese di immigrazione. 1 Questo testo riprende, ampliandole, riflessioni presentate in Una città in cui perdersi e ritrovarsi. Appunti sui percorsi dei ragazzi di origine immigrata, in «Animazione sociale», 37 (217), 2007, pp. 10-18. Il contributo è frutto di una riflessione comune delle autrici: Anna Granata ha scritto le parti alle pp. 71-81, Elena Granata ha scritto le parti alle pp. 82-88. 2 L. Khan, Form and Design, in «Architectural Design», 31, 4 (1961), p. 148.

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Nelle parole e nei racconti di alcuni ragazzi la condizione di appartenenza plurale, al contempo opportunità straordinaria e fonte di solitudine e incertezza, si riflette nel rapporto con la città e la città diviene lo specchio di questa dispersione, di questa incertezza, di questa varietà di legami a volte difficili da gestire3. Nel racconto di altri, viceversa, la città si costella di punti di riferimento, di luoghi amici, di spazi di incontro che consentano un movimento itinerante tra luoghi nei quali si è attesi (la casa) e luoghi dove si è accolti (la casa di amici, la scuola, l’oratorio, il centro ricreativo, la moschea, il parco). Ed è proprio da qui, da questa città che si squaderna come un testo da comprendere e interpretare, che si apre la possibilità di costruire storie inedite e personali, storie di nuovi cittadini.

L’esperienza del perdersi Crescere significa, in effetti, liberarsi dalle conseguenze drammatiche del perdersi, dell’essere perduti da bambini tra la folla di una fiera, nel fiume umano di una strada. Vuol dire imparare ad orientarsi da soli, a non avere bisogno di una guida per uscire dai meandri e dai trabocchetti dell’ambiente circostante. “Cavarsela” significa dominare la paura di “finire” nell’indifferenza e nella dispersione che ci circonda e trovare in mezzo ad esse i nostri punti di riferimento4.

Perdersi nella città assume, nel caso dei ragazzi di origine straniera, una valenza simbolica forte. Non è solo l’esperienza della crescita, del passaggio da una condizione infantile a una condizione adulta, ma può richiamare per certi versi l’origine “altra” della propria famiglia, un senso di estraneità rispetto al luogo in cui ci si trova a vivere, un’appartenenza “a metà”. Quel disorientamento può alludere a un rapporto complesso e contraddittorio con la società ospitante, magari quello dei loro geni3 Le riflessioni proposte in questo contributo traggono origine dalla ricerca Le seconde generazioni di immigrati a Torino, finanziata dalla Fondazione Agnelli di Torino e coordinata dall’Istituto di Ricerca Codici, a cui le autrici hanno preso parte. Una raccolta più esaustiva dei risultati raccolti è stata proposta nel volume D. Cologna - A. Granata - E. Granata - C. Novak - I. Turba, La città avrà i miei occhi, cit. 4 F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 15.

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tori che dopo tanti anni si perdono ancora per la città. La città mette in luce il passaggio da una condizione di estraneità ad una di familiarità con l’ambiente circostante; le strade man mano conosciute rivelano un’appropriazione graduale dello spazio. I “figli degli immigrati” camminano per la città, segnano circuiti, privilegiano alcuni spazi lungo un percorso tortuoso che li può portare a diventare parte della società e della città che li ha accolti o invece può lasciarli sospesi tra un’appartenenza che hanno perso e una ancora da trovare, o che, infine, può portarli ad assumere radicalmente la propria estraneità rispetto al mondo che hanno alle spalle. In generale, la curiosità e la motivazione a conoscere muovono il ragazzo a scoprire ambiti sempre più allargati, circuiti più complessi, intrecci di persone e di luoghi. La curiosità tipica dell’adolescente lo porta a uscire da casa per conoscere il mondo esterno, cercare nuovi spazi di aggregazione, cercare nuovi stimoli e a volte nuovi pericoli che mettano a repentaglio la condizione ingenua del bambino. Un’esigenza che cresce insieme alla maturità della persona e ne esprime la sua vitalità.

La definizione di mappe cognitive Diverse sono le forme di conoscenza che l’esperienza dello spazio mette all’opera, lungo un crescendo che rende sempre più profonda e intima la relazione con la città. C’è una forma di conoscenza che attiviamo “camminando” attraverso le vie, dentro le piazze. È una forma di conoscenza che interpella i sensi, la vista, la percezione. La città è come un grande libro da imparare a leggere, comunica attraverso segnali, simboli, forme, colori, suoni, odori. Camminare per strada insieme ad un bambino o a qualcuno che proviene da un altro Paese al quale facciamo visitare la nostra città è un’esperienza che tutti abbiamo fatto e che ci “fa vedere” con occhi nuovi strade, monumenti, che magari vediamo ogni giorno. Il bambino impara a dare nomi agli oggetti, agli spazi della sua casa, per essere in grado di muoversi serenamente nel suo spazio; allo stesso modo l’adolescente o l’adulto appena giunto in una nuova città impara a dare nomi agli spazi esterni per superare l’angoscia di un

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ambiente anonimo, privo di riferimenti, di spazi conosciuti, di luoghi significativi. Dare nomi ai luoghi è un’attività spontanea, allo stesso tempo semplice e complessa, di trasformazione di spazi incogniti in spazi familiari sempre più estesi. Un appartamento diviene “casa” nel momento in cui non viene più giudicato in termini dimensionali o strutturali, ma viene colorato e modellato sulle persone che lo abitano. Così anche la città diviene “la propria città” solo nel momento in cui lo sguardo esterno, magari curioso ma distante, si trasforma in sguardo che si appropria degli spazi e dei luoghi, li giudica, attribuisce loro un valore, privilegia alcuni aspetti e non altri, sceglie, crea una mappa per orientarsi. Tuttavia la città si rende intelligibile solo quando qualcuno ci aiuta a decodificare quel mondo: costruire una mappa della città è una pratica relazionale, un esercizio per collegare persone o gruppi di persone, ambiti di accoglienza, luoghi in cui si è attesi, luoghi in cui si può sostare. L’esperienza dell’orientarsi in un mondo nuovo o per la prima volta, nel tempo della crescita, è dunque sempre e in primo luogo la definizione di mappe, provvisorie e incerte, fatte di luoghi riconoscibili ma soprattutto di persone. La costruzione di mappe che consentono di orientarsi nello spazio attiene dunque certamente a un’esigenza di tipo cognitivo: cominciare a padroneggiare la nebulosità dello spazio attraverso punti di riferimento che consolidiamo attraverso gesti quotidiani – il tragitto per andare a scuola, il percorso che fa il tram verso il centro commerciale, la distanza con l’oratorio –, ma ha anche una forte componente legata alle emozioni e alle relazioni significative che i ragazzi intrecciano. L’esperienza urbana coinvolge infine anche una dimensione interiore, simbolica delle persone, mette in moto emozioni e pensieri, può corrispondere al racconto di un’esperienza umana profonda, richiamare ricordi e immagini. È quell’insieme di emozioni che si risvegliano, ad esempio, nel racconto dei ragazzi che tornano dopo tempo nella città natale, o dove hanno trascorso la prima parte della loro infanzia.

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Esperienze di attraversamento Il tempo della crescita è, per sua stessa natura, scandito da attraversamenti. Passare da una condizione infantile ad una condizione adolescenziale porta con sé una serie di cambiamenti, relativi alla percezione di sé, al modo di muoversi nella realtà, non più chiuso entro spazi prestabiliti (la casa, la scuola, i giardinetti) ma aperto a nuovi ambiti di autonomia, alla possibilità di sentirsi collocati entro lo spazio pubblico della città, con le sue innumerevoli potenzialità e le sue insidie. Per i ragazzi di origine straniera il passaggio della crescita è uno dei numerosi “attraversamenti” che caratterizzano in maniera marcata la giovane vita, cui si aggiunge l’esperienza del viaggio, per chi ricorda il Paese di origine con i suoi colori, i suoi affetti, la casa, la scuola, uno stile di vita magari edulcorato dal ricordo e dai racconti dei genitori oppure segnato dalla fuga e dalla paura per una condizione di pericolo, di guerra; l’esperienza della differenza, percepita e resa visibile quando si esce da una condizione infantile e il gruppo dei pari sottolinea e rimarca le origini “straniere” di chi è nato e vissuto in Italia ma si caratterizza per tratti somatici differenti, inusuali; l’esperienza del contrasto, tra la propria famiglia, la comunità etnica e religiosa con le sue tradizioni e il suo modo di vivere e la società italiana, rappresentata dalla città con le sue regole scritte e non scritte. Per tutti questi motivi attraversare la città significa, a maggior ragione per questi soggetti, aprirsi ad un’esperienza di crescita, di consapevolezza che si rende fondamentale e necessaria. Per i ragazzi nati altrove, passare ad una nuova fase della vita coincide con l’abbandono del Paese di origine e aprirsi alla città ha il significato di entrare in relazione con un mondo nuovo, in maniera drastica e non graduale, per alcuni traumatica. L’esperienza del viaggio ha sovvertito la loro vita e si è impressa indelebile nella memoria, molti descrivono con chiarezza di dettagli un momento, un luogo, una sensazione precisa che ha caratterizzato il passaggio ad una nuova vita. La vita di ogni persona è dominata da un evento centrale che configura e distorce tutto ciò che viene dopo e, in una visione retrospettiva, tutto ciò che era avvenuto prima. Per me fu l’andare a vivere negli Stati Uniti, a quattordici anni.

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Un’età difficile per cambiare Paese. Non hai ancora finito di crescere nel posto in cui sei e nel posto in cui vai non ti senti mai a tuo agio. Io non sapevo nulla degli Stati Uniti, non ci ero mai stato. […] Nel giro di ventiquattr’ore io passai dalla fanciullezza all’età adulta, dall’innocenza alla conoscenza, dalla predestinazione al caos. Tutto ciò che mi è capitato da allora, ogni atto, minuscolo o enorme – il modo in cui adopero la forchetta o faccio l’amore, la scelta di una professione e di una moglie –, è dipeso da quell’evento centrale, quel fulcro del tempo5.

Metha racconta l’evento centrale della sua esistenza: l’esperienza della migrazione, il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, completamente diversa. Lo sradicamento, l’essere “gettati” nel breve tempo del viaggio in una realtà nuova nella quale si ipotizza di restare almeno per alcuni anni, è un’esperienza che segna fortemente il migrante e in particolare segna l’adolescente, che vive già dentro di sé l’ambiguità di questa fase della crescita. Molti ragazzi descrivono le sensazioni di disagio e spaesamento, quando non proprio di dolore e sconcerto, provate durante il viaggio. Sono tratti scolpiti nella memoria: il giorno, l’ora, le sensazioni, le luci, i colori, il clima così come le immagini della città sconosciuta, di una scuola e di una classe nuove, di una casa o di un “campo profughi”. Immagini indelebili, che vengono richiamate alla memoria attraverso dettagli precisi: lo sguardo della maestra, il primo giorno nella nuova scuola, la casa, piccola rispetto a quella lasciata, il senso di spaesamento dei propri genitori, una lingua mai sentita prima o, in casi più drammatici, l’esperienza del centro di detenzione temporanea, il contatto con i servizi sociali. Talvolta il ricordo del viaggio non è solo ricordo di una partenza e di un arrivo nell’ignoto, ma è anche il racconto di un’esperienza lunga di privazione di un luogo, della dignità, della propria umanità, come per quei ragazzi che passano attraverso l’extraterritorialità dei campi profughi. Per i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, invece, la situazione è molto diversa, nella misura in cui conoscono l’Italia come unico luogo in cui vivere e l’italiano, spesso, come unica lingua da parlare. Questi ragazzi non provano quel sentimento di nostalgia per il passato, 5 S. Metha, Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi, Torino 2006, p. 8.

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per una condizione perduta, per un Paese abbandonato, ma conoscono solo il presente della loro condizione. Eppure, spesso anche loro hanno chiaro un momento preciso di “attraversamento”, anche loro parlano di un “prima” e di un “dopo” che non è il “prima” del Paese di origine o il “dopo” del Paese ospitante, ma il passaggio dall’omologazione al gruppo dei coetanei ad una condizione di estraneità, in cui l’adolescente diviene spesso, agli occhi degli altri, straniero6. Esiste nelle biografie dei ragazzi “di seconda generazione” un punto di non ritorno, la scoperta improvvisa e pervasiva di essere diversi. Twine parla a questo proposito di boundary events (eventiconfine), episodi che si configurano come riferimenti blandi ad una differenza, sotto forma di una domanda o di uno sguardo compassionevole, oppure come veri e propri insulti razzisti, a scuola, per strada, sui mezzi pubblici e che minano la stima di sé, condizionando l’identità di chi sta crescendo e registra con particolare sensibilità il giudizio delle persone intorno7. Cammino nell’atrio della scuola… la gente cammina accanto a me, affollando i corridoi. Sono una di loro. Mi vesto come loro, parlo come loro, persino impreco per essere dura con loro. Sono coinvolta nella scena, presa nel gesticolare da dodicenne. “P-A.K-I” qualcuno grida… Per me si è fermata la scena… Mi muovo tra gente bianca, seguendo solo i gesti. Mi sento come se qualcuno mi avesse scoperto. Gli occhi sono tutti puntati su di me adesso. L’intruso è stato identificato8.

L’esempio di questa ragazza canadese di origine pakistana è particolarmente incisivo: parla la stessa lingua dei suoi coetanei, frequenta la stessa scuola, indossa gli stessi vestiti, ascolta la stessa musica, ma da un preciso momento in poi viene identificata come straniera, come un intruso rispetto all’ambiente in cui è nata e cresciuta. L’episodio razzista, il fatto apparentemente innocuo di essere chiamata con l’appellativo “paki” (pakistana), segna lo svelamento di una condizione 6 7

Cf. A. Granata, Sono qui da una vita, cit. F.W. Twine, Brown skinned white girls: class, culture and the construction of white identity in suburban communities, in «Gender, Place and Culture», 3, 2 (1996), pp. 57-72. 8 M. Rajiva, Franchir le fossé des générations. Explorer les différences entre les parents immigrants et leurs enfants nés au Canada, in «Thèmes Canadiens», 1, 23 (2005), p. 29 (trad. nostra).

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di alterità che accompagnerà la sua esistenza e che potrà portarla a sentirsi “diversa” in ogni contesto della propria vita. La scuola, il quartiere, la città nel suo complesso sono i luoghi in cui viene registrata questa differenza. La città diventa così nell’immaginario dei ragazzi l’intreccio di questi sguardi, benevoli o diffidenti, che accompagnano la loro crescita: sguardi impressi nella memoria che hanno il potere, forte, di condizionare e a volte definire l’identità di chi sta crescendo. Qualcuno racconta di essersi accorto di essere diverso il giorno che è stato spinto giù dall’autobus, a motivo della sua pelle scura o il giorno in cui qualcuno a scuola gli ha fatto trovare sul diario insulti e minacce, facendo riferimento alle sue origini. Sono definite in letteratura “minoranze visibili”, perché sono gli sguardi degli sconosciuti a individuare e mettere in evidenza il loro carattere di minoranza. Le reazioni dei ragazzi sono molteplici: evitare di prendere quell’autobus che ricorda la paura e la desolazione di un episodio oppure cercare un ambiente in cui ci sono persone che condividono la tua condizione di “straniero”, professano la tua religione o portano nel sangue la stessa origine etnica. Il proprio quartiere può divenire un posto da cui scappare se attraversato da sguardi minacciosi; la palestra un luogo inospitale in cui non ci si trova più a proprio agio; la scuola un ambito chiuso in cui la propria singolarità non viene valorizzata; la discoteca uno spazio proibito in cui non si può entrare se si è diventati, un giorno, stranieri. Il rischio più grande è, in questi casi, la chiusura nelle proprie case, la paura della città come ambito da cui proteggersi, in un’esistenza privata, in un’etnicità ritrovata o nata dal nulla per evitare di sottoporsi a un giudizio esterno.

Un quotidiano esercizio di traduzione Sia per chi è arrivato, sia per chi è nato qui, l’esperienza dell’attraversamento permane a connotare la quotidianità: ogni giorno sono chiamati a varcare soglie, ad adattarsi a sempre nuove cornici9 entro 9 M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Le Vespe, Milano 2000.

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le quali vigono regole e lingue diverse ed essi, crescendo, si attrezzano per comprenderle e utilizzarle diversamente nei vari contesti. Ma gli ambiti non sono così scanditi e definiti come appaiono e presentano piuttosto svariate contraddizioni. È vero che spesso la casa dove abita la famiglia è quella che più facilmente viene vissuta e organizzata sulla base della cultura del Paese di origine, ma sarebbe fuorviante immaginare una dicotomia tra “interno” come luogo della tradizione ed “esterno” come luogo dell’esposizione al nuovo e al diverso. Interno ed esterno, prossimità e distanza, sono dimensioni spesso intrecciate e sovvertite da gesti e abitudini, dove i linguaggi si sovrappongono e contaminano e le seconde generazioni hanno, in questo senso, un ruolo fondamentale nel ridefinire questo equilibrio. La presenza di tv satellitari e di internet nella gran parte delle famiglie avvicina mondi diversi, rende prossimi rapporti con parenti e amici lontani, l’abitudine a usare la chat mette in contatto ragazzi nati in Italia con comunità virtuali legate alle culture o alla fede dei padri. Nello stesso tempo condizioni di sradicamento e di affaticamento dei legami parentali portano molti ragazzi ad identificarsi più facilmente con il mondo esterno che con uno interno, domestico e familiare, dalle cui regole hanno preso in certi casi le distanze. Come sostiene Marc Augé, l’“esterno” invade lo spazio privato attraverso i media che rendono “interno” il globale, avvicinando mondi distanti, restituendo in immagini luoghi ed eventi d’altrove10. Il locale, invece, sembra diventare sempre più “esterno”, lontano, distante: i legami col quartiere, con le relazioni faccia a faccia che solo uno spazio reale può offrire, vengono trascurati in virtù di esperienze relazionali mediate, virtuali. Le chat sono per molti giovani dei veri e propri spazi di relazione, dei centri sociali virtuali, dove conoscere persone che non avrebbero mai conosciuto altrimenti; si conoscono ragazzi e ragazze di tutta Italia ma anche stranieri, senza dover uscire di casa, senza dover affrontare l’avventura della relazione entro spazi fisici. L’esperienza dell’attraversamento consiste, per i ragazzi “di seconda generazione”, in un esercizio di traduzione quotidiano e ri10 M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2005.

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corrente11. Si potrebbe dire che essi sviluppino, in molti casi, vere e proprie “competenze interculturali”, capacità di negoziare, mediare, costruire dei significati e dei valori comuni, nell’esercizio quotidiano dell’arte della convivenza12.

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Lo spazio dell’abitare Nel tempo della crescita riuscire a essere riconosciuti nella propria differenza e autonomia e, al contempo, sentirsi a casa, riconoscersi in un luogo, sentire di appartenervi sono esigenze solo all’apparenza divergenti. In questa direzione, l’abitare si configura come un’unica esperienza esistenziale che trascende e completa l’esperienza della casa, che ha a che fare con la natura dello spazio aperto e pubblico e con la natura delle relazioni che in quello spazio hanno luogo. Una città che aiuta a crescere è una città che valorizza le differenze, che aiuta a ritrovare se stessi e insieme favorisce le comunanze, aiuta a ritrovarsi al di là delle differenze.

Luogo di mescolanza, mobilità, trasformazione L’esperienza dello spazio, del proprio ambiente di vita, non ha naturalmente solo a che fare con la conoscenza del mondo, ma è parte integrante del nostro abitare. Lo spazio dell’abitare è da sempre chiamato ad assolvere almeno ad una duplicità di esigenze: il rifugio e la relazione, la casa, spazio privato e lo spazio pubblico. E le due dimensioni sono in qualche modo inscindibili. Abitare nel suo significato più ampio non si esaurisce nell’oggetto della casa, non si esaurisce neppure nella “vita” che attraversa la casa, nella relazione mutevole tra questo interno e i suoi abitanti, ma è un’esperienza, un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle 11 12

J. Lotman, Tesi per una semiotica della cultura, Meltemi, Roma 2006. Cf. D.K. Deardorff, The Sage handbook of intercultural competence, cit.

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persone, con quel varcare soglie, attraversare confini13. E questo, nel caso di persone di giovane età, appare ancora più vero. Come abbiamo già osservato, i ragazzi si apprestano fin da molto giovani ad abitare un vario insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e così anche una pluralità di “spazi di vita” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il tram, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da una comunità di pratiche sportive, culturali). Nell’esperienza dell’abitare si incontra così non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale, dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti tratti culturali. Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza che le città non sono semplici “contenitori” capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana14, ma sono anche il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide. La mescolanza, anzi, è il tratto costitutivo che rende le città luoghi civilizzati in cui vivere, per tale motivo, lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nelle città. Lo straniero introduce cibi, idiomi, lingue, porta suoni, colori, significati. Se pensiamo alle città italiane, Torino, come Milano, Genova come Roma o Napoli, notiamo come la pluralità di provenienze etniconazionali, l’assenza di ghetti monoetnici e, al contrario, la creazione di quartieri misti dai tratti multietnici, sono caratteristiche certamente problematiche ma anche promettenti. Questa natura plurale di molti contesti urbani è una sfida interessante e stimolante anche per i loro coetanei italiani da generazioni.

Una molteplicità di sguardi e culture Per i ragazzi di origine straniera abitare una città comprende la possibilità di transitare da un interno ad un esterno senza essere so13 A. Lanzani - E. Granata - D. Cologna - C. Novak, Esperienze e paesaggi dell’abitare, Abitare Segesta, Milano 2006. 14 L. Sandercock, Verso cosmopolis. Città multiculturali e pianificazione urbana, Dedalo, Bari 2004, p. 200.

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praffatti dallo spaesamento e dal timore, di poter avere una rete di punti di riferimento, luoghi, amicizie, spazi di incontro. Spesso nel Paese di origine questa possibilità è data dalle circostanze, dalla rete dei familiari, degli amici di famiglia; nel posto piccolo hai l’approdo assicurato oppure ce l’hai dove sei molto radicato (rete amicale e parentale, una città con funzioni chiare). Spesso l’esperienza d’immigrazione presenta il rischio di avere solo un interno, nel quale rifugiarsi, e un esterno anonimo. Allora soprattutto per le seconde generazioni questo diviene un problema rilevante. La prima generazione può non averne esigenza, stretta tra i ritmi del lavoro, i vincoli di eventuali comunità o di condizionamenti culturali del Paese di provenienza. La connotazione etnica degli spazi, l’esistenza di un’economia etnica visibile, suscita rimandi molto diversi nella sensibilità dei padri e in quella dei figli. La generazione dei padri (e delle madri) ha esigenze di radicamento, non fa economie di risorse, le usa senza risparmio, anche la propria differenza culturale può divenire una risorsa da utilizzare per sopravvivere. In questa prima fase anche l’accentuazione di caratteri etnici è funzionale al proprio radicamento: l’apertura di un ristorante etnico, ad esempio, è resa possibile dalla presenza di reti familiari di supporto, da una comunità; il ristorante è l’impresa economica che consente alla famiglia di vivere nel contesto ospitante, di mantenere una casa, di mandare i figli a scuola; il ristorante struttura e organizza tutta la vita della famiglia, il tempo libero e il tempo del lavoro, le relazioni e i contatti con amici e parenti; il ristorante, infine, diviene anche un luogo complesso che facilita gli scambi, l’incontro con i connazionali, il mantenimento e la visibilità di tradizioni e culture (momenti di festa, anniversari), al contempo suscita la curiosità dei residenti, crea un ponte con la popolazione autoctona o diversamente sospetto e preoccupazione. La generazione successiva, quella dei figli, si trova in una situazione radicalmente differente: ha compiuto un percorso scolastico, ha preso in certo modo distanza dalla cultura di cui i padri sono portatori o l’ha fatta sua, reinterpretandola; in ogni caso, è portatrice di una molteplicità di sguardi e di culture.

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Sumaya, giovane marocchina, accompagna mal volentieri la madre al mercato di Porta Palazzo a Torino, non perché sia in opposizione con la cultura di origine, né con la fede che le è stata trasmessa, ma perché conosce la fatica a cui la madre è sottoposta quotidianamente, gli stenti che la sua famiglia ha affrontato nei primi tempi d’arrivo in Italia. Quel mercato, colorato di spezie e di volti, le ricorda quella fatica, una fatica dalla quale vorrebbe fuggire. Sumaya rappresenta ancora una generazione “di frontiera”, stretta tra la cultura e il mondo dei genitori e la possibilità di guardare indietro alla propria cultura e tradizione di origine con partecipe distanza. Eppure, è in questa città plurale, meticcia, dove regna la mescolanza, che più facilmente anche Sumaya potrà perdersi e ritrovarsi. I ragazzi, ancor più che gli adulti, si trovano a gestire il rapporto con altri, diversi da loro, nelle svariate situazioni della quotidianità: man mano che crescono si moltiplicano le occasioni di scambio, emergono le differenze, esplodono gli scontri, ma aumentano anche le opportunità di incontro, di apertura reciproca, se non proprio di comprensione empatica quando «l’altro non è più al di là del confine ma al di qua»15. La città dovrebbe essere la scuola che ci insegna a condurre una vita ben centrata. Attraverso l’esposizione agli altri potremmo imparare a distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è. Abbiamo bisogno di vedere le differenze nelle strade, o negli altri, senza avvertirle come minacce né come tentativi di seduzione, bensì come visioni necessarie. Esse ci servono per muoverci nella vita con equilibrio, sia in senso individuale che collettivo16.

I ragazzi, ancor più che gli adulti, possono imparare a rovesciare il proprio disorientamento in conquista di nuovi spazi e di nuovi amici. Ritrovarsi nel proprio ambiente di vita, assume allora una pluralità di significati: ritrovare se stessi, rispecchiarsi nel proprio ambiente riconoscendovi tratti di familiarità, potersi incontrare con altri, diversi da sé, varcando la soglia della solitudine. E questa possibilità dipende anche dal fatto che la città consenta una pluralità di appartenenze e modi di essere, accolga spazi plurali, 15 G. Mantovani, Etnocentrismo, un nemico nella mente, in «Reset», 1, 97 (2006). 16 R. Sennet, La coscienza dell’occhio. Progetto e vita sociale nelle città, Feltrinelli,

Milano 1992, p. 13.

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all’interno dei quali potersi sentire accolti nei molti modi di essere, nelle molteplici appartenenze e identità, valorizzi la mescolanza e l’“approssimazione”17 tra diversi.

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Conclusioni Non abitiamo mai bene quelle case troppo perfette, abbiamo bisogno di spostare un mobile, un quadro ci appare troppo alto, la luce troppo fioca, ci accorgiamo che il tavolo scelto quadrato sarebbe stato meglio tondo. La piazza progettata per ospitare la socialità di un quartiere di edilizia popolare un po’ anonimo resta deserta. Inspiegabilmente quel piccolo giardino in mezzo alle case è attraversato lungo il giorno da molte persone, le mamme con i bambini, poi i ragazzi e in altri orari gli anziani. Gli spazi, così come le intenzioni e i comportamenti delle persone, non possono essere “interamente” piegati ad un uso e ad un senso dalla progettazione di qualcuno o dall’intenzionalità politica univoca di un decisore. Certamente anche le caratteristiche e le trasformazioni dell’ambiente fisico possono favorire un’evoluzione progressiva dei comportamenti nello spazio. Ma, soprattutto, essi sono reinventati dalle pratiche, trasformati dall’uso, sovvertiti da nuove abitudini. Tali pratiche restano a loro volta impregnate dei loro luoghi: l’esperienza che avviene entro uno spazio se lo porta via, in qualche modo, cucito addosso. Spazi urbani che consentano esperienze di vita significative per i ragazzi di origine straniera, sono spazi più abitabili per tutti.

17 F. Cassano, Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro, il Mulino, Bologna 2003.

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V. GIOVANI IN RETE, CITTADINI DEL MONDO

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Anna Granata e Magda Pischetola

Mi sforzo sempre, quando leggo quelle terribili notizie sui giornali, di non guardare le cose con occhio distante. Eppure in questi giorni mi rendo conto di quanto ne rimango estranea. Cerco sempre di pensare che là, lontano mille miglia dalla mia confortevole stanza, c’è gente che veramente sta soffrendo, che ha paura delle bombe, o che è spazzata via dal vento, dal fango, dall’acqua. Leggo e mi ripeto che quello che leggo non sono parole, ma fatti veri1.

A chi non è capitato di fare almeno una volta un pensiero di questo tipo, di fronte a notizie catastrofiche provenienti dall’altra parte del mondo, che sentiamo distanti e ci paiono talvolta staccate dalla realtà? A esprimersi, in questo caso, è una ragazza di origine filippina che racconta così, su un forum virtuale, il suo rapporto con le notizie provenienti da Paesi lontani. Ma il suo racconto non si ferma qui. Se infatti pensa a una notizia delle Filippine, sente di essere coinvolta in prima persona, anche se a distanza: Il tifone questa volta si è proprio abbattuto su tutti i miei ricordi. Sui luoghi reali dove ho giocato da piccola e dove in seguito ci incontravamo con i cugini a bere San Miguel o Ginebra. E proprio là, in quella stessa piazza, hanno ammassato i cadaveri ritrovati. Per quanto ci possiamo sentire “italiani-e-basta”, credo che noi seconde generazioni avremo sempre un pezzo di cuore che batte da un’altra parte2.

Lo sforzo che deve fare per condividere ciò che accade dall’altra parte del mondo, le diviene molto più facile e immediato quando si tratta del suo Paese di origine, le Filippine. È l’esperienza di molti giovani che appartengono alle cosiddette “seconde generazioni” e che 1 Testimonianza tratta dal forum virtuale della Rete G2, http:// www.secondegenerazioni.it. 2 Ibid.

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vivono da sempre nel nostro Paese, ma con un legame particolare con una terra lontana: la terra da cui provengono i loro genitori, dove vivono ancora oggi i loro nonni e dove trascorrono le proprie vacanze estive. Dalla loro esperienza, di cittadini tra più mondi, è possibile apprendere un insegnamento utile a tutti coloro che vogliono vivere in maniera attiva una cittadinanza interculturale, sviluppando sensibilità e attenzione per ciò che accade in altre parti del mondo. È questo lo scopo del contributo qui proposto.

Una generazione interculturale I giovani di origine straniera costituiscono in Italia una componente sempre più significativa dell’universo giovanile. Se ancora non sono riconosciuti come cittadini, parlano, pensano e sognano in italiano ed è in questo Paese che immaginano di costruire il proprio futuro. Sono cresciuti a contatto con culture diverse, si trovano a tradurre concetti, immagini e idee nella realtà quotidiana, hanno un bagaglio linguistico plurale fin dalla nascita. Sono la prima presenza significativa a livello giovanile delle cosiddette “seconde generazioni” in Italia, circa 900.000 giovani nati nel nostro Paese da genitori stranieri o giunti al loro seguito durante la prima infanzia3. Una generazione che può e potrà soffrire molto per la difficoltà a gestire istanze e visioni talvolta in contrasto tra loro, ma che ha in sé allo stesso tempo infinite potenzialità. Siamo abituati a immaginare questi giovani come lacerati tra due culture, ibridi in perenne crisi di identità. Eppure, i giovani delle seconde generazioni sono più spesso dei “traduttori di mondi” che con disinvoltura attraversano lingue e culture diverse, anche solo varcando la soglia di casa. Ci insegnano, con la loro stessa esperienza, un’idea nuova e aggiornata di cittadinanza, propriamente globale e interculturale, che si esprime in maniera attiva anche nello spazio virtuale4. 3 Cf. G. Dalla Zuanna - P. Farina - S. Strozza, Nuovi Italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, il Mulino, Bologna 2009; e, per un ulteriore approfondimento statistico, fonti Istat, http://www.istat.it e Fondazione Agnelli, http://fga.it. 4 Le riflessioni di questo contributo sono l’esito dell’intreccio dei risultati delle due ricerche di dottorato condotte dalle autrici nel periodo tra il 2006 e il 2009,

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In Italia, fin dai primi anni Duemila, stanno fiorendo e crescendo associazioni delle seconde generazioni che hanno scelto come elemento caratterizzante una delle proprie appartenenze (l’origine culturale, l’origine geografica, la religione o semplicemente il comune denominatore di essere nati in Italia da genitori stranieri). Si caratterizzano per avere un progetto comune, come la richiesta di accesso ai diritti di cittadinanza, l’esigenza di tenere viva la religione minoritaria ricevuta in eredità dai padri, oppure ancora la lotta contro gli stereotipi dei quali la propria etnia o religione soffre, promuovendo iniziative, scrivendo sui giornali, partecipando a dibattiti televisivi, scrivendo libri autobiografici per far conoscere le proprie storie o ancora facendo da mediatori culturali in situazioni di conflitto che si creano tra la prima generazione di immigrati, quella dei loro genitori, e la società. Si tratta di esperienze interessanti per un motivo particolare: sono realtà “autoeducative” create da giovani per altri giovani o ragazzi, sorte con l’idea di promuovere progetti e occasioni che possano suscitare una riflessione di tipo religioso, culturale, sociale o politico tra persone accomunate da una stessa condizione di vita e di crescita. La forza di un consiglio espresso da una persona che appartiene alla propria generazione non è paragonabile a quella dell’adulto, si tratta di due processi distinti, formativi entrambi ma di qualità nettamente differente. Autoeducarsi, come spiega Demetrio, significa «imparare a lavorare su di sé: affinché la propria educazione non si debba mai concludere; affinché ci si possa dedicare a imparare, per prima cosa, da chi sta cercando di educarsi ancora»5. I nuovi media, e internet in particolare, costituiscono uno dei “luoghi” privilegiati in cui questi giovani possono esprimere le proprie idee, raccontare le proprie storie, portare avanti progetti e iniziative, presso l’Università Cattolica di Milano: Magda Pischetola ha condotto una ricerca in pedagogia della comunicazione sul divario digitale e l’accesso a fonti di informazioni plurali, Anna Granata ha condotto una ricerca in pedagogia interculturale sull’esperienza di crescita dei giovani di origine straniera, con un focus sui forum virtuali delle “seconde generazioni”. Le citazioni di interviste a giovani di origine straniera sono tratte da quest’ultima ricerca. Il capitolo è frutto di un’elaborazione comune: Magda Pischetola ha scritto le pp. 89-96, Anna Granata ha scritto le pp. 97-104. 5 D. Demetrio, L’educazione non è finita. Idee per difenderla, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 23.

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in rete con altri giovani in diverse parti d’Italia. È il caso della Rete G2, poc’anzi citata, associazione nata da giovani di diverse origini, accomunati dal desiderio di costruire un’identità interculturale che non dimentichi le proprie radici e allo stesso tempo si veda riconosciuta la cittadinanza italiana. Uno dei paradossi che i giovani di origine straniera si trovano a gestire è quello di partecipare attivamente, spesso più di molti loro coetanei italiani, alla vita della società civile italiana, attraverso forme varie di partecipazione, attraverso il volontariato, qualcuno anche attraverso la militanza in un partito, senza essere però ancora riconosciuti come cittadini italiani6. L’adesione alle associazioni delle seconde generazioni si configura spesso come una vera e propria “palestra di cittadinanza”, un ambito nel quale vivere le dimensioni della responsabilità, della discussione, dell’informazione critica, dell’adesione a campagne e manifestazioni pubbliche, tipiche della dinamica democratica. Un esercizio, vissuto magari fin dall’età dell’adolescenza, che permette di sviluppare una conoscenza approfondita dell’attualità italiana e di altri Paesi, di esporre la propria idea in contesti di dibattito pubblico rispondendo alle domande spesso insidiose degli interlocutori, come nel caso dei Giovani Musulmani d’Italia7, associazione nata nel settembre del 2001 per superare stereotipi e pregiudizi nei confronti delle comunità musulmane in Italia, nonché per contrastare i fenomeni di islamofobia diffusi in particolare dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. 6 Secondo la legge attualmente vigente (L. 91/1992, Turco-Napolitano), i bambini nati in Italia da genitori stranieri acquisiscono la cittadinanza dei loro genitori e, se hanno risieduto legalmente in Italia per tutto l’arco della propria vita, al compimento della maggiore età possono richiedere al proprio Comune di residenza di acquisire la cittadinanza italiana, ma lo devono fare entro e non oltre il compimento del diciannovesimo anno. Se non fanno richiesta entro i termini, come accade alla maggioranza di loro, poco o per nulla informati rispetto a questa possibilità, la cittadinanza torna ad essere una meta difficile da raggiungere. Per i figli di immigrati che non sono nati in Italia (perché arrivati magari a venti giorni, a due mesi, a un anno, spesso i primogeniti, le cui madri hanno voluto vivere per la prima volta l’esperienza del parto accanto alle loro madri, al Paese di origine) non esiste invece nessun percorso ad hoc: spesso si diplomano e si laureano da stranieri nella propria stessa terra. Per un approfondimento della tematica, cf. G. Zincone, Familismo legale. Come (non) diventare italiani, Laterza, Roma-Bari 2006. 7 Cf. http://www.giovanimusulmani.it.

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La consapevolezza di essere i diretti interlocutori della società italiana, che per la prima volta si trova ad avere a che fare con una generazione in grado di attuare una preziosa opera di mediazione con le proprie comunità di origine, rende questo ruolo e questo impegno particolarmente coinvolgente. Lo spazio della rete, al quale dedichiamo questo contributo, permette ai giovani di origine straniera di accedere a fonti di informazione alternative e mantenere un legame con il Paese di provenienza, spesso collocato nell’altro emisfero. Notizie provenienti da lontano possono modificare percezioni e opinioni di chi è capace non solo di accedere all’informazione, grazie alla conoscenza della lingua, ma anche di rielaborarla in modo critico e personale, grazie alla sensibilità sviluppata in famiglia rispetto alla situazione vissuta in un’altra parte del mondo. Le fonti di informazione del Paese di origine forniscono letture e interpretazioni che, se confrontate con quelle dei media italiani, possono favorire una visione plurale, approfondita e decentrata degli eventi a carattere globale.

Informazione, bene primario nel mondo globale Le tecnologie digitali hanno cambiato negli ultimi decenni il panorama della società, comprimendo i tempi e le distanze e modificando abitudini, percezioni, modalità di interazione. La ripercussione culturale di questo cambiamento è complessa e inevitabile. Internet si configura come un contenitore eterogeneo di idee che si confrontano su scala globale, in un sistema che altera alcune nostre convinzioni pregresse, come il fatto che l’informazione sia difficile da reperire o che una comunicazione richieda tempo per essere trasmessa. La società del web 2.0 è caratterizzata da nuove forme di interattività, socialità e autorialità, che rendono l’informazione un dato plasmabile, generato da molteplici contributi, oggetto di continuo confronto sociale8. 8 S. Ferrari - P.C. Rivoltella, Comunicare. Interazione e reti sociali, in A. Cattaneo - P.C. Rivoltella, Tecnologie, Formazione, Professioni. Idee e tecniche per l’innovazione, Unicopli, Milano 2010.

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Una caratteristica peculiare dell’informazione nella società digitale è la sua dipendenza dalla collaborazione di milioni di persone. Qualsiasi individuo può pubblicare in rete opinioni e conoscenze personali, mettendo le proprie risorse a disposizione degli altri utenti e contribuendo a creare quella che De Kerckhove chiama «intelligenza connettiva»9. Si passa da un modello di sapere monocentrico a un modello reticolare, che coniuga tra loro assunti teorici, atteggiamenti, orientamenti del pensiero e culture differenti10. In questo senso il concetto di rete apre all’esigenza di riconsiderare il potenziale complessivo delle tecnologie digitali. L’informazione acquista significato a seconda della sua rilevanza culturale, proponendosi non solo come aiuto esteriore, ma anche come fattore di trasformazione interiore della coscienza11. Inoltre, internet è un possibile mezzo di integrazione democratica dei cittadini nelle vicende politiche mondiali. Questa potenzialità è di straordinaria portata nel superamento dell’invisibilità sociale, intesa come una serie di condizioni che impediscono o rendono difficoltosa ad alcuni segmenti della popolazione la possibilità di esprimersi ed esercitare i propri diritti12. Studiata sotto questo profilo, l’informazione acquista il valore di “bene primario”, un bene che si rivela oggi sempre più importante ai fini della partecipazione alla sfera pubblica e che richiede competenze di rielaborazione sempre più complesse13. Non a caso, dunque, la nostra è la “Società dell’Informazione” o “della Conoscenza”, in quanto la disponibilità di una tale quantità di informazione per l’individuo non è mai stata così ampia. Tuttavia, la letteratura degli ultimi anni ha opportunamente messo in discussione questa concezione della contemporaneità, che non tiene conto delle capacità personali di discriminazione critica delle informa9 D. De Kerckhove, Connected intelligence: the arrival of the web society, Sommerville House, Toronto 1997. 10 G. Cives, Complessità ed educazione democratica, in F. Cambi - G. Cives - R. Fornaca, Complessità, pedagogia critica, educazione democratica, La Nuova Italia, Firenze 1991, p. 24. 11 M. Castells, The Network Society: A Cross-Cultural Perspective, Edward Elgar, Northampton 2004. 12 UNESCO, ICT innovations for Poverty Reduction, New Delhi 2004, p. 25. 13 J. Van Dijk, The Deepening Divide. Inequality in the Information Society, Sage Publications, London-New Delhi 2005, p. 136.

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zioni, dove dovrebbe invece essere valorizzato il ruolo dell’educazione nello sviluppo di capacità di analisi e di selezione. A fronte di un’aumentata quantità di informazione si registra, infatti, anche una «preoccupante scarsità di informazioni»14. Le appropriazioni culturali e gli usi personalizzati della rete restituiscono un quadro di complesse pratiche sociali, spazi inediti di espressione, nuovi criteri di ricerca. In particolare, la forma ipertestuale della rete richiede di modificare le proporzioni di passività e attività mentale per la costruzione di contenuti semantici che siano effettivamente dotati di senso15. Cercare un’informazione online implica orientare la ricerca a uno scopo, che può anche essere lo scopo generico dell’accesso al sapere, ma che passa comunque per obiettivi, interpretazioni, significati specifici. Ciò implica che «l’informazione non esiste indipendentemente dalla capacità umana di utilizzarla»16. Una volta ottenuta un’informazione, è di cruciale importanza saperla utilizzare, attraverso competenze di traduzione e di rielaborazione critica. In questo senso, il concetto di accesso alla tecnologia va problematizzato, in quanto accedere ai contenuti del web non significa soltanto disporre delle infrastrutture e della tecnologia in sé, ma anche avere la capacità intellettuale di impiegare le risorse tecnologiche per i propri scopi individuali17. In questa definizione di accesso, uno dei fattori-chiave che dà impulso all’uso individuale è la motivazione: «L’accesso ai media o alla tecnologia dovrebbe essere visto come un processo con molte motivazioni sociali, mentali e tecnologiche, e non come un singolo evento derivato dall’ottenere una particolare tecnologia»18. 14 15

Ibid. L’ipertesto è la forma testuale in cui è strutturata la rete internet, dove ogni pagina consente di proseguire il proprio percorso ad altre n pagine, attraverso collegamenti, link, banner e immagini cliccabili. Ogni utente deve costruire quindi il percorso di navigazione, seguendo un proprio percorso cognitivo basato su associazioni mentali, interessi personali, esperienze pregresse, esigenze di ricerca, obiettivi, ecc. Per approfondimenti, cf. G. Bettetini, Gli spazi dell’ipertesto, Bompiani, Milano, 1999; W. Ong, Interfacce della parola, il Mulino, Bologna 1989. 16 A. Melucci, Diventare persone. Conflitti e nuova cittadinanza nella società planetaria, Gruppo Abele, Torino 2000, p. 14. 17 E.J. Wilson, The Information Revolution and Developing Countries, MIT Press, Cambridge (MA)-London 2004, p. 299. 18 J. Van Dijk, From Digital Divide to social opportunities, Seoul 2005, p. 8.

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Accesso alle competenze





Accesso motivazionale





Accesso materiale

Accesso all’uso personalizzato

Fig. 1 - Rappresentazione del modello di accesso ai media e alla tecnologia proposto da J. Van Dijk (J. Van Dijk, From Digital Divide to social opportunities, cit.).

Grazie all’accesso fisico alla tecnologia, è possibile sviluppare quelle competenze che permettono all’utente di volgere l’uso dello strumento tecnologico ai propri scopi e bisogni individuali. Trovare contenuti interessanti e utili è poi il fattore che genera ulteriore motivazione all’uso, in un circolo virtuoso di creazione di significati. In conclusione, l’accesso alla rete richiede una vera e propria trasformazione cognitiva, che si concretizza in un approccio attivo alla ricerca e nella capacità di elaborazione delle informazioni reperite. In questo senso, parliamo di competenza mediale o mediatica. Secondo Tulodziecki, il cui pensiero è stato ripreso poi da vari autori, la competenza mediatica si definisce come la capacità di scegliere e utilizzare adeguatamente le offerte mediali, comprendendo

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e valutando i diversi contenuti e smascherando le condizioni – e le intenzioni – della produzione mediale19. Il presente contributo propone alcune riflessioni al riguardo, proponendosi di definire la competenza mediatica a partire dall’esperienza dei giovani di origine straniera che vivono nel nostro Paese.

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Le competenze mediatiche dei giovani di origine straniera Cosa accade se una persona accede a fonti di informazione provenienti da contesti geografici e socioculturali distanti tra loro? È possibile che adotti chiavi interpretative appartenenti a cornici culturali diverse? Le cosiddette seconde generazioni crescono tra due lingue, sviluppano una familiarità con due approcci culturali differenti, e – come meno esplorato nella letteratura di settore – accedono, in maniera più o meno attiva e consapevole, a fonti di informazione che appartengono a due o più contesti di riferimento. Accostarsi alla realtà di questa generazione interculturale si rivela una preziosa occasione per ragionare sull’importanza di ampliare le fonti di informazione non solo per chi si trova a vivere questa esperienza interculturale, ma per tutti coloro che crescono nella società multiculturale e globalizzata. Non perdere le origini e inserirsi positivamente nella realtà italiana sono entrambe esigenze fondamentali nella crescita dei figli degli immigrati, che devono potersi formare identità plurali che non trascurino nessuna delle proprie appartenenze20. Un ruolo fondamentale lo svolgono i media digitali, che restituiscono immagini, notizie e informazioni relative ai molteplici mondi di riferimento. L’esperienza di accesso a fonti plurali di informazione si può realizzare attraverso tre competenze fondamentali: saper cercare, tradurre, interrogarsi e fare rete. 19 G. Tulodziecki, Medien in Erziehung und Bildung. Grundlagen und Beispiele einer handlungsund entwicklungsorientierten, in Medienpädagogik, 3, Bad Heilbrunn 1997, p. 143. 20 A. Manço, Compétences interculturelles des jeunes issus de l’immigration. Perspectives théoriques et pratiques, L’Harmattan, Paris 2002.

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Saper cercare «Nella celebre tripartizione ciceroniana tra “quelli che sanno, quelli che non sanno, e quelli che sanno dove guardare”, […] il vantaggio passa decisamente a questi ultimi»21. Sapere dove guardare o sapere dove cercare le notizie è un’esigenza fondamentale nella società dell’informazione, dove la pluralità delle fonti può rendere difficile discernere dove andare a cercare le informazioni. Alcuni giovani di origine straniera raccontano di seguire che cosa accade nei propri Paesi di origine attraverso le televisioni, i giornali in lingua straniera, le agenzie di informazione che forniscono notizie che non giungono invece all’attenzione dei media italiani. L’esercizio che molti di loro fanno, di paragone e confronto tra voci e punti di vista diversi, è particolarmente prezioso soprattutto in un contesto come quello attuale, che tende a banalizzare le notizie, a fornirle con tempi affrettati, escludendo la possibilità di creare una riflessione attenta su ciò che accade. Alla domanda su come riescano ad avere informazioni sulla situazione, spesso delicata e difficile, dei propri Paesi di origine, una ragazza di origine eritrea si racconta così: Cerco di raccogliere un po’ di informazioni in giro, perché più la fonte è varia più è possibile avere una versione veritiera dei fatti. Internet mi serve per le fonti internazionali se è successo qualcosa di plateale, altrimenti la notizia non viene raccolta. Qualcosa si può venire a sapere dai siti governativi eritrei, un’altra fonte è mia mamma, perché anche se la comunicazione viene molto filtrata arrivano delle informazioni vaghe che io riesco a interpretare accostandole alle altre. Sono dei piccoli tasselli che si compongono 22.

La tendenza a ripetere pensieri di altri, a memorizzare contenuti, anche nel contesto scolastico dell’apprendimento, senza interiorizzare realmente i significati, può essere superata da chi si trova per necessità ad accostare riferimenti diversi, opinioni discordanti, punti di vista che non collimano e che richiedono necessariamente di prendere una propria posizione. 21 G. Da Empoli, Overdose. La società dell’informazione eccessiva, Marsilio, Venezia 2003, p. 103. 22 Stralcio tratto da un’intervista in profondità con una giovane italiana di origine eritrea di 27 anni.

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Tradurre L’esperienza della traduzione caratterizza l’esistenza e connota la quotidianità dei giovani di origine straniera. Ogni giorno sono chiamati a varcare soglie, ad adattarsi a nuove “cornici” entro le quali vigono regole e lingue diverse e già in età molto precoce si devono attrezzare per comprenderle e utilizzarle diversamente nei vari contesti23. Un esercizio, quello della traduzione linguistica e culturale, che può aprire notevoli possibilità di comprensione dell’altro da sé24. L’esperienza della traduzione viene potenziata dal fatto che i figli degli immigrati accedono, attraverso le nuove tecnologie, a fonti virtuali che permettono loro un paragone costante tra notizie in una lingua e in un’altra. Un esercizio che la generazione dei padri, anche quando sia in grado di accedere a fonti nelle due lingue, più difficilmente mette in atto, per il solo fatto che accede più facilmente a fonti cartacee con minori possibilità di intersezione tra le due fonti, come esplicita un ragazzo di Associna (cf. http://www.associna.org), associazione delle seconde generazioni cinesi in Italia: Il cinese comincia a diffondersi anche qui, per esempio nei siti di aziende importanti c’è la versione italiana, quella inglese e subito dopo quella cinese. Soprattutto da quando la Cina è entrata nel Wto la sua immagine è un po’ cambiata. Ho visto per esempio adesso che il «Corriere della Sera» ha fatto sul sito una sezione in cinese e mi capita di leggerla. Mio padre, che è appassionato di giornali cinesi, fa l’abbonamento annuale e lo riceve due volte alla settimana. Ho detto a mio papà che può leggerlo anche sul computer e che così risparmia… ma lui preferisce averlo su carta25.

Il diverso approccio alle notizie, caratterizzato dal mezzo di informazione utilizzato, fa in modo che la generazione dei figli sia più facilmente portata a tradurre non solo parole e concetti ma anche contenuti culturali e visioni spesso profondamente distanti tra loro, in un esercizio 23 24

Cf. M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, cit. Cf. A. Granata - E. Granata, L’esperienza dello spazio nel tempo della crescita, cit., pp. 58-111. 25 Stralcio tratto da un’intervista in profondità con un giovane italiano di origine cinese di 22 anni.

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continuo di paragone, approfondimento e riflessione che permette di penetrare meglio i significati delle notizie stesse.

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Interrogarsi Sviluppare un punto di vista personale implica accettare sempre anche l’esperienza del dubbio, del rovesciamento, del cambiare idea, del porsi e porre ad altri domande. Per vivere in una società multiculturale è più che mai necessario sviluppare un pensiero comprensivo, plastico, che tolleri l’incertezza e che sia in grado di aprirsi a nuove sollecitazioni26. Conoscere le dinamiche interne alla società in cui si vive ma anche alla società di origine, permette di discernere con maggiore attenzione la veridicità delle notizie e di non dare per scontato che le persone possano esprimersi sempre liberamente nei propri contesti di vita. È questo un vissuto che appartiene soprattutto a quei giovani che provengono da Paesi nei quali la libertà di informazione è fortemente minacciata. Una dinamica talmente nota ai più, da suscitare uno spontaneo senso di sospetto di fronte a notizie che il più delle volte possono essere state manipolate: In Egitto ci sarebbero molte persone che vorrebbero esporsi su temi sensibili, ma le loro affermazioni non vengono trasmesse. Un po’ è anche la pressione mediatica, perché se leggi i giornali egiziani pensi che siano tutti felici e abbiano un presidente amatissimo. Se vai in Egitto, sul campione statistico di 100 persone sicuramente almeno 98 ti diranno il peggio sugli ultimi dettami del presidente di questa pseudo-repubblica. Questo però in tv non lo puoi dire e anche i giornali hanno dei limiti e dei confini per la critica, e quindi magari anche se esiste l’associazionismo propositivo viene fermato, viene ostacolato o comunque non viene rappresentato27.

Sapersi interrogare di fronte a notizie che sembrano essere state manipolate o private di aspetti importanti diviene un’esigenza fon26 L’argomento verrà ampiamente trattato nel contributo di Michele De Beni Aprire la mente, proposto nella seconda parte di questo volume. 27 Stralcio tratto da un’intervista in profondità con una giovane italiana di origine egiziana di 23 anni.

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damentale, non solo rispetto ai Paesi di origine, ma anche rispetto al naturale ambiente di vita della società italiana, che non di rado pone limiti alla libertà di espressione e di informazione. I social network, come Facebook, sono stati lo strumento e il luogo attraverso cui i giovani egiziani, tunisini, libici, siriani e di altri Paesi che si stanno liberando dalle proprie dittature, hanno potuto costruire la rivoluzione con l’aiuto dei propri coetanei nati e cresciuti nei Paesi d’immigrazione ma profondamente legati ai Paesi di origine e coinvolti nei processi di democratizzazione di questi stessi28.

Fare rete I giovani di origine straniera, in misura maggiore rispetto ai propri coetanei autoctoni, essendo membri di minoranze etniche, culturali o religiose, si trovano ad aderire a gruppi o associazioni nei quali potersi confrontare con altri soggetti e mettere in comune idee, domande, visioni. Ambiti di questo tipo possono certamente divenire luoghi nei quali aderire a forme di omologazione e adesione acritica a pensieri che provengono dalle figure di riferimento, ma allo stesso tempo sono luoghi nei quali si può vivere l’esperienza della condivisione, del confronto e della collaborazione. La rete internet diviene per molti di questi gruppi il principale luogo nel quale incontrarsi e confrontarsi, per fare progetti, dividersi i compiti, prendere delle decisioni in maniera collegiale. Su questi network (tra i quali quelli più attivi oggi nel web a livello italiano vi sono sicuramente il forum della Rete G2, di Associna e 28 La ricerca da cui nasce la riflessione di questo capitolo è precedente alle rivoluzioni che hanno coinvolti i Paesi arabi dalla primavera del 2011. In questa sede viene soltanto fatto un accenno a questi eventi storici che hanno modificato anche il modo in cui viene pensata e utilizzata la rete internet come strumento non solo di informazione ma di azione civile e politica. I primi studi su questo fenomeno e il coinvolgimento dei giovani di origine straniera sono in corso di pubblicazione: è possibile consultare il rapporto di ricerca redatto da Viviana Premazzi e Matteo Scali per il Centro di ricerca Fieri di Torino, dal titolo Attori transnazionali o solo spettatori? Prime riflessioni sul ruolo delle diaspore nella transizione nordafricana, sul sito http://www.fieri.it.

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di Yalla Italia), ci si scambia idee e ci si organizza per le attività della associazione, e ciascuno è un nodo fondamentale della stessa rete. Fare rete significa non soltanto organizzarsi per portare avanti le attività dell’associazione, ma anche, attraverso lo strumento del forum (cui aderiscono anche molti giovani di origine italiana), fare informazione, condividere notizie provenienti dai propri Paesi di provenienza. Come nel caso della ragazza le cui parole hanno aperto questo capitolo: poter condividere notizie ma anche impressioni ed emozioni, relative a episodi che colpiscono le proprie terre di origine, significa produrre nuova informazione, non solo per il fatto di comunicare notizie e dettagli che i giornali italiani non raccolgono, ma per il contenuto emotivo che può accompagnare le notizie stesse e favorire così la partecipazione anche di chi non è direttamente coinvolto.

Conclusioni Si discute ampiamente di quali competenze debbano sviluppare i soggetti in crescita per essere in grado di affrontare la complessità del mondo contemporaneo. Un elemento cruciale per l’inclusione e la partecipazione sociale sembra essere la capacità di sfruttare le opportunità messe a disposizione dai nuovi media, superando gli usi acritici e superficiali. Per questo si parla di media literacy, o alfabetizzazione mediatica, a indicare nuove tipologie di competenza che prescindano e superino il mero accesso materiale alla tecnologia. Queste rinnovate esigenze di alfabetizzazione chiamano in causa le responsabilità formative della scuola, con particolare riferimento alle competenze degli insegnanti e all’adeguamento degli strumenti didattici. L’alfabetizzazione mediatica si propone come risposta alle sfide della società contemporanea, come strumento di valutazione critica delle rappresentazioni simboliche e culturali dei media, come mezzo adatto a potenziare l’inclusione democratica. E si misura in termini di creatività metodologica e di capacità di reagire al cambiamento sociale. La metodologia didattica più efficace è indubbiamente elastica e pronta alla progettazione congiunta con gli allievi, il

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che implica da parte dell’insegnante alcune attenzioni specifiche al contesto29. La proposta di questo contributo è quella di considerare le competenze delle seconde generazioni elementi-chiave dell’alfabetizzazione ai media, da cui partire per strutturare un approccio educativo efficace e coerente col tempo presente. Obiettivi specifici per un’educazione ai media sono: – fare in modo che ciascuno si costruisca, a partire dalla propria storia personale e dai propri interessi, una mappa di fonti cui fare riferimento per leggere le notizie (saper cercare); – abituare le nuove generazioni a consultare fonti straniere di informazione online (es. il sito della BBC, di Le monde diplomatique, di Al-jazeera) e a utilizzare le proprie competenze linguistiche in modo da decentrarsi rispetto ad una lettura monolingue e monoculturale dell’attualità (tradurre); – educare i giovani a porsi in maniera autonoma e critica di fronte alle notizie cui hanno accesso e a rielaborare i contenuti in chiave personale (interrogarsi); – promuovere una messa in circolo delle notizie non solo in termini di singole informazioni, ma anche di opinioni e di contenuti emotivi, che possono favorire una maggiore partecipazione a ciò che accade (fare rete). Trasversale agli obiettivi citati vi è il fattore motivazionale. L’utilizzo significativo delle risorse digitali nasce in primo luogo dalla volontà e dalla capacità di interpretare la complessità. Le molteplici forme di condivisione di informazioni in rete accrescono le potenzialità dello scambio dialogico, ma richiedono anche una capacità di vincolare le informazioni tra loro, superare la frammentazione e comprendere la realtà con una visione filtrata da sguardi plurali, come spiega Martha Nussbaum: Sarebbe una catastrofe se il nostro Paese fosse pieno di persone con competenze tecniche, ma prive dell’abilità di riflettere criticamente, di esaminare se stessi e di rispettare l’umanità e la differenza degli altri. […] È quindi asso29 Cf. M. Pischetola, Competenze digitali per l’innovazione scolastica, intervento al Convegno Didamatica 2010, Università La Sapienza di Roma, 22 aprile 2010.

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lutamente prioritario sostenere gli sforzi volti alla formazione di cittadini che si facciano carico del proprio pensiero, che possano considerare ciò che è diverso ed estraneo non come una minaccia da affrontare, ma come un invito a esplorare e a comprendere, ampliando la loro mente e la loro disponibilità come cittadini30.

L’educazione ai media può sfruttare la ricaduta positiva delle nuove modalità di fare e di fruire l’informazione, trasformando un processo spontaneo e motivato da ragioni personali in un atteggiamento strutturato e rivolto all’intera comunità giovanile. Dai giovani di origine straniera si ricava quindi una lezione di vitale importanza per l’educazione attuale, sempre più chiamata a formare cittadini del mondo, capaci di informarsi in maniera critica e personale rispetto alla complessità del tempo presente.

30 M. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 2006, p. 236.

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VI. PONTI DELL’AMICIZIA ALLE SOGLIE DELL’età aDULTA

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Davide Girardi

Nelle riflessioni di George Simmel la “socievolezza” è una forma del vivere sociale dal carattere non strumentale, contraddistinta invece da destrutturazione e spontaneità. «Non possiede alcuna finalità materiale, alcun contenuto o risultato che si trovi al di fuori del momento socievole, essa si basa interamente sulle personalità». Un’esperienza diversa rispetto ad altre forme di relazione sociale: «Nulla oltre al piacere di questo momento, tutt’al più un’eco di questa spensieratezza deve essere ottenuta; in tal modo il primato continua a spettare, nei requisiti come nei risultati, alle persone che vi prendono parte»1. Alcune riflessioni dei giovani incontrati lungo il percorso di ricerca, cui questo contributo si riferisce, riecheggiano le suggestioni simmeliane introducendo nel contempo l’oggetto del presente saggio: le relazioni amicali dei giovani adulti di origine straniera. «Una cosa che mi è piaciuta: un viaggio che ho fatto con la ragazza e un amico e la sua ragazza, eravamo in quattro, una bella compagnia. Me lo ricordo perché era la prima volta che viaggiavo con amici. Eravamo tra amici, un bel posto, eravamo tutti assieme, un’esperienza che mi è rimasta», racconta un giovane di origine marocchina. «Prima, nel reparto dov’ero, avevo un’amica italiana con cui parlavo, anche adesso ci parlo, ma siccome siamo divise non ci incontriamo, ma prima andavamo a prendere il caffè, a mangiare insieme, ci raccontavamo delle cose, tante cose. […] La chiamavo, mi chiamava», racconta invece una giovane di origine romena2. In questi brevi stralci l’esperienza dell’amicizia si rivela già come un’occasione privilegiata per lo sviluppo di per1 2

G. Simmel, La socievolezza, Armando, Roma 1997, pp. 43-44. Stralci tratti da due interviste in profondità: una a un giovane marocchino di 21 anni, l’altra a una giovane romena di 22 anni.

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corsi di socializzazione, anche alle soglie dell’età adulta, andando oltre le differenze di origine e divenendo terreno fertile per una reciproca conoscenza e comprensione.

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Reti di amicizia alle soglie dell’età adulta I contributi di ricerca sui percorsi dei giovani adulti di origine straniera hanno conosciuto negli ultimi anni un notevole incremento, dando vita anche in Italia a un ambito di studio strutturato e con una solida letteratura di riferimento alle spalle3. Volendo individuare due caratteristiche di fondo delle ricerche susseguitesi in particolare negli ultimi dieci anni, potremmo evidenziare in primo luogo il frequente ricorso all’analisi di popolazioni scolastiche e, quindi, di coorti formate prevalentemente da soggetti minorenni. Si è trattato, in secondo luogo, di indagini spesso fondate su strumenti esplorativi di matrice qualitativa, considerati utili ad affrontare “oggetti” di studio dai confini sfumati e, per molti aspetti, ineffabili. Le pagine che seguono intendono completare e sviluppare i percorsi di ricerca appena citati, con tre elementi di originalità: il primo elemento rinvia alla coorte d’interesse, giovani adulti di nazionalità marocchina e romena d’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Il secondo alla scelta dello strumento di ricerca, un questionario strutturato e standardizzato4; in propo3 Tra le numerose pubblicazioni sul tema, in ambito sociologico, possono essere ricordate: R. Bosisio - E. Colombo - L. Leonini - P. Rebughini, Stranieri e italiani. Una ricerca tra gli adolescenti figli di immigrati nelle scuole superiori, Donzelli, Roma 2005; E. Besozzi - M. Colombo - M. Santagati, Giovani stranieri, nuovi cittadini. Le strategie di una generazione ponte, Franco Angeli, Milano 2009; L. Leonini - P. Rebughini (edd.), Legami di nuova generazione. Relazioni familiari e pratiche di consumo tra i giovani discendenti di migranti, il Mulino, Bologna 2010. 4 L’indagine si è svolta nell’ambito delle attività del Dipartimento di Sociologia dell’Università degli Studi di Padova ed è stata sostenuta dalla Fondazione Nord Est. Essa si basa su due campioni per quote, stratificati per genere, per età e per provincia (Padova, Verona, Vicenza e Treviso): il primo, composto da 150 giovani adulti di nazionalità romena di età compresa tra i 18 e i 29 anni compiuti; il secondo, composto da 143 giovani adulti di nazionalità marocchina di età compresa tra i 18 e i 29 anni compiuti. La rilevazione si è svolta con tecnica p.a.p.i. (paper aided personal interview) nel periodo luglio-settembre 2009.

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sito, l’analisi strutturata ha contribuito a un campo di ricerca richiamato anche da autori che si rifanno a prospettive come network analysis5 e da quelli più ampiamente orientati allo studio delle reti6 (anche amicali). Riprenderemo, così, alcune sollecitazioni delineatesi in letteratura, come quella di Eve che, in un articolo a essa dedicato, si chiedeva se l’amicizia fosse un sociological topic, marcandone l’intreccio costante e ineliminabile con le dimensioni sociali fatte oggetto di vasta letteratura, come la stratificazione sociale7. Pahl, da un diverso punto di vista, auspicava che i sociologi fossero «più precisi circa ciò che essi intendono quando si riferiscono agli amici, alle relazioni di amicizia e all’amicizia»8. Il terzo elemento funge da frame dei primi due: non è stato impiegato quale concetto sensibilizzante9 quello di “cultura” (variamente declinato come nazionalità, origine, ecc.), bensì un riferimento di tipo generazionale10. Gli intervistati sono stati coinvolti quali giovani adulti, prima del loro essere giovani adulti di origine straniera, sondando come le loro biografie si avvicinino o, al contrario, si allontanino da quelle dei coetanei di nazionalità italiana11. La scelta di due nazionalità, marocchina e romena, è dovuta a una motivazione di ordine quantitativo (in virtù della loro consistenza numerica nel territorio di indagine) e ai vantaggi della comparazione. Il concreto riferirsi a due specifiche nazionalità non ha tuttavia inficiato il tratto generazionale. 5 M.G. Everett - S.P. Borgatti, Models of Core/Periphery Structures, in «Social Networks», 21, 2000, pp. 375-395. 6 Cf. C. Bidart - A. Degenne, Introduction: the Dynamics of Personal Networks, in «Social Networks», 27, 2005, pp. 283-287; C. Bidart - D. Lavenu, Evolution of Personal Networks and Life Events, in «Social Networks», 27, 2005, pp. 359-376. 7 M. Eve, Is Friendship a Sociological Topic?, in «European Journal of Sociology», XLIII, 3 (2002), pp. 386-409. 8 R. Pahl, Towards a More Significant Sociology of Friendship, in «European Journal of Sociology», XLIII, 3 (2002), pp. 410-423, qui: p. 421 (trad. nostra). 9 H. Blumer, Simbolic Interationism. Perspective and Method, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1969. 10 K. Mannheim, Le generazioni, il Mulino, Bologna 2008. 11 Per approfondite analisi in merito alla condizione giovanile in Italia si rinvia a C. Buzzi - A. Cavalli - A. de Lillo (edd.), Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2002; V. Cesareo (ed.), Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Carocci, Roma 2005; C. Buzzi - A. Cavalli - A. de Lillo (edd.), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2007.

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Come accennato in avvio, l’obiettivo dell’analisi consiste nell’osservazione delle reti amicali dei giovani adulti di origine straniera, per comprendere quale sia il loro dipanarsi e quali variabili intervengano nel loro esplicitarsi. Se dimensioni quali lavoro e consumo, infatti, palesano le strutture di opportunità nelle quali l’individuo è inserito, le cerchie amicali compartecipano ai percorsi di inclusione (o esclusione): generano senso, contribuiscono a valicare o, al contrario, a riprodurre i confini socialmente legittimati e sono più ampiamente archetipiche dei legami tardomoderni12. Possono, inoltre, essere interpretate come una forma di capitale sociale13.

La “mappa” delle amicizie Chi sono gli amici che frequentano gli intervistati? A un primo sguardo (Tab. 1), i dati introducono un quadro differenziato. marocchini

romeni

È un gruppo fisso di amici, una compagnia

32

35

Frequento diversi gruppi di amici

29

22

Frequento amici, ma non costituiscono un gruppo 36

39

Non ho alcun amico

3

4

Totale

100

100

(N)

(143)

(150)

Tab. 1 - “Il gruppo di amici che frequento di solito…” per nazionalità (valori percentuali)

Il 65% dei giovani marocchini e il 61% dei giovani romeni, infatti, attestano reti amicali distribuite su gruppi diversi, o comunque formate da persone che essi non reputano come gruppo “strutturato”. 12 13

Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002. P. Di Nicola, Amichevolmente parlando. La costruzione di relazioni sociali in una società di legami deboli, Franco Angeli, Milano 2002.

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Nemmeno la composizione in termini di nazionalità appare polarizzata (Tab. 2). marocchini

romeni

Più o solo stranieri

53

59

In ugual misura stranieri e italiani

30

25

Più o solo italiani

17

16

Totale

100

100

(N)

(140)

(144)

Tab. 2 - “Di solito, gli amici che frequento sono…” per nazionalità (valori percentuali)

Se il 53% dei giovani di nazionalità marocchina e il 59% dei coetanei romeni affermano di frequentare quasi del tutto o del tutto amici di nazionalità straniera, la componente residua si divide tra quanti affermano di avere almeno metà dei propri amici di nazionalità italiana e quanti si dichiarano amici, quasi del tutto o del tutto, di persone di nazionalità italiana. Tratteggiando il profilo di chi, tra i rispondenti marocchini, può contare su una molteplicità di riferimenti amicali, si nota come le donne (il 45%, contro il 28% degli uomini) e coloro che non hanno mai lavorato (il 41%, contro il 33% di chi ha lavorato) presentano reti composte in misura maggiore da persone che non formano un gruppo. Gli studenti accentuano tale andamento: rispetto a chi non studia, infatti, essi sono in maggioranza sia tra quanti presentano diversi gruppi di amici (il 35%, contro il 28%), sia tra coloro che ritengono di avere amici che non formano un gruppo (il 42%, contro il 35%). Tra i giovani marocchini, poi, reti più diversificate (“frequento diversi gruppi di amici”) equivalgono a una più marcata presenza di persone di nazionalità italiana (il 39% per chi frequenta prevalentemente persone di nazionalità italiana, contro il 24% di chi frequenta quasi del tutto o del tutto persone di nazionalità straniera). L’atomizzazione dei riferimenti amicali riguarda nel contempo le donne e coloro che non dichiarano alcuna esperienza lavorativa. Nel campione considerato sono le donne di origine marocchina a incidere

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di più tra chi è privo di un lavoro, in coerenza con i dati di sfondo14. Gli uomini affiancano alla più solida posizione occupazionale (di occupati, appunto) uno spazio di relazione più votato all’ambiente extradomestico, moltiplicando le occasioni di incontro e perciò le possibilità di crearsi un “nucleo” d’amici. Per quanti studiano, i dati rispecchiano l’ampio bacino relazionale concesso dalla loro stessa condizione di studenti. Le considerazioni svolte per i giovani adulti di origine marocchina lasciano spazio a un affresco meno composito tra i coetanei di origine romena: qui, le reti amicali riflettono meno gli effetti di contesto. La condizione di lavoratore, quella di studente, il genere degli intervistati e le proprietà analizzate per i giovani di nazionalità marocchina non testimoniano margini tali da consentire di marcarne alcuni rispetto ad altri. Ciò potrebbe sottendere una mobilità relazionale più generalizzata tra i giovani adulti di nazionalità romena: la scelta di frequentare un gruppo di amici, o più gruppi di amici, dipenderebbe meno dalla possibilità di farlo (ad esempio, in un contesto formale come quello scolastico o lavorativo) rispetto alla volontà di procedere nell’una o nell’altra direzione. Prendendo in considerazione la composizione nazionale delle reti amicali (che, sul piano delle frequenze semplici, non mostrava scarti di rilievo tra i due campioni), si ripropone il medesimo andamento. I margini che separano internamente le risposte dei giovani adulti di origine marocchina sono più ampi di quelli dei coetanei romeni: analizzando per maggiore semplicità la modalità che raccoglie il maggiore numero di risposte (“più stranieri o solo stranieri”), i punti percentuali che tra i giovani marocchini dividono chi ha lavorato in passato da chi non ha lavorato sono 11 (2 per i romeni), 17 tra gli studenti e i non studenti (7 per i giovani adulti di nazionalità romena); 35 punti percentuali separano chi tra i giovani marocchini si definisce credente e praticante dai ritualisti/disinteressati (12 per i coetanei romeni) e, infine, 17 punti separano gli intervistati marocchini più giovani (18-24 anni) dai meno giovani (25-29 anni) (5 per i coetanei romeni). Queste divaricazioni suggeriscono che le reti amicali si pluralizzano (in termini nazionali; modalità “più italiani o solo italiani”) in presen14 Per i dati riguardanti la popolazione di origine straniera residente in Veneto cf. Osservatorio regionale sull’immigrazione (ed.), Immigrazione straniera in Veneto. Rapporto 2010, Franco Angeli, Milano 2010.

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za di condizioni agevoli, come può darsi per chi studia, chi ha lavorato o chi si reca in misura minore presso i luoghi di aggregazione religiosa (frequentati, quasi per definizione, dai propri correligionari). In secondo luogo, suggeriscono che simili condizioni possono costituire il locus del mutamento più per i giovani di nazionalità marocchina (come attestano i più ampi margini percentuali) di quanto non siano per i giovani di nazionalità romena. Che appaiono meno legati alla necessità di poter sperimentare amicizie con persone di nazionalità diversa di quanto non siano i coetanei di nazionalità marocchina. Una valutazione che, invero, richiama le suggestioni scaturite nel corso delle interviste in profondità (preparatorie rispetto al questionario) con i giovani adulti di nazionalità marocchina, per cui frequentare amici di nazionalità italiana condurrebbe a una rivisitazione simbolica di alcuni assunti e sarebbe per tale ragione più problematico. Ipotizzando di porci su una sorta di “asse del cambiamento”, nel percorso di transizione alla vita adulta le condizioni di contesto (di cui le amicizie compartecipano) stabiliscono presso i giovani adulti di nazionalità marocchina una distanza maggiore tra coloro che si trovano a un estremo e coloro che si trovano all’estremo opposto, più di quanto avvenga per i giovani di nazionalità romena. Fuor di metafora, i primi appaiono più reattivi dei secondi. Continuando nella ricostruzione della mappa amicale dei rispondenti, somiglianze e differenze tra i due campioni si riconfermano con i tratti già analizzati. A quanti hanno dichiarato la presenza di amici di nazionalità non italiana è stata proposta la distinzione tra connazionali e amici di nazionalità diversa. marocchini

romeni

76

86

In ugual misura connazionali e persone di 19 altra nazionalità

10

Più o solo persone di altra nazionalità

5

4

Totale

100

100

(N)

(135)

(140)

Più o solo connazionali

Tab. 3 - “E tra gli amici stranieri frequento…” per nazionalità (valori percentuali)

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Le frequenze semplici dei giovani adulti di nazionalità marocchina e dei coetanei romeni (Tab. 3) si richiamano ancora una volta: quasi otto intervistati marocchini su dieci affermano di fare riferimento, tra gli amici di nazionalità non italiana, a propri connazionali; quasi nove su dieci tra quelli di origine romena. L’andamento delle frequenze incrociate riprende gli scostamenti tra i giovani di origine marocchina e quelli di origine romena: per i primi, le frequenze semplici sottendono variazioni incrociate sensibilmente diverse, per i secondi sono il portato di distribuzioni molto più equilibrate. Osservando la modalità estrema “più o solo connazionali”, gli andamenti ricalcano quelli del precedente quesito. Senza dettagliare le singole differenze percentuali, il campo dei giovani marocchini si evidenzia meno piatto rispetto a quello dei pari età romeni. Chi, tra i primi, è più giovane, chi ha lavorato, chi studia e chi si definisce (in campo religioso) ritualista/disinteressato tende a frequentare i connazionali meno di chi è più vecchio, di chi è disoccupato, di chi non studia e di chi crede e pratica. Spostando l’attenzione sugli amici più stretti, i risultati si rivelano congruenti: come tra gli amici di nazionalità non italiana prevalgono i connazionali, così anche il primo migliore amico (il 78% per i marocchini e l’85% per i romeni) è di nazionalità marocchina (per le persone della stessa nazionalità) o romena (per i giovani romeni). Isolando i rispondenti che hanno dichiarato di avere un primo migliore amico di nazionalità italiana, si distingue il legame che unisce questa scelta all’esperienza scolastica: il 30% dei giovani di origine marocchina che hanno conseguito in Italia il loro ultimo titolo di studio dichiara un migliore amico italiano, il triplo di chi (10%) l’ha conseguito all’estero e quasi il quadruplo per i giovani di origine romena (il 23%, contro il 6%). Quando l’attenzione si sposta non sugli “amici”, ma sui migliori amici, le traiettorie dei giovani intervistati di nazionalità marocchina e romena appaiono più sintoniche; e ciò rinvia probabilmente al carattere più connotativo impiegato per il quesito (il migliore amico, appunto). A ciò si deve aggiungere un corollario di rilevanza non secondaria: per i giovani di origine marocchina, un migliore amico di nazionalità italiana si inserisce frequentemente in una più ampia rete amicale

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composta in ugual misura da persone di nazionalità italiana o straniera o, ancor più, quasi del tutto o del tutto da persone di nazionalità italiana. marocchini

romeni

Più In ugual Più o solo misura o solo stranieri italiani

Più o solo stranieri

In Più ugual o solo misura italiani

Romania

1

-

4

96

88

36

Marocco

96

78

22

-

3

-

Italia

3

19

70

1

6

54

Altra nazionalità

-

3

4

3

3

10

Totale

100

100

100

100

100

100

(N)

(75)

(41)

(23)

(85)

(34)

(22)

Tab. 4 - “Pensa ora ai tuoi due migliori amici: di che nazionalità sono?” (primo amico) per “di solito gli amici che frequento sono…” per nazionalità (valori percentuali)

La progressione (Tab. 4) è rilevante per i giovani romeni (dall’1% di chi ha amici quasi esclusivamente o esclusivamente stranieri, passando per il 6% di chi dichiara una composizione paritaria fino al 54% di chi ha amici solo, o quasi esclusivamente, italiani). Le stesse modalità, presso i giovani marocchini, giungono al 70% di quanti non hanno, del tutto o quasi del tutto, amici di nazionalità straniera. Sedici punti percentuali da considerarsi con cautela viste le ridotte numerosità in gioco, ma coerenti con le argomentazioni svolte: per gli intervistati di nazionalità marocchina, l’amicizia con le persone di nazionalità italiana tradurrebbe una scelta più netta in termini simbolici.

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Intercultura. I luoghi dell’incontro interculturale

marocchini Colleghi di lavoro

Compagni di scuola

Altri amici Totale

(N)

Primo amico

9

13

78

100

(136)

Secondo amico

8

13

79

100

(123)

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romeni Primo amico

12

9

79

100

(139)

Secondo amico

11

11

78

100

(139)

Tab. 5 - “E si tratta di…” per nazionalità (valori percentuali)

Per entrambi i gruppi nazionali, i due migliori amici (Tab. 5) sono diversi dai compagni di scuola o dai colleghi di lavoro (in otto casi su dieci). Gli studenti e i lavoratori indicano una maggiore associazione di risposte con queste ultime modalità (compagni di scuola e colleghi di lavoro). Prima di terminare le analisi sulla composizione delle reti amicali, mancano alcune annotazioni supplementari. Fin qui, le reti dei giovani adulti intervistati sono apparse plurali e, per i giovani di nazionalità marocchina, più reattive rispetto al contesto d’inserimento. Denotano caratteri bridging al pari delle reti amicali esperite dai giovani italiani, rinviando più al mutamento e alla pluralità rispetto alla staticità e all’omogeneità. Il concetto è ben espresso da Albano. L’appartenenza a gruppi di pari, soprattutto se plurima, ha effetti che, con riferimento a Putnam15 si possono definire più a carattere bridging che bonding; sembra cioè costituire per i giovani una forma di capitale sociale che, tendenzialmente, nel suo complesso, getta ponti verso l’esterno prima ancora che stabilire le distanze tra “noi” e gli “altri”16. 15 R. Putnam, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, il Mulino, Bologna 2004, p. 21. 16 R. Albano, Tra pari: le reti “bridging” dei giovani, in F. Garelli - A. Palmonari - L. Sciolla, La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i giovani, il Mulino, Bologna 2006, p. 121.

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VI. Ponti dell’amicizia alle soglie dell’età adulta 115

Centrando il focus di attenzione sul genere, si staglia nettamente il diverso profilo che nel nostro campione riguarda le donne di nazionalità romena in relazione a quelle di nazionalità marocchina: il fatto che le prime possiedano un maggiore capitale culturale (è più alta l’incidenza delle diplomate e delle laureate) e in quanto lavoratrici possiedano un’articolazione potenzialmente più ampia delle proprie reti, si riverbera sulle risposte. Il 67% di rispondenti che dichiara un’eguale presenza di uomini e donne tra i propri amici, infatti, risente dell’apporto della componente femminile: per la modalità centrale (“in ugual misura uomini e donne”), il dato riferito agli uomini è al di sotto del dato aggregato (59%); è invece superiore quello delle donne (74%). Le modalità estreme (“più o solo uomini”; “più o solo donne”) sono, non sorprendentemente, più polarizzate: il 39% degli uomini dichiara di frequentare (quasi del tutto o del tutto) amici dello stesso genere, contro il 6% delle donne; specularmente, amicizie femminili sono proprie al 20% delle donne romene, contro il 2% degli uomini. Al contrario, la distribuzione per genere osserva tra gli intervistati di nazionalità marocchina un maggiore scarto in corrispondenza delle modalità estreme: se gli uomini, in sette casi su dieci, frequentano amici (in parte o del tutto) uomini, analoghe considerazioni possono svolgersi per le donne. Il minore capitale culturale ed economico che caratterizza la maggior parte di queste ultime (a livello aggregato) non consente loro le medesime traiettorie sociali sperimentate dalle donne di nazionalità romena; di qui l’estesa forbice che le divide dalle rispondenti romene in corrispondenza della modalità centrale. Focalizzando, nondimeno, la componente delle donne marocchine più giovani e in condizione di studio, il valore percentuale di quelle che (tra le loro amiche) annoverano in prevalenza altre donne scende dal 66% (totale delle donne marocchine) al 54% (studentesse). Cresce, parallelamente, la percentuale delle donne che frequentano sia amici che amiche (31%), sia quella delle donne che frequentano in prevalenza amici (15%). I risultati acquisiti consentono di comparare le caratteristiche delle reti amicali proprie agli intervistati con quelle dei giovani di nazionalità italiana, risultanti da alcune indagini svolte nel corso degli anni. Pur in assenza di quesiti e scale simili, il profilo che emerge da queste

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Intercultura. I luoghi dell’incontro interculturale

ultime restituisce elementi di sfondo comunque utili ai nostri fini. Il rapporto Iard17, ad esempio, evidenzia come siano i ragazzi ad avere più amici e a vederli con maggiore frequenza; ma come siano, invece, le ragazze ad avere più spesso amicizie unipersonali o, comunque, amici tra loro separati; sottolinea inoltre come «l’amicizia tra i ragazzi sia più maschile di quanto sia femminile tra le ragazze»18. Si ritrova il primo aspetto tra gli intervistati di origine marocchina come tra quelli di origine romena, e anche il secondo si avvicina alle nostre acquisizioni empiriche (limitatamente alle giovani intervistate di nazionalità romena). In linea con i dati del presente lavoro, poi, lo Iard marca il ruolo delle condizioni di contesto. A favorire la probabilità di vedere gli amici tutti i giorni (e, coerentemente, la soddisfazione per questo aspetto della vita) è, comunque, in primo luogo, la condizione di studente. L’amicizia è in effetti un bene la cui disponibilità si riduce in maniera davvero sensibile con l’età: al crescere di questa diminuiscono sia la frequenza con cui si è inseriti in gruppi di amici, sia la consistenza numerica di questi gruppi, sia le occasioni di incontro con gli amici19.

Pur nella diversità di un’esperienza biografica segnata dalla rottura che comporta il processo migratorio, i giovani adulti del campione considerato, italiani “di fatto”, condividono con i loro coetanei alcune caratteristiche suscettibili di essere vagliate anche in futuro con strumenti simili a quelli utilizzati in questa sede. In base ai dati illustrati sin qui, si può notare come l’esperienza dei giovani adulti di entrambe le nazionalità segnali numerosi tratti in comune: il più evidente è la diversificazione delle reti amicali degli intervistati che, al netto della maggiore variabilità riscontrata presso gli intervistati di nazionalità marocchina, si evidenzia tanto in termini di nazionalità quanto in termini di genere. Le differenze che testimoniano i giovani adulti di origine marocchina rispetto ai pari età romeni, infatti, non sono ascrivibili a supposte differenze di natura 17 C. Buzzi - A. Cavalli - A. de Lillo (edd.), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, cit. 18 D. La Valle, Il gruppo di amici e le associazioni, in C. Buzzi - A. Cavalli - A. de Lillo (edd.), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto Iard sulla condizione giovanile in Italia, cit., pp. 263-272. 19 Ibid., p. 267.

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VI. Ponti dell’amicizia alle soglie dell’età adulta 117

“culturale”: le diverse componenti nazionali che partecipano della popolazione di origine straniera residente in Italia presentano certo tratti peculiari, ma in assenza di una solida dimostrazione empirica non è possibile farle divenire criterio interpretativo dirimente. In questo senso, i dati raccolti presso i due campioni paiono rinviare alle diverse conformazioni assunte dalla componente di origine marocchina e da quella di origine romena nel processo di progressivo inserimento all’interno della società italiana: esse, più di interpretazioni “essenzialiste”, si rivelano ausili utili alla lettura delle differenze tra giovani adulti di nazionalità marocchina e i giovani adulti di nazionalità romena. La diversa anzianità migratoria delle due componenti, i differenti tassi di partecipazione al mercato del lavoro presso le donne delle due nazionalità considerate, il diverso capitale culturale a disposizione; queste, più della nazionalità, aiutano a collocare i riscontri empirici in prospettiva utile. Anzi, le somiglianze sembrano suffragare la bontà di un approccio generazionale. È il fatto di frequentare persone di cui ci si fida, capaci di rendere piacevole il momento di condivisione tra pari, a riprodurre socialità; più estese sono le trame delle proprie relazioni, maggiori saranno anche le possibilità di atteggiamenti bridging, ovvero di apertura verso forme di relazione dal taglio interculturale.

Conclusioni Per concludere, provvisoriamente, le riflessioni originate dalla lettura dei dati, ci serviremo della metafora evocata dal titolo di questo contributo: quella dell’amicizia come “ponte” e delle reti amicali quale insieme dei tralicci che lo sostengono. Nei gruppi di amici, allora, s’interagisce su basi condivise, ma simili basi non ricalcano di necessità i confini socialmente riprodotti: in questo senso, la nazionalità di origine e le supposte “culture” di provenienza appaiono poco utili come strumenti interpretativi per leggere il transito della società italiana verso orizzonti compiutamente plurali. Se ciò appariva acquisito sulla scorta delle numerose ricerche svolte sulle “seconde generazioni” in ambito scolastico, ciò appare altrettanto evidente analizzando

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Intercultura. I luoghi dell’incontro interculturale

l’esperienza di persone di nazionalità non italiana in età adulta e prescindendo dal loro essere “figli di”. Anzi, è ancora più chiaro nel momento in cui quelle di “italiano” e “straniero” sono categorie linguistiche provvisorie ma nel contempo necessarie a uno strumento standardizzato come il questionario: laddove la definizione di italiani e stranieri è il frutto di una preventiva scelta del ricercatore, e non di un’autorappresentazione dell’intervistato, non viene meno la tensione cui predette categorie sono sottoposte. Le reti amicali, in altri termini, sono il terreno elettivo di una mediazione tra agency e campo di possibilità che corre su un piano generazionale prima che culturale, latore di simboli e significati condivisi in gruppo suscettibili di innovare le categorizzazioni socialmente legittimate. Come accade per i coetanei italiani, anche per i giovani adulti di nazionalità straniera nelle preferenze amicali si distingue come fattore centrale il benessere relazionale che queste producono, tanto nei casi in cui siano composte da persone della medesima nazionalità, quanto nei casi in cui si compongano maggiormente di persone di nazionalità italiana. In questo senso la nazionalità, che storicamente definisce un sistema simbolico (presuntivamente) condiviso, trova nelle reti amicali dei ponti, appunto, di nuova risignificazione e condivisione, necessarie all’odierno contesto di luoghi e flussi, in cui i significati e i simboli sono quotidianamente sfidati.

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l. Aprire la mente

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Parte Seconda

le virtù di una società interculturale

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Intercultura. Le virtù civiche di una società interculturale

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l. Aprire la mente

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INTRODUZIONE

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Anna Granata

Essere ingenui non è una virtù. Significa vivere “in genus”, chiusi nelle proprie origini, nel proprio mondo, nel proprio condominio, nella propria famiglia, precludendosi l’accesso a esperienze e stili di vita diversi dai propri. Certo, vivere in una realtà protetta e monoculturale può essere rassicurante: permette di confermare quotidianamente le proprie ipotesi sul mondo, di rispecchiarsi nel modo di vivere e di ragionare di chi la pensa come noi. Se questa esperienza è fondamentale per fondare la propria identità nell’età della crescita, superarla è necessario per aprirsi alla maturità e accedere ad altre visioni del mondo, destabilizzanti, sconcertanti, non sempre condivisibili, che comunicano però l’idea che non siamo soli al mondo, per dirla col titolo di un libro di Tobie Nathan1. Per dare vita a una società interculturale è necessario fare dell’incontro con l’altro “un’arte di vivere”2, non scontata né immediata, ma basata sulla tensione continua alla comprensione dell’altro, del suo modo di vivere e di pensare. Nel libro I sette saperi necessari all’educazione del futuro3 Edgar Morin articola su due livelli il discorso sull’arte della comprensione: il livello planetario, con la necessità di stabilire una comprensione tra persone che appartengono a Paesi, culture, universi linguistici differenti, tutti cittadini di una stessa “Terra-Patria”, e il livello individuale, con la necessità che si possano comprendere persone che condividono uno stesso spazio e uno stesso orizzonte di vita, che forse ancora più facilmente possono correre il rischio di non comprendersi nei contesti quotidiani di scambio interculturale. 1 2 3

T. Nathan, Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. A. Chaouite, L’interculturel comme art de vivre, L’Harmattan, Paris 2007. E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001.

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Intercultura. Le virtù di una società interculturale

La comprensione richiede, secondo Morin, la messa in gioco di tutta la propria persona con uno sforzo che coinvolge l’intelletto ma anche il cuore. Comprendere, ci spiega Morin, non significa certamente giustificare l’altro in tutte le sue scelte e non significa nemmeno capire razionalmente su un piano intellettuale le sue idee, ma significa comprendere tutta la sua persona attraverso dispositivi cognitivi e affettivi. Un vissuto che non può lasciare le cose com’erano in partenza, ma dal quale si esce necessariamente in qualche misura trasformati. Il cittadino che voglia fare dell’intercultura la sua prassi di vita è colui che è disponibile a uscire da una condizione di “ingenuità”, lasciando spazio alla curiosità e all’ascolto dell’altro, senza cedere alla tentazione continua della negazione della differenza o a quella opposta della sua enfatizzazione. Dopo esserci accostati ai luoghi, concreti o simbolici, dell’incontro interculturale cercheremo ora di andare ai fondamenti di una società che possa dirsi propriamente interculturale, e non soltanto multiculturale, attraverso il coinvolgimento attivo dei propri membri, senza distinzione di origine, di cittadinanza, di età, di genere, di generazione. Una società interculturale si costruisce solo là dove giovani e anziani, uomini e donne, cittadini di vecchia o nuova data, mettono in circolo le proprie somiglianze e differenze a servizio dell’intera comunità. Attraverso le pagine che seguono potremo accostarci in particolare ad alcune “virtù civiche” ritenute di vitale importanza. L’homo civicus, spiega infatti Franco Cassano nel suo saggio dallo stesso titolo, è colui che intende esercitare la propria virtù pubblica, in varie forme, per la realizzazione del bene comune4. Tali virtù, nel contesto attuale, devono poter essere lette, ripensate e rivitalizzate, secondo una chiave interculturale che tenga conto della rivoluzione pluralista avvenuta nella società e che faccia delle differenze culturali un elemento vitale da mettere in gioco per il bene di tutti. Osserveremo quindi, attraverso il contributo di Michele De Beni (cap. I), come “aprire la mente” costituisca il primo passo imprescindibile per lasciare spazio all’altro, ai suoi pensieri e gesti. Un approccio che permette di arricchire e mettere in discussione alcuni suoi postulati ritenuti assodati ma mai verificati. 4 F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004.

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lntroduzione

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A partire da qui, ci accosteremo all’esperienza dell’“ospitarsi”, come virtù segnata profondamente da un movimento reciproco, là dove solo col contributo di chi ospita e di chi è ospitato è possibile costruire una dimora comune, alternando non di rado i propri ruoli, attraverso un viaggio che parte dal mondo antico per arrivare ad oggi, col contributo di Giuseppe Milan (cap. II). Affronteremo quindi il tema, di vitale importanza, del “dialogare”, attraverso il contributo di Marina Santi (cap. III), come esperienza non scontata e aperta costantemente al rischio del fallimento e del fraintendimento, ma che può originare, a partire da punti di vista, vissuti ed esperienze diverse, intercultura. Potremo soffermarci poi sul fatto che in una società che si possa dire interculturale cittadini di antica o recente acquisizione devono potersi esprimere con un contributo attivo, attraverso l’azione del “partecipare”, che nel contributo di Ivo Lizzola (cap. IV) si caratterizza come un’esperienza di fraternità fra sconosciuti, volta alla realizzazione del bene comune. Ma l’incontro con l’altro coinvolge un’altra, fondamentale, dimensione: quella della condivisione e messa in dialogo delle diverse radici, storiche oltre che culturali, attraverso l’esperienza del “custodire”, per costruire una memoria collettiva inclusiva. Processi delicati che sollecitano una riflessione attenta, come scopriremo attraverso il contributo di Francesco Grandi (cap. V). Infine, ultima ma non ultima, vi è l’esperienza dello “sconfinare” tratteggiata da Elena Granata (cap. VI), in guisa di conclusione all’intero volume. Sconfinare è una virtù che permette di trascendere una certa idea di spazio, una certa idea di tempo e una certa idea di cultura, date per assodate ma invece non più sufficienti a leggere la realtà presente e ancor meno ad anticipare quella futura. Occorre andare oltre i propri confini per aprire nuovi spazi di relazione e comprensione dell’altro e del tempo in cui viviamo. Le virtù civiche non sono movimenti naturali e immediati, non sono neanche competenze acquisite e date una volta per tutte. Costituiscono piuttosto un campo d’azione, un progetto consapevole e naturalmente un’istanza formativa di primaria importanza per chi si occupa di educazione. Aprire la mente, dialogare, ospitarsi, partecipa-

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re, custodire e sconfinare, sono tutte modalità caratterizzate dal fatto di coinvolgere in maniera attiva il cittadino indipendentemente dalle sue origini e in virtù di una traiettoria comune da costruire e ricostruire insieme.

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I. aprire la mente

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Michele De Beni

«Non possiamo aspettarci di raccogliere i fiori che non abbiamo mai piantato». Così afferma il drammaturgo e uomo politico Vaclav Havel1, per il quale la speranza è in rapporto alla nostra capacità di “osare” di più e di agire, con la fede di grandi orizzonti. La speranza rimane sempre possibile, anche se stiamo vivendo «una delle notti più buie» della cultura2, come annota María Zambrano. Per questo, «non basta inventare nuove macchine, nuove regole, nuove istituzioni. Dobbiamo sviluppare una nuova comprensione del vero scopo della nostra esistenza»3 che formi le basi della comprensione di sé e del posto dell’essere umano nel mondo. Una sfida culturale difficile, intimamente legata alla ri-scoperta di una nuova paideia4. Il veloce cambio di paradigma a cui stiamo assistendo non incoraggia certo questa ricerca, ma molti sono i segnali positivi in questa direzione provenienti da studiosi di diverse discipline che con vigore hanno ripreso il dibattito sull’alterità5, un tema nodale della questione antropologica. 1 2

V. Havel, Charta ’77. Cinque anni di non-consenso, CSEO, Forlì 1982. M. Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrificial, Fundación María Zambrano, Vélez-Malaga 1958, p. 2. 3 Dal discorso di Vaclav Havel, presidente della Repubblica Ceca, tenuto il 4 luglio 1994, nella Sala dell’Indipendenza a Philadelphia; cf. anche V. Havel, La divina rivoluzione. Sollevare la Cortina di Ferro dello Spirito, in «Civilization», aprile-maggio 1998. 4 A. Nanni, Una nuova paideia. Prospettive educative per il XXI secolo, EMI, Bologna 2000. 5 Se con Cartesio il soggetto costituisce l’asse centrale della filosofia moderna, la svolta epocale che ne è seguita con la messa in crisi del soggetto può farci pensare ad una svolta epocale, dal moderno al postmoderno, come per esempio nella concezione di Paul Ricoeur. Nel suo Sé come Altro (Jaca Book, Milano 1993) egli elabora una concezione dell’identità e del soggetto non più in termini di autoposizione soggettiva, ma di

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Si tratta di un’importante scelta di campo il cui centro verte attorno all’idea di relazione, al di là di un approccio individualistico. È da questa irrinunciabile premessa antropologica (le cui origini possono esser rintracciate nella teologia della kenosi) che può iniziare quel cammino delicato ma fecondo di incontro tra persone di culture diverse che costituisce il fine verso cui tendere in una società divenuta diffusamente multiculturale. Da quest’ottica, la realizzazione di sé non coincide con la cura narcisistica della persona, ma è esodo verso una relazione6, uscita da una fredda terra di confine per un incontro, novità continua che irrompe e interpella, invita al confronto, sempre possibile se persone, gruppi, istituzioni sanno accettare la sfida di un’opera comune che richiede il sacrificio dei vari egoismi7. L’educazione, quindi, che è cura del più piccolo dei fratelli, assume la tipica caratteristica di testimonianza e di accompagnamento al senso di un’appartenenza reciproca8 perché, come sottolinea Romano Guardini, l’uomo non consiste solo in se stesso, ma “aperto e proteso”, sul filo del rischio, verso ciò che è altro da sé. Non un distacco senza criterio, ma orientato a ciò che è degno, che ha valore9.

Una mente pensante Immaginare percorsi educativi che mirino a favorire l’apertura verso l’alterità richiede innanzitutto la ricerca di una filosofia di valori. Un percorso che non nasce da un’etica globalizzante, di neocolonialismo assiologico, ma di condivisione, come sostiene Ramon Panikkar10. Un orizzonte tanto più necessario oggi se consideriamo che i rischi di una massificazione mondiale richiedono non la sovrapposizione ma l’inconeterodeterminazione: l’alterità è originariamente implicata nel processo di costituzione del sé, e viceversa. 6 P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Morcelliana, Brescia 2010. 7 P.A. Sorokin, Il potere dell’amore, Città Nuova, Roma 2005. 8 V.E. Frankl, Was nicht in meinem Buchern steht, Verlag Union, Weinheim 1996. 9 R. Guardini, Die Begegnung. Aus einer Ethikvorlesung, in Persona e libertà, La Scuola, Brescia 1987. 10 R. Panikkar, Dall’etica globale all’etica condivisa, Adista-libri online, 26 febbraio 1994.

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tro tra molteplici visioni del mondo, presupposto per l’incontro interculturale. Secondo questa prospettiva, oggi più che mai serve una mente pensante11 (cf. Enciclica Gaudium et spes, 37), efficace antidoto ai vari conformismi e stereotipi. Una mente creativa, quindi, capace di entrare nei meccanismi percettivi, di costruzione dei concetti e delle teorie, in grado di autocritica e di pensiero costruttivo, di disvelare le diversità ma anche il senso unitario del sapere. Come si impara a percepire più correttamente? Quali processi conducono all’errore e all’illusione? Quali sono le strategie per una conoscenza pertinente? Come si riorganizzano le informazioni? Come s’impara ad astrarre e a controllare un procedimento mentale? Quale il ruolo delle emozioni? Come dar vita a percorsi da costruire nello scambio reciproco? E come imparare a ricominciare e a credere nel valore della relazione, nonostante i conflitti, le difficoltà e le diffidenze nel lungo percorso di incontro tra culture e contesti spesso tanto diversi? Varie ricerche dimostrano che non è automatico che le abilità di pensiero vengano apprese naturalmente e che il pregiudizio è effetto spesso di una distorsione percettiva e di un’inadeguata capacità riflessiva. Ma, ancor prima, di una non pre-disposizione al cambiamento, che richiede apertura mentale, forza morale, capacità creativa. Quale posto e avvenire, allora, potrà avere l’incontro interculturale se, a monte non educhiamo i nostri giovani all’uso intelligente del pensare e del pensare insieme, pur nell’esplicito riconoscimento delle differenze? È dalla dicotomia tra pensiero e alterità che spesso nasce il dramma culturale della nostra epoca, non tanto dovuto all’eccesso di fiducia nella conoscenza, quanto all’incapacità di saper coniugare la scienza con l’etica12. Urge, allora, un pensiero meditante che sappia cogliere una delle sfide più importanti che riguarda non solo cosa e come apprendere ma verso quale direzione. Da qui la necessità di offrire uno slancio, una motivazione nuova al sapere, che ha senso solo in un circuito di reciprocità. 11 12

E. De Bono, Il meccanismo della mente, Rizzoli, Milano 2002. E. De Bono, Io ho ragione. Tu hai torto, Sperling & Kupfer, Milano 1991.

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Quindi, conoscere, apprendere, ma per poter servire gli altri, il bene comune. Per esempio, dove ci sta portando questa razionalità economica del tutto sganciata da una razionalità etica13? Una domanda, tra le molte, che può diventare motivo anche di una profonda riflessione pedagogica nel campo della pratica educativa familiare e sociale, dell’implementazione di veri e propri curricoli scolastici riguardanti la capacità di interrogarsi e di comprendere.

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Il vero esercizio del “logos” Intendo qui richiamare l’importanza dell’educazione dei processi di pensiero indirizzati a un uso intelligente delle conoscenze e delle loro applicazioni non solo in campo scientifico, ma soprattutto in campo sociale e politico, consapevoli che non bisogna perdere di vista la connaturata essenza etica che comporta la responsabilità del pensare. Siamo proprio sicuri di possedere la risposta al perché del pensare e al suo “senso”? Il nostro pensare è sempre sensato? È chiaro che la domanda sottende palesemente una valenza etica che, se trascurata, consentirebbe di affermare, come conseguenza, che ogni idea è sempre e comunque un pensare con senso. La domanda quindi “perché pensare?” ha una risposta altrettanto ovvia e sconcertante quanto la domanda medesima: pensare per essere, non mera presenza o parvenza, ma un pensare che diventa azione responsabile nella misura in cui conformandosi all’etica offre una risposta autentica all’uomo e ai suoi più profondi bisogni. Nella costruzione della casa comune, Eraclito diceva che ci sono i desti, cioè coloro che usano il logos, l’intelligenza e la mente; i dormienti invece, cioè quelli che non usano il pensiero, si volgono alla guerra, segno del non-logos (cf. fr. 89). Ma se il vero esercizio del logos è contribuire alla costruzione della casa comune, è necessario, allora, che il pensare diventi un passaggio, un cammino dall’isolamento e dall’ostilità all’ospitalità. 13

S. Zamagni (ed.), Globalizzare l’economia, ECP, Fiesole 1995.

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Hannah Arendt, riprendendo in chiave moderna il concetto espresso da Kant nella Critica della Ragione pura, introduce la fondamentale distinzione tra il conoscere e il pensare14: il conoscere ha per oggetto le questioni scientifiche, mentre il pensare è quella attività della mente che ha per oggetto i problemi inerenti al significato, ossia le questioni rilevanti per l’esistenza. Martin Heidegger, a questo proposito, sostiene che il tempo presente manca di pensiero, perché, pur a fronte di un aumento esponenziale di conoscenze, manca o è quasi assente un pensiero meditante15, che sappia interrogarsi sulle questioni di senso che muovono e danno spessore all’esistenza umana. Dobbiamo renderci conto, allora, che la nostra cultura sta trascurando l’educazione del pensiero, privilegiando forme tecnicisticoefficientistiche. In tal modo, vengono a mancare nei nostri programmi di studio le questioni di significato (sull’amicizia, sulla cooperazione, sull’altruismo, sul bene, sul male, sul dolore o sulla felicità, ecc.), che richiedono risposte certamente non preconfezionate, ma cercate nella consapevolezza di dover fare i conti con una pluralità di indicazioni di senso16. Tante questioni fondamentali, purtroppo, vengono trascurate nella scuola, con il rischio di rendere “stupidi”17 gli studenti. Sottrarre tempo al pensare, allora, è una scelta strategica ben precisa, ma irresponsabile, che comporta la rinuncia ad avere soggetti pensanti18 che inventino versioni del mondo e che non si limitino semplicemente a consumare i modelli veicolati dalla cultura dominante. Possiamo senz’altro affermare, allora, che il tempo dedicato al pensare, apparentemente speso inutilmente, viene poi riguadagnato in profondità attraverso l’uso di quella che è la strategia più elevata della mente, ossia la capacità di prendere coscienza di sé e dell’altro e, soprattutto, di essere un soggetto eticamente orientato. La capacità di interrogarsi, di trovare una risposta attorno alle questioni di ciò che è bene e male, di ciò che occorre promuovere e di ciò che occorre evita14 15 16 17 18

H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, Bompiani, Milano 1978. M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976. H. von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1990. S. Vandana, Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995.

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re per non cadere nell’insensatezza, rappresentano il vero lavoro della mente che, al di là della logica, è aperta alla ricerca di un senso, di un orientamento. Educare a pensare richiede innanzitutto la stimolazione di quelle abilità riflessive attraverso cui portare alla coscienza immagini, opinioni, teorie, modelli destinati spesso a rimanere nascosti alla vista della mente. Riprendendo una suggestiva immagine proposta dalla Arendt, l’attività del pensare è come uno schiudere gli occhi della mente19, un processo meta-cognitivo, su di sé e oltre sé: un’interiorizzazione dei processi mentali, non frutto esclusivo di un’elaborazione individuale ma di una continua mediazione sociale e culturale. Anche se la vera attività di pensiero è un processo personale, di fatto è un dialogo che, riportato nell’interiorità dell’individuo, parte comunque dalla considerazione di idee co-costruite nell’interazione sociale. Se accettiamo tale presupposto, che non si può cioè imparare a pensare da soli ma nel dialogo con gli altri, occorre allora offrire alla scuola e a tutte le occasioni formative, dai primi gradi di scolarizzazione all’università, dei contesti in cui si possa parlare e confrontarsi, costruire e crescere insieme. È questo anche il grande contributo del pensiero neo-ebraico che sottolinea non solo l’essere ma anche l’essere in relazione, in quanto ogni persona, originariamente abitata dall’Altro, ci interpella e chiede risposta. In questo senso l’Altro dà fondamento assoluto all’etica, non come semplice rispetto formale della legge, ma come etica di assunzione di responsabilità20.

Capaci di uccidere, capaci di dar la vita Una condizione-base per aprire la nostra mente è, prima di tutto, quella di liberarci dalla presunzione della superiorità del nostro pensiero su quello degli altri. Serve allora una scienza cognitiva e sociale non a sé stante, ma ancorata a un’antropologia e a una suprema istan-

19 20

H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987. E. Lévinas, La traccia dell’altro, Pironti, Napoli 1970.

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za, ad una noologia21, come scienza del mondo delle idee, dei loro limiti e potenzialità e del senso a loro attribuito. Decentrare il nostro punto di vista, come sottolinea Jean Piaget, è uno dei fondamentali passaggi per lo sviluppo dell’intelligenza non solo cognitiva, ma anche sociale e morale. Ciò permette, quindi, alla persona di considerare una situazione da più punti di osservazione, nel suo complesso, e di «situare il proprio io nella sua vera prospettiva, in rapporto a quella degli altri, cioè di inserirlo in un sistema di reciprocità»22. Troppo spesso, però, in famiglia, a scuola, nelle chiese, nelle comunità, nella politica, ci riesce difficile immaginare modi diversi dai nostri schemi, fuori dai nostri confini, pensare a storie diverse dalla nostra. Dobbiamo, allora, sviluppare nei giovani la consapevolezza che realisticamente, in ogni istante, corriamo il rischio di esser posseduti dalle idee, e che «per le idee siamo capaci di morire o di uccidere»23. Da qui l’importanza di comprendere le radici dell’odio e della violenza24, della vulnerabilità di molti oggi alla mercé dello strapotere dei più forti. Soprattutto dovremmo inserire nei nostri curricoli educativi la comprensione e la pratica della gestione dei conflitti, del dialogo, della cooperazione e della solidarietà. Possiamo affermare, allora, che il “pensare” deve caratterizzarsi come “essere”, non nel semplice significato di “esistente”, ma di colui che si interroga, viene fuori, accetta lo sforzo di fare esodo, di andare da noi stessi all’altro: un cammino di ricerca e testimonianza della verità, di amore per il vero sapere, che senza la fatica del concetto non potrà mai esser tale e progredire. Come sottolinea san Bernardo, occorre elevare il pensiero a sapere dell’amore (cf. De diligendo Deo), 21 Da un punto di vista sociocognitivo, cf. E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1989; da un punto di vista psico-antropologico-esistenziale, cf. V.E. Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, LDC, Torino 1987. 22 J. Piaget, Dove va l’educazione, Armando, Roma 2000, p. 109. La nozione di “decentramento” per Piaget è applicabile sia al campo dello sviluppo morale sia a quello logico e sociale, ambiti interdipendenti, come d’altra parte lo sono le varie scienze legate tra loro da una “logica di circolo”: cf. anche B. Lonergan, Sull’educazione. Le lezioni di Cincinnati del 1959 sulla filosofia dell’educazione, Città Nuova, Roma 1999. 23 E. Morin, La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1989, p. 75. 24 A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007.

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cioè testimonianza della verità dell’amore stesso come apertura e dialogo, sollecitudine e solidarietà. In questo senso, pensare è testimoniare e, come tale, è radicalmente atto di amore. È allora evidente che per poter affrontare la sfida della cosiddetta “globalizzazione” non servono solo nuove regole di mercato, giuridiche o di ordine sociale, ma anche – e soprattutto – l’uso più consapevole del potere della nostra mente. Per questo, è fondamentale comprendere che il cambiamento che stiamo vivendo non riguarda solo “gli altri”, ma prima di tutto noi stessi, e che le nostre “vecchie mappe” oggi non possono funzionare come in passato. In questa direzione, sapersi decentrare dal proprio punto di vista richiede di coltivare una visione policentrica, di purificarsi dalle manipolazioni, dalle superficiali generalizzazioni, guidati solo da uno sguardo sincero di ricerca che sappia accogliere in sé le contraddizioni esistenti. Chi vuole davvero imparare, quindi, deve cominciare ad imparare anche da punti di vista diversi. In realtà, sappiamo veramente pensare nella misura in cui siamo capaci di apprendere, nell’interscambio di pensieri e tentativi di correzione reciproca. Anche l’errore è parte integrante del pensiero. Non quindi punto finale di un processo di conoscenza, ma il suo culmine epistemologico. Il compito, quindi, che dovrebbe accomunare tutti, su scala planetaria – al di là di ogni appartenenza etnica, culturale e sociale, religiosa – non è di uniformare, ma di ricondurre i diversi punti di vista e visioni del mondo ad una sempre nuova sinergia, stimolando le potenzialità, valorizzando le originalità, favorendo la partecipazione creativa. Questa è la nuova dignità che dobbiamo saper restituire all’uomo; qui, probabilmente, sta la sfida di un’educazione alla libertà intesa non solo come riscatto dall’ignoranza del non sapere, ma soprattutto dal non saper pensare e dal non saper pensare insieme.

Sfida alle vecchie mappe Nelle nostre comunità e nelle nostre scuole occorre, quindi, stimolare l’apprendimento dei modi di funzionamento della mente, sa-

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pendone padroneggiare le strategie necessarie per una bella mente, tale se è anche una buona mente per il miglioramento di sé e degli altri25. Una mente positiva, controcorrente rispetto ad una cultura dominante sempre alla ricerca di un nemico da distruggere. In una rivoluzione positiva, invece, non esiste un nemico da sconfiggere, perché tutte le energie vengono indirizzate, il più possibile, ad una soluzione condivisa. Una mente, quindi, tanto più affascinante quanto più sa essere costruttiva. Un valore, questo, che per esser raggiunto non richiede solo buone intenzioni o di aderire a un ideale astratto, ma capacità creativa, operativa, pronta anche a intravedere oltre, al di là del limite di un conflitto o di schemi chiusi. Sa ascoltare, vedere più punti, affrontare le diversità, mettere a fuoco, distinguere; sa dissentire, proporre alternative, trovare punti di accordo. Disponibile alla ricerca, ardita fino a pensare l’impensabile, su rotte mai affrontate. Essere buoni pensatori, quindi, non significa cercare di avere sempre ragione26, né aver la capacità di risolvere problemi intricati, ma prima di tutto la volontà di esser attivi e costruttivi. È così anche nel gioco dialogico, non prigioniero di schemi precostituiti, che di tutto fa tesoro, non per possederlo e rinchiuderlo, ma per rimetterlo nel circuito comunicativo, a disposizione di tutti. Con nuove soluzioni, che non nascono dal chiuso di un laboratorio, ma dall’interazione e dallo scambio, dal rischio di osare, oltre gli stereotipi culturali. Come infatti sottolinea Edgar Morin, se da una parte la razionalità autentica deve avere le caratteristiche dell’apertura e della dialogicità, dall’altra 25 A mo’ di semplice stimolo per un approfondimento, riprendendo alcune piste comuni proposte da vari “programmi per imparare a pensare”, mi sembra utile richiamare alcune strategie che possono servire anche per il dialogo interculturale, quali le strategie percettive, di confronto, empatiche, di valorizzazione/controllo delle emozioni, organizzative e creative. Tra i vari “programmi per imparare a pensare” ricordiamo il Programma Arricchimento Strumentale di R. Feurestein; il Programma Thinking di E. De Bono; il Programma MT (Mental Training) di C. Cornoldi, R. De Beni, G. Colpo e coll. (frutto di oltre 25 anni di ricerche nell’ambito della psicologia dell’apprendimento e della didattica cognitiva e metacognitiva) e il Programma Philosophy for Children di M. Lipman (il cui obiettivo principale è di migliorare le abilità di comprensione, soluzione dei problemi, valutazione critica delle situazioni,trasformando la classe in comunità di ricerca). 26 E. De Bono, Io ho ragione. Tu hai torto, cit.

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«deve esser consapevole del grado di incertezza presente in ogni sua analisi, mantenendosi aperta al mistero della vita: il fine della conoscenza è quello di partecipare a un dialogo con l’universo»27. Una mente protesa a uscire da sé non genera una mera conversazione salottiera, ma un vero e proprio dialogo, incontro tra menti pensanti, reciproche perché orientate alla ricerca del bene comune. Non si può che rimanerne affascinati, perché pensiero liberante, forte e umile, ancora capace di sorprendersi, di elevarsi e di aprirsi a nuovi svelamenti. Una bella “scuola”, questa, di cui dobbiamo esser molto grati a quegli educatori (genitori, insegnanti, educatori, ma anche politici, economisti, giuristi, ecc.) che del “pensare” sanno offrire spazio e dignità nella loro quotidiana, appassionante ricerca, frutto di capacità creativa e di saggezza da cercare con tutti. In realtà, la preoccupazione della “difesa della propria posizione” rischia di essere spesso sterile e inconcludente, perché autoreferenziale.

Formare alla consapevolezza di somiglianze e diversità Il pensiero serve a rendere il soggetto sempre più capace di riconoscere la propria storicità. In questa direzione non si può evitare di confrontarsi con la complessità e molteplicità culturale, che spesso ci disorienta e rischia di renderci passivi. Così, non va dato per scontato oggi (come invece era per la cultura tradizionale) che basti denunciare i meccanismi della malvagità e l’ingiustizia umana per poterla dominare. Occorre contrastare l’idea che la demarcazione tra ciò che è bene e male sia di per sé evidente per esser compresa. Questa convinzione in passato ha scatenato vere mostruosità, tragedie, passioni, dittature perché per alcuni era “naturalmente” chiaro cos’era il bene, mentre ai più, alla massa, “naturalmente” sfuggiva questa distinzione, non potendo che conformarsi all’idea di bene che altri per loro avevano ritenuto tale. In questa direzione, a maggior ragione, oggi servono menti “ben-pensanti”, non ovviamente nel senso di passive guardiane della 27

E. Morin - B. Kern, Terra-Patria, Raffaello Cortina, Milano 1994.

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tradizione, ma costruttrici di significati, più difficili da decifrare oggi, ma resi ancor più necessari dalla massa informe di dati, di opinioni, di “verità” omogeneizzati e dispensati come merce di consumo. Su questa linea, non è più pensabile una dimensione individuale del sapere, ma una sua costruzione partecipativa, che richiede la cooperazione tra più individui, gruppi e livelli di specializzazione. Si tratta di sviluppare quell’autoconsapevolezza, applicabile a tutti gli ambiti del sapere e dell’esistenza, per cui la ricerca della verità è possibile solo in un quadro unitario di conoscenza, che è ricerca di relazioni, di strutture e di campi intesi come vasti ecosistemi nutriti da complessi scambi di informazioni e di retroazioni28. Come afferma acutamente il pedagogista Antonio Nanni, nel dialogo «la relazione è biunivoca: non è soltanto domandare, ma lasciarsi anche interpellare. Per questo c’è una necessità di ascolto, di umiltà, di fraternità», per cui «la disposizione a dialogare è il principio etico supremo. Se ci si nega al dialogo, si finisce con il divorzio, con la guerra, con la bancarotta, con il disastro»29. Ci si deve, quindi, mettere in una prospettiva di ricerca attraverso cui porsi alcune fondamentali domande riguardanti il senso della cultura che stiamo promuovendo e verso quali finalità indirizzare lo sviluppo della capacità di pensiero. In questo senso, parlare di un nuovo rinascimento non è un’utopia, ma segnale della necessità di imprimere un nuovo impulso alle capacità di pensiero e, di conseguenza, ai problemi dell’umanità. Questa è la nuova dignità che dobbiamo saper restituire all’uomo; qui, probabilmente, sta la sfida di un’educazione alla libertà, non solo dall’ignoranza del non sapere, ma soprattutto del non saper pensare e del non pensare insieme. “Educare a pensare”, anche in una prospettiva interculturale, rappresenta allora il filo conduttore di un itinerario educativo sistematico, pervasivo, che interessa tutti i saperi e gli ambiti della didattica. Per questo, il richiamo ad un’antropologia, ad un’etica, ad una fondazione interdisciplinare, richiede di coniugare il mondo cognitivo al mondo 28 29

E. Morin, L’écologie généralisée, Seuil, Paris 1982. A. Nanni, Etiche della mondialità: 5 proposte, in Per capire la mondializzazione, CEM, Brescia 1996, documento disponibile sul sito internet http://www.cem. coop/attform/materiali.

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dei significati, dell’essere, della relazione. Come ben sottolinea Jerome Bruner, riprendendo il concetto di cultura come riconoscimento delle differenze ma sostanzialmente come ricerca di comunanze: «Una cultura rimarrà viva solo se sarà in grado di risolvere conflitti, esplicitare le differenze e negoziare significati comuni»30.

30

J.S. Bruner, Car la culture donne forme à l’esprit, Eshel, Paris 1991.

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Il. Ospitarsi

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II. OSPITARSI

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Giuseppe Milan

Per parlare di “ospitalità” è consigliabile riporre almeno per un po’ il vocabolario dell’effimero e accostarci a quello delle parole antiche. Parole basilari, solide fondamenta di linguaggi, storie, culture. Può sorprendere che tra esse ci sia la parola hostis, alla quale siamo tentati di assegnare immediatamente ma erroneamente il significato di “ostile”, nemico. Sarebbe un errore, appunto, e lo si può capire se con una marcia a ritroso andiamo all’origine del termine. Stiamo evidentemente riferendoci al mondo latino. Gli antichi romani definivano hostis lo straniero, l’altro in generale, proveniente da altre terre e culture e che, secondo una normativa illuminata, bisognava “hostire”, cioè uguagliare con un’offerta, rendendo perciò i più diversi individui e popoli pari iure cum populo romano. L’altro, lo straniero, aveva il diritto di essere incluso in una dimora di uguaglianza, in un territorio fisico e culturale nel quale fosse superata ogni asimmetria di potere, ogni struttura padrone-servo, vincitore-vinto. Questo era possibile soltanto attraverso un dono, un’offerta (hostia): il dono dell’uguaglianza. All’origine, pertanto, la relazione con l’altro prevedeva tale disponibilità capace di oltrepassare le distanze e le paure verso chi viene dall’extra ed è extra: “fuori” dai confini del Paese-territorio, fuori dalle regole consuete, fuori dalla norma, fuori dall’orientamento comune, fuori dalla comunità. Ora, invece, l’extra ha il diritto di varcare soglie prima invalicabili, di percorrere perfino dimensioni intra, fino a vedersi assegnato l’appellativo di “signore” della casa. Così gli “ospiti” – chi abita e chi è pervenuto – il dominus e il con-dominus – si trovano uniti nell’offerta dell’ospitalità. Soltanto più tardi, per un’improvvida scissione, non tanto linguistica quanto esistenziale, viene tradito l’etimo primitivo di hostis, cui

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viene attribuito il significato di “ostile”, nemico, mentre l’ospite viene definito hospes (da hostis potes = signore dell’ospite, appunto). In realtà, questo impervio itinerario delle parole, che sembrerebbe dimenticare la loro genesi autentica, pare corrispondere ai percorsi pragmatici che noi stessi, individui di ogni latitudine e di ogni tempo, intraprendiamo nell’incontrare l’altro: dimentichiamo, insomma, l’iniziale necessità dell’offerta, del cogliere il “tu” nell’autentica e originaria prospettiva di hostis. Vediamo l’altro in altro modo e, travisando, lo tradiamo: contaminandone e negandone la qualità, lo trattiamo da hostis-nemico. Il termine hospes, che emerge a posteriori e sopravvive a tale negazione, sembra mantenere in vita, come ipotesi e possibilità, quella necessità ontologica, riportando in evidenza che l’altro, qualsivoglia straniero, può essere per davvero “signore” nella dimora dell’ospitalità autentica. Nel mondo greco antico – andando ancora più a ritroso nel tempo – troviamo un’analoga impostazione: il concetto di ospitalità, che veniva espresso con il termine xenia, alludeva a un importante patto reciproco e a una serie di regole connesse, di cui troviamo descrizione soprattutto nei testi omerici. Nell’Iliade, ad esempio, la suggestiva narrazione dell’incontro tra Diomede e Glauco, due dei mitici eroi degli schieramenti contrapposti (achei e troiani) ci consente di cogliere l’importanza e le implicazioni del patto di ospitalità. Giunti ormai a sfidarsi a duello, Diomede chiede a Glauco da quale stirpe discenda. Glauco enumera allora i suoi avi, tra i quali figura l’eroe Bellerofonte (greco, poi trasferitosi nella Licia). Diomede, al sentire il nome di Bellerofonte, lo ricorda come un ospite antico della sua famiglia e rivolgendosi a Glauco esclama: «Sei dunque un ospite antico per me da parte di padre! Il divino Oineo accolse un tempo il nobile Bellerofonte nella sua reggia e lo trattenne per venti giorni. Si scambiarono l’un l’altro doni ospitali, bellissimi; Oineo offrì una cintura di porpora, splendida, Bellerofonte una coppa d’oro a due manici»1. 1

Omero, Iliade, tr. it. a cura di M.G. Ciani, Venezia 1990, p. 291.

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Il. Ospitarsi

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I due rinunciano immediatamente al duello, si stringono la mano e si scambiano l’armatura, riconoscendo l’appartenenza a un patto di ospitalità che li lega, le cui caratteristiche sono di estrema importanza: si tratta infatti di un patto più forte del tempo (si tramanda di generazione in generazione), più forte della guerra (si abbandona il duello: il rapporto di ospitalità è superiore a quello di ostilità) e perfino più forte della regola del “tornaconto economico” (Glauco offre armi d’oro, per un valore di “cento buoi”. Diomede contraccambia con armi di bronzo, “nove buoi”: sembra quindi che Glauco abbia “perso la testa”, l’uso della ragione. Interviene invece una ragione nuova: quella dell’ospitalità, che si fonda su criteri del tutto alternativi). Al momento del saluto, Diomede riafferma la promessa implicita in quel patto, sottolineandone la valenza anche per il futuro: «Ed ecco, un ospite grato ora per te, laggiù nell’Argolide io sono, e tu nella Licia, quand’io giungessi al tuo popolo… Ci vantiamo d’essere ospiti antichi»2. Richiami di questo tipo sono presenti in maniera diffusa nelle narrazioni del mondo antico ed evidenziano la presenza di un’attenzione all’altro capace di cogliere e rispettare la manifestazione del divino anche negli aspetti consueti della quotidianità, negli umili incontri di ogni giorno: le strade che percorriamo, le porte e i valichi, i confini, non devono essere ostacoli e sbarramenti frapposti all’incontro con l’altro, ma i mezzi che possono far accedere alla dimensione della più alta sacralità presente anche nell’ultimo dei viandanti. In questo senso, nessun essere umano è ultimo, essendo sempre primo per la divinità che lo costituisce. Ed è proprio il “dio dell’ospitalità” a garantire che tale dignità sacra cammini tra gli uomini e, pur assumendo sembianze diversissime, venga riconosciuta e rispettata. Tornando al “patto di ospitalità” che suggella tale attestazione della grandezza dell’altro, va ricordato che nel mondo omerico esso veniva testimoniato esternamente con il symbolon, cioè con la parte di un anello spezzato in due (frammento della tessera hospitalitatis), che gli “ospiti” conservavano come segno di riconoscimento e di autenticità: il fatto che anche a distanza di tempo le due parti dell’anello 2

Ibid., p. 293.

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potessero ricomporsi perfettamente richiamava all’eterno legame reciproco e alla possibilità di ricostruire l’unità. In questa prospettiva l’ospite, che conserva una metà della tessera, è colui che consente di superare la condizione di symbolon-frammento per ricostruire nell’incontro ospitale l’originaria unità cui l’essere umano aspira: l’incontro con lui consente di “mettere insieme” (symballein) i frammenti incompiuti, le nostre “porzioni” di essere, per saziare la nostalgia dell’inizio, per ricostituire l’intero originario da cui deriviamo, per passare dalla frammentazione all’unità, dal duemolteplice all’uno della relazione autentica. Proprio quest’ultima immagine ci può aiutare a compiere un salto dal mondo antico al tempo presente, dove l’arte di ospitarsi a vicenda sembra oggi più che mai urgente da attuare nella quotidianità. La necessità di “ricomporre la tessera” attraverso l’incontro tra due parti uguali e complementari, richiama l’idea di ripensare le relazioni all’interno della nostra società entro un canone di parità e di reciprocità che vede coinvolti due o più attori nell’arte di costruire una dimora accogliente per tutti. L’ospitalità appare in questo senso come un gioco dinamico, una trama di motivi solo apparentemente opposti: invitare l’altro ed essere invitati, accogliere ed essere accolti. Non per nulla la parola “ospite” assume stranamente il duplice significato di “colui che dà ospitalità” e di “colui che viene ospitato”. Non si tratta di un’anomalia, di una discutibile ambiguità semantica: è il riconoscimento dell’appartenenza dell’ospitalità alla dialogicità. Come nel principio dialogico l’Io diventa il Tu del tu, così nel principio di ospitalità si realizza quella che Martin Buber definisce «reciproca inclusione» e «reciproca esperienza dell’altra parte»3. Si avvera quanto dice Jacques Derrida: «L’ospite, l’ostaggio invitato (guest), diviene colui che invita chi lo invita, il padrone dell’ospite (host). L’ospite diviene l’ospite dell’ospite»4.

3 Cf. G. Milan, Educare all’incontro. La pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, Roma 2002, p. 146. 4 J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000, p. 113.

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Il. Ospitarsi

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Dimore inospitali L’esercizio di sfogliare il vocabolario delle parole antiche è indubbiamente arricchente e ci conduce a origini etimologiche che sono anche etiche ed esistenziali. Ma dobbiamo confrontarci con l’attualità, con i limiti delle narrazioni odierne, con le nostre forme di analfabetismo, con la reale strumentazione di bordo che l’oggi ci consegna per le nostre navigazioni esistenziali e culturali. Quali caratteristiche ha, oggi, la dimora in cui è possibile vivere l’esperienza dell’ospitalità? Chi è l’ospite e chi è l’ospitante in una società divenuta diffusamente multiculturale? La parola “ospitalità” sembra offrire spunti di riflessione particolarmente appropriati nel contesto in cui ci troviamo a vivere, dove le parole utilizzate nei confronti dello straniero sono più spesso legate a un’idea di negazione, rifiuto, respingimento, da una parte, o accoglienza, solidarietà, primo soccorso, dall’altra. La legge dell’ospitalità ci impone un cambiamento radicale di paradigma, che ci porta a considerare le relazioni interculturali come movimenti reciproci e bidirezionali. Solo in questo modo è possibile costruire una “dimora” dove cittadini presenti qui da generazioni, cittadini di recente acquisizione, così come “ultimi arrivati”, possano sentirsi pienamente riconosciuti. Una società che non diviene dimora per tutti è infatti costantemente aperta al rischio del non riconoscimento delle sue componenti minoritarie, fino a episodi di discriminazione ed esclusione: sono molti quelli che subiscono la costrizione dell’esilio, come accaduto in molti frangenti della nostra storia. È soltanto apparentemente lontano il tempo in cui, nel 1938, Martin Buber intraprendeva un viaggio, non certo di sua volontà, costretto com’era – ebreo – a fuggire dal nazismo. E, nella precarietà di quella situazione scriveva: «Viviamo un’epoca “senza casa”, siamo perduti “in aperta campagna” e non possediamo neppure quattro picchetti per innalzare una tenda»5. Era, evidentemente, una metafora: la dimora di cui denunciava la mancanza non era certo una casa fatta di muri e stanze, non alludeva 5

M. Buber, Il problema dell’uomo, Marietti, Genova-Milano 2004, p. 87.

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neppure a quella suggestiva dimora che, come una tenda, può essere messa in uno zaino come equipaggiamento essenziale nelle escursioni giovanili. Buber si riferiva ad una dimora più intima, più essenziale e urgente: a quella dimora esistenziale, ontologica, che per lui è l’Io-Tu, l’incontro autentico, il dialogo che chiama ciascuno ad uscire dalla nicchia dell’autocentramento, dove la parola è monologo, pensiero unico, o dall’anonima indifferenza di una collettività omogeneizzante, dove la parola è “chiacchiera”, cacofonia, è vuota, è morta. La “dimora”, insomma, è il dialogo ospitale, l’incontro che permette di oltrepassare il regno della cosalità, dell’Esso (dove l’altro è un “qualcosa”) per varcare la soglia del Tu (del Tu “riconosciuto”, con la misteriosa grandezza che lo costituisce). Appare attuale, forse più che nei suoi anni, la denuncia di Buber. Oggi le escursioni dell’io – in crociera o in gommone in mari poco ospitali, nelle strade luccicanti delle nostre città o nelle periferie degradate che proliferano a tutte le latitudini – alla fin fine attenuano quasi sempre, o fanno naufragare, le nostre presunzioni, e ci riportano all’orfanezza di fondo dell’essere – nonostante tutto – “senza casa”, come scrive Buber. O richiamano ad una casa angusta, del tutto inadatta alle esigenze reali dell’abitare. A volte, come denuncia Bauman, ci rintaniamo nel chiuso delle nostre paure, e – spinti dalla crescente Building Paranoia6 (Paranoia del costruire muri) – innalziamo attorno alle nostre case, attorno ai nostri quartieri o alla nostra “civiltà” una serie infinita di recinzioni, di separatori sociali, di strumenti di interdizione che – elementi portanti di una cultura dell’apartheid – impediscono all’altro di valicare i nostri confini e di avvicinarsi alle nostre abitazioni. Questi bunker dell’io, queste nicchie culturali iperprotette da sofisticati sistemi d’allarme, non sono certo la “dimora” intesa da Martin Buber. In esse, l’essere umano (individuale e collettivo) spesso tradisce se stesso, contraddice il compito di migliorare, di diventare più grande, di “oltrepassarsi” veramente, andando oltre i confini ristretti per avvicinarsi ad altri fini. 6 S. Flusty, Building Paranoia, in N. Elin (ed.), Architecture of Fear, Princeton Architectural Press, New York 1997, pp. 48-52; cf. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 24.

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Tutt’altro che facile e scontata, la dinamica dell’ospitalità chiama in causa un’arte complessa che si articola attorno a più movimenti: l’arte di allestire un luogo abitabile, l’arte di invitare, l’arte di andare a trovare e infine l’arte di sostare. Affrontando e superando, in ogni fase, contraddizioni e paradossi.

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L’arte di allestire un luogo abitabile Per ospitare ci vuole una casa. L’uomo è chiamato ad un rapporto creativo con lo spazio, per fletterlo umanizzandolo e rendendolo luogo abitabile. Martin Heidegger – similmente a Buber – afferma che l’uomo è, in quanto abita7. Il suo modo di esistere nel mondo si esplica nella forma dell’abitare, nell’ospitare un luogo e nel farsi da esso ospitare. Un luogo è ospitale, e ospita, se è amato, rispettato. Se, come sollecita la Genesi, esso è un giardino affidato all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca, non è facile, oggi, coltivare e custodire in modo coerente ed equilibrato. Spesso le case – ma anche le città – sono ridotte a “tane” inabitabili, anguste all’interno e inaccessibili dall’esterno. Spesso sono spazi senza il respiro dell’umanità, veri e propri non-luoghi 8, edificati e “coltivati” con l’unica preoccupazione del business, del mercato, del consumismo. Spazi di un correre senza incontro, del tutto aperti e senza i limiti dati dalla presenza di elementi vitali. Bauman spiega il vivere in questi non-luoghi sostenendo che “si pattina sul ghiaccio sottile”: soltanto la velocità consente di non sprofondare! Non basta il coltivare per produrre – costruendo in fondo una babele senz’anima: è necessario, invece, “coltivare per custodire” (“essere custode di”). 7 M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, Mursia, Milano 1976. Si fa riferimento, in particolare, a una conferenza tenuta da Heidegger nel 1951, alla quale fanno ampio riferimento anche il saggio di A. Van Sevenant, Abitare come dimorare. Per una architettonica estatica e dinamica, in «Estetica», 44-45, 2-3 (1993) XXXIII, pp. 92102 e quello di J. Malpas, Heidegger’s Topology: Being, place, world, The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London (England) 2006. 8 M. Augé, Nonluoghi, cit.; E. Gasperi, Dar luogo ai luoghi. La città cantiere di interculturalità, Cleup, Padova 2008.

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Spetta a ciascuno di noi, allora, scoprire la giusta misura dell’abitare autentico, umanizzando gli spazi per renderli “dimore”, agorà, piazze, comunità, capaci di essere ospitati e di ospitare. L’uomo è perciò questa capacità di ospitare un luogo, amandolo, per farsi ospitare da esso e per renderlo ospitale per gli altri. Ed è l’uomo stesso, in questo modo, che trova la sua collocazione autentica, proprio perché riconosce la propria mappa esistenziale in questo abitare un luogo aprendolo all’abitabilità altrui. Facendosi, perciò, abitato dall’altro. La prima domanda della Bibbia, «Dove sei Adamo?», chiede all’uomo di esserci, di non nascondersi, di rapportarsi perciò coerentemente con se stesso e con gli altri, manifestandosi perciò con “sincerità” e autenticità, senza occultamenti e distorsioni identitarie. Gli chiede, in altre parole, di aver luogo, di assumere una posizione rispetto al mondo, evitando di trasformarlo in un nascondiglio, in una tana, in una casa blindata e, nel contempo, di sottrargli la specifica dimensione di custodia, di intimità che come dimora autentica deve conservare. Si tratta, insomma, di un equilibrio complesso, di una giusta misura tra la “monade senza porte e senza finestre” e la “terra di nessuno”, per sfuggire sia alla trappola identitaria dell’autocentramento solipsistico sia a quella dell’allocentrismo banalizzante. Non è semplice, in questa prospettiva, intendere nel giusto modo il concetto di “ospitalità assoluta” che propone Derrida9. Significa aprire incondizionatamente le proprie porte, rendere assoluta l’accessibilità alla propria dimora? Va pertanto individuata con intelligente sapienza la discriminante tra luogo e non-luogo, tra vera ospitalità e anonima indifferenza. Probabilmente la soluzione va rintracciata nell’Io-Tu, nella reciprocità che impedisce all’Io e al Tu, proprio nel riconoscimento dell’Assolutezza del Tu, di porsi come assoluti per assumere perciò la giusta posizione dello “stare di fronte”, del “rispetto”.

9

J. Derrida, Sull’ospitalità, cit., pp. 49-55.

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L’arte di invitare. Autenticità e accettazione Il viaggio dell’ospitalità prevede l’arte di invitare l’altro. Un invito autentico presuppone, come già visto, il possesso di una casa abitabile, degna di accogliere un ospite. Suppone pertanto il possesso di qualcosa da offrire, da condividere. Nello stesso tempo, implica un desiderio: si invita chiedendo, riconoscendo perciò l’importanza dell’ospite, del Tu (il Tu, dice Buber, «non è mai qualcosa») e manifestandoci poveri e bisognosi di fronte a lui. La consapevolezza della propria povertà, che equivale a umiltà, è condizione di partenza per stabilire un incontro autentico, il quale non si regge sulla prepotenza dei mezzi o dei contenuti, ma proprio sulla povertà di chi sa condividere. L’umiltà del viaggiatore in ricerca, più che il patrimonio di un ricco possidente che apre i suoi scrigni e porga le sue ricchezze, è condizione del vero incontro. Ospitalità – ecco un’apparente contraddizione con quanto poco fa affermato – non è tanto elargire la propria casa; è, piuttosto, condividere le proprie povertà e farle diventare tetto comune. Derrida, come sempre incisivo, propone al riguardo una domanda e una risposta: «Per offrire ospitalità bisogna partire dalla sicura esistenza di una dimora, oppure soltanto partendo dalla mancanza di legami del senzatetto, del senza casa può aprirsi l’autenticità dell’ospitalità? Forse solo chi sopporta l’esperienza della mancanza di casa può offrire ospitalità»10. È chiaro che tutto questo presuppone l’accettazione incondizionata dell’ospite, il Tu che si presenta. “Accettare”, dal latino accipere, significa “prendere con sé”, “farsi carico di”, “contenere”, “abbracciare”; l’etimologia lo accosta a “concepire”, che significa “dar vita a” (es. concepire un’opera d’arte), ma anche “capire”, “comprendere”. Nell’atto di accettare, insomma, si apre lo spazio per il comprendere e per il concepire-generare. Il verbo latino acceptare, cui pure si può far risalire il nostro “accettare”, è frequentativo di accipere e significa accogliere sempre, continuativamente, regolarmente, in ogni caso: quindi, accettare incon10

Ibid., pp. 18-19.

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dizionatamente, accettare ciascuno e tutti, senza operare preventive stigmatizzazioni, selezioni, emarginazioni in base a simpatie, classi sociali, età, sesso, cultura, etnia, colore della pelle, religione. Educare è indubbiamente invitare e ospitare: compito degli educatori è quello di essere essi stessi, in primo luogo, invito-ospitalità, attraverso una comunicazione accettante e l’allestimento di un contesto ospitante, capace di valorizzare le risorse di ciascuno.

L’arte di andare a trovare. Empatia e rispetto Possiamo dire che, quasi paradossalmente, presupposto dell’“arte di invitare” è l’arte di “andare a trovare l’altro”, di “decentrarci” verso di lui. In caso contrario si stabilisce un rapporto unidirezionale, in cui qualcuno accoglie e qualcuno è accolto, senza possibilità di invertire i ruoli nonché di sperimentare un’autentica relazione di reciprocità. L’itinerario che conduce all’altro, che conduce “a casa sua”, è l’empatia: la capacità di mettersi nei suoi panni (pensieri, bisogni, desideri, mentalità, esperienze, storia, ecc.) pur restando se stessi, mantenendo perciò la necessaria distanza interpersonale, perché l’Io-Tu non è fusione né identificazione: è, come sostiene Buber, guardarci e parlarci da sponde opposte, sapendo tuttavia passare all’altra sponda, metterci dall’altra parte. Con una “fantasia reale” – così la chiama Buber – che mi permette di comprendere, di giustificare, di entrare in rapporto autentico, con un’attitudine immaginativa ad oltrepassare la superficialità dell’apparenza, per sondare anche le misteriose profondità dell’altro, ma – nel contempo – con la chiarissima consapevolezza della “reale” alterità del tu che mi sta di fronte. È evidente infatti il rischio di una concezione riduttiva o sbagliata dell’empatia. Succede quando l’“andare a trovare” è del tutto fittizio, quando cioè il “pensare l’altro” avviene sempre a partire dal primato dell’io: io penso, io comprendo, io empatizzo, sempre a partire da me stesso. Come denunciano, tra gli altri, Emanuel Lévinas e Paul Ricoeur, è impossibile comprendere autenticamente l’altro se non si esce dalla sovranità dell’Io.

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Scrive Lévinas: «Questo essere si manifesta non a partire da me, bensì a partire da se stesso, si impone come “presenza” che si dà in un “volto”: il volto è l’identità stessa di un essere che mi si presenta a partire da sé, senza concetto»11. È soltanto nella relazione Io-Tu, in cui – come afferma Buber – ci si sta di fronte, su sponde opposte, che è possibile riconoscere l’irriducibilità del tu all’io, la sua trascendenza, il mistero che sempre lo avvolge e che contrasta qualsiasi presunzione di conoscenza esaustiva e definitiva. L’empatia autentica, in questa prospettiva, va unita imprescindibilmente al rispetto (la consapevolezza che l’altro abita sempre altrove, che il suo indirizzo – non soltanto anagrafico – è realmente altro dal mio). «Nel rispetto un volere pone il suo limite ponendo un altro volere […]. Con il rispetto l’io si limita e l’altro è posto come valore assoluto, come esistenza e come radicalmente diverso dalle cose, ossia come fine»12. Il rispetto aiuta a mantenere «l’alterità degli esseri che la fusione affettiva tende ad annullare» e – ponendo l’empatia in concreto rapporto con l’alterità – dà spazio alla positiva possibilità del «conflitto, non eliminabile dall’esperienza dell’altro e tuttavia non definitivo»13. Proprio l’empatia autentica, questo metterci dall’altra parte sapendoci guardare da una prospettiva diversa (da una meta-prospettiva), può consentirci di approdare a una nuova e arricchita identità, a una meta-identità: il vedere “l’altro che io sono per l’altro”, “il Tu che Io sono per il Tu”, può rendermi disponibile, in fondo, a scoprire l’ospite che sono per me stesso, a comprendermi in modo nuovo e a farmi cambiare («Io mi costruisco nel Tu», scrive Buber). Questo è un altro corollario della legge dell’ospitalità, ed è quasi emozionante renderci conto che riusciamo ad abitarci, ad essere cittadini di noi stessi, proprio perché – facendoci ospitare dall’ospite – andiamo ad abitare da lui. 11 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1977, pp. 48ss., 300ss., 313ss. Cf. F. Riva, Una possibilità per l’altro. Lévinas, Marcel, Ricoeur, Introduzione a Il pensiero dell’altro, Lavoro, Roma 1999, p. LVII. 12 P. Ricoeur, Sympathie et Respect, in «Revue de Métaphysique et de Morale», ottobre-novembre 1954, pp. 388-389 (tr. it., P. Ricoeur, Studi di fenomenologia, a cura di A.M. Sortino, Messina 1979); cf. F. Riva, Una possibilità per l’altro, cit., pp. XLIIXLIII. 13 P. Ricoeur, Sympathie et Respect, cit., pp. 391-394.

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È quanto, in altri termini, propone Paulo Freire quando sottolinea l’importanza che la relazione educativa ci aiuti a metterci al posto dell’altro. Soltanto così si rompe la rigidità dei rapporti di potere e si entra nella feconda dinamica della reciprocità. Scrive il pedagogista brasiliano: «Non più educatore dell’educando, non più educando dell’educatore, ma educatore-educando con educando-educatore. In tal modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’educando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa»14. La realtà pedagogica dell’“accompagnare” (etimologicamente, il pedagogo è “colui che accompagna il bambino”) si autentica concretamente nel dinamico andirivieni della reciprocità (recus-procus = avanti-indietro), in quella sorprendente circolarità di risorse, di narrazioni, di emozioni, che include nello spazio sempre sconfinato e suggestivo della “comprensione”.

L’arte di so-stare. Lotta e padronanza È tuttavia evidente che, per pervenire ad un dialogo efficace, “comprendere non basta”; né basta per “educare”. Una relazione efficace, significativa, concreta, educativa, non si accontenta del pur dinamico andirivieni accettazione-empatia, invitare e andare a trovare. È necessario fermarci nella relazione, costruire nell’incontro la “mensa comune”, la creatività che l’ospitalità genera. Il sostare nella relazione non è una dimensione onirica, sterile contemplazione reciproca, ma è reciproca coltivazione-custodia dell’io e del tu, oltre che condivisa coltivazionecustodia del mondo comune. Questa fase dell’ospitalità necessita così di un ulteriore passo, che non sempre viene ricordato: è quello che Buber chiama “lotta” con l’altro, non per distruggere (come si potrebbe erroneamente intendere), ma per aiutare il Tu a diventare ciò che può e deve diventare, coinvolgendo pienamente le sue potenzialità, la sua volontà, il suo impegno, la sua responsabilità. Proprio, come poco fa si diceva, nel rispetto più grande dell’alterità del tu. 14

P. Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA, Torino 2002.

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La lotta autentica, che significa consapevolezza e dinamica apertura alle difficoltà dei rapporti, deve evidenziare la sua dimensione positiva implicita, cioè il rispetto. Essa è possibile e giustificata soltanto se rimanda al riconoscimento originario, alla presenza del tu e a quell’intimo rispetto che, da un lato, afferma che «la lotta non può essere interminabile, e dall’altro smaschera la violenza come violenza»15. Lotta è perciò il profondo “dialogo dei prossimi”, che arrivano reciprocamente ospiti, da strade diverse e a volte contrapposte, capaci di incontrarsi proprio a partire dalle differenze, per farle diventare dialogo fecondo. “Lotta” è il caldo, appassionato, concreto e sempre nuovo dialogo, fatto di “botta e risposta”, nella reciprocità più vera, in rapporto a valori autentici e ad aspettative adeguate: lotta, così la definisce Buber, “con” il Tu (che deve essere soggetto-protagonista), “per” il Tu (per la sua autonomia-pienezza-educazione), a volte “contro” il Tu (per contrastare i suoi comportamenti non approvabili: chiusure, inibizioni, nascondimenti, conformismi, passività, aggressività, capricci); “lotta”, non per farne uscire “vincitori” e “perdenti” ma per ritrovarci tutti “vincenti”. È quanto accade anche nella biblica “lotta” di Giacobbe (Gen 32), nel pieno di una notte buia, con un angelo misterioso, che tuttavia è messaggero di Dio, che in lui si nasconde. Giacobbe è un senza nome, un senza identità, un senza-popolo. Dio lo chiama ad un confronto inquietante, che anche in questo caso dura tutta la notte, nell’oscurità più tetra. E Dio, più grande e più forte, si fa vincere: all’alba dà la sua benedizione a Giacobbe e – insieme – gli dà il nome, Israele, che è il nome del popolo: Giacobbe, attraverso quella lotta, trova l’identità personale e collettiva, e viene incluso nella partecipazione più autentica, da attore reale di una comunità reale. Questa lotta avvincente – vera metafora della lotta educativa – lascia una ferita profonda in Giacobbe, che zoppicherà tutta la vita: è il ricordo indelebile di un incontro autentico che lascia una grande eredità, che lascia il segno, che insegna. Non si può insegnare senza incontrare. 15

F. Riva, Una possibilità per l’altro, cit., p. LXIII.

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Ciascun ospite lascia perciò nell’altro una storia scritta, essenziale, che si può sviluppare: ciascuno può “narrare se stesso”, esprimere se stesso, partecipare, perché un altro sa e vuole “scrivere nella sua anima”. Platone utilizza proprio, a proposito del compito dell’educatore, l’idea dello “scrivere nell’anima”: «In un discorso scritto c’è molto di superficiale e di aleatorio. Soltanto nella parola dell’educatore, cioè in ciò che si scrive veramente nell’anima, intorno al giusto, al bello e al bene, c’è chiarezza, pienezza e serietà; l’educatore capisce che queste parole devono essere proprio sue, come fossero figli suoi, e sa che il discorso – se mai lo abbia trovato – egli lo porta dentro di sé» (Fedro, 275 A2 - 278 A11). Da questa lotta educativa che incide, che sa “scrivere nell’anima”, attraverso la parola viva che è testimonianza, proviene la vera “autorità” degli educatori autentici: capaci in primo luogo di “essere autori” del discorso dentro se stessi (testimoni, portatori di un testo credibile) e, conseguentemente, di proporlo ad altri con coerente determinazione per aiutarli a diventare “autori originali” di se stessi e del mondo di cui devono essere protagonisti.

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III. DIALOGARE

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Marina Santi

L’approccio interculturale può essere una lente di ingrandimento per leggere più a fondo l’esperienza umana del dialogo1. Al contempo, una lente dialogica sulla nozione di intercultura può risultare vantaggiosa per intenderne e valutarne le implicazioni pedagogiche in un contesto divenuto diffusamente multiculturale. Questo contributo nasce a partire da alcune domande di fondo: quali sono le difficoltà e le opportunità che il dialogo come costrutto pone? Da dove deriva la complessità della sua realizzazione? La tensione intrinseca che accompagna l’idea del dialogo interculturale è solo il portato empirico dell’interazione, inibente o favorevole, dei molteplici fattori contestuali che lo investono, o c’è piuttosto una componente ontologica, una dimensione antinomica e paradossale intrinseca al concetto, che ne giustifica la dinamica dialettica? Credo che le risposte possibili a queste domande siano plurime, non esclusive, né risolutive, ma credo anche che esplorarne il peso e le conseguenze possa essere utile per una maggior comprensione di ciò che alternativamente consideriamo indifferentemente come un fenomeno riconoscibile, un’interazione stabile, un obiettivo pedagogico, una condizione politica e che forse potrebbe esserci più utile come principio orientativo. D’altra parte, proprio la mancata accoglienza della natura aporetica del dialogo ci espone a una serie di problemi teorici e pragmatici che finiscono per confondere ogni progettualità pedagogica che si ispiri e che aspiri all’esperienza dialogica. 1 Ringrazio Anna Granata e Giuseppe Milan per avermi invitato a dialogare sull’intercultura e Walter Kohan, Luca Illetterati e Carlos Skliar per aver dialogato con me sul dialogo. Spero che le voci di tutti loro siano in qualche modo udibili in questo scritto.

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Dialogare non è soltanto “parlare” Un primo problema pedagogico nasce dal considerare il dialogo – prima ancora del dialogo interculturale – esclusivamente come forma di interazione discorsiva fattuale, sovrapponendo a questo costrutto concettuale l’insieme delle sue possibili istanze empiriche, a loro volta rintracciabili nell’universo discorsivo come variante “arricchita” della pragmatica comunicativa della conversazione o “smussata” della discussione. Una delle conseguenze più immediate di questa sovrapposizione è la tentazione di assimilare nell’unica veste del discorso verbale che passa attraverso un comune medium linguistico tutta la varietà di manifestazioni, anche contrapposte, in cui il dialogo può rendersi empiricamente manifesto nella complessa fenomenologia dell’“incontro con l’altro”. L’esito è una riduzione di potenzialità e intenzionalità per ogni pedagogia e didattica in prospettiva dialogica, che risulta appiattita sulla fenomenologia enunciativa del dire e finisce per misurarsi positivamente o negativamente solo su di essa. Se invece riconosciamo che il dialogo coglie e identifica una tensione aporetica interna alla relazione intersoggettiva, più che una tipologia di interazione discorsiva, allora più interessante e necessario diventa riuscire a estrapolarne e valorizzarne in senso educativo tutta la generatività proattiva che ogni antinomia porta con sé. Ma in cosa consiste l’antinomia del dialogo? E soprattutto, quale vantaggio pedagogico ci restituisce la consapevolezza della tensione aporetica che gli è costitutiva? Già il linguaggio quotidiano ci rimanda a significati di “dialogo” diversi e complementari che evocano il paradosso che li tiene insieme: un evento comunicativo riconoscibile, un “fatto” ma insieme un processo, un’“attività”, uno scambio che prospetta l’incontro ma che postula la distanza tra gli interlocutori; un’esperienza che conduce all’apertura della soggettività verso l’esterno, ma che stabilisce insieme un’intimità protetta tra le parti; un esercizio che lascia intravedere l’accordo come aspirazione, ma che si nutre solo della diversità di prospettive. Per dialogare, in effetti, occorre essere almeno in due: il dialogo è un discorso, più ampiamente un atto comunicativo e simbolico, “rivolto a” qualcuno, che si sviluppa solo laddove vi è il riconoscimento dell’altro come interlocutore. Al contempo ciò che appare evidente è

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che non basta “parlare” a qualcuno per instaurare un dialogo. Il dialogo non è chiacchiera, ma nemmeno mera comunicazione trasmissiva, o forma di enunciazione in cui si impone all’altro il proprio discorso. È però una forma di comunicazione, come interrogazione dell’altro come atto interlocutorio che promette il ritrovamento mutato di se stessi e la costruzione condivisa di significati; in tal senso esso è anche una forma di internalizzazione dell’altro. Una relazione che trae senso non solo, o non tanto, dall’oggetto di comunicazione, ma dalla posizione reciproca dei protagonisti che si impegnano alternativamente come parlanti e come ascoltatori verso l’altro e verso se stessi. Oltre a questa relazione, ciò che sembra condizione necessaria del dialogo è ancor più l’intenzione comunicativa, ovvero ciò che trasforma la parola detta all’altro in quel che Searle chiama «atto linguistico»2 e che ci consente – per usare un’espressione di Austin – di «fare cose con parole»3. È proprio l’illocutività comunicativa, la sua intrinseca intenzionalità, che accomuna il dialogo e la conversazione, caratterizzandole come spazi del discorso tesi a colmare la distanza che separa i protagonisti e le loro visioni del mondo. Ciò che il dialogo condivide con la conversazione è sicuramente la natura del “contratto”4 tra i parlanti; un contratto che in quanto tale «oltre che a suggerire la necessaria esistenza di almeno due attori nell’evento comunicativo, suggerisce anche l’impegno valutatore e trasformatore: che è per l’appunto l’impegno, assai faticoso e talora perfino conflittuale […] dell’interazione comunicativa»5. Ma tale contratto suggerisce anche la dimensione normativa del discorso dialogico: in esso, come in ogni comunicazione conversazionale, sono poste regole e vincoli che definiscono e contengono lo spazio del discorso e lo rendono possibile come evento comune. È Grice che – in una prospettiva dall’alone kantiano – parla appunto di “principi” e “massime” conversazionali che operano come condizioni e direzioni 2 Cf. J. Searle, Atti linguistici. Saggi di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1976. 3 J.L. Austin, Come fare cose con parole, Marietti, Genova 1987. 4 G. Minnini, Dialogo e argomentazione, Adriatica, Bari 1983. 5 S. Moravia, Dal monologo alla conversazione. Immagini della comunicazione umana nel pensiero contemporaneo, in U. Curi (ed.), La comunicazione umana, Franco Angeli, Milano 1985, p. 63.

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dello scambio discorsivo6. Il suo “principio di cooperazione” richiede che colui che parla tenga conto sempre e comunque di colui che ascolta e degli scopi dell’azione comunicativa. Le cosiddette “implicature conversazionali” indicano le mosse discorsive che vengono attuate per fare qualcosa di diverso da quello che si dice, pur con la speranza che colui che ascolta le interpreterà adeguatamente attraverso un proprio lavoro ermeneutico. In tal senso il «principio di carità» di Davidson rappresenta il duale del principio di cooperazione, assumendo la capacità ermeneutica e la ragionevolezza nell’interlocutore come garanzia di commensurabilità tra i linguaggi e il superamento del solipsismo cui destina il relativismo culturale7. Il rispetto di tali vincoli rende conversazione e dialogo simili almeno nel costante impegno che i partecipanti devono attivare nel mantenimento del contesto che ne rende possibili origine e sviluppo.

Un’esperienza che genera intercultura Nella conversazione, la direzione del discorso è data appunto dall’andare insieme – cum – verso una meta comune, cercando di mantenere sgombro lo spazio dell’accordo, spazio che invece il dialogo in qualche misura e per sua natura tende a compromettere. La presenza dell’altro nel dialogo si gioca entro una dialettica che lo pone come un uguale nella sua dignità e nelle sue intenzioni e fatiche comunicative, e però anche come un diverso nella sua identità ed esperienza del mondo. Entro tale dialettica che rende possibile e legittima lo scambio e il confronto tra questa “uguale diversità” si gioca tutto lo spazio del dialogo. In tal senso il dialogo è opposto al monologo, laddove si evince anche etimologicamente che in esso condizione del logos è la divisione – dia, appunto – la separazione che produce la molteplicità delle voci, ma insieme che danno vita al discorso comune, perché dia in greco rimanda anche all’atto agricolo del raccogliere dopo aver separato sul campo. 6 P.H. Grice, Logic and Conversation, in M. Sbisà, Gli atti linguistici, Milano 1978. 7 D. Davidson, On the very idea of a conceptual scheme (1974), rist. in Id., Inqui-

ries into Truth and Interpretation, Oxford University Press, Oxford 1984.

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In verità, ad un’analisi più allargata, risulta possibile estendere la dimensione dialogica a tutta l’attività intellettuale del soggetto che pensa “rivolgendosi a”, compreso dunque il suo pensare-parlare rivolto a se stesso attraverso gli strumenti, i significati, i mezzi messi a disposizione e assimilati dalla cultura. Questa è in nuce la prospettiva sviluppata in modo organico nel secolo scorso da diversi autori più o meno riconducibili a una visione “culturalista” della cognizione. L’approccio storico-culturale entro cui Vygotskij ridefinisce il rapporto tra pensiero e linguaggio è certamente tra i più influenti8, come lo è quello dello strutturalismo simbolico di Mead in merito alla relazione costitutiva tra mente, sé e società9. L’idea di fondo che accomuna queste prospettive sullo sviluppo intellettuale, sulla costruzione del sé e della coscienza individuale e collettiva, è che noi siamo presenti e consapevoli di noi stessi solo nella misura in cui siamo “altri” a noi stessi, ovvero nella misura in cui percepiamo le nostre risposte riflesse come stimolo alla riflessione su di noi. Visto in questa ottica, il dialogo incarnerebbe la famosa antinomia di Humboldt secondo cui è solo operando sull’“altro sociale” (attraverso l’azione discorsiva), e diventando noi stessi, in qualche misura, un “altro sociale” (attraverso l’uso di mediatori simbolici accettati e condivisi), che possiamo diventare il nostro stesso “sé” consapevole10. Questa natura dialogica del pensiero superiore che porta sia alla generalizzazione concettuale che all’individuazione esistenziale, sta alla base delle più recenti teorizzazioni intorno alla cognizione che si riconoscono nel paradigma della “mente discorsiva”, ove il processo comunicativo instaurato dalle tante “voci” che animano «la personalità e la coscienza parlante»11 diviene l’elemento costitutivo dell’attività stessa della mente12. 8 9 10

L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1990. G.H. Mead, Mente, Sé, Società, Giunti & Barbera, Firenze 1972. R. Van der Veer, The concept of culture in Vygotsky’s thinking, in «Culture & Psychology», 2 (1996), pp. 247-263. 11 M.M. Bakhtin, The Dialogic Imagination. Four Essays, M. Holquist ed., University of Texas Press, 1981. 12 Sul nuovo paradigma della cognizione cf. R. Harré - G. Gillett, La mente discorsiva, Raffaello Cortina, Milano 2001; J.S. Bruner, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Id., La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1997.

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Una conseguenza importante di questo approccio al dialogo, come forma essenziale della mente e non come sua eventualità, è a mio avviso direttamente influente anche su ogni possibile declinazione di questo concetto in termini interculturali. Addirittura un approccio dialogico alla mente, che tenga traccia della dimensione aporetica del costrutto, potrebbe condurci a ripensare il senso stesso e la legittimità autentica dell’espressione “dialogo interculturale”, che appare come un ossimoro. Il dialogo infatti è primariamente intraculturale ed è solo grazie al suo darsi come tale che le differenze si riconoscono e si determinano nella loro pluralità, originalità, ma anche reciprocità e distanza interculturale. Proprio Vygotskij ha attribuito a questa distanza prossima tra “differenze” la funzione motrice principale nello sviluppo superiore umano. Visto in questa prospettiva, non sembra contraddittorio, sebbene paradossale, concepire il dialogo interculturale come un esito più che come una meta; quasi che tolstoianamente l’ideale stesse alle nostre spalle, anziché davanti a noi. Il dialogo, infatti, che si origina dentro l’immensa produzione culturale disponibile nel presente e nella storia è a sua volta origine e generatore di intercultura, come spazio, luogo, relazione in cui emergono le differenze e si moltiplicano. Ed è proprio grazie a questa radice culturale comune che la traduzione e la commensurabilità tra mondi diversi è resa possibile, sotto il denominatore comune dell’umanità.

Comprendere la lingua dell’altro L’incontro con l’altro rischia continuamente di soccombere all’esperienza dello scarto e dell’incomprensione. L’incontro interculturale, in particolare, si caratterizza come esperienza che passa attraverso il “parlare un’altra lingua”, sotto le vesti di una forma di “stranierità”. Non ci riferiamo solo a un altro codice linguistico, ma anche a un altro codice culturale, generazionale o disciplinare. Devo ad un amico “multilingue” per vocazione una convincente riflessione proprio sul tema della “stranierità” che ci regalò, sforzandosi di parlare nella “nostra” lingua, in un seminario sul tema dell’in-

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fanzia e la filosofia. Walter Kohan si riferiva infatti nel suo discorso alla “stranierità” per parlare di infanzia13, recuperandone il significato etimologico che la connota come “assenza del parlare” – in-fari, essere senza una lingua, appunto. Allora Kohan suggeriva come condizione essenziale del dialogo educativo, il riconoscimento della dignità propria dell’essere stranieri, che implica un atteggiamento di “lasciar essere” l’altro per quello che è. Lasciar essere comporta paradossalmente accettare e accogliere che lo straniero parli con la sua lingua e con la sua voce, senza trasformare l’ascolto autentico nell’ospitalità “sub-condicione”, arrogante e paternalistica, di chi esige in anticipo – per dirla con Derrida – dallo straniero che ci comprenda, che parli la nostra lingua, in tutti i sensi, in tutte le sue estensioni possibili, affinché lo si possa accogliere tra noi14. Preservare la stranierità nella forma del dialogo non è un atto immediato e pacifico: se da un lato questo ci aiuta a mantenere intatta l’alterità e la sua originale differenza, dall’altro l’atto di difesa della stranierità non toglie nulla alla drammaticità degli interrogativi che il paradosso dell’accoglienza dell’altro pone. Si chiede Kohan: Forse è necessario, o meglio, possibile, esigere dallo straniero che esca dal suo mondo ed entri nel nostro come condizione della sua accoglienza? In questo caso, non staremmo includendo nell’invito allo straniero il decreto della sua stessa morte in quanto tale? Portare lo straniero nella nostra terra non significherebbe uccidere la sua “stranierità”? Derrida presenta la stessa antinomia in un modo nel contempo elegante e crudo: «Se [lo straniero] parlasse già la nostra lingua, con tutto quello che ciò implica, se già condividessimo tutto ciò che si condivide con una lingua, lo straniero sarebbe ancora uno straniero e potremmo ancora parlare riguardo a lui di asilo o di ospitalità?»15.

E – aggiungo – una domanda forse ancora più radicale: potremmo ancora parlare di dialogo interculturale? 13 I brani di Walter Kohan riportati nel saggio sono tratti dal testo del discorso Infanzia, stranierità, filosofia, tenuto a Padova nel gennaio del 2006 al Corso di Perfezionamento in “Philosophy for Children”. Il testo rivisto è stato pubblicato nel volume W. Kohan, Infanzia e filosofia, Morlacchi, Perugia 2006. 14 J. Derrida, Sull’ospitalità, cit., pp. 21 e 23. 15 Ibid., p. 23.

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Kohan si chiede e ci chiede quali sono le condizioni affinché lo straniero possa essere accolto da noi senza per questo smettere di essere se stesso. Ci chiedeva, e si chiedeva insieme a noi, come non soccombere alla tentazione dell’assassinio della “stranierità” dello straniero – e con essa dello straniero stesso – pur animati dalle migliori intenzioni: in nome della simpatia, della generosità, della tolleranza e delle più belle parole che troviamo per sollevarci dalla sofferenza di un simile omicidio. Così, l’ospitalità dello straniero ci fa pensare al paradosso della relazione con l’altro, all’impossibilità di rimuovere il lato conflittuale di identità e alterità. Così l’ospitalità si fa tutt’uno con il dialogo e ci riporta la sua natura di aporia. Da un punto di vista pedagogico il paradosso del dialogo con lo straniero coincide, nella proposta di Kohan, con il paradosso del dialogo con l’infanzia e dell’educazione tout-court. Il passo successivo nel discorso fu quello di farci fare l’esercizio di leggere “bambino” laddove Derrida dice “straniero”. Possiamo allora leggere: «Se [il bambino] parlasse già la nostra lingua, con tutto quel che ciò implica, se già condividessimo col bambino tutto ciò che si condivide in una lingua, il bambino sarebbe ancora un bambino e potremmo ancora parlare nel suo caso di asilo e ospitalità?»16. Considerato in questa prospettiva intergenerazionale, il dialogo interculturale assume dunque la forma più originaria del dialogo pedagogico. In entrambi i casi l’accoglienza deve passare per il riconoscimento della differenza per un loro riflesso sulla nostra stessa natura di “adulti” e di “padroni di casa” e nell’astensione da ogni tentativo di assimilazione e omologazione dell’altro. L’argomento di Derrida mostra come l’ospitalità, così come il dialogo, può essere sottomessa a situazioni che rafforzano la sua condizione paradossale: così può accadere che qualcuno diventi xenofobo per difendere il suo diritto all’ospitalità, o diventi egocentrico per difendere il suo diritto al dialogo. Se questa è la condizione paradossale dell’ospitalità allo straniero, così come del dialogo interculturale (e pedagogico), la deriva che dobbiamo continuamente arginare è quella di escludere e discriminare in nome dell’accoglienza e del riconoscimento. 16

Ibid.

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Eppure, la presa di coscienza di questa tensione parodossale e antinomica ci può preservare dal riproporre l’ospitalità, così come il dialogo interculturale o come un assioma indiscusso, come un’esigenza radicale senza condizioni esposta al rischio della sterilità, o come condizionamento obliquo, subdolo, che finisce per mettere in questione la sua ragione di essere. A questi rischi di vuotezza o di demagogia, Derrida suggerisce di rispondere mettendo in tensione il paradosso verso il lato della stranierità, riconoscendo proprio allo straniero il potere di liberare il potere del padrone di casa: è lo straniero che invita – o non invita – l’anfitrione ad invitarlo17 nel dialogo interculturale. È il bambino che invita l’adulto ad invitarlo nel dialogo educativo, così come è la volpe che chiede al Piccolo Principe di essere ammaestrata. Questo rovesciamento chiede disponibilità, apertura, plurilinguismo, appunto. Perché, come racconta Steiner ripercorrendo la sua biografia, «ogni lingua è una finestra che si affaccia su un altro mondo, un altro paesaggio, un’altra struttura di valori umani […] una vacanza dell’anima»18. Dialogare, tradurre, viaggiare, aprire finestre come belvederi che segnano il passaggio dal dentro al fuori: attraverso le finestre si può vedere il mondo senza uscire e si può vedere l’interno senza entrare. Chiederci qual è e quale può essere la lingua del dialogo ci aiuta a rapportarci con la nostra “stranierità”, con lo straniero che ognuno è in relazione a tutte le altre lingue che non parla, che non comprende, cioè in relazione a tutti gli altri mondi che, in quanto ignorati, non abita19. Questa prospettiva sul dialogo interculturale ci consente di rileggere e di far assumere nuovi contorni alle vocazioni cosmopolite espresse da molti autori del passato, come Kant, o a certe visioni “liquide” del presente20, riconoscendo nell’estensione indefinita della possibilità di con-vivenza, di con-temporaneità e di co-territorialità tra i popoli la prerogativa culturale della specie umana. 17 18 19 20

Ibid., pp. 123 e 124. G. Steiner, Il correttore, Garzanti, Milano 1999, p. 17. W. Kohan, Infanzia e filosofia, cit. Z. Bauman, Modernità liquida, cit.

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Già un secolo prima della comparsa del termine “multiculturalismo” questa possibilità veniva prospettata da pensatori come Nietzsche, che immaginava «un tempo in cui gli individui avrebbero cessato di concepire la propria cultura come conseguenza diretta del luogo in cui si vive, mescolandosi ad altri popoli, aprendosi al confronto con essi e attribuendo significati diversi alla propria appartenenza culturale»21. Anziché connettere questa evenienza a circostanze epocali, come le migrazioni di massa o la globalizzazione, essa può dunque corrispondere al riconoscimento del dialogo tra le fondamentali prerogative evolutive umane. Una prerogativa, quella del dialogo, che nel momento in cui si appresta a divenire esperienza quotidiana mostra la sua essenza problematica.

Il rischio latente dell’incomprensione Il dialogo nell’esperienza rischia continuamente di ritirarsi nel monologo, di arroccarsi nella diatriba, di perdersi nella chiacchiera. Tutti rischi evidenti nella declinazione interculturale del dialogo, dove il darsi e il farsi della relazione tra “stranieri” enfatizza queste tensioni, mettendo a nudo la problematicità di una relazione che sembra possa sussistere e svilupparsi solo laddove la comunione – o meglio la “comunità” – già si manifesta e si esprime nel riconoscimento da parte dei dialoganti della possibilità comunicativa e della consistenza reale e argomentativa dell’interlocutore, dandogli “cittadinanza”. La differenza linguistica e socioculturale tra gli interlocutori mette in evidenza come il dialogo, nel porre necessariamente l’altro da sé come radicalmente “altro”, se da un lato apre un’autentica possibilità di confronto, dall’altro rischia l’impossibilità di uno scambio fertile e comprensibile. È come se la separazione presupponesse comunque a monte una ricomposizione possibile per poter essere posta. È come se l’altro non dovesse essere sostanzialmente diverso e quindi davvero “altro” per poter essere riconosciuto, pena l’incomunicabilità tra le parti e il fallimento di ogni possibile accoglienza reciproca. 21

A. Granata, Sono qui da una vita, cit., p. 45.

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È come se la differenza interna che alimenta la traduzione culturale allo stesso tempo la esponesse continuamente alla frammentazione e alla reciproca e assoluta stranierità. Di qui l’essenza aporetica del dialogo: si costituisce nel darsi del confronto tra differenze e si realizza nell’annullamento della distanza che le separa. Si determina come attività della mancanza di qualcosa che non si possiede e si sostanzia solo nell’assimilabilità del punto di vista dell’altro, nella possibilità dunque di giungere alla costruzione di se stessi attraverso l’appropriazione dell’altro da sé, anelando ad una pienezza che appare possibile solo nel superamento dei limiti solipsistici entro cui rischia di venir confinato. La struttura aporetica del dialogo, che lo rende quasi ineffabile e comunque difficile da definire sul piano teoretico, non lo rende tuttavia impraticabile sul piano esperienziale. Come sempre accade nelle antinomie22, l’impossibilità di una risoluzione logica nell’opposizione tra due grandi verità, non impedisce una mediazione pragmatica che testimoni comunque l’ambivalenza del concetto. L’esperienza del dialogo si radica in questa ambivalenza; ambivalenza che è «l’accettazione e l’accoglimento da parte dell’uomo di quella forma di alterità che è radicata nel suo stesso modo d’essere, l’accettazione e l’accoglimento cioè del proprio trovarsi ad esistere e del proprio non essere all’origine di se stesso»23. Il dialogare si pone dunque come un’“azione impossibile” e nello stesso tempo come l’attività in cui il soggetto sperimenta la precarietà della sua propria finitezza, il suo essere dato non tanto entro un limite, ma sul limitare; e questo “stare sulla soglia”, presso una porta aperta al mondo, ma a protezione di una casa, dove ogni movimento può avvenire solo come atto di accoglienza e ospitalità, diventa il suo significato paradossale più autentico. È un’azione impossibile analoga, come si diceva poc’anzi, a quella del tradurre24, nella misura in cui condivide con essa la necessità di partire dal riconoscimento della diversità di ciò che ci sta di fronte, che occorre svelare nel suo significato, dando al contempo come pre-con22 J.S. Bruner, La cultura dell’educazione, cit., p. 79. 23 L. Illetterati, Figure del limite. Esperienze e forme della finitezza, Verifiche, Tren-

to 1996, p. 102. 24 Sul problema della traduzione cf. G. Steiner, Dopo Babele. Il linguaggio e la traduzione (1975); tr. it. di R. Bianchi, Firenze 1994; L. Illetterati, Figure del limite, cit., pp. 99-115.

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dizione la possibilità di averne un qualche intendimento che coinvolge processi euristici, epistemici ed ermeneutici “meta-logici”. Il dialogo, come la traduzione, si configura come un processo interpretativo che origina dall’«ingenuo o anche folle tentativo di appiattimento della differenza e di omologazione dell’alterità, come l’intenzione di condurre all’interno di una uniformità ciò che si presenta come diverso»25, ma che consente, proprio nel cogliere il limite da cui nasce, di andare oltre e di accogliere il nuovo, stemperato nei tratti del volto dell’altro. È questa novità incessante che l’alterità propone a preservarci dal rischio di appiattimento della differenza per riconoscerla in tutte le differenze, declinate al plurale perché plurime, perché «non solo tutta la gente è differente, ma tutti quanti differiscono»26 sia sul piano interindividuale, che infraindividuale, tra pieghe dell’umore, degli eventi, dei momenti che accompagnano la vita di ognuno. Allora l’“altro” si riempie e non è più un vuoto da colmare con le nostre aspettative, desideri, paure. La differenza si smarca dal differenzialismo e smette di essere immagine “fantasmagorica” e “violenta” – come la definisce Skliar27, un altro amico “straniero” nel suo dizionario: Fantasmagorica, perché il diverso non esiste. Inesiste. È inesistente. [...] I diversi sono visti come coloro che sono incapaci da capacitare, gli incompleti da completare, i carenti da dotare, ecc. L’immagine del differenzialismo diventa, così, molto nitida: non è altro che un dito che indica direttamente ciò che crede che manchi, ciò che comprende come assenza, ciò che suppone sia una deviazione, ciò che identifica come anormale28.

La pragmatica quotidiana del dialogo, fatto esperienza parziale, incompleta, evocativa e aspirante al principio da cui scaturisce e a cui tende, è dunque l’unica via che ci consente di rendere necessario l’impossibile, di rendere praticabile la finitezza umana cogliendola “in situazione” nelle persone e negli incontri, laddove può darsi nel suo originario “essere-con-altri”. L’esperienza del dialogo, lungi dal risolverne l’immanente aporia, apre all’uomo la possibilità di dimorare la differen25 26 27

L. Illetterati, Figure del limite, cit., p. 114. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997. C. Skliar, Lo dicho, lo escrito, lo ignorado, Mino y Davila, Buenos Aires 2011, voce Diferencia. 28 Ibid. (trad. nostra).

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za in un contesto comunitario e cosmopolita, che ne riconosca il valore. E se vivere il dialogo è una delle strade che proietta l’essere umano oltre se stesso a partire da se stesso, allora preparare fin dall’infanzia a questo evento, per riuscire a coglierne pienamente il valore esistenziale e sociale, risulta una priorità ineludibile di ogni progetto formativo, ben oltre un suo mero utilizzo metodologico in classe o nei vari contesti didattici. Educare al dialogo significa da ultimo, educare a diventare uomini, donne, bambini e bambine a partire dal riconoscimento del proprio non essere mai solo un uomo, una donna, un bambino, una bambina.

Educare al dialogo interculturale? Ma si può dunque, alla luce di quanto detto finora, educare al dialogo interculturale? La risposta si poggia tutta su quella “soluzione pragmatica” dell’aporia dialogica che ho prospettato poc’anzi. Ed è certamente positiva se si considera come compito di chi educa quello non tanto di realizzare compiutamente ciò che si presenta come essenzialmente incompiuto e inafferrabile, ma di creare il contesto e le condizioni perché la sua possibilità si faccia esperienza e perché tale esperienza si possa tramutare in un imperativo etico imprescindibile. Per poter realizzare questo, chi educa dovrebbe farsi modello per i suoi allievi, incarnando i principi e le massime che rendono il dialogo possibile; nello stesso tempo educare al dialogo dovrebbe considerarsi più che un obiettivo definito, un modello da seguire, da interpretare, di cui appropriarsi nella pratica quotidiana in forme molteplici, reiterate e complementari, così che possa davvero aprirsi la possibilità di farne un’esperienza autentica e condivisa. Ma non per questo priva di problemi. Chiunque intenda veramente promuovere il dialogo come strumento e come contesto formativo dovrebbe dunque fare di esso un vero e proprio “stile di vita” e una modalità abituale di relazione, ponendosi di fronte all’altro in una continua disposizione all’offerta e all’ascolto anche laddove ci si scontri con la chiusura; anche e a maggior ragione laddove il dialogo inciampa. Egli dovrebbe porsi in atteggiamento dialogante anche in ambienti resistenti, cercando di imitare

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sempre più il modello per farsi a sua volta sempre più un modello imitabile. Avvicinarsi al modello per trasformarlo in stile di vita significa sostanzialmente “copiarlo” e “ricopiarlo”, per appropriarsene e trasformarlo in vissuto, in esperienza originale, ma comunque sempre ripetibile e condivisibile. Avviene così che l’essere dialogante diventi una vera e propria determinazione del carattere umano e «il carattere – scrive Acheng – è un atto di scrittura. Se ne vedi uno che ti piace, copialo tutti i giorni per sei mesi, senza saltare un giorno. Quando ti sembrerà somigliare all’originale, riscrivilo a memoria, e quando scrivendolo a memoria ti sembrerà somigliare al modello, scrivilo a modo tuo. È in questo che consiste il talento, nel rompere le regole. Se non ne sarai capace, dovrai accontentarti di scrivere caratteri che assomigliano ai modelli»29. Essere dialogante diventa dunque una questione di talento, di capacità di persistere nell’imitazione del modello, dando a tale sforzo un valore etico oltre che didattico. Essere dialogante intenzionalmente entro uno spazio formativo significa trasformare questo spazio in un luogo continuamente salvaguardato e protetto, preparato e coltivato proprio per consentire l’improvviso affiorare di questa esperienza. Per educare al dialogo occorre saper impersonare e promuovere un modello che, interiorizzato dalla comunità e continuamente riproposto in forme diverse, possa trasformarsi in atteggiamento diffuso e consapevole verso il mondo, gli altri e se stessi. Possa divenire metodo e valore capace di orientare nelle scelte e nelle decisioni quotidiane e di influire sui comportamenti e sulle relazioni intersoggettive che incessantemente finiscono con l’interrogare la nostra vita. Lungi dunque dall’imporre il dialogo, che appare azione didattica paradossale oltre che inefficace, il dialogo piuttosto finisce con l’imporsi da sé. Chiunque colloca la propria azione educativa secondo una prospettiva dialogica è dunque da un lato consapevole dell’impossibilità di dialogare, specie con chi non vuole farlo; dall’altro convinto che proprio in questi casi valga la pena essere dialogici.

29

Acheng, Lo scemo di Pechino, in «Diario della settimana», 2 (1996), p. 94.

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IV. CUSTODIRE

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Francesco Grandi

Lo ha detto con buona sintesi lo studioso di politiche culturali Dragan Klaic in un intervento del 2005: «Sotto l’influenza di questi tre fattori – la globalizzazione dell’industria culturale, la rivoluzione digitale e la migrazione – le certezze su cui le attività delle istituzioni culturali si è fondata per secoli, quali ad esempio la stabilità dei pubblici di riferimento, la coerenza dei gusti e degli stili di vita, la fedeltà ad alcune forme tradizionali di “arte colta”, si stanno rapidamente sgretolando»1. Sotto l’effetto di questa trojka – il cui passaggio ha messo sotto stress molti altri contesti – il settore culturale ha visto crescere un flusso di prodotti che ha rapidamente modificato i modelli di consumo e una facilità di accesso che ha messo in mora i tradizionali selettori “autorizzati” e i mediatori autorevoli di quei prodotti, sempre più in difficoltà nel far fronte all’iperproduzione culturale e attanagliati dalle ristrettezze di bilancio. Tutte cause ma anche conseguenze di ritardi di adattamento alle nuove condizioni. Velocità, affidabilità, versatilità temporale e spaziale, nuove opportunità offerte dal mezzo digitale nel definire forme inedite e differenziate di consumo culturale hanno modificato aspettative e atteggiamenti delle persone, producendo anche una minore tolleranza verso alcune strutturali disfunzionalità organizzative del sistema della cultura. La diversificazione dei pubblici potenziali e la nuova composizione demografica delle società d’immigrazione ha poi contribuito ad aumentare la tensione già maturata tra “missione tradizionale” dell’istituzione culturale e nuova domanda. 1 D. Klaic, Sopravvivere allo shock culturale: istituzioni culturali, globalizzazione e multiculturalismo, in S. Bodo (ed.), Culture in movimento. Strumenti e risorse per una città interculturale, M&B Publishing, Milano 2005, p. 43.

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Intercultura. Le virtù di una società interculturale

Aziendalizzazione e ricerca di nuovi patrocini privati hanno lasciato sul campo vittime autorevoli, ma sono state tra le strategie più diffuse per far fronte alle novità di “mercato” e al bisogno di “valorizzazione” dei beni culturali e di messa alla prova della loro “redditività” (si pensi su tutti al caso dei musei). Tra maquillage di marketing e ripensamenti della propria missione culturale coniugata con l’impegno civico e l’evoluzione interculturale della proposta ci sono gradi e traiettorie assai diversificate che mettono tutte a tema la necessità di una trasformazione che coinvolga le location fisiche, le prassi comunicative, le strutture organizzative, le composizioni professionali dei direttivi e degli staff, le programmazioni, i contenuti d’offerta, le reti di collaborazione territoriale, ecc. Non solo e prima: in gioco, nelle strategie istituzionali per la riconfigurazione, sta la riflessione su come coniugare missione culturale e compito educativo in un binomio che appare decisivo per la sopravvivenza stessa della propria funzione pubblica. Questo contributo tratta delle esperienze di educazione al patrimonio storico e culturale come opportunità di conoscenza del passato e insieme di lotta agli stereotipi e alle false credenze alimentate da visioni etnocentriche della storia. Politiche della cultura e della formazione che puntino a rappresentare e trasmettere la costruzione nel tempo delle identità culturali, sono infatti oggi chiamate a far riflettere, con strumenti sempre più raffinati e coerenti, sulla dimensione storica e geografica dell’esperienza culturale dei gruppi umani e sulla concretezza delle manifestazioni delle proprie vicende umane. La riflessione educativa sul patrimonio può dunque rappresentare un’occasione per ripensare il rapporto che intratteniamo con la storia e la memoria entro una società multiculturale andando al fondo di quell’esperienza per la quale le culture così come ciascuno di noi è di fatto il risultato nel tempo di un corpo a corpo con la storia e con altri gruppi umani. “Custodire” significa quindi anche alimentare e trasmettere quella sensibilità che vede l’esperienza interculturale alla base dell’esistenza storica di ciascuno, un’esperienza che, nelle nostre ricche diversità, più che opporci ci fa assomigliare: Noi siamo fatti di cose in prestito. Lo siamo anche culturalmente. Animali intrinsecamente insaturi, incompleti e contingenti, ci siamo foggiati protesi nelle culture in cui ci è accaduto di avere una vita da vivere e un’identità, distinta da

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IV. Custodire 167 altre da ricevere, ereditare o inventare, modellare e costruire. Anche in questo senso, possiamo riconoscere in modo perspicuo insieme alla nostra contingenza, il nostro essere intrinsecamente debitori ed eredi. Nello stesso senso in cui siamo fatti di cose prese in prestito, fisicamente e culturalmente, noi possiamo facilmente riconoscere di essere tutti immigranti nel mondo del pensiero2.

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Diritto alla cultura In questo scenario proviamo a isolare il tema della composizione dei pubblici nelle società d’immigrazione e a identificare i principali temi del dibattito sulla funzione pubblica delle istituzioni culturali (e sul loro ruolo educativo) anche in relazione alle popolazioni straniere. Sebbene si discuta tra gli esperti sulle fonti con le quali descrivere in modo corretto i trend di consumo culturale delle diverse classi di popolazione, il tema dell’accesso a questo tipo di consumi e formazione si carica di aspetti specifici in relazione al pubblico di una società multiculturale. All’accessibilità fisica alle istituzioni culturali (dislocazione all’interno dello spazio urbano, orari di apertura, raggiungibilità, ecc.) e a quella economica (politica dei prezzi d’ingresso) si aggiunge il tema dell’accessibilità culturale (sensibilizzazione mirata, supporto linguistico, mediazione, accompagnamento dedicato, ecc.). L’accessibilità rappresenta infatti il grado zero per garantire quel diritto alla cultura che non dovrebbe essere negato a nessun cittadino. Alla dimensione dell’accesso si accompagna quello della partecipazione, ovvero del coinvolgimento dei pubblici per la consultazione e la programmazione partecipata dell’offerta culturale, in una chiave che dovrebbe garantire l’assunzione di punti di vista ancora non rappresentati nei processi di ideazione dell’offerta promossi dalle istituzioni, come quelli di membri e rappresentati di comunità e associazioni di cittadini stranieri3. 2 S. Veca, La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 11-12. 3 Cf. ICOM, La funzione educativa del museo e del patrimonio culturale: una risorsa per promuovere conoscenze, abilità e comportamenti generatori di fruizione consapevole e cittadinanza attiva. Gli ambiti di problematicità e le raccomandazioni per affrontarli, Documento della Commissione Educazione e Mediazione, novembre 2009.

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È chiaro infatti come la partecipazione e la consulenza riguardino non solo l’accessibilità ma aprano a quell’ulteriore dimensione che Sandell definisce rappresentazione4, ovvero quell’insieme di strategie finalizzate a superare forme parziali, stereotipate, gerarchizzate di rappresentazione della cultura proponendo nuove opzioni di presentazione della “diversità”, per esempio attraverso l’offerta di allestimenti temporanei o di nuovi supporti interpretativi all’offerta ordinaria delle collezioni permanenti. In estrema sintesi, dunque, è nel coniugare le azioni sottese all’accessibilità (non solo al consumo culturale, ma anche ai mezzi della produzione e della distribuzione), alla partecipazione e alla rappresentazione, che si contribuisce a corroborare il diritto alla cultura come fattore strategico di cittadinanza e integrazione sociale. Il sostegno alla partecipazione dei cittadini stranieri alla vita delle istituzioni rappresenta anche, nella logica delle dichiarazioni riportate, la chiave per rafforzare la coesione sociale e legittimare la funzione pubblica e civica delle politiche culturali, guardando alle potenzialità inclusive delle scelte di politica della cultura5. In questo processo fatto di molti auspici ma anche dall’avvio di una costellazione di progetti e sperimentazioni sempre più numerose6, l’approccio normativo alla cittadinanza culturale punta a svelare le potenzialità e il ruolo strategico che le politiche culturali possono intrattenere non solo nel riaprire la partita sulla funzione delle sue istituzioni (accettata la prospettiva e la sfida della costante trasformazione sociale e culturale delle società), ma addirittura nel rappresentare esse stesse uno strumento per sostenere processi inclusivi e di cittadinanza. 4 R. Sandell, Rappresentare la differenza. Strategie espositive nei musei e promozione dell’uguaglianza, in «Economia della Cultura», 4 (2004), pp. 539-546. 5 Cf. C. Da Milano, Il ruolo delle politiche culturali nella lotta all’esclusione sociale in Europa e in Italia, in A.M. Pecci (ed.), Patrimoni in migrazione. Accessibilità, partecipazione, mediazione nei musei, Franco Angeli, Milano 2009. 6 Per una rassegna dei progetti e delle pratiche di educazione al patrimonio in chiave interculturale, cf. tra gli altri S. Bodo - S. Cantù - S. Mascheroni (edd.), Progettare insieme per un patrimonio interculturale, Quaderni Ismu, 1 (2007); M. Giusti, Immigrazione e consumi culturali. Un’interpretazione pedagogica, Laterza, Roma-Bari 2001 e i seguenti archivi online: http://fondazione.ismu.org/patrimonioeintercultura/index. php, http://www.comune.torino.it/museiscuola/esperienze/migranti/index.shtml.

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Serve a questo punto capire che cosa questo significhi concretamente e più da vicino comprendere perché, soprattutto nell’alleanza con le pratiche educative, le politiche culturali possano avere l’opportunità di prestar fede al nucleo civico e democratico che secondo alcuni osservatori ne fonda la legittimità.

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Tessere per una definizione Per addentrarci maggiormente sul terreno che ci interessa possiamo farci guidare da alcune definizioni di patrimonio culturale che il dibattito ha proposto e problematizzato7 per poi provare a comprendere quanto la dimensione interculturale rappresenti una risorsa intrinseca e strutturale in questo specifico ambito e quali siano le potenzialità per coniugare missione culturale e funzione educativa. Bodo, Cantù e Mascheroni propongono un criterio ordinativo delle definizioni circolanti di bene culturale in due classi principali a seconda del prevalere del paradigma sostanzialista o di quello processuale nell’interpretazione dei fatti culturali: 1) una visione sostanzialista, che vede il patrimonio culturale come un insieme di beni che si è consolidato nel corso delle generazioni, si è reso legittimo e apprezzabile, perché le generazioni passate hanno deciso che non andava dimenticato; 2) una visione processuale e comunicativa, che vede il patrimonio come un insieme di beni che le generazioni precedenti ci hanno trasmesso e che noi “rimettiamo in gioco”, parlando con il patrimonio culturale e rendendolo comunicativo più fruibile in termini di messa in gioco di culture diverse8. 7 Per una rassegna sul dibattito cf. tra gli altri G. Galasso, Beni e mali culturali, Editoriale Scientifica, Napoli 1996; S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Mondadori Electa, Milano 2005; D. Ponzini, Il territorio dei beni culturali. Interpretazioni strategiche del processo di privatizzazione dei beni e delle attività culturali in Italia, Carocci, Roma 2008; A. Cioffi, Educare ai beni culturali, Liguori, Napoli 2010. 8 S. Bodo - S. Cantù - S. Mascheroni (edd.), Progettare insieme per un patrimonio interculturale, cit., pp. 21-22.

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Non serve dire che sulla seconda visione convergono i consensi di chi è principalmente impegnato a ripensare le politiche culturali e l’educazione al patrimonio in chiave interculturale, salvando della visione sostanzialista l’idea di un “sedimento” ereditato con la sua costellazione di significati con cui fare i conti. C’è chi propone di guardare al campo di relazioni dinamiche che lega la ricchezza del patrimonio culturale alla numerosità dei sistemi socioterritoriali e alla differenziazione geografica delle interazioni con l’ambiente, calando in questa dinamica processuale aperta i meccanismi di riproduzione del patrimonio ereditato. Un patrimonio comune di risorse che si è sedimentato nel tempo in un territorio e che rimane a disposizione delle successive generazioni, con le sue opere d’arte, i suoi edifici, ma anche il suo capitale sociale, la sua diversità culturale interna e la sua capacità istituzionale9. A queste riflessioni può essere utile integrare la considerazione che sul patrimonio culturale e paesaggistico mette direttamente a tema il nucleo civico che nell’approccio sopra esposto fa della tutela e dell’educazione al patrimonio un elemento significativo per pensare e promuovere la cittadinanza: Il paesaggio è «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera collettiva» (Massimo Quaini), e dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, rappresenta un test per intendere come il cittadino vive se stesso in relazione all’ambiente che lo circonda e alla comunità in cui vive. Quale importanza annette alla propria salute fisica e mentale, quale ruolo assegna alla storia, alla cultura, all’identità dei propri luoghi e del Paese, in quale modo interpreta la gerarchia tra l’immediato vantaggio del singolo e il pubblico interesse della collettività, fra i tempi corti degli affaristi senza scrupoli e la lungimiranza della Costituzione10.

Nella visione di Settis il carattere distintivo dell’Italia, a differenza di altri contesti europei ed extraeuropei, è il forte tessuto connettivo tra patrimonio e contesto che lo ospita, un incardinamento con il paesaggio che chiede di indagare e tutelare le continuità spaziali, storiche e culturali, in cui si esprimono i rapporti tra “patrimonio evidente” e 9 G. Dematteis, Geografia della diversità, in «Equilibri. Rivista per lo sviluppo sostenibile», 1 (aprile 2005), pp. 49-58. 10 S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010, p. 217.

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“patrimonio latente”11. Sarebbe proprio questa condizione unitaria e fortemente coesa degli elementi che la Costituzione italiana recepisce, considerando l’ambiente come l’insieme di tutte le risorse naturali e culturali e intendendone la tutela come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività, guardando all’ambiente come sistema, considerandolo cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è e non da un punto di vista statico e astratto. Questo paradigma “comprensivo” dovrebbe essere la base di concezione del patrimonio contro ogni riduzionismo economicista e la sua conoscenza e tutela rappresentare un «vero banco di prova della democrazia». Non si può però tacere il fatto che parole come “patrimonio paesaggistico e culturale”, “territorio” e “tradizione culturale” siano stati in vario modo branditi nel discorso pubblico dell’ultimo trentennio e con consenso crescente anche come una galassia di concetti tesi a significare un’idea di civiltà fondata come complesso organico, autoriferito, compiuto ed esaurito in sé, impegnato in uno scontro irriducibile e frontale con altri presunti sistemi monadici di civiltà (all’evenienza “inferiori” o “altri”) di cui gli immigrati avrebbero rappresentato le quinte colonne che presto o tardi avrebbero minacciato la nostra sopravvivenza. Sappiamo che il ciclo politico post 1989 inaugura nel nostro Paese una nuova dimensione del rapporto tra politica e territorio, trovando in quel nesso una risorsa ideologica in grado di attivare nuovi codici di identificazione. Tra le prove di definizione delle nuove appartenenze territoriali rientrano le strumentalizzazioni dei caratteri ereditati, la rilettura etnicizzata del patrimonio che si arricchisce della scoperta o invenzione di materiali “bassi”, fino ad allora marginalizzati ed espunti dagli albi della programmazione culturale ufficiale, quale arsenale di difesa simbolico-culturale al rischio di espropriazione di sé di comunità che si presumevano indifese di fronte al montare dei flussi globali. In quelle visioni ha circolato un’idea di patrimonio che doveva rispecchiare una comunità che provava a pensarsi come un distillato puro di uguali. Grazie a questa retorica della storia il patrimonio vero o inventato doveva essere la traccia (da salvaguardare) di quell’autenticità che era il contravveleno alla crisi delle identità e dell’ano11

S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto del patrimonio culturale, Einaudi, Torino 2007.

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mia globalizzata e poteva costituire un nuovo alfabeto per pensare la rifondazione della convivenza su nuove basi. Insomma, quanto di più lontano da una visione processuale e storica dei fenomeni, in cui le società umane come noi le conosciamo si sviluppano sulla base di scambi, ibridazioni, prestiti, contaminazioni. Porosità, permeabilità, osmosi sono i concetti che ne sorreggono la rappresentazione e da cui deriva anche l’apparato di metafore che vedono nell’esplorazione, nell’interfaccia, nell’interazione la chiave per quel costante lavoro di traduzione che è proprio dei processi di ricomposizione culturale e identitaria dei gruppi umani. Dunque la natura stessa del bene culturale e paesaggistico è stratificata, è il prodotto di una storia umana e culturale che si è prodotta attraverso scambi, furti, prestiti, incontri, viaggi, scoperte reciproche e anche conflitti, incomprensioni, travisamenti, fraintendimenti, insomma contaminazioni. Se si accetta questa visione non retorica della storia, allora la vera sfida si definisce nella capacità di comprendere la dimensione storico-sociale del patrimonio (con le sue lingue, geografie, paesaggi, ecc.), di analizzarne le connessioni, di comprendere la natura plurale degli oggetti, rappresentare la complessità del loro passato, interrogarsi sulla loro funzione plurale esercitandosi ad assumere più punti di vista. In questa prospettiva si comprendono le potenzialità che un lavoro sul patrimonio può offrire per la promozione di quel pensiero interculturale di seconda generazione che porti alla revisione di tutti i retaggi monoculturali dell’insegnamento e della formazione (nei contesti scolastici e dell’extra scuola) perfino qualora non si fosse nel contesto di una società di immigrazione e in presenza di soggetti dall’origine socioculturale diversa12. Significa in altri termini riconoscere il carattere strutturalmente interculturale della storia umana e quindi il necessario adeguamento dei processi educativi e dell’offerta culturale affinché tengano conto, come auspicato dalla Commissione educazione e cultura del Parlamento Europeo, della pluralità linguistica e socioculturale a livello dell’organizzazione, dei contenuti dei programmi e dei metodi di comunicazione 12

M. Giusti, Immigrazione e consumi culturali, cit., p. 15.

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affinché in tutti gli ambiti disciplinari e nei contesti di sapere vengano adottate differenti prospettive, confrontate e analizzate in modo critico. Ma quanto detto prima sulle visioni essenzialiste ed esclusiviste dell’“uso politico” del patrimonio è però anche la testimonianza che il bene è socialmente prodotto e la costruzione del suo valore ha a che fare con le dinamiche di attribuzione di senso sedimentate e con il sistema delle nuove assegnazioni di significato che verranno e anche del rapporto più o meno inquieto che i gruppi instaurano con il proprio presente, con quello che accade loro, col sentimento diffuso che quei fatti producono. In altri termini le dinamiche di attribuzione di senso e di interazione discorsiva a questo finalizzate non avvengono mai in un campo neutro e irenico e non riguardano solo il recupero di una consapevolezza disciplinare o la disponibilità all’incontro con l’altro e il riconoscimento generico ad esso di un diritto di parola e interazione. Ed è anche necessario non tralasciare il fatto che la selezione delle attribuzioni, in particolare se si introduce l’idea dell’educazione al patrimonio quale pratica aperta per la configurazione di un “comune nucleo civico” intorno a cui costruire prassi inclusive, rimette al centro della riflessione quella crisi che attraversa i soggetti e i luoghi che sono stati tradizionalmente deputati a questo, ovvero obbliga a tematizzare che ne è della funzione pubblica delle istituzioni culturali, della scuola, degli intellettuali, ecc. alla sfida delle società multiculturali.

Intorno alla crisi della memoria collettiva L’educazione al patrimonio è dunque potenzialmente un importante strumento di dialogo interculturale. Promotrice di processi di apprendimento permanente e di cittadinanza attiva, l’educazione al patrimonio in chiave interculturale custodisce la possibilità di accrescere conoscenze e competenze e di sviluppare capacità interpersonali e civiche attraverso l’apertura nei confronti di individui e culture diverse dalla propria, la consapevolezza delle diverse identità di ognuno, la tolleranza, il rispetto reciproco. Il patrimonio costituisce una risorsa strategica nella creazione di una coscienza collettiva ed è per

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questo fondamentale che si usino tutti i mezzi utili a stabilire un legame forte tra cittadini e beni culturali13. La natura di quel legame è polisemica e racchiude l’insieme dei significati che riguardano il rapporto che una società intrattiene col proprio passato14. Per comprendere le difficoltà che l’educazione al patrimonio può incontrare nel suo fondarsi come pratica di promozione civica, è dunque proprio a quel rapporto che si deve guardare e a quella crisi cui prima si accennava per capire come coniugare in termini realistici una visione specifica del patrimonio e la proposta educativa dell’interazione con esso e per chiedersi se l’avvento di una società multiculturale rappresenti un’ulteriore opportunità per affrontare per intero anche i passaggi problematici che caratterizzano la relazione della società italiana con il proprio passato. Ha scritto De Luna che per costruire un senso di condivisione, cittadinanza e di appartenenza serve un «solido ancoraggio al passato e alla storia». Di qui l’importanza della memoria, dei processi selettivi dei significati per la definizione di universi simbolici che alimentino possibili identità collettive: Quando parliamo di memoria pubblica ci riferiamo ad un “patto” in cui ci si accorda su cosa trattenere e su cosa lasciare cadere degli eventi del nostro passato. Su questi eventi si costruisce l’albero genealogico della nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio da proporre alle scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell’uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva15.

Questa logica pattizia deve considerare l’avvicendarsi dei contraenti, il cambiamento delle logiche di selezione e dei contenuti, la loro variazione nel tempo. Oggi è proprio il meccanismo di costruzione della memoria collettiva che appare in crisi, incagliata in sacche che hanno a che fare con le trasformazioni dell’ultimo trentennio e 13 M.A. Toscano (ed.), Dall’incuria all’illegalità. I beni culturali alla prova della coscienza collettiva, Jaca Book, Milano 1999. 14 M. Giusti, Immigrazione e consumi culturali, cit., p. 33. 15 G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011, p. 13.

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dell’uso pubblico e politico che del passato si è fatto. Con essa è in crisi quell’ancoraggio di elaborazione di un sentire comune e di un comune quadro di riferimenti su cui fondare il nucleo civico della convivenza. Per questo lo storico torinese propone di «guardare con fiducia alla conoscenza storica» per «recuperare un rapporto con il nostro passato più problematico, più critico, più consapevole»16. Questa prospettiva infatti si accompagna al tentativo di far prevalere nell’atteggiamento verso il passato, ponderatezza, circospezione, più conoscenza e meno senso comune, combattendo quelle convinzioni diffuse che sono avvelenate da stereotipi e pregiudizi, a maggior ragione quando l’altro «non è più un’icona esotica e remota, ma è qui in mezzo a noi, condivide il nostro spazio di relazione, partecipa pienamente della nostra esistenza collettiva»17. In altri termini, quella maggiore consapevolezza disciplinare, spogliata delle sicurezze apodittiche che hanno consegnato in questi anni storie sensazionalistiche per la mobilitazione dell’opinione pubblica o per il sostegno politico, potrebbe consentire al sapere storico nel suo laboratorio di scavo di tematizzare in modo efficace cosa significhi oggi riconoscersi compiutamente in una democrazia come la nostra. Da questa visione ne viene che la funzione pubblica di chi ha la responsabilità di costruire, mediare e comunicare un sapere (quindi non solo la scuola) abbia la capacità, da un lato, di rendere chiara la ricostruzione della complessità dei processi (restituendo l’ampio spettro degli elementi compositivi, dei profili, delle intenzioni in gioco), dall’altro, di far maturare una consapevolezza nell’interlocutore che garantisca ad esso la possibilità di elaborare un giudizio autonomo. Conseguenza di questo atteggiamento è la possibilità di realizzare ambiti che siano disponibili alla retroazione, che rimangano aperti agli apporti autonomi e critici di chi interagisce con il sapere, di garantire con tutte le risorse che questo richiede la diversità dei punti di vista e affinché questo sia possibile, di prendere preliminarmente in considerazione la diversità dei pubblici, accostare le loro domande, prevederne le difficoltà di accesso e di presa di parola. 16 17

Ibid., p. 178. Ibid., p. 179.

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In altri termini, all’interno della dinamica processuale e comunicativa del sapere e di formazione e riproduzione della cultura, l’educazione al patrimonio si deve porre l’obiettivo centrale dell’accrescimento del sapere e dell’autonomia dei soggetti, aumentando l’accesso alla conoscenza dei beni e stimolando la capacità critica nella relazione con essi, così da ampliare e includere nuove prospettive. Detto diversamente, comunicazione del sapere e riproduzione culturale sono inscindibili dalla diffusione e condivisione di quelle risorse che consentono di contribuire al processo di costruzione dei saperi e dei significati. Non solo. L’intuizione di De Luna accorda contestualmente importanza sia alla consapevolezza disciplinare che si deve assumere nel mettere mano ai materiali del passato e a quello che variamente viene identificato come patrimonio, sia al “come” il passato viene raccontato, ovvero a non tralasciare come il sentimento verso il nostro presente (con le inquietudini e il malessere che può comportare) produce una versione del passato cui noi siamo maggiormente disponibili a credere e concedere consenso. La sfida dunque riguarda ma non si esaurisce in un dibattito sullo statuto disciplinare della storia e della sua didattica per dotare tutti di piena consapevolezza degli strumenti “per muoversi nella storia”, ma chiede di affrontare, discutere, non allontanare quell’inquietudine (ad esempio quella che si produce nel confronto con la diversità culturale e con il cambiamento rapido delle nostre abitudini e riferimenti) che ci porta ad acconsentire ad alcune versioni e giudizi sul passato, ad alcune e non altre attribuzioni e selezioni di senso sul patrimonio.

Rileggere il patrimonio in chiave interculturale Dai bilanci sulle sperimentazioni ed esperienze di educazione al patrimonio in chiave interculturale degli ultimi anni emerge ormai un’ampia gamma di proposte e di attività che hanno visto protagonisti le scuole, i musei, i centri culturali del territorio, le biblioteche di quartiere: esperienze che vanno dalla promozione di una conoscenza del pluralismo delle culture destinato ai componenti dei gruppi di maggioranza affinché sviluppino una capacità di comprensione delle

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trasformazioni della società, a pratiche associate con l’integrazione dei neoarrivati attraverso la promozione di momenti di conoscenza della storia e della cultura dei contesti d’arrivo, da programmi speciali che sviluppano pratiche di compensazione, a celebrazioni della diversità. Quattro sono gli elementi che appaiono indispensabili per inaugurare una stagione di politiche culturali ed educative nel segno del rinnovamento auspicato: l’integrazione disciplinare e il partenariato, l’impiego di metodologie attive e l’esplorazione di strumenti pluriespressivi. Valga la definizione contenuta nel documento di raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa approvata nel marzo del 1998 «per “pedagogia del patrimonio” [si intende] una pedagogia fondata sul patrimonio culturale, integrante metodi di insegnamento attivi, un dispiegamento delle discipline, un partenariato tra insegnamento e cultura che ricorre ai metodi di comunicazione e di espressione i più diversi». La sensibilità che genera l’offerta educativa al patrimonio deve partire dal coinvolgimento di partenariati territoriali tra tutti quei soggetti che presidiano le politiche della formazione e della cultura. È in questa “concertazione” territoriale che può nascere un sistema basato su risorse multiprofessionali, sulla centralità dell’integrazione delle metodologie e degli stili organizzativi, sulla condivisone e ibridazione di approcci e linguaggi, di competenze trasversali e specializzazioni, arricchendo in un rapporto di apprendimento reciproco la scatola degli attrezzi di ciascuno. Anche in questo caso le difficoltà di partenza sono date dall’accumulo delle sfide che i singoli attori stanno affrontando: a quelle della scuola (delle risorse a disposizione, delle competenze attivabili, dei percorsi di professionalizzazione e aggiornamento, dell’infrastrutturazione, della capacità progettuale, del rinnovamento curriculare, ecc.) si sommano quelle delle istituzioni culturali del territorio (della capacità di innovazione, della scarsezza degli investimenti, della trasformazione delle economie metropolitane e degli spazi sociali), cui si affiancano le dialettiche strutturali e tra tutela e valorizzazione economica e sviluppo territoriale18, logiche del pubblico e obiettivi del privato, 18

D. Ponzini, Il territorio dei beni culturali, cit.

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l’articolarsi delle competenze istituzionali tra centro e periferia, ecc. Sfide simili e trasversali che possono trovare opportunità di soluzione e sintesi cooperative. L’immigrazione e la sfida dell’intercultura divengono in quest’ottica un’opportunità, un banco di prova prezioso per promuovere il valore del partenariato tra istituzioni culturali, scolastiche e dell’amministrazione affinché incrementino un sistema interistituzionale educativo culturale per una progettazione condivisa dell’educazione al patrimonio in chiave interculturale. Serve dunque, anche a fronte della propria crisi di funzione, che gli sforzi di questi partenariati siano dedicati a ripensare i propri compiti educativi e formativi, rivedere i termini dell’accessibilità culturale e della funzione della cultura in chiave coesiva, ad accompagnare e sostenere la delicata transizione delle istituzioni culturali, scolastiche e del territorio da un’incursione episodica, molto spesso dettata dall’emergenza, sul terreno della comunicazione interculturale, a un impegno strutturale e duraturo. Il percorso è accidentato e tocca faglie di crisi disciplinari e di funzione che devono essere tenute in considerazione ben oltre i facili entusiasmi. Così come serve essere attrezzati verso le tensioni che le logiche di mercato e finanziamento delle istituzioni culturali sono chiamate ad affrontare. Rimangono anche aperti gli interrogativi su quale modello culturale le politiche della cultura e i programmi scolastici sono in grado di perseguire, se anche nella risorsa intercultura devono trovare l’opportunità per rilanciare un comune nucleo civico intorno a cui costruire pratiche inclusive, appartenenze comuni, convivenza civile. Il patrimonio non è un kit chiuso da mandare a memoria e la discorsività e lo sviluppo delle capacità critiche di un individuo sono gli elementi sostanziali del processo educativo e di crescita, che escludono l’omiletica come prassi di apprendimento, a favore della capacità di dialogo e confronto, di messa in discussione delle proprie certezze, di contributo reale alla riproduzione e reinvenzione culturale. Essere in grado di far riflettere sulla storia, far lavorare sul passato, è il nodo della sfida dell’educazione al patrimonio culturale ed è compito che non spetta solo alla scuola: «Quella conoscenza più estesa sarà il risultato di una capacità maggiore di saper lavorare sui

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documenti. Di non essere ripetitori, ma di dotarsi di una cassetta degli strumenti in grado di “muoversi” nella storia. La conoscenza del passato solo in parte e solo formalmente coinvolge la scuola. La coscienza civile della generazione che domani sarà adulta non si forma solo all’interno di un’aula di scuola»19. Riflettere sulla dimensione del patrimonio in chiave interculturale in tempo di crisi di funzione e di smarrimento dell’idea condivisa di bene pubblico può allora significare, con tutte le tensioni e le difficoltà del caso, provare a tornare a definire, questa volta insieme ai nuovi arrivati e anche a chi ormai è qui da una vita20, gli ambiti della propria storia, a descrivere le proprie trasformazioni nel tempo, a capire attraverso quali meccanismi si è definita la propria fisionomia: in altri termini, a provare anche a rappresentare sulla base di quali riferimenti, storie, significati, si stabilisce di essere inclusivi, aperti, in dialogo e quali costi si è disposti a sostenere perché questo avvenga per davvero.

19 20

D. Bidussa, 16 ottobre 1943, in «Newsletter UCEI», 16 ottobre 2011. A. Granata, Sono qui da una vita, cit.

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V. PARTECIPARE

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Ivo Lizzola

È stato recentemente ripubblicato uno scritto del 1945 di una lucida María Zambrano dal titolo L’agonia dell’Europa. «Ogni disastro – scrive – consente alla gente di manifestarsi nella sua cruda realtà: è lo strumento di rivelazione più esatto di tutti quelli che si conoscono. Specialmente per i “bassifondi” della convivenza, che in circostanze normali vivono nascosti. Così, il risentimento». Quando crolla ciò che si era mantenuto saldo per molto tempo, con i suoi vincoli morali e le sue forme istituite di convivenza, «il rancore accumulato si scatena, viene alla luce senza maschera. È la sua ora. È l’ora della soddisfazione di tutte le impotenze. È anche l’ora degli ultimi arrivati, di quelli che adorano il successo come unico arbitro delle cose divine e umane»1. Sembra parli di noi, della stagione nella quale assistiamo alla distruzione del vincolo della vita comune, della coscienza morale, oltre che dell’ethos civile, dei radicamenti e delle speranze2. E nel quale riemergono, o vengono costruite, paure nuove e antiche. Tempo di durezza e di rancore, il nostro, preso dai vortici e dai risucchi in paure e sentimenti negativi. Le sue ragnatele prendono dentro interiorità di donne e uomini, comunicazioni tra le generazioni, comportamenti sociali. Il rancore è reso terribile per «la sua essenziale apostasia: il fatto che si ritorca sempre, cieco, contro ciò che potrebbe salvarlo». Distrugge principi e valori, pure quelli che l’avevano innescato. E con questo ogni forma di lealtà, di fermezza, di onestà. Ed emerge anche oggi «l’adoratore del successo» di cui parla 1 M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 2009, p. 11. 2 Questo testo riprende, ampliandole, riflessioni presentate in Partecipare alla vita

comune – una nuova immaginazione per generare democrazia, in «Animazione Sociale», 10 (2010).

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Zambrano nel testo sull’agonia dell’Europa. Adoratore che si muove senza integrità e senza verità.

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Rinascere, nel tempo del pluralismo Ora, come allora, è il tempo della veglia, di un’appassionata e dolorosa lucidità per vedere, curare, servire ciò che nasce, mentre una stagione finisce e muore. Ancora, nel cuore dell’Europa che scoppia, appare la traccia profonda della violenza, del disprezzo per la debolezza e il limite, la fragilità e la caduta. E anche per quanti vi si chinano presso in sollecitudine. Ma l’uomo è una creatura a cui non basta nascere una sola volta: gli è possibile e «ha bisogno di venire riconcepito» (reengendrado). La speranza «è il fondo ultimo della vita umana», quello che esige la nuova nascita. Oltre la violenza l’uomo e la donna europei hanno la consapevolezza di questa speranza, serbano il bisogno di una nuova nascita. Non abitano solo il tempo presente e il già dato. Anche contro i dati di fatto sono tesi a curare l’inguaribile, a dare la vita per la giustizia, a stare presso afflitti e vittime, a perdonare (e a confessare la colpa). Quando parliamo delle nuove forme di diseguaglianza, della profonda crisi del legame sociale, dei diversificati percorsi di vulnerabilità, dei fenomeni di marginalizzazione, dell’incertezza, della povertà, segniamo storie e situazioni nelle quali sono in gioco le forme dell’umano, il senso, la coscienza morale. Una delle forme di diseguaglianza più insidiosa oggi riguarda proprio la distribuzione delle relazioni sociali. Una delle più preziose forme di intervento per rendere sostenibili le condizioni di vulnerabilità sociale e di disagio esistenziale è costruire progetti che tessano e infittiscano legami e prossimità, conoscenza e relazioni. Ritrovarsi come donne e uomini nella pienezza delle proprie dimensioni e possibilità, capaci di resistere alla profonda lacerazione sociale, al nichilismo, alla durezza, e costruire legami, orizzonti di senso, risorse sociali, convivenza segnata da responsabilità e cura, da riconoscimento, sono elementi dello stesso movimento, della stessa ricerca.

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Si tratta di recuperare la possibilità di esistenza come persone libere e creatrici, contro la spersonalizzazione cui ci espongono la vita lavorativa, economica, sociale, le pratiche di consumo, lo svuotamento delle relazioni, la comunicazione funzionale. Un bisogno di comunità? Certo non intendendola come insieme omogeneo, come ritorno a un’origine mitica, come risposta immediata a bisogni di identità. Nel tempo del pluralismo culturale, degli incontri, delle differenze, delle distanze, occorre «ripensare forme di convivenza fra persone embricate in mondi differenti, caratterizzate – nella loro identità – da appartenenze multiple e talvolta disomogenee»3. È la sfida che ci pone oggi una società divenuta diffusamente multiculturale, dove persone con percorsi di vita, origini, tradizioni differenti di trovano a costruire insieme nuove e inedite forme di convivenza, segnate dal pluralismo, aperte a una dimensione culturale più ampia e complessa di quella sperimentata fino a pochi decenni fa.

Mondo dei soggetti, mondo degli oggetti In un libro di qualche tempo fa Alain Touraine rifletteva sulla scissione che si è prodotta, almeno vent’anni fa, tra “mondo dei soggetti” e “mondo degli oggetti”4. Spiegava che si era in uno di quei passaggi nei quali le aspirazioni, le attese, il senso e le direzioni di ricerca e di scelta degli esseri umani (il mondo dei soggetti) si erano allontanati e separati dalle logiche, dalla forza e dalle organizzazioni del mondo dell’economia, della finanza, delle tecniche, della politica (il mondo degli oggetti). Il secondo mondo, scriveva, vive ormai di e su se stesso, non più illuminato dalle domande e dai riferimenti umani profondi che pure l’avevano originato, rivoluzionato, “tormentato” nei suoi processi negli ultimi due secoli. Quanto peso, nel mondo globalizzato, ha preso il mondo degli oggetti, e quanto spazio dentro la vita e i movimenti del mondo dei 3 M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009, p. 74. 4 A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Torino 2008.

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soggetti? Nelle aspirazioni ridotte a desideri di cose, nei percorsi identitari definiti da ruoli sociali e d’immagine, nella ricerca personale e nelle scelte agganciate al rimorchio dell’impressionante efficienza analitica delle tecnoscienze, tradotta nelle “piccole esaltanti salvezze quotidiane” dai prodotti tecnologici (e farmaceutici)5. Eppure il “mondo dei soggetti” continua negli interstizi della vita quotidiana e di relazione, o nelle fratture, nelle rotture instauratrici che segnano le storie di vita personali, familiari e di prossimità (nascite e morti, malattie e crisi, migrazioni e scelte lavorative, separazioni, ricomposizioni, chiamate in causa e perdoni). Lì continua a cercare e a serbare, qualche volta a generare, risorse simboliche (conoscenze, affetti, convinzioni) per venire a capo del compito della vita. E lo fa grazie a ciò che trattiene e consegna, indica e narra nelle relazioni con altri, grazie alla loro presenza. Qui le donne e gli uomini incontrano se stessi: «L’identità si sceglie in quanto si riceve»6. Certamente questo fa i conti, anzi lotta contro la pressione della cultura del “devi essere te stesso” come compito di autotrascendimento cui il singolo viene abbandonato solo, perché dimostri di valere e di bastare a sé. Certamente i processi migratori, i difficili percorsi identitari (spesso carichi di sofferenza e tensione) tra diverse appartenenze e culture se, da un lato, possono spingere verso omologazioni superficiali o verso appartenenze e identità chiuse, dall’altro sono l’occasione per arricchire quel lavorio di cura e rialimentazione di risorse simboliche. Certo questo avviene nel tramonto di un mondo che ci era familiare, ma proprio per questo può farci riconoscere nello sforzo di rendere ancor più saldo il senso di fraternità nei confronti dei nostri contemporanei.

Una comune vulnerabilità La percezione di essere coinvolti in un attraversamento è oggi profonda. Coglie la forza della concreta necessità di un cammino oltre le 5 G. Zanchi, Oltre la modernità. Prove tecniche di manutenzione umana, in press. 6 Ibid., p. 17.

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forme e le regole di un’economia e una finanza intrise di irresponsabilità e di inaffidabilità, come oltre le forme e le istituzioni di una politica e di un diritto in affanno e inefficaci, infine oltre lo scatenamento insensato di tecnoscienze orientate alla trasfigurazione digitale dell’umano. In tanti ci si sente nell’attraversamento, anche se manca un’adeguata coscienza del passaggio. Non sappiamo, cioè, ancora come stare nell’attraversamento, non sappiamo cosa emergerà di noi: quali resistenze e quali risorse, quali paure e quali capacità di speranza, di spesa, di intelligenza. Non abbiamo chiaro a cosa saremo chiamati, che ne sarà delle nostre capacità di stare insieme, dei nostri affetti, cosa resterà vitale o si rivelerà prezioso delle nostre tradizioni, dei nostri saperi, della memoria. Che ne sarà del nostro potere, così grande, così prezioso e terribile. Come lo eserciteremo, lo diffonderemo, come sapremo orientarlo nell’attraversamento? Scriveva Antoine de Saint-Exupery: «Ora, l’assenza di una sola stella, come un’imboscata, è sufficiente per annientare una carovana sul suo cammino». L’assenza di una sola stella: produce la perdita di orientamento, l’incapacità di una lettura continua e condivisa del cammino e del suo orizzonte. Nella carovana ognuna e ognuno sa che quello che si vive è un viaggio nel quale ciò che bisogna fare è soprattutto decidere e tenere fede a come si deve essere. È anche un problema di divaricazione fra rappresentazioni. Si continua a rappresentare la nostra convivenza – e le relazioni tra individui e soggetti sociali – in termini di successo, di sicurezza, di iniziativa e merito, di efficacia-efficienza, di innovazione, di prestazione, di sviluppo e investimento, di accesso alle opportunità, alle occasioni. Come se questo fosse al cuore della vita, della costruzione dell’identità e dei legami vitali tra persone, generazioni, famiglie e comunità. Come se questi elementi, soli, garantissero solidità e futuro della convivenza. In verità al cuore della nostra convivenza e delle relazioni tra donne e uomini c’è, piuttosto, una nuova evidenza della condizione di fragilità dell’umano e dell’esposizione reciproca alle presenze e alle iniziative degli altri. Ciò che si avverte con più forza è, per i più, la propria vulnerabilità. Questa la si può temere, e si può anche essere sopraffatti da un’ansia che si trasforma a volte in angoscia. Oppure si

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può anche reagire alla sensazione di essere esposti, di restare in balia di altri e degli avvenimenti, irrigidendo ogni relazione, costruendo cittadelle chiuse, aggredendo. Ma si può segnare anche una via diversa: quando l’esperienza di essere “consegnati in mani d’altri” fa incontrare affidabilità e presenze attente, allora possono venire generati tessuti di relazione fraterna e responsabile, apertura al nuovo, mutualità, riconoscimento e reciproca assicurazione7. Certamente è decisiva la presenza di esperienze nei luoghi di vita: che leggono e incontrano passaggi di fragilità, segnali di sospensione o crisi, bisogni di riorientamento nelle scelte. Occorre indagare bene cosa avviene sulla soglia ove si toccano dinamiche generative (che trattengono o riportano all’interno di reti, di presenze e progetti di sostegno vitale) e dinamiche distruttive (che fanno scivolare nell’area della marginalità, dell’abbandono, dell’inorridimento e dell’impotenza). Indagare bene cosa fa piegare verso una direzione o verso l’altra.

Garantire l’equità non è più sufficiente Per una lunga stagione si è pensato – nel sindacato, nell’associazionismo, nei partiti “solidaristi” – secondo la logica dell’equità, della giusta redistribuzione delle risorse e delle opportunità. Si è lavorato per precisare i termini della giustizia sociale e i diritti da assicurare ai più fragili, e agli “oppressi”. C’era appunto, decisiva e centrale, una “questione sociale”. Era un mondo nel quale ci si leggeva all’interno di appartenenze e identità sociali, culturali e nazionali definite. Oggi non solo lo scenario (sociale, economico, ma anche culturale e tecnologico) è profondamente cambiato, ma ciò che va colto con preoccupazione e, soprattutto, con attenzione è una “questione” che non è soltanto sociale, ma anche attinente alla stessa condizione umana, e alla natura – prima che alla forma – del legame tra le persone. La logica di equità è insufficiente, oltre che sotto l’attacco della cultura meritocratica e mercatista. 7 I. Lizzola, Di generazione in generazione. L’esperienza educativa tra consegna e nuovo inizio, Franco Angeli, Milano 2009.

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Uno spazio comune di convivenza, spazio di riconoscimento e di cura, forse è possibile oggi solo a partire da una logica di sovrabbondanza, quella che prevede economia di dono e gratuità (la «paradossale giustizia dell’amore», direbbe Paul Ricoeur8). Non hanno la forza di spingere verso l’“anticipo” di forme di socialità, di economia, di incontro, di servizio nelle quali l’esposizione e la fiducia avvicinino, generino spazi per le persone, anche quelle normalmente fragili e mediamente vulnerabili. A maggior ragione per chi scivola in situazioni complesse e pesanti. Garantire equità per singoli individui può lasciare comunque soli e incapaci di iniziativa, nella tensione dell’incalzare delle prove, della competizione, dell’assicurare sé e i propri. Senza tempi di incontro, attesa, decantazione. Nella logica di sovrabbondanza (che guarda il rischio negli occhi senza farne un gioco, come si fa quando lo si vuol esorcizzare) il presente è riconquistato come tempo dell’inizio, della nascita di forme nuove di vita personale e sociale9. Non come transito, ma come storia comune, cammino condiviso. Ma come può nascere la fraternità tra le differenze in questo contesto di crisi e perdita di senso? Ci sono dimensioni che nella condizione di vulnerabilità vengono messe alla prova, indebolite; eppure sono proprio tra quelle necessarie per tracciare percorsi di umanizzazione, di rassicurazione e riconoscimento, di costruzione di una vita comune da dentro l’evidenza della vulnerabilità. Quella vulnerabilità da cui molti vogliono fuggire, che altri non vogliono assumere, che alcuni vorrebbero vincere. Si tratta di dimensioni che Michael Paul Gallagher chiama “le tre d”: disposizione, decisione, dramma (o differenza)10. Tracciare percorsi di umanizzazione implica anzitutto disposizione, cioè apertura verso l’altro e verso il nuovo, non autosufficienza, desiderio di giocarsi e di incontrare. È una dimensione esistenziale, non intellettuale, un movimento di esposizione e gioco di sé, di offerta (di energie, intelligenze, tempo, risorse). 8 9

P. Ricoeur, La logica di Gesù, Qiqajon, Magnano 2009, p. 28. I. Lizzola, L’educazione nell’ombra. Educare e curare nella fragilità, Carocci, Roma 2009. 10 M.P. Gallagher, Una freschezza che sorprende: il Vangelo nella cultura di oggi, EDB, Bologna 2010.

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La collocazione nella quale ci si mette influenza il nostro disporci e metterci a disposizione. Se per comprendere qualcosa è utile entrare nel mondo cui quel qualcosa appartiene, per comprendere qualcuno è necessario andargli incontro. Ma serve per esprimere disposizione anche uno spirito di libertà e un desiderio del nuovo che faccia credere e sperare nel possibile, colto come attesa comune, rivelato come orizzonte buono in cui ritrovarci. Per la disposizione serve un’iniziazione al senso del nuovo (desiderabile perché giusto e umano, bello e piacevole), e al senso del mistero (ben oltre il senso dell’azzardo e del magico che spesso sostituiscono il mistero banalizzandolo) dentro il quotidiano esercizio della libertà. Jean Luc Marion parla della liberazione di una «frequenza di meraviglia»11 nelle persone (una conversione «dall’idolo, cui ci si prostra, all’icona» che ci conduce in una realtà altra di attesa e pienezza): la disposizione si dà da dentro la vita concreta e i problemi reali, come coglimento di un senso spostato, di una messa in nuova prospettiva. Come disposizione interiore, risveglio dell’umano, e rottura del vincolo esclusivo ai propri interessi, alle proprie “creazioni”, alle proprie paure. In secondo luogo la ricerca di cammini di umanizzazione rimanda alla decisione personale. Come azione e, prima ancora, presa di posizione. Presa di distanza da riti e modi di pensare cui ci si è abituati, uscita concreta da stili di vita superficiali e scontati. È scelta. Scegliere, poi, è sempre scegliere qualcuno, o per qualcuno. È un verbo che impegna il soggetto, ma lo colloca in una relazione profonda con altri e con il futuro. Decidere è tagliare, scegliere è legare, definire un patto, un’alleanza: credere nella possibilità di vivere insieme, di ritrovarsi con altri, e grazie ad altri, in umanità più piena. Cogliere una promessa buona, un’attesa tra noi. Decidere per essa, scegliendo dove stare, presso quali storie di vita, di cura responsabile. Scegliere, più ancora che decidere, è inattuale. Infine la terza dimensione è l’essere portatori di una differenza, di una specificità. Prendere parte chiede coraggio, in un tempo in cui si soffre “una certa solitudine del senso”. Ci vuole fierezza e ci vuo11 J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2001.

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le umiltà: non si basta a se stessi. Interiore qualità di disposizione e nuove radici in una scelta esistenziale, chiedono e attivano la forza di essere differenti: di vivere vita e relazioni nel loro essere dramma, agonismo e confronto. Conflitto con le culture dominanti. Anche accettando il conflitto delle volontà che abita ognuno di noi, portatori di spinte contraddittorie, di una «volontà divisa», come scrive Agostino.

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Le tre dimensioni della partecipazione L’esperienza del tempo va riaperta. È il tempo che manca o che schiaccia molte vite, molti ritmi familiari, le condizioni soprattutto delle donne. Tanto tempo è rubato: dai ritmi frenetici del produttivismo e del consumismo, dalla paralisi dell’impossibilità di progettare il futuro e di coltivare fiducia negli incontri con altri, nella frammentazione dei tempi di vita che spezzano i giorni nel passaggio da un frammento all’altro, senza filo conduttore, eredità, unificazione. Altro tempo è rubato dal prevalere dell’ansia di sopravvivenza, di tenuta minima nella precarietà delle condizioni lavorative e sociali; oppure dalla chiusura in piccoli e densi spazi di appartenenza comunitaria, etnica, nazionale, difensiva chiusura, spesso soffocante. Acquisire e coltivare il senso del tempo per le vite (per le vite giovani in particolare) significa, anche acquisire le dimensioni e le direzioni del conflitto delle possibilità che il tempo personale e il tempo sociale e storico portano dentro di loro. Conflitto che apre all’esercizio delle libertà e delle responsabilità (delle persone e dei soggetti sociali). Significa, inoltre, assumere la “parte”, il posizionamento, lo sguardo e il cammino all’interno di queste direzioni del conflitto in atto o latente nel tempo, nelle sue dimensioni, nelle sue forme e tra le sue forze. La costruzione di un personale, singolare vissuto del tempo è decisiva per la tessitura di relazioni, di scambi, di responsabilità e scelte, e per la convergenza su rappresentazioni della realtà, su patti e su attese reciproche, su promesse e sulla possibilità di vivere i “lasciti” e di prenderne le distanze. Se “bruciano” i caratteri del tempo come esperienza personale può essere pregiudicato il tempo come modalità di comprensione. Mettersi nel tempo dell’altro per sentire come si percepisce la vita

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e per muovere il proprio posizionamento in relazione e in risposta all’altro, costruisce la dinamica “di generazione in generazione” nella quale si tessono le consegne, gli invii con i nuovi inizi, gli oltrepassamenti. Si costruisce il senso della possibilità, che dà sfondo e valore a un limite e a una vulnerabilità che non paralizzano la responsabilità e la cura. Il tempo è tema cruciale nell’educazione, nel farsi dell’esperienza familiare, della vita comune, della sua narrazione e del suo progetto. È prezioso quando gli adulti, che insegnano, formano, indirizzano, sanno essere capaci di «esercitare anche il fascino un po’ misterioso tipico del diverso e dello straniero: di colui che è stato altrove, viene da lontano», sa cose che i giovani che si avviano non sanno, ha storie da raccontare12. Adulti che sanno rischiare quello che sono e che sanno, nell’incertezza e di fronte al nuovo inizio che è sempre anche (un poco) abbandono. Maestri che chiedono ascolto, e poi di essere lasciati. Maestri di partecipazione. Ma la partecipazione è una postura ampia e profonda nella vita. Chiede attenzione e cura di almeno tre dimensioni. Partecipare non ha a che fare solo con la dimensione sociale o economica, così come non segue solo le regole della politica, della convivenza democratica. Partecipare è tutto questo ma nasce in altro, va alimentato in altre dimensioni. Partecipazione è, anzitutto riconoscimento di un legame cui si appartiene e, insieme, percorso di crescita e maturazione. Per questo partecipazione ed educazione sono fortemente connesse: sono modi di uno sviluppo dell’alleanza tra donne e uomini, tra generazioni; e tra ruoli, tra culture, tra saperi particolari.

Partecipazione come unificazione di sé in una storia di vita Anzitutto partecipazione è partecipazione al proprio cammino di trascendimento, di crescita, di fioritura. Che nasce, anzitutto, come dono e come promessa. Nasciamo in un mondo ricevuto, in parole 12 M. Dallari, “Riflessione fenomenologica sul problema della ricerca e sul complesso dell’identità personale”, in M. Tarozzi (a cura di), Direzioni di senso, Studi in onore di Piero Bertolini, Clueb, Bologna 2006, p. 20.

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già dette prima di noi. A noi il compito di parteciparvi come a una nuova nascita, un nuovo inizio, originale reinterpretazione del (già) dato dentro scelte, pensieri, immaginazioni e disposizioni personali. Partecipazione complessa quindi, perché attraversata da plurali appartenenze, anche in tensione e contraddizione tra loro, da molte stimolazioni capaci di frammentare tempi e riferimenti. Fin da molto piccoli, e poi anche da giovani e adulti. Si tratta di percorsi di costruzione dell’identità, segnati dalla differenziazione (di ambienti, incontri; di rifermenti di valore e orientamenti), dalla variabilità (frequenza e intensità di cambiamenti), dalla possibilità (più apparente che reale, spesso disgiunta dalla speranza). Emerge un grande problema di unificazione in una storia di vita, la propria, in una identità narrativa, di quanto appreso e giocato di sé e del mondo. La partecipazione come esperienza di unificazione e ricomposizione può farsi, deve farsi, conflitto interiore e scelta, per le nostre “volontà divise”. Conflitto, scelta, conoscenza di noi stessi che spinge a impegno, e anche a benevolenza, a volere un po’ bene a noi stessi. Certo, oggi lo sradicamento è un’esperienza al cuore del vivere delle donne e degli uomini nostri contemporanei, anche nelle strutture di coscienza e nei cammini dell’identità dei figli e delle figlie dell’Occidente. Occorre pensare anche a quello sradicamento che lascia sole le persone, i giovani nello sforzo di dar senso e consistenza ai loro gesti, alle loro parole, ai loro progetti. Giovani, uomini e donne “sovrani” e abbandonati allo sforzo di trascendimento e di determinazione del proprio destino. Individui schiacciati da questo compito, e da questa solitudine, su palcoscenici per recite di soggetti soli. Nell’abbandono che viene dalla rescissione di ogni legame e di ogni senso di debito, di ogni desiderio di dedizione e di consegna, di ogni speranza. Nel vivere da sradicati la presenza dell’altro svela e disegna per me, e per lui – entrambi ospiti – il luogo e il tempo nel quale la domanda si apre e può condurre al “prendere forma” della vita, anche della vita comune. Mai senza l’altro titola un prezioso scritto di Michel de Certeau. Le mie radici abitano presso l’altro, tra noi prendono alimento e distensione, e forza di legame. E noi ci ritroviamo ospitati, finalmente e di nuovo, nel radicamento tra noi. Cioè radicati in altro.

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La partecipazione alla propria unificazione è esperienza preziosa, che si fa (che può farsi bene) partecipazione di ciò che si è e si diventa: offerta e dedizione, messa a disposizione di sé ad altri.

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Partecipazione come esperienza del vissuto dell’altro In secondo luogo partecipazione è partecipazione delle condizioni umane di altre donne e altri uomini. Comuni e possibili condizioni umane, eppure non nostre. Vissute in empatia e in cura responsabile. Partecipazione è capacità di sentire l’altro, oltre che di “leggere” (diagnosticare, classificare, valutare, giudicare, ecc.) l’altro. Attraverso pensieri raffinati si diviene capaci di leggere mentre si partecipa della condizione dell’altro, “lasciandosi guardare” attraverso i ruoli e le competenze e le organizzazioni. Incontrando l’altro nel suo momento. Partecipare è sapere fare posto, rispettare tempi e ritiri di altri. Differenti. «Mi fai posto?»; e, pure, «Mi dai un po’ di tempo?»: sono tra le domande più inascoltate nella nostra convivenza. Ma sono le domande decisive per l’incontro e il riconoscimento, perché lo scambio non sia solo strumentale ma definisca o richiami il vivere insieme; perché l’esposizione e la fragilità delle donne e degli uomini sia ospitata e abitabile in trame di fiducia, attenzione, attesa. Sono le domande che rendono possibile l’educazione e il rapporto tra le generazioni. Ma sono anche le domande attorno a cui un rapporto economico diviene promozione di risorse ed equità, e una politica e una presenza istituzionale serbano e coltivano il loro senso e la loro qualità democratica. L’elusione di queste domande si fa pervasiva, attraversa i tessuti di convivenza, i servizi, le prassi di vicinato. La saturazione degli spazi – privatizzati, funzionali, dalle relazioni mercantili e in estraneità – come la pressione dei tempi – di lavoro, di spostamento, d’affaccendamento domestico e di cura, di svago – lasciano drammaticamente evase le domande di incontro e riconoscimento.

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Partecipazione come fattore generativo della vita comune E, ancora, partecipazione è finalmente partecipazione a storie, a esperienze, a cammini comuni. Cercati in cooperazione e in agonismo (positivo e costruttivo, ma anche franco e aperto), e condivisi nel loro sviluppo. Partecipare è, allora, giocare differenze e riconoscimento, sentendo la forza e la ricchezza dei pensieri e delle decisioni costruite in modo congiunto. Tale partecipazione chiede immaginazione e capacità di iniziare, cioè di raccogliere, far convergere, investire, tessere. Al fine credere nella generatività della vita comune. Partecipare a storie chiede di trovare storie, avere fatto l’esperienza di storie ricevute (accoglienti, o con le quali confrontarsi, e anche dalle quali discostarsi). Le storie legano differenza e distinguono esperienze, permettono di essere responsabili e chiedono responsabilità. Le storie sono veicoli di significati: nelle storie si incontrano donne e uomini capaci di disposizione, di decisione e scelta, di differenza e di dramma. Le storie mostrano la capacità di inizio, la “natività” della realtà sociale. Fino al punto di creare “fratture instauratrici”, contro il calcolo, la forza dei dati e delle “previsioni”, la convenienza. Fratture instauratrici che sono nelle corde profonde di donne e uomini, come mostra ed evidenzia Michel de Certeau13, nella vita personale e quotidiana, nella vita di relazione e nella convivenza. Perdono, speranza, riconciliazione, prossimità fraterne, disegno del possibile, oblio attivo verso memorie sacrificali: questo inizia la vita di nuovo tra donne e uomini, vita comune, di nuovo nata.

La capacità generativa di una fraternità fra sconosciuti L’immaginazione senza gusto e sogno di “terre nuove”, di umanità e giustizia, di incontri e tempi pacificati, di abitabilità e fecondità diviene un gioco vuoto. Perché la memoria, se non è tradizione vivente, senso di una consegna di generazione in generazione, è alienata, 13 M. de Certeau, Fabula mistica. XVI-XVII secolo, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2008.

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Intercultura. Le virtù di una società interculturale

dura, nostalgica; oppure resta imprigionata in un presente astorico. L’appartenenza con altri ad una comunità senza senso di debito e senza cura responsabile è solo una frenetica composizione e scomposizione di legami provvisori o la chiusura in un recinto rassicurante e senza respiro. Invece, l’umile fragilità, il bisogno di connessioni, il desiderio di compagnia aprono stati nascenti. Ci vuole immaginazione («la nostra facoltà delle nuove possibilità», secondo Gallagher14): sentirci attesi, con altri, nel “dramma” della convivenza, nel confronto politicosociale ed etico-culturale, costruendo gesti ed esperienze segnate da logica di sovrabbondanza, rivelatrici delle capacità generative della fraternità tra sconosciuti. L’immaginazione è campo di battaglia cruciale per noi, immersi in una cultura dominata dalla presenza e dai paradigmi delle tecnoscienze che silenziosamente privano le donne e gli uomini della possibilità di entrare in contatto con le loro profondità immaginative. E quindi con la speranza. Tra l’immaginazione, la narrazione, la prassi di vita nuova c’è un rinforzo circolare. Diamo senso alle esperienze trasformando le nostre vite personali e comunitarie in narrazioni, in storie. Il “campo di battaglia” dell’immaginazione è il campo di battaglia di narrazioni diverse e alternative. Non è questione di confronto di idee ma di scelte, di stili di vita, di prassi. Non arriviamo a una trasformazione del nostro agire attraverso qualche pensiero. Invece cambiamo il nostro pensare attraverso il nostro agire.

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M.P. Gallagher, Una freschezza che sorprende, cit., p. 53.

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VI. SCONFINARE

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Elena Granata

Questo libro ci ha fin qui condotti attraverso i luoghi e le parole dell’intercultura. A un viaggio entro i contesti quotidiani dell’incontro interculturale è seguita una parte più prospettica, volta non solo a delineare le qualità delle virtù civiche di una società interculturale, ma ad anticipare un futuro prossimo nel quale le ragioni di una nuova convivenza civile dovranno trovare i modi per tradursi in norme, stili di vita, istituzioni, relazioni sociali. Lungo questa direzione, in quest’ultimo tratto di strada vorremmo cimentarci con un esercizio estremo di immaginazione che ci porti a superare i confini del nostro tempo, del nostro territorio, delle nostre appartenenze culturali. A sconfinare, appunto. E lo facciamo riprendendo un noto esempio dello storico Lucien Febvre che nel suo libro Europa. Storia di una civiltà1 riflette sulle mutevoli identità dei luoghi e delle culture d’Europa. Febvre si domanda quali sensazioni potesse provare un abitante di Lione che nel IV secolo d.C. avesse deciso di mettersi in viaggio, lasciando la propria dimora. Dove si sente a casa? In quali luoghi comincia a sentirsi straniero? Egli si sente a casa sua a Roma, naturalmente, dove ritrova la sua stessa cultura e anche gli stessi modi di vivere, ma si sente a casa sua anche a Gadès, in Berice, e perfino a Cartagine, alle soglie dell’Africa. Se fa parte dell’aristocrazia senatoria, può possedere proprietà in Grecia o in Asia minore. Non si sente straniero neanche negli ambienti colti di Antiochia o di Alessandria. Comincia a sentirsi straniero solo allorquando passa il Reno e varca il Danubio, allora sì che comincia a sentirsi perso, capisce di essere in mezzo ai barbari. 1

L. Febvre, Europa. Storia di una civiltà, Donzelli, Roma 1999.

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Quella geografia di luoghi accomunati da una comune cultura, da comuni valori e stili di vita, viene stravolta e riconfigurata dal passare del tempo. Se immaginassimo – prosegue Febvre – di seguire in viaggio un abitante della stessa Lione nel IX secolo, dopo solo una manciata di decenni, saremmo costretti a osservare che tutto è cambiato. Lo stesso abitante di Lione che decidesse di mettersi in viaggio non si sentirebbe più a suo agio a Cartagine, ormai conquistata dagli arabi e piegata a un’altra lingua e a un’altra cultura. Non è più a casa sua a Gadès, che fa parte del Califfato di Cordova. Ad Atene, a Costantinopoli, a Nicea, a Ravenna, ormai, si troverebbe circondato da scismatici che parlano solo greco, con costumi e usanze quotidiane ormai distanti da quelle a lui familiari. Invece, differentemente dal passato, a Münster, a Osnabrük, a Brena, a Magdeburgo si sente a casa, anche se non parla la lingua popolare, la lingua volgare degli abitanti di quei Paesi. Può, infatti, parlare con i chierici, che pensano in latino, e questo lo mette sicuramente a proprio agio. Può discutere con loro di letteratura e di filosofia e in qualunque chiesa entri può assolvere senza difficoltà ai propri doveri religiosi. L’esempio di Febvre è illuminante: scandagliando con brevi esempi le trasformazioni culturali, politiche, civili, urbane avvenute nell’arco di pochi secoli mette in evidenza la dinamica di dissoluzione e rinascita delle culture, delle identità dei luoghi e delle comunità. Un’intrinseca precarietà e mutevolezza di forme sembra contraddistinguere la storia degli uomini. Per questo dobbiamo guardare ai fenomeni sociali con la capacità di trascenderli e di guardare oltre, evitando letture di retroguardia che arrivino a descrivere i fenomeni sociali sempre e solo quando le cose sono già mutate. Oggi uno studente Erasmus olandese può sentirsi a casa in Italia, come un professore italiano può continuare a sentirsi italiano pur lavorando da anni a Londra. Già molte lavoratrici rumene hanno imparato a vivere in due Paesi senza dover recidere i legami con la loro terra di nascita e giovani imprenditori di origine cinese si pensano cittadini delle filiere lunghe dei loro commerci. Un ragazzo italiano di origine tunisina si sente profondamente coinvolto nel cambiamento avvenuto nella terra dei suoi nonni, senza per questo smettere di proiettare il suo futuro in Italia: vive qui, ma sogna anche lì.

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In questa prospettiva, se vogliamo provare a capire qualcosa della nostra epoca, abbiamo bisogno di sconfinare rispetto a una certa idea di spazio, per comprendere la precarietà dei confini, delle definizioni e dei dispositivi spaziali. Abbiamo bisogno poi di sconfinare rispetto a una certa idea di tempo, per cogliere meglio il mutamento, la dinamica, la trasformazione incessante, per imparare a giocare d’anticipo rispetto ai cambiamenti sociali in corso. Abbiamo bisogno infine di sconfinare rispetto a una certa idea di cultura, per liberarci da quegli schemi e paradigmi che ci fanno cogliere alcuni aspetti della realtà ma ne mettono in ombra altri e tendono a confinare le culture nei loro recinti immutabili.

Ripensare il senso dei confini Un confine è una linea. Così comincia una delle più intense lezioni del geografo italiano Franco Farinelli dedicata ai confini. E, aggiunge, «il confine è una linea, oggi». Sì, perché dal punto di vista geografico fino al Cinque-Seicento, il confine era una fascia, una zona dotata di una certa profondità dove gli Stati o i territori venivano a toccarsi, a lambirsi. Veniva lasciata in mezzo una terra di rispetto, un ambito consacrato al contatto, allo scambio, eventualmente al conflitto. In quel margine erano ravvisabili elementi che non si riconoscevano né in una parte né nell’altra: era una zona di transizione2. La natura del confine muta radicalmente nel Settecento quando gli Stati nazionali, territoriali e centralizzati, impongono al proprio territorio il modello geometrico. Nasce lo spazio come lo intendiamo oggi. Il confine, inteso come linea geometrica, trancia, separa, divide artificialmente portatori della stessa cultura. Un processo cui abbiamo assistito in Africa settentrionale negli Stati coloniali disegnati sulla carta e poi realizzati, che ritagliano secondo angoli e linee rette separando popolazioni che sono portatrici della stessa cultura, della stessa lingua. D’altro canto, questi confini mentre separano culture omogenee hanno la pretesa di omologare al proprio interno i propri sudditi o cittadini, negando ogni elemento di differenza e discontinuità. 2 F. Farinelli, Geografia. Introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003.

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Una presunzione che non fa i conti con la realtà: all’interno di nessuno Stato moderno territoriale centralizzato europeo i cittadini detengono la stessa cultura. Ma lingue, culture, dialetti, tradizioni, dal sorgere degli Stati nazionali a oggi permangono, sopravvivono, si rinforzano, spesso tornano in conflitto. È storia recente, è sotto gli occhi di tutti la dissoluzione e il prevalere di identità diverse anche in Stati europei. Definire confini geometrici è un modo per gestire il mondo e le sue contraddizioni, tipico della modernità. Una modernità che ci ha abituato a pensare che la nostra identità dipenda dai confini, qualcosa che nel medioevo era impossibile da pensare, ma anche presso altre culture: l’identità era legata alle persone, ovunque esse andassero, dipendeva dal sistema culturale che ciascuno portava con sé. Ma i confini non sono solo frontiere, muri, non sono solo linee. Esiste una variegata moltitudine di confini di natura materiale e immateriale che spezzettano e circondano la nostra vita quotidiana. Si tratta di “dispositivi”, di regole non scritte, di abitudini, che regolano lo spazio e spesso erigono confini più invalicabili dei muri stessi. Una moltitudine di confini che frammenta e scheggia intere parti del nostro pianeta, sensori delle dinamiche del mondo contemporaneo. Confini che operano pervicacemente nelle nostre città e che sperimentiamo ogni giorno. Come ha spiegato bene Paul Virilio, da un lato, il mondo diventa una grande città, in cui si ritrovano ovunque le stesse grandi imprese economiche e finanziarie, gli stessi prodotti, le stesse architetture, gli stessi stili di vita e consumi. Dall’altro, la città è diventata essa stessa un piccolo mondo. Un mondo nel quale la diversità tra ricchi e poveri, la diversità etnica, culturale, si mescolano, dove tutta la complessità e la disuguaglianza presenti nel mondo sono costretti a fare i conti3. Il confine appare allora come il luogo dell’antinomia: divide e unisce, separa e trattiene, aggrega e allontana, assegna una dimora e stabilisce un’alterità, distingue ed è fonte di significati. I confini sono la condizione stessa delle nostre esistenze, luogo dove trovano espressione e verifica le nostre identità. Abitare un luogo richiede l’esperienza e la pratica dei confini, dei margini. Nello stesso tempo i confini sono il 3

P. Virilio, Città Panico. L’altrove comincia qui, Raffaello Cortina, Milano 2004.

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terreno dove originano gli antagonismi e i conflitti. Sono all’origine di separatezze oppure sono occasioni di incontro tra alterità. I confini tengono l’altro al di fuori del nostro spazio, nello stesso tempo consentono che si aprano relazioni. I confini consentono di distinguere e riconoscere, conoscono processi di nominazione (le cose, i luoghi cambiano nome). Consentono quella che Pierre Bourdieu chiama «la distinzione per contrapposizione»4, processo che favorisce l’individuazione e il riconoscimento che conducono alla formazione delle identità.

Immaginare luoghi dove incontrarsi I confini sempre più spesso rivelano anche la nudità e la precarietà delle vite umane. Lo descrive il racconto efficace di Alessandro Petti nel libro Arcipelaghi ed enclave5. Lo studioso italiano si trova in Palestina, nei Territori occupati, dove la moglie palestinese ha appena dato alla luce una bambina, Tala, nata a Betlemme, e dovendo lasciare i Territori gli si apre una prospettiva dilemmatica: Come potrà Tala attraversare la frontiera e uscire dai Territori occupati? In che modo funzionerà per lei la macchina del confine, avendo lei padre italiano e madre palestinese? Se Tala lascerà Betlemme da “italiana”, potrà farvi ritorno solo come turista; se invece lascerà Betlemme da “palestinese”, verrà trattata come tale dall’esercito israeliano, cioè non potrà muoversi liberamente nei Territori occupati in Israele6.

La macchina del confine, spiega Petti, è un’architettura interattiva, cambia a seconda della cittadinanza di chi lo attraversa, «si costruisce e decostruisce a seconda del rapporto che il singolo individuo ha con lo Stato, dispositivo di regolazione tra nascita e nazione […]. La nudità a cui la frontiera ti costringe fa vacillare qualsiasi certezza di diritto e di esistenza»7. 4 P. Bourdieu, La force du droit. Éleménts pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 64, 2 (1986). 5 A. Petti, Arcipelaghi ed enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano 2007. 6 Ibid., p. 6. 7 Ibid.

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Il confine rivela la precarietà umana, ma anche la propria contraddittorietà. Oggi il modello di confine geometrico, la stessa idea di Stato nazionale, è profondamente in crisi, non solo perché violato continuamente dal flusso di merci e di denaro che ne scompagina l’autonomia e la chiusura, ma anche perché continuamente deve fare i conti con la violenza e la volontà di dominio che quel modello di confine ha inscritto nelle proprie forme e nella propria definizione giuridica. Il paradigma di relazione che questa idea di confine conserva è, infatti, polarizzato ai due estremi: è strumento di separazione che aiuta a vivere e al contempo è segno immutabile di un conflitto che non si può pensare pacificabile. È possibile invece immaginare di uscire da questa polarizzazione che contrappone un’idea di confine come chiusura, muro che difende, alla pretesa opposta che solo la completa assenza di confini possa permettere un’autentica integrazione e la convivenza pacifica? Se non è una linea, cosa può diventare, come si può concettualizzare il confine? Rispondere non è facile. Dobbiamo allargare lo sguardo, trovare nuovi modelli. Rivolgerci alla natura, per esempio. In natura non prevalgono i confini netti, ma margini sfumati e sfrangiati. Nel passaggio dal bosco al prato, ad esempio. La gradualità nel passare dal prato al bosco garantisce l’insediamento di molte specie animali (che usano il margine per cacciare o per rifugiarsi) o vegetali. Il margine viene colonizzato da specie eliofile e da arbusti che in un bosco non troverebbero la luce sufficiente. Gli arbusti producono frutto, molto apprezzato da una serie di insetti e animali. Il margine inoltre protegge la parte più interna del bosco, habitat per altre specie. Una quota considerevole di biodiversità è concentrata proprio in questa fascia. Forse il futuro ci chiede di sconfinare in questa direzione. È necessario tornare a lavorare sugli spazi intermedi, sugli “spazi di amicizia” di cui parla Derrida8, sugli spazi di “approssimazione” direbbe Cassano9, dove sia possibile avvicinarsi tra diversi. Spazi, nel senso di luoghi, occasioni, possibilità di incontro. È necessario aprire recinti, ricomporre distanze e differenze, suscitare relazioni di reciprocità e di responsabilità verso lo spazio in comune. 8 9

J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995. F. Cassano, Approssimazione, cit.

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Siamo tutti viaggiatori leggeri Un’esperienza che si dà nel viaggio, quando varcando una frontiera ci si misura con le culture, le lingue, i muri che ci separano l’uno dall’altro. Un’esperienza che è innanzitutto possibilità di superare frontiere. Quelle frontiere che definiscono «un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto»10, ma che sono anche «flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate»11, come scrive Claudio Magris nell’introduzione al suo L’infinito viaggiare. Oltrepassare queste frontiere ha delle implicazioni che si ripetono: qualcosa o qualcuno che ci sembrava vicino e conosciuto si rivela straniero e non decifrabile, nello stesso modo un paesaggio, un individuo, una cultura che ritenevamo diversi e lontani si dimostrano familiari ed affini. Infatti, la mente del viaggiatore, secondo la suggestiva immagine proposta dal sociologo Eric J. Leed12, sviluppa un’attitudine e un’abitudine a confrontare, a cercare punti di differenza e somiglianza, ad addomesticare in qualche modo tutto ciò che egli non conosce. Il viaggiatore attraversa un mondo che non gli è familiare ed elabora una tecnica che gli consente di ridurre la distanza tra quanto gli è ignoto e quanto gli è noto. Questo procedimento aiuta a riconoscere nell’ignoto alcune somiglianze con quello che già conosciamo e dunque riduce le differenze tra contesti e rende in qualche modo familiari ambiti molto lontani tra loro. Racconta lo scrittore turco Orhan Pamuk del senso di libertà che gli ha procurato l’essersi perso per le calli e i campi di Venezia: dopo un primo momento di smarrimento la felicità di riconoscere un luogo familiare che gli ricordava le strade contorte, irregolari e scoscese della sua Istanbul. Perché, ricorda Pamuk, «la gente come me si districa tra le strade delle città incidendosi nella mente le immagini dei luoghi, diversamente da quelli di New York che fissano i numeri delle vie»13. 10 C. Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano 2005, p. XIII. 11 Ibid. 12 E.J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, il Mulino,

Bologna 1992. 13 O. Pamuk, Venezia e quel piacere di smarrirsi, in «la Repubblica», 29.07.2009.

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L’esperienza del viaggio è un’esperienza di conoscenza che cambia il soggetto che la compie, il suo modo di percepire il mondo. Racconta David Grossman, scrittore israeliano, di un viaggio compiuto in Galilea, da solo e a piedi, superando quella barriera invalicabile che divide in terra di Israele gli ebrei dagli arabi. «Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento alle cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori». E prosegue Grossman: «Per me è stato trovare il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino nemici. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista»14. Viaggiare è superare il timore di andare anche in posti che possono fare paura, per trovare anche lì insperati compagni di viaggio. Il viaggio nella letteratura classica, da Omero in poi, viene sempre concepito in senso circolare. Il viaggiatore è Ulisse che ritorna sempre a casa, tra le proprie cose, alle proprie origini. Il viaggio l’ha arricchito ma egli è rimasto fedele a se stesso. Nella modernità invece il viaggiatore porta a compimento un percorso che non prevede ritorno a casa, perché durante il viaggio egli perde la propria identità per assumerne una nuova, completamente diversa. Il viaggio è occasione di scoperta della precarietà del mondo e insieme dell’estrema fragilità della propria condizione. E oggi quale viaggio è ancora possibile? Magris propone di tornare a riflettere su questa doppia natura del viaggiare. L’uomo nel viaggio si perde, perde le proprie certezze, perde in qualche modo il proprio centro per abbandonarsi al mondo. Eppure è attraverso questa esperienza che egli può imparare a ritrovare se stesso, a sentirsi ospite, straniero, randagio e così comprendere «che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine»15. Forse il futuro ci chiede di sconfinare in questa direzione. Se questa è la condizione dell’uomo contemporaneo dobbiamo prende14 D. Grossman, Così ho vinto la paura dell’altro, in «la Repubblica», 19.10.2009. 15 C. Magris, L’infinito viaggiare, cit., p. 243.

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re confidenza con l’esperienza del limite, stare sulla soglia sapendo che varcare i confini costituisce il cuore più profondo dell’esperienza dell’incontro con l’altro.

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Verso un nuovo paradigma Oggi che siamo tutti nomadi, ospiti in transito di questo mondo, forse dobbiamo essere in grado di pensare che anche la migrazione sia una forma del muoversi, come il viaggio, una delle accezioni possibili della mobilità contemporanea. Una prospettiva che incontra ancora resistenze e opposizioni. Troppo spesso la riflessione sulle migrazioni si offre come un’istantanea destinata a rimanere per sempre. Resistente a comprendere che il migrare non può essere considerato una condizione di vita, ma un passaggio d’epoca della vita. I confini segnano le nostre esistenze, determinano le nostre paure e libertà, stabiliscono il ritmo del nostro tempo. Facciamo tutti i conti con i confini in ogni istante della nostra vita. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia, l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni, la società con le sue divisioni, l’economia con le sue invasioni e le sue ritirate, il pensiero con le sue mappe dell’ordine16.

Ma i confini cambiano, sono mobili, si spostano, possono essere ridisegnati di continuo. Muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Anche quelli che definiscono la nostra storia, le nostre identità, le certezze su cui abbiamo poggiato le nostre vite, i nostri valori, le nostre sensibilità. Le nostre stesse culture, in cui ci siamo trovati a costruire le nostre vite, sono l’esito di contributi divergenti e in continua evoluzione Abbiamo bisogno di spazi plurali, all’interno dei quali poterci sentire accolti nei nostri molti modi di essere, nelle nostre molteplici 16 P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 183.

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appartenenze e identità, dove imparare a stare nell’instabilità e nella migranza, nella ricerca. Sapendo che siamo tutti migranti, in «in quanto l’oltre è già in noi come possibile, in quanto la differenza entra in noi come risorsa, in quanto lo “stare nell’aperto” è la radiografia del nostro stato d’animo e della nostra mente»17. Forse il futuro ci chiede di sconfinare in questa direzione. Richiede la disponibilità e la volontà di compiere un’esperienza di apprendimento che trascenda le nostre abitudini, i pregiudizi, le convenzioni. Fare esperienza del confine, delle sue capacità generative, vuol dire imparare a vivere uno accanto all’altro, accettando le differenze e rispettive particolarità. Vuol dire anche cercare di avere uno sguardo più allargato sulle cose, che ci consente di cogliere la realtà da più angolature, che ci rende consapevoli che senza l’altro, la nostra prospettiva è mancante.

17

F. Cambi, Incontro e dialogo, cit., pp. 42-43.

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nota sugli autori

Michele De Beni. Psicoterapeuta e pedagogista, docente di Educazione degli Adulti presso l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia. Davide Girardi. Dottore di ricerca in Sociologia, Università di Padova, ricercatore presso la Fondazione Nord Est e docente di Sociologia generale e Metodologia e tecnica della ricerca sociale quantitativa presso l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia. Anna Granata. Psicologa e dottore di ricerca in Pedagogia, Università Cattolica di Milano, docente di Metodologia preventiva II e Psicologia Interculturale presso l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia. Elena Granata. Ricercatrice in Tecnica Urbanistica, Politecnico di Milano, docente di Analisi della città e Geografia urbana, Politecnico di Milano, e di Luoghi di vita e di relazione nella città contemporanea, Istituto Universitario Sophia. Francesco Grandi. Ricercatore presso Synergia, Società di ricerca sociale, consulenza organizzativa e formazione. Afef Hagi. Psicologa, Ce.R.I.S.C Onlus – Centro Ricerche e Interventi nei Sistemi Complessi, Prato. Ivo Lizzola. Professore ordinario di Pedagogia sociale e preside della facoltà di Scienze della Formazione, Università di Bergamo. Caterina Martinazzoli. Insegnante e dottore di ricerca in Pedagogia, Università Cattolica di Milano. Giuseppe Milan. Professore ordinario di Pedagogia sociale e interculturale, Università di Padova. Magda Pischetola. Dottore di ricerca in pedagogia, Università Cattolica di Milano.

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Nota sugli Autori

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Marina Santi. Professore associato presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Padova. Alice Sophie Sarcinelli. Dottoranda in Antropologia, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Paris.

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Indice dei nomi 207

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INDICE dei nomi

Abdallah-Pretceille M.A.: 6, 8, 12, 13, 14, 47 Acheng: 164 Agostino d’Ippona: 189 Albano R.: 114 Allard R.: 49 Amiotti G.: 61 Arendt H.: 129, 130 Austin J.L.: 153 Augè M.: 83, 143 Bakhtin M.M.: 155 Barudy J.: 55 Bateson G.: 129 Bauman Z.: 108, 142, 143, 159 Bernardo di Chiaravalle: 131 Besozzi E.: 106 Bettetini G.: 95 Bianchi R.: 161 Bidart C.: 107 Bidussa D.: 179 Blanc M.: 50 Blumer H.: 107 Boccagni P.: 62 Bodo S.: 165, 168, 169 Bordigoni M.: 67 Borgatti S.P.: 107 Borghi L.: 19 Bosisio R.: 106

Bourdieu P.: 199 Branca P.: 39 Bravi L.: 69 Bruner J.S.: 136, 155, 161 Buber M.: 140, 141, 142, 143, 145, 146, 147, 148, 149 Buzzi C.: 107, 116 Caille J.-P.: 47 Cairo M.T.: 28 Callari Galli M.: 39 Cambi F.: 7, 8, 94, 204 Camilleri C.: 6, 7, 10 Cantù S.: 168, 169 Carlson S.M.: 48 Cassano F.: 122, 200 Castells M.: 94 Cattaneo A.: 93 Cattaneo M.L.: 31 Cavalli A.: 107, 116 Cavarero A.: 131 Cesareo V.: 107 Chaouite A.: 121 Ciani M.G.: 138 Cioffi A.: 169 Cives G.: 94 Clanet C.: 6, 14 Cohen-Emerique M.: 6, 7, 10 Cologna D.: 34, 76, 85

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Indice dei nomi

Colombo E.: 106 Colombo M.: 106 Compagnoni E.: 37 Comrie B.: 44 Cassano F.: 88 Colpo G.: 133 Cornoldi C.: 133 Coste D.: 53 Csordas T.J.: 66 Cummins J.: 51, 52 Curi U.: 153 Da Empoli G.: 98 Da Milano C.: 168 Dal Lago A.: 69 Dal Verme S.: 31 Dalla Zuanna G.: 90 Dallari M.: 190 Davidson D.: 154 De Beni M.: 100, 122 De Beni R.: 133 De Bono E.: 127, 133 de Certeau M.: 191, 193 De Kerckhove D.: 94 de Lillo A.: 107, 116 De Luna G.: 174, 176 Deardorff D.K.: 23, 65, 84 Degenne A.: 107 Deleuze G.: 162 Dell’Agnese E.: 61 Dematteis G.: 170 Demetrio D.: 91 Derrida J.: 140, 144, 145, 157, 200 Dewey J.: 19 Di Nicola P.: 108

Elin N.: 142 Eraclito: 128 Eve M.: 107 Everett M.G.: 107 Facioni S.: 193 Farina P.: 90 Farinelli F.: 197 Favaro G.: 7, 36, 39 Febvre L.: 195, 196 Ferrari S.: 93 Feurestein R.: 133 Fiorucci M.: 40 Flusty S.: 142 Foerster H., von: 129 Foot J.: 68 Fornaca R.: 94 Fornari R.: 25 Francia M.G.: 28 Frankl V.E.: 126, 131 Freire P.: 148 Galasso G.: 169 Gallagher M.P.: 187, 194 Garelli F.: 114 Gasperi E.: 143 Gautherin J.: 61 Gavosto A.: 44 Gillett G.: 155 Girardi D.: 26 Giusti M.: 168, 172, 174 Goffman E.: 9 Granata A.: 25, 26, 34, 35, 55, 65, 74, 75, 76, 81, 99, 151, 160, 179 Granata E.: 25, 34, 76, 85, 99

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Indice dei nomi 209

Grice P.H.: 153, 154 Grosjean F.: 45, 52, 55 Grossman D.: 202 Guardini R.: 126

Lorcerie F.: 6, 36, 40 Lotman J.: 84 Luatti L.: 36 Lucchini S.: 48, 49

Hagège C.: 49 Hagi A.: 25, 35, 48, 70 Hamers J.: 50 Harré R.: 155 Havel V.: 125 Heidegger M.: 129, 143 Hélot C.: 50 Holquist M.: 155

Magatti M.: 183 Magris C.: 201, 202 Mallick K.: 18 Malpas J.: 143 Manço A.: 97 Mannheim K.: 107 Mantovani G.: 87 Marion J.-L.: 188 Martinazzoli C.: 25, 29, 56 Mascheroni S.: 168, 169 Matthews S.: 44 Mc Andrew M.: 61 McNamara J.: 46 Mead G.H.: 155 Meltzoff A.N.: 48 Melucci A.: 95 Metha S.: 80 Milan G.: 140, 151 Minnini G.: 153 Modgil S.: 18 Molina S.: 25 Monasta L.: 69 Moore D.: 53 Moravia S.: 153 Morin E.: 5, 28, 121, 122, 131, 133, 134, 135 Moro M.R.: 31, 32, 35, 56 Mumford L.: 85 Murail M.A.: 41

Illetterati L.: 151, 161, 162 Inglese S.: 36 Kahn L.: 75 Kant I.: 129, 159 Karpati M.: 69 Kern B.: 134 Klaic D.: 165 Kohan W.: 151, 157, 158, 159 La Cecla F.: 76 La Valle D.: 116 Landry R.: 49 Lanzani A.: 85 Lavenu D.: 107 Le Tréhondat P.: 12 Leed E.J.: 201 Leonini L.: 106 Lévinas E.: 130, 146, 147 Lipman M.: 133 Lizzola I.: 186, 187 Lonergan B.: 131

Nanni A.: 125, 135 Napoli M.: 7

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Indice dei nomi

Nathan T.: 35, 36, 56, 121 Nietzsche F.: 160 Novak C.: 34, 76, 85 Nussbaum M.: 103, 104

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Omero: 138 Ong W.: 95 Ongini V.: 38 Ouellet F.: 6, 9

Ricoeur P.: 125, 126, 146, 147, 187 Riva F.: 147, 149 Rivoltella P.C.: 93 Rosina A.: 61

Quaini M.: 170

Saletti Salza C.: 64 Sandell R.: 168 Sandercock L.: 85 Santagati M.: 106 Santerini M.: 7, 17, 24, 28, 39, 40 Sarcinelli A.S.: 25, 63 Sasso R.: 69 Sbisà M.: 154 Scali M.: 101 Sciolla L.: 114 Sclavi M.: 82, 99 Searle J.: 153 Sen A.: 8 Sennet R.: 87 Settis S.: 169, 170, 171 Skliar C.: 151, 162 Siberstein P.: 12 Sigona N.: 69 Simard J.-L.: 10 Simmel G.: 105 Sorokin P.A.: 126 Sortino A.M.: 147 Steiner G.: 159, 161 Strozza S.: 90 Swain M.: 52

Rajiva M.: 81 Rebughini P.: 106 Reggiani G.: 67 Rezzonico M.: 39

Tarozzi M.: 190 Titone R.: 45 Toscano M.A.: 174 Treves A.: 23

Pahl R.: 107 Palmonari A.: 114 Pamuk O.: 201 Panero T.: 32 Panikkar R.: 126 Parekh B.: 18 Pecci A.M.: 168 Petti A.: 199 Piaget J.: 131 Piasere L.: 61, 62, 67, 68 Pinto M.A.: 51 Pinto Minerva F.: 7, 14, 38, 55 Pischetola M.: 26, 103 Platone: 150 Poggi I.: 32 Polinsky M.: 44 Ponzini D.: 169, 177 Premazzi V.: 101 Putnam R.: 114

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Tulodziecki G.: 96, 97 Turba I.: 34, 76 Touraine A.: 183 Twine F.W.: 81

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Udd L.: 33 Vallet L.-A.: 47 Valtolina G.G.: 29, 40, 41 Van Dijk J.: 94, 95, 96 Van der Veer R.: 155 Van Zanten A.: 47 Van Sevenant A.: 143 Vandana S.: 129 Veca S.: 167 Verma G.: 18

Indice dei nomi 211

Vertovec S.: 15 Vinsonneau G.: 6 Virilio P.: 198 Vitale T.: 61, 67 Vygotskij L.S.: 155, 156 Wieviorka M.: 12 Wilson E.J.: 95 Zamagni S.: 128 Zambrano M.: 125, 181 Zanchi G.: 184 Zanini P.: 203 Zarate G.: 53 Zincone G.: 92 Zoletto D.: 6

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Intercultura. Le virtù di una società interculturale

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Indice generale 213

indice generale

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Introduzione. La rivoluzione pluralista (Anna Granata) pag. 5 Parte Prima. I luoghi dell’incontro interculturale I. Così uguali, così diversi a scuola (Caterina Martinazzoli). » 27 II. Lingue e legami sulla soglia di casa (Afef Hagi). . . . . . . » 43 III. Maestre al campo rom (Alice Sophie Sarcinelli).. . . . . . » 59 IV.  Città in cui perdersi e ritrovarsi (Anna Granata ed Elena Granata).. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 75 V. Giovani in rete, cittadini del mondo (Anna Granata e Magda Pischetola). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 89 VI. Ponti dell’amicizia alle soglie dell’età adulta (Davide Girardi).. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 105 Parte Seconda. Le virtù di una società interculturale I. Aprire la mente (Michele De Beni). . . . . . . . . . . . . . . . » 121 II. Ospitarsi (Giuseppe Milan). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 137 III. Dialogare (Marina Santi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 151 IV. Custodire (Francesco Grandi). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 165 V. Partecipare (Ivo Lizzola). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 181 VI. Sconfinare (Elena Granata). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 195 Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 207

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Indice generale

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Indice generale 215



Indice dei nomi

Percorsi

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dell’educare

Cavaleri, Pietro Vivere con l’altro per una cultura della relazione, 2007

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Cunico, Marco Educare alle emozioni riflessioni e proposte di attività per insegnanti e genitori, 2004 Del Longo, Nevio - Giubilato, Francesco - Raengo, Francesco Il dolore innocente guida per operatori ed educatori nei casi di maltrattamento infantile, 2002 Milan, Giuseppe Disagio giovanile e strategie educative, 2001 Milan, Giuseppe Educare all’incontro la pedagogia di Martin Buber, 1994 Tapia, Maria Nieves Educazione e solidarietà la pedagogia dell’apprendimentoservizio, 2006 Aceti, Ezio Finestre sul mondo i ragazzi e l’uso dei media, 2004 Aceti, Ezio - Fignelli, Lino Pronti? Si parte! affettività, intelligenza e socialità del bambino dal concepimento alla preadolescenza, ill., 1998

Aceti, Ezio - Rotteglia, Alberta Basta cavoli e cicogne! viaggio nell’affettività e nella sessualità, disegni di V. Sedini vol. 1 - dai 4 ai 7 anni In allegato: Guida per educatori, 2001 vol. 2 - dagli 8 agli 11 anni In allegato: Guida per educatori vol. 3 - dai 12 ai 15 anni Capovilla, Anna - Stamerra, Oriella Per una scuola diversa un’esperienza di integrazione con l’handicap, ill., 2001 Cunico, Marco Voglia di diventare grandi le piccole e grandi domande degli adolescenti allo psicologo, 2009 De Beni, Michele (ed.) I tesori di Gibì e Doppiaw educarsi alla relazione, 2006 Secco, Luigi La pedagogia dell’amore amare nelle diverse età della vita, 2006 Michele De Beni Educare la sfida e il coraggio, 2010 Ezio Aceti - Giuseppe Milan L’epoca delle speranze possibili, 2011

Aceti, Ezio - Pochintesta, Cristina Adolescenti a scuola l’insegnante-tutor come risorsa, 2001

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Intercultura. Le virtù di una società interculturale

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