Infinitamente finiti. Antropologia oikonomica e bioeconomia, a partire da M. Foucault 9788898615049


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Infinitamente finiti. Antropologia oikonomica e bioeconomia, a partire da M. Foucault
 9788898615049

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Dello stesso autore nel catalogo Aras Edizioni Governare l’in-umano. Miti e politiche della razza, biopotere, eugenetica

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Rosanna Castorina

Infinitamente finiti Antropologia oikonomica e bioeconomia, a partire da M. Foucault

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale © Aras Edizioni 2013 ISBN 9788898615049 Aras Edizioni srl, Fano (PU) www.arasedizioni.com – [email protected] © In copertina incisione di Cecilia Marino

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INDICE

INTRODUZIONE 7 1. ANTROPO - OIKONOMIA 1.1. Il concetto di oikonomia 1.2. Antropo - oikonomia della salute/salvezza 1.3. Infinita finitudine dell’umano 1.4. Biologia: organizzazione funzionale e variazione della vita 1.5. Sociologia: auto - regolazione e conservatio vitae 1.6. Economia politica: estraneazione del lavoro e paradossalità del desiderio

23 23 29 35 41 48 55

2. VOLONTÀ E AUTONOMIA 2.1. La ‘natura’ della natura umana 2.2. Autonomia ed autopoiesi 2.3. Metafisica della vita: paradossalità antropologica, volontà, desiderio 2.4. Volontà di vita: compimento ed inversione del paradigma epistemologico moderno

71 71 81 89

3. GENEALOGIA OIKONOMICA 3.1. L’ordine del discorso governamentale 3.2. Razionalità governamentale ed economia politica 3.3. Liberalismo e neoliberalismo

96 109 109 118 124

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4. BIOECONOMIA 4.1. Introduzione 4.2. Capitalismo cognitivo 4.3. L’accesso come limite e come risorsa 4.4. Precarietà lavorativa e processi di soggettivazione/oggettivazione 4.5. Branding 4.6. Rischio e finanziarizzazione della vita 4.7. Economia della salute, biomedicina, biotecnica

135 135 143 159 177 193 213 219

5. ETOPOLITICA E BIODIRITTO 5.1. Introduzione 5.2. Cura di sé e processi di soggettivazione/oggettivazione 5.3. Etopolitica e filosofia 5.4. Problematizzazioni, direttrici di soggettivazione e controcondotte 5.5. Beni comuni e biodiritto nella società capitalistica 5.6. Beni comuni e bene comune 5.7. Dignità della persona

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BIBLIOGRAFIA 277

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro scaturisce da un’esigenza di attualizzazione del pensiero foucaultiano. A trent’anni dalla morte ci si chiede, infatti, quale sia il contributo che il filosofo francese ha dato alla comprensione delle dinamiche e dei dispositivi di potere/sapere che investono le nostre odierne società. Molteplici sono stati in tutti i settori i contributi volti ad approfondire il pensiero foucaultiano, soprattutto con riferimento alla tematica biopolitica che, infatti, rappresenta un nodo problematico di enorme attualità ed interesse. Non vi è dubbio che l’analisi del biopotere, nonché l’intreccio genealogico tra dispositivi di potere, di sapere e tecnologie del sé illumini alcuni aspetti particolarmente controversi degli scenari politici ed economici delle società globali. Esiste, tuttavia, una direttrice di studio che è stata finora poco battuta e che fa riferimento alla riflessione antropologica dell’autore. Si ritiene erroneamente che tale prospettiva sia prevalentemente presente in testi secondari, come la tesi complementare di dottorato dell’autore sull’Antropologia pragmatica kantiana. In realtà, tale tematica attraversa tutte le opere e tutte le fasi del pensiero di Foucault, dall’archeologia del sapere agli ultimi Corsi al Collège de France. È in particolare nell’opera Le parole e le cose1 del 1966 che l’autore formula la tesi centrale riguardante il destino antropologico dell’uomo moderno. Quest’opera, infatti, dopo aver affrontato i nodi problematici più complessi che riguardano la nascita e l’evoluzione del paradigma epistemologico delle scienze umane, si conclude con l’annuncio della morte dell’uomo. Tale affermazione scatenò molte critiche ed aprì un intenso dibattito, parzialmente sopito solo da un saggio critico di G. Canguilhem, il quale ricondusse la 1 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano, 1999.

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frase foucaultiana alla riflessione archeologica, sostenendo che la morte dell’uomo doveva, più correttamente, essere interpretata come “estinzione del cogito”2. Dunque, parlando di uomo Foucault faceva riferimento al complesso epistemologico/antropologico dischiuso dalla cultura umanistica a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. Allontanate le accuse più dirette ed infamanti di ‘antropocidio’, le critiche non si appianarono in quanto, pur interpretato all’interno della più vasta analisi archeologica, l’annuncio della morte dell’uomo fu visto come un esplicito e radicale attacco ad alcuni presupposti indiscutibili e dogmatici della filosofia moderna, come, ad esempio, il paradigma che fa dell’individuo un soggetto di conoscenza. E fu proprio questo aspetto ad emergere in primo piano dalla critica archeologica che pose in luce l’analitica della finitudine in cui è immerso l’uomo moderno. Foucault definisce tale analitica come il ribaltamento, avvenuto agli albori dell’era moderna, di una differente disposizione epistemica che contraddistingueva l’età classica: l’ontologia dell’essere. Se nell’ambito di tale configurazione del sapere l’uomo si strutturava ad immagine e somiglianza di Dio, l’epoca moderna “ha tagliato la testa al re” e lo ha sostituito con lo statuto infinitamente finito dell’uomo. L’uomo, infatti, emerge dalle forme semipositive e semifilosofiche di sapere che lo investono e definiscono; egli diviene un “allotropo empirico - trascendentale”, cioè un essere che deve sempre cercare altrove, nella finitudine che lo circonda da ogni parte, le proprie condizioni d’esistenza. Ma ciò significa che egli diviene un essere, allo stesso tempo, finito ed infinito; o meglio, un soggetto/ oggetto che trova nello statuto di essere razionale sia le condizioni di possibilità che i limiti della propria apertura al mondo. L’anthropos moderno si dibatte entro una condizione di infinita finitudine in quanto si rapporta all’esterno attraverso le forme finite del sapere positivo che assumono, però, una potenzialità infinita di diffusione e radicamento. La contingenza che ci circonda organizza, infatti, le forme di sapere, garantendo ad esse un dispiegamento infinito e delle potenzialità illimitate di diffusione. Ma, allo stesso tempo, tale potenzialità restituisce un’immagine dell’uomo finita, perimetrata dalle stesse forme di sapere positivo attraverso cui si esercita. Secondo Foucault è il pensiero di Kant ad aver sistematizzato tale condizione antropologica paradossale3. Nel pensiero kantiano, infatti, la facoltà conoscitiva che fa dell’uomo un essere razionale diviene la condizione di possibilità ed allo stesso tempo il limite intrinseco dello statuto antropologico. L’uomo prende posto in questo paradigma sia come soggetto della conoscenza che come oggetto 2 Cfr. G. Canguillelm, Morte dell’uomo o estinzione del cogito? in M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit. 3 Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di M. Foucault, trad. it. di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino, 2010.

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Introduzione

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conosciuto. Ed è proprio la compresenza di queste due dimensioni che radica la condizione umana in un paradosso, celato dalle ipostatizzazioni e dagli apriorismi della teoria del soggetto razionale. Il percorso foucaultiano cerca, dunque, di fare emergere la paradossalità della condizione umana attraverso l’analisi delle forme di sapere positivo che la esprimono: la biologia, l’economia politica e la linguistica. Al centro di queste forme di sapere vi sono altrettanti soggetti/oggetti che funzionano nella modernità come indicatori epistemologici della condizione umana: la vita, il lavoro e la lingua. Questi tre aspetti sono accomunati da una medesima definizione bio - naturalistica. La vita, infatti, è ciò che emerge dallo statuto biologico del vivente, il lavoro rappresenta una determinata declinazione del tema bio - organico del bisogno o della necessità vitale; la lingua comincerà ad essere definita nella sfera della flessione come forma di articolazione fisica degli organi fonatori. Il presente lavoro, dunque, parte dall’analisi foucaultiana per indagare il paradigma antropologico in una duplice prospettiva che fa riferimento sia ad una direttrice interna (archeologica) che ad una esterna (genealogica). Per direttrice interna si intende l’analisi dello statuto antropologico come paradigma paradossale dell’infinita finitudine dell’umano e come condizione di manchevolezza. Da questo punto di vista si è cercato di comprendere perché vita e lavoro si siano imposti come soggetti/oggetti, al contempo, empirici e trascendentali. L’empiricità scaturisce dal valore bio - organico e naturale che la vita ed il lavoro hanno assunto in differenti campi del sapere come il naturalismo evoluzionistico, la genetica, la sociologia e l’economia politica. Di questi apparati di sapere si è cercato di approfondire alcune tematiche comuni, estendendo il metodo archeologico foucaultiano alla ricostruzione di alcune problematiche tralasciate o non approfondite dal filosofo francese. Ciò con specifico riferimento al darwinismo ed al darwinismo sociale di Spencer, alle tesi positiviste di Comte, alla riflessione degli economisti classici come Smith, Ricardo e Malthus, alla teoria dell’alienazione di Marx. Da tutti questi contributi emergono tematiche comuni: nascita di un’organizzazione funzionale della vita e del lavoro in luogo di una localizzazione spaziale; importanza dei concetti di fitness e variazione; centralità della tematica della regolazione come forma bio - organica; prevalenza di una semantica della necessità e del bisogno come presupposto dell’investimento biopolitico del vivente e del corpo al lavoro; trasformazione dei concetti di vita e morte in ragione del principio dell’equilibrio salutare dell’organismo, ecc. Tutte queste riflessioni non soltanto non fanno che confermare l’assunto che pone nella finitudine e nella carenza lo statuto antropologico moderno, ma scavano un profondo e paradossale solco tra la condizione umana e quella ferina. Infatti, nelle acquisizioni biologiche come in quelle economico - politiche lo statuto del vi-

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vente più è simile a quello dell’animale più deve radicarsi in un’antropologia che se ne differenzi. È nell’ambito di queste discipline, infatti, che comincia a porsi il dibattito sull’inclusione o l’esclusione dell’uomo rispetto ai rapporti naturali che caratterizzano le altre specie viventi, implicando la formulazione di un nuovo apparato categoriale che ne definisca i limiti e le caratteristiche. La dicotomia natura/cultura e gli immensi equivoci che porta con sé nasce in relazione a tale contraddittoria necessità che spinge a considerare l’uomo un essere naturale bio - organico apparentabile agli altri animali o, al contrario, un soggetto culturale e simbolico. Ma è proprio la legittimità di questa dicotomia che solleva numerosi interrogativi. Al di là dell’effetto di spiazzamento che un’adeguata problematizzazione di queste due categorie può determinare rispetto alle tesi antropologiche classiche di H. Arendt, G. Anders e M. Heiddeger, appare davvero difficile lasciarsi alle spalle i termini tradizionali del dibattito sugli effetti nefasti ed alienati che l’evoluzione economica e tecnica proietta, soprattutto oggi, sulla condizione antropologica dell’uomo. Secondo tale prospettiva l’essere umano, minacciato dagli effetti incontrollati dell’evoluzione tecnica, trascinato in una condizione ferina o macchinica dalle sirene spersonalizzanti del capitalismo, alienato dal frutto del proprio lavoro ed abbandonato all’ “angoscia prometeica”4, sperimenta una drammatica perdita di mondo, cadendo in un disagio esistenziale che è prima di tutto antropologico. Ma, soprattutto, subisce un appiattimento che lo sprofonda in una condizione sub - umana, trasformando la tèchnē in agire strumentale. La finitudine si trasforma in precarietà o in semi - bestialità, il corpo spogliato è definito da uno statuto puramente organico. Tutto questo dibattito suscita, però, numerose domande. È lecito, ad esempio, pensare che i processi bioeconomici moderni siano interamente investiti da dinamiche alienanti ed oggettivanti che trasformano il corpo in un recettore passivo dei processi eteronomi che provengono dal sistema economico e tecnoscientifico? In questo campo probabilmente la semantica organica e positivistica non basta a giustificare la complessità dei processi bioeconomici. Per comprendere i più recenti sviluppi in questo settore non è sufficiente invocare l’alienazione, la degradazione dell’uomo ad un’esistenza semi - animale. L’uomo non si sottrae certamente a questa condizione ed essa è continuamente richiamata ogni qual volta si desidera legittimare “scientificamente” una specifica caratteristica bio - comportamentale o una “predisposizione genetica”. Ma i fenomeni di oggettivazione hanno come contraltare dei complessi processi di soggettivazione. L’individuo non è puro esecutore passivo ma agisce ed esercita attivamente potere su se stesso e sugli altri. 4 Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Milano, 2007.

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Introduzione

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Il grande merito della riflessione biopolitica è di aver slegato le tesi organicistiche e bio - naturali, nate già a partire dal Settecento, dalle prospettive anti - moderniste/conservatrici o dalla teoria dell’assoggettamento/alienazione, favorendo un più corretto inquadramento della tematica antropologica rispetto alle problematiche contemporanee. I poteri microfisici circolano attraverso i processi di soggettivazione e le dinamiche desideranti. Pertanto, è necessario indagare la tematica del desiderio in relazione ai soggetti/oggetti delle scienze empiriche: la vita ed il lavoro. La manchevolezza della condizione umana si collega con una pulsione caratterizzata da una tensione continua ed incolmabile tra soggetto ed oggetto del desiderio. L’uomo vive in questa tensione che lo proietta continuamente fuori dai suoi limiti antropologici, aprendolo alla contingenza o alla virtualità ma esponendolo, allo stesso tempo, ad una ricerca infinita e ad un desiderio privo di oggetto. Una delle domande fondamentali cui si cerca di fornire una risposta riguarda direttamente questo secondo punto: qual è, infatti, la relazione esistente tra dinamiche desideranti e sfera della libertà umana? La tensione continua che caratterizza la condizione antropologica moderna si lega ad una concezione della libertà che non è mai assoluta per l’uomo ma che si dibatte entro i limiti trascendentali della conoscenza. Questa profonda paradossalità è stata analizzata cercando di ricostruire alcuni nodi teorici fondamentali nella riflessione critica ed antropologica kantiana5, nella reinterpretazione metafisica di Schopenhauer6 e nel ribaltamento vitalistico nietzschiano7. Citando questi filosofi si comprende immediatamente che la tematica della libertà non è connessa solo alle dinamiche desideranti ma anche alla volontà: volontà di volontà in Schopenhauer e volontà di vita in Nietzsche. Dunque, a fianco ad una scienza della vita si profila anche una metafisica della vita che ha in una specifica declinazione del tema della libertà il proprio presupposto fondamentale. Si fa in questo caso riferimento alla volontà autonomia, dogma fondamentale delle modernità. L’uomo autonomo è, però, un individuo che sperimenta la libertà all’interno della condizione paradossale che lo contraddistingue ponendolo in costante tensione tra una fisica ed una metafisica dell’esistenza. In Schopenhauer tale contraddizione si risolve in una chiusura della vita entro il perimetro del mondo sensibile ed una sua squalificazione. Infatti, la rappresentazione restituisce al vivente una vaga ombra della volontà assoluta che si slega dalla condizione umana. Da questo punto di vista l’autonomia abbandona i perimetri paradossali 5 Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di M. Foucault, op. cit. e I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, Laterza, Roma - Bari, 2006. 6 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it di G. Sossio, Laterza, Roma - Bari, 2009. 7 Cfr. F. Nietzsche, La volontà di potenza, trad. it di A. Treves, Bompiani, Milano, 2008.

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della morale kantiana e si esprime nella vocazione puramente ascetica che allontana la libertà del volere umano dalla volontà assoluta che vuole soltanto se stessa. Questa dialettica è molto importante alla luce della scissione che profila tra volontà e desiderio. L’essere umano vive in un orizzonte desiderante, inteso come pura tensione priva d’oggetto, mentre la volontà gli rimane inaccessibile come dimensione morale o etica. Con Nietzsche, infine, si giunge al compimento di tale parabola ed, allo stesso tempo, al suo ribaltamento. La volontà di potenza si trasforma in un vitalismo profondamente radicato nel corpo, nella biologia umana, nell’evoluzione e nella trasformazione delle forme viventi. Ed è interessante che tutto questo passi per una critica genealogica della morale. Nietzsche, come vede bene Foucault, smaschera il paradosso antropologico dell’uomo preparando la nascita del superuomo. Ma, in linea con l’interpretazione archeologica, Foucault intende questo passaggio come l’apertura di un nuovo spazio di discussione e di pensiero sull’uomo. Alla morte di Dio, infatti, segue l’annuncio della foucaultiana morte dell’uomo di cui il superuomo rappresenta l’esito fondamentale. Quali sono le forme che il paradigma antropologico assume dopo l’annuncio della morte dell’uomo e dell’avvento del superuomo? È questa la domanda che muove il percorso foucaultiano, non solo inerente l’archeologia delle scienze umane ma anche la genealogia dei dispositivi di potere/sapere microfisici. Ed è, infatti, questa la cosiddetta direttrice esterna del presente lavoro. Essa fa riferimento al filone genealogico e cerca di chiarire il nesso tra la prima fase della riflessione foucaultiana e gli studi nel settore della governamentalità e della bioeconomia. Gli oggetti di studio sollevati nella sezione archeologica, infatti, sono fondamentali per cercare di capire come si articolano le più complesse problematiche biopolitiche che investono la società e l’economia. Vita e lavoro sono i fulcri di tale indagine. Essi si articolano nella sfera dell’oikonomia8. Con questo termine si intende il “governo della casa”, cioè il paradigma gestionale che conduce alla lenta sovrapposizione ed interrelazione tra gli strumenti politico giuridici della sovranità e quelli biopolitici9. In particolare, i dispositivi di potere 8 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, Milano, 2005. 9 Con questo termine si intende il governo della casa, o, nel senso estensivo del greco oikos, la giusta disposizione delle cose, delle persone e delle loro relazioni. Tale concetto, presente già nei testi di Senofonte, Platone ed Aristotele, connota più specificamente la sfera privata nella quale si svolge un’attività finalizzata a garantire la sopravvivenza del nucleo domestico. In questo senso, Aristotele contrappone l’oikonomia alla crematistica che indica, invece, l’attività economica volta alla produzione di un profitto e ad una forma immorale di accumulazione delle ricchezze. Partendo da questa dimensione semantica, il presente lavoro ha cercato di focalizzare l’attenzione sul paradigma oikonomico come possibile “luogo” antropologico di articolazione/separazione tra pubblico e privato, tra finalità conservativo/gestionale ed attività politica, tra esistenza bio - organica e vita qualificata.

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Introduzione

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e gli apparati di sapere oikonomico - gestionali determinano una convergenza tra sfera pubblica e sfera privata e delineano un nuovo campo d’intervento governamentale: la società civile. L’analisi genealogica della governamentalità consente, inoltre, di comprendere come si forma un nuovo soggetto/oggetto di studi, la popolazione, un sapere che lo definisce e regola, l’economia politica, ed un apparato tecnico che lo controlla, la polizia. Il governo dei viventi, realizzato attraverso gli strumenti della statistica, della demografia, della medicina, delle scienze sociali e psicologiche, si esercita con interventi di normalizzazione su un soggetto non più definito in base al dato giuridico - normativo ma in base al dato naturale. La naturalità della popolazione, inoltre, si intreccia con il sapere economico. L’esigenza difensiva si indirizza, di conseguenza, ad una società civile caratterizzata da uno statuto bio - naturale che si concilia con gli imperativi utilitaristico - produttivi del mercato. Lotta biologica e lotta economica sostituiranno l’obbligo di difesa del sovrano. Il governo del vivente coincide con il governo della società e della popolazione, intesa come “risorsa umana”. Il paradigma oikonomico è precisamente ciò che articola e tiene insieme la vocazione bio - naturale e quella politico - economica. Il governo del vivente, dunque, si realizza sempre di più nel contesto del mercato e non in quello delle istituzioni e dello stato. Per cui nella politica economica liberale e neo - liberale, il paradigma della salute/salvezza oikonomica si traduce in politiche del benessere di stampo normalizzatore che si pongono delle domande prioritarie: fino a che punto bisogna governare? Come bisogna farlo? Con quali strumenti? Quali spazi di libertà deve avere il mercato rispetto allo stato? Intorno al paradigma oikonomico ruota la domanda relativa ai limiti o alle condizioni che il governo del vivente deve porsi rispetto al governo dello stato e, di conseguenza, su quali sono i rapporti reciproci tra mercato ed istituzioni statuali. Da questo problema principale scaturisce la questione della libertà: essa deve essere assoluta, priva di limiti, o deve essere regolata rispetto alla sfera di intervento dello stato? Il liberalismo, distaccandosi dalla settecentesca dottrina del laissez - faire, cercò di definire i meccanismi di regolazione e di limitazione reciproca tra ragion di stato e mercato, riflettendo questo rapporto nella dialettica libertà/sicurezza. I teorici neoliberali dissero, poi, che non si governa a causa del mercato ma per il mercato. Ciò significa che la dottrina neoliberale nelle sue molteplici forme decretò, invece, l’autonomizzazione del mercato rispetto alla sfera giuridica, incentrandosi sull’obiettivo duplice che collegava tra loro governo del vivente e governo dell’economia. L’espressione più lampante di tale convergenza si manifestò nella teoria del capitale umano di G. Becker10 e nella definizione dell’individuo come homo oeconomicus, imprenditore di se stesso. 10 G. S. Becker, Il capitale umano, trad. it. di M. Staiano, Laterza, Roma - Bari, 2008.

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Infinitamente finiti

Nel presente lavoro tali tematiche sono state indagate con riferimento ai recenti sviluppi in campo bioeconomico. L’intento che ha ispirato tale approfondimento riguarda l’interesse per l’attualizzazione delle analisi foucaultiane con esplicito riferimento alla necessità di conciliare il filone di studi antropologico/ archeologico e quello biopolitico/oikonomico. In particolare, tenendo fermi i due orizzonti di ricerca che fanno capo ai macro - concetti di lavoro e di vita, si è cercato di approfondire le ricadute che le trasformazioni bioeconomiche hanno sulla condizione antropologica dell’uomo. Esse appaiono assolutamente evidenti nel contesto dell’economia di mercato, del capitalismo cognitivo e del lavoro flessibile. Il riferimento è anche al ruolo economico che importanti case farmaceutiche, lobbies di potere, multinazionali o corporations che operano nel settore genetico, biotecnologico, chimico, alimentare hanno nella gestione e nel monopolio delle scoperte scientifiche che fanno capo al comune patrimonio genetico dell’umanità o alle risorse naturali del pianeta. Un grande problema sul tappeto riguarda sicuramente la questione dei brevetti e delle licenze, estese anche alle scoperte scientifiche di linee genetiche, componenti corporee, cellule umane o microorganismi. Quali sono, se esistono, i limiti allo sfruttamento economico ed alla manipolazione tecnoscientifica del patrimonio genetico dell’umanità o delle risorse naturali, degli alimenti e delle piante? Quale ruolo possono svolgere gli stati dinnanzi a poteri economici così forti e diffusi a livello globale? E quale può essere, di conseguenza, lo spazio di autonomia, di libertà e d’azione del singolo? Quest’ultimo interrogativo fa riferimento soprattutto ai processi di soggettivazione ed alla possibilità, come ha recentemente mostrato N. Rose11, di considerare il campo delle pratiche bio - mediche e genetiche, le scelte procreative ed il potenziamento delle attitudini fisiche ed intellettuali dell’uomo come spazi nei quali è possibile, nonostante i rischi, valorizzare la capacità di scelta individuale e ricreare spazi di socializzazione e di pressione. Questa battaglia, naturalmente, comporta molti rischi, primo tra tutti quello relativo alla penetrazione di eteronome istanze di potere nei processi di soggettivazione ed, in secondo luogo, la nascita di un’etica individualizzata e pervasiva del rischio. Rischio economico e rischio bio - genetico, infatti, si saldano tra loro in un connubio pervasivo a livello individuale e diffusivo a livello globale. Da una parte, infatti, si parla, sulla scorta della riflessione di U. Beck12, dell’esistenza di una società del rischio diffusa a livello globale nella quale la rischiosità sociale, ambientale, bio - genetica, alimentare si esprime mediante dinamiche potenziali, sempre possibili altrimenti ed immerse in processi ad elevato grado di contingenza (che, dunque, richiama11 Cfr. N. Rose, La politica della vita, trad. it. di M. Marchetti e G. Pipitone, Einaudi, Torino, 2009. 12 Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it. di G. C. Brioschi, M. Mascarino, Carocci, Milano, 2000.

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Introduzione

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no politiche securitarie intensive ed estese micro - fisicamente); dall’altra, si parla sempre più dell’individualizzazione dei rischi che, dopo il tramonto della stagione del Welfare State e delle politiche di assistenza pubblica, ricadrebbe in termini sempre più invasivi sul singolo, chiamato a farsi carico dei contributi assistenziali, previdenziali, pensionistici, affidandoli al risparmio privato ed ai meccanismi incerti ed evenemenziali della finanziarizzazione. Ma il rischio si indirizza anche in termini più generali sui processi di soggettivazione, generando molteplici forme di controllo e direzione seduttivo - stimolante rispetto alle dinamiche del desiderio, investite dai numerosi stimoli bioeconomici del mercato. È proprio tale intreccio che caratterizza la paradossalità e la capillarità della microfisica del potere moderno. Il grande merito della riflessione biopolitica è di aver mostrato come il potere penetri nei corpi attraverso processi non soltanto oggettivanti, repressivi ed alienanti ma anche desideranti, generando un controllo - stimolo che si esprime nei processi di soggettivazione. «Ciò che ci incatena può anche liberarci», era solito dire Foucault a quanti sostenevano il punto di vista nichilistico o remissivo. Per contrastare tale microfisica bisogna prima conoscere il potere, le sue caratteristiche, i suoi meccanismi di circolazione, i dispositivi e gli apparati di sapere attraverso cui esprime il proprio discorso di verità, partendo dalla consapevolezza che esso non è omogeneo o cristallizzato esclusivamente negli apparati istituzionali ma è un rapporto di forza, continuamente ribaltabile. Il potere circola attraverso i corpi ed ha una caratteristica dimensione reticolare. Questa riflessione si presta in modo particolare per descrivere il discorso di potere della bioeconomia moderna. La teoria delle risorse umane e l’etica d’impresa estesa anche all’agire economico individuale mostrano, infatti, il radicamento microfisico e reticolare dei rapporti di potere economici. Ciò riguarda la dimensione del capitalismo cognitivo o capitalismo dell’immateriale nel quale è la risorsa conoscenza, nelle sue molteplici gradazioni e livelli di diffusione, a divenire la componente fondamentale del valore. Non si tratta semplicemente di un paradigma che relega il valore d’uso materiale dei beni ad un’economia subordinata, delocalizzata nei paesi del terzo mondo e marginale rispetto ai centri decisionali del potere. Si tratta soprattutto di un modello economico che tende alla trasformazione di qualsiasi risorsa immateriale, come la conoscenza, il saper fare, le capacità personali, le componenti caratteriali, emotive e relazionali degli individui in principio di valorizzazione economica. Oltre a queste dimensioni, esistono anche altri beni immateriali che divengono oggetto di illimitato sfruttamento economico: si tratta delle cosiddette “esternalità”, cioè tutto ciò che, essendo difficilmente appropriabile, sfuggiva, almeno fino ad un recente passato, ad una capillare logica di sfruttamento economico. Si fa riferimento soprattutto

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Infinitamente finiti

alle risorse ambientali, ai saperi comuni, al patrimonio genetico, ecc. La logica dell’immateriale trasforma queste risorse, prima pubbliche o liberamente accessibili, in risorse private, protette da brevetti e licenze, sottoposte a barriere di accesso e di delimitazione. È, dunque, il valore del “comune” ad essere messo in discussione e limitato. L’economia dell’immateriale diviene, infatti, un’economia dell’accesso, un sistema in cui i diritti di proprietà su beni e servizi vengono progressivamente soppiantati da contratti di accesso che pongono limitazioni temporali o funzionali allo sfruttamento non solo di beni e servizi ma anche di spazi individuali e collettivi. Inoltre, a fronte della delimitazione e della privatizzazione degli spazi, dei beni e delle risorse collettive nasceranno nuovi criteri di socializzazione e valori immateriali. Complesse forme di socialità si formano nelle communities tematiche, nei gruppi di acquirenti che si riuniscono intorno ad un marchio o ad un prodotto, nei legami generati da processi di fidelizzazione. Ciò che tiene uniti i gruppi, in questo caso, è il valore immateriale del marchio o del prodotto e lo stile di vita e di consumo che ad esso si associa. Il marchio rappresenta, infatti, l’apice della logica immateriale del capitalismo cognitivo; esso definisce il valore del prodotto e veicola tutta una serie di contenuti, promesse, desideri che ne definiscono il “carattere”. Si comprende l’importanza che i processi di socializzazione ed il valore simbolico del logo ha sulla vita individuale e sulla formazione dei gusti, degli orientamenti, degli stili di vita e delle scelte personali del soggetto. A differenza di una normale merce, il logo racchiude un mondo, propone dei valori e degli orientamenti etico - sociali che entrano pienamente a far parte dell’orizzonte esistenziale dell’individuo. Ma non bisogna pensare che la direttrice di penetrazione sia unidirezionale. Non è soltanto l’immaterialità del marchio che plasma la vita individuale ma anche quest’ultima che si trasforma ad immagine e somiglianza di quello. Testimonianza ne sono tutte quelle tecniche moderne di marketing, come il marketing virale o il cool hunting che chiamano direttamente in causa la libera iniziativa individuale, la creatività, l’affettività, la capacità relazionale ed emotiva dei soggetti o anche le caratteristiche fisiche e sociali per promuovere la valorizzazione e la commercializzazione del prodotto di marca. La condizione antropologica dell’individuo consumatore si confonde, inoltre, con quella dell’individuo produttore. È nelle dinamiche microfisiche della bioeconomia moderna che l’infinita finitudine dell’umano si manifesta, trasformandosi in precarietà esistenziale. Vita e lavoro si indeterminano, divengono talmente coappartenenti da non distinguersi più. Ciò significa, non soltanto che i tempi di lavoro e quelli di vita si confondono; ma anche che l’imperativo produttivo ed i dispositivi di lavoro flessibile condizionano interamente le scelte, i ritmi, gli interessi e le condizioni psico - fisiche

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del lavoratore. I più recenti studi sulla bioeconomia, infatti, hanno sottolineato la profonda influenza che la precarizzazione dei percorsi lavorativi e formativi ha sulle condizioni materiali di vita degli individui coinvolti. L’interrogativo principale che ha mosso nel presente lavoro l’approfondimento delle dinamiche bioeconomiche, facenti capo al capitalismo dell’immateriale ed all’economia flessibile riflette proprio questo punto di vista chiedendosi quali conseguenze simili orizzonti bioeconomici hanno sulla condizione antropologica dell’uomo. L’ipotesi di partenza è che la precarietà non si rifletta solo sulla sfera economica e materiale ma determini un generale impoverimento antropologico. Ciò per il venire meno o per la sostituzione di stimoli simbolico - culturali con stimoli consumistico economici e per la profonda pervasività della logica di valorizzazione capitalistica sulle componenti emotive, caratteriali ed affettive. Naturalmente tale riflessione non può prescindere da un’attenta analisi dei processi di soggettivazione attraverso cui gli individui agiscono e si costruiscono nel mercato come nella società. Mai come in questo caso è opportuno porre l’accento sulla profonda paradossalità e coapparteneza tra direttrici di soggettivazione e di oggettivazione. La penetrazione degli imperativi e degli stili di vita bioeconomici nel corpo non è effetto esclusivo di eterodipendenza ed alienazione; l’homo oeconomicus costruisce se stesso attraverso molteplici dispositivi di soggettivazione e conformando le proprie “attitudini”, conoscenze e caratteristiche agli obiettivi performativi del mercato. Alto grado di competitività, dedizione esclusiva al lavoro, flessibilità orizzontale e verticale, disponibilità illimitata, attitudine a farsi carico dei rischi, spiccate capacità relazionali e comunicative, spirito di sacrificio: sono queste alcune delle caratteristiche personali ed attitudinali richieste nel mondo del lavoro. E tale richiesta si fonda, inoltre, su una semantica bio - culturale molto complessa in cui la valutazione dell’idoneità si compone sia di un riferimento genealogico - naturale che di uno pedagogico - acquisitivo. Ad esempio, nella valutazione della “personalità” del lavoratore confluiscono sia criteri che mirano a conoscere le attitudini e le “predisposizioni” caratteriali, psicologiche, emotive e fisiche del soggetto che le capacità di apprendimento, adattamento e gestione del rischio. Queste sollecitazioni entrano a far parte degli orizzonti esperienziali e vitali del lavoratore spesso con esiti destrutturanti. R. Sennett13 ha parlato molto chiaramente di questa dimensione di precarietà esistenziale che si riflette nella maggior parte dei casi nell’impossibilità per il soggetto di formulare un racconto coerente di vita. È la continuità e la coerenza identitaria dei racconti individuali e collettivi che si destruttura insieme agli spazi d’espressione e di relazione nei quali è possibile condividere significati simbolici comuni. La continuità delle 13 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, trad. it. M. Tavosanis, Feltrinelli, Milano, 2003.

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lotte e dell’azione risulta frammentata e dispersa ma, come sottolinea Foucault, è proprio da questo aspetto che si può provare a ripartire attraverso l’effetto di spiazzamento generato dalla creatività e della ricchezza differenziale dei processi di soggettivazione o dei “modi di vita” che l’individuo può esprimere. Per comprendere quest’ultimo aspetto è necessario fare riferimento alla teoria della soggettività esposta da Foucault nelle opere sulla storia della sessualità e negli ultimi Corsi al Collège de France14. Ritengo che le tesi che scaturiscono da tali scritti riallaccino circolarmente la riflessione archeologica e si propongano di reinterpretare l’analisi dei dispositivi e degli apparati di sapere/potere alla luce di un’innovativa teoria del soggetto. Il filosofo francese sembra, infatti, voler ripartire dalla domanda lasciata aperta da Le parole e le cose: che fisionomia assume il soggetto dopo l’annuncio della morte dell’uomo? Inutile dire che le risposte abbozzate rappresentano un tentativo, sicuramente non compiuto, né esaustivo di spiegazione, tuttavia indicano una importante direttrice di riflessione che riguarda non soltanto la ricostituzione di una certa centralità del discorso di verità antropologico ma anche la proposizione di un nuovo ruolo per la filosofia. Nei corsi degli anni Ottanta al Collège de France, infatti, Foucault sviluppa un percorso complesso che si conclude con un ritorno, apparentemente nostalgico, alla cultura classica greca, ellenistica e romana, alla ricerca di quelle tecnologie del sé che consentono all’individuo di modificare i processi di soggettivazione/oggettivazione riaccentrandoli in termini etici, estetici e politici. In sintesi, l’analisi dei testi e delle pratiche classiche consente di problematizzare i discorsi di verità moderni alla luce della riproposizione di un differente nesso filosofia/spiritualità ed etica/ politica. Le tecnologie della cura di sé, come la paraskeuē (equipaggiamento, dotazione), l’esame di coscienza e la parrēsia (parola vera, parola rischiosa) definiscono un rapporto tra il soggetto e se stesso che si discosta sia dalla relazione puramente conoscitivo/raziocinante sia dal dialogo con l’interiorità, intesa nel senso moderno del termine. Non esiste infatti, una realtà ‘più pura’ o un’origine innata con la quale l’individuo deve entrare in comunicazione, né una ragione che lo doppia, rendendolo contemporaneamente soggetto ed oggetto di una conoscenza finita. L’importanza delle tecnologie del sé risiede proprio nella possibilità di definire un dialogo tra il soggetto e se stesso e tra il soggetto e gli altri che si strutturi nella relazione eto - politica. Bisogna, infatti, governare bene se stessi per governare 14 Si vedano M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano, 2007, M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982 - 1983), trad. it. di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano, 2009 e M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1984), a cura di F. Gros e M. Galzigna, Feltrinelli, Milano, 2011.

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gli altri, agendo nel contesto politico e nelle istituzioni. E, come detto, in questo caso è l’imperativo etico e politico dell’epimeleia heautou (cura di sé) e non dello gnothi seautón (conosci te stesso) a determinare i processi di soggettivazione. Curarsi di se stessi significa, in primo luogo, ricostituire un legame tra pensiero ed azione per poter agire e scegliere liberamente aprendo il “dentro” al “fuori”. In questo caso, dunque, la libertà d’azione scaturisce dall’apertura di uno spazio in cui è possibile pensare non nella forma dell’autoriflessione ma in quella della contraddizione e del dialogo/scontro con se stessi. Se i processi di soggettivazione sono delle dinamiche che producono un continuo dialogo con se stessi ed una creativa messa in discussione, essi possono anche generare crisi, vertigine, senso di smarrimento. Il soggetto rivive sempre in molteplici forme. Il termine con cui Foucault era solito esprimere tale condizione creativo/problematica dispiegata dai processi di soggettivazione è “modi di vita”. Essi rappresentano le differenti istanze che si creano, nella loro diversità, nel loro incontro/scontro, nella sfera individuale e sociale. Indicano il lavorio incessante del soggetto con se stesso così come la coesistenza di differenti orizzonti esperienziali e vitali. Ma indicano anche la libertà creativa della vita ed i rischi cui essa va incontro, la diversità di punti di vista, di opinioni, di gusti, di appartenenze, di identità sociali, culturali, politiche, religiose, sessuali, ecc. Pensare al di fuori degli schemi rigidi del soggetto di conoscenza significa, dunque, accettare il mutamento e la trasformazione come orizzonte vitale ed identitario, significa ridiscutere le dinamiche relazionali che investono il “dentro” ed il “fuori” del pensiero e dell’azione. Tutto ciò comporta un orizzonte davvero problematico e rischioso, in primo luogo perché implica una sfida vertiginosa contro i presupposti identitari ed antropologici che consideriamo originari o innati. Superare il paradosso è impossibile ma è possibile, invece, viverlo e raccontarlo. È possibile, inoltre, trasformare questo in un atteggiamento limite, in un ethos filosofico e politico. Politico in quanto filosofico e filosofico in quanto politico. L’atteggiamento limite, infatti, è una propensione che spinge il soggetto a problematizzare costantemente il proprio “dentro” ed il proprio “fuori” ma può anche essere definito come un punto di articolazione tra attrazione e distanziamento che fa emergere in primo piano lo spazio del “tra”. Esso può essere inteso come spazio relazionale e come spazio d’azione. Ma, sul versante del pensiero filosofico, è anche un’interrogazione sul presente. La filosofia diviene un’ontologia critica di noi stessi o del presente, cioè una forma di riflessione sull’attualità e sul ruolo o la responsabilità che l’agire individuale e collettivo deve avere nell’indirizzare i fenomeni sociali. Problematizzare significa, infatti, interrogare il presente ed essere attivamente coinvolti nelle sfide che esso genera.

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Si tratta di aprire nuovi spazi di discussione, di incontro e di dialogo ma anche di sottolineare il ruolo fondamentale che il singolo o la collettività possono giocare negli assetti di potere/sapere attuali. I cambiamenti bioeconomici che investono il soggetto non sono unidirezionali ed inevitabili; l’uomo può e deve sceglierne la direzione, ritagliandosi degli spazi di libertà non delimitata, non asservita alla semantica del mercato o dell’evoluzione tecnologica. Ciò sia recuperando delle forme di scambio che si basino sulla logica del dono e non su quella del profitto, sia promuovendo i diritti fondamentali della persona ed i principi di eguaglianza ed inclusività sociale. A tal proposito in questi ultimi anni si è accresciuto l’interesse per la tematica dei beni comuni e della libertà d’accesso alle risorse fondamentali. Tale dibattito non è rimasto sul piano prettamente accademico ma ha visto l’attiva partecipazione della società civile. La battaglia intorno ai beni comuni rappresenta un valido esempio di come la logica bioeconomica possa essere ribaltata in senso propositivo e di come i processi di soggettivazione possano essere espressi in una differente visione della vita e dei bisogni fondamentali della persona che si svincoli dalla logica privata e privatistica che la globalizzazione economica ed il capitalismo finanziario le impone. Ciò significa che i beni comuni come l’acqua, il cibo, la conoscenza non sono soltanto delle risorse fondamentali per la vita dei cittadini che devono essere rese accessibili a tutti, senza barriere o limiti; la battaglia per i beni comuni presuppone una trasformazione antropologica ed etica che tocca la definizione della vita e le dinamiche oikonomico - gestionali dei dispositivi di potere/sapere economico. Autori come Rodotà, Mattei, Pennacchi sottolineano l’importanza di recuperare il significato etico, sociale e pragmatico del “comune” inteso come spazio al contempo individuale e collettivo di libertà e responsabilità nel quale l’accesso si trasformi da criterio limitativo ed appropriativo a principio di inclusione sociale ed uguaglianza sostanziale. In questi termini i beni comuni possono rappresentare un possibile campo di inversione o di ribaltamento della logica bioeconomica diffusa microfisicamente attraverso i processi di soggettivazione/oggettivazione. E ciò soprattutto in quanto ad una critica dell’astrattezza formale del soggetto di diritto o del riduzionismo biologico del soggetto d’interesse si accompagna una rivalutazione dello statuto della persona, intesa come titolare di diritti e doveri fondamentali. La dignità della persona, infatti, si pone alla base di un processo di costituzionalizzazione che accentra antropologicamente e giuridicamente l’attenzione sulla concretezza, la relazionalità e l’unitarietà della definizione di vita umana contro la tendenza bioeconomica alla frammentazione ed alla precarizzazione dei percorsi esistenziali. Ma la riflessione sui beni e sulle risorse fondamentali si intreccia più in generale con la tematica del comune e con i complessi rapporti di potere che si istituiscono nella triangolazione pubblico - comune - privato. A

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fianco a punti di vista che vedono nel comune l’alternativa netta rispetto al pubblico ed al privato (U. Mattei) vi sono altri contributi che parlano, al contrario, di una ridiscussione di tale triangolazione nella direzione di un rafforzamento della sfera pubblica contro gli effetti de-socializzanti della privatizzazione/liberalizzazione delle politiche welfaristiche e dello stato sociale (L. Pennacchi, S. Rodotà, R. Esposito). In conclusione, vorrei sottolineare che questo libro si presenta come un lavoro di scavo archeologico e di ricostruzione genealogica dei poteri/saperi bioeconomici ma anche un tentativo di aprire delle possibili direttrici di analisi per un ribaltamento del dispositivo oikonomico - gestionale in termini propositivi. A ciò mira la ricostruzione che, seppur sinteticamente, ho ritenuto giusto effettuare negli ultimi due capitoli. Etopolitica e biodiritto rappresentano due possibili ambiti di ‘liberazione’ e di critica rispetto ai vincoli spersonalizzanti della bioeconomia contemporanea.

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1. ANTROPO - OIKONOMIA

1.1. Il concetto di oikonomia

Oikonomia (oikos - nomos) significa “amministrazione della casa”. Il riferimento oikonomico si ritrova già nelle opere di Senofonte e Platone. L’Economico di Senofonte può essere considerato il primo vero trattato sul concetto di economia come l’arte maschile di governare la casa e come dimensione del comando1. Da ciò deriva l’accezione etico - aristocratica che viene attribuita al termine: l’economia è l’arte del limite, indica, cioè, i confini etici, le regole, le virtù che devono improntare l’attività di gestione ed amministrazione dei beni ed il guadagno. Ciò fa sì che l’oikonomia sia intesa sia come tèchnē che come episteme. Nella Repubblica di Platone, invece, il concetto di oikonomia è difficilmente distinto dalla crematistica ed ambedue queste dimensioni sono contrapposte alla filosofia, considerata come l’unica fonte della conoscenza2. Nel pensiero platonico la sfera dell’oikos non dovrebbe esistere e nella Repubblica se ne propone addirittura l’abolizione in quanto contraria ai valori ed agli interessi pubblici. Il testo delle Leggi è l’unico nel quale Platone si accosta alla tematica dell’amministrazione della casa. Egli, tuttavia, come già Senofonte, associa l’oikonomia al potere del padrone e la considera genericamente come l’arte del comando nei confron1 A Senofonte si fa risalire la prima stabile differenziazione tra i termini oikia ed oikos. Con il primo concetto, maggiormente utilizzato dall’autore, si intendeva la dimora in senso stretto, limitato alla casa ed al nucleo che la abita. Con oikos, invece, si intendeva l’accezione più estesa di casa, comprendente l’insieme delle relazioni tra uomini liberi, donne, bambini e schiavi. Con questo termine si faceva riferimento anche alla proprietà di beni inanimati. Cfr. Senofonte, Economico, trad. it. di F. Roscalla, Rizzoli, Milano, 1991. 2 Cfr. Platone, La Repubblica, trad. it. di F. Sartori, Laterza, Roma - Bari, 2006.

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ti degli schiavi, dei figli, delle donne. Si può dire che nelle opere platoniche è presente sia un’accezione negativa dell’oikonomia, associata alla crematistica, sia un’accezione positiva che si basa sulla conoscenza della matematica e mira alla realizzazione dell’ordine e all’armonia domestica. La distinzione tra crematistica ed oikonomia è presente anche nel libro I della Politica di Aristotele3 che contiene la dottrina dell’origine naturale dello stato, lo studio della famiglia e del rapporto con gli schiavi e l’analisi della vita economica. Analizzando i fondamenti dell’arte di acquisire ricchezze (crematistiké), Aristotele rileva che i beni economici possono essere ottenuti in due modi: attraverso il lavoro agricolo che ricava dalla natura quanto è necessario alla sopravvivenza o dall’attività degli altri uomini, cioè mediante la vendita a fini di profitto e d’usura che consente di accumulare grandi ricchezze. Questa seconda fonte di guadagno, non essendo naturale, è considerata illegittima. Dunque, lo scambio economico è legittimo soltanto quando avviene ‘secondo natura’, non pervenendo ad un profitto ma alla soddisfazione di bisogni fondamentali. La famiglia, cellula fondamentale della riproduzione della specie e nucleo dell’attività oikonomica, è collocata in quest’ordine naturale. Ed è ancora con un fine (telos) naturale ed organico che Aristotele descrive il formarsi dello stato tramite l’aggregazione di associazioni via via più ampie, come l’uomo, la famiglia, il villaggio ed infine la polis. Per l’uomo la società è condizione di sopravvivenza e la polis, nella sua forma compiuta, di perfetta realizzazione del fine naturale. Ma, nonostante siano inseriti in un medesimo ordine di rapporti naturali, il telos del singolo si distingue da quello della polis. Ma è nel trattato dello pseudo Aristotele sull’Economia che si pone in maniera più netta la distinzione tra governo della casa ed amministrazione della polis. L’oikonomia, a differenza dell’attività nella sfera pubblica essenzialmente politica, è caratterizzata dall’attitudine gestionale - organizzativa4. Sia nell’Economico che nella Politica, inoltre, si utilizza l’aggettivo sostantivato oikomiké5 per indicare tutte quelle attività disposizionali attraverso le quali gli uomini si procurano quanto è necessario alla sopravvivenza o assumono decisioni volte alla risoluzione di problemi contingenti e specifici. Il paradigma oikonomico, dunque, si preoccupa della “giusta disposizione” delle cose, delle persone, soprattutto con riferimento alla loro relazione. Si parla in questo caso di tre tipi di relazioni che si sviluppano nel contesto dell’oikos: relazioni dispotiche (padrone - servo), relazioni filiali (genitore - figli) e relazioni 3 Cfr. Aristotele, Politica; Costituzione degli ateniesi, a cura di R. Laurenti, Laterza, Roma - Bari, 1972. 4 Nell’Economico Aristotele ed i suoi discepoli sottolineano questo aspetto, parlando di un paradigma gestionale che comincia a differenziarsi da uno politico. 5 Aggettivo sostantivato utilizzato da Aristotele per indicare ciò che serve a realizzare la ‘vita buona’.

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1. Antropo - oikonomia

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gamiche (marito - moglie). Ma l’oikia è associata anche ad un tipo di governo monarchico che, a differenza di quello democratico (polis) concentra il potere nelle mani di uno solo anziché di molti. L’ambito democratico della polis, dunque, si distingue da quello privato dell’oikos essendo caratterizzato dal principio di uguaglianza tra capi famiglia, ognuno dei quali ha il controllo gestionale del proprio nucleo familiare. Ciò ci spinge a considerare la duplice natura separativa/connettiva del paradigma oikonomico, il quale da una parte, soprattutto nell’antichità classica, indica un principio di separazione tra sfera pubblica e sfera privata, ma dall’altro determina la precondizione di un’articolazione della prima a partire dalla seconda. Se i “molti” che governano in una situazione di eguaglianza sono i “padri”/“monarchi” che hanno il controllo sulla sfera familiare, ciò significa che l’autonomia del pubblico dipende ed è in qualche modo fondata su un certo ordine organico e gestionale che deve essere assicurato nella sfera dell’oikonomia. H. Arendt sottolinea l’importanza di quest’aspetto privato nell’antichità classica come fondamento dalla dinamica pubblica ed associa la dimensione disposizionale - gestionale della sopravvivenza. L’oikonomia si fonda, dunque, sulla gestione delle relazioni naturali che prendono corpo all’interno della famiglia. Parlando di “relazioni naturali” si intende mettere in luce la sfera della sopravvivenza come ambito in cui predomina la necessità. Come dire, ciò che muove le dinamiche ordinativo - gestionali - oikonomiche è la necessità che si proietta nell’esistenza familiare. Vivere nella sfera dell’oikonomia significa in primo luogo garantire l’esistenza attraverso la retta disposizione delle cose e dei corpi. Ma ciò significa anche che la vita nell’oikos deve essere costantemente inquadrata nella sfera del bisogno, della necessità, nel legame che costitutivamente vincola l’esistenza alla necessità della propria conservazione. È possibile, dunque, affermare che il paradigma oikonomico è anche un paradigma conservativo che eleva la conservatio vitae a criterio ordinativo domestico. Ciò dimostra che l’esistenza assume forma dalla possibilità di agire conservativamente, prendendo temporaneamente le distanze dalla necessità. La vita dell’animale - uomo è vincolata alla necessità di soddisfare i propri bisogni primari. Ciò genera l’agire oikonomico che è essenzialmente inteso come lavoro, cioè dispendio fisico di energia. A tal proposito H. Arendt sottolinea l’importante distinzione tra il lavoro del corpo e l’azione delle mani6. Il lavoro è un’attività che si annulla nella soddisfazione del bisogno e che mira all’incorporazione fisica della natura. Al contrario, l’azione fa dell’animale un essere qualificato e del dispendio energetico - lavorativo un’attività che consente di fissare il mondo, di costruire tecnicamente e simbolicamente tutto ciò che ci circonda. Il problema fondamentale che mo6 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano, 1997.

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tivava nell’antichità classica la distinzione tra sfera privata e pubblica risiedeva nella necessità di tenere separato il lavoro dalla tèchnē, la sopravvivenza dalla vita qualificata, il bisogno dalla libertà. Nel mondo greco l’uomo libero viveva grazie al lavoro degli schiavi. L’esistenza umana, dunque, per poter essere considerata qualificata doveva presupporre una separazione, una divisione chiara tra schiavo ed uomo libero (o anche tra uomo e donna, tra padre e figlio). La soddisfazione dei bisogni attraverso il lavoro veniva considerata una condizione talmente infima per l’uomo libero da dover essere respinta verso la “regione” del sub - umano. La libertà degli uni (padri, uomini liberi) era fondata sul lavoro di coloro che dovevano garantire la sopravvivenza (schiavi, donne, figli) affinché si potesse costruire, in seguito, una vita qualificata. Nell’antichità classica, dunque, il paradigma oikonomico era un paradigma gestionale che mirava alla fissazione delle giuste e “convenienti” relazioni familiari al fine di porre una separazione tra nuda esistenza e vita qualificata7. Ricorrendo alle tesi arendtiane, possiamo sottolineare che la vita activa, cioè la sfera delle relazioni politiche che univano tra loro soggetti caratterizzati dall’eguale libertà di agire, doveva necessariamente presupporre una separazione materiale e simbolica tra pubblico e privato, proprio al fine di garantire l’esistenza e l’autonomia di una sfera pubblica. La vittoria sulla necessità ha per obiettivo l’assoggettamento dei bisogni vitali che coartano l’uomo tenendolo in loro potere. Ma questa signoria può essere realizzata soltanto dominando e coartando gli altri, i quali, costretti a vivere in schiavitù, sollevino gli uomini liberi dalla coercizione della necessità. L’uomo libero, cittadino di una polis, non è né coartato dalle necessità naturali della sopravvivenza né sottoposto alla signoria imposta dall’uomo. Non solo non può essere uno schiavo: deve anche possedere degli schiavi ed esserne signore. La libertà della vita politica comincia dopo che il dominio abbia assoggettato tutte le necessità elementari del puro vivere; quindi dominio e soggezione, ordine ed obbedienza, governare ed essere governati sono condizioni preliminari alla vita della sfera politica proprio perché non ne sono il contenuto8.

Il paradigma oikonomico, quindi, consentiva di articolare tra loro relazioni naturali e politiche, garantendo, sulla base della distinzione tra cittadini liberi e schiavi, sia l’interrelazione che la separazione tra pubblico e privato. A questo livello la base della relazione oikonomica è la garanzia di nutrimento, come ha ben compreso E. Canetti9. La relazione di domesticazione che sospende la cogenza immediata della morte istituisce il rapporto di potere come relazione 7 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995. 8 H. Arendt, Tra passato e futuro, trad. it. di T. Gargiulo, Garzanti, Milano, 1991, pp. 162-163. 9 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano, 1997.

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di forza che coinvolge individui “privati”. L’oikonomia è una forma di potere che dilaziona o sostituisce il comando di fuga biologico con la domesticazione. L’assoggettamento oikonomico, tuttavia, non differisce di molto dalla minaccia di morte. Colui che fornisce il nutrimento possiede il diritto di vita o di morte su colui che è in una condizione di dipendenza. Si può anche sostenere che il paradigma della domesticazione consente di ottenere la massima coercizione ed il massimo asservimento possibile sacrificando la violenza immediata del comando alla necessità conservativa che investe le relazioni di potere. Anche il termine domesticazione (o addomesticamento) richiama la semantica della casa; la relazione nutritiva che consente a chi comanda di esercitare un potere di vita e di morte si basa sulla necessaria riconduzione dell’esistenza carente alla sfera dell’oikos, luogo privato del lavoro e del consumo. Tale domesticazione, con la garanzia di nutrimento che porta con sé, è fondativa dei rapporti di potere che si esercitano, a vari livelli, sulla scena pubblica. Il pubblico risulta fondato su un certo ordine gestionale che deve essere assicurato sulla base del paradigma oikonomico. Vivere nella sfera dell’oikonomia significa sopravvivere, garantire la retta disposizione delle cose, dei corpi, delle esistenze. Questa nuda vita (Agamben) è il termine di paragone che istituisce sia relazioni oppositive che connettive. Ciò perché da una parte la nuda vita deve rimanere separata, materialmente e simbolicamente, dalla vita politicamente qualificata; dall’altra parte, tuttavia, come sottolinea Aristotele, essa costituisce il fondamento fisiologico/organico a partire dal quale è possibile costruire la vita politicamente qualificata e persino l’azione libera. Da quanto detto si comprende, allora, che l’oikonomia rappresenta il confine tra pubblico e privato, tra agire e lavoro, tra uomo e sub - uomo, tra libertà e necessità in quanto rappresenta la paradossale articolazione tra dimensione naturale e dimensione politica. Il paradigma oikonomico, gestionale e conservativo, è ciò che consente di proiettare l’esistenza naturale nella sfera del politico e, viceversa, di radicare il politico nella dimensione biologico/conservativa. Il paradigma oikonomico consente il transito e l’articolazione da una sfera all’altra. Parlando di articolazione non intendo semplicemente la dimensione connettiva; nell’epoca classica il paradigma gestionale - conservativo si strutturava sulla possibilità di mantenere la separazione tra le due sfere. Tale differenza, dunque, era la linea di confine fondamentale del politico, quella che distingueva, all’interno dello “spazio” discontinuo della natura e dell’esistenza, il “luogo” qualificato della polis. Il confine tra l’una e l’altra passava per l’esistenza sospesa (nuda vita) degli schiavi, delle donne, dei figli. Si può addirittura sostenere che questi individui con la loro impoliticità incarnavano in termini visibili e materiali il confine oikonomico tra vita e morte, tra rapporti di forza e relazioni di potere. In altre parole il paradigma oikonomico di articolazione/separazione tra pubblico e privato nell’antichità

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Infinitamente finiti

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classica si configurava come un limite esterno che consentiva di tracciare la linea di confine che distingueva lo “spazio” continuo della natura ed il “luogo” qualificato della polis. Secondo M. Foucault, l’oikonomia rappresenta ancora oggi il luogo privilegiato nel quale rintracciare le direttrici della tanto discussa relazione congiuntiva/ disgiuntiva tra pubblico e privato. In ottica foucaultiana tale distinzione viene a coincidere con la dialettica sovranità/governamentalità. Ma qualcosa cambia, secondo il filosofo francese, alle soglie dell’età moderna. Infatti: (…) quel che si potrebbe chiamare soglia di modernità biologica di una società si colloca nel momento in cui la specie entra come posta in gioco nelle sue strategie politiche. Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele, un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente10.

Sembra, dunque, che si sia determinato un cambiamento dello statuto antropologico - esistenziale dell’uomo che va di pari passo con un cambiamento del paradigma oikonomico. Va detto preliminarmente che tale cambiamento non riguarda il concetto più generale di biopolitica. In ottica foucaultiana la biopolitica non è un fenomeno recente, indica la natura e le caratteristiche di qualsiasi relazione di potere. Ciò che Foucault mette in evidenza è la dimensione paradossale sottesa alla dinamica oikonomica che nel discorso di verità dell’economia moderna (a partire da A. Smith) si compendia nella graduale sovrapposizione tra pubblico e privato. In tal senso, ritengo che il modo più giusto per affrontare il problema dell’articolazione tra oikonomia e biopolitica sia analizzare la traiettoria genealogica che ha portato il paradigma gestionale a sovrapporsi a quello giuridico, la governamentalità economica a coincidere con la legittimità sovrana, fino a rovesciarne il rapporto. Ciò consente di individuare nell’oikonomia una chiave di lettura che, non banalizzando le differenze tra sovranità e governamentalità, rende anche conto delle continuità e delle discontinuità storiche, rivelando il fondo paradossale del discorso di verità biopolitico. Ma riconoscere ciò significa appunto mettere in dubbio le tesi che individuano nella biopolitica un tratto esclusivo della modernità. Come dice lo stesso Foucault, ciò che muta nella modernità è il “come” del potere non il chi o il che cosa11. Ciò che assume rilevanza è uno slittamento, interno al paradigma oikono10 M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 127. 11 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), op. cit.

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mico/gestionale, tale per cui quello che si configurava come un limite esterno che articolava/separava sfera pubblica e sfera privata, nella modernità diviene una soglia interna che rende paradossalmente compresenti relazioni di forza che si radicano nella sfera della conservatio vitae e rapporti di potere formalizzati nella sfera pubblica. L’oikonomia diviene, dunque, un campo di forze e di rapporti di potere nel quale si generano complessi e diversificati meccanismi di inclusione/esclusione che portano il paradigma gestionale ad indeterminarsi con quello politico. La governamentalità economica si sovrappone, fino a sostituirsi, alla legittimità sovrana. Dunque, è nell’assottigliamento e nell’internalizzazione di quel confine che distingue pubblico e privato (libertà e necessità, vita e sopravvivenza) che vanno cercate le ragioni dell’estensione del regime biopolitico - governamentale. In termini foucaultiani potremmo dire che un’anatomo - politica del corpo si articola su una biopolitica della popolazione12. Il potere che controlla disciplinarmente il corpo (anatomo - politica del corpo), che “seduce” (se - ducere: portare a sé), che alimenta (domesticazione oikonomica) è anche un potere che gestisce e governa i flussi naturali della popolazione e della specie (biopolitica della popolazione). Questi due aspetti sono unificati dall’attitudine “nutritiva”, dalle funzioni di accudimento e di cura tipiche del potere oikonomico. 1.2. Antropo - oikonomia della salute/salvezza

La società è il luogo moderno del trionfo della logica oikonomico - gestionale e della sovrapposizione biopolitica tra pubblico e privato. Infatti, è con l’emergere della società civile come sfera intermedia tra l’oikos e la polis che il paradigma governamentale ha potuto radicarsi stabilmente come dispositivo politico ed i nuovi soggetti/oggetti di tale dispositivo sono diventati la vita individuale, intesa soprattutto come corpo al lavoro/corpo che consuma, e la popolazione. Riguardo al primo aspetto si può dire che una società nella quale il paradigma oikonomico/ gestionale si estende fino a coprire la totalità delle relazioni politiche e sociali è contrassegnata dalla diffusione e dalla centralità delle categorie di lavoro/consumo. Si parla, dunque, di società di lavoratori e di consumatori. Ciò non implica che il lavoro tenda a rimanere nelle società moderne un’attività di sussistenza; esso si emancipa dalla necessità, diviene quasi completamente slegato dagli imperativi della riproduzione. Tuttavia, anche se il consumo si concentra sempre più su beni non di sussistenza, il significato che si attribuisce 12 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, op. cit.

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all’atto del consumo non si modifica di molto. Anche il consumo vistoso, infatti, è contrassegnato dalla necessità ed è percepito come irrinunciabile per la sopravvivenza. I beni di lusso divengono beni di prima necessità all’interno dei meccanismi consumistici della società di mercato. La maggior conseguenza di ciò è che viene estesa la dinamica dell’incorporazione immediata anche a beni che dovrebbero essere contrassegnati da durevolezza e permanenza. Tutto quello che è prodotto deve essere velocemente incorporato, consumato e distrutto per poter continuare ad alimentare la produzione. L’economia di mercato deve presupporre il consumo vistoso e deve estendere oltremisura le logiche desideranti per poter continuare a produrre. Ciò che non è immediatamente necessario all’esistenza diviene un bene “di prima necessità”, connotato dalla logica bio/naturale di consunzione. Ciò che è durevole deve diventare contingente e ciò che è comune, proprio. La cogenza della necessità tocca sempre più il superfluo: questa è l’altra faccia della medaglia di una società in cui il lavoro è considerato come valore fondamentale. Ma, ci si chiede, tale logica consuntivo - incorporativa come può conciliarsi con il paradigma della conservatio vitae che è a fondamento della costruzione dell’ordine sociale? La libertà oikonomica dei moderni si compendia nella creazione e nella conservazione di uno spazio di autonomia nel quale è possibile costruire un universo conosciuto e familiare. È proprio nella dimensione negativa della libertà che conservatio vitae e logica consuntivo/lavorativa si conciliano tra loro. Coloro che consumano e che lavorano per consumare sono anche coloro che percepiscono il rischio dell’esaurirsi dei perimetri rassicuranti della società e rafforzano i paradigmi securitari per preservare spazi sfaccettati di autonomia13. Questo discorso si articola su una logica che potremmo definire gestionale/ordinativa. Ma che cosa significa gestione? Si tratta di un’attività disposizionale che non si sviluppa in ambito creativo ma prettamente ordinativo. Si presuppone che gli oggetti dell’agire ordinativo siano già dati, esistenti indipendentemente dall’attività umana. Questa dunque non crea dal nulla gli oggetti che deve ordinare ma li dispone in uno spazio sulla base di determinati criteri. L’agire ordinativo poggia su un retroterra caotico che deve essere trasformato in ordine. La conservazione in questo caso non è statica 13 Si comprende immediatamente come la dimensione conservativa vada di pari passo con la logica non solo del consumo ma, più genericamente, del rischio, inteso come tutto ciò che dissolve i riferimenti stabili tra cui anche la durevolezza delle cose. Come ha ben visto Foucault (come si dirà successivamente), la libertà economica deve necessariamente presupporre una certa quantità regolata di rischio. La libertà economica produce rischio, il quale a sua volta alimenta la libertà. Questa è la logica del liberalismo dispiegato.

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ed assoluta: non si conserva lo status quo ma si perviene ad una modifica della disposizione e delle relazioni tra le cose. L’agire ordinativo riguarda la relazione tra le cose non le cose in se stesse. Tali relazioni devono essere ricondotte ad un’idea di ordine considerato “giusto” (che deriva dalla disposizione delle cose in un reticolo caratterizzato da rapporti e relazioni reciproche). Inoltre, la retta disposizione delle cose si fonda su un’idea di ordine che è inteso come equilibrio relazionale al quale viene trasferito l’attributo di naturalità pur essendo regolato per via esterna o artificiale. Il raggiungimento di tale equilibrio è determinato da scarti. Il “negativo”, l’elemento o gli elementi caotici da rimuovere per creare l’ordine devono essere posti all’interno del processo ordinativo. L’elemento dissonante produce una trasformazione che si genera dall’inclusione del negativo nel sistema da ordinare. Ma ciò solo entro certi parametri che sono considerati “normali”14. La regolazione non può ammettere elementi che sfuggono ai parametri regolativi stabiliti dalla norma. Il paradigma gestionale è, dunque, fondato su una regolazione la quale, a sua volta, si fonda su un’idea di equilibrio imperfetto o pseudo - naturale. C’è l’idea di un equilibrio naturale preesistente che deve essere mantenuto mediante la strutturazione ordinativo - gestionale degli elementi finiti. La trasformazione è non solo ammessa ma necessaria, tuttavia non deve introdurre elementi o parametri che siano considerati esterni o non adeguati alla “norma” o alla regola. La regolazione che sta alla base dell’idea di equilibrio oikonomico - gestionale, pertanto, presuppone l’esistenza di lievi oscillazioni interne intorno al criterio regolativo/ordinativo che si pone a fondamento stesso della conservazione e della riproduzione del sistema. Quest’ultimo, quindi, si modifica ammettendo un numero di combinazioni potenzialmente infinito ma entro un reticolo di elementi finiti. L’ordine oikonomico indica la giusta disposizione di elementi infinitamente finiti in uno spazio determinato. Come ha efficacemente sottolineato Foucault ne Le parole e le cose, il principio di regolazione oikonomica si intreccia strettamente con il paradigma antropologico moderno che da ora in poi definirò, con la formula sintetica, di “infinita finitudine dell’umano”. Foucault sostiene che la condizione infinitamente finita dell’uomo fa della “natura umana” l’indicatore epistemologico fondamentale su cui si innesta il paradigma gestionale - oikonomico. Nella modernità l’uomo occupa il posto del re. Ma tale sovranità non corrisponde ad una vittoria sulla finitudine umana e sui suoi limiti, quanto alla capacità di gestione del corpo e dell’esistenza biologica. Divenendo soggetto/oggetto della propria infinita fi14 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 - 1978), op. cit.

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Infinitamente finiti

nitudine l’uomo diviene garante di se stesso, responsabile della propria salute, regolatore della propria condotta. Terreno di incontro tra soggettivazione politica ed oggettivazione oikonomica è la dimensione morale. È in questa sfera che le dinamiche del controllo - stimolo si esercitano in termini anatomo - politici e bio - politici, mediando la relazione tra natura e cultura, salute biologica e condotta sociale. Al corpo individuale disciplinato corrisponde il corpo biopolitico della popolazione. Quest’ultima rappresenta il nuovo soggetto - oggetto dell’oikonomia, così come il corpo vitale ed il corpo al lavoro costituiscono il soggetto/oggetto dell’antropologia moderna. Si tratta di un paradigma che prende in carico la vita al fine di preservare, gestire, organizzare la sicurezza, la salute, la salvezza del corpo individuale e collettivo. Sintetizzando alcune tematiche che verranno approfondite nei paragrafi successivi, si possono individuare gli aspetti che compongono il paradigma antropo - oikonomico suddetto. 1. Regolazione. Il primo concetto, già in parte analizzato, è quello di regolazione/normalizzazione. Come detto, sia l’uomo che la popolazione, intesi come soggetti/oggetti delle scienze sociali e delle pratiche governamentali, tendono a realizzare la disposizione di singolarità in uno spazio “normale” o “normalizzato”. A tal proposito Deleuze ricorda anche che lo spazio normalizzato è uno spazio di enunciazione che si struttura come un campo di rapporti di forza. In questo caso la regola è “la curva che unisce tra loro punti singolari”15 e li attualizza allineandoli, facendo convergere le serie, tracciando una linea di forza che attraversa i molteplici rapporti di potere e li unifica. Ciò non senza eliminare gli scarti. Regolare significa, infatti, comporre in base ad un’unità di misura, rendere il molteplice uguale uniformando ogni punto del diagramma all’unità modello di riferimento. Nel contesto della normalizzazione disciplinare l’obiettivo della regolarità funzionale mira all’inquadramento del corpo entro lo spazio attraverso la riduzione degli scarti vitali, degli elementi disfunzionali, degli aspetti fisico - psicologici non pienamente inquadrabili nel regime disciplinare in questione. Ciò non mira solo al controllo ma anche alla trasformazione del corpo individuale in uno dei molteplici anelli di una catena o di una maglia microfisica di potere. È nel soggetto popolazione, però, che è più evidente la dinamica di riduzione degli scarti, ritagliati da flussi, trand, previsioni statistiche16. Si tratta di tutti quegli elementi che cadono al di fuori di un determinato assetto formalizzato di potere/sapere inerente gli atteggiamenti demografici, medici, epidemiologici, riproduttivi, ecc. La popolazione in questo caso è considerata come una determinante bio - naturale che mira alla funzionalizzazione del corpo sociale. 15 G. Deleuze, Foucault, trad. it. di P. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 83. 16 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 - 1978), op. cit.

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2. Metafora organico/funzionale. Un corpo funzionale è composto da apparati, organi, singole parti che si integrano tra loro concorrendo al benessere generale del sistema. Non importa tanto il corretto funzionamento di ogni parte quanto l’armonia ed il benessere generale del sistema. La funzione rappresenta il livello emergente rispetto alla strutturazione delle singole parti che compongono un organismo e presuppone un concetto di salute fondato sulla capacità del corpo di raggiungere un equilibrio che non significa perfezione assoluta ma riduzione degli scarti e normalizzazione degli elementi disfunzionali. Le funzioni equilibrate, oltre a presupporre una regolazione naturale, insita nell’organismo, devono essere indirizzate dall’esterno. La gestione o la regolazione implicano sempre l’idea di un intervento esterno che, però, deve mantenersi entro certi limiti. Dunque, un sistema ordinato deve oscillare continuamente tra auto - regolazione ed etero - regolazione e si presenta come un misto di naturalità ed artificialità. L’equilibrio naturale del sistema deve, comunque, essere presupposto ma deve anche essere considerato incompiuto, non perfetto e, dunque, regolabile, migliorabile in senso progressivo. Un equilibrio bio - naturale imperfetto è un equilibrio precario, sempre sul punto di spezzarsi, di ammalarsi, di essere minacciato. L’accezione salvifica del paradigma antropo - oikonomico fondato sull’idea di un equilibrio pseudo - naturale diviene fondamentale. Ma quanto detto presuppone anche un altro aspetto: l’esistenza del negativo deve sempre essere presupposto nel sistema che mira alla regolazione. Gli scarti che non possono o che non è necessario eliminare vengono assorbiti dal sistema o rimangono come elementi inassimilabili. In questo secondo caso, sono trasformati immunitariamente nel loro contrario oppure devono essere circoscritti come elementi disfunzionali del sistema. In ciò è implicita l’accezione conflittuale del meccanismo regolatore. La vita diviene un campo di forze, la sfera pseudo naturale nella quale si dispiega lo scontro tra parti. Tale semantica manifesta la propria continuità con il linguaggio economico. La lotta per la vita negli organismi naturali o sociali diviene un conflitto per l’accaparramento delle risorse scarse. Attraverso la lotta si cerca, quindi, di stabilizzare un equilibrio giocato sulla linea di confine della sopravvivenza. È evidente che la gestione dei mezzi che consentono di mantenere in vita un organismo racchiude un insieme di azioni che rientrano nell’accezione di oikonomia come amministrazione della casa. Dunque, il concetto di utilità fa riferimento soprattutto al lavoro dell’organismo e degli organismi per strappare alla natura quanto serve per la sopravvivenza e per il mantenimento delle funzioni vitali in una situazione di equilibrio. 3. Paradigma della manchevolezza. Tutto ciò, però, affonda le proprie radici nel paradigma della manchevolezza dell’uomo che si pone alla base sia delle teorie antropologiche che di quelle economico - politiche moderne. Ciò che si

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presenta come un difetto della natura (l’uomo secondo questo punto di vista è un animale mancato) diventa il punto di innesto delle tecnologie politiche che consentono di rendere la vita qualificata17. Il paradosso dell’umano non è solo un “posto” ma è un “presupposto” in quanto rappresenta la condizione a priori della concettualizzazione moderna di vita e di lavoro, proiezioni fondamentali dell’umanità dell’uomo nel mondo. 4. Desiderio senza oggetto. Un altro aspetto fondamentale del paradigma antropo - oikonomico della salute/salvezza risiede nella complessa paradossalità desiderante di un volere che diviene sempre più vuoto, privo di oggetti del desiderio adeguati. Se, infatti, è caratteristica specifica della dinamica desiderante di essere infinita ed inesauribile è anche vero che la volontà diviene sempre più astratta e tende a non coincidere più con il singolo desiderio. La differenza schopenhaueriana tra volontà e volizione è fondamentale per comprendere gli sviluppi degli atteggiamenti iper - desideranti del moderno agire economico (fenomeno del consumo vistoso)18. Ad un desiderio declassato a volizione, cioè ad un meccanismo di stimolo - risposta, corrisponde un oggetto ultimo che è il volere stesso, inaccessibile all’uomo. Il paradosso del desiderio, amplificato dall’economia moderna, consiste nel volere la volontà, nel desiderare di desiderare. Desiderare diventa, dunque, un processo ricorsivo che perde di vista gli oggetti del desiderio19. Si finisce, in questo modo, per volere il proprio stesso desiderio, volersi come esseri desideranti, sempre insoddisfatti dalla soddisfazione della singola volizione contingente. La volontà diviene in tal modo trascendente ed il desiderio privo dell’oggetto si trasforma in una foga di consumo e di appropriazione che non lascia dietro di sé nulla e che non riesce, comunque, a soddisfare, neanche parzialmente, la tensione desiderante. La sparizione degli oggetti del desiderio è visibile nei complessi meccanismi dell’economia cognitiva (definita anche economia dell’immateriale) nella quale il marchio è l’unico elemento in grado di definire il valore di una merce le cui caratteristiche fisico - materiali passano decisamente in secondo piano. A questa logica desiderante dispiegata e priva d’oggetto si affideranno anche le dinamiche identitarie; il marchio astratto dalla materialità dell’oggetto diventa la nuova “casa” verso la quale fare ritorno, nella quale riconoscersi, alla quale affidare una radicale forma di “nostalgia”. Ciò soprattutto perché le logiche del capitalismo di mercato investono l’individuo oggettivandolo ma anche soggettivandolo, cioè inserendosi nei processi di soggettivazione individuali e collettivi20. 17 Cfr. A. Gehlen, L’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, trad. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano, 1983. 18 Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma - Bari, 2006. 19 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit. 20 Questo argomento verrà approfondito nel quarto capitolo del presente libro.

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5 Libertà negativa. Nella società moderna l’indistinzione tra sfera della necessità e sfera della vita qualificata, tra privato e pubblico, si dispiega nel lavoro e nella vita dei nuovi soggetti/oggetti della pratica governamentale. Essa implica un concetto di libertà che, proprio perché caratterizzata dalla necessità e dal bisogno, non può mai essere considerata assoluta o positiva ma sarà sempre relativa e perimetrata rispetto all’esterno o all’alterità. Tale libertà negativa equivale alla possibilità per l’uomo caratterizzato dallo statuto biologico di vivente e dallo statuto produttivo di corpo al lavoro di ritagliarsi uno spazio autonomo. Dunque, libertà negativa corrisponde ad autonomia. Ma ciò apre una problematica enorme sui limiti e sulle condizioni dell’agire umano. L’uomo moderno può davvero considerarsi libero? La libertà per essere incondizionata deve necessariamente presupporre la schiavitù? Deve sempre presupporre una divisione tra uomo e sub - uomo? Si può forse pensare ad uno statuto naturale che non consideri la necessità come un vincolo o una mancanza ma una caratteristica di potenza e di forza dell’umano, una volontà di potenza o un conatus spinoziano. Ciò potrebbe svincolare il paradigma antropologico dalle proprie basi conservative. Per dipanare il nodo antropo - filosofico sotteso a tali quesiti analizzerò in ottica foucaultiana l’archeologia e la genealogia dei discorsi di verità sulla vita e sul lavoro che fanno emergere, nella seconda metà del XVIII secolo, il concetto oikonomico di governamentalità. Solo comprendendo cos’è nella modernità il governo, in cosa differisce rispetto alla sovranità e come si organizza come dispositivo antropo - oikonomico che promuove la salute/salvezza si può cercare di capire perché la libertà dell’uomo deve essere svincolata dai presupposti conservativi che la definiscono in negativo. Nei prossimi paragrafi tenterò di esplicare tutti questi concetti facendo riferimento alla fondamentale ricostruzione archeologica foucaultiana dei poteri/ saperi biologici ed economici ed al paradigma dell’infinita finitudine dell’umano, per poi tornare alle questioni più strettamente bioeconomiche e governamentali. 1.3. Infinita finitudine dell’umano

Le parole e le cose è l’opera di Foucault che si propone di tracciare un’archeologia delle scienze umane attraverso il confronto tra le forme di conoscenza sviluppate in età classica (XVI - XVIII secolo) e quelle nate nel XIX secolo. La riflessione antropologica che si snoda a partire dal Romanticismo assume, secondo l’autore, una configurazione diversa rispetto al progetto umanistico classico. Se in quest’epoca, infatti, le forme di conoscenza erano racchiuse nell’ordine del

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Infinitamente finiti

discorso dalla rappresentazione, la modernità nasce con la destrutturazione dei sistemi simbolici che facevano riferimento al rappresentabile e si incentrano sulla dimensione, al contempo positiva e trascendentale, dell’episteme linguistica, biologica ed economico - politica. Il profilo antropologico dell’uomo moderno, infatti, assume le caratteristiche di una nuova forma di sapere e di nuove discipline: la linguistica, la biologia, l’economia politica. Esse si contrappongono alle forme classiche di sapere: la grammatica generale, la storia naturale e l’analisi delle ricchezze. La modernità rappresenta, pertanto, una soglia epistemica; prima di questo momento l’uomo non esisteva, secondo Foucault, in quanto le forme di sapere e di potere non riflettevano la domanda sull’umanità dell’uomo e non era ancora nata quella che l’autore definì come analitica della finitudine. L’uomo assume consistenza antropologica in quanto vivente, in quanto soggetto della produzione, in quanto individuo inserito in un sistema linguistico che lo include eccedendolo. Infatti, rispetto al sistema della lingua, l’uomo rappresenta sia il soggetto parlante sia l’oggetto a cui fanno riferimento le scienze positive. Ma proprio questa caratteristica lo costituisce come essere al contempo aperto e chiuso, finito ed infinito. O meglio, l’uomo è un soggetto che vive in una condizione di infinita finitudine. Il sapere positivo introduce una certa analitica della finitudine laddove esisteva un’ontologia dell’essere. Infatti, se nel pensiero classico l’uomo non esisteva ancora, esisteva l’essere umano, soggettività definita in termini ontologici dalla posizione occupata nella sequenza simbolica della rappresentazione. Questa si articolava a partire da uno stretto legame tra parole e cose. L’uomo, così come tutti gli altri esseri e le cose presenti in natura, si disponeva nello spazio della rappresentazione. Si trattava di identità disomogenee e separate, unificate, tuttavia, da un ordine di significato che consentiva il rispecchiamento tra cose e parole. L’ordine spaziale della rappresentazione sottolineava la finitudine dell’essere umano in consonanza con l’infinito ordine della natura e delle forme della conoscenza. La finitudine umana si rispecchiava nell’incolmabile differenza rispetto al divino ma anche nella condivisione dello spazio fisico e simbolico con tutti gli altri esseri. Si può, inoltre, affermare che la rappresentazione mirava soprattutto alla costituzione di tassonomie ordinate, di uno spazio di assonanze multiple e variegate che miravano alla riduzione della distanza tra le cose. La differenza tra gli esseri era mantenuta nello sforzo di riduzione delle distanze; le parole si rapportavano strettamente alle cose proprio inseguendo tale sforzo ordinativo - rappresentativo di unificazione degli spazi.

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L’infinita finitudine dell’uomo moderno, invece, scaturisce dalla disarticolazione di tale nesso e dalla riduzione delle differenza tra le cose e le proprie identità. L’analitica della finitudine destruttura lo spazio della tassonomia classica nel contesto delle scienze positive. Queste sono al contempo condizione necessaria e conseguenza diretta della “nascita” della figura umana. L’uomo è un soggetto la cui condizione finita si forma dall’infinita positività del sapere. La prima declinazione di tale finitudine riposa nella positività del sapere umanistico, delle nuove discipline biologiche, economiche, linguistiche. Tale positività è infinita in quanto rompe il rapporto diretto con le cose e si ripiega su se stessa. Il soggetto - oggetto delle discipline positive è il vivente, il produttore - consumatore, il soggetto parlante. In quanto soggetto del sapere l’uomo vivente - produttore - parlante istituisce le forme di sapere corrispondenti alla definizione che egli dà di se stesso. Ma nello stesso tempo, tali forme di sapere lo definiscono, ne fanno l’oggetto privilegiato del sapere positivo. Perché ciò profila una condizione di infinita finitudine dell’uomo? Perché rompe l’ontologia classica della rappresentazione, operando una separazione tra parole e cose nella quale l’uomo con le sue definizioni di vivente, produttore - consumatore, parlante si inserisce come terzietà infinitamente finita ed empiricamente trascendentale. Rompendo lo spazio lineare della rappresentazione, la finitudine non è più ricavata dal confronto - scontro tra la conoscenza dell’ordine naturale e la trascendenza metafisica del divino. L’essere umano non è più ciò che emerge alla luce del sole rispecchiandosi nell’infinità divina; egli è un individuo autonomo, slegato dall’ordine della rappresentazione in quanto include in sé le cose e le parole. Nella terzietà della condizione umana si cela l’aderenza materiale di parole e cose, e sempre meno il loro legame simbolico. Se l’uomo è soggetto delle scienze positive significa anche che diviene depositario delle parole con le quali vengono espresse e formalizzate; se egli è oggetto significa che le cose che ha in sé sono poste alla base della conoscenza, ne rappresentano i contenuti. Ritornando alla finitudine umana, allora, si può affermare che con la rottura dello spazio lineare della rappresentazione l’uomo perde la visibilità esistenziale rispetto alla sfera divina e la vicinanza rispetto alla sfera naturale e si ripiega su se stesso divenendo soggetto - oggetto delle proprie forme di conoscenza. Se il sapere classico faceva dell’essere la forma visibile e negativa della divinità, il sapere moderno fa dell’uomo il soggetto - oggetto invisibile della propria infinita finitudine. Si può anche dire che se la finitudine dell’essere si rapportava all’infinità di Dio, la finitudine dell’uomo moderno si basa sull’infinita positività del proprio sapere. Tale condizione, rompendo lo spazio della rappresentazione, inaugura la dimensione corporea della vita, l’apertura del desiderio produttivo e il tempo del linguaggio storico. Tali positività non hanno limiti esterni ma solo interni. Per

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Infinitamente finiti

questo nel cuore dell’empiricità deve essere individuata un’analitica della finitudine grazie alla quale l’uomo può fondare nella loro positività tutte le forme finite che gli consentono di essere infinito. La finitudine dell’uomo moderno si genera dalla chiusura nell’empiricità del mondo, non più dall’apertura all’imperscrutabilità divina. Per questo il limite tra il finito e l’infinito non è più contrassegnato dalla mortalità dell’essere ma dall’immortalità della conoscenza positiva che pone senza sosta la propria infinita produttività. Ciò che esiste entro un orizzonte infinito non è più la vita ma il vivente, non è più l’opera ma l’attitudine produttiva, non è più la rappresentazione ma il sistema della lingua. Condizioni materiali di vita, produzione e lingua, infatti, diverranno gli indicatori epistemici di una nuova soggettività - oggettività incentrata sull’umanità dell’uomo. Il problema centrale dell’uomo moderno diviene, infatti, quello di gestire l’infinita finitudine che gli è data come condizione vitale, produttiva, linguistica. Ma, come abbiamo accennato, l’analitica della finitudine si riflette in una metafisica della vita, del lavoro, del linguaggio. La finitudine del vivente si confronta incessantemente con l’infinità della vita. Come sottolinea Foucault, l’uomo occupa il posto del re21. E ciò non soltanto perché ricopre lo spazio lasciato vuoto dalla crisi dei sistemi simbolici di rappresentazione, ma perché diviene, nella sua infinita finitudine assolutamente autonomo. Nasce una nuova ontologia dell’autonomia22. Essa diviene volontà di vita o si configura come potenza, forza. Il vivente costituisce, invece, rispetto alla vita, un’attualità empirica. Per questo Foucault definisce l’uomo come un allotropo empirico - trascendentale . Egli si costruisce sempre al di fuori di se stesso. è mortale in quanto costretto incessantemente a farsi altro. Inoltre, l’epistemologia antropologica moderna lo pone in una posizione terza tra natura (estetica trascendentale) e storia (dialettica trascendentale). La soglia epistemologica di cui l’uomo costituisce l’indicatore fondamentale si pone, dunque, in una condizione contrassegnata da una quasi - estetica e da una quasi - dialettica. Ma si fonda, soprattutto, sulla paradossale coincidenza di empiricità ed escatologia. Come afferma Foucault, “l’uomo vi appare come una verità a un tempo ridotta e promessa”24. Tale spazio terzo tra natura e storia, tra empiricità ed escatologia è occupato dal vissuto. Questo articola la potenzialità vitale sull’attualità del corpo, la storia possibile di una cultura sullo spessore semantico della lingua, l’infinita potenzialità del desiderio nella forma positiva del lavoro. L’empiricità e l’escatologia concorrono alla definizione epistemologica dell’allotropo umano assumendo tre forme strettamente correlate tra loro. 23

21 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit. 22 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma - Bari, 2010. 23 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit., p. 343. 24 Ivi, p. 345.

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1. Antropo - oikonomia

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La prima forma fa riferimento al cogito. Rispetto alla tradizione del meccanicismo cartesiano, il cogito non si basa sulla corrispondenza tra Io penso ed Io sono. Esso si sostanzia, invece, nella differenza tra pensiero auto - riflessivo e non - pensiero, cioè su ciò che distanzia la facoltà di pensare e l’impensato. Il pensiero non è più diretta espressione dell’essere ma conduce ad una problematizzazione costante della facoltà di pensare, intesa come capacita auto - riflessiva del sé. Strettamente connessa al pensiero è, dunque, la sfera dell’impensato. Questo rappresenta la forma con cui il pensiero pensa il suo “fuori” e lo rappresenta in una dimensione di Alterità. Rispetto alla sfera del cogito, che configura l’auto riflessività del Medesimo, l’impensato è la dimensione in cui ha sede l’Alterità. La conoscenza dell’Alterità in questo caso è possibile a partire dalla sospensione del pensiero al di fuori di se stesso25. Ma la conoscenza moderna è riconduzione dell’impensato al pensato, dell’Altro al Medesimo. Ciò non avviene nell’alveo di un’etica ma all’interno di una pragmatica, per mezzo di una teoria dell’azione. La politica dell’Identico rappresenta il contraltare di quell’etica dell’autonomia nella quale la vita assume il proprio statuto positivo. Ciò significa che nelle forme di sapere positive e trascendentali che pongono l’uomo come indicatore epistemologico della modernità, l’etica dell’autonomia può realizzarsi soltanto con il supporto di una politica di riduzione dell’Alterità all’Identità. Non importa che tale etica assuma le caratteristiche positiviste della natura o escatologiche della storia. Il trionfo dell’uomo libero, autonomo, padrone di se stesso si realizza postulando un’epistemologia che tenda alla riduzione dell’alterità ed all’assorbimento dell’impensato nel pensato (parlando in termini psicoanalitici ciò, secondo Foucault, avviene anche attraverso i meccanismi di rimozione dei contenuti inconsci). A tale obiettivo mirano, infatti, i saperi positivistico - sociali, psicologici, medici che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, inchiodano l’uomo alla politica del Medesimo, tramite la neutralizzazione del conflitto e la riduzione dell’Alterità minacciosa all’Identità ordinata. La terza problematica che emerge in relazione alla nascita dei saperi positivi è l’arretramento dell’origine. Anche questa categoria si modifica rispetto all’ordine della rappresentazione classica. Non è più l’origine che fonda la storia ma la storia che crea l’origine e la pone escatologicamente al termine di un percorso di auto - realizzazione del pensiero. Le differenze molteplici presenti nel discorso storico sono ricondotte ad un’origine comune, figura del Medesimo. L’uomo non è mai 25 Qualche mese dopo la pubblicazione di Les mots et les choses Foucault torna sul problema della relazione tra il pensato e l’impensato nel breve ma significativo saggio intitolato La penseé du dehors. In questo scritto l’autore eleva l’impensato a condizione di possibilità del pensiero autonomo e indica nella libertà della scrittura l’unica forma attraverso cui l’identità può recuperare un dialogo profondo con se stessa e con l’altro. Per approfondimenti si veda M. Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. di V. Del Ninno, SE, Milano, 1998.

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Infinitamente finiti

contemporaneo all’origine: essa si forma sempre prima ed indipendentemente rispetto al vivente, all’azione e alla parola. è sullo sfondo di una storia già iniziata che l’uomo può porre la propria origine. Di conseguenza, l’origine della storia e quella del vivente non vengono mai a coincidere. Il punto d’origine della singola storia vitale si pone in ciò che la articola su qualcosa di diverso da se stessa. Si può anche dire che la finitudine umana si fonda su una temporalità infinita che la trascende. Sin dalla nascita l’uomo è separato dalla sua origine. Ma si parla di arretramento in quanto l’origine è ciò verso cui il pensiero umano deve costantemente ritornare. Il tempo lineare si curva su se stesso. Il ritorno dell’origine diviene il fulcro del pensiero moderno. Non si tratta più del tempo delle cose, delle successioni e delle rappresentazioni ma del tempo mancato ed impenetrabile della vita, del lavoro e del linguaggio. Così il vivente sperimenta la propria storicità finita nel segmento infinito della storia della vita, che risale a oltre due miliardi di anni fa, con la comparsa delle prime forme di vita. Il lavoratore articola la propria azione sul tempo infinito della storia sociale ed economica. L’individuo parlante si esprime con le regole formalizzate di un sistema linguistico che fonda le proprie radici nella storia della civiltà che l’ha generato. L’arretramento dell’origine equivale, quindi, alla costante condizione di apertura, di ricerca, di approssimazione del tempo umano a quello naturale e storico. L’uomo, infatti, è interrelazione paradossale di natura e di cultura. La sua vita, il suo lavoro il suo linguaggio si dibattono costantemente entro una temporalità ed una spazialità naturale o culturale che necessariamente lo eccedono. Da questo punto di vista possiamo sostenere che il solco lasciato dal vivente nello spazio/tempo della natura è la vita mentre lo scarto costituito dal lavoro nello spazio/tempo della storia è il desiderio. Mi soffermerò su questi due aspetti (vita e desiderio) per comprendere più approfonditamente il nesso che li lega alla figura moderna dell’uomo come allotropo empirico - trascendentale. In primo luogo, richiamandomi all’analitica della finitudine, sottolineerò che tali determinazioni hanno assunto lo statuto di positività infinitamente finite, diventando delle unità sintetiche (corpo bio - organico e lavoro). In secondo luogo, cercherò di analizzare i concetti di vita e desiderio come determinazioni ultra - fenomeniche della volontà. Tratterò il primo aspetto nei successivi paragrafi di questo capitolo nei quali ripercorrerò brevemente l’analisi archeologica dei saperi bio - socio - economici; nel secondo capitolo, invece, cercherò di far luce sulla fondazione trascendentale dei concetti di volontà/ vita nel paradigma antropologico dell’infinita finitudine dell’umano.

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1. Antropo - oikonomia

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1.4. Biologia: organizzazione funzionale e variazione della vita

A partire dalla seconda metà del XVIII secolo, la nascita delle nuove discipline positivistiche pose in confronto in maniera inedita l’animalità e l’umanità. Ciò entro un orizzonte unificato e reso sintetico da una definizione della vita che tese a ridurre gli scarti e a ricondurre le forme viventi nell’orizzonte naturale del Medesimo. Forme di vita animale e forme di vita umane furono incluse nello stesso orizzonte di significato e l’organizzazione biologica del vivente rappresentò il criterio fondamentale di tale unificazione. Nell’ambito della biologia fu, dunque, definita vita tutto ciò che rispecchia un determinato sistema di organizzazione della materia organica caratterizzata da criteri interni, invisibili e sintetici, di funzionamento. Uno spartiacque fondamentale nella storia delle scienze della vita è costituito dal pensiero di Xavier Bichat, fondatore della medicina dei tessuti e della fisiologia. Egli sviluppa un vitalismo che attribuisce normatività alla vita ed identifica lo statuto vitale in ciò che si oppone alla morte. Nella sua più importante opera, Recherches physiologiques sur la vie et la mort26, la vita è definita come l’insieme delle funzioni che si oppongono alla morte. Esiste una duplice spazializzazione della morte a cui corrisponde una duplice spazializzazione della vita. Duplice spazializzazione della morte. La prima spazializzazione fa riferimento all’esistenza di forze esterne che si oppongono alle funzioni auto - organizzative dell’organismo. In questa accezione la vita rappresenta la differenza energetica tra forze esterne e resistenza interna. La seconda spazializzazione fa riferimento all’esistenza di un fondo morboso in ogni vita, una malattia latente che determina una frattura interna all’organismo. Duplice spazializzazione della vita. Si tratta della differenza tra vita organica (vita vegetativa) e vita animale (vita relazionale caratterizzata dalle attività motorie, sensorie e relazionali, funzioni superiori, tipiche dell’uomo). Queste due dimensioni possono essere compresenti ma possono anche dissociarsi, in quanto la vita animale si aggiunge o sovrappone a quella vegetativa. Quest’ultima può anche esistere quando l’altra è assente o sopita. Dunque, sono le funzioni organiche che definiscono la natura più profonda dell’uomo. Queste funzioni accomunano la vita degli animali e quella dell’uomo.

26 Cfr. X. Bichat, Recherches physiologiques sur la vie et la mort, Masson, Parigi, 1962.

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Infinitamente finiti

La duplice spazializzazione della morte attribuisce uno statuto costitutivamente patologico alla vita umana in quanto si ammette una paradossale coincidenza tra malattia e salute. Con la distinzione tra vita organica e vita animale, invece, la malattia che nasce da cause organiche può essere entro certi limiti ininfluente per gli sviluppi della vita relazionale dell’uomo. La patologia si mantiene in questo caso in una forma latente. A questo punto non sarà più la malattia ma la morte a divenire il momento estremo della discontinuità. La malattia, quindi, non si oppone radicalmente alla salute ed alla vita; la morte diviene il criterio di intelligibilità della malattia ed il momento di discontinuità vera rispetto alla vita. Dal punto di vista della spazializzazione interna, dunque, la malattia può costituire una faglia invisibile alla vita. Nel caso della spazializzazione esterna, essa si rivela tale solo nel momento in cui provoca una disgregazione del sistema di organizzazione funzionale del vivente. In questo contesto è impiegato il concetto di organizzazione funzionale precedentemente esplicato. Come detto, la vita è ciò che resiste alla morte; esiste, dunque, un grado di irritazione esterna che può essere accettabile o funzionale. L’importante è che le forze disgregative non superino quelle omeostatiche, generando la disgregazione dell’organizzazione funzionale dell’organismo. La duplice organizzazione delle funzioni vitali fa della malattia una condizione a certi livelli fisiologica e della vita una realtà potenzialmente patologica. Ma ciò significa, infine, che la morte, e la malattia che la precede, divengono il paradossale orizzonte di significazione della vita. Come dimostra Foucault ne La nascita della clinica, nel corso del XVII secolo cominciò a svilupparsi la pratica clinica che si basava sulla dissezione dei cadaveri27. La natura organica della malattia diviene a quel punto una dimensione allo stesso tempo invisibile e visibile, un evento morboso che si cela allo sguardo ma che può divenire soggetto/oggetto di nuove forme di sapere e di nuovi campi di enunciazione. Il visibile e l’enunciabile non escludono; parole e cose coincidono tra loro. Inoltre, con lo spostamento dell’interesse scientifico dall’anatomia degli organi all’anatomia dei tessuti il criterio di classificazione della patologia o dell’attività fisiologica si pone a monte, al di sotto delle analogie spaziali o qualitative degli organi. La funzione rappresenta proprio questo principio unificatore invisibile ed in - localizzabile che presiede all’organizzazione dei differenti apparati di organi. La funzione consente al corpo di mantenere quel sistema di auto - organizzazione da cui si genera la vita. Si può dire che esso rappresenta un elemento invisibile che radica il vivente nella piega interna dell’organismo e che, nello stesso tempo, lo accomuna agli animali. La funzione consente di individuare, infatti, delle 27 Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino, 1969.

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1. Antropo - oikonomia

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analogie di funzionamento tra l’organismo umano e quello animale. Inoltre le funzioni dei differenti apparati organici e tissutali dell’uomo differiscono solo per gradi o livelli di organizzazione. La funzione rende possibile una definizione sintetica di vita. Essa è ciò che dà identità al singolo organismo ma, allo stesso tempo, ciò che unifica le forme viventi all’interno di una analitica della finitudine. L’uomo è definito, infatti, da un’analogia funzionale che percorre interamente lo spettro del visibile e dell’enunciabile. G. Curvier, invece, diede grande centralità al concetto di funzione attraverso tre principi: la coesistenza (un organo o sistema di organi non può esistere isolatamente), la gerarchia (struttura le differenze di grado delle funzioni in ordine gerarchico), il piano d’organizzazione (unifica classi e organismi anche diversi tra loro). A differenza della tassonomia classica (i cui principi erano forma, numero, disposizione e grandezza) che classificava gli esseri dal più piccolo al più grande e dal più complesso al meno complesso, Curvier introduce, in una logica continuista, la teoria delle ramificazioni che inventa un nuovo spazio di identità e differenze. I viventi devono raggrupparsi in nuclei di coerenza differenti gli uni dagli altri; viene, dunque, introdotta la discontinuità laddove prevaleva la continuità. Il vivente si ritrae dallo spazio della rappresentazione. Ciò significa che esso non si porrà più in relazione agli altri esseri ma in rapporto esclusivo con se stesso e con la propria forza vitale. Quest’ultima, dunque, comincerà a contraddistinguerlo. Si tratta di una continuità funzionale da cui risulta escluso solo il mondo inorganico. La conservatio vitae diviene il principio che, al contempo, unifica funzionalmente il mondo organico animale ed umano e che li mette in conflitto in quanto è accompagnato dalla lotta per la vita e dalla selezione del più adatto ma anche da quella che Foucault chiama “ontologia selvaggia”, nella quale nascono una temporalità ed una spazialità nuove che accomunano uomo ed animale. Si tratta di temporalità e spazialità proprie del vivente, cioè che vengono definite a partire dai ritmi biologici e dai processi di adattamento ambientale. La temporalità, allora, verrà ad assumere un significato nuovo, configurandosi come durata di vita, come tempo biologico nel quale la vicenda esistenziale del singolo organismo si inserisce negli equilibri spaziali certamente più lunghi della specie. Lo spazio, invece, diviene ambiente o nicchia ecologica. Nell’opera Philosophie zoologique C. Lamarck sviluppò una particolare rielaborazione ambientalista della teoria dell’ininterrotta catena dell’essere28. An28 Cfr. J. B. Lamarck, Philosophie zoologique, Nouvelle Edítíon, Paris, 1830. Risorsa digitale non coperta da copyright accessibile su http: // google.com.

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Infinitamente finiti

che nelle tesi lamarckiane è visibile la centralità del concetto di organizzazione funzionale della vita. I processi vitali possono essere distinti dagli altri processi naturali sulla base di due dimensioni: organizzazione ed articolazione interna. L’articolazione interna è indice del grado di vitalità del vivente. Più il vivente è articolato in base alle sue funzioni interne, più è perfetto. Inoltre, tutti gli esseri sono inseriti all’interno di una catena organizzativa chiusa caratterizzata da un continuum che indica il grado di complessità organizzativa dei viventi. Questa catena, che secondo Lamarck è espressione dalla volontà divina, va dalla forma più semplice, l’infusore, a quella più complessa, l’uomo, e rispecchia il gradualismo con cui si sono evolute e perfezionate le forme viventi. Lo scienziato non attribuisce valore scientifico alla categoria di specie ma la utilizza solo con un’accezione euristica. In ciò esiste una differenza tra Lamarck e Darwin. Nel pensiero di quest’ultimo la specie ha una funzione importante mediando tra organismo ed ambiente. In Lamarck, invece, si presuppone il legame diretto tra vivente ed ambiente ed è per questo che il concetto di ereditarietà non è sviluppato fino in fondo e rimane legato alla teoria ambientalista e ad una forma vaga di creazionismo. Nonostante ciò Lamarck formula l’ipotesi dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti ed il concetto di variazione. I caratteri acquisiti per adattamento ambientale vengono trasmessi ereditariamente ai figli. Questa è la base di quella che diverrà la teoria dell’evoluzione della specie di Darwin. Ma esistono delle differenze non riconducibili alla dicotomia ambiente/eredità ma al concetto di variazione. In Lamarck questo concetto designa le condizioni che consentono al vivente di adattarsi all’ambiente secondo un principio di utilità che scaturisce dai bisogni vitali dell’organismo. Ma ciò significa che, nella teoria lamarckiana prima ancora che in quella darwiniana, la variazione deriva dai bisogni vitali dell’organismo non dall’ambiente. Essa dipende dall’innata tendenza delle forme viventi alla diversificazione. Cosa che, però, Lamarck non riesce a spiegare se non ricorrendo ancora al creazionismo. Darwin, invece, fa ricorso al carattere ereditario ed al valore biologico del singolo organismo (principio della conservatio vitae). Ma ciò implica la concettualizzazione della lotta per la vita e la tesi della sopravvivenza del più forte. Laddove esisteva un continuum pacificato ed ordinato deve essere postulato uno spazio di lotta e di conflitto caratterizzato dalla scarsità delle risorse. Nel passaggio dalle tesi lamarckiane a quelle darwiniane si determina, cioè, un cambiamento dell’idea di ordine naturale ed armonia della natura. Il bisogno, inoltre, che in Lamarck costituiva il legame tra organismo ed ambiente, tra articolazione ed organizzazione, in Darwin diviene una piega interna, lo scarto a partire dal quale si manifesta la non coincidenza tra il vivente e la vita29. 29 Il pensiero di Lamarck è stato definito trasformazionista. Si indicano con questo termine (tra-

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Contro l’analisi multi - causale dell’evoluzione di Lamarck, Darwin adotta ne L’origine della specie il punto di vista che privilegia, prima, l’ereditarietà forte (tutte le specie si sarebbero evolute da un unico progenitore), poi l’ereditarietà debole (tutte le specie si sarebbero evolute da pochi progenitori)30. L’evoluzione della vita sulla terra è spiegata sulla base del cosiddetto modello dell’albero dell’evoluzione ed il concetto centrale di selezione naturale: Pensiamo all’infinita complessità ed alla perfetta reciprocità dei rapporti di tutti i viventi tra loro e con le condizioni fisiche di vita. E allora, constatando che, senza dubbio, si sono verificate delle variazioni utili all’uomo, dovremmo ritenere improbabile che talvolta, nel corso di milioni di generazioni, si possano verificare altre variazioni utili in qualche modo a ciascun vivente nella grande e complessa battaglia della vita? Se questo accade possiamo dubitare […] che gli individui che possiedono un vantaggio qualsiasi sugli altri, sia pure molto piccolo, abbiano migliori probabilità di sopravvivere e di propagare la loro discendenza? D’altro canto possiamo essere certi che qualsiasi variazione nociva, sia pure in minimo grado, verrebbe immancabilmente distrutta. A questa conservazione delle variazioni favorevoli e all’eliminazione delle variazioni nocive ho dato il nome di selezione naturale31.

La tesi della selezione naturale, inoltre, è spiegabile in base a due ulteriori concetti: variazione ed adattamento. La variazione indica la capacità di un organismo di modificarsi attraverso un nucleo trasformativo interno che Darwin non riusciva pienamente a spiegare ma che attribuì ai caratteri ereditari. Fu Mendel, in seguito, a chiarire le caratteristiche della trasmissione genetica. La specie è l’insieme delle forme viventi che presentano una piccola variazione interna ed una grande variazione rispetto all’esterno. La varietà indica la variazione interna mentre la specie indica quella esterna. Ciò significa che ciò che chiamiamo “specie” è caratterizzata da quelle forme che presentano una lieve variazione interna ed una grande variazione esterna. Inoltre, i migliori dal punto di vista selettivo solo coloro che all’interno di una medesima varietà variano maggiormente. Le specie caratterizzate da un maggior grado di variazione saranno quelle che nella lotta per la vita tenderanno ad avere la meglio. sformazionismo) tutte quelle tesi che, nonostante postulino la trasformazione graduale delle forme viventi, sostengono anche il progressivo miglioramento della vita dovuta ad una tensione intrinseca (o innata) dell’organismo verso il raggiungimento di uno stadio di perfezione relativamente al loro rapporto con l’ambiente. Ammettere la tendenza direzionale dell’evoluzione significa ridurre l’importanza della selezione naturale. In questo caso è una causa interna che promuove il cambiamento non una riproduzione differenziale. 30 Cfr. C. Darwin, L’origine della specie per selezione naturale, trad. it. di C. Balducci in Darwin. L’origine della specie, L’origine dell’uomo e altri scritti, Newton Compton Editori, Roma, 2009. 31 Ivi, p. 591.

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Infinitamente finiti

Ma perché le variazioni innescano la selezione naturale? Per rispondere a questa domanda bisogna analizzare il secondo concetto, l’adattamento. Gli organismi che sopravvivono meglio sono quelli che variano rispetto all’ambiente, che producono delle variazioni utili per la realizzazione dell’adattamento. Ma bisogna distinguere tra adattamento e fitness. Darwin utilizza questo secondo termine per indicare l’influsso che l’organismo che varia ha sull’ambiente e non, viceversa, l’influsso che l’ambiente ha sull’organismo. Dunque, l’organismo varia non in relazione all’adattamento ambientale ma in relazione alla selezione naturale interna alla propria specie che poi si riflette sull’ambiente come fitness. La variazione, allora, si verifica ereditariamente nella specie, la quale poi utilizza tale variazione per inserirsi in una nicchia ecologica non occupata da nessuna altra specie o organismo. Ma ciò implica una lotta per l’accaparramento delle nicchie ecologiche e, dunque, per la realizzazione dell’adattamento che genera sopravvivenza. In questi termini la specie indica la soglia di significatività biologica di un gruppo di individui, definito anche popolazione. Il singolo organismo sperimenta l’adattamento ambientale per il tramite della specie e questo è anche il motivo per cui nella teoria darwiniana la selezione naturale spiega l’adattamento e non viceversa. Inoltre, la condizione di partenza che giustifica la lotta è la carenza, la scarsità, la rarità delle risorse naturali. La natura è considerata una riserva finita di risorse naturali mentre le specie si riproducono. Ma il rapporto quantitativo degli individui e delle specie deve rimanere sempre costante. Ecco allora che scatta la selezione naturale che privilegia coloro che riescono a variare di più e meglio rispetto alle proprie condizioni di adattamento ambientale. Secondo D. Tarrizzo, da quanto detto si può dedurre che i concetti di variazione ‘utile’ o ‘dannosa’ sono tautologicamente giustificati nella teoria darwiniana in base all’utilità o alla dannosità delle trasformazioni interne dell’organismo rispetto alle possibilità di sopravvivenza32. Per comprendere questo punto bisogna tenere presente che il termine utilità può essere sostituito, nella teoria dell’evoluzione della specie di Darwin, con quello di vitalità. Come abbiamo visto, infatti, nell’evoluzionismo darwiniano la variazione misura il grado di vitalità di un organismo. Ma la variazione e l’adattamento sono anche determinanti di un vero e proprio ‘scollamento’ originario tra il vivente e le proprie condizioni d’esistenza. Ne deriva che la teoria della selezione della specie è fondata sul presupposto della non coincidenza del vivente con la vita, su uno scarto che separa l’attualità esistenziale dell’organismo dalla potenzialità vitale della natura che nella sua costituzione appare infinita e discreta. In Darwin lo statuto della vita 32 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit.

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autonoma e della volontà autonoma sono formalizzate ed inserite in una teoria generale delle forme viventi. Con E. Haeckel giungiamo, invece, alla formulazione della legge biogenetica secondo la quale l’ontogenesi riassume la filogenesi, la storia individuale riproduce su scala ridotta quella della specie. Secondo lo zoologo tedesco ciò significa che il progresso storico può essere riassunto nella storia naturale e le scienze dello spirito, comprese l’etica e la religione, possono essere spiegate con la teoria della selezione naturale (I problemi dell’universo: risposta alla formulazione de I sette enigmi dell’universo di Emil Du Bois Reymond, 1899). Secondo R. Esposito queste tesi inaugurano un atteggiamento impolitico nella spiegazione dei fenomeni etici, religiosi, filosofici e soprattutto danno luogo ad un determinismo della volontà tale per cui le attività dello spirito che discendono dalla libera volontà razionale dell’uomo (come la politica) sarebbero determinate dalla trasmissione ereditaria dei caratteri33. Anche le tendenze individuali per Haeckel sono già scritte nel corredo ereditario che l’individuo porta con sé. Inoltre, il monismo haeckeliano discende sia dalla teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti di Lamarck sia dalla teoria della selezione naturale di Darwin. Da quest’ultimo lo zoologo tedesco trae due concetti fondamentali: lotta per l’esistenza e variazione. Il primo concetto giustifica la teoria haeckeliana della degenerazione, fondamentale nella vulgata neo - darwiniana tedesca; il secondo concetto consente allo zoologo di sostenere la tesi dell’ereditarietà debole, ammettendo che la variazione non è interamente spiegabile né con la fitness né con l’ereditarietà. L’autore, inoltre, sviluppa un percorso antropogenetico volto ad individuare l’anello mancante tra l’uomo e le scimmie antropomorfe (I problemi dell’universo). In questo caso l’attenzione di Haeckel è rivolta alla ricostruzione del progetto evolutivo darwiniano con attenzione non all’origine ma all’individuazione degli scarti interni che, a suo parere, devono pur sempre esistere nel continuum naturale uomo/animale. Si tratta di uno dei primi, decisivi, passi mossi in direzione di una più sistematica classificazione delle razze umane (che negli intenti dello zoologo tedesco vanno dall’uomo australe all’uomo caucasico) e dell’individuazione di un criterio discriminante tra uomo ed animale. L’animale non rappresenta più l’origine dell’uomo ma un suo scarto interno. L’elemento di discrimine è costituito dal linguaggio che diviene l’aspetto che fonda la specificità dello statuto antropologico e l’attitudine simbolica (l’alalus, specie di scimmione evoluto cui fa riferimento Haechel, è l’antenato privo di linguaggio dell’uomo). Dunque, il pensiero di Haeckel costituisce un ponte tra la teoria darwiniana e gli sviluppi 33 Cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino, 2007.

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Infinitamente finiti

socio/antropologico/linguistici del neodarwinismo di fine Ottocento. Da ora in poi un rigido determinismo impronterà la definizione di vita, le classificazioni delle forme viventi e tutte le manifestazioni dello spirito. La legge biogenetica riassumerà interamente le vicende ontogenetiche del singolo organismo vivente all’interno di quelle evolutive della specie (filogenesi). Ciò significa che il concetto di ereditarietà si intreccerà stabilmente con quello di degenerazione e la classificazione delle razze sarà giustificata dal “rischio” degenerativo della mescolanza del sangue. Nella teoria del plasma germinale A. Weismann sostenne, inoltre, che la selezione naturale agisce a livello genotipico e non fenotipico o somatico. Ciò significa che le generazioni sono unite dalla continuità ininterrotta dello stesso sangue. Spezzando il condizionamento ambientale, l’unico mutamento possibile diviene quello ereditario - degenerativo. Ciò si concilia con il progetto di perfezionamento della selezione artificiale che mira all’eliminazione delle specie ibride ed alla protezione delle specie non ibride dal pericolo della mescolanza di sangue. La selezione comincia, pertanto, ad essere impiegata come una forma artificiale di recupero della naturalità, in quanto Weismann ritiene che l’intervento umano deve essere volto a ripristinare la purezza ereditaria trasmessa attraverso il plasma germinale e degenerata con gli incroci genetici. Il plasma germinale conserva ereditariamente la purezza del sangue. Se non vi è più differenza tra biologia e politica il principio conservativo (conservatio vitae) diviene un obiettivo sia biologico che sociale che pone la vita in costante conflitto con se stessa in quanto ciò che, all’origine, potrebbe essere considerato fonte di contaminazione è la stessa propensione naturale del vivente alla variazione. La degenerazione da ora in poi costituirà il presupposto fondamentale della necessità della conservazione bio - sociale, esprimendo la condizione ‘naturale’ della vita costitutivamente carente. 1.5. Sociologia: auto - regolazione e conservatio vitae

L’allargamento della tematica della conservazione della vita al contesto sociale avviene all’interno dell’apparato di sapere sociologico. Anche nel discorso di verità della sociologia, infatti, a partire dal XIX secolo, assume rilevanza il concetto di regolazione che nasce da un incontro tra teorie meccaniciste e teorie organiciste passando per la semantica della cosiddetta oikonomia animale.

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1. Antropo - oikonomia

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Come sottolinea G. Canguilhem34, la tematica della regolazione compare nel 1710 nella Prefazione della Teodicea di Leibniz ed è connessa al dibattito tra questi e Newton sui rapporti tra Dio ed il mondo. Secondo Newton è necessario un intervento di Dio per regolare le leggi universali del moto. Secondo Leibniz, invece, esiste una forma di autoregolazione conservativa dell’universo che si mantiene inalterato sin dall’origine. La Teodicea è collegata dal filosofo all’autoregolazione attraverso le leggi della conservazione della materia. Il confronto tra le due tesi può essere esplicato prendendo in considerazione due differenti modelli di regolazione: l’orologio (Cartesio) e la spirale regolatrice o bilanciere (Huygens, 1675). L’orologio è una macchina che deve essere regolata mentre il bilanciere si autoregola e non implica un intervento esterno. Secondo Leibniz in questa macchina non esiste una differenza tra regola e regolarità in quanto la regola è data dalla propria autoregolazione e non necessita di un processo di regolazione esterna. La regola è data come principio autonomo di regolazione, pertanto questi due termini coincidono. Aggiunge Canguilhem: Leibniz ritiene che la relazione tra regola e regolamento, nel senso di un ordine dello Stato o di regolazione delle macchine, è una relazione fin dalle origini statica e pacifica. Non c’è alcuno sfasamento tra regola e regolarità. La regolarità non è ottenuta per effetto di una regolarizzazione, non è vinta su un’instabilità o riconquistata su una situazione di degrado, è una proprietà d’origine. La regola è e rimane regola, anche se in mancanza di sollecitazione la sua funzione regolatrice resta latente35.

Questo concetto si impone ad altri campi come la fisiologia e la politica e si definisce nella forma del finalismo interno alla natura che determina un equilibrio auto - regolantesi. Il passo successivo sarà la trasformazione del Dio leibineziano nelle leggi del moto della materia e la teologia in cosmologia (Laplance). Lo slittamento dall’idea meccanicista della macchina auto - regolantesi a quella del corpo umano (organismo che funziona come una macchina) si determina nel contesto della fisiologia in relazione al concetto di oikonomia animale. La regolazione interna degli organi del corpo, infatti, conduce al coordinamento armonico delle parti che determina, a sua volta, il benessere generale dell’organismo. I concetti che veicolarono tale definizione furono: divisione fisiologica del lavoro e regolazione organica della società. Si accettò, dunque, l’idea di una regolazione spontanea dell’organismo veicolata dall’organizzazione funzionale del lavoro. Ciò soprattutto in fisiologia ed in medicina, dove si affermò il concetto 34 Cfr. G. Canguilhem, Macchina e organismo in La conoscenza della vita, trad. it. di F. Bassani, Il Mulino, Bologna, 1976. 35 Ivi, p. 82.

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di vis medicatrix naturae. La natura rappresentava la forma originaria dell’autoconservazione del corpo vivente. L’esperienza della malattia e della guarigione suggeriva l’ipotesi di un potere organico di ristabilimento e riequilibrio. Secondo G. Canguilhem e F. Jacob il primo testo sulla regolazione è di Lavoisier e Seguin (Mèmoires sur la respiration e la traspiration des animaux)36; in esso il corpo umano per la prima volta è paragonato ad una macchina idraulica auto - regolantesi. L’uso del termine regolazione è riferito a tre funzioni fisiologiche: respirazione, traspirazione e digestione. In questo caso si tende a proporre un modello di compensazione e bilanciamento tra equilibrio perduto ed equilibrio ritrovato nella convinzione che il principio auto-regolativo investa la natura, come il singolo organismo, nella complessità delle sue funzioni sociali. Ma ciò significa anche che il principio dell’auto-regolazione non è riferito solo alla natura ma anche alla sfera sociale e morale. Nell’oikonomia animale un altro problema molto importante investe il concetto di equilibrio numerico dei viventi. L’auto-regolazione implica una relazione tra quantità di forme viventi e costanza della natura. Si ritiene, infatti, che le risorse naturali siano limitate e che le forme viventi debbano rimanere sempre nella stessa proporzione numerica. Questo rapporto, per la prima volta definito da Linneo come bilancia della natura, si avvicina molto al concetto di equilibrio ecologico anche se non può essere direttamente associato alle idee darwiniane di distribuzione geografica degli organismi o di lotta per l’esistenza. Nel primo caso, infatti, esiste ancora una forma di creazionismo che si basa sul principio dell’esistenza di un “Sovrano moderatore” con un proprio finalismo interno. Nonostante ciò, secondo Canguilhem è già presente nel concetto di Linneo il presupposto dell’equilibrio fondato sulla scarsità della natura che condurrà direttamente alle tesi di Malthus, secondo il quale la natura realizza un compromesso tra una tendenza ed un limite, cioè tra la propensione a far aumentare il numero degli esseri viventi e quello a limitarli in rapporto alle risorse disponibili. La natura pone un freno con la morte, le società con l’economia, che mantiene due valenze fondamentali: la tendenza allo sviluppo e la necessità di porre un limite controllando la distribuzione delle risorse ed i meccanismi demografici. Al di fuori della sua formulazione matematica, il problema di Malthus è il seguente: come rendere compatibili una tendenza e un limite? Come conciliare due aspetti della natura: la prodigalità nella moltiplicazione degli esseri viventi e l’avarizia nell’attribuzione dello spazio e del nutrimento? Trattandosi di animali, il freno all’eccesso di popolazione vitale è la morte. Trattandosi di uomini, il freno rappresentato dalla distruzione agisce anche qui, ma sarebbe eminentemente umano ridurne l’intervento utilizzando un freno preventivo37. 36 Per approfondimenti si veda F. Jacob, La logica del vivente: storia dell’ereditarietà, trad. it. di A. e S. Serafini, Einaudi, Torino, 1971. 37 G. Canguilhem, Macchina e organismo in La conoscenza della vita, op. cit., p. 90.

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1. Antropo - oikonomia

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Limitare le risorse significa imporre ai soggetti delle rinunce e l’unico elemento che può motivare ciò è l’interesse economico. Con questa formulazione il problema della regolazione è trasposto anche a livello sociale e penetra nelle prime concettualizzazioni sociologiche come, ad esempio, la teoria positivista di A. Comte. Di formazione tecnico - scientifica, Comte ispirò una serie di scienziati all’interno della cosiddetta Società di biologia che si occupava soprattutto di mesologia, cioè dello studio di come l’influsso ambientale sia presente nei meccanismi della regolazione organica. Da questo punto di vista Comte parla di regolazione come influsso dell’ambiente nei processi fisiologici dell’organismo. Nel Corso di filosofia positiva Comte parla dell’influsso regolatore che il sistema solare ha sulle forme viventi grazie alla mediazione dell’ambiente38. L’idea è che esiste un influsso regolatore dell’ambiente sugli organismi che, a sua volta, è determinato dall’influenza delle condizioni astronomiche, matematiche, chimiche e fisiche sulla natura inorganica ed organica (influenzandole senza condizionarle interamente). Si tratta di un sistema con una gerarchia interna. Lo spirito positivo procede attraverso le leggi matematiche (meccaniche e geometriche), poi attraverso quelle astronomiche. Le leggi della matematica e dell’astronomia influenzano il mondo inorganico della fisica e della chimica. Tali leggi, a loro volta, si rivolgono al mondo organico che fa riferimento a due scienze: scienza biologica (fisiologia ed anatomia) e scienza sociologica (sociologia). Il mondo inorganico, inoltre, è soggetto a quella che Comte definisce scienza analitica, mentre i fenomeni organici fanno capo alla scienza sintetica. In questo sistema i livelli inferiori fondano ma non determinano interamente quelli superiori. Così la biologia e la sociologia sono fondate sull’astronomia e la matematica ma non sono determinate interamente da esse. Comte nel definire un nuovo statuto per la biologia intende staccarsi dalle teorie precedenti che erano incentrate su presupposti metafisici o puramente meccanicistici. Al contrario, egli abbraccia le tesi di X. Bichat. Anche per Comte, infatti, l’unità sintetica della vita è caratterizzata da un’inevitabile scissione interna che pone la parte vegetativa in continuità con la natura inorganica e quella animale con la natura organica. Nel campo della sociologia, inoltre, la legge dell’evoluzione diviene storia. Tale evoluzione è analizzata nella sfera morale ed in relazione al concetto di ordine spontaneo. Per quanto riguarda la morale l’uomo si pone in una posizione evolutivamente superiore rispetto all’animale in quanto è caratterizzato da una naturale socialità. Sul versante dell’ordine spontaneo, invece, è la meccanica che influisce sulla condotta umana in base a tre leggi (relazione organismo/ambiente) che rappresentano delle costanti non solo nel mondo naturale ma anche in 38 Cfr. A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino, 1967.

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quello sociale: legge di Keplero o legge dell’inerzia (persistenza meccanica, cioè tendenza di tutti gli organismi a conservarsi nel loro stato se non interviene una forza esterna perturbatrice); legge di Galileo o legge del movimento (il movimento non è uguale in tutti i corpi biologici o sociali generando degli squilibri o degli sviluppi disomogenei); legge di Newton o legge della corrispondenza costante tra azione e reazione (ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria). Nella quarantanovesima lezione del Cours (Relazioni necessarie tra la fisica sociale e le altre branche fondamentali della filosofia) il rapporto tra fenomeni organici ed influenze ambientali è definito “necessario”. Lo studio positivo dello sviluppo sociale presuppone necessariamente la correlazione continua di questi due concetti indispensabili, l’umanità che realizza il fenomeno, e l’insieme costante delle influenze esteriori di qualsiasi genere, o ambiente scientifico propriamente detto, che domina quest’evoluzione parziale e secondaria di una delle razze animali39.

Ciò indica nel campo delle scienze biologico - naturali non soltanto ciò che è indispensabile ma anche ciò che è inevitabile (de Maistre: «Tutto ciò che è necessario esiste»40). La relazione tra equilibrio e mutamento è inserita all’interno della semantica della necessità che rende indistinguibili i concetti di indispensabilità ed inevitabilità. Le influenze esterne che alterano i singoli organismi modificano anche l’esistenza sociale del tutto. Il mutamento tocca le leggi dell’evoluzione e ciò si traduce nella sfera umana in cambiamenti nella velocità di sviluppo. Ma le influenze perturbatrici non possono superare i limiti stabiliti dalle leggi meccaniche e fisiche, in caso contrario il movimento investirà l’organismo spingendolo all’estinzione. L’ambiente esterno stabilizza i viventi e fornisce ad essi regolarità. Dunque, in Comte, se è vero che l’ambiente esterno influisce su quello interno determinandone le trasformazioni è anche vero che il concetto di variazione dell’organismo si basa sull’idea di una natura che si auto-regola mantenendo costante il rapporto tra leggi conservative e leggi dell’evoluzione e del mutamento. Tutto ciò si traduce in una relazione conservativa molto simile a quella postulata da Malthus anche se nelle tesi comtiane è la variazione ad essere sottoposta alla costanza e non viceversa. In ciò Comte si distacca da Bichat in quanto le perturbazioni ambientali vengono ridotte al limite, ammettendo, in caso contrario, l’estinzione dell’organismo. La regolazione, dunque, è un principio vitale ancora più complesso in Comte anche perché fonda non solo la biocrazia ma anche la sociocrazia. Gli interventi politici devono assecondare le leggi naturali ed il principio di regolazione pseudo-naturale. 39 A. Comte, Quarantanovesima lezione in Corso di filosofia positiva, op. cit. p. 299. 40 Ibidem

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1. Antropo - oikonomia

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Nel Sistema di politica positiva l’autore critica tutti quegli autori come J.J. Rousseau e J-A. de Condorcet che essendo partiti dallo studio dei fenomeni biologici hanno poi ripiegato sul concetto illuminista di volontà per spiegare la genesi del sociale. Per Comte, infatti, non esiste libera volontà individuale. L’ordine sociale è già determinato dalle leggi necessarie e positive dell’evoluzione naturale e la vita del singolo è inserita in quella dell’organismo collettivo che lo include eccedendolo. Come sottolinea Esposito, per il soggetto comtiano: Essere interno al mondo (…) vuol dire essere in qualche modo esterno a se stesso, essere parte di qualcosa che nello stesso tempo lo include e lo trascende. Questo qualcosa è appunto la vita – non solo del singolo individuo, ma del grande organismo collettivo che lo comprende, eccedendolo, nella totalità del genere umano41.

Da ciò discende anche il concetto di umanità che è posto alla base di una nuova fede positivista. Il Grande Essere, che rappresenta l’umanità all’interno della quale l’uomo è inserito, non racchiude la totalità degli uomini appartenenti alle generazioni presenti, passate e future; rappresenta solo lo stadio ultimo del percorso positivista nel quale l’umanità sarà composta dai migliori, cioè da coloro che sono sopravvissuti conservando la propria discendenza. Il culto degli uomini veramente superiori costituisce una parte essenziale del culto dell’Umanità. Anche nel corso della sua vita oggettiva, ognuno di essi costituisce una personificazione del Grande Essere. Questa personificazione, tuttavia, esige che si scartino idealmente le grandi imperfezioni che spesso alterano le grandi nature42.

Questa fede nell’umanità composta dai migliori uomini implica una semantica della vita costitutivamente patologica in quanto si ammette che l’evoluzione positiva, giunta all’ultimo stadio, sia possibile solo per mezzo della morte dei peggiori che lasciano il posto ai migliori. Il concetto biologico di sviluppo e quello positivistico di evoluzione implicano l’idea che la vita migliore si generi dalla morte degli uomini che non hanno prevalso nella lotta per la sopravvivenza. La regolazione esclude le vite precarie così come i sistemi sociali che non si strutturano coerentemente ai principi funzionali della natura inorganica e, prima ancora, dell’astronomia e della matematica.

41 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit., p. 39. 42 R. Aron, Auguste Comte in Le tappe del pensiero sociologico. Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, trad. it. di A. Devizzi, Mondadori, Milano, 1989, p. 63.

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Ma fu E. Spencer nel 1851 a coniare il termine evoluzione che fu utilizzato nel contesto del darwinismo sociale. L’intento dell’autore era di costruire un sistema di filosofia sintetica fondato sull’elogio del relativismo conoscitivo: non esiste verità positiva che possa spingere la conoscenza oltre i limiti naturali. Nell’opera I primi principî il concetto di evoluzione fu applicato alla biologia, alla sociologia, alla psicologia ed all’etica43. L’evoluzione si sviluppa a partire da un’origine che va dall’incoerente al coerente, dall’eterogeneo all’omogeneo e dall’indefinito al definito. La legge dell’evoluzione mira all’integrazione della materia, alla continuità del moto ed alla persistenza della forza. Va dal semplice al complesso. Creare un sistema omogeneo implica anche la necessità di definire quali trasformazioni delle ‘parti’ siano funzionali alla stabilità ed alla coerenza del ‘tutto’. Le forme di vita più semplici soccombono rispetto alle più complesse in quanto entrano in conflitto con queste nell’ambito dell’evoluzione. L’aspetto che differenzia le tesi di Spencer da quelle di Darwin consiste nell’aver individuato una continuità tra mondo inorganico, organico e superorganico o sociale. Da questo punto di vista le tesi darwiniane sono direttamente trasposte nel contesto sociale. Affinché quest’ultimo si sviluppi è necessario che si mantenga un ordine interno cioè che vi sia una costanza delle sue funzioni sociali. La crescita di un organismo umano o di uno sociale si verifica non soltanto rispetto alle dimensioni ma anche rispetto alla struttura o alle funzioni (divisione economica del lavoro/divisione fisiologica del lavoro). Il livello di differenziazione sociale aumenta progressivamente e si arresta solo nel periodo che precede la decadenza. Il vivente è considerato, dunque, come un’entità biologica nella quale l’esistenza delle ‘parti’ non implica automaticamente la connessione in un ‘tutto’ organico, nel senso che le parti possono continuare ad esistere anche quando il tutto si disgrega e viceversa. La vita in tale entità è distribuita secondo una certa costanza. Al di fuori delle variazioni che tendono all’accrescimento dell’ordine biologico o sociale, la differenziazione interna conduce all’estinzione dell’organismo. Nell’organismo, dunque, si genera una lotta che, prima di tutto, rivela quali funzioni e quali strutture siano considerate utili al mantenimento dell’organizzazione interna. Al di fuori del singolo organismo biologico o sociale la lotta, invece, è volta all’accaparramento di un nicchia ecologica ed all’adattamento ambientale. Spencer interpreta così anche lo scontro tra razze, culture e società. Sono le stesse leggi dell’evoluzione e la ‘razionalità’, non interamente conoscibile, della natura che richiedono la lotta per la sopravvivenza. 43 Cfr. H. Spencer, I primi principî, a cura di M. Sacchi e G. Cattaneo, L’arte bodoniana di L. Rinfreschi, Piacenza, 1920.

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1. Antropo - oikonomia

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Ma la conoscenza dei principi dell’evoluzione è relativa e limitata. E ciò sopratutto perché le scienze positive, andando avanti per approssimazioni successive, arrivano a dei principî ultimi, non ulteriormente indagabili con strumenti conoscitivi. Uno di questi principî è l’adattamento evolutivo che rappresenta un dogma centrale della teoria spenceriana. La vita diviene un sistema ordinativo di relazioni all’interno di un ambiente che tende ad ottimizzarne l’ordine. Dunque, il vero a priori o elemento inconoscibile è la vita, definita secondo criteri di omogeneità, differenziazione e coerenza funzionale non ulteriormente conoscibili. Ciò che sopravvive, che resiste, si adatta meglio e diviene vita normale. L’evoluzione è un processo universale ed unitario che tende verso un’idea di progresso naturale tautologicamente fondato. La conservatio vitae, così, costituisce un a priori racchiuso nei processi insondabili di un ordine naturale che ha sostituito l’ordine divino. Per questo la sociologia diviene la scienza che si occupa della regolazione e del mantenimento dell’ordine sociale. L’obiettivo della sociologia, infatti, non è impedire la trasformazione ed il mutamento ma fare in modo che esso avvenga sempre in modo regolato, scongiurando le trasformazioni imprevedibili. È la questione della regolazione dell’ordine a balzare in primo piano: l’idea centrale è che esiste un equilibrio pseudo-naturale che la politica non deve far altro che tradurre in modelli d’azione e di intervento (in forme di regolazione artificiale). In conclusione possiamo affermare che i due concetti base che emergono dalla teoria dell’evoluzione darwiniana e spenceriana sono: ordine naturale auto - regolantesi e concezione difettiva delle forme viventi. In Darwin come in Spencer, infatti, il vivente non coincide mai con le proprie condizioni d’esistenza. L’a priori di cui né l’uno né l’altro parlano è la dimensione paradossale della vita umana. 1.6. Economia politica: estraneazione del lavoro e paradossalità del desiderio

Nel XVI secolo l’analisi delle ricchezze si concentrava su due problematiche: il carattere assoluto o relativo del rincaro delle derrate (come l’afflusso o la svalutazione dei metalli poteva influire sulla variazione dei prezzi) e la sostanza monetaria (distorsione tra il peso della moneta ed il suo valore nominale). La moneta misurava le ricchezze e stabiliva i prezzi in quanto era intrinsecamente preziosa. Nell’ordine della rappresentazione classica la moneta era inserita in uno spazio di significazione nel quale le caratteristiche fisiche del metallo ed il peso erano contrassegno di ricchezza per chi li possedeva. Come sostiene Foucault la moneta era una segnatura universale, cioè aveva un valore intrinseco riconosciuto e condiviso. Era unità di misura riconosciuta in quanto riferibile ad oggetti concreti con i quali poteva essere scambiata. Racchiudeva, dunque, l’unità di misura

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dell’utilità stimata di molte cose. Riassumendo si può dire che il valore nominale discendeva direttamente dal valore intrinseco e la moneta rappresentava sia un valore intrinseco per il possessore che una misura di scambio equiparabile ad altri beni, come i metalli. Il metallo contrassegnava la ricchezza, per questo era considerato prezioso e poteva misurare tutti i prezzi, scambiandosi con tutto ciò che aveva un prezzo. Nel XVII secolo la moneta cominciò ad assumere valore in quanto si poteva scambiare con altre merci in base al loro prezzo. La funzione di scambio assunse centralità rispetto al valore intrinseco. L’attitudine della moneta di misurare i prezzi divenne funzione di scambio. Con il mercantilismo ogni ricchezza fu considerata monetizzabile e scambiabile; furono definiti ricchezze tutti gli oggetti del desiderio. Ciò significa che ogni cosa, anche quelle che prima non avevano valore intrinseco, doveva possedere, ora, un prezzo e la moneta doveva rappresentare la funzione di scambio di tutte queste. Questa caratteristica portò a considerare i metalli non più adatti allo scambio economico. Ciò significa che si invertì il rapporto tra moneta e metallo: non fu più la moneta ad acquisire valore dal metallo ma il metallo dalla moneta. Ambedue questi elementi persero il valore di segno per acquisire quello di mezzo di scambio. Non fu più la ricchezza che si espresse attraverso la moneta ma la moneta che generò ricchezza attraverso la propria capacità di circolazione. Il valore nominale divenne, inoltre, la misura dei rapporti reciproci tra le merci scambiate sul mercato, stabilendo un sistema di equivalenza per i prezzi. I mercantilisti, inoltre, sottolinearono che il metallo non andava custodito come una ricchezza ma messo in circolazione in quanto moneta. In questo periodo, anche sul versante della lingua, furono utilizzate le prime metafore che comparavano il sistema economico con il sistema organico (circolazione del sangue/della moneta). Nella seconda metà del XVIII secolo si sviluppò una nuova teoria economica che si chiese da dove scaturisse il valore che, tuttavia, attribuiamo alla moneta come mezzo di scambio. Foucault parla di due versioni di questa “teoria del valore”: la fisiocrazia e la teoria psicologica. La fisiocrazia considera la formazione del valore come fase anteriore allo scambio. Questo approccio muove dal presupposto dell’immensa prodigalità della natura. Le cose offerteci in sovrabbondanza dalla natura non sono ricchezza ma beni, i quali solo in un secondo momento vengono ripartiti mediante lo scambio. Solo ciò che fornisce originariamente la natura garantisce l’accrescimento: l’agricoltura è l’unica attività propriamente produttiva (ciò che è prodotto non corrisponde semplicemente al mantenimento del produttore). Tuttavia, è la rendita fondiaria e non il lavoro agricolo a trarre giovamento dalla prodigalità della natura. È il surplus naturale conservato tramite la rendita fondiaria che trasforma i beni in ricchezze. La teoria psicologica, invece,

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si basa sul concetto di utilità intrinseca allo scambio. Il valore si forma nell’atto stesso della transazione economica. Il vero oggetto del desiderio non è il bene ma il suo valore di scambio. Al centro dell’attenzione ci sono i soggetti che ricevono nella transazione ciò di cui hanno bisogno. Ciò implica un giudizio di valutazione soggettiva sull’utilità di un bene che si trasforma in prezzo entro il sistema di scambio. In questo alveo teorico il valore assume due significati, entrambi connessi alla semantica dell’utilità soggettiva. Il primo fa riferimento al concetto di utilità che ogni individuo attribuisce prima dello scambio alle merci che desidera. Questo è definito valore stimativo. Il secondo, chiamato valore apprezzativo, si produce all’atto dello scambio. Queste due misure del valore, però, sono inversamente proporzionali: nella transazione economica quando il valore stimativo cresce per uno dei due poli della relazione diminuisce per l’altro. Dunque, se per un polo il valore apprezzativo è massimo per l’altro polo è minimo, mentre cresce il valore stimativo. Questa relazione inversa fonda la relazione di scambio. Tutto ciò che ha valore sia stimativo che apprezzativo si basa sullo stato di bisogno degli uomini e sul carattere compiuto della natura. Le due teorie precedentemente introdotte (fisiocratica e psicologica), ed il concetto di valore che portano con sé, avranno un’influenza determinante sulla formazione delle tesi di A. Smith e D. Ricardo. A. Smith introduce un nuovo concetto di lavoro. Nelle teorie precedenti il lavoro era misurato sulla base del bisogno, cioè in relazione all’utilità stimata di ciò che non si ha. Smith inventa una nuova funzione non solo svincolando il lavoro dal bisogno immediato ma trasformandolo in un’unità di misura assoluta, non direttamente connessa alle preferenze soggettive. Il lavoro diviene, infatti, unità di misura oggettiva del valore contenuto nella merce. Ciò che la teoria smithiana misura è la quantità delle unità di lavoro contenute nelle merci prodotte. La giornata lavorativa rappresenta il numeratore fisso di una relazione produttiva mentre il denominatore è variabile e dipende dal numero di oggetti prodotti. La giornata lavorativa, dunque, è misurata sulla base del tempo di lavoro. Il valore è dato dalla quantità di tempo impiegato per produrre un bene. Il lavoratore, non potendo più di tanto dilatare i tempi, per aumentare la produttività, deve impiegare dei mezzi tecnici che velocizzino la manzione. Da ciò la grande importanza che assume nella teoria smithiana la divisione del lavoro44. Inoltre, l’aumento della produttività per unità di tempo fa diminuire il valore di scambio di ogni singola merce prodotta. Per questo la capacità di scambio non deve superare un certo volume, la divisione del lavoro deve essere adeguata all’estensione del mercato. 44 Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, a cura di A e T. Bagiotti, Utet, Torino, 1975.

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Si può sostenere che in Smith il sistema dei bisogni rimane centrale, essendo il motore degli scambi, nonostante la misura oggettiva del valore e la divisione delle funzioni lavorative ne rappresentino degli aspetti decisamente innovativi. Il riferimento ai bisogni si trasforma, comunque, in un riferimento al tempo ed alla fatica, cioè a ciò che consuma la vita di un uomo. Secondo Foucault, con ciò Smith si pone fuori rispetto all’ordine della rappresentazione classica. Il valore economico, infatti, non è più determinato dal rapporto tra le cose ma dalla relazione tra l’oggettualità e la fatica o il tempo impiegati per produrle. L’attività produttiva e lo scambio sono motivati, in ultima istanza, dall’incompiutezza e dalla finitudine antropologica dell’uomo. Con la nascita del discorso di verità dell’economia politica il lavoro diviene il tramite tra desiderio e bisogno, sottolineando la condizione di scacco che la vita potenziale produce rispetto alla vita attuale. Inoltre, a partire da Smith, il tempo dell’economia non è più ciclico ma lineare. Si tratta di una temporalità interna all’organizzazione produttiva che cresce secondo leggi impersonali, in parte estranee all’uomo. Nasce il tempo della produzione e del capitale. È interessante notare che anche in questo campo si sviluppa una concezione auto - regolativa dell’ordine: livelli regolati di disordine consentono di produrre ordine economico e sociale e la condizione antropologica di carenza deve essere il presupposto di questa configurazione. Ne La ricchezza delle nazioni Smith parla, infatti, di un ordine armonico che si regola senza intervento di fattori esterni. La ‘mano invisibile’ è giustificata da un concetto di utilità collettiva che rimanda ad un’idea provvidenziale non trascendente, fondata sul meccanismo dell’auto - regolazione economica e sociale. Riassumendo possiamo sostenere che l’ordine della rappresentazione classica, entro la quale si colloca anche la teoria psicologica del valore, fino a Smith è fondato su un approccio soggettivista e pragmatico che identifica il valore con il bisogno. Sono, dunque, i bisogni primari che determinano la propensione allo scambio. L’utilità determina la domanda e, quindi, il prezzo. Anche il sapere/ potere economico pre - smithiano era interessato al profitto solo in senso relativo; mirava, cioè, a garantire l’ordine, la stabilità, la regolarità dei sistemi di scambio e la ripartizione delle ricchezze, nonché i prelievi di risorse. Ordinava e rendeva visibili sul piano empirico i comportamenti degli attori economici mossi da una definizione soggettivistica del bisogno. Con Smith, invece, si ebbe il primo tentativo di oggettivazione del sapere economico con la trasformazione del concetto di utilità soggettiva in razionalità economica. Si tratta di un tentativo di razionalizzazione della prassi empirica e di oggettivazione del carattere soggettivista dello scambio. Tra desiderio ed utilità

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si inserì il valore lavoro. E ciò rispose prima di tutto ad un’esigenza di ordine: stabilire criteri unitari laddove prevalevano atteggiamenti produttivi diversificati e mossi dalle preferenze soggettive. Come sottolinea L. Bazzicalupo, è la moneta come medium dello scambio e come forma di differimento del credito a trasformarsi in meccanismo di regolazione politica e di validazione dei molteplici rapporti di potere che si sviluppano in campo economico: La moneta è credito e dunque differimento. Nel differimento, il gioco immediato e vitale del bisogno - domanda - consumo si articola nella relazione di potere tra quanti sanno differire la soddisfazione, e accumulano ricchezza per investire e produrre maggiore ricchezza, e quanti non sanno e non possono dilazionare. La moneta è anche differimento in quanto credito implica, dunque, che l’autorità, la garanzia politica, entri direttamente nel gioco degli scambi. Nel differimento si inserisce il meccanismo di validazione del potere e si salda l’economico con il tecnico - produttivo. Questa è la modernità: si parte per la corsa ad una soddisfazione dei bisogni mai satura45.

É il differimento del desiderio che genera valore economico e dà vita alle relazioni di potere. Ma il principio di interdizione del piacere o il desiderio immediato di soddisfazione del bisogno innesca un processo di astrazione nel quale l’autorità pubblica si inserisce con i propri strumenti tecnico - economici. Si può dire che il processo di astrazione del denaro produce esiti paradossali, rendendo il desiderio sempre più concreto ed affiancabile al bisogno o alla soddisfazione immediata. Ma, come abbiamo visto, una particolare mediazione tra desideri e bisogni è fornita dalla teoria del valore. Quest’ultimo è ciò che unifica beni incommensurabili tra loro e definisce l’ordine, attuando una mediazione tra sistemi soggettivi di bisogni. Il valore nasce, dunque, nella relazione e nella mediazione. Nulla vale di per sé ma solo in correlazione con qualcos’altro, all’interno del meccanismo dello scambio. Il valore - lavoro, introdotto da Smith e sviluppato compiutamente da Ricardo e Malthus, si basa sull’oggettivazione della relazione intersoggettiva che dà ragione del nesso economia - politica. Ciò significa che economia e politica saranno sempre più interrelate ed indistinguibili. Il valore - lavoro sposta il riferimento politico - economico dalla soggettività del consumo all’oggettività della produzione e del lavoro, inserendo i rapporti sociali all’interno di un nesso tecnico - governamentale. La produttività è posta in primo piano in quanto dimensione incrementale. Il sovrappiù è, infatti, il concetto centrale dell’economia moderna e della pratica governamentale. Per Ricardo il reddito ed il capitale rappresentano quella dimensione di incrementalità produttiva che si aggiunge all’economia di scambio. 45 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, op. cit., p. 67.

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Con la riflessione di D. Ricardo, infatti, si modifica il significato attribuito al valore - lavoro. In Smith il lavoro era una misura costante del valore delle merci in quanto consentiva di attribuire un medesimo valore ed una stessa misurabilità a cose anche molto diverse che, così, potevano essere scambiate. Ciò sulla base di una condizione: la quantità di lavoro indispensabile per produrre una cosa doveva corrispondere con la quantità di lavoro che quella cosa poteva comprare (la quantità di valore incorporata doveva corrispondere al valore di scambio della merce). Il lavoro era considerato in parte come attività di produzione ed in parte come merce. Ricardo trasforma questa dimensione, distinguendo la fatica dell’operario dall’attività che genera valore. Quest’ultima si compone di varie fasi: estrazione dei metalli, produzione delle derrate, fabbricazione delle merci, trasporto delle merci. Il lavoro in Ricardo diviene una relazione produttiva esprimibile con una funzione. Inoltre, in questo sistema la produzione precede lo scambio. Il processo economico è una modalità di relazione sociale che struttura classi e ruoli in sistemi differenti ma interdipendenti. Le condizioni di produzione determinano, dunque, il valore di un bene. Questo, dunque, si forma sempre a partire da fattori come la divisione del lavoro, la massa di capitale di cui l’imprenditore dispone, l’investimento in capitale fisso, ecc. Nasce la serie lineare della produzione: le ricchezze si organizzano in una concatenazione temporale, non in un sistema di equivalenze. Un altro concetto chiave in Ricardo è quello di rarità. L’umanità lavora costantemente sotto la minaccia della morte: le popolazioni, carenti di risorse naturali, sono destinate ad estinguersi. La natura, dunque, non è prodiga e generosa come volevano i fisiocratici ma tende generalmente a produrre scarsità. Allo stesso modo, il lavoro è dotato di una produttività decrescente e deve sempre evolversi a livello tecnico. Ma anche in questo caso esiste un ordine omeostatico basato su una sorta di auto - regolazione naturale che presuppone che la produttività tecnica non possa spingersi oltre determinati limiti stabiliti, oltrepassati i quali il rendimento del lavoro tende, comunque, a diminuire. I tentativi umani di mitigare la condizione di dipendenza divengono vani e, a questo punto, intervengono dei meccanismi di decrescita demografica. Ciò non solo in condizioni da scarsità di risorse. Effetti negativi si generano anche nel caso in cui vi sia una sovrabbondanza di risorse rispetto alla popolazione. In questo secondo caso è la produttività del lavoro e delle terre messe a coltura che diminuirà progressivamente. L’economia è fondata su un equilibrio che tende sempre alla sussistenza. Nell’economia del XIX secolo il lavoro diviene per l’uomo l’unico mezzo per negare la carenza originaria ma ciò significa che, dopo Ricardo, l’economia poggia su un’antropologia che tenta di assegnare alla finitudine forme concrete. L’oggettivazione rigida dei meccanismi desideranti di Smith si traduce, secondo Foucault, in un duplice

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orizzonte nel quale si confrontano tra loro una psicologia dei bisogni rappresentati ed un’antropologia della finitudine naturale: L’homo oeconomicus non è quello che si rappresenta i propri bisogni e quegli oggetti capaci di saziarli; è colui che passa, logora e perde la propria vita nello sfuggire all’imminenza della morte. è un essere finito: e come, dopo Kant, il problema della finitudine è diventato più fondamentale dell’analisi delle rappresentazioni, analogamente, dopo Ricardo, l’economia poggia, più o meno esplicitamente, su un’antropologia che tenta di assegnare alla finitudine forme concrete. L’economia del XVIII secolo era collegata ad una mathesis in quanto scienza generale di tutti gli ordini possibili; quella del XIX sarà rapportata ad un’antropologia intesa come discorso sulla finitudine naturale dell’uomo46.

In Ricardo vi è, inoltre, l’applicazione del concetto di evoluzione all’economia. Questa sorge sempre dal presupposto della rarità come condizione naturale e prende corpo nella legge del rendimento decrescente della terra. Il risultato di tale legge è che lo sviluppo economico tende alla stasi (si arriva ad un livello in cui l’incremento produttivo o la messa a coltura di nuove terre ha un effetto frenante). Ciò significa, però, anche che Ricardo introduce il tempo lineare della storia nell’economia, come ha ben visto Foucault. Esso diviene finito come la condizione naturale dell’uomo e statico come lo sviluppo economico. Dice Foucault: Il tempo cumulativo della popolazione e della produzione, e la storia ininterrotta della rarità, consentono, a partire dal XIX secolo, di concepire l’impoverimento della Storia, la sua inerzia progressiva (...). è evidente, ora, la funzione svolta dalla Storia e dall’antropologia l’una rispetto all’altra. Non esiste Storia che nella misura in cui l’uomo, in quanto essere naturale, è finito: finitudine che si prolunga ben oltre i limiti primitivi della specie e dei bisogni immediati del corpo, ma che non cessa di accompagnare (…) l’intero sviluppo delle civiltà. Quanto più l’uomo si insedia nel cuore del mondo, quanto più regredisce nel possesso della natura, tanto più fortemente viene incalzato dalla finitudine, tanto più si avvicina alla propria morte. La Storia non consente all’uomo di evadere dai suoi limiti iniziali […]; ma considerando la finitudine fondamentale dell’uomo, ci si accorge che la sua situazione antropologica non cessa di drammatizzare sempre più la Storia, di renderla più rischiosa e di avvicinarla per così dire alla sua impossibilità47.

Ma è necessario sottolineare che sul piano della finitudine antropologica si confrontano due concezioni della storia: quella di Ricardo e Malthus che diviene statica e pessimistica e quella di Marx che arriva ad un punto di inversione e di ribaltamento. Vedremo successivamente come questo ribaltamento si traduca in termini economico - politici. 46 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit., pp. 178 - 179. 47 Ivi, p. 281.

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Nel Saggio sul principio di popolazione (1798), T. Malthus parla dell’impossibilità di concepire l’evoluzione umana ed economica in termini progressivi. La popolazione è l’elemento attraverso cui la natura tende sempre a riequilibrare la quantità di risorse disponibili ed i processi di popolamento dello spazio. Esaminando la storia dell’umanità Mathus sostiene che si riconoscono tre processi che riguardano il rapporto tra popolazione e risorse naturali: l’aumento della popolazione è limitato dai mezzi di sussistenza; la popolazione aumenta invariabilmente quando aumentano i mezzi di sussistenza; che il potere della popolazione è represso e la popolazione effettiva è equilibrata dai mezzi di sussistenza, dalla miseria e dal vizio48. Le risorse aumentano in modo aritmetico mentre la popolazione aumenta seguendo un ritmo geometrico. Ne deriva, secondo l’autore, una condizione cronica di scarsità da cui discende un decremento demografico. La scarsità, ancora una volta, è effetto ciclico della regolazione pseudo - naturale. Ma alla tirannia della natura si uniscono miseria e morte derivanti dal vizio e dalla cattiva condotta morale degli uomini. Anche queste, in un certo senso, fungono da meccanismi di riequilibro. Per formalizzare tale modello è, inoltre, indispensabile il concetto di popolazione. Essa, come sostiene Foucault, è una categoria generale all’interno della quale poter stabilire delle soglie di accettabilità che rendono i meccanismi regolativi “normali” e “normalizzabili”, cioè concepibili come funzioni costanti ed, entro certi livelli, fisiologici della società49. È evidente la penetrazione di un principio di rarità e di carenza nella condizione socio - organica della popolazione. Naturalmente, il principio di popolazione consente anche di definire i criteri per operare delle ‘cesure’ o stabilire delle gerarchie sociali. Secondo Malthus in una società complessa la distinzione fondamentale è quella tra proprietari e non proprietari. Questi ultimi sono coloro che, non avendo accumulato beni e ricchezze, devono vendere il proprio lavoro esponendosi di più all’equilibrio di sussistenza che li fa piombare irrimediabilmente in una condizione di bisogno e di dipendenza. Il primo tipo di bisogno è quello di procreare ma le classi lavoratrici devono tenere a freno tale istinto. Ciò attraverso due tipi di freni: preventivi e regolabili dall’uomo (politiche demografiche di controllo delle nascite) e positivi e regolabili dalla natura (mortalità). Ma per l’autore l’equilibrio di sussistenza non è un aspetto frenante in quanto diventa una molla per l’azione. Se l’uomo è privato dello stimolo del bisogno viene meno ai propri doveri lavorativi e familiari e cade in una condizione improduttiva di ozio. Ciò si traduce in un’opinione politica estremamente conservatrice che influenzerà la battaglia di Malthus a favore 48 Cfr. T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione (1798), a cura di G. Maggioni, Einaudi, Torino, 1977. 49 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), op. cit.

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dell’abolizione del regime assistenzialista delle pour laws. È, inoltre, evidente la vicinanza tra le tesi di Malthus e quelle di Darwin in quanto i concetti di lotta per la sopravvivenza e selezione del più adatto, anche se non utilizzati esplicitamente dall’economista, sono presenti nel principio di popolazione ancor prima che il naturalista inglese li esplicitasse. L’ultimo autore al quale rivolgerò l’attenzione in questa rapida carrellata di teorici dell’economia classica è K. Marx. In questo contesto si intende fare specifico riferimento al concetto di alienazione ed al paradigma antropologico ad esso sotteso. Nei Manoscritti economico - filosofici del 1844 l’autore definisce l’alienazione in quattro modi, strettamente collegati tra loro. 1. Privazione dell’oggetto di lavoro. Le risorse fornite dalla natura, una volta trasformate in beni per mezzo del lavoro, vengono sottratti a chi li ha prodotti. L’operario, dunque, è estraneo al frutto del proprio lavoro, il quale gli si oppone generando alienazione. 2. Condizione soggettiva. L’operaio non soltanto è estraneo al frutto del proprio lavoro ma si estranea anche da se stesso. L’alienazione oggettiva si accompagna ad un’alienazione soggettiva, che tocca direttamente l’operaio nella propria identità e coscienza. Si tratta di un’estraneazione che tocca sia l’operaio che l’uomo perché è proprio in quanto operaio che questo soggetto può essere definito uomo. Dunque, è nella condizione lavorativa che si consuma la lacerazione tra l’operaio ed il frutto del proprio lavoro e tra questo e la condizione umana di soggetto; e ciò in quanto le merci prodotte dall’operario diventano di proprietà del capitalista. In tal modo l’operaio è privato di forza lavoro che è incorporata nell’oggetto e, in quanto valore, si trasferisce ad un altro individuo. Ma in tal modo l’alienazione soggettiva assume una connotazione ancora più radicale. 3. Condizione antropologica. Il lavoro è lo spazio - tempo nel quale si esprime la condizione vitale dell’uomo moderno: la vita è lavoro nella misura in cui è dispendio di forza vitale, di energia, di potenza. Ma tale vitalità si attualizza e assume valore solo nelle mani di un soggetto diverso da colui che la possiede. Per l’operaio l’attività lavorativa genera una condizione di deprivazione vitale oltre che economica. Il lavoratore, infatti, è remunerato solo quel minimo che gli consente di rimanere in vita e di riprodursi. Dunque, il lavoro è sinonimo di sopravvivenza e riproduzione ed il salario deve essere mantenuto sempre a livelli di sussistenza.

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Il salario di sussistenza, secondo Marx, è il presupposto della definitiva animalizzazione dell’operario in quanto lo riduce ai suoi bisogni primari privandolo delle condizioni materiali e simboliche che rendono la vita umana qualificata. Infatti, nelle situazioni lavorative che producono alienazione, dice Marx: (…) l’uomo si sente libero solo nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale. Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quell’astrazione, che le separa dalla cerchia dell’attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali50. Il lavoro come dispendio di energie animali, infatti, si distingue dall’operari che implica l’esistenza di una volontà, uno scopo ed un’idea. La superiorità umana si dovrebbe misurare proprio nello svincolarsi dal bisogno e dal giogo della necessità naturale. L’alienazione, dunque, è privazione della libertà umana d’agire. Nell’uomo l’attività vitale è cosciente; egli non dovrebbe aderire al puro dato naturale come fa l’animale. Il lavoro, dunque, rovescia questa condizione umana in quanto fa dell’agire solo un mezzo per la conservazione bio - organica del corpo.

Riassumendo: nella condizione di alienazione l’uomo è privato del frutto del proprio lavoro, della propria attitudine produttiva (attività) e della propria condizione antropologica (è estraniato in quanto uomo da ciò che lo rende differente rispetto alla bestia, cioè l’operari). Marx non si limita ad assumere l’alienazione soggettiva ed oggettiva come un dato negativo da ribaltare ma ciò conduce ad un’attenta disamina della condizione antropologica nel regime di potere/sapere dell’economia politica moderna. L’emancipazione politica della società dalla proprietà privata e dal capitalismo viene, dunque, a coincidere esattamente con l’emancipazione degli operai dal lavoro alienato e ciò perché in questa condizione è contenuta l’emancipazione universale dell’uomo. La finitudine della singola vita individuale trova un prolungamento nelle superiore vita della specie. Marx, influenzato da Darwin, parla di specie come quella dimensione che libera l’uomo dalla costitutiva carenza originaria, consegnandolo alla superiore vita universale della collettività. La creazione pratica di un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la prova che l’uomo è un essere appartenente ad una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo 50 K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, trad. it. di N. Bobbio, Einaudi, 1968, p. 75.

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proprio essere, o verso se stesso come un essere appartenente ad una specie. […] L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita dell’uomo come essere appartenente ad una specie (…). Perciò il lavoro estraniato strappando all’uomo l’oggetto della sua produzione, gli strappa la sua vita di essere appartenente ad una specie. […] Una conseguenza immediata del fatto che l’uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro è l’estraneazione dell’uomo dall’uomo. Se l’uomo si contrappone a se stesso, l’altro uomo si contrappone a lui (…)51.

4. Privazione dello statuto di socialità. Dunque, la quarta forma di alienazione consiste nell’esclusione dalla specie, nella privazione dell’uomo dal suo statuto di essere sociale. Ciò significa estraneazione dell’uomo dall’uomo. Se l’uomo si contrappone a se stesso, l’altro uomo si contrappone a lui. Si verifica, dunque, una perdita non solo del valore individuale ma anche relazionale del lavoro con conseguente privazione dell’identità sociale e collettiva dell’operaio. L’operari, infatti, ha un valore profondamente sociale in quanto include un sapere condiviso che si esprime nella progettualità, nell’esperienza, nella finalità acclusa nell’attività produttiva. Questa esclusione del contesto sociale rappresenta l’ultima fase della spoliazione alienante del lavoratore e quella più radicale, in quanto lo pone al di fuori del tempo della storia umana (tempo lineare, secondo Marx) abbandonandolo ad una temporalità ricorsiva tipica della pura esistenza naturale. In tal modo la proprietà privata viene a coincidere con la vita dell’uomo, è inclusa direttamente nella condizione vitale, intesa come potenza che produce mossa dal bisogno, e da una condizione antropologica di costitutiva manchevolezza. L’economia politica deve postulare necessariamente tale condizione antropologica, vitale e lavorativa per fondare la proprietà privata ma anche per poterne concepire il superamento. Infatti, l’alienazione non produce una condizione di estraneazione vissuta come una pura esteriorità relazionale tra corpo alienato e condizione alienante. Alla prima fase di alienazione (estraneazione del frutto del lavoro) corrisponde un’alienazione soggettiva ed antropologica che abolisce le distanze e provoca una vera e propria incorporazione dei processi lavorativi alienanti nel corpo dell’operaio. Ciò significa che è nel corpo e nella coscienza dell’operaio che si moltiplica la forza di circolazione dei processi alienanti. La vita ed il lavoro divengono quel surplus di cui si appropria il capitalista. Anche nella teoria del pluslavoro Marx sottolinea che il surplus si ricava dalla differenza tra ore di lavoro remunerate ed ore di lavoro direttamente impiegate per la produzione. Se i salari si mantengono al livello di sussistenza, tutto ciò che è prodotto e non serve per coprire i costi di sussistenza e riproduzione della forza lavoro diviene risorsa vitale che si trasforma in profitto del capitalista. In tal modo, il lavoratore diviene 51 K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, op. cit., pp. 79 - 80.

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letteralmente riproduttore del capitale in quanto ne favorisce la circolazione. Ed infatti è il valore di scambio ad essere alimentato da questo meccanismo di spoliazione. Il surplus prodotto, infatti, non rappresenta il valore d’uso della merce ma il valore di scambio, la sua capacità di circolazione. Il valore di scambio rappresenta l’unità di misura che accomuna e rende scambiabili tra loro anche merci molto differenti dal punto di vista qualitativo. Esso misura le merci in base a criteri quantitativi, che rispecchiano essenzialmente il tempo di lavoro incluso. Inoltre, mentre il valore d’uso si esprime nel consumo, il valore di scambio nella produzione e nella circolazione. Tornando alla dimensione antropologica dell’alienazione, si può dire che nel salario corrisposto all’operaio è pagato solo il valore d’uso che serve al lavoratore per consumare beni garantendosi la sopravvivenza. Al contrario, ciò che viene prodotto come sovrappiù (surplus lavorativo), è trasformato in valore di scambio delle merci inserite sul mercato. Il salario di sussistenza del lavoratore si traduce in un’attitudine al consumo diretto ed all’incorporazione non conservativa. Si tratta, infatti, di un’attività che non conserva il mondo, che non garantisce a questo durevolezza ma che consuma tutto in un immenso vortice distruttivo. Ciò alimenta la vocazione ascetica del capitalismo moderno. Tale vocazione, sottolinea Marx, si regge su una dinamica di doppio vincolo del desiderio. Non si tratta per il lavoratore di un annullamento del desiderio ma di una condizione di scacco desiderante in quanto egli deve desiderare continuamente ciò che non può permettersi. Solo desiderando di consumare e mantenendo il consumo effettivo a livello di sussistenza si può sfruttare l’immensa potenzialità vitale che il lavoro rende disponibile. Nell’ambito della proprietà privata ogni uomo si ingegna per procurare ad ogni altro un nuovo bisogno per costringerlo ad un nuovo sacrificio e per ridurlo ad una nuova dipendenza. Ciò crea estraniazione dell’uomo rispetto all’uomo nello stesso momento in cui si produce un’immensa circolazione dei beni e dei capitali. L’essenza dell’economia politica è la produzione del bisogno di denaro che ha come contraltare l’impoverimento umano del lavoratore52. Si tratta di un discorso di potere di stampo economico ma anche morale. Marx sostiene, infatti, che l’economia politica è ‘la più morale di tutte le scienze’: “Tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro.[…] Esso è il vero e proprio potere”53. Ma pur essendo tutto questo, dice Marx, il capitale non è in grado di produrre altro che se stesso, piegando il resto a sé, trasformando tutte le attività umane in sue schiave. Tutto ciò che l’economista ti porta via di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, 52 Cfr. K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, op. cit. 53 Ivi, p. 131.

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andare al teatro e al ballo, se la intende con l’arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre null’altro che se stesso, né di comprare nulla fuor che se stesso, poiché tutto il resto è ormai suo schiavo54.

Ciò passa anche per un controllo sui fenomeni demografici. Non solo la singola vita ma la vita nella sua totalità è soggetta al doppio vincolo del desiderio, che, sempre più alimentato dalla circolazione dei discorsi sulla sessualità, è sottoposto ad un regime eto - politico che ne prescrive il controllo dei meccanismi vitali e desideranti, anche attraverso la possibile rinuncia ad atteggiamenti riproduttivi. Foucault ha riflettuto molto su questo aspetto: il controllo governamentale sulla popolazione va di pari passo con la modifica degli atteggiamenti sessuali e procreativi e soprattutto con la nascita di nuovi poteri che stimolano la produzione di “discorsi veri” sul sesso (morale borghese del XVIII secolo)55. Le tematiche marxiane fin qui esposte si collegano in maniera evidente alla rappresentazione foucaultiana dell’uomo come allotropo empirico - trascendentale. Infatti, è la condizione di infinita finitudine dell’umano che viene posta in primo piano come essenza stessa dell’uomo, rivelata dalla condizione lavorativa. In Marx il piano dell’immanenza della vita è sottoposto alla trascendenza del denaro. La finitudine dell’uomo si amplifica all’infinito grazie a tale trascendenza, facendosi moltiplicatrice della logica ricorsiva del capitale. L’astrazione che il denaro porta con sé deriva dalla capacità di uniformare tutto ciò che è diverso, di annullare, dunque, le differenze qualitative nella logica della ripetizione dell’identico. La vita umana è inserita in un ciclo economico nel quale, equiparata a tutte le altre merci, perde o assume valore in base alle leggi della domanda e dell’offerta. Ciò significa che anche le relazioni umane o le componenti sentimentali, emotive, passionali divengono contingenti, essendo trasformate in valore economico. Marx, citando il Timone di W. Shakespeare, paragona il denaro, da una parte ad una divinità che unifica tutte le cose e le costringe a baciarsi, dall’altro ad una meretrice che corrompe gli uomini ed i popoli divenendone mediatrice universale56. L’infinita finitudine del denaro, dunque, genera paradossalmente, da una parte, l’astrazione di tutto ciò che ha una materialità e, dall’altra, la riduzione della complessità umana all’immanenza uniformata del suo sostrato bio - organico. Inoltre, la condizione di carenza costituisce in Marx sia la natura alienata dell’uomo che la condizione indispensabile del ribaltamento dello statuto naturale in uno statuto storico. 54 K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, op. cit. p. 131. 55 Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, op. cit. 56 K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, op. cit., p. 153.

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Infinitamente finiti

Come detto, nel materialismo dialettico marxiano l’alienazione rappresenta la condizione della vita dominata dal capitale e della proprietà privata, la quale deve essere portata alle sue estreme conseguenze al fine di giungere, nella società comunista, ad un vero e proprio ribaltamento. La proprietà privata, infatti, secondo Marx cadrà vittima delle proprie contraddizioni interne. La storia è vista, infatti, come negazione della negazione. Il movimento di autocoscienza materiale della storia porta la vita ad emanciparsi dalla condizione ferina, spingendola al parossismo e ribaltandola in una riappropriazione della totalità come dimensione umana. Il ribaltamento avviene con il conferimento all’uomo della sua unità di essere teoretico e pratico, essere individuale e sociale, essere pensante e senziente. L’unificazione di queste polarità rappresenta la vera essenza del comunismo. Quest’ultimo è: (…) soppressione positiva della proprietà privata intesa come auto - estraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico fino ad oggi. Questo comunismo si identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’auto - affermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. è la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione57.

Dalle parole di Marx emerge l’importanza che il naturalismo ha nella logica del ribaltamento comunista in quanto è primariamente riconosciuto che la vita umana dipende da una condizione naturale; essa costituisce un fondo stabile ed universale che accomuna l’essere umano a tutti gli altri esseri viventi. La storia stessa è una parte reale della storia naturale, della natura che diventa uomo. È nelle condizioni di disumanizzazione dell’uomo che va cercata la chiave del ribaltamento e la storia è presa di coscienza della materialità e naturalità esistenziale dell’uomo. Ma ogni negatività che scaturisce dalla positività sintetica che la supera è anche contenuta in essa. La risoluzione del conflitto tra oggettivazione ed auto - affermazione è anche superamento della dialettica hegeliana. In essa il processo di auto - produzione dello spirito è contenuto nel pensiero, è auto - riflessione ed auto - coscienza dell’oggettività estraniata. La critica marxiana si concentra sul carattere formale ed astratto della soggettività, intesa in senso dialettico come auto-coscienza. Secondo Marx nella dialettica hegeliana la soppressione dell’alienazione si trasforma in alienazione e 57 K. Marx, Manoscritti economico - filosofici del 1844, op. cit., p. 111.

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1. Antropo - oikonomia

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l’auto - oggettivazione del lavoro in auto - estraneazione in quanto la soggettività alienata rimane rinchiusa in se stessa, si ripiega nell’autocoscienza della propria estraneazione. Questa non è, dunque, una doppia negazione ma una negatività assoluta. Tutto ciò che si trova all’esterno del pensiero astratto semplicemente non esiste. Contro tutto ciò Marx rivendica la concretezza materiale della dialettica. Questa è per l’autore movimento che libera l’autocoscienza astratta nella coscienza materiale del pensiero. Il materialismo storico è il dispiegarsi di un movimento cosciente, è la presa di coscienza della vita alienata rispetto alle condizioni dell’alienazione. Ciò flette la dialettica marxiana in senso positivo. La storia ne costituisce il momento negativo, la materializzazione della condizione di bisogno e di alienazione del lavoro. Da questo punto di vista la concezione della storia di Marx si distingue da quella di Ricardo. Per Ricardo la storia è caratterizzata da un equilibrio negativo che tende alla stasi. Per Marx, invece, la storia è fondata su un movimento dinamico che fa della negazione della negazione la condizione fondamentale del ribaltamento. Ma tale ribaltamento è, per Foucault, solo apparente. Infatti, la concezione antropologica che deriva dall’ordine del discorso delle scienze naturali ed economiche è piuttosto confermata dalla teoria marxiana. Sia il lavoro alienato che il lavoro liberato dall’alienazione presuppongono la finitudine antropologica, il tempo dell’economia, l’escatologia della storia. Foucault sostiene che, se da una parte la finitudine comincia a manifestarsi nel tempo, dall’altra il tempo si presenta come finito. Questa dimensione si traduce in una vera e propria utopia della fine dei tempi che prevale nel corso del XIX secolo, fin quando la dirompente filosofia nietzschiana non la modificherà trasformandola nella tesi della morte di Dio; anche la finitudine antropologica sarà problematizzata nella figura del superuomo ed il tempo lineare e finito della storia diverrà tempo circolare ed infinito dell’eterno ritorno dell’uguale. Come detto, per H. Arendt, invece, la finitudine del tempo umano è affiancata ad una diversa temporalità di tipo circolare che inerisce la natura. Il tempo della vita e dell’uomo alienato di avvicina pericolosamente a questo tipo di temporalità circolare, spezzando la linearità del tempo umano. Quest’ultimo indica la dimensione dell’operari, dell’azione che conserva il mondo non divorandolo nell’atto del consumo immediato. In Vita activa, dunque, l’autrice parla sia di tempo della natura che di tempo del mondo (tipico dell’uomo)58. Secondo l’autrice, Marx non si accorge della contraddizione insita nella sua opera: egli fa riferimento alla forza animale come base della vita umana non solo in termini critici ma 58 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, op. cit.

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Infinitamente finiti

anche come presupposto fondamentale del suo progetto rivoluzionario. Esso ha l’obiettivo fondamentale di restituire l’uomo alla sua umanità ma lo fa attraverso la soppressione dell’alienazione che è anche soppressione del lavoro che la genera e dell’umanità stessa dell’uomo. Ecco, dunque, la contraddizione: dare la libertà all’uomo significa sopprimere l’unica attività che lo definisce, anche se nella sua dimensione puramente animale. In poche parole, secondo Arendt, Marx accomuna, senza saperle distinguere, le due dimensioni dell’opera e del lavoro, l’animal laborans e l’homo tecnologicus. Si tratta della sussunzione dell’opera nel lavoro e dell’assunzione di quest’ultimo come surplus produttivo. Nell’antichità classica, invece, il lavoro del corpo era nettamente distinto dell’opera delle mani; il primo era riservato agli schiavi, la seconda agli uomini liberi. La vita qualificata, dunque, doveva rimanere separata da quella meramente riproduttiva e di consumo degli schiavi. Questa distinzione rendeva evidente il limite, indicava sia la disumanità del lavoro schiavistico sia il valore qualitativo dell’attività umana. Come sottolineato all’inizio di questa sezione, l’individuazione di ben precisi confini tra lavoro ed opera serviva all’uomo libero come monito e consentiva chiaramente di affermare la superiorità e la complessità dell’agire umano rispetto al lavoro che abbandona il corpo al bisogno ed alla fatica. Arendt sottolinea che le società moderne si basano sullo stesso paradosso anche se, fortunatamente, hanno abolito la schiavitù e la violenza che essa porta con sé. I dispositivi di potere/sapere dell’economia politica che hanno posto al centro il lavoro e la vita devono, infatti, presupporre la paradossale dialettica di libertà e necessità. Le nostre società fondate sul lavoro hanno enormemente ampliato e reso invisibile il paradosso, non lo hanno cancellato. A differenza della schiavitù, inoltre, l’alienazione lavorativa è diventata invisibile ma non si è estinta ed i mezzi tecnici che addolciscono la fatica e generano condizioni di lavoro meno pericolose in realtà concorrono a rendere silente – e non ad eliminare – l’alienazione stessa ed il controllo. Ma estensione del lavoro significa anche estensione del consumo, essendo il lavoro per eccellenza un’attività che presuppone il consumo. Il lavoro trasforma i beni d’uso in beni di consumo: tutto ciò che è immesso nel mercato deve diventare oggetto immediato di consumo e deve trasformarsi in uno stimolo desiderante che trasforma beni voluttuari in bisogni fondamentali. La teoria marxiana della liberazione dell’uomo mediante la liberazione dal lavoro non coglie la problematica dell’aumento esponenziale del consumo rispetto alla produzione. Eliminare il lavoro e le condizioni di produzione che lo generano non significa eliminare la condizione antropologica di bisogno ma, al contrario, celare l’evidenza dell’alienazione. Il tempo liberato dal lavoro, che Marx auspicava si trasformasse in tempo di vita e di svago, è diventato tempo di consumo.

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2. VOLONTÀ E AUTONOMIA

2.1. La ‘natura’ della natura umana

Nel 1971 in Olanda si svolse un dibattito televisivo tra N. Chomsky e M. Foucault sulla tematica della natura umana. Il dibattito è interessante perché presenta due opposti punti di vista sull’oggetto in discussione. Per Chomsky la natura umana consiste in una serie di principî organizzativi innati a partire dai quali si ricava una conoscenza complessa da dati estremamente semplici. Foucault, invece, la considera come un indicatore epistemologico che fa riferimento a specifici ordini del discorso storicamente e geograficamente connotati e non riconducibili ad alcuna struttura innata. In Foucault tale discorso conduce ad approfondire la riflessione sulle caratteristiche ed i limiti della conoscenza antropologica1. Ma la domanda fondamentale: «Che cos’è l’uomo?» è posta dal filosofo francese in un altro interessante scritto che originariamente costituì la sua tesi complementare di dottorato: l’introduzione critica all’Antropologia pragmatica di E. Kant2. L’importanza di questo testo consiste nell’intrecciare riflessione antropologica ed epistemologica consentendo di far luce sulla paradossalità del concetto di natura umana, sospesa tra finitudine positivistica e trascendenza metafisica. L’antropologia moderna, infatti, non è solo fondata sulle scienze positive ma è anche una metafisica vitalista e desiderante. Come detto, la modernità esprime un sapere sull’uomo che potremmo definire contemporaneamente empirico e trascendentale. 1 Cfr. N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, trad. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, Derive Approdi, Roma, 2005. 2 Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di M. Foucault, op. cit.

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Infinitamente finiti

Ed è, dunque, nel trascendentale kantiano che va ricercata l’origine di una nuova interrogazione sulla natura umana. Il sapere che pone come soggetto/oggetto l’uomo non si presenta più come un’ontologia dell’essere ma come una riflessione critica sui limiti della conoscenza umana. Il progetto dell’Antropologia pragmatica, dunque, si lega strettamente al precorso intrapreso dal filosofo francese ne Le parole e le cose, in quanto collega il celebre annuncio della morte dell’uomo ad una riflessione sui limiti della filosofia (tale correlazione è giustificata anche dal titolo della postfazione di G. Canguilhem all’opera di Foucault del 19663, nel quale la ‘morte dell’uomo’ è definita come ‘estinzione del cogito’). L’antropologia diviene forma di sapere relativa all’uomo posto sul limite scavato tra empiricità e metafisica. La natura umana e la vita, dunque, non vanno interpretate come semplici dati empirici ma come indicatori epistemologici, come meta - concetti scientifici. Al centro di questa epistemologia si pone una concezione sintetica della vita che è condizione di possibilità di una metafisica della vita e di una scienza della vita4. Tutto ciò presuppone, ancora una volta, l’allotropo - empirico trascendentale con la propria condizione antropologica di infinita finitudine. L’Antropologia pragmatica fu pubblicata nel 1797 ma i testi in essa contenuti sono il risultato di quasi vent’anni di ricerche e lezioni tenute da Kant all’Università (a partire dal 1772/73). Da ciò parte la riflessione di Foucault che, in primo luogo, mira a mettere in luce continuità e discontinuità tra Antropologia, testi pre - critici e testi critici. In particolare Foucault confronta il periodo pre - critico con quello critico (dalla Dissertazione del 1770 alla Critica della facoltà di giudizio del 1791) e quest’ultimo con la finale riflessione antropologica. Secondo Foucault vi sarebbe una specifica immagine dell’uomo che rappresenterebbe il filo conduttore di tutta la filosofia kantiana. L’Antropologia, pur essendo composta sulla base di materiali empirici, non tratta dell’uomo dal punto di vista scientifico ma lo considera come cittadino del mondo (Weltbürger). Kant vuole indicare ciò che l’uomo “può e deve fare di se stesso5”, cogliendolo nella sintesi dei suoi legami con il mondo. Ciò detto, bisogna però sottolineare che questa immagine dell’uomo come “cittadino del mondo” rimane sullo sfondo della riflessione antropologica kantiana. L’oggetto principale è costituito, secondo Foucault, dalla condizione interiore del suo animo (Gemüt). Lo spostamento del baricentro della riflessione kantiana sul concetto di animo 3 Cfr. G. Canguilhem, Morte dell’uomo o estinzione del cogito?, in M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit. 4 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit. 5 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 44.

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2. Volontà e autonomia

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consente di controinterrogare i rapporti dell’uomo con il mondo. Infatti Foucault si chiede: «Come la riflessione sull’animo umano consente la conoscenza dell’uomo come “cittadino del mondo”? ». Prima di rispondere a tale domanda bisogna, tuttavia, mettere in evidenza che sul concetto di animo non c’è accordo tra i due principali testi che in Kant affrontano le tematiche antropologiche. Si tratta della Psicologia empirica (contenuta nella Critica della ragion pura) e dell’Antropologia medesima. La prima, essendo inserita all’interno della Critica della ragion pura, ha come tematica la riflessione sui limiti della ragione; la seconda, come detto, si pone come obiettivo l’analisi della condizione interiore dell’animo umano che supporta e fonda le facoltà intellettuali. In cosa, dunque, l’impresa dell’Antropologia si distacca da quella critica? Per comprendere questo punto bisogna prioritariamente dire che l’oggetto di studio della Psicologia differisce da quello dell’Antropologia. Nella Psicologia, infatti, non si parla di animo (Gemüt) ma di anima (Seele). Inoltre, dal punto di vista formale, nella Psicologia si postula la coincidenza di senso interno ed appercezione anche se nella Critica della ragion pura (nella quale, come detto, è contenuta la Psicologia), e nell’intero impianto critico kantiano, non esiste tale coincidenza e, addirittura, l’appercezione è una delle forme della conoscenza pura, priva di contenuto (Io penso), mentre il senso interno indica uno dei modi della conoscenza fenomenica (che definisce l’individuo come insieme di fenomeni empirici unificati dalla condizione soggettiva del tempo). Infine, dal punto di vista sostanziale, la Psicologia è influenzata dall’interrogazione sul mutamento e sull’identità, chiedendosi se le determinazioni temporali e le condizioni variabili dell’esperienza possono avere influenza sull’anima. La Psicologia, quindi, non risponde alla domanda relativa alla natura dell’anima, se essa, cioè, debba essere considerata come una nozione metafisica di una sostanza semplice ed immateriale o come un insieme di fenomeni empirici che appaiono al senso interno. Foucault ritiene che, nella filosofia kantiana, la risposta a simile quesito sia di pertinenza dell’Antropologia piuttosto che della Psicologia. Nell’Antropologia, infatti, l’animo (Gemüt) è definito da un altro principio fondamentale, lo spirito (Geist) che si presenta come un principio di vivificazione. Esso è definito come il principio vivificatore dell’essere umano ed è presente nell’animo pur non identificandosi in esso. Deve, inoltre, essere continuamente risvegliato “durch Ideen”, cioè “mediante le idee”. Per questo Kant potrà compiutamente definire lo spirito come il “principio che vivifica l’anima mediante idee”6. 6 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 44.

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Infinitamente finiti

è importante notare che lo spirito è definito come un principio, dunque né una facoltà né una forza o un principio regolativo. Si tratta, invece, di un principio di vivificazione che apparenta lo spirito alla vita. Foucault a questo punto si chiede come può il Geist, che, a differenza del Gemüt, rappresenta un concetto necessario della ragione che non ha alcun oggetto corrispondente nei sensi, dar vita allo spirito vivificante. L’Antropologia non dà ulteriori spiegazioni ma dice che lo spirito (ed il principio di vivificazione che porta con sé) può essere interpretato “mediante le idee”. Le idee, infatti, hanno una grande importanza nell’organizzazione della vita concreta della mente. L’idea, liberata dalle illusioni che può generare, trova il suo compimento nell’esperienza, in quanto anticipa lo schema non costitutivo che guida la conoscenza fenomenica, indicandone la possibilità ed il limite. Ciò significa che l’idea mostra in che modo può essere ricercata la conoscenza empirica, indicando in essa, allo stesso tempo, il limite del conosciuto. Il limite dell’universo è al di là del finito ma è inaccessibile alla conoscenza. Questa, infatti, si configura come una ricerca infinita: l’idea (…) fa entrare lo spirito nella mobilità dell’infinito, attribuendogli incessantemente movimento “per procedere oltre”, senza smarrirlo nell’insormontabile della dispersione. Pertanto la ragione empirica non riposa mai sul dato; e l’idea, legandola all’infinito che essa le rifiuta, la fa vivere nell’elemento del possibile. è questa dunque la funzione del Geist: non organizzare il Gemüt così da farne un essere vivente, o l’analogo della vita organica, o ancora dell’Assoluto stesso, ma vivificarlo, far nascere nella passività del Gemüt, che è quella della determinazione empirica, il movimento brulicante delle idee - strutture multiple di una totalità in divenire, che si fanno e si disfanno come altrettante vite parziali che vivono e muoiono nello spirito7.

L’idea, dunque, attribuisce movimento allo spirito. Il Geist, dunque, non ha la funzione di organizzare il Gemüt ma di vivificarlo, far nascere nella passività della determinazione empirica, il movimento del divenire delle idee. Per questo, secondo Foucault, il Gemüt non è solo “ciò che è” ma anche “ciò che fa di se stesso”8. Questo aspetto risolve anche il problema del rapporto tra Antropologia e Critica. La funzione trascendentale che le idee hanno nella Critica si riflette nel movimento del Gemüt nell’Antropologia. Ma ciò significa non solo che il Gemüt non può essere inteso come una dimensione passiva ma anche che il Geist assume un ruolo importante nella filosofia kantiana. Esso, infatti, rappresenta il principio del movimento nel campo empirico e l’origine non sradicabile delle illusioni 7 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 44. 8 Ivi, p. 47.

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2. Volontà e autonomia

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trascendentali. È l’origine mai presente, il movimento infinito che definisce la “radice della possibilità di sapere”9. Foucault sostiene che “il suo essere è di non essere presente”10. L’interrogazione dell’Antropologia coincide anche con quella dell’Opus postumus nel quale Kant si pone la domanda: «Che cos’è l’uomo?» («Was ist der Mensch?»). La risposta a tale domanda scaturisce dalla ripartizione della filosofia trascendentale in tre sezioni: Dio, il mondo, l’uomo. A questa distinzione ne è connessa un’altra, quella tra fonti, ambito e confini della ragione umana. Dio, essendo libertà assoluta, è fonte; il mondo, in quanto totalità delle cose dell’esperienza, è ambito non oltrepassabile di ciò che è dato come verità empirica; l’uomo, in quanto elemento mediatore tra i primi due, è, allo stesso tempo, sintesi e limite antropologico (confine). Il rapporto tra libertà e verità passa per la finitudine umana. L’Antropologia pragmatica non postula l’uomo semplicemente come un essere empirico o fisico; l’immagine dell’uomo proposta è quella di un essere paradossale, che rappresenta sia la sintesi che il limite della conoscenza di Dio e del mondo. Come soggetto pensante, infatti, l’uomo è sintesi di libertà e verità. Il termine medio tra Dio ed il mondo è l’atto del pensiero che è anche soggetto del giudizio. Il soggetto pensante, dunque, da una parte si identifica con l’atto del pensiero ma dall’altra ne rappresenta la sintesi come oggetto pensato [Giudizio logico: soggetto (Dio), predicato (mondo), copula (uomo)]. Quindi, la domanda: «Che cos’è l’uomo?» non fornisce come risposta l’autonomia originaria di questo, sostiene Foucault, in quanto l’uomo è “cittadino del mondo” ed è immerso in esso. Tuttavia non si tratta “di una prospettiva naturalistica in cui una scienza dell’uomo implica una conoscenza della natura”11. Ad essere presa in considerazione è l’analisi di ciò che l’uomo è non in quanto animale (aspetto fenomenico) ma in quanto essere cosciente (Io sono). Ciò perché “il soggetto attinge se stesso dal movimento attraverso cui diviene oggetto per se stesso”12. In tal modo L’Io penso diviene condizione fondamentale del radicamento dell’uomo nel campo esperienziale che, però, non coincide con la Physis. Foucault ricostruisce l’emergere nel XVIII secolo delle forme di sapere positivo che operarono una cesura all’interno della sfera della Physis: la sfera della fisica si separò da quella del fisico. Si necessitava, infatti, di un nuovo sapere sull’uomo che, senza escludere questo dall’ordine delle natura, lo diversificasse dall’ordine della fisica e dalla natura inorganica. Foucault, in altre parole, mette in evidenza come il sapere empirico che ritaglia uno spazio di autonomia organica e fisico 9 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 47. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 57. 12 Ivi, p. 58.

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Infinitamente finiti

- biologica dell’uomo risponde alla medesima esigenza che si era espressa nel campo dell’Antropologia: mettere in evidenza la specificità umana e la condizione di terzietà tra “natura divina” e “natura empirica”. L’Antropologia, dunque, rappresenta il contenitore nel quale l’uomo si ritaglia uno spazio specifico di appartenenza e di conoscenza all’interno della Physis. Per questo Foucault sostiene che il sapere antropologico diviene, allo stesso tempo, “limite della scienza della Physis e scienza di questo limite”13. La conoscenza dell’uomo si pone all’interno di questo scarto dibattendosi “tra la determinazione di un privilegio metafisico, l’anima, ed il dominio di una tecnica, la medicina”14. In tal modo la fisiologia diviene scienza del corpo animato ma anche del corpo sano. La vita sana è quella che vive nello spazio lasciato libero dalla fisica e che risponde ad una normatività propria che separa il mondo organico da quello inorganico, pur facendolo rientrare in esso. La normalità antropologica è riassunta in questo scarto che unifica/divide la sfera della natura da quella della morale. Medicina e morale sono le forme di conoscenza che prendono in carico la costruzione normativa e normalizzante della condizione umana. L’antropologia non può mancare di essere al contempo riduttiva e normativa. Riduttiva, poiché non accetterà dell’uomo ciò che egli sa di se stesso, mediante il Selbstgefühl (coscienza di sé), ma solamente ciò che può sapere attraverso il movimento che passa per la mediazione della Physis. L’antropologia si rivolgerà esclusivamente al fenomeno del fenomeno, al termine di una flessione che presuppone sempre l’orizzonte della natura. Ma sotto un altro aspetto, essa sarà sempre la scienza di un corpo animato, finalizzato rispetto a se stesso, e che si sviluppa secondo un retto funzionamento. Sarà conoscenza di una salute che, per l’uomo, è sinonimo di animazione. In un certo senso, la scienza del normale per eccellenza: «la dottrina del funzionamento delle parti del corpo umano in stato di salute»15. L’impianto critico, dunque, da una parte fornisce all’Antropologia le categorie a priori della conoscenza e, dall’altra, rende esplicite ed organizza le forme finite su cui tale conoscenza si fonda. La Critica mette in evidenza la contraddizione di un universo infinito ma attuale, di un’infinità privata della presenza di Dio (fisica); l’Antropologia, invece, si dispiega all’interno di questo vuoto lasciato aperto nell’infinito e mostra empiricamente l’assenza di un principio divino (Physis). Nasce così un parallelismo tra illusione antropologica ed illusione trascendentale. 13 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 86. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 87.

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2. Volontà e autonomia

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Secondo Foucault, nella critica kantiana si determina uno slittamento della seconda sulla prima: è attraverso uno slittamento di senso nella critica kantiana dell’illusione trascendentale che l’illusione antropologica ha potuto nascere. Il carattere necessario dell’apparenza trascendentale è stato interpretato sempre più spesso non come una struttura della verità, del fenomeno e dell’esperienza, ma come uno dei segni concreti della finitudine. Ciò che Kant designava in essa, in modo molto ambiguo, come “naturale” è stato dimenticato come forma fondamentale del rapporto all’oggetto e recuperato come “natura” della natura umana. L’illusione, di conseguenza, anziché essere definita dal movimento che la criticava in una riflessione sulla conoscenza, era riferita ad un livello anteriore in cui essa appariva al contempo sdoppiata e fondata: diventava verità della verità – ciò a partire da cui la verità è sempre presente e mai data; diventava così la ragion d’essere e la fonte della critica, il punto d’origine del movimento mediante il quale l’uomo perde la verità e sempre di nuovo si trova ad essere richiamato da essa. Questa illusione definita ora come finitudine diventa per eccellenza il ritrarsi della verità: ciò in cui essa si nasconde e ciò in cui la si può sempre ritrovare16.

Analizziamo attentamente questo complesso ma importantissimo passaggio della riflessione foucaultiana. L’autore sta cercando di delineare differenze e continuità tra quelle che definisce “illusione trascendentale” ed “illusione antropologica”. Afferma, in primo luogo, che è attraverso uno slittamento interno alla riflessione critica che l’illusione antropologica si è potuta formare. Il problema consiste nel fatto che il carattere “necessario” dell’apparenza è stato considerato non come una forma della conoscenza dei fenomeni e dell’esperienza ma come la loro esistenza concreta. Ciò significa che si è attribuito al concetto di verità un valore sostanziale o ontologico e non conoscitivo o gnoseologico. Kant, infatti, definiva come “naturale” la “forma fondamentale del rapporto all’oggetto”, cioè le categorie che mediano il rapporto conoscitivo con l’oggetto. L’illusione trascendentale, dunque, era fondata sulla critica in quanto riflessione sulle condizioni di possibilità della conoscenza e sui suoi limiti intrinseci. Solo in questo senso essa poteva essere “verità della verità”, cioè conoscenza delle condizioni di possibilità o dei limiti che rendono possibile la formulazione della verità. La Critica si articola, dunque, intorno a quel movimento mediante il quale l’uomo è spinto costantemente a mettere in discussione le proprie verità e le forme della conoscenza da cui queste scaturiscono, pur rimanendo necessariamente al proprio interno. Nella dimensione antropologica, invece, è la finitudine stessa a divenire verità e la natura della natura umana diviene il luogo fisiologico nel quale essa compare nella forma della propria limitazione. Nel corpo organico e naturale del vivente, 16 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., pp. 92 - 93.

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dunque, è racchiusa la verità antropologica che si presenta nella forma della propria ritrazione; nella natura umana essa si nasconde, assumendo invisibilità, e si auto - fonda come negativo di se stessa. Ciò che nella Critica è presente come condizione infinitamente finita della conoscenza, nell’Antropologia è infinita finitudine della condizione umana. Ma questo aspetto implica anche che la “verità” antropologica venga ricercata direttamente nelle forme viventi, venga fondata nella natura organico - fisiologica dell’uomo. Dunque, la natura della natura umana, in questo caso, rappresenta la “verità” al contempo invisibile e finita dell’uomo moderno: quella di essere una negazione affermativa di se stesso. Riemerge la caratteristica antropologica, precedentemente discussa, che identifica la natura umana come una natura carente ed invisibile. La carenza che limita l’uomo allo stesso tempo ne costituisce la condizione vitale, cioè la prerogativa naturale ed organica che lo apre al mondo. Questa è l’essenza della dimensione simbolica che fa sì che l’uomo, partendo da una carenza organica si esponga ad una realtà infinita nel quale ricerca il proprio senso pur rimanendone escluso. L’illusione antropologica si presenta, dunque, come il risvolto dell’illusione trascendentale. Se questa si basava sulla possibilità di estendere i principi dell’intelletto oltre i limiti della conoscenza attuale, facendo della conoscenza possibile una sorta di “trasgressione spontanea”17, l’illusione antropologica risiede in una “regressione riflessiva che deve rendere conto di questa trasgressione”18. Si tratta di una regressione in quanto è un movimento che parte dall’esperienza attuale per tornare indietro verso l’origine; essa, inoltre, è riflessiva perché parte dalla finitudine ed arriva alla finitudine. La trasgressione di cui stiamo parlando rientra pienamente in quel movimento che, utilizzando le categorie aristoteliche, articola la potenza e l’atto. Ciò che “trasgredisce” è il “movimento” che consente alla potenza non soltanto di essere ma anche di non essere, cioè di mantenere una relazione negativa, di sospensione o di “bando” rispetto all’atto. Ora, questa trasgressione, cioè questa potenzialità non in atto, è espressa sul piano antropologico dalla condizione finita dell’uomo. La finitudine si rapporta sempre all’origine attraverso un movimento regressivo che, nello stesso tempo, è riflessivo, cioè che rispecchia la stessa condizione finita. Ciò significa che lo statuto antropologico dell’uomo implica un movimento che fa retrocedere la finitudine attuale in una finitudine potenziale ed originaria. L’antropologia è la continua ricerca di tale origine senza uscire dai limiti finiti dell’esistenza. Tale ricerca è movimento infinito. 17 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 93. 18 Ibidem.

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2. Volontà e autonomia

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Ma perché viene svolta tale ricerca? Si tratta del tentativo di superamento della finitudine, cioè di negazione della finitudine cui corrisponde, nella costruzione antropologica dell’uomo moderno, la ricaduta in una condizione finita. La finitudine non è mai superata se non nella misura in cui essa è altro da sé e nella misura in cui riposa su un aldiquà in cui trova la sua fonte; questo aldiquà coincide con la finitudine stessa, ripiegata, tuttavia, dal campo dell’esperienza in cui trova se stessa verso la regione dell’originario in cui si fonda. La questione della finitudine è passata da un interrogativo sul limite e sulla trasgressione ad una domanda sul ritorno a sé; da una problematica della verità ad una problematica del medesimo e dell’altro. Essa è entrata nell’ambito dell’alienazione19.

Foucault su questo punto è molto chiaro: la finitudine antropologica cerca l’infinito superamento di se stessa in due dimensioni pur sempre finite: nell’altro da sé e nell’altro in sé. Il primo coincide con l’alterità, il secondo implica un rapporto con se stessi. Così, quando Foucault dice che si passa da una problematica della verità ad una problematica del medesimo e dell’altro intende che la ricerca della verità non è sparita ma si è trasferita dall’interrogativo critico sulle condizioni di possibilità ed i limiti della conoscenza ad una riflessione sull’identità e l’alterità. Solo che il punto di partenza, quello a partire dal quale si ricerca l’impossibile fuoriuscita dalla condizione finita, è l’identità. È, infatti, a partire dal medesimo che si definisce l’altro ed, ancora, è a partire da questo che si ricerca l’origine. Il rapporto con se stessi, pertanto, assume la caratteristica riflessiva di una ricerca dell’origine. L’antropologia moderna, secondo Foucault, si rinchiude intorno ad un concetto di soggettività che risulta ipostatizzata, irrigidita, ed intorno alla quale si concentra “quella verità estenuata che è la verità della verità”20. Ma tale ricerca fa ricadere la soggettività entro i limiti della propria finitudine: essa diviene alienazione nella ricerca infinitamente finita dell’origine, sia essa posta nella relazione del medesimo con se stesso o nel rapporto tra identità ed alterità. La ricerca dell’origine nel medesimo assume la caratteristica della regressione ed in quanto tale è alienazione, repressione dello slancio infinito della vita o del desiderio nella finitudine in cui ricade l’aldilà dell’uomo. Il movimento stesso che anima la ricerca diviene alienazione; nel campo della finitudine antropologica essa si sostituisce all’interrogativo sulla trasgressione o sul limite della conoscenza e si sviluppa attraverso la domanda sul ritorno a sé. Secondo Foucault tutto ciò spiega come mai nella nostra epoca la conoscenza dell’uomo si propone come 19 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 93. 20 Ibidem.

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Infinitamente finiti

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una dialettica nella quale è sempre in gioco “il ritorno all’originario, all’autentico, all’attività fondatrice a ciò per cui al mondo esistono significati”21. Ci si chiederà, a questo punto, qual è la soluzione che l’autore abbraccia per fornire una risposta all’interrogativo che Kant si era posto nell’Opus postumum: «Was ist der Mensch?» La risposta va cercata nella critica, nel recupero di un pensiero che, da Kant a Nietzsche, si ponga la domanda sul “fuori”. Tale critica sembra ormai scomparsa nei recessi più profondi di una soggettività che si presenta come terzietà infinitamente finita dell’umano. Tuttavia: di questa critica noi abbiamo ricevuto il modello da più di mezzo secolo. L’impresa nietzschiana potrebbe essere il punto di arresto imposto una volta per tutte al proliferare dell’interrogazione sull’uomo. La morte di Dio, infatti, non è forse manifestata in un gesto doppiamente assassino che, ponendo un termine all’assoluto, uccide allo stesso tempo anche l’uomo? Poiché l’uomo, nella sua finitudine, non è separabile dall’infinito di cui è al contempo la negazione e l’erede; è nella morte dell’uomo che si compie la morte di Dio. Non è forse possibile concepire una critica della finitudine che sia liberatoria tanto in relazione all’uomo quanto in relazione all’infinito e che mostri che la finitudine non è termine, ma è quella curva e quel nodo del tempo in cui la fine è inizio? La traiettoria della domanda Was ist der Mensch? nel campo della filosofia ha il suo compimento nella risposta che la ricusa e la disarma: der Übermensch22.

Ecco, dunque, che l’affermazione che tanto ha scandalizzato i filosofi contemporanei e che Foucault pronuncia al termine de Le parole e le cose trova un corrispettivo nell’annuncio nietzschiano della morte di Dio, dell’avvento del superuomo e dell’eterno ritorno dell’uguale. Foucault, infatti, non fa che rilanciare la problematica che all’inizio dell’epoca contemporanea aveva già formulato Nietzsche, il quale si interroga sui limiti e le possibilità della conoscenza umana, mettendo a nudo, nella scommessa dell’oltreumano, la condizione infinitamente finita dell’uomo. Alla luce di quanto detto finora si comprende perché Foucault si opponesse alla tesi di Chomsky che individuava nel concetto di natura umana una realtà biologica ed innata. Nel sapere antropologico moderno si fa strada l’idea che esista una “verità” perfettamente coincidente con la naturalità di tutte le facoltà, che può emergere mediante la pratica medica, psicologica, sociale, ecc. Come vedremo, tale verità è la volontà. Si potrebbe parlare della volontà come uno sforzo infinito di superamento del finito. In ogni caso si parla di essa come un movimento 21 M. Foucault, Introduzione all’«Antropologia» di Kant, in I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, op. cit., p. 94. 22 Ibidem.

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2. Volontà e autonomia

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che dalla superficie dell’uomo lo conduce verso le regioni più profonde della soggettività, verso la ricerca dell’origine, verso un nucleo di autenticità che riguarda i confini tra identità ed alterità o tra la coscienza ed il proprio risvolto. Ciò è evidente nella centralità che lo studio dell’inconscio e la dimensione dell’impensato hanno assunto nel corso del Novecento. Inoltre, numerosi sono i richiami a tematiche come la ricerca dell’autenticità, la scoperta della verità interiore, la promozione di ciò che nell’uomo è “originario” ed “incorrotto”, ecc.. Tutte queste tematiche emergono in continuità con quello che Foucault definisce un interesse tutto moderno per il vissuto. 2.2. Autonomia ed autopoiesi

Il problema della libertà umana da Kant in poi riguarda le condizioni ed i limiti dell’agire volontario. In primo luogo è necessario mettere in evidenza che nella filosofia kantiana esiste una distinzione fondamentale tra libertà positiva e libertà negativa. La libertà positiva è data come presupposto del libero agire della volontà razionale ma non è ulteriormente indagabile nelle sue dimensioni interne venendo, in tal modo, a rappresentare un vero e proprio dogma della modernità. Al contrario, la definizione negativa di libertà, intesa come indipendenza della volontà dalla causalità del mondo fenomenico, è l’unica indagabile e rappresenta il presupposto non solo antropologico ma anche relazionale o intersoggettivo del nesso identità/alterità. Come si vedrà analizzando in dettaglio la Critica della ragion pratica di Kant, la libertà dell’uomo moderno è un dogma in quanto può essere pensata ma non conosciuta. Inoltre, bisogna specificare che in prospettiva kantiana l’autonomia non coincide precisamente con la libertà ma con l’interrelazione tra questa e la volontà. L’autonomia, infatti, rappresenta una soglia interna alla volontà. Per comprendere questo punto è necessario sottolineare che Kant si oppone ad una concezione eteronoma di volontà. Quando la volontà è eteronoma può assumere la forma teologica (laddove la volontà si identifica con Dio) o patologica (laddove la volontà si trasforma in desiderio ed è influenzata dalle inclinazioni soggettive e dalle passioni). Rispetto a queste condizioni che fanno dipendere la volontà da forze superiori o fenomeniche dell’agire, l’autonomia (volontà autonoma) è quella proprietà della volontà “per cui essa è legge a se stessa”23. Ciò significa che essa non discende né da Dio né dalle passioni soggettive ma è causa unica di se stessa. Dio, addirittura, diviene un puro postulato della libertà, non il proprio fondamento. 23 Per approfondimenti si veda la voce autonomia nel glossario presente nel volume I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit., p. 365.

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La volontà autonoma dell’uomo assume, invece, il nome di “ragion pura pratica”24. Come Kant specifica nell’Introduzione alla Critica della ragion pratica, la libertà del volere umano è il fondamento etico che fa sì che la ragion pura sia pratica. Se, infatti, la ragion pura (o teoretica) si applicava nella prima Critica solo alla facoltà pura della conoscenza che si portava dietro oggetti fenomenici inaccessibili, l’uso pratico della ragione si applica, nella Critica della ragion pratica, alla volontà che è intesa come “facoltà di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità nell’attuazione di essi”25. In quest’ultimo caso la volontà coincide con la ragione. Il problema di Kant, dunque, è di stabilire se la sola ragion pura possa bastare a determinare la volontà a partire dai condizionamenti empirici o se questa debba strutturarsi in termini pratici, cioè ponendosi all’interno di una causalità propria, non dipendente dal mondo fenomenico. In altre parole Kant si chiede se è possibile individuare una causalità non empirica che possa essere giustificata con la ragion pura pratica. Tale causalità che discende solo da se stessa è individuata nella libertà. La critica della ragion pratica deve distogliere la ragion pura, indagabile solo a livello fenomenico, dallo strutturarsi come esclusivo orizzonte di libertà. In tal caso la libertà sarebbe sempre condizionabile in termini eteronomi. Al contrario, la ragion pura pratica fonda la volontà autonoma in quanto pone nella libertà del volere la causa determinante di se stessa. Ma la definizione di volontà derivante dall’uso pratico della ragion pura recita che “la volontà è la facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni o di determinare se stessa”26. Solo in quest’ultimo caso la volontà può considerarsi interamente libera in quanto non soggiace al dominio delle singole volizioni individuali. I principi pratici che contengono la volontà universale, infatti, possono essere di due tipi: massime soggettive o leggi, cioè principi oggettivi. Le prime discendono dalle volizioni e dai desideri individuali, le seconde riguardano tutti gli esseri razionali. Inoltre, le massime sono definite dalla materia o oggetto della singola volizione o desiderio; le leggi, invece, fanno riferimento alla forma dell’imperativo non al suo contenuto. L’unico principio che può dominare in ambito morale è la volontà astratta nel suo puro volere, ossia la proprietà della volontà di determinare se stessa. Da ciò discende l’imperativo categorico. Nella Critica della ragion pratica la volontà autonoma assume la forma dell’imperativo categorico che recita così: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”27. Kant sostiene che nell’uomo, a differenza degli altri 24 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit. 25 Ivi, p. 27. 26 Ibidem. 27 Ivi, p. 35.

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2. Volontà e autonomia

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enti razionali come Dio, l’imperativo categorico si presenta nella forma di una legge morale. È qui riposta la differenza tra una volontà morale ed una volontà santa. La santità non può essere presente nell’uomo in quanto l’imperativo categorico, pur essendo una legge universale, non può essere del tutto estraneo ai contenuti fenomenici, contenendo al proprio interno le singole volizioni individuali. L’uomo può cercare di ridurre al minimo le volizioni individuali ma non può prescinderne completamente. Da ciò la contraddizione della volontà umana che si configura come morale ma che è immersa nel fenomeno. La volontà umana deve relazionarsi alla legge universale (imperativo categorico) nella forma della dipendenza o dell’obbligo, che significa una costrizione all’azione benché improntata alla ragione ed alla sua legge oggettiva. Questa azione, dice Kant, si chiama dovere, in quanto, essendo affetta patologicamente (fenomenicamente) ha bisogno di costringimento morale, cioè di un’opposizione della ragion pratica (costringimento intellettuale). Così, se l’uomo non può essere santo, santa è la volontà universale che assume la funzione di prototipo alla quale tendono tutti gli esseri razionali e finiti, compreso l’uomo. A quest’ultimo, dunque, non resta che tendere continuamente verso la volontà santa. La virtù rappresenta la tensione massima possibile per l’uomo. Detto ciò, si comprende la paradossalità della volontà nell’orizzonte umano. La forma pura della volontà si identifica con l’imperativo categorico che comanda ed obbliga. La libertà si identifica con il dovere. Inoltre, a differenza dell’agire ipotetico, l’agire categorico è mosso dalla pura intenzionalità senza scopo. L’uomo è caratterizzato dalla forma vuota (priva di oggetto o contenuto) della libertà che corrisponde all’obbedienza alla legge universale (pura forma priva di contenuto) dell’imperativo categorico. La volontà rende la ragione umana un agire morale che segue l’imperativo categorico Ciò significa, quindi, che il fondamento dell’agire morale è libero in quanto caratterizzato dal dovere e dall’obbligazione formale che non è vincolata ad alcuna materia o contenuto specifico. Contrariamente, infatti, gli uomini sarebbero mossi solo dalla prudenza che realizza la felicità ma non può contenere l’universalità formale dell’imperativo categorico. Infatti, dice Kant, la massima della prudenza consiglia soltanto, la legge morale comanda. La libertà nella sfera morale è essenzialmente negativa. Mentre la libertà positiva è la legislazione propria della ragion pura pratica e come tale riguarda la forma noumenica della legge morale, la libertà negativa, al contrario, è alla base della moralità come principio pratico che consiste “nell’indipendenza da ogni materia della legge (da ogni oggetto desiderato) e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale

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di cui una massima dev’essere capace”28. La libertà negativa, dunque, coincide con l’indipendenza, con l’autonomia, con la capacità della volontà di eccedere sempre qualsiasi oggetto del desiderio. Il dogma dell’autonomia29 si pone nei seguenti termini: “Tu devi, quindi tu puoi” che è anche l’idea della libertà negativa che racchiude in sé l’indimostrabilità della libertà positiva. Ma è proprio postulando l’esistenza di due forme di causalità differenti che si giunge ad una contraddizione. Infatti, se è vero che la volontà autonoma, che ha una causalità sua propria, è indipendente dall’eteronomia della seconda, è anche vero che la ragion pura è accessibile alla coscienza solo come pratica. La sua conoscenza è possibile per l’uomo solo tramite l’intuizione, cioè rapportandosi al mondo sensibile. Così la volontà libera (causa noumenon) si rapporta all’intuizione che si struttura fenomenicamente. Per non cadere in un paradosso logico Kant è costretto ad ammettere che benché la causa noumenon sia pensabile non sia conoscibile e dimostrabile. Infatti, l’Io non desidera conoscere teoreticamente la natura di un essere ma lo indica tramite un concetto. Ciò che nella ragion pura è vuoto, nella legge morale è reale, espresso nell’intuizione tramite il ricorso alle massime soggettive. Il concetto di una causalità empiricamente incondizionata è bensì vuoto (senza un’intuizione appropriata), ma pure è sempre possibile, e si riferisce ad un oggetto indeterminato; nella legge morale invece, e quindi nel rapporto pratico, gli vien dato un significato; e così io non ne ho alcuna intuizione che ne determini la realtà oggettiva teoretica, ma esso ha nondimeno un’applicazione reale, che si manifesta in concreto nelle intensioni, ossia nelle massime: che cioè ha una realtà pratica che può essere indicata; il che poi è sufficiente a giustificarlo anche riguardo ai noumeni30.

La causalità interna alla ragione, quindi, non si può conoscere ma solo pensare. Essa è fine a se stessa e come tale non può mai essere pienamente realizzata (è da realizzare). Il paradosso tra causa noumenon e causa phenomenon può essere riassunto nella dialettica tra l’uomo in quanto essere naturale e la sua umanità. L’autonomia della volontà e il puro pensiero sono, infatti, ciò che accomuna tutti gli uomini al di là delle singole determinazioni individuali. La modernità fa della ragione il factum puro dell’umanità dell’uomo, cioè la forma universale, intesa come pensiero e come volontà. Per comprendere ciò basta fare riferimento alla seconda formulazione dell’imperativo categorico, contenuta nella Fondazione della metafisica dei costumi: “l’umanità come fine in sé”. Ma sulla base di questa formulazione il 28 I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit. p. 71. 29 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit. 30 I. Kant, Critica della ragion pratica, op. cit., pp. 121 - 123.

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2. Volontà e autonomia

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paradosso diventa ancora più radicale in quanto è l’uomo stesso che rappresenta il limite. Egli è pensabile come causa noumenon ed inconoscibile come causa phenomenon se ci si pone nella sfera della ragione teoretica; il contrario se si parla di ragion pura pratica. Ciò significa che la volontà pura che l’uomo sperimenta come forma universale gli può essere restituita sul piano fenomenico solo nella forma di una conoscibilità empirica che presuppone, però, un’impensabilità teoretica Di conseguenza anche la libertà presupporrà tale impensabilità. L’unica forma di libertà che l’uomo, in quanto essere fenomenico, può conoscere è la libertà negativa. Ciò non significa che la libertà positiva non esista, semplicemente non è dimostrabile sul piano empirico. L’uomo si pone al centro di questo paradosso ma ciò significa, seguendo la seconda formulazione dell’imperativo categorico, che egli non potrà mai coincidere interamente con la propria umanità. Essa gli verrà data in forma negativa nella dimensione dell’autonomia, fatto originario e che possiede una sua causalità interna ma che rimane nascosta all’esistenza naturale dell’uomo. Le condizioni di possibilità dell’autonomia dell’uomo non coincidono con la sua attualità. L’uomo vive, dunque, in una tensione costante verso la volontà universale che, successivamente nella filosofia schopenhaueriana, diverrà una volontà di volontà. Da ciò discende la smania principale della modernità: rendere dicibile l’indicibile. Secondo D. Tarizzo ciò conduce ad un’ontologia opaca del sé: nelle forme fenomeniche della conoscenza, l’umanità dell’uomo è quell’elemento segreto, invisibile, che si tratta di svelare, di riportare alla luce31. Ciò si trasforma in un’ossessione per la sincerità. Nella modernità l’imperativo morale dell’uomo diviene quello di dire la verità su se stesso. Ed è nella vuota e formale enunciazione della propria volontà che si esprime il factum della libertà umana. L’Io voglio è l’unica forma con cui l’uomo può rincorrere la promessa della propria libertà, può cercare di rendere dicibile l’indimostrabile. Per questo Kant sostiene che l’uomo è destinato a vivere nella menzogna. Essa può essere superata solo se egli avrà la possibilità di trasformare la sua forza morale, la forza della ragione, in una forza vitale. Come visto, l’Antropologia pragmatica spiega come la riflessione critica relativa al rapporto conoscitivo possa tradursi in un principio naturale, tramite la partecipazione dell’uomo all’ordine della Physis. Ma Kant si occupa del problema della vita anche nella Critica del giudizio nella quale la volontà è definita come: “la facoltà di desiderare in quanto può essere determinata ad agire mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno 31 Cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit.

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scopo”32. Ed infatti la domanda intorno a cui ruota la terza Critica è: «Che cos’è lo scopo?» Lo scopo è l’oggetto della volontà, la risposta alla domanda: «Cosa vuoi?». Attraverso la domanda sulla natura dello scopo Kant continua a porsi la domanda sulla natura della volontà, in quanto può esserci scopo solo laddove esiste una volontà. Ma ciò non basta: lo scopo ha altre proprietà ontologiche. La prima è che esso non rappresenta una realtà ma una possibilità. La seconda indica lo scopo come una possibilità tra tante che divengono effettuali solo quando la volontà le sceglie. La volontà, allora, genera simultaneamente lo scopo e le sue possibilità. In terzo luogo, la possibilità dello scopo è un principio di subordinazione di altre possibilità, ha un carattere selettivo. Lo scopo che viene prescelto dalla volontà come possibilità finale rimane in rapporto con le altre possibilità che fungono da mezzi. In questo contesto Kant intende dire che la volontà è la forma pura dello scopo e si identifica con la sua finalità priva di contenuto. Ma il problema della Critica del giudizio è: «come è possibile concepire la volontà come pura forma anche nel mondo fenomenico?» Proprio dalla risposta a questa domanda discende la distinzione tra Critica del giudizio estetico e Critica del giudizio teleologico. La prima considera la volontà come finalità intuitiva, priva di contenuto e scopo: il bello. Nella seconda, invece, Kant parla di finalità oggettiva della natura. Quest’ultima è distinta, a sua volta, in finalità esterna, l’utilità (oggetto visto come scopo di qualcos’altro) ed in finalità interna, la perfezione (oggetto visto come scopo di se stesso). La finalità interna è tipica dei viventi e di tutti gli esseri organizzati. Nella natura ogni parte, secondo Kant, è pensata come esistente solo per mezzo delle altre parti e del tutto, vale a dire come uno strumento (organo). Ma ogni organo produce, a sua volta, tutte le altre parti del corpo. Solo la natura e non l’arte può produrre le sue parti per mezzo di un processo di auto - organizzazione che può essere definito come fine principale della natura. Oltre alle categorie di mezzo e fine il filosofo usa anche quelle di causa ed effetto per descrivere i diversi livelli di organizzazione del vivente. Il rapporto di causalità che lega le varie parti di un organismo vivente tra loro e con i suoi scopi è definita causa efficiente ed è volta al conseguimento dell’utilità per l’organismo, consistente nella massima aggregazione possibile tra le parti. Ma esiste anche una diversa causalità, la causa finale che indica il rapporto che tutte le parti hanno con la finalità superiore, l’unità dell’organismo. Quest’ultima finalità, però, non può essere conosciuta ma può solo essere sottoposta al giudizio. Di tale finalità possiamo solo dare un giudizio ma senza poterne conoscere lo scopo ultimo. Essendoci la finalità interna alla natura inconoscibile essa può essere sottoposta solo al giudi32 I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo, Laterza, Roma - Bari, 2010, p. 51.

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2. Volontà e autonomia

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zio riflettente soggettivo (astratta finalità della volontà autonoma dell’essere vivente). Ciò nonostante Tarizzo sottolinea che “la ragione tende comunque a rendere ragione”33 nel senso che risolve la contingenza del finalismo naturale nell’operato della volontà. Kant insiste a più riprese sul fatto che il nexus finalis, il nesso di causa finale, appare in natura là dove il nexus effectivus, il nesso di causa efficiente, non basta ad afferrare l’intreccio fenomenico che si para davanti ai nostri occhi. Ci troviamo in quel caso al cospetto di una «contingenza», al cospetto di qualcosa di cui non si può rendere ragione con l’intelletto (e le relative categorie). Ma la ragione tende comunque a rendere ragione, tale è il suo ufficio per vocazione intima, di questa eventualità. E l’unico modo in cui può ancora farlo, a questo punto, è quello di scorgere dentro di essa l’operato di una volontà.

La volontà esprime l’autofinalismo, l’autorganizzazione e l’autopoiesi della natura. Infatti, sostenere che gli organismi hanno una finalità interna significa che essi, non essendo meccanicamente posti, non devono il loro movimento ad una forza esterna; al contrario, sono attraversati da un movimento interno che li anima e li spinge verso una finalità autopoietica. Si tratta di una tensione che mira al perfezionamento della natura: essa ha un sistema di autorganizzazione che deve solo a se stessa e che non può essere conosciuta attraverso la valutazione di scopi esterni. È in tale processo di infinita auto - formazione della natura che va individuata la finalità oggettiva interna degli esseri organizzati, che Kant identifica con la volontà e che Tarizzo definisce “una volontà di sé, una volontà di appropriazione di se stesso”34 da parte dell’organismo. L’autopoiesi spinge l’essere vivente verso un incessante processo di formazione che coincide, da una parte, con la volontà interna dell’organismo e, dall’altra, con la determinazione di una forza vitale infinita. Il fine della vita organizzata è di voler crescere, di vivere nell’orizzonte di un’infinita perfettibilità organizzativa. Da ciò discendono due conseguenze. La prima è che il vivente coincide con ciò che lo rende imperfetto, incompiuto, carente, bisognoso di organizzazione. La seconda implica che la condizione di carenza e di infinito movimento costituisce anche lo scopo stesso a cui tende la vita dell’organismo. Secondo Kant il vivente vuole se stesso, esiste in una condizione di infinita perfettibilità. La perfezione interna della natura, quale la posseggono quelle cose che son possibili solo come fini della natura, e si chiamano perciò esseri organizzati, non si può pensare e spiegare con alcuna analogia con qualche facoltà fisica e naturale che conosciamo, e, sebbene noi stessi, nel senso più largo, apparteniamo alla natura, 33 D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit., p. 44. 34 Ibidem.

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neppure con una stretta analogia con l’arte umana. […] La natura si organizza da sé, in ogni specie dei suoi prodotti organizzati, secondo uno stesso esemplare; ma anche con quelle opportune deviazioni, che esige la conservazione di se stessa, secondo le circostanze. Forse ci si avvicina di più a questa proprietà impenetrabile, quando la si chiama un analogo della vita35.

Da quanto detto Tarizzo conclude che nella Critica del giudizio la metafisica della volontà si rovescia in una metafisica della vita, espressa da una concezione della volontà che diviene “forza formatrice”36. Da una parte, infatti, quella che nella ragion pura pratica era considerata come volontà pura è associata ad una finalità naturale interna, pura in quanto autopoietica. Dall’altro lato, si ha la volontà di volontà, cioè la volontà di sé che nella seconda critica era tipica delle affezioni sensibili e della massime soggettive. Quest’ultima corrisponde alla volontà di sé che sperimenta l’organismo nelle forme che assume in natura37. L’aseità dell’organismo si esprime, in ambito naturale, proprio in relazione a questa volontà di vita priva di forme in quanto alla ricerca costante di una forma. Questa affermazione porta con sé due importanti conseguenze. Se la finalità intrinseca della natura è la ricerca infinita della perfezione che corrisponde all’organizzazione delle parti che la compongono, la vita può essere identificata con una volontà di salute. Inoltre, dal parallelismo tra moralità e naturalità emerge un’altra conseguenza: la buona salute dell’organismo corrisponde alla buona volontà della persona. Se la dimensione biologico/naturale corrisponde a quella morale, la cattiva salute, le anormalità corrisponderanno a delle cattive condotte. Ma non bisogna dimenticare che al centro di questa relazione vi è il concetto di volontà libera, volontà autonoma che nel Kant della Critica del giudizio corrisponde alla vita. Dunque, una scarsa volontà, un agire non autonomo, non libero, ostacolerà anche il raggiungimento di una buona condizione di vita. Allo stesso modo, una cattiva organizzazione delle parti equivale ad una deviazione morale del soggetto che va indagata a partire dalla condotta volontaria. L’antropologia, dunque, si configura come un sapere sull’uomo che si basa sui concetti di volontà autonoma ed autopoiesi della vita. Il dogma dell’autonomia rappresenta il nucleo esistenziale dell’anthropos moderno, in quanto va alla ricerca di una norma vitale, libera o slegata dalle forme trascendenti ed eteronome. Rotto qualsiasi legame con la volontà eteronoma di Dio, l’uomo, infatti, diviene norma a se stesso, si costruisce intorno ad una metafisica della vita naturale ed autonoma che ha un corrispettivo importante in una scienza della vita fisicamente 35 I. Kant, Critica del Giudizio, op. cit., pp. 429 - 431. 36 D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, op. cit., p. 45. 37 Ibidem.

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2. Volontà e autonomia

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e moralmente sana38. Nel momento in cui l’antropologia si pone innovativamente dinnanzi al quesito: «Che cos’è l’uomo?» si trova a riflettere anche sul problema della salvezza in chiave auto - finalistica ed auto - poietica. L’uomo è quell’essere che deve andare alla costante ricerca di se stesso e che deve realizzare in sé quello che già è. Questa è la risposta che, a partire dalla filosofia kantiana, il paradigma antropologico darà alla suddetta domanda. 2.3. Metafisica della vita: paradossalità antropologica, volontà, desiderio

La ripresa delle tematiche kantiane ha nella filosofia schopenhaueriana una duplice conseguenza: consolida il dualismo tra fenomeno e noumeno ed opera una svalutazione della sfera esperienziale. Infatti, mentre Kant pose a fondamento dell’inconoscibilità noumenica delle cose la loro autonoma esistenza fenomenica, Schopenhauer, a partire dal medesimo dualismo, accentuò la svalutazione del mondo fenomenico. Questo diviene un teatro di ombre nel quale le cose si rapportano tra loro sottoforma di rappresentazioni. Ma al di sotto dei fenomeni esiste una volontà unificante che costituisce il nucleo nascosto e vitale di tutti gli enti. La volontà è la cosa in sé che contiene ed unifica tutte le apparenze in un’immagine del mondo39. In questo contesto l’uomo occupa un posto particolare. L’intelletto umano costruisce ed ordina il mondo percepibile. Tale costruzione è possibile mediante il principio di ragione che, strutturando i fenomeni in rapporti reciproci di connessione e limitazione, fa di questi l’oggetto della nostra conoscenza ed intuizione. Esistono, inoltre, differenti categorie prodotte dall’intelletto umano. Spazio e tempo sono categorie che strutturano i fenomeni stabilendone le limitazioni reciproche; la causalità è una categoria che ne determina, invece, la concatenazione, facendo in modo che ogni fenomeno sia causa di quello successivo. Nell’uomo la causalità assume il nome di motivazione 40. 38 L’intreccio tra i concetti di normalità biologica e di normalità morale confluirà in tutte le branche delle discipline socio/medico/antropologiche, soprattutto a partire dalla seconda meta del XIX secolo. In varie opere Foucault collega la problematica della volontà al processo di normalizzazione. Ciò soprattutto in Sorvegliare e punire e nel Corso al Collège de France 1974 - 75, intitolato Gli anormali, nei quali il concetto di pericolosità sociale comincerà ad assumere significato rispetto a quello di volontarietà dell’atto deviante e di premeditazione. 39 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit. 40 Schopenhauer chiarisce questo aspetto nel saggio La libertà del volere umano, scritto nel 1837 in occasione della partecipazione ad un concorso indetto dalla Reale Accademia Norvegese delle scienze di Drontheim. Nel mondo inorganico il movimento si determina sulla base di cause in virtù delle quali si generano, a loro volta, mutamenti meccanici, fisici e chimici. In essi azione e reazione sono sempre uguali tra loro ed il grado dell’effetto è uguale al grado della causa. Nel

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Schopenhauer sostiene, dunque, che i rapporti naturali sono strutturati in base a degli equilibri causali che trasformano gli oggetti della realtà sperimentabili dall’intelletto umano in forme limitate, relative e finite. L’oggettività del mondo scaturisce, dunque, dalla reciproca auto - limitazione dei fenomeni. Ma anche la relatività del mondo può essere considerata una modalità dell’Essere. Di quest’ultimo non si può conoscere l’origine che rappresenta il principio unificatore di tutto nella concatenazione delle cause. La relatività del mondo riposa sulla differenza; è la differenza che rende possibile il fenomeno come riflesso illanguidito della volontà unificante. Ma ciò fa sì che il mondo appaia a Schopenhauer come irreale, come una serie di rappresentazioni (forme) separate dall’origine che è la vera realtà, la volontà. Se, infatti, la volontà si trova dietro i fenomeni essa è nascosta ed inaccessibile all’uomo ed alle altre forme viventi. Anzi, l’uomo è l’unico essere che, essendo posto al vertice della gerarchia della natura, può agire mediante il senso interno che si identifica con la coscienza e costituisce il cardine tra mondo fenomenico e mondo noumenico. Da ciò l’importante funzione che la tematica antropologica ha nella filosofia di Schopenhauer: l’uomo è posto in una condizione di terzietà in quanto, da una parte ha un’esistenza naturale ed è immerso nel fenomeno41, dall’altra ha coscienza mondo organico vegetale, invece, la causalità si manifesta mediante stimoli, cioè movimenti che non subiscono reazioni corrispondenti alle azioni e che non sono caratterizzati da alcuna proporzionalità tra intensità della causa ed intensità dell’effetto. Il mondo organico animale ed umano, infine, è contraddistinto dalle motivazioni. In esso la causalità passa attraverso la facoltà di conoscere ed i bisogni vitali non sono soddisfatti automaticamente dagli stimoli ma sono inclusi in un regime di possibilità d’azione che schiude agli esseri più complessi la sfera della scelta. Ciò significa che l’uomo può ricercare attivamente i mezzi della propria soddisfazione attraverso la facoltà di rappresentazione dell’intelletto. Questa, inoltre, può avere differenti gradazioni, dai livelli meno specializzati del mondo animale, che trova la propria causalità in motivazioni immediate e visibili, ai gradi più complessi del mondo umano, che agisce mediante rappresentazioni che evocano o creano nell’intelletto oggetti non presenti e non immediatamente a disposizione, organizzandoli nella coscienza. La strutturazione motivazionale della causalità umana sulla base della facoltà conoscitiva e di scelta racchiude un importante problema della filosofia schopenhaueriana ed uno dei quesiti fondamentali che condusse il filosofo ad approfondire, sulla scia di Kant, la tematica della positività o negatività della libertà umana. Per approfondimenti si veda A. Schopenhauer, La libertà del volere umano, trad. it. di V. Morfino e M. Vanzulli, Mondadori, Milano, 1998. 41 Riprendendo la nota distinzione di Bichat tra vita organica e vita animale, Schopenhauer individua la via d’accesso del mondo della volontà nella dimensione organico - vegetativa, relegando, invece, la vita relazionale alla sfera della pura rappresentazione. Dunque la condizione corporea più vicina alla sfera dell’essere è, secondo il filosofo, la pura esistenza organica. Tutto ciò è conforme alla rappresentazione epistemologica che la scienza moderna attribuisce alla condizione vitale dell’uomo. La vita è concepita in termini biologico - organici e, come sostiene Bichat, è ciò che si oppone alla morte. In linea con la fisiologia, la filosofia di Schopenhauer si pone in continuità con le tesi che fanno della morte la condizione originaria e preminente della vita. Questa con-

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2. Volontà e autonomia

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della volontà attraverso l’orizzonte dell’azione. Le motivazioni che portano all’azione sono la porta attraverso cui l’uomo si approssima alla volontà, senza mai poterla conoscere o poterne essere pienamente partecipe. L’azione umana, infatti, può essere interpretata come manifestazione della volontà, non come volontà in sé. L’in sé della volontà non è mai attuale e si distingue dal desiderio o dalla singola volizione. Il desiderio è ciò che si realizza nella motivazione, mentre la volontà è quella forza o potenza che lo precede e segue. La differenza non risiede nel carattere effettivo o motivato del volere. Le singole volizioni possono raggiungere o meno la condizione attuale ed investono il corpo dell’uomo, alterandolo. Tali stimoli, inoltre, possono essere piacevoli o dolorosi a seconda che siano conformi o meno alla volontà che li ha originati. Lo stimolo non conforme non è escluso dalla sfera delle sensazioni corporee dell’uomo. Nella filosofia schopenhaueriana, infatti, non esiste dolore che in assoluto l’uomo può non volere. Il carattere doloroso della vita umana, dunque, non è causa della volontà ma sua conseguenza. Ciò significa che non è il dolore che spinge a non volere una cosa ma il volere che genera il primo. Quindi il dolore costituisce la violenza che la volontà esercita sul corpo. Lo stesso dicasi per le sensazioni piacevoli. Sia il dolore che il piacere non sono semplici intensità emotive ma differenti modalità fenomeniche attraverso cui la volontà si esprime. Essi sono segnali di una condizione esistenziale che è ontologicamente negativa. Infatti, la condizione di dolore che la vita sperimenta non è semplice manifestazione dello squilibrio quantitativo delle sensazioni spiacevoli rispetto a quelle piacevoli. Esso indica una carenza ontologica. A fianco delle singole sensazioni piacevoli e non piacevoli esiste il dolore come condizione ontologica. Il dolore rappresenta, infatti, l’incolmabile scarto esistente tra desiderio e volontà. La vita dell’uomo, come quella di tutti gli altri esseri, si esprime in un’incessante successione di desideri e di atti volitivi che racchiudono nella loro incolmabilità la scissione tra volontà e rappresentazione. La vita dell’uomo, in particolare, è sospesa in una condizione di terzietà che rappresenta il paradosso del desiderio: la sua essenza è riposta nella sua impossibilità. La vita, dunque, è dolore nella misura in cui è impossibilità. Ciò a cui la vita fisica aspira, infatti, è ricongiungersi con l’essere che l’ha generata, cioè la volontà, ma ciò è impossibile e fa piombare l’uomo in una condizione di scacco che produce, a sua volta, una tensione costante del desiderio. Per questo la vita è dolore, lo è al fondo di se stessa. Addirittura, Schopenhauer sostiene che la vita dovrebbe semplicemente negare se stessa, torstatazione nasce dall’osservazione dell’aspro conflitto che anima la natura a tutti i livelli. La lotta per l’esistenza può essere interrotta dalla prevalenza di forze che si impongono su altre; è questo il senso del relativismo biologico che caratterizza la condizione d’esistenza degli organismi naturali.

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nare alla totalità da cui deriva. La condizione che caratterizza la vita umana è l’impotenza, cioè la ricerca costante della potenza che le sfugge e che non può realizzare. Questo esito estremo, tuttavia, non rappresenta l’ultima parola della filosofia schopenhaueriana; esistono, infatti, due vie di fuga: quella estetica e quella ascetica. La prima non è pienamente risolutiva, la seconda implica un isolamento dell’uomo dalla vita sociale e politica. Ciò nonostante non bisogna dimenticare che l’uomo è l’unico essere che, mediante il senso interno, ha coscienza della volontà. Il paradosso che lo investe come soggetto desiderante si esprime anche nella sfera della conoscenza (così come in Kant). L’esserci pratico dell’uomo è contraddistinto dalla coincidenza tra condizione soggettiva ed oggettiva. L’uomo è soggetto dotato di senso interno che, nell’atto conoscitivo, si percepisce come fenomeno della volontà ed ha coscienza di derivare da essa. Egli, dunque, si percepisce sia come vita oggettiva, fenomenica, che come vita soggettiva, riflesso cosciente dell’essere originario. È spettatore ed attore della propria esistenza (condizione di possibilità e limite della conoscenza, direbbe Kant). L’uomo è, come suggerisce G. Simmel parlando della concezione antropologica di Schopenhauer, “cittadino dei due mondi”, appartenente sia alla sfera della rappresentazione che a quella della volontà. Su questa posizione del soggetto come proprietà comune dell’apparire e della cosa in sé, come cittadino dei due mondi, si radica la metafisica di Schopenhauer e si stabilisce la direzione del percorso, secondo la quale egli perviene all’assoluto dell’Esserci. L’uomo trova sé come apparenza corporea, corpo tra corpi. La sua materia ed i suoi movimenti sono stabiliti secondo una legge così naturale come tutti gli altri oggetti, i suoi atti avvengono nella stretta causalità di impulsi, stimoli, motivi. Così dunque è evidente la nostra vita, se la consideriamo in modo puramente oggettivo, tanto comprensibile come ogni altro fenomeno, quanto enigmatica secondo la sua essenza intima. I movimenti del nostro corpo, però, ci sono dati ancora in un modo del tutto diverso da questo esteriore, nello stesso tempo, cioè, come azioni della nostra volontà. Ciò che diventa visibile come nostro movimento è intimamente azione della nostra volontà e viceversa: ogni vero atto della nostra volontà è inevitabilmente e immediatamente anche un’innervazione fisica42.

La tematica della libertà umana si costruisce sulla base della paradossale condizione antropologica di terzietà cui si è fatto riferimento. La libertà si dischiude come spazio di possibilità non attualizzate, identificandosi con la volontà libera. Ma nell’uomo essa non può avere un contenuto positivo ma solo privativo o negativo. La coscienza dell’uomo può cogliere solo il riflesso della positività della libertà che è presente nella dimensione noumenica della volontà. L’uomo, 42 G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, a cura di A. Olivieri, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995, pp. 42 - 43.

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dunque, può ritagliarsi una sfera di libertà che è parziale presa di distanza dalla necessità fisica. Schopenhauer affronta il problema della libertà in un saggio dal titolo La libertà del volere umano. In esso il filosofo mette in relazione i concetti di libertà e necessità. Quest’ultima è definita come ragion sufficiente. Quando riconosciamo qualcosa come conseguenza di una ragione data, ne indichiamo la necessità. Il mondo fenomenico, essendo fondato sulla ragion sufficiente, sembra libero ma è sottoposto ad una rigida necessità derivante dal fatto che ogni azione umana è solo apparentemente sottoposta ad alternative ma segue una medesima volontà che l’origina. Essa non si risolve né nei moventi né nelle azioni che la seguono. La necessità inchioda l’uomo al mondo e gli dona una libertà negativa e limitata. Essa, inoltre, può assumere la forma di causa, stimolo o motivazione. Come detto, nell’uomo le motivazioni rappresentano il gradino più elevato della scala evolutiva in quanto non sono generate solamente per contiguità tra causa ed effetto (come nel mondo inorganico) o tra stimolo e riflesso (come negli animali) ma mediante la produzione intellettuale di rappresentazioni che aprono uno spazio di possibilità entro la sfera dell’agire. Ciò nonostante l’agire umano appare condizionato sia da quello che il filosofo tedesco definisce carattere (disposizione individuale, empirica ed innata) sia dalla necessità esterna. Tra questi due vincoli si apre uno spazio di autonomia che è libertà in senso negativo. L’uomo è già quello che vuole: egli è ontologicamente innervato dalla volontà che gli viene restituita, però, solo nella forma negativa della libertà e nel riflesso sbiadito di una spinta desiderante inesauribile. La libertà umana è lo spazio che si apre tra un desiderare e l’altro e rappresenta un paradossale, reciproco, vincolo tra volontà e necessità. La libertà negativa non discende più, come nella filosofia kantiana, dall’impossibilità di estendere alla conoscenza teoretica ciò che è pensabile ed esperibile sul piano fenomenico; essa nasce dall’impossibilità di conoscere e di pensare la volontà come cosa in sé, nella sua dimensione ontologica. Ciò che è pensabile è presente sul piano fenomenico come forma riflessa della rappresentazione. Questo aspetto rappresenta il cuore della metafisica schopenhaueriana. Si tratta di una metafisica della volontà che è anche una metafisica della vita. La volontà, infatti, è un principio vivificante. Da ciò si origina una conseguenza che, secondo Simmel, potrebbe attenuare la portata pessimistica della filosofia schopenhaueriana: se la condizione di impossibilità sprofonda la vita nel dolore e nell’angoscia, rappresenta, però, anche l’apertura alla possibilità. Con ciò si intende la speranza che è riposta in ogni oltrepassamento, cioè la felicità che preannuncia la proiezione di ciò che è attuale in ciò che è potenziale. Il volere, proprio

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in quanto tensione verso un fine non materiale, non procura solo frustrazione ma anche felicità, pienezza vitale, potenza che oltrepassa il riferimento oggettuale43. Ma ciò non può implicare il salto che portò Nietzsche a trasformare la volontà di volontà in una volontà di vita. In Schopenhauer questo esito rimane intentato e rischia sempre di tramutarsi nel suo contrario: una condizione della vita caratterizzata dalla carenza originaria e dallo scacco del desiderio. Inoltre, l’esistenza per Schopenhauer è conflittuale e, secondo il filosofo, spinge gli esseri umani l’uno contro l’altro. Come nota R. Esposito, questa concezione, pur essendo molto simile alla tematica hobbesiana dell’homo homini lupus, non si traduce sul piano politico in un sostegno delle tesi contrattualiste. Al contrario, alla condizione di lotta ed all’egoismo degli individui Schopenhauer non oppone un soddisfacente argine politico. La lotta per la vita è una condizione naturale non pacificabile mediante il passaggio dallo stato di natura allo stato di diritto44. Tale concezione è ispirata, piuttosto, alle dottrine mistiche medievali e romantiche che non si incentrano su un concetto di giustizia terrena o mondana ma su una giustizia eterna che domina il mondo mediante una norma infallibile ed immutabile che si attua al di fuori del tempo. Nell’ottica di Schopenhauer questa giustizia eterna è incarnata dalla volontà che tutto unifica e che prende su di sé la responsabilità etica del mondo, accettando l’esistenza del dolore e della sofferenza come pena per una colpa originaria che ricadrebbe sull’uomo in quanto essere imperfetto e finito. Proprio perché consustanziali alla natura umana, dunque, la colpa ed il dolore che l’esistenza porta con sé non potranno essere ricomposti da nessuna forma di giustizia terrena. Per molti interpreti, tuttavia, l’impianto metafisico della volontà e la prevalenza della tematica del Medesimo su quella dell’Altro, rappresentano la base di un possibile ribaltamento ontologico dell’orizzonte egoistico della filosofia politica schopenhaueriana. Sul piano ontologico la lotta che si genera nel mondo delle rappresentazioni sarebbe superata dalla metafisica della volontà unificante, che tutto ingloba e che è assenza di movimento. Ma in questa prospettiva la filosofia schopenhaueriana rischia di cadere nell’eccesso opposto: l’insocievole socievolezza risulterebbe tramutata in un’identità unitaria e monolitica, in una visione pacificata del conflitto tra desiderio e volontà. Quest’ultima, al contrario, è tensione continua, conflitto tra possibile ed attuale. La volontà non si esaurisce mai nei singoli moti desideranti, confinati nel mondo della rappresentazione. Come detto, infatti, in Schopenhauer la condizione di carenza bio - vitale riflessa sul piano esterno della natura (darwinismo) 43 Cfr. G. Simmel, Schopenhauer e Nietzsche, op. cit. 44 Cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit.

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2. Volontà e autonomia

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deriva dalla condizione ontologica, noumenica dell’essere (volontà). Dire che la carenza “esterna” discende da una “interna” significa ammettere che la vita degli esseri è incolmabile manchevolezza e, ciò nonostante, continua ricerca irrisolta della massima utilità e della massima soddisfazione del desiderio. Possiamo, allora, concludere che nella filosofia schopenhaueriana, da una parte, vi è l’orizzonte del dolore e della sofferenza che conduce ad una posizione esistenziale dominata dall’immobilismo e dalla passività (nel contesto dell’agire etico e politico); dall’altra vi è il mondo della rappresentazione nel quale l’illusione di rincorrere la soddisfazione piena del bisogno e del desiderio spinge gli esseri umani a volere sempre di più. Quest’ultimo punto, secondo L. Bazzicalupo, consente di affiancare la filosofia schopenhaueriana a quella di economisti come D. Ricardo e T. Malthus ma anche a tematiche economiche marginaliste o liberali che si fondano sullo scarto tra desiderio e volontà o sull’interpretazione soggettivista che il filosofo tedesco attribuisce alla condizione di manchevolezza dell’uomo45. La prospettiva della vita, del bios, è sempre assolutamente singolare eppure generica, si ripete sempre, e non viene trascesa. Sono liberi l’azione, la prassi, il potere che su questa necessità dei bisogni si innestano? Il corto circuito del bios dissolve l’iter ad libertatem hegeliano: siamo dentro il bios, dunque alla necessità, e operari sequitur esse. «L’operari tocca alla necessità». La necessità si chiama Mondo, volontà della vita che vuole se stessa, Volontà alla Vita46.

Ciò conduce ad un’ulteriore chiusura dell’uomo su se stesso in quanto il desiderio nella sfera dei rapporti umani scaturisce da motivazioni o moventi che possono essere solo individuali. La chiusura della soggettività in una dinamica desiderante minacciata continuamente dal bisogno è la conseguenza della svalutazione pessimistica dell’esistente. Se non vale la pena vivere per raggiungere un fine superiore che appare precluso all’uomo tanto vale, allora, rincorrere un’illusoria felicità contingente, fondata sulla soddisfazione di desideri soggettivi ed effimeri. La causa dell’agire umano è una direzionalità interna mossa da fini individuali e strumentali. La vita è, pertanto, contrassegnata dal bisogno e mediata dall’operari di stampo puramente tecnico - strumentale. Da questo momento la volontà non sarà solo il soggetto/oggetto delle speculazioni metafisiche; essa rappresenterà il fulcro di una riflessione nella quale l’economia ed il lavoro occupano una posizione di grande importanza. In Schopenhauer l’unico trascendimento possibile si attua nella sottrazione della volontà da se stessa nell’ascesi mondana. Dunque, non sono la socievolezza, la volontà ge45 Cfr. L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, op. cit. 46 Ivi, p. 79.

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nerale, le istituzioni a rappresentare la risposta fondamentale al bisogno umano. L’ascesi è trattenimento e negazione della soddisfazione e della pulsionalità. Essa, però, spinge la volontà a volere sempre di più, a volere se stessa per mezzo della propria negazione. In questa concezione è già sottesa, come sostiene Bazzicalupo, l’attitudine ascetica del capitalismo maturo. L’imprenditore schumpeteriano diverrà colui che nel processo economico nega a se stesso il godimento immediato, dilazionandolo e trasformando il risparmio in reinvestimento del capitale. 2.4. Volontà di vita: compimento ed inversione del paradigma epistemologico

moderno

Il concetto di volontà assume dei toni differenti nel pensiero di F. Nietzsche. L’analitica della finitudine trova nelle tesi nietzschiane compimento ed inversione. Da una parte, infatti, la critica genealogica della morale mostra la radice biologica e finita dell’esistenza; dall’altra, la tesi della volontà di potenza flette il pessimismo schopenhaueriano verso una dimensione vitalistica. Nietzsche è vicino alle scoperte scientifiche di stampo evoluzionistico. Ma esistono delle profonde differenze tra la prospettiva di Darwin e quella di Nietzsche. In primo luogo si ha in Nietzsche una critica al dogmatismo scientifico. Anche la scienza, infatti, come la religione e la morale, genera una specifica ipostatizzazione metafisica della verità. Solo che nel caso delle verità scientifiche il presupposto fondamentale è quello che afferma l’inesistenza di verità assolute e la falsificabilità di qualsiasi ipotesi. Infatti, anche la scienza si struttura intorno ad un apparato epistemologico che cerca di fornire una risposta al problema dell’origine attraverso la definizione di una o più verità fondanti. Solo che in questo caso è la non verità che viene elevata a morale. Trasformare la scienza in dogma potrebbe, inoltre, implicare un pericolo ancora più radicale di qualsiasi metafisica in quanto potrebbe condurre ad esiti nichilistici (potrebbe implicare la negazione del mondo). Il primo aspetto della critica nietzschiana, dunque, verte sulla necessità di porre i concetti scientifici di vita ed origine in una prospettiva de - dogmatizzata. Il secondo aspetto che approfondirò in questo contesto – e che è strettamente connesso al primo – investe il concetto di evoluzione. Il filosofo tedesco lo interpreta in un’ottica diversa da C. Darwin. Infatti, se Darwin parla di selezione naturale come processo evolutivo che avvantaggerebbe il più forte, Nietzsche sostiene che non esiste un rigido determinismo che muove l’evoluzione e che non sempre sopravvivono i più forti, i meglio dotati, coloro che si riproducono di più. Al contrario, l’evoluzione può definirsi come un lento processo di décadence nel quale i più forti, cioè coloro che sono dotati di maggior volontà di potenza,

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2. Volontà e autonomia

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si espongono maggiormente ai pericoli e periscono prima mentre i più deboli sopravvivono meglio perché si espongono di meno. Si mette in conto alla lotta per l’esistenza la morte delle creature più deboli e la sopravvivenza delle più robuste e meglio dotate; quindi si immagina una crescita costante della perfezione delle creature. Al contrario, noi abbiamo accertato che nella lotta per l’esistenza il caso aiuta tanto i deboli quanto i forti; che spesso l’astuzia supplisce vantaggiosamente alla forza; che la fecondità della specie si lega in maniera sorprendente con la probabilità della sua distruzione47.

Nietzsche, dunque, critica il positivismo scientifico insito nella teoria dell’evoluzione. Oltre a non avvantaggiare i più forti l’evoluzione non è progressiva né lineare. Le specie non evolvono verso un fine e la successione degli organismi non indica un grado sempre crescente di perfezione biologica e di adattamento. La lotta per la vita non avviene ai fini del perfezionamento lungo una scala evolutiva. Il filosofo inquadra la concezione evoluzionista in un movimento caratterizzato da continuità e discontinuità, da picchi evolutivi e da lunghe fasi di declino. Dunque, non esiste evoluzione lineare ma solo incrementi e decrementi governati da un adattamento selettivo, che si configura come lotta interna alla singola vita. Essa si genera perché la vita è volontà di potenza, è forza vitale che lotta continuamente contro se stessa nello sforzo di auto - superamento delle forme attuali verso delle forme possibili. Questo è il primo nucleo del concetto di evoluzione che è caratterizzato da una concezione non carenziale della vita e da un riferimento singolare alle forme viventi. Ciò significa che l’evoluzione è un fenomeno di specie solo perché è prima di tutto un fenomeno che tocca singolarmente le forme viventi. È la singola vita che evolve o perisce che influenza la specie e determina il miglioramento o il declino delle condizioni generali d’esistenza. Ciò significa che in ogni fase dell’evoluzione è la vita maggiormente dotata di volontà che si eleva sulle altre e le condiziona con la propria evoluzione. In tal modo la vita produce un’eccezione, uno scarto evolutivo di cui però si avvantaggia tutta la specie, non solo la singola forma vitale. Dunque, se di lotta si può parlare in questa prospettiva, essa non va a vantaggio del più forte per due motivi: perché i più forti, esponendosi, trovano più facilmente la morte rispetto a coloro che si conservano; perché i vantaggi evolutivi apportati dai primi vanno a favore anche dei secondi e di tutta la specie. Si comprende come sia errato definire tale concezione con il termine nichilismo o affiancarla al pessimismo schopenhaueriano. Quest’ultimo discende, infatti, dal senso di impossibilità sperimentato dalla vita nel ricongiungersi con 47 F. Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit., p. 371.

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la volontà alla quale certamente tende e dalla quale deriva. Nella filosofia schopenhaueriana, come detto, la vita rincorre sempre la volontà che si presenta, in ottica antropologica, come un vuoto che sprofonda l’esistenza in una condizione ontologicamente carenziale. La vita fenomenica diventa, così, un puro riflesso, un’ombra. Il dolore, dunque, nasce dalla vita e può essere alleviato solo negando la stessa. Al contrario, in Nietzsche la teoria della décadence nasce da una pienezza vitale, da una condizione di sovrabbondanza che si manifesta nelle ‘eccezioni’. É, infatti, l’eccezione e non la regola che nobilita evolutivamente la specie e la spinge al miglioramento. La decadenza è, però, connessa all’emergenza e non viceversa. In una condizione di decadenza la vita può esplodere, oltrepassare se stessa, riaffermare continuamente la propria volontà di vita. La decadenza, dunque, non costituisce l’ultima parola della filosofia nietzschiana. Come ha sottolineato G. Simmel, parlando del pensiero di Nietzsche, la potenza deve essere intesa come un oltrepassamento che la vita più completa opera sulle altre. Ma i vantaggi evolutivi procurati dal singolo ricadono su tutta l’umanità, in quanto egli ne rappresenta e riassume il grado più elevato. Dunque, la vita come volontà di potenza rappresenta il grado più elevato dell’umanità. Nella filosofia nietzschiana quest’ultimo concetto indica il legame tra dimensione singolare e dimensione collettiva. Nietzsche rifiuta altri concetti di riferimento che definiscono la molteplicità, come ad esempio ‘società’ o ‘natura’. Nel riferimento societario l’uomo è inglobato e disperso nella massa. Allo stesso modo la natura è stata considerata come un contenitore metafisico nel quale la singolarità risulta annullata. L’idea di un organismo sociale o naturale che rappresenta la somma dei singoli organismi individuali, secondo Nietzsche, non rende contro della centralità della singola vita nei processi evolutivi della specie. Ciò, naturalmente, non significa che Nietzsche cada nell’eccesso opposto: l’individualismo. Dire che l’umanità è racchiusa in ogni singola esistenza non significa porre il livello individuale al di sopra di quello collettivo. L’umanità si esprime nella vita del singolo non perché questo possa annullarla o farsi annullare da essa ma perché la realizza concretamente. La vita è l’unica dimensione nella quale l’umanità, comune a tutti gli esseri umani, si esprime come condizione singolare e collettiva al contempo. L’umanità si identifica con la vita concreta, materiale, dell’uomo, con il proprio corpo e le proprie funzioni organiche. Emerge l’importanza attribuita dall’autore al corpo ed alla dimensione emotivo - sensoriale. Nietzsche sostiene, infatti, che fino alla seconda metà dell’Ottocento la filosofia non è stata altro che un “fraintendimento del corpo”48: la questione del valore dell’esistenza nei discorsi filosofici deve essere posta a partire dai sintomi 48 F. Nietzsche, La Gaia scienza. Idilli di Messina, trad. it. di S. Giametta, Rizzoli, Milano, 2008, p. 60.

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del corpo, “della sua buona o cattiva riuscita, della sua pienezza, potenza, preponderanza nella storia o invece delle sue inibizioni, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà della fine”49. La riappropriazione della dimensione corporea ed emotivo - istintuale può avvenire soltanto se ci si libera dalla paura che costituisce la base di qualsiasi morale o dottrina scientifica, filosofica, ecc. Questa è la premessa del libro quinto de La gaia scienza che si intitola Noi senza paura, nella quale il filosofo si compiace di aver messo in luce una nuova dimensione critica che renderà il discorso scientifico “gaio”, cioè che lo libererà dalla paura. È proprio questa emozione, infatti, che dà vita alla morale e che determina l’uniformazione degli individui alla logica del “gregge”. L’“economia della conservazione della specie”50 fornisce una finalità all’esistenza, consente di istituire scopi ultimi verso i quali la vita dovrebbe tendere, trovando un senso51. Nell’epoca della morte di Dio e dell’estinzione degli ideali e dei valo49 F. Nietzsche, La Gaia scienza. Idilli di Messina, op. cit., p. 61. 50 Ivi, p. 33. 51 La tesi che identifica la vita con la volontà di potenza, pur essendo molto affascinante, non è per nulla consolatoria. Nietzsche, d’altro canto, non affida alla propria filosofia una missione fondativa. Egli vuole demistificare e de - sostanzializzare tutte quelle categorie religiose, morali, scientifiche che si presentano come verità assolute. Della vita, ad esempio, si può soltanto dire che è pura forza, volontà di potenza, potenza che vuole la vita superando le condizioni che inevitabilmente la condurrebbero alla morte. Tutte le verità consolatorie e rassicuranti della metafisica, della morale, della religione, invece, subordinano la potenza della vita alla propria conservazione. Ciò significa che questi orizzonti trascendenti, conservando la vita, la depotenziano e la condannano all’immobilismo, alla staticità. Nell’immunizzazione artificiale della società la vita deve, dunque, essere de - potenziata, privata della propria volontà sempre eccedente, sovrabbondante ma anche violenta e devastante ai fini della conservazione dell’esistenza collettiva. La forza vitale dei pochi è sottomessa all’istinto di conservazione dei molti. Da ciò nasce quella che l’autore definisce come “morale del gregge”. Ma ciò non fa che confermare l’importanza che la metafisica, la fede, la religione hanno nella vita dell’uomo. Esse hanno rappresentato il rimedio, la medicina per una condizione esistenziale che gli uomini hanno sempre considerato insostenibile. La vita dell’uomo, infatti, priva di un rivestimento trascendente, è nuda vita, insostenibile animalità, prorompente volontà di potenza che rompe le forme e le ricostruisce continuamente. La vita è perenne flusso, movimento che necessita di essere imbrigliato nelle reti conservative della morale, della religione, della metafisica. La verità è una menzogna vitale che l’uomo si impone per potere prolungare la propria esistenza. Dunque, la morale consente all’uomo di assumere una maschera da animale mansueto, misconoscendo la violenza che l’esistenza organica porta con sé. Nietzsche affronta anche il problema della coscienza. Pensiero, azione e volizione sono gli elementi presenti nell’uomo già a livello pre - cosciente. Tutta la vita, secondo il filosofo, non sarebbe possibile se non ci si guardasse allo specchio. A cosa serve, allora, la coscienza? Essa è legata al bisogno umano di comunicare. La necessità di sopravvivere ha portato l’uomo a sviluppare la comunicazione. Dunque, la coscienza nasce dall’utilità. L’uomo, infatti, essendo l’animale più esposto al pericolo, ha bisogno di intrattenere reti di relazioni sociali. La coscienza è l’“organo” che consente all’animale - uomo di inserirsi nel contesto sociale. Ma solo il pensiero più superficiale si trasforma

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ri metafisico/religiosi la conservazione della vita è divenuta la finalità principale dell’esistenza ed il valore da difendere. La scienza, infatti, considera buono ciò che è funzionale alla conservazione della specie e cattivo ciò che non lo è. La consapevolezza della crisi dei valori, infatti, apre un immenso vuoto all’interno del quale l’uomo rimane sospeso in una condizione paradossale. Questo out out espone l’esistenza ad una forma radicale di nichilismo. Ed è proprio per contrastare tale pericolo che Nietzsche espone la teoria del superuomo. Secondo Nietzsche il superuomo è il “senso della terra”52. Ciò significa che, sebbene esso indichi il superamento dell’uomo, non fa riferimento in alcun modo alla svalutazione dell’essere umano. Al contrario, è l’annuncio dell’avvento di una nuova umanità che rimarrà sempre ancorata al “senso della terra”. Quest’ultimo non rappresenta la “forza di gravità” che tiene l’uomo contemporaneo inchiodato a terra impedendogli di elevarsi e guardare le miserie umane. Il “senso della terra” si identifica, invece, con la dimensione vitale, con il corpo, con i bisogni naturali. Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto deve essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!53

Il superuomo andrà oltre l’uomo a partire dalla consapevolezza dell’illusorietà di tutte le metafisiche, le verità, i valori universalizzanti. La condizione oltreumana condurrà alla trasvalutazione di tutti i valori attraverso la strada che porta “al di là del bene e del male”54. Il “senso della terra”, dunque, è identificabile con la nascita di un’umanità coraggiosa, tenace, spregiudicata nella quale prevalga la volontà di potenza. Il superuomo è colui che sarà capace di fare della vita la continua espressione della sua potenza, della sua forza, della sua capacità di oltrepassamento. in parola, in segno comunicativo. Genealogia della morale è l’opera nella quale Nietzsche mette in evidenza in maniera più chiara la logica utilitaristica che si pone alla base della nascita della coscienza a partire dallo spirito di conservazione. 52 Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 2008, p. 6. 53 Ivi, pp. 5 - 6. 54 Cfr. F. Nietzsche, Al di la del bene e del male, trad. it. di G. Sossio, Fabbri, Milano, 2004.

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La volontà di potenza, quindi, può essere identificata con una volontà di vita, con un processo di vivificazione senza il quale l’uomo non potrebbe esistere, modificarsi ed evolversi. Essa, infatti, rompendo le forme, crea per distruggere e distrugge per creare. Ma Nietzsche descrive la volontà di potenza non in termini metafisici ma fisico - biologici e per far ciò si giova di una serie di studi tratti dall’embriologia di W. Roux, dalla teoria cellulare di R. Virchow e dalla fisiologia di C. Bernard55. Nella volontà di potenza che libera la vita, secondo Nietzsche, si sviluppa una complessa dialettica di irritazione ed assimilazione tra corpi e tra organismo ed ambiente. L’attività organica non è né esclusivamente attiva né interamente passiva; attività e passività, azione e reazione sono due facce della stessa medaglia. Le specie, in base al grado di complessità interna, avranno una prevalenza di irritazione sull’assimilazione o viceversa. Nell’uomo prevale l’assimilazione. Ciò che l’uomo definisce identità organica o adattamento all’ambiente nasce nell’alveo di un conflitto mai pacificato né pacificabile tra apertura e chiusura, passività ed attività, identità ed alterità. La vita è continuamente perturbata dall’esterno, è irritata e solo grazie a tale irritazione può modificarsi, evolvere, crescere. Ma l’irritazione produce anche sofferenza: essa è il motore da cui scaturisce la vita. L’alterità dissolve le determinazioni individuali e genera vita mentre la necessità di conservazione ricostituisce il medesimo ma attribuisce rigidità alle forme di vita che, non modificandosi, si estinguono. La variazione, infatti, come visto con Darwin, indica il fattore principale di evoluzione di un organismo e di una specie. Proprio per questo motivo, la vita si identifica con la potenza. La volontà di potenza è, dunque, volontà di vita, è vita che si fa potenza e rompe le forme. Da ciò si comprende l’importanza di un’accezione vitale che vada al di là della definizione di una forma. La vita non è identificabile con una norma; essa è potenza che rompe le forme. La volontà di potenza è una potenza che si oppone alla vita intesa come forma. In questo caso la potenza non genera piacere o dispiacere ma gioia o dolore. Piacere e dispiacere, come nota Arendt parlando della filosofia nietzschiana, sono caratterizzate da una finalità, da un concetto di utile (il piacere non è assenza del dolore ma liberazione dal dolore) mentre la gioia o il dolore indicano il sentimento della pienezza o dell’assenza di vita, che sono forze di creazione o di distruzione56. Le osservazioni fin qui fatte, allora, consentono di identificare volontà e vita. Emerge ancora meglio la differenza tra la concezione della volontà di Schopenhauer (volontà di volontà) e quella di Nietzsche (volontà di vita). Quest’ultimo critica l’impianto metafisico della filosofia schopenhaueriana a partire dalla di55 Cfr. B. Stiegler, Nietzsche e la biologia, a cura di F. Leoni, Negretto Editore, Mantova, 2010. 56 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, trad. it. di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna, 2009.

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stinzione tra volontà e rappresentazione. La filosofia schopenhaueriana ha un carattere tautologico: la volontà che vuole se stessa rinchiude la vita organica privandola di un “oltre”, di una possibilità di superamento della contingenza. Schopenhauer nega alla vita una meta esterna o superiore, sprofondando il bios in una condizione organica carenziale. Tale dimensione si riflette in un’altra concezione che è al centro delle critiche di Nietzsche, quella relativa al concetto schopenhaueriano di compassione. Sia in Schopenhauer che in Nietzsche la volontà è non - razionale. Ma, mentre il primo pone a fondamento dell’irrazionalismo della volontà il comportamento egoistico che porta ad un’introiezione della morale, il secondo ne fa la base per la critica radicale della morale e per la rivalutazione del carattere non cosciente del desiderio. L’irrazionalismo è per Schopenhauer assenza di libertà del mondo umano (o libertà negativa), base del comportamento egoistico e della lotta per la sopravvivenza. La soluzione in questo caso è una forma di interiorizzazione della colpa e della comune condizione di infelicità che tocca i viventi. La compassione accomuna le forme viventi sulla base della loro manchevolezza, in relazione alla condizione costitutivamente dolorosa e colpevole che le contraddistingue. In questo caso, il termine latino cum-pati indica un principio di comunione che deriva dalla condivisione involontaria di una medesima condizione esistenziale, deficitaria e dolorosa. Si tratta di un atteggiamento sentimentale comune a tutti gli uomini ma esperito soggettivamente (egoismo). É da questo concetto di compassione che Nietzsche parte per la critica della morale, soprattutto nelle sue forme ascetiche e sentimentali. La volontà è ciò che contraddice in termini assoluti la morale, non ciò che la fonda nella componente ascetica o caratteriale. Essa è volontà di vita e si oppone alle forme della conservazione sociale. L’ascetismo schopenhaueriano non è una via praticabile per superare l’angoscia ed il dolore in quanto porta alla svalutazione del corpo ed all’annullamento dell’istinto vitale. Inoltre, nella filosofia nietzschiana non è presente una scissione tra desiderio e volontà. La molla che spinge l’individuo all’azione non può essere rappresentata dalle logiche desideranti che traducono dinamiche utilitaristiche. Queste ultime, soprattutto, non possono essere chiamate in causa per spiegare l’origine degli atteggiamenti e dei sentimenti morali di una società. Indagare l’origine degli atteggiamenti morali significa non solo guardare alla genesi immota ed unitaria degli eventi ma anche alle dinamiche storico - politiche che li hanno determinati. L’analisi genealogica mostra un punto di vista differente sia rispetto alla filosofia kantiana che a quella schopenhaueriana. La logica desiderante è sì alla base della nascita dei sentimenti morali ma non è interpretabile come somma di singolari moventi utilitaristici o eudemonistici. La morale non equivale né

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alla ragione né alla compassione ma è indagabile solo come rapporto di forza, come conflitto tra individui. La morale è sempre ciò che la classe dirigente o i gruppi umani che hanno il sopravvento (i vincitori) definiscono come tale. È questa l’origine della tanto discussa distinzione tra “morale aristocratica” e “morale degli schiavi”. Gli aristocratici, etimologicamente i “migliori”, sono coloro che si impongono nel rapporto di forza e sottomettono i “peggiori”, che divengono “schiavi”, imponendo ad essi la loro morale, definita come l’unica accettabile e professabile ufficialmente57. Il discorso di verità sull’origine ha una natura radicalmente politica (non morale). Ma ciò equivale anche ad ammettere che la società ha origine da un “puro fatto”, da uno squilibrio di forze e dall’imposizione del più forte sul più debole. L’individuo o gli individui maggiormente dotati di volontà di potenza tendono a prevale sugli altri. Da ciò deriva, però, la relatività di tutti i concetti morali come buono, cattivo, benefico o pericoloso, ecc. Essi strutturano sistemi di valori contingenti e storicamente modificabili, non assoluti ed universali. Ma lo scenario di violenza e sopraffazione da cui discendono i valori dominanti deriva anche da una dinamica desiderante costitutivamente conflittuale che non può identificarsi con una dimensione puramente organica. Essa è, al contrario, una dinamica biostorica. Questo concetto può essere applicato anche alla dottrina del superuomo. Gli uomini superiori, coloro che costituiscono, in ogni epoca storica, le eccezioni sono coloro che sanno meglio mutare e che sono dotati di una maggiore volontà di potenza per imporsi sugli altri (morale aristocratica) ma anche per spezzare le catene (morale degli schiavi) e scardinare un determinato sistema di valori imponendone un altro. Ma la “grande salute” da cui scaturirà il superuomo nascerà da una nuova e più spiccata attenzione al corpo ed alle sue esigenze vitali e mediche, da una parte, e da un rinnovato coraggio nell’esplorare gli abissi più profondi della conoscenza, dall’altro. Noi uomini nuovi, senza nome, difficili da capire, noi figli precoci di un avvenire non ancora dimostrato – abbiamo bisogno per un nuovo scopo anche di un nuovo mezzo, cioè di una nuova salute, di una salute più robusta più smaliziata più tenace più temeraria più allegra di ogni salute che c’è stata finora. […] La grande salute – una salute che non solo si ha ma che costantemente si conquista e si deve conquistare, perché sempre di nuovo la si sacrifica e la si deve sacrificare! […] Come potremmo, dopo un tale spettacolo e con una tale fame di sapere e di conoscere, accontentarci ancora dell’uomo di oggi? […] Un altro ideale ci corre innanzi, (…) l’ideale di uno spirito che giochi ingenuamente, cioè involontariamente e per una pienezza e vigoria strabocchevole, con tutto ciò che finora è stato detto sacro, buono, intoccabile, divino; (…) l’ideale di un benessere e benvolere umano 57 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, op. cit.

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– troppo umano, che molto spesso apparirà disumano, per esempio, se si pone accanto a tutta la serietà che c’è stata finora sulla terra, accanto ad ogni specie di solennità nell’atteggiamento, nella parola, nell’accento, nello sguardo, nella morale e nel compito, come una loro vivacissima parodia involontaria (…).58

La morte di Dio è, dunque, questa gioiosa consapevolezza che, nel momento in cui denuncia la relatività dei valori morali, propone anche una prospettiva di speranza, delinea un nuovo percorso di salute/salvezza. Non si tratta di un percorso bio - organico ma bio - storico. Il superuomo non è l’uomo che scaturisce dal perfezionamento razziale, come alcuni interpreti strumentalmente sostengono. Il superuomo è colui che apre la strada ad una nuova genealogia della morale e della conoscenza. La critica genealogia del soggetto e dell’oggetto della conoscenza, infatti, ha nella filosofia nietzschiana un’importanza capitale. Come abbiamo visto con Kant, l’uomo moderno si presenta come soggetto/ oggetto della conoscenza, individuo sovrano nelle proprie competenze conoscitive (soggetto) ed, al contempo, sottoposto ad esse (oggetto). Nella prospettiva di Nietzsche l’obiettivo fondamentale è quello di de - sostanzializzare sia il soggetto che l’oggetto. Soggetto ed oggetto, infatti, non esistono, sono ipostatizzazioni filosofiche con cui si è cercato nella modernità di attribuire all’uomo la fisionomia divina. La genealogia nietzschiana mira a svelare il paradosso della conoscenza, paradosso che definisce l’uomo, contemporaneamente, come soggetto conoscente ed oggetto conosciuto. L’uomo, infatti, vive in una condizione paradossale prima di tutto in quanto deve fare i conti con la consapevolezza della propria finitudine. Il Dio che muore toglie la prima maschera, mostrando che il posto del re è un posto vuoto, che l’uomo può ricoprire solo parzialmente. Il superuomo, inoltre, ha il compito di svelare il paradosso della conoscenza togliendo la seconda maschera. Ecco che la morte di Dio è raddoppiata dalla morte dell’uomo, intesa in termini foucaultiani come “estinzione del cogito” (Canguilhem)59. Il problema dell’infinita finitudine dell’umano si presenta in Nietzsche in tutta la sua drammaticità essendo esplicata la dinamica dello svelamento, cioè l’illusione, la fallacia della conoscenza umana. L’uomo si auto - inganna. Nietzsche è il primo filosofo contemporaneo che mostra senza veli la profonda drammaticità dell’annuncio della morte dell’uomo e dell’avvento del superuomo ma mostra anche una possibile via d’uscita: l’eterno ritorno dell’uguale. Infatti, secondo Foucault: Sarebbe forse opportuno individuare in Nietzsche il primo sforzo in vista di 58 F. Nietzsche, La Gaia scienza. Idilli di Messina, op. cit., pp. 375 - 376. 59 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit.

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questo sradicamento dell’Antropologia, cui indubbiamente è votato il pensiero contemporaneo: attraverso una critica filologica, attraverso una certa forma di biologismo, Nietzsche ritrovò il punto in cui uomo e Dio si appartengono a vicenda, in cui la morte del secondo è sinonimo della scomparsa del primo, e in cui la promessa del superuomo significa anzitutto l’imminenza della morte dell’uomo. Col che Nietzsche, proponendoci tale futuro come scadenza ed insieme come compito, fissa la soglia a partire dalla quale la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare; (…). Se la scoperta del Ritorno segna la fine della filosofia, la fine dell’uomo invece segna il ritorno dell’inizio della filosofia. Oggi possiamo pensare solo entro il vuoto dell’uomo scomparso. Questo vuoto non costituisce una mancanza; non prescrive una lacuna da colmare. Non è né più né meno che l’apertura di uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare.60

In particolare Foucault sostiene che Nietzsche operò la critica a partire da un triplice ribaltamento che tocca i tre punti focali su cui si fonda l’analitica della finitudine foucaultiana. Cogito. Con la nascita dell’allotropo empirico trascendentale l’epistemologia moderna si è articolata in due forme di pensiero: l’estetica trascendentale (che colloca la conoscenza positiva nella natura – A. Comte) e la dialettica trascendentale (che attribuisce la conoscenza alla storia – K. Marx). La prima forma di conoscenza ha condotto al positivismo, la seconda ad un’escatologia storica. L’analitica della finitudine ha rappresentato, invece, una terza via che si presenta nella forma di una quasi - dialettica e di una quasi - estetica. Ciò ha investito un’analisi del vissuto che si radica in parte nell’esperienza del corpo ed in parte in quella della cultura. Secondo Foucault l’analisi del vissuto, però, non soddisfa l’esigenza critica in quanto non si pone il problema dell’uomo e non mette in dubbio a livello radicale l’origine del pensiero antropologico, dandolo per presupposto. Al contrario, il pensiero nietzschiano sviluppa la prima vera critica della conoscenza antropologica e svela il paradosso che costringe l’empirico a replicare se stesso in un trascendentalismo che lo pone come condizione e limite di se stesso. L’annuncio della morte di Dio consente di aprire una riflessione sull’infinita finitudine dell’umano, nella forma di uno smascheramento del sapere empirico e trascendentale. L’uomo diviene cosa tra cose e parola tra le parole. Secondo Foucault nel pensiero di Nietzsche volontà di potere e volontà di sapere si intrecciano tra loro: le forme di potere che vincolano il bios si collegano alle forme di sapere che dicono la verità su questo. Impensato. Nell’ottica della conoscenza antropologica il non conosciuto non si articola come una dimensione che può condurre alla conoscenza di sé ma è individuato come una sfera separata, inaccessibile o accessibile sulla base di specifiche 60 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit., pp. 367-368.

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forme di sapere che ne individuano i contorni: l’impensato. Il sapere moderno in poche parole, o è pensiero che conferma l’identità della coscienza con se stessa o è respinto in una sfera separata ed inaccessibile, priva d’oggetto o sottoposta a “rimozione”. L’impensato ed il rimosso, dunque, saranno le due forme nelle quali il non - pensiero è concettualizzato nella modernità. Ma allontanare tutto ciò che non è pensiero dalla dimensione antropologica significa anche precludere al pensiero la possibilità di aprirsi ad un “fuori”. Il pensiero, infatti, riflette su se stesso, si presenta nella forma dell’auto - coscienza. È oggetto del pensiero solo ciò che si ritiene pensabile. Ma pensare significa pensare il Medesimo. L’impensato, al contrario, rappresenta il “fuori” del pensiero, l’alterità radicale, ciò che sfugge o non è inquadrabile nei perimetri razionali della coscienza. La domanda che un approccio critico deve porsi è, dunque, la seguente: «Come il pensiero può abitare fuori di se stesso?». Arretramento e ritorno dell’origine. Si fa riferimento al rapporto tra l’origine e la storicità umana. Nel mondo della rappresentazione si parla di una storicità che pone in primo piano un’origine unica per tutti gli avvenimenti e tutte le cose. Al contrario, nella modernità non è più l’origine che lascia intravedere una storicità ma una storicità che lascia intravedere un’origine. L’origine precede e sopravanza la storicità. L’uomo si separa dall’origine (origine della specie nella storia naturale); in lui le cose trovano un nuovo inizio. Egli diviene la fessura, la faglia a partire dal quale il tempo può ricostituirsi. La temporalità umana è circolare ritorno all’origine nella forma del “toglimento” della stessa. È qualcosa alla quale si deve tornare anche se appare inaccessibile. Ciò si evince nella concezione del tempo presente nelle opere di Marx, Hegel, Spengler. Nell’eterno ritorno di Nietzsche, al contrario, si dà la ripetizione dell’origine ma essa si concilia con il momento inevitabile della scelta che inserisce, nel tempo circolare della natura, la temporalità lineare dell’esperienza di vita. Si tratta dei singoli movimenti della volontà. Il tempo infinito della natura si riflette nel tempo finito dell’uomo. L’eterno ritorno può essere interpretato come una ripetizione infinita di tutto ciò che si è vissuto o come un’infinita possibilità di rinascita. La vita, pur nella costante ripetizione di se stessa, vince la morte, rompe le forme, le de - pone, le abbandona per poi “tornare”. La storicità umana si misura nell’oscillazione di un attimo e si compendia nella scelta, ovvero nella domanda: «Vuoi tu questo ancora una volta ed ancora innumerevoli volte?». Ciò significa che la volontà deve dire di sì alla vita, accettarla di volta in volta nella propria interezza, nella ripetizione dell’identico, nella sua tragica ricorsività. Ogni singolo uomo può decidere se volere la propria vita esattamente come gli si presenta o non volerla, dire di no alla vita o aprirsi incondizionatamente ad essa. Questa è una scelta che

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2. Volontà e autonomia

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compete ad ognuno di noi, ad ogni vita; essa, dunque, precede il superuomo o è già costitutivamente proiezione della volontà di potenza di questo. Ma ciò, allora, significa che il superuomo è già presente nel momento della scelta, nel momento in cui le strade del passato e del futuro si incontrano. Voi, uomini arditi che mi circondate! […] Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l’uomo, cui le più grevi e le più nere tra le cose strisceranno nelle fauci? – Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente - : e balzò in piedi. – Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!61

61 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, op. cit., p.186.

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3. GENEALOGIA OIKONOMICA

3.1. L’ordine del discorso governamentale

Nel periodo compreso tra il 1967 ed il 1979 Foucault approfondì una serie di tematiche che riguardavano gli sviluppi genealogici del concetto di oikonomia. Si tratta di un ordine del discorso complesso ed asistematico che va dall’archeologia del sapere economico all’analitica della governamentalità neoliberale. L’incipit di questo discorso va ricercata in un insieme di riflessioni esposte nel Corso tenuto al Collége de France nell’anno accademico 1975/76, intitolato Il faut defendre la société1. In questo Corso l’autore si pone una domanda di partenza che a molti interpreti è apparsa quasi retorica: «È possibile dedurre l’analisi del potere o dei poteri dall’economia?». Nella prospettiva filosofico/politica la risposta a tale quesito può sembrare scontata se si considera come punto di riferimento la teoria contrattualista, che fa del potere una questione di legittimità sovrana fondata sullo scambio tra protezione ed obbedienza, o se ci si basa su un concetto di economia di tipo marxiano. Secondo Foucault, invece, tale problematica va interpretata mediante l’analisi dei dispositivi di sapere/potere che ‘intrecciano’ il reticolo archeologico con la genealogia. Il progetto genealogico, decentrando la prospettiva d’analisi rispetto a sistemi teorici apparentemente unitari, si fonda su saperi locali, discontinui che si propongono come delle anti - scienze e che conducono alla riscoperta di ‘fatti’ che parlano il linguaggio del reale, della vita, che si soffermano sulla dimensione meno codificata della conoscenza e che, pertanto, spesso, non superano la ‘soglia’ della legittimazione storica. Per Foucault, l’insurrezione dei 1 Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975 - 1976), a cura di M. Bertani e A. Fontana,Feltrinelli, Milano, 2009.

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Infinitamente finiti

saperi assoggettati2, resa possibile dalla genealogia, rappresenta, quindi, l’obiettivo principale di una metodologia di ricerca che si definisca critica3. Dunque, contro la tesi economicista/contrattuale, nella quale le categorie giuridiche pertinenti sono legittimo/illegittimo4, Foucault ‘schiera’ l’apparato genealogico che fa del binomio lotta/sottomissione la matrice del potere oikonomico. Secondo Foucault, quest’ultimo, a sua volta, può essere indagato da due punti di vista: quello repressivo e quello fondato sui rapporti di forza. La tesi repressiva, esposta per la prima volta da Hegel, è stata ripresa da autori come Freud e Reich. Per questo Foucault la definisce “ipotesi Reich”. La seconda tesi è definita “ipotesi Nietzsche”. Essa, invece di soffermarsi sulla repressione, mette in evidenza come il potere sia un rapporto di forza fondato sulla guerra e sulla lotta. Ribaltando il famoso assunto di Clausewitz5 (“la guerra è la politica continuata con altri mezzi”), Foucault sostiene, seguendo Nietzsche, che “la politica è la guerra continuata con altri mezzi”6, quelli apparentemente più legittimi del rapporto di forza mascherato da rapporto di potere. Da questo punto di vista la repressione non è più ciò che nel contrattualismo l’oppressione rappresentava rispetto al contratto, cioè un abuso di potere, ma l’effetto del prolungamento del rapporto di forza. Tale prospettiva appare più congeniale all’analisi dei dispositivi oikonomico - gestionali in quanto, ribaltando la dicotomia legittimo/illegittimo o allontanandosi dai limiti intrinseci della teoria repressiva, mette in evidenza la duplice valenza di soggettivazione/ oggettivazione che i rapporti di forza hanno in termini biopolitici. Il dispositivo genealogico reinterpreta lo spazio economico come un ‘sapere storico delle lotte’ che consente di integrare le categorie classiche della sovranità con i molteplici rapporti di dominazione anatomo - politici e bio - politici. Ciò chiama in causa non soltanto gli effetti disciplinari del potere sul corpo ma anche 2 Per saperi assoggettati si intende: 1. Saperi sepolti dall’erudizione. Si tratta dei contenuti storici sepolti dietro coerenze funzionali o sistematizzazioni formali. I saperi assoggettati sono, dunque, blocchi di saperi storici che la critica ha il compito di fare apparire attraverso gli strumenti dell’erudizione. 2. Saperi squalificati dalla gerarchia delle conoscenze e delle scienze. Si tratta di saperi non sufficientemente elaborati in termini sistemici, come i saperi collocati al di sotto della soglia di scientificità e di conoscibilità richiesta. 3 In altre parole, dopo aver ricostruito archeologicamente la storia degli apparati di sapere, la proposta di Foucault è ora quella di interrogarsi in senso radicale sul potere. Cos’è il potere? Quali sono i diversi dispositivi, meccanismi, effetti, rapporti di potere che si esercitano ai diversi livelli della società, in settori con estensioni e caratteristiche varie? L’autore si chiede, insomma, se è possibile approntare un’analisi microfisica che articoli in senso critico - genealogico le ragioni economiche nei rapporti di potere. 4 Nella teoria giuridica classica lo scambio contrattuale rappresentava un diritto naturale e fungeva da matrice del potere mentre l’oppressione ne rappresentava il limite interno; questa si esercitava nel momento in cui il potere si poneva al di là dei termini stabiliti dal contratto. 5 Cfr. C. von Clausewitz, Della guerra, a cura di E. Rusconi, Einaudi, Torino, 2000. 6 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), op. cit., p. 22.

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3. Genealogia oikonomica

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gli effetti oikonomici dei dispositivi governamentali sulla popolazione. Un rapporto di dominazione, infatti, non è mai qualcosa di specifico ma rappresenta l’insieme delle molteplici forme di potere che si propagano attraverso i corpi ed all’interno della società. Ciò fa del potere qualcosa che circola, che non può essere identificato con un’istituzione o un’autorità legittima, che non si ‘possiede’ poiché non è né una ricchezza né un bene (come lo intende, invece, la teoria dello scambio). Nell’impianto filosofico foucaultiano ciò non significa che la teoria della sovranità debba essere messa da parte; occorre, invece, porre in evidenza il meccanismo che ha consentito al potere governamentale/oikonomico di insediarsi al suo interno, sovrapponendosi e sostituendosi in parte alle categorie politiche di riferimento. Come sostiene Foucault, infatti, è necessario comprendere quali sono le molteplici dinamiche di forza che prosperano al di sotto delle istituzioni e sono spesso ricoperte dalle “incrostature formali” del diritto. La svolta avvenuta tra Seicento e Settecento consiste, dunque, nell’‘emersione’ di una meccanica di potere che modifica l’impostazione patrimonialista che faceva del possesso della terra, dei prodotti, dei corpi la prerogativa principale del potere regio. Anche la divisione netta tra governanti e governati comincia ad essere messa in dubbio con il sorgere di una nuova razionalità governamentale. Gli individui, infatti, non furono più considerati come possesso esclusivo del signore (sudditi) ma come esseri sociali che vivono, lavorano, sono coinvolti in prima persona nei processi di soggettivazione che li pongono al centro di politiche medico - sanitarie, demografiche, urbanistiche, ecc. (popolazione). Intorno al nuovo soggetto popolazione nel XVIII secolo si determina il passaggio da un’arte di governo ad una scienza politica, dalla legge alla normalizzazione. Nasce un ordine del discorso che, essendo fondato sulla guerra, prima, e sulla lotta biologica ed economica, poi, fa emergere degli ‘operatori di dominazione’ che assumono come unica fonte di legittimazione la coerenza strumentale e funzionale della razionalità di governo. Le tecniche disciplinari e di controllo consentono, infatti, la ‘costruzione’ di soggettività ed agiscono in senso inverso rispetto all’ipostatizzazione identitaria su cui si basava il potere sovrano. La costruzione microfisica delle identità comporta, infatti, una diversa dinamica delle forze che Foucault, invertendo la frase di Clausewitz e sostenendo il punto di vista nietzschiano, individua nel discorso della guerra, prima, e della lotta, poi. Dunque, l’autore ricostruisce le principali trascrizioni del discorso storico - politico della guerra7 per poi spiegare come si è giunti alla trascrizione bio - oikonomica della lotta. Nel transito dal discorso di verità delle teorie nobiliari anti - monar7 Si tratta delle trascrizioni reazionario - aristocratica e rivoluzionario borghese. Queste due trascrizioni sono molto interessanti per comprendere come si è trasformato in senso storico - politico il discorso di potere della sovranità, fino a sfociare in un assetto socio - economico e governamentale.

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chiche del XVIII secolo8 alle tesi rivoluzionarie del XIX secolo si verificò quella che il filosofo definisce una “generalizzazione tattica del discorso storico”. Si tratta di un discorso di potere che ammette la possibilità di ricreare storicamente l’origine, di ricrearla come arma politica che legittimi la guerra tra parti ed il discorso oppositivo di potere. L’affermazione di questo concetto di origine come dimensione del contendere, come motore dell’evoluzione storica dei popoli e delle razze non fu lineare. Il discorso giuridico - filosofico della sovranità, infatti, continuò a sovrapporsi ed intrecciarsi con quello storico - politico in formazione. Ciò si tradusse anche in un cambiamento nella rappresentazione dell’alterità. Due furono, infatti, le figure che si confrontarono tra loro in questa fase storica: il selvaggio ed il barbaro. Esse rappresentano due diversi modi di rapportarsi al problema dell’origine. Il selvaggio è colui che è caratterizzato dallo stato di natura, che vive in una condizione di innocenza e purezza originaria, non influenzata o corrotta dalla civiltà. Egli è rappresentazione dell’uomo in una condizione pre - sociale che diviene sociale, cioè l’uomo che deve essere educato, civilizzato, ricondotto entro il perimetro di una cultura. Per questo motivo tale figura è stata considerata, in qualche modo, “fondativa” dell’ordine sociale. Il selvaggio, infatti, rappresenta quel “fondo di natura” che si inscrive in qualsiasi uomo e che costituisce la condizione naturale su cui si edifica la società. La visione che sottostà a tale rappresentazione è evoluzionistico - lineare ed è connotata in termini naturalistici. Il selvaggio, dunque, è la figura del nemico che viene posta alla base del contrattualismo e della teoria dello scambio. Egli rappresenta il soggetto dello scambio economico, cioè colui che scambia diritti e beni e come tale fonda la società e la sovranità. Egli, inoltre, è per definizione senza storia. La natura caratterizza la condizione del selvaggio fino al momento in cui l’azione della civilizzazione e dell’educazione lo riconduce entro i limiti storici della società. Si può dire che il selvaggio rappresenta il passaggio dalla natura alla cultura come movimento di riconduzione storica, di assoggettamento della naturalità alle ragioni dell’ordine e della civilizzazione.

8 La trascrizione reazionario-aristocratica è analizzata da Foucault a partire dalle opere di Boulainvilliers. Nel XVIII secolo, la nobiltà, i cui diritti Boulainvilliers rivendicava con forza contro il monopolio politico della burocrazia e dell’economia, rappresentava una delle ‘parti’ in causa, una delle “nazioni” che cercavano di imporsi nel discorso storico. Quella che viene definita “guerra delle razze” designa delle differenze che trovano il loro fondamento e la loro legittimazione in presunte forme di identità linguistica e culturale, nel fatto che determinati gruppi condividano una medesima origine o credenza religiosa. Si tratta, in senso lato, di un discorso legittimante delle differenze che parlano di razza nei termini complessi e multiformi dell’identità e della differenza linguistica, storica, culturale, religiosa, mitologica, ecc..

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3. Genealogia oikonomica

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Il barbaro, al contrario, è originariamente immerso nel discorso storico. è colui che si mantiene in rapporto di esteriorità rispetto ad un determinato ordine sociale. Rappresenta, quindi, un soggetto civilizzato ma che si rivolta, entra in conflitto costante con l’ordine dal quale scaturisce o nel quale vuole penetrare dall’esterno. Rispetto alla società egli non rappresenta un’alterità assoluta ma relativa; esercita una minaccia costante sia all’esterno che all’interno dei confini (è sia nemico interno che esterno). Questa figura parla di quel dualismo e di quell’“autodialettizzazione storica” che, secondo Foucault, a partire dal XVIII secolo, fondò il discorso storico - politico incentrato sulla guerra. La rappresentazione dell’alterità veicolata dal barbaro, infatti, legittima il discorso oppositivo e conflittuale nell’ordine di significato del pericolo, interno o esterno. Nella figura del barbaro, quindi, è racchiusa la carica potenzialmente sovversiva del disordine e del conflitto mimetico tra parti in concorrenza tra loro per riscrivere la storia, per ricreare l’origine. Rispetto al problema della verità storica e dell’origine il barbaro non rappresenta più un fondo di natura, è il soggetto della storia e della civiltà ma di una storia e di una civiltà differenti ed opposte che rischiano di contaminare, violare, distruggere i punti di riferimento. Il movimento che investe questa figura, infatti, è contrario a quello che investe il selvaggio: si tratta di una naturalizzazione, cioè di una riconduzione dell’identità storica ad un’origine naturale. Si comprende, inoltre, come tale figura non sia più al centro degli interessi del contrattualismo e non possa più essere considerata come il soggetto delle teorie dello scambio; il barbaro rappresenta l’alterità entro una dinamica delle forze che si fonda sulla legittimazione della guerra come momento rivelatore e fondatore della verità. Ed è ancora per questo che la teoria classica del diritto ha teso per lungo tempo ad ignorarla, assumendo, solo a partire dal XVII secolo, un atteggiamento ambivalente rispetto ad essa. Da quanto detto, si può forse sostenere che il barbaro rappresenti la figura dell’alterità nel paradigma oikonomico governamentale e liberale? Foucault sembra suggerirci questa ipotesi nel momento in cui definisce il barbaro come “vettore di qualcosa di completamente diverso dallo scambio”9: la lotta in senso economico. In quanto vettore di conflittualità economica, pertanto, il barbaro diviene veicolo di una nuova concezione sociale scaturita dal discorso storico - politico. Quest’ultimo passò rapidamente dalla semantica della guerra e della dominazione a quella della lotta civile e della difesa della società. Nel corso del XVIII secolo e, in maniera compiuta, nel XIX si verificò, infatti, una graduale trasformazione del concetto stesso di guerra che, marginalizzando il contesto bellico dello scontro e la rappresentazione storico/conflittuale dell’origine, tese a privilegiare le ragioni della lotta interna tra differenti parti della società 9 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), op. cit., p. 174.

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e dello stato. Tale movimento si espresse con un processo di “imborghesimento della storia” che coincise anche con la nascita del concetto di nazione in senso moderno. Per esplicare questo passaggio Foucault si serve del testo di Sieyès sul Terzo Stato10. A differenza del discorso storicistico - aristocratico fondato sulla “guerra” tra parti, in esso si parla di nazione in senso monistico. Il riferimento alla categoria di nazione, inoltre, è associato a quella di stato. La nazione non è più un nucleo originario ed indipendente, definito dallo stato come comunità di sangue, di lingua, di religione. L’identificazione della nazione con il Terzo Stato conduce all’eliminazione del riferimento ad altri gruppi; la nazione è considerata come il nucleo biologico, linguistico e ‘naturale’ di ciò che formalmente è corpo sociale e legislativo. Il rapporto cui tale configurazione delle forze dà vita non è più quello orizzontale che pone in relazione conflittuale i vari gruppi tra loro ma quello verticale che va dalla nazione, nucleo originario del potere, allo stato. Dunque, al posto della dominazione il discorso storico cominciò a porre al centro dell’attenzione la statalizzazione, cioè quell’insieme di fenomeni che trasformano le forze sociali, i mestieri, le funzioni in strutture amministrative e legislative. La nazione è lo stato potenzialmente possibile, è lo stato nella dimensione “originaria”. Modificandosi la rappresentazione politica della nazione ed il rapporto che intrattiene con lo stato, cambia anche la rappresentazione del tempo storico che è connotata da un eterno presente. Non si tratta più di rischiarare una verità sepolta dalla storia o una dimensione misconosciuta dalla conquista e dall’asservimento ma di considerare strumentalmente le condizioni presenti in un determinato ordine sociale. Per questo una storia di tipo lineare si sostituì al tempo ciclico - ricorsivo che dominava nella concezione aristocratico - bellica. L’universalismo statale trasformò l’ostilità bellicosa in lotta civile, cioè in uno scontro interno alla società che ha per bersaglio le istituzioni, l’amministrazione, l’economia, la produzione. A tal proposito, così si esprime Foucault: 10 Sieyès definisce la nazione con due criteri. Il primo è formale. Affinché vi sia una nazione è necessario che vi sia un corpo sociale ed una legislazione; ma ciò non implica necessariamente la presenza di un sovrano. La legislazione discende da qualsiasi istanza o corpo legislativo designato a costituirla. Il secondo criterio è sostanziale. La nazione in termini sostanziali è l’insieme dei lavori (agricoltura, commercio, industria, arti liberali) e delle funzioni (esercito, giustizia, chiesa, amministrazione). Sieyès sostiene che i compiti, in senso sostanziale, che hanno fatto sì che storicamente e politicamente si formasse la nazione sono stati svolti dal Terzo Stato. Al contrario, il riconoscimento formale del potere legislativo al corpo sociale, che nella sua universalità ora si identifica con il popolo sovrano, non è stato mai espresso. Il nucleo storico della “nazione” è attribuito, dunque, da Sieyès al Terzo Stato. Si veda E. J. Sieyès, Che cos’e il Terzo Stato: con il saggio sui privilegi, a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma, 1989.

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3. Genealogia oikonomica

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È (…) lo stato o l’universalità dello stato a diventare la posta in gioco ed insieme il campo di battaglia della lotta – di una lotta che, non avendo come fine e come espressione la dominazione, ma ponendo come oggetto e come spazio lo stato, diventerà essenzialmente una lotta civile. Tale lotta ormai si svolgerà fondamentalmente attraverso ed in direzione dell’economia, delle istituzioni, della produzione, dell’amministrazione. Si tratterà pertanto di una lotta civile rispetto alla quale la lotta militare, la lotta sanguinosa, non saranno forse ormai altro che un momento eccezionale, una crisi o un episodio11.

Si comprende come il concetto di lotta civile cui Foucault allude debba essere intesa in senso ampio. Essa, infatti, fa riferimento alla conflittualità economica, al modello della rivalità concorrenziale in vista dell’accaparramento delle risorse scarse. Da un altro punto di vista, tuttavia, l’autore inserisce la lotta in un ordine del discorso che registra un ulteriore slittamento semantico. Nel momento in cui il discorso storico - politico della guerra diviene discorso monistico della lotta intesa in senso economico - sociale nasce anche una diversa esigenza di difesa. La società comincia, infatti, ad essere vista come il “luogo” privilegiato dello scontro interno, del conflitto tra parti che assume le sembianze di una lotta biologica, cioè di uno scontro tra elementi sani ed elementi degenerati12. Il pericolo di degenerazione e, di conseguenza, ciò da cui le società si sentono minacciate, è il contagio. L’obiettivo sociale primario, dunque, consiste nell’adozione di una serie di misure medico - oikonomiche che consentono alla società di difendersi da se stessa e di separare al proprio interno le parti sane da quelle malate. Non bisogna stupirsi che il concetto di lotta economico - sociale venga così strettamente connesso a quello di lotta biologico - razziale. Esse costituiscono le facce di una stessa medaglia biopolitica. Ed infatti questa complessa interrelazione è implicita nella duplice accezione salvifico - regolativa di biopolitica. La biopolitica nel momento in cui assume come obiettivo prioritario la difesa della società dalle sue parti “malate” (garantendo la sopravvivenza della parte “sana” 11 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), op. cit., p. 195. 12 Questo concetto di lotta si sviluppa in continuità con il linguaggio dell’evoluzionismo e, anche se non direttamente riferito al pensiero di Darwin, è connesso alle tematiche della conservazione della vita, della lotta per la sopravvivenza, della gerarchia delle razze. Storicamente tali concezioni hanno fornito una giustificazione ideologico - politica e tecnico - discorsiva alla lotta biologica e alla sottomissione dell’uomo all’uomo anche in contesti formalmente democratici o liberali. Nel caso delle politiche di normalizzazione, il razzismo ha costituito il sottofondo biopolitico del potere di controllo nei confronti dei criminali, dei folli, dei “degenerati”. In questi esempi, infatti, emerge l’accezione rigenerativa di tale potere. Prende, dunque, corpo, alla fine del XIX secolo, un razzismo di stato esercitato per difendere la società da quella sotto - razza che essa stessa produce.

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Infinitamente finiti

e la morte della parte “degenerata”) mira anche alla rigenerazione ed al rafforzamento oikonomico - produttivo. Il suo obiettivo diviene il raggiungimento di un livello ottimale di vita, di salute, di sicurezza interna. La tematica del nemico interno si declina, a questo punto, in senso bio - politico oikonomico. Il nemico che minaccia dall’interno la salute generale della società deve essere eliminato ma continuamente ricreato, in quanto la minaccia biologica da questo apportata dà la possibilità di mantenere livelli accettabili ed adeguati di gestione oikonomica. Affermando questo non intendo collegare semplicisticamente tematiche così complesse tra loro come il razzismo biologico ed il paradigma oikonomico - governamentale (che diviene potere/sapere economico - politico). Intendo semplicemente dimostrare che, laddove si parla di biopolitica, il riferimento alla dimensione produttivo/oikonomica del potere non può essere messa in secondo piano. Come precedentemente visto, Foucault sottolinea ciò sia occupandosi della nascita del potere/sapere economico - politico entro il reticolo archeologico delle moderne scienze umane sia trattando la tematica dell’assoggettamento e del controllo disciplinare sui corpi “docili”. Ma la dimensione oggettivante delle discipline costituisce solo un aspetto della biopolitica moderna. È anche alle dinamiche desideranti che il nostro sguardo deve essere rivolto. Gestendo queste ultime la biopolitica mira alla riproduzione ed al rafforzamento continuo di se stessa. La produttività oikonomica ha il proprio fulcro nella capacità di espandersi verso sfere precedentemente non afferrate dalla morsa biopolitica e di circolare sempre più velocemente attraverso i corpi. Il biopotere è una microfisica proprio perché si moltiplica, agendo sulle dinamiche di soggettivazione. Dunque, la valenza oikonomico/gestionale del biopotere, anche quando si riflette drammaticamente in vere e proprie forme di razzismo di stato, si fonda sulla possibilità di estendersi ad aspetti della vita, delle attività, delle relazioni umane precedentemente non considerate utili o produttive ai fini della propria rigenerazione. Ed è per questo che la biopolitica circola e si forma proprio all’interno del sapere biologico ed economico, nelle nuove empiricità della vita e del lavoro. L’analitica della finitudine, che fa di queste empiricità la base della riproduzione infinitamente finita dei meccanismi desideranti del singolo e della società, deve essere considerata come l’origine di un discorso di potere che trasforma le dinamiche di inclusione/esclusione giuridico - sociale in dinamiche di inclusione/esclusione biologico - razziale. È chiaro, a questo punto, che si può fornire una risposta al quesito foucaultiano esposto in apertura di capitolo: l’analisi dei poteri può dedursi dall’economia solo a patto di considerarla nei termini più complessi di un paradigma bio -oikonomico assicurativo, cioè un paradigma che abbia l’obiettivo primario di gestire, amministrare ed assicurare la salvezza/salute della popolazione nel suo comples-

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3. Genealogia oikonomica

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so. Come accennato, ciò implica che l’ordine del discorso giuridico venga interrogato a partire dalle trasformazioni che ha subito e generato, aprendo lo spazio ad un discorso di verità in parte diverso: quello economico - politico. È in questo senso interpretabile il noto richiamo foucaultiano: considerare la biopolitica come un potere di “vivere e lasciar morire” mentre l’antico potere sovrano era fondato sul diritto di “far morire e di lasciar vivere”13. In questa formulazione non è racchiuso il senso di un salto o di una discontinuità da un paradigma all’altro ma l’interrelazione e la sovrapposizione tra ordini del discorso giuridico - politico e bio - oikonomico della salute/salvezza. Se nel contesto della sovranità il potere veniva esercitato sui corpi dando la morte, è anche vero che il corpo privo di vita era escluso dalla comunità dei viventi che subivano gli effetti di potere. La morte era il momento simbolico che sanciva il passaggio dalla sovranità del re sulla terra alla sovranità di Dio in cielo. Gli effetti del potere sovrano, dunque, non potevano prolungarsi oltre la vita. Un altro aspetto che sfuggiva al potere, questa volta sul versante della vita, era la dimensione intima e privata dell’organismo (o della casa). Se è, infatti, vero che il potere sovrano consisteva nel diritto “di dare la morte o di lasciare in vita”, è anche vero che esistevano aspetti della corporeità e dell’esistenza che non erano investiti dalla decisione sovrana o, perlomeno, non lo erano in termini globali e sistematici. Si potrebbe forse dire che è come se il potere che aveva come modalità, come schema di organizzazione, la sovranità, si fosse trovato incapace di reggere il corpo economico e politico di una società entrata in una fase di esplosione demografica e di industrializzazione, al contempo, dato che alla vecchia meccanica del potere sovrano sfuggivano troppe cose, sia dal basso che dall’alto, sia al livello del dettaglio che al livello della massa14.

Dire, al contrario, che la biopolitica fa della gestione della vita e della morte il soggetto/oggetto del proprio potere significa interpretare la frase foucaultiana nei termini della pervasività e dell’estensione degli effetti di potere su una “materia” che precedentemente ne risultava parzialmente sottratta. Nell’ordine del discorso della biopolitica, quindi, il corpo disciplinato è inglobato entro una tecnologia di potere che non è più solo disciplinare, che non investe solo l’uomo - corpo ma l’uomo che vive, l’uomo in quanto essere vivente. Infine, questa tecnologia di potere si rivolge alla molteplicità degli uomini non intesi come sommatoria di corpi ma come massa/popolazione investita da processi d’insieme come la nascita, la morte, la produzione, la malattia, ecc. La tecnologia disciplinare inscritta nella 13 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), op. cit., p. 207. 14 Ivi, p. 40.

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‘docilità’ del corpo individuale si intreccia con i dispositivi assicurativo - regolatori della popolazione e confluisce in quella che Foucault ha definito società della normalizzazione di tipo liberale. 3.2. Razionalità governamentale ed economia politica

I Corsi al Collège de France nei quali Foucault affronta il tema della political economy sono Sécurité, territoire, population (Corso al Collége de France 1977/78) e Naissance de la biopolitique (Corso al Collége de France 1978/79)15. Il primo affronta il problema dell’emergere del paradigma governamentale/oikonomico attraverso una serie di apparati di potere/sapere che realizzano l’interrelazione preannunciata nel Corso dell’anno precedente (Il faut defendre la société, 1976/77) tra dispositivi di sovranità e dispositivi di governo. In particolare, si cerca di chiarire quali sono i dispositivi che consentono di comprendere il ruolo oikonomico attribuito ad un nuovo soggetto/oggetto della pratica governamentale: la popolazione. Questa si colloca in uno specifico spazio: la società civile. La popolazione è definita nel XVIII e XIX secolo come collettività che deve essere gestita, amministrata, controllata, organizzata in relazione alla naturalità dei propri comportamenti e delle proprie attitudini. Come detto, già nel XVII secolo con la teoria fisiocratica la popolazione diviene un importante elemento economico. Gli individui che la compongono, infatti, cominciarono a non essere più considerati come sudditi di diritto o possesso personale del sovrano (come le terre ed il bestiame) ma divennero fattore di accrescimento economico (braccia per l’agricoltura ed il commercio). Con la teoria fisiocratica la popolazione è concepita come un insieme di processi da gestire nelle proprie caratteristiche ‘naturali’, nella propria ‘naturalità’. Si parla di naturalità della popolazione soprattutto con riferimento all’eterogeneità ed alla multidimensionalità delle sue componenti; ma tale concetto può essere colto tecnicamente e compreso politicamente (può costituire un dato politico ed economico) solo se la popolazione stessa è sottoposta a necessari interventi tecnici, prospettici e previsionali. Un insieme eterogeneo di orientamenti, valori, attività, necessita, infatti, di strumenti interpretativi, tecnologie di calcolo, selezione, computazione matematico/statistica al fine di aggregare e disaggregare una molteplicità in unità discrete, creando trand, range o tipologie. La naturalità diviene il principio base di realizzazione di interventi tecno - governamentali che mirano a ridurre gli scarti, ad ammettere come accettabili o ad includere come 15 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 -1979), trad. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano, 2005.

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3. Genealogia oikonomica

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oggetto dell’intervento esclusivamente componenti statistiche che si pongono entro certi parametri. Ciò che a tali parametri sfugge è considerato elemento spurio, escluso del sistema. Se si ammette che ciò avviene attraverso strumenti statistici si può anche dire che la normalità statistica indica l’oscillazione dei parametri quantitativo - numerici intorno a determinati indici (norma), al di sotto ed al di sopra dei quali i dati devono essere considerati non rilevanti o estranei al sistema di osservazione in questione. I parametri oikonomici attraverso i quali i fenomeni popolazionisti sono mantenuti sotto controllo tecno - statistico e gestionale funzionano allo stesso modo: la normalità ammette delle oscillazioni interne ma al di sopra ed al di sotto di certi parametri i fenomeni osservati e le categorie di individui che ne sono espressione sono considerati anormali (si discostano troppo dalla norma). Da ciò derivano due questioni. La prima è che, anche con riferimento alla definizione popolazionista, si osserva un’idea di equilibrio dinamico, basato su oscillazioni, che può anche essere definito pseudo - naturale (diversamente da quanto sostiene Foucault, a mio avviso, è più opportuno parlare di pseudo - naturalità della popolazione). Inoltre, tale forma di regolazione non può essere definita come normazione ma come normalizzazione. Secondo Foucault esiste, infatti, una differenza tra i due termini. La normazione (riconduzione alla norma) è tipica dei dispositivi disciplinari e di controllo; in questo caso la riconduzione alla norma si ottiene eliminando, espellendo il negativo, ciò che non rientra nella definizione di norma. Al contrario, nella definizione di normalizzazione il negativo non è eliminato o espulso dal sistema ma è presente, entro certi limiti, al proprio interno. Facendo riferimento all’epidemiologia ed alla teoria di X. Bichat, Foucault ricorda che la malattia costituisce una condizione, entro certi limiti, fisiologica della vita. Lo stesso vale per la popolazione. Normalizzare significa, allora, stabilire un livello normale entro il quale è possibile l’oscillazione, la differenza, l’anormalità. Oltre questo livello ciò che è escluso o non riconducibile alla norma sarà espulso in quanto disfunzionale. Non esiste in ciò una dicotomia netta tra normalità ed anormalità, salute e malattia. Sono il contesto, il grado di incidenza, l’effetto che produce a livello comportamentale e sociale che rendono il potenziale anormale degno o indegno di essere incluso nel sistema, di essere educato o curato. Per questo la rilevazione degli scarti differenziali tra una soglia di anormalità accettabile ed una non accettabile è il punto di attacco del potere oikonomico - governamentale. La normalizzazione è un’operazione di calcolo preventivo, è un monitoraggio costante del corpo individuale e collettivo, dei suoi flussi e delle sue attività al fine di comprendere se la norma può essere accettata come tale o deve subire degli adeguamenti e delle modifiche. Si può dire che la normalizzazione è una sorta di normazione di secondo grado. Per questo Foucault parla

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della naturalità come la “costanza di un fenomeno variabile”. Infatti, se è vero che la popolazione è un fenomeno variabile è anche vero che all’interno di variazioni continue è possibile rintracciare delle regolarità. Il dato naturale è in tal modo sovrapposto a quello normale. Inoltre, il concetto di naturalità della popolazione evidenzia che il limite del potere non deve più essere cercato nella disobbedienza del suddito ma nelle stesse tecniche governamentali. Detto ciò, è necessario ora chiarire cosa intende Foucault con il termine governamentalità. Essa fa riferimento all’insieme dei dispositivi che, nelle società occidentali ed a partire dal XVIII secolo circa, privilegiano uno specifico tipo di potere chiamato “governo” rispetto ad altre tipologie come la “sovranità”. La governamentalità è il risultato di un lungo processo storico che dallo stato di giustizia del Medioevo giunge allo stato amministrativo del XV e del XVI secolo ed allo stato governamentale del XVIII. Con questo termine si intende, pertanto, l’insieme delle istituzioni, delle procedure, delle tecniche, delle analisi, delle riflessioni e delle tattiche che hanno nella popolazione il soggetto/oggetto privilegiato, nell’economia politica la forma di sapere e nella polizia lo strumento tecnico che consente il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. L’obiettivo fondamentale di tali dispositivi e tecnologie di potere/sapere è garantire la sopravvivenza dello stato e degli apparati burocratico/amministrativi che lo compongono. In particolare, devono regolare il grado di apertura e di chiusura del sistema governamentale verso l’esterno, gestendo le relazioni specifiche tra sfera pubblica e sfera privata. Infatti, lo stato ha come obiettivo il mantenimento di un equilibrio funzionale tra queste due sfere. I processi di governamentalizzazione agiscono soprattutto in direzione della società civile, la quale diviene spazio intermedio tra il pubblico ed il privato. Essa è il luogo nel quale si esercita il governo della popolazione, obiettivo fondamentale delle tecniche oikonomico - biopolitiche. Inoltre, a partire dal XVIII secolo, la scienza di polizia (Polizeiwissenschaft) e l’economia politica rappresentano i due saperi che concorrono alla gestione oikonomico - governamentale della sicurezza, intesa soprattutto come sopravvivenza della popolazione e della specie. Il fondamento oikonomico delle tecniche governamentali è riconducibile, infatti, al paradigma antropologico dell’infinita finitudine dell’umano: la carenza originaria comporta l’attuazione di misure tecnico - amministrative che la scongiurino ed, in qualche modo, che la prevengano in termini conservativi. È la risposta alla carenza originaria dell’uomo (perpétuelle carence) che giustifica le politiche governamentali e le trasforma in interventi biopolitici. Questa perpétuelle carence costituisce l’oggetto precipuo dell’economia politica che si propone di fornire una risposta alla scarsità naturale ed alla finitudine umana. La domanda fondamentale è, dunque, la seguente: «Come porre fine o alleviare la condizione di infinita finitudine dell’umano?».

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3. Genealogia oikonomica

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Oggetto dell’economia politica – dopo Ricardo almeno – non è la rappresentazione dei bisogni umani ma l’individuazione dei mezzi grazie ai quali sia possibile sfuggire alla finitudine umana, ad una carence originaire, storicamente compresa, sovrastata dall’imminence de la mort come minaccia costante e quotidiana. La quale non è però, hobbesianamente, rivolta a tutti singolarmente, ma alla popolazione come insieme. Certo, la political economy è solo uno ed il più ambiguo – perché sempre critico – dei saperi che costituiscono la tecnologia governamentale; ma è principalmente per suo tramite che la biopolitica mette a tema quella perpétuelle carance rispetto alla quale non vi è “forma sovrana” che possa bastare. La civil society non è, infatti, uno spazio relazionale “altro” rispetto alle tecniche governamentali; anzi, è loro ambito precipuo, nel quale avviene il passaggio dalle structures de souverainetè alle techniques du gouvernement16.

In tal modo si giunge a quella che Foucault ha definito soglia di governamentalizzazione della società. Tale soglia fu raggiunta nel momento in cui il potere/ sapere economico mise in discussione la ragion di stato come criterio principale di legittimazione della sovranità e di separazione tra sfera pubblica e sfera privata. Essa si accrebbe, quindi, quando l’economia si estese al di fuori del perimetro ristretto del “governo della casa” trasformando la popolazione in un elemento naturale e la police in una tecnica assicurativo/gestionale. Bisogna sottolineare, infatti, che nel corso del XVIII secolo la scienza di polizia comprendeva l’insieme delle discipline, dei calcoli e delle tecniche che consentivano di stabilire una relazione mobile tra ordine interno dello stato e crescita delle sue forze. Essa aveva per obiettivo specifico il governo degli uomini, la loro attività, la loro occupazione. L’attività degli uomini, infatti, rappresentava un elemento differenziale nello sviluppo delle forze dello stato. La polizia si occupava di estrarre utilità dai corpi e dalle attività umane, trasformandola in utilità pubblica. Ma vi erano ulteriori “oggetti” nell’ordine del discorso della scienza di polizia. In primo luogo il numero dei cittadini che veniva calcolato rapportandolo alla quantità delle risorse a disposizione in un territorio. In secondo luogo il benessere collettivo. Ciò significa che la scienza di polizia si occupava non soltanto del “vivere” ma del “vivere bene”, della realizzazione del ben - essere collettivo. Per questo si occupava della gestione delle politiche agricole, della commercializzazione delle derrate, della circolazione delle merci, del controllo sui rischi alimentari (ad esempio le carestie). Un ulteriore campo di applicazione della scienza di polizia erano le politiche di sanità pubblica. Si trattava di interventi sulla distribuzione, riqualificazione, disinfezione, spopolamento, ripopolamento degli spazi urbani. Vi erano, poi, le politiche di edilizia urbana che, connesse agli interventi 16 A. Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, Ombre corte, Verona, 2010, p. 86.

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di igiene pubblica tramite la teoria dei miasmi, erano volte alla riorganizzazione periodica degli spazi, alla costruzione delle infrastrutture, all’organizzazione delle reti viarie, al dislocamento al di fuori dei nuclei urbani degli edifici considerati nocivi o fonte di contagio. La regolamentazione dei mestieri rientrava, inoltre, nel controllo delle attività umane, cui si accennava precedentemente, insieme agli interventi contro la povertà ed il vagabondaggio o gli atteggiamenti oziosi ed improduttivi17. Dunque, parlando di scienza di polizia si può sottolineare la congiunzione oikonomica tra politiche repressivo - correzionali e politiche economiche volte a promuovere il benessere della popolazione. La polizia interviene sulla popolazione al fine di regolare l’ordine e garantire l’accrescimento delle forze. In breve, la polizia si inserisce in questo nuovo sistema economico, sociale, potremmo persino dire antropologico, che appare tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Tale sistema non obbedisce più al problema immediato di sopravvivere e di non morire, bensì al problema di vivere e fare qualcosa di più del semplice vivere. La polizia, infatti, è l’insieme delle tecniche, degli interventi e dei mezzi che assicurano il vivere, il fare di più che semplicemente vivere, cioè il coesistere, il comunicare, saranno realmente convertibili in forze dello stato, cioè saranno effettivamente utili alla costituzione e all’incremento delle forze dello stato. Con la polizia, quindi, si disegna un cerchio che parte dallo stato come potere di intervento razionale e calcolato sugli individui, e ritorna allo stato, come insieme di forze in crescita o da far crescere, passando per la vita degli individui, che ora, in quanto semplice vita, diventa preziosa per lo stato18.

Ma dalla metà del XVIII secolo le funzioni fondamentali della scienza di polizia si modificano, dando vita a due differenti sfere di potere/sapere: le politiche di sicurezza e quelle economiche. La polizia, nel significato che ha anche oggi, 17 Come sostengono le teorie economiche di Ricardo e Malthus, la povertà è strettamente correlata all’ozio ed al pericolo di degenerazione morale. Dunque, un intervento di polizia che miri al ristabilimento dell’efficienza produttiva della maggior parte della popolazione deve indirizzarsi alla prevenzione ed alla cura di questi fenomeni attraverso delle politiche di repressione o di correzione del vizio, dei comportamenti oziosi, delle situazioni di promiscuità. Le politiche d’intervento sulla povertà e l’ozio, infatti, sono collegate anche alle politiche demografiche di controllo della natalità. Malthus, ad esempio, riteneva che un certo equilibrio naturale fondato sul bisogno e sulla rarità muovesse gli atteggiamenti riproduttivi e li controllasse “naturalmente”. Ciò nonostante, per impedire che le classi meno agiate potessero continuare illimitatamente a riprodursi dovevano essere incoraggiate delle politiche pubbliche di intervento sugli atteggiamenti che avrebbero potuto diffondere il vizio, l’oziosità e la degenerazione morale. L’obiettivo principale delle politiche di intervento sulla povertà, l’ozio ed i comportamenti riproduttivi della popolazione, risiede nelle possibilità di incremento dell’utilità pubblica. 18 M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 - 1978), op. cit., p. 237.

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3. Genealogia oikonomica

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assume su di sé i compiti legati al mantenimento della sicurezza ed alla repressione del crimine; l’economia politica diviene, invece, il sapere che gestisce la popolazione dal punto di vista delle politiche del benessere. Se le due branche della Polizeiwissenschaft si separano ciò non significa che la ragione economica si sostituisce completamente alla ragion di stato: le fornisce nuovi contenuti e nuove metodologie. Infatti, la ragione economica tende a riqualificare la ragion di stato per mezzo di una nuova razionalità oikonomica che rende possibile l’autolimitazione del governo come autoregolazione di fatto. L’economia politica deve, dunque, essere intesa come un discorso sull’organizzazione, la distribuzione, la limitazione dei poteri all’interno della società. Per questo motivo essa, pur non sviluppandosi al di fuori della ragion di stato, articola questa nello spazio aperto da un nuovo discorso di verità, quello del mercato19. Nel XVIII secolo è il successo o l’insuccesso delle politiche economiche, che devono intervenire limitatamente all’auto - regolazione naturale del mercato, a costituire il criterio delle pratiche di governo. Inizialmente esse dovranno auto limitarsi per influire il meno possibile sulla regolazione naturale del mercato. Per questo la comparsa dell’economia politica è connessa al problema del governo minimo. L’auto - regolazione costituisce, infatti, il perno di un regime di verità che investe i meccanismi naturali delle cose, generando l’equilibrio pseudo - naturale del sistema. Nel XVI - XVII secolo, con la ragion di stato, ci si chiedeva: governo abbastanza, abbastanza intensamente, abbastanza profondamente, abbastanza minuziosamente per condurre lo stato fino al punto fissato dal suo dover essere, per portarlo fino al suo massimo di forza? Adesso, invece, il problema diventa: governo al limite di quel troppo o di quel troppo poco, tra quel massimo e quel minimo che vengono fissati per me dalla natura delle cose, cioè dalle necessità intrinseche alle operazioni di governo?20

Nel mercato lo sforzo di auto - limitazione si rispecchia in uno specifico regime di veridizione: in esso si verifica o si falsifica la pratica governamentale fondata sulla ragione oikonomica. Se nel Medioevo, in base al criterio del giusto prezzo, il mercato era considerato il luogo che, in virtù dell’auto - regolazione, garantiva la giustizia redistributiva, a partire dal XVIII secolo diviene lo scenario di interventi che sottopongono a limitazione o estensione le politiche pubbliche e gli interventi governamentali. Il mercato non è considerato come un luogo di giurisdizione ma di veridizione nel quale la ragione economica fonda la verità o la falsità degli enunciati in base all’estensione o alla limitazione della pratica governamentale. 19 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 -1979), op. cit. 20 Ivi, p. 30.

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Il mercato da luogo di giurisdizione qual’era ancora all’inizio del XVIII secolo sta diventando un luogo che chiamerò di veridizione (…). Il mercato deve dire il vero, e deve farlo in relazione alla pratica di governo. È il suo ruolo di veridizione che d’ora in poi, ed in modo chiaramente indiretto, lo porterà a comandare, dettare, prescrivere i meccanismi giurisdizionali, sulla cui presenza o assenza il mercato dovrà articolarsi21.

Tale ordine del discorso consente di far penetrare il concetto di naturalità in una sfera artificiale: la società civile. In essa l’azione governamentale non mira tanto a regolamentare quanto a gestire i fenomeni che la investono. Il principio di limitazione, infatti, non si traduce in un apparato di norme e divieti; esso struttura delle tecnologie di potere volte al mantenimento dell’equilibrio tra sicurezza economica e libertà di mercato. Così, secondo M. Senellart: La società rappresenta, da un lato, il principio in nome del quale il governo liberale tende ad autolimitarsi: lo obbliga a domandarsi continuamente se non governa troppo, svolgendo così un ruolo critico rispetto ad ogni eccesso di governo. Dall’altro, la società diventa il bersaglio di un permanente intervento di governo finalizzato a non restringere sul piano pratico le libertà formalmente riconosciute, bensì a produrre, moltiplicare e garantire quelle libertà di cui il sistema liberale ha bisogno. La società rappresenta, quindi, l’insieme delle condizioni del governo liberale minimo, e la superficie di trasferimento dell’attività di governo22.

3.3. Liberalismo e neoliberalismo

Naissance de la biopolitique parte dall’interrogativo: perché si dovrebbe governare? Tale quesito consente di porre in primo piano il rapporto complesso che la società intrattiene con lo stato. Come sottolinea Senellart, il paradigma economico liberale esige che la governamentalità si eserciti mediante la critica e che l’obiettivo della sicurezza coesista con la libertà. A tal proposito bisogna dire che l’uso che Foucault fa del temine liberalismo non è specifico: accomuna spesso l’ordine del discorso liberale e neoliberale. Tale scelta è motivata dal fine teorico specifico di mettere in luce il contenuto di verità che, al di là delle differenti prassi governamentali, accomuna le due prospettive. Ciò non significa misconoscerne le differenze. Al contrario, è proprio il passaggio dall’ordine del discorso liberale a quello neoliberale che mette in luce il differente rapporto intervenuto tra stato e mercato. Sviluppare una genealogia governamentale significa tenere presente 21 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 - 1979), op. cit., p. 40. 22 M. Senellart, Nota del curatore in M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977 - 1978), op. cit., p. 287.

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come si modificano i rapporti tra queste sfere. L’etica economica neoliberale abbandona l’idea del laissez faire su cui si basava il liberalismo classico e si impegna nell’estensione della logica di mercato verso ambiti che non erano stati precedentemente toccati dall’economia, come la vita individuale. Il neoliberalismo diviene, dunque, biopolitica dispiegata. Ciò è vero, ad esempio, per quanto riguarda le teorie del capitale umano. Nelle influenze che la scuola tedesca di Friburgo ebbe su quella americana di Chicago si intravede una trasformazione fondamentale: lo stato agisce interamente in funzione del mercato. Nel neoliberalismo della scuola di Chicago, dunque, non prevale il non interventismo statale ma si determina una relazione tra stato e mercato tale per cui le politiche pubbliche si muovono costantemente sul limite tra intervento e non intervento. In ogni caso, lo stato governa in vista del mercato, per il mercato. L’intervento dello stato è auspicato dalle dottrine neoliberali sempre in funzione dell’estensione della logica economico - capitalistica. Alla domanda foucaultiana si può, allora, dare una prima risposta: si governa per il mercato. Tale risposta non è premessa al Corso del 1978/79 ma scaturisce dall’analisi delle pratiche liberali, prima, e neoliberali, poi. Il punto di partenza è costituito dal rapporto problematico tra produzione della libertà e tutto ciò che, producendola, la limita. Esiste, infatti, un rapporto paradossale tra libertà e sicurezza. La nuova ragione di governo ha (…) bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà è obbligata anche a produrne, se la produce è obbligata anche a organizzarla. La nuova arte di governo si presenterà, pertanto, come arte di gestione della libertà, ma non nel senso dell’imperativo: “sii libero”, con la contraddizione immediata che questo imperativo può comportare. La formula del liberalismo non è “sii libero”. Il liberalismo, semplicemente, dice: ti procurerò di che essere libero23.

Nell’imperativo sii libero si realizza sia il limite che la potenzialità espansiva della libertà moderna. Essa non può, dunque, essere positiva, deve comunque essere sottoposta ad una gestione governamentale. La governamentalità, allora, produce e consuma libertà nel senso che individua il limite entro il quale governare o non governare, concedendo nuovo spazio alla libertà. Per questo l’arte di governo si incentra sull’interrogazione: quanto bisogna governare? Qual è la misura o il limite oltre il quale si consuma libertà senza produrla? Il valore della libertà nel contesto economico liberale è fondato su un sottile equilibrio: più si producono le condizioni materiali che garantiscono agli individui la libertà, più si estende la necessità del controllo e della gestione gover23 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 - 1979), op. cit., p. 65.

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namentale.Viceversa, più pesanti sono le politiche di sicurezza e controllo più si sentirà la necessità di creare nuovi spazi di libertà individuale e sociale. Foucault sostiene che tale precario equilibrio che si forma tra libertà e sicurezza è un equilibrio pseudo - naturale. Il liberalismo è una specie di naturalismo in quanto si basa sul concetto di regolazione quasi - naturale24. Ciò conduce a parlare di evoluzione economica (così come nel Corso del 1975/76 si parlava di evoluzione biologica). Si tratta di un sistema che deve farsi carico della minaccia, che deve includerla fin quando non è considerata disfunzionale. Manipolare gli interessi significa gestire il pericolo, ormai non più spazializzabile in base alla netta distinzione nemico interno/nemico esterno. Il liberalismo gestisce gli interessi manipolando il pericolo a fini espansivi. Per questo l’ordine del discorso liberale si fonda sull’imperativo: vivi pericolosamente! Ma questo circuito paradossale libertà/sicurezza può dispiegarsi liberamente solo nei momenti di crisi o di emergenza. I momenti di crisi sono dei momenti di rottura nei quali un determinato regime di verità reinterpreta i rapporti di forza esistenti entro il contesto sociale, politico, economico. Come sappiamo, dire che il mercato è un luogo di veridizione significa ammettere che esso è il contesto di convalidazione o falsificazione di un determinato discorso di potere. Dunque, i momenti di crisi esprimono il conflitto tra diversi ordini del discorso. Nel discorso liberale il conflitto serve ad articolare la domanda: quanto, fino a che punto, con quali modalità bisogna governare? Secondo Foucault, nel pensiero liberale ci sono due risposte che sono state date a questa domanda che presuppongono, a loro volta, due differenti articolazioni del nesso libertà/sicurezza. Il primo nucleo teorico è individuato nel keynesismo. Tale punto di vista parte dalla crisi del capitalismo per supportare il punto di vista dell’estensione delle politiche di securizzazione. Ciò ha ispirato le politiche di welfare state di vari paesi. L’altra prospettiva è fondata sulle teorie del libero mercato che interpretano la crisi come crisi del liberalismo e, partendo da essa, traggono lo spunto per criticare l’ingerenza dello stato negli affari economici. Tali dispositivi, che Foucault definisce “liberogeni”, volendo scongiurare il rischio di cadere in eccessi statalisti o autoritari, vedono nel non interventismo statale la garanzia di estensione della libertà di mercato. Le teorie neoliberali si incardinano in quest’ultimo alveo, presentando, tuttavia, notevoli differenze e punti di rottura. Le continuità possono essere individuate nella ripresa dell’ordine del discorso anti - keynesiano e nell’utilizzo della semantica della crisi. I punti di rottura, invece, 24 Questa affermazione è supportata anche da numerosi parallelismi presenti dei Corsi tra il concetto di società e quello di ambiente. La società, così come l’ambiente, è il luogo nel quale le relazioni tra elementi (organismi naturali o soggetti liberi) si struttura nello spazio di una pseudo - naturalità, cioè in un contesto in cui relazioni spontanee vengono organizzate e gestite in un quadro di artificialità.

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consistono nel superamento del laissez faire e nell’individuazione di una politica economica che fa dello stato uno strumento per espandere la logica di mercato. Foucault parla nello specifico di due approcci neoliberali: la scuola tedesca e la scuola statunitense. Gli ancoraggi tra queste due correnti sono, in termini storici, la stagione che va da Weimar al secondo dopoguerra e, dal punto di vista teorico, l’influenza del pensiero liberale classico (studiosi come von Mises e von Hayek)25. 1. L’ordoliberalismo tedesco26 (scuola tedesca) è influenzato da quell’invariante antiliberale che i teorici tedeschi identificano in una serie di avvenimenti come lo statalismo bismarchiano, il planismo economico nazista e le politiche keynesiane. Tutti questi eventi sono connessi tra loro da una continuità storico - economica all’insegna dello statalismo. La politica economica nazionalsocialista, ad esempio, fu presa in considerazione unicamente come obiettivo della critica anti - statalista. Ciò condusse gli ordoliberali a rovesciare la prospettiva liberale che ammetteva la coesistenza di libertà di mercato e controllo statale. Essi sostennero, al contrario, che bisognasse fare della libertà di mercato non tanto uno strumento di limitazione del potere statale quanto un principio regolatore. In altri termini, non si trattava di concedere più spazi di libertà all’economia ma di fare del mercato un modello di riforma della società e dello stato stesso. La posta in gioco del neoliberalismo tedesco consisteva, dunque, nello spostare l’ordine del discorso governamentale verso il mercato, ponendo lo “stato sotto la sorveglianza del mercato” e non il “mercato sotto la sorveglianza dello stato”. Riassumendo, si può dire che mentre nella logica liberale il mercato è principio di limitazione dello stato, nella logica neoliberale è principio di regolazione di questo. Tale spostamento, tuttavia, non si esercita al di fuori delle regole del diritto ma presuppone la politica del low and order che i neoliberali tedeschi ed americani ereditarono dalla tradizione liberale. È all’interno del quadro dello stato di diritto che va posta la progressiva presa in carico dello stato da parte del mercato. Già nella dottrina liberale tale politica economica aveva posto in dubbio l’idea dell’esistenza di un ordine naturale auto - regolantesi. Successivamente le teorie neoliberali non solo abbandonarono il laissez faire ma ritennero necessario realizzare un quadro generale e formale entro il quale il sistema di mercato potesse diffondersi ed affrontare i processi di cambiamento. Ciò, ad esempio, recependo la teoria di Schumpeter nei termini di un necessario superamento della prospettiva pessimistica che vedeva nell’economia capitali25 Per approfondimenti si veda L. von Mises, F. von Hayek, Il realismo politico di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Antologia, a cura di G. Vestuti, Giuffrè, Milano, 1987. 26 Il termine ordoliberalismo deriva dalla rivista “Ordo”, fondata da Eucken nel 1940. Intorno a questa rivista si riunirono i più importanti intellettuali ed economisti della scuola di Friburgo.

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stica delle crisi cicliche e ripetitive27. Il capitalismo si basa, secondo la prospettiva schumpeteriana, su cicli di trasformazione economica che sono fortemente influenzati da fattori esterni, a loro volta regolabili. Dunque la crisi, da questo punto di vista, non è interna al sistema economico capitalistico ma dipende da come si gestiscono e regolano i fattori economici esterni che su di esso influiscono (come ad esempio il monopolio). Attraverso tali riflessioni i neoliberali tedeschi giunsero a proporre un modello economico fondato sulla regolazione giuridica di quadro. Essendo dovuta a fattori esterni, la crisi del capitalismo poteva essere scongiurata pianificando delle misure giuridiche che, senza interferire negli equilibri di mercato, fornissero delle indicazioni generali entro le quali i veri e propri processi economici fossero liberi di svilupparsi. La differenza tra pianificazione economica e politica di quadro è teorizzata da von Hayek (The road to Serfdom). Egli enumera le caratteristiche del piano economico (finalità ed obiettivi da raggiungere; non rettificabilità; decisionismo statale) e le contrappone alle politiche economiche di uno stato di diritto. In esso l’interventismo dello stato è ridotto al minimo e si esercita sempre entro il quadro formale della generalità della legge. Generalità della legge e separazione tra potere legislativo e potere amministrativo/esecutivo sono, infatti, i principî fondamentali dello stato di diritto. Tale sistema muove dall’applicazione di principi formali ed implica che l’ordine giuridico - economico escluda di fatto l’esistenza di un soggetto universale capace di dominare dall’alto i processi, di fissare i fini e di sostituirsi agli agenti economici nel processo decisionale. Ciò significa che entro la generalità della norma giuridica è possibile prendere autonome decisioni empiriche che scaturiscono dalle condotte economiche degli agenti. A questa concezione fanno riferimento anche teorici neoliberali come Eucken e Röpke. Ma, secondo Foucault, c’è un altro aspetto della dottrina ordoliberale che confluirà in quella che viene definita come economia sociale d’impresa: la centralità della sfera giudiziaria. Se è vero che la formalità della legge lascia libero spazio alle regole del gioco economico, si deve presupporre anche la produzione di un elevato livello di conflittualità economica e sociale che può essere gestita solamente con un rafforzamento del potere giudiziario. Secondo Foucault, infatti, il giudiziario, ben lungi dall’essere ridotto alla semplice funzione di applicazione della legge, finisce per acquisire un’autonomia ed un’importanza nuove. Insomma, più la legge diventa formale, più l’intervento giudiziario diventa frequente. Gli apparati giuridici, dunque, svolgono una funzione regolatrice che garantisce la giustizia sociale a fini economici28. Mentre la legge fornisce quel quadro generale 27 Cfr. J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, trad. it. di E. Zuffi, Edizioni di Comunità, Milano, 1964. 28 Ciò nonostante ritengo eccessivo il presupposto che vede nel rafforzamento del potere giudiziario un arretramento di quello amministrativo. Molti autori hanno, infatti, messo in evidenza

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3. Genealogia oikonomica

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di regole che consentono di mantenere l’ordine sociale, il luogo di legittimazione dell’azione individuale si concentra sempre più nel mercato. Quest’ultimo diventa anche il luogo in cui si forma il consenso. Inoltre, secondo Foucault il neoliberalismo definisce il mercato non più a partire dai meccanismi dello scambio ma in relazione a quelli della concorrenza29. Ciò si traduce, nel pensiero neoliberale del XIX secolo, nella teoria della concorrenza pura e, nell’ordoliberalismo del XX, in un principio di formalizzazione. La tesi che privilegia la concorrenza pura si basava sul principio della regolazione dei prezzi30 come l’estensione dell’economia di mercato comporti il lento scivolamento dalla legge alla norma e presupponga un incremento degli interventi emergenziali. Ma formalità della legge ed estensione della logica emergenziale e dei poteri amministrativo - governamentali non sono inconciliabili tra loro. Al contrario, in base alla nota distinzione schmittiana tra legittimità e legalità, si può sostenere che in determinati contesti la legittimità lascia il posto alla legalità e ciò implica che un regime caratterizzato dalla generalità della legge possa e debba coesistere con un sistema normalizzato di controlli. Dunque, non stupisce anche che il rafforzamento della sfera giudiziaria nasconda dietro di sé un’organizzazione amministrativa dei poteri di controllo e selezione. 29 L’ordoliberalismo tedesco è formato da due filoni teorici differenti: l’etica sociale d’impresa e la Vitalpolitik. Secondo la teoria dell’etica sociale d’impresa, portata avanti da autori come Sombart, Weber, Schumpeter, l’azione governamentale si rivolge al governo della società, inteso come ambiente sociale nel quale si muovono gli individui con i loro molteplici rapporti economico - sociali. La Vitalpolitik, invece, auspica la ricostruzione organica della società a partire dall’istituzione di “comunità naturali” e di vicinato che spostino il centro di gravità dell’azione economica. L’autore di riferimento di questo approccio è Rüstow. Ambedue questi approcci forniscono, secondo Foucault, la giustificazione teorica per un sistema economico di mercato che si regga sulla concorrenza anziché sullo scambio e che promuova una società di produttori anziché di consumatori. Questo è un altro punto poco condivisibile del discorso foucaultiano, specialmente se si fa riferimento ai teorici dell’etica sociale d’impresa come Schumpeter. Essi, infatti, non parlano di un regime di concorrenza pura ma di una concorrenza imperfetta. Inoltre, tale punto di vista non ritiene superato il riferimento ad una società fondata sul consumo. L’individuo che fa dell’impresa il fulcro del proprio agire economico è anche consumatore. Non si potrebbe, infatti, parlare di mercato concorrenziale senza presupporre una società di consumatori. Dunque, la demoltiplicazione della forma impresa all’interno del corpo sociale non è in contrasto con gli sviluppi della società fondata sui consumi. 30 Il liberalismo del XVIII e del XIX secolo considerava lo scambio come un processo che richiedeva un “mercato libero”, cioè una sfera economica sgombra dalle interferenze che avrebbe potuto comportare un intervento “terzo” dello stato. Questo, al contrario, doveva limitarsi ad una regolamentazione minima e non invasiva al fine di garantire uguali condizioni di partenza, uguaglianza nell’accesso allo scambio in termini di tutela della proprietà privata e della produzione. Su questo punto Foucault non sembra differenziare il liberalismo settecentesco dai suoi sviluppi neoliberali ottocenteschi (marginalisti e neo - marginalisti). L’unico aspetto che sembra differenziare i due approcci è che il primo si fonda sullo scambio, il secondo sulla concorrenza. Ma ambedue condividono la politica economica del laissez - faire. Sulla base di questi assunti, autori come A. Zanini ricordano che esiste una profonda eterogeneità tra questi approcci. Le teorie marginaliste e neo - marginaliste del XIX secolo, infatti, non concepivano la concorrenza come equilibrio perfetto e, di conseguenza, non potevano presupporre l’esistenza di uno stato minimo.

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e sul presupposto di un equilibrio pseudo - naturale realizzato dalla concorrenza perfetta. All’interno di questo sistema lo stato aveva una funzione minima, doveva garantire l’ordine sociale, prevenendo situazioni di concentrazione monopolistica. Il neoliberalismo del XX secolo propone, invece, il superamento dell’ingenuità naturalistica del liberalismo classico che faceva della concorrenza un meccanismo astratto che muoveva dall’alto gli istinti e gli interessi. Ora, invece, la concorrenza è considerata come un principio di formalizzazione, una logica interna al mercato che costituisce un privilegio formale. Si compone di una serie di misure artificiali predisposte per consentire al sistema della concorrenza di svilupparsi liberamente. Secondo Foucault, ciò suscita una governamentalità attiva che porta al superamento della dicotomia stato/mercato. In termini generali si può dire che l’ordine del discorso governamentale del neoliberalismo, soprattutto nella prospettiva dell’etica sociale d’impresa31, ha l’obiettivo di agire sugli effetti sociali del mercato. Dunque, lo scopo delle politiche governamentali è di intervenire direttamente sulla società (“spessore della trama sociale”). Ma se non si governa più a causa del mercato ma per il mercato si andrà incontro ad una serie di conseguenze. Innanzi tutto si deve presupporre la deregolamentazione sociale e la privatizzazione. Non è lo stato che deve occuparsi direttamente dei rischi ma è il sistema economico che, sviluppandosi e producendo benessere e ricchezza, deve mettere gli individui nella condizione di auto - assicurarsi contro i rischi che produce. Le politiche sociali, dunque, mirano a garantire la crescita economica, mentre l’assicurazione contro i rischi, le politiche previdenziali, sanitarie, pensionistiche devono essere gestite dai privati. Nella visione neoliberale la crescita economica rappresenta il perno delle politiche sociali; il privato cittadino deve raggiungere un livello di benessere economico che gli consenta di tutelarsi autonomamente dai rischi mediante la capitalizzazione. Ciò configura una presa in carico diretta dell’individuo da parte del mercato il quale diviene il principale vettore di socializzazione. Pertanto, il modello descritto dalle teorie neoliberali è quello dell’homo oeconomicus. Tale modello presenta un paradosso. L’homo oeconomicus, infatti, da una parte è imprenditore di se stesso, soggetto della libera iniziativa economica; dall’altra è oggetto del controllo delle politiche governamentali e degli apparati di securizzaNel contesto del neo - marginalismo, inoltre, il concetto di razionalità, su cui si fonda l’ottimismo economico concorrenziale, lascia il posto alla variabilità degli atteggiamenti individuali ed al concetto di razionalità limitata. Per approfondimenti si veda A Zanini, L’ordine del discorso economico. Linguaggio delle ricchezze e pratiche di governo in Michel Foucault, op. cit. 31 Per i teorici dell’etica sociale d’impresa come Sombart, Schumpeter e Weber il contesto privilegiato nel quale si sviluppano ed espandono i rapporti economici è la società. In essa, infatti, si muovono i soggetti d’interesse ed i loro molteplici rapporti economici.

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3. Genealogia oikonomica

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zione. In questa accezione egli è un individuo per eccellenza governabile. Per cercare di andare alla radice di tale paradosso Foucault torna alle origini storico - teoriche della dottrina liberale, analizzando la teoria del soggetto che emerge nel confronto tra contrattualismo ed empirismo. Nel contrattualismo l’individuo è soggetto di diritto, mentre nella teoria empirista è soggetto d’interesse. In quest’ultimo caso non vi è una dimensione collettiva cui fare riferimento come avviene, invece, nel concetto contrattualista di volontà generale; al contrario, la volontà nell’orizzonte teorico empirista fa riferimento al raggio d’azione del singolo individuo e diviene la dimensione che nel profondo ne rivela l’interesse e ne dirige l’azione. Secondo D. Hume ciò che caratterizza le scelte del soggetto d’interesse è l’assenza di condizionamenti esterni o di moventi sociali. L’interesse ha, dunque, la caratteristica di non essere ulteriormente spiegabile e non essere sottraibile all’ambito individuale. Nel contrattualismo, al contrario, la volontà è fondata su una dialettica trascendente nella quale è l’obbligazione derivante dalla cessione contrattuale che definisce la volontà collettiva; la necessità di un accordo mira all’istituzione di un sovrano trascendente. La volontà giuridica mostra, quindi, una doppia limitazione: verso il basso ad opera del soggetto di diritto e verso l’alto ad opera del sovrano. Quest’ultimo, inoltre, è trascendente ed ha un punto di vista universale, avendo un potere superiore alla somma degli individui. Differente è la condizione del soggetto d’interesse che non subisce limitazioni né interne né esterne. Il questo caso l’interesse è irriducibile alla volontà giuridica (a questo soggetto non si chiede mai di rinunciare al proprio interesse). Ma tale dinamica degli interessi non è basata su una dialettica trascendente. Essa affonda le proprie radici su un punto di vista egoistico che, solo come effetto secondario e non voluto, genera vantaggi collettivi. Il bene collettivo, dunque, non implica rinuncia all’interesse individuale ma, al contrario, si genera automaticamente da esso. Foucault cita la definizione che Condorcet diede dell’interesse individuale. Esso dipende da una molteplicità di cose testimoniando l’eccesso di mondo in cui il soggetto è immerso che produce inconsapevolmente interesse collettivo32. A questo principio risponde anche la tesi dell’invisible hand di A. Smith33, laddove ciò che è posto in primo piano non è tanto il carattere provvidenzialistico della mano, quanto la dimensione dell’invisibilità, che fa di ogni interesse privato la base inconsapevole dell’interesse pubblico. La razionalità economica sembra fondata sull’inconoscibilità globale del processo. E ciò tocca anche il sovrano, in quanto non esiste uno sguardo che dall’alto permette di dominare le relazioni economiche. 32 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 - 1979), op. cit. 33 Cfr. A. Smith, La ricchezza delle nazioni, op. cit.

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L’homo oeconomicus è la sola isola di razionalità possibile all’interno di un processo economico il cui carattere incontrollabile non contesta, ma al contrario fonda, la razionalità del comportamento atomistico dell’homo oeconomicus. Il mondo economico, insomma, è per natura opaco, non totalizzabile. È originariamente e definitivamente costituito da punti di vista la cui molteplicità è tanto più irriducibile, in quanto questa stessa molteplicità assicura spontaneamente, e alla fine, la loro convergenza. L’economia è una disciplina atea; l’economia è una disciplina senza Dio; l’economia è una disciplina senza totalità; l’economia è una disciplina che comincia a manifestare non soltanto l’inutilità, ma addirittura l’impossibilità di un punto di vista sovrano, di un punto di vista del sovrano sulla totalità dello stato che deve governare. L’economia sottrae alla forma giuridica del sovrano, che esercita la sua sovranità all’interno di uno stato, proprio ciò che sta cominciando ad apparire come l’essenziale della vita di una società, vale a dire i processi economici34.

Foucault accenna anche ad un interessante parallelismo tra Smith e Kant, sostenendo che la teoria della mano invisibile, introducendo una critica della ragione di governo, riecheggia la svolta dell’antropologia pragmatica kantiana35. Si può osservare che la tesi di Smith introduce nell’analisi delle ricchezze una nuova prospettiva ed una diversa rappresentazione del soggetto che penetrerà nelle teorie dei primi economisti politici come Ricardo e Malthus. Ciò che la teoria smithiana vuole dimostrare è che nella figura dell’individuo come in quella del sovrano esiste un interesse che rappresenta sia il limite che la condizione di possibilità dell’agire economico. Ciò che rende l’individuo finito, escludendolo da una razionalità conoscitiva globale, rappresenta anche la condizione principale che rende possibile l’agire economico. Nella prassi tecno - oikonomica si esprime il carattere finito della soggettività e l’assenza di un punto di vista superiore (figura sovrana). Per questo motivo si può associare la riflessione di Smith a quella di Kant: l’infinita finitudine dell’umano esprime la condizione antropologica del soggetto d’interesse. Tornando alle continuità ed alle differenze tra liberalismo e neoliberalismo si può osservare quanto segue: il liberalismo cerca di realizzare un precario equilibrio tra ragion di stato e governamentalità oikonomica (limitazione della ragion di stato ad opera del mercato per favorire il nesso paradossale libertà/sicurezza); il neoliberalismo proclama l’autonomia del mercato rispetto alla ragion di stato ma la governamentalità risiede in quella sfera che articola giuridico ed economico, la società civile. È questo il contesto nel quale è possibile gestire i processi economici non influenzandoli o influenzandoli solo a fini espansivi. Tale sistema sfrutta la 34 M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 - 1979), op. cit., pp. 231 - 232. 35 Cfr. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di M. Foucault, op. cit.

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3. Genealogia oikonomica

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formalità della legge e l’esistenza dello stato di diritto ma produce legittimità e consenso in una società sempre più composta da produttori/consumatori e non da cittadini. In questo caso il limite delle stato è quello di non poter conoscere la totalità del processo economico, venendo meno l’unità immediata tra conoscenza e governo tipica della ragion di stato. 2. Per quanto riguarda il neoliberalismo americano Foucault fa riferimento alla teoria di T. Schultz e G. Becker36 che parlano di capitale umano nei termini di un complesso insieme di elementi costituito da scolarità, professionalità acquisita, mobilità, affetti, sentimenti, compiti di cura, ecc. Il lavoro non è ridotto al fattore tempo o fatica; la questione fondamentale verte intorno alla seguente domanda: perché un individuo lavora? La risposta a tale quesito segue le intuizioni di I. Fischer, il quale fu il primo a vedere nel lavoro una fonte di reddito per il lavoratore e, dunque, un capitale accumulabile ed indistinguibile dal soggetto che lo possiede. Tale teoria presuppone che la vita, l’educazione, la formazione lavorativa, finanche gli affetti e le attitudini personali costituiscano un capitale accumulabile ed indissociabile dall’individuo che lo produce. Il soggetto che lo detiene assume le caratteristiche di un’impresa. Il concetto di capitale umano coincide perfettamente con quello di individuo imprenditore di se stesso. Ciò implica una pericolo36 Il termine capitale umano indica l’insieme delle spese dedicate all’istruzione, alla qualificazione professionale, alla salute, ecc che si incorporano nella persona che le mette in campo. Dunque, l’accezione di “umanità” associata al possesso di un capitale indica l’inseparabilità dell’accumulazione economica e cognitiva rispetto alla persona fisica. Becker considera gli investimenti in capitale umano come delle risposte razionali derivanti dai calcoli dei costi e dei benefici. L’istruzione e la formazione rappresentano gli investimenti più importanti in termini di capitale umano. Con ciò si fa riferimento non soltanto alla formazione scolastica ed universitaria ma anche a quella lavorativa. L’istruzione, secondo Becker, stimola trasformazioni migliorative anche in campi non monetari. Tra i vantaggi, per così dire culturali, egli include: la salute, la limitazione del fumo, la propensione a votare, il controllo delle nascite, il gradimento della musica classica, della letteratura e … del gioco del tennis! Una componente molto importante è la condizione familiare che influisce molto sulla formazione, sulle attitudini, i valori, gli atteggiamenti dei figli. Ad esempio, il livello di violenza presente in ambito familiare o sociale incide, a detta dell’autore, sull’accumulazione del capitale umano. Inoltre, esso è inversamente proporzionale al numero di figli presenti in una famiglia o al tasso di fertilità di una popolazione. Altri elementi di grande importanza sono il livello di conoscenza scientifica e tecnologica acquisita, la propensione alla mobilità geografica e lavorativa e l’attitudine adattiva in condizioni ambientali variabili o incerte. Date tali premesse, è evidente l’importanza che questioni come la salute, la cura, il “consumo” culturale hanno nella valutazione del capitale umano. Questo rischia di definire un concetto di vita “normale”, connesso al raggiungimento di determinati obiettivi e standard economici. Nel concetto di capitale umano l’accumulazione di competenze ed attitudini acquisite si intreccia biopoliticamente con un insieme di aspetti che fanno, invece, diretto riferimento al bios, cioè ai comportamenti, all’emotività, all’espressività del volto e del corpo, alle caratteristiche fisiche, estetiche o psicologiche dell’individuo. Per approfondimenti si veda G. S. Becker, Il capitale umano, op. cit.

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sa penetrazione economica in ambiti che prima erano rimasti inesplorati. Tutto un campo di condizioni interiori e caratteriali del soggetto come i sentimenti, gli affetti, i compiti di cura, persino lo stato di salute, entrano a far parte della sfera dell’interesse economico. Tutto ciò non è semplicisticamente associabile ad una crisi dello stato o alla sua ritrazione. La crisi del keynesismo e del welfare non devono essere intesi solo come il venir meno del potere di regolazione e controllo dello stato ma anche come processi di riorganizzazione e ristrutturazione delle tecniche di governo,ora attribuite alla libera iniziativa individuale. Inoltre, più che parlare di soggetto d’interesse, oggi si fa riferimento alla forma imprenditoriale che fa dell’individuo un homo oeconomicus. Uno dei tratti principali di questo individuo imprenditore di se stesso è la capacità di auto - governarsi: la responsabilità che deve esercitare nei confronti della società è prima di tutto di natura economica. Ciò nonostante non si può più parlare in termini marxisti di individuo sottomesso alle logiche di sfruttamento economico del capitale. I rapporti di produzione, infatti, non rappresentano, in questo caso, la struttura cui si sovrappone una sovrastruttura sociale. L’homo oeconomicus deve essere inteso come soggetto fautore del proprio assoggettamento ed individuo che demoltiplica gli effetti microfisici di potere. Egli è soggetto attivo di molteplici processi di soggettivazione e di oggettivazione generati dal mercato. Ma deve essere chiaro che questi processi (soggettivazione/oggettivazione) non sono distinti e separati; essi coincidono nello statuto paradossale dell’homo oeconomicus e nel discorso di potere biopolitico - oikonomico della società civile. Tale paradosso dipende dal fatto che tanto più inconoscibile, responsabile e libero è il soggetto d’interesse tanto più risulta governabile. Tutto ciò porta a fare di ogni condotta umana l’oggetto dell’analisi economica. L’economia diviene la scienza che studia la sistematicità delle risposte in condizioni di razionalità limitata e variabilità ambientale. L’homo oeconomicus, dunque, non è dotato di una razionalità totale, egli agisce in un contesto sociale di cui non conosce fino in fondo i meccanismi e che in parte gli rimane sconosciuto. È questa dimensione che fa sì che la teoria del capitale umano possa integrare nel discorso di verità oikonomico tutta una serie di tecniche comportamentali che mirano a controllare e gestire processi di soggettivazione e di socializzazione.

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4. BIOECONOMIA

4.1. Introduzione

L’orizzonte oikonomico del governo delle vite presenta un’attualità evidente nei moderni riti consumistici della “religione laica” di mercato con il culto dell’uomo imprenditore di se stesso, consumatore insaziabile, lavoratore flessibile, individuo sedotto dalle logiche multiformi del desiderio. La condizione antropologica dell’homo oikonomicus, come già aveva intuito Foucault cinquant’anni fa, può essere riassunta in un discorso di verità che fa della vita e del lavoro gli indicatori epistemologici della modernità. Ho lungamente discusso le influenze incrociate esistenti tra le diverse scienze che hanno promosso, nel corso del XVIII e del XIX secolo, la convergenza tematica e semantica tra i campi epistemologici dell’economia e della biologia. La tematica dell’equilibrio omeostatico del sistema/ambiente di vita; la struttura organicistica che unì, a partire dalla seconda metà del Settecento, vita e lavoro; il richiamo costante dell’antropologia filosofica alla semantica della necessità, della carenza organica, del bisogno: questi aspetti costituirono le direttrici fondamentali di una convergenza tra biologia ed economia politica e l’origine di una visione epistemologica che assunse la medesima definizione di “natura umana” come perno. In essa si gioca il conflitto tra libertà e schiavitù, tra autonomia ed eteronomia, tra volere e dovere, conflitti insolubili nell’uomo che sprofondano la condizione umana in un profondo paradosso. Vita e lavoro costituiscono i termini medi di quest’antropologia intrinsecamente ed originariamente paradossale. Essi, infatti, riportano continuamente in luce il paradosso dell’umano e lo articolano in infiniti piani di immanenza. Nelle

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Infinitamente finiti

parole di Foucault, infatti, vita e lavoro rappresentano i nuovi soggetti/oggetti di un sapere empirico sempre più esteso, molteplice. Come detto, si tratta di un sapere che fa dell’uomo sia il soggetto che l’oggetto conoscitivo di se stesso. L’uomo, dunque, è vita ed è lavoro ma lo è nelle forme infinitamente finite che lo trasformano in uno strano allotropo empirico - trascendentale1. Fin qui l’analisi archeologica di Foucault. Ma – ci si potrebbe chiedere alla luce di quanto detto finora – che cosa ne è dell’uomo, del sapere che lo plasma, della conoscenza che ne struttura possibilità e limiti d’esistenza in una società come quella odierna, nella quale le dinamiche desideranti sembrano moltiplicarsi, estendersi, travalicare qualsiasi limite ma, nello stesso tempo, perdere il proprio “oggetto”, atrofizzandosi? Che ne è degli insolubili dualismi che danno vita alla condizione paradossale dell’uomo (autonomia/eteronomia, libertà/necessità, volontà/dovere)? La mia impressione è che la risposta vada ricercata nel paradigma gestionale - oikonomico che fa del governo del vivente il proprio campo molteplice e microfisico di iscrizione. Ma ciò investe la natura desiderante dell’anthropos umano. Perché è proprio nello scacco del desiderio che va ricercata la radice della biopolitica oikonomica, che fa presa sul vivente proprio in quanto corpo biologico e corpo al lavoro. In altre parole, si potrebbe dire che ciò che fa della natura umana un soggetto/oggetto di valore oikonomico è il proprio essere potenza desiderante priva d’oggetto, nella doppia articolazione di pura potenza biologica ed organica, vitale e lavorativa. Ciò segna il trionfo di un certo paradigma oikonomico: la “riconduzione a casa” è sia un movimento di appropriazione che tende a ‘portare dentro’ che una dinamica di espropriazione. È, dunque, da una parte inclusiva, dall’altra esclusiva. È una logica oikonomica a destrutturare il confine tra pubblico e privato, tra società e stato, tra vita e lavoro. Ed è, ancora, una logica oikonomica a scavare tra la dimensione cognitiva e quella organica dell’uomo un profondo solco. Vorrei specificare questi ultimi due punti. Come già aveva intuito Arendt negli anni Sessanta, la dinamica oikonomica che promuove un riavvicinamento della vita al lavoro tende a trasformare la condizione dell’uomo in una dimensione animale o macchinica, asservendolo al mondo che lo circonda. Questo è il pericolo che si annida nella trasformazione dell’homo tecnologicus in animal laborans2. Il lavoro, inteso come puro dispendio di energie fisiche, trasforma il lavoratore in automa, sottomettendolo al bisogno che ne fa uno schiavo, annullando la facoltà tipicamente umana di poter scegliere, di poter svincolare la propria natura dalla necessità. Dunque, la semantica che avvicina epistemologia organica ed economica può condurre al pericolo di trasformare l’uomo in animale, asservendolo 1 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, op. cit. 2 Cfr. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, op. cit.

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4. Bioeconomia

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non soltanto al lavoro ma anche al consumo. Caratteristica dell’animale è, infatti, quella di dissipare il mondo, di agire in termini non conservativi, soggiacendo alla necessità ed al bisogno. Come sostiene G. Anders, conservare il mondo significa prendere in cura ciò che ci circonda e l’uomo stesso, cercando di preservare la libertà, tratto distintivo dell’umanità3. Al contrario, aderire al puro bisogno significa affidare l’esistenza alla contingenza, sottomettersi alla natura, trasformare la vita in mera sopravvivenza. E, dunque, essere costretti per necessità ad aderire immediatamente al puro dato naturale, annullarsi nell’attimo. L’animale è colui che vive, infatti, in un eterno presente. Passato e futuro sono dimensioni temporali tipicamente umane, sono spazi d’esistenza della libertà. Dunque, il discorso di verità della biopolitica moderna non sembra fare un gran regalo all’umanità dell’uomo definendo il lavoro e la vita come orizzonti puramente organico - biologici. E ciò a maggior ragione nel momento in cui il confine tra lavoro e vita diventa una dimensione dai contorni non nitidi. Ma a questo livello del ragionamento non è possibile sostenere la tesi della modernità oikonomica di tale condizione antropologico - epistemica. Il termine biopolitica non serve a marcare una discontinuità con il passato. Foucault non ha mai parlato di una “progressione” né, tanto meno, di un’ “evoluzione” delle forme di potere ma di processi e meccanismi multiformi che i metodi archeologico e genealogico hanno contribuito a portare alla luce. In questo presupposto metodologico e teorico è racchiusa la chiave di lettura del percorso foucaultiano, in grado di rendere conto della differenza pur nella continuità. Lavoro e vita, dunque, rappresentano il confine tra animalità ed umanità dell’uomo. Le scienze umane riattualizzano questo presupposto ed inseriscono l’orizzonte vitale e lavorativo nel novero dei saperi che fanno emergere nell’uomo il paradosso di un’empiricità infinitamente estendibile, scomponibile, plasmabile, moltiplicabile, utilizzabile a fini oikonomici. Per comprendere l’ulteriore trasformazione che le moderne forme di capitalismo, così come i saperi tecno - scientifici, hanno contribuito a realizzare nella condizione antropologica dell’uomo è indispensabile assumere il paradigma oikonomico - gestionale come filo conduttore per provare a spiegare (aprire le pieghe) le continuità e le discontinuità tra rappresentazioni antropologiche ed apparati/dispositivi epistemologici4. L’homo oikonomicus rappresenta una chiave di lettura della biopolitica contemporanea. In questa figura si incrociano, infatti, i molteplici fili biopolitici che consentono di fare luce sulla natura sia coercitiva che seduttiva del potere economico moderno e sulle complesse dinamiche che unificano/separano le 3 Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, op. cit. 4 Cfr. G. Deleuze, Foucault, op. cit.

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sfere della vita e del lavoro. Non si tratta semplicemente del prevalere di logiche utilitaristiche o pervasivamente razionalistiche. L’iperestensione dei consumi, l’immaterialità, il valore fondamentale attribuito all’aspetto cognitivo del lavoro non tracciano solo lo scenario di un esasperato razionalismo. L’odierna civiltà dei consumi, la società del lavoro flessibile e del capitale cognitivo fanno emergere una paradossale coesistenza di razionalismo ed irrazionalismo, di immaterialità (l’immagine, il logo, le competenze relazionali) e materialismo, di esistenze abbandonate alla nudità organica o esaltate, sedotte, valorizzate da condotte e stili di vita esasperatamente edonisti.

La de - materializzazione della società dell’immagine si accompagna ad un’iper - valorizzazione del vivente inteso come corpo organico o come soggetto/oggetto di desideri microfisici e, spesso, irrappresentabili, di bisogni primari non ulteriormente comprimibili (come quelli alimentari, sessuali, ecc.). Si diffonde, cioè, tutta una semantica del corpo che, proprio in ragione dell’abolizione di limiti e confini, promuove un’immagine erotizzata, animalizzata, reificata dell’uomo, ridotto a fascio di necessità fisiologico/fisiche. Si tratta di un corpo che sfida sempre i propri limiti o che si annulla nella bulimia della società del consumo, dello spettacolo, del divertimento. La logica del consumo sfida anche la possibilità di cogliere la paradossale condizione di questa materialità de - materializzata o smateriazzata, soffocando la propria ricerca di senso nei sogni di plastica e silicone, in corpi perfezionati, uniformati, normalizzati. In questo contesto è evidente, dunque, che la tematica bio - economica sconfina in quella bio - tecno - scientifica che naturalmente non riguarda soltanto il campo dell’estetica dei corpi. Il medesimo oggetto che le guida è il sogno di perfezionamento che è alla base dell’economia dell’immateriale come dei progetti post - umanisti delle tecnoscienze moderne, dell’ingegneria genetica, delle nanotecnologie, della bionica, dell’intelligenza artificiale, della cibernetica5.

5 La bioeconomia moderna, così come la biopolitica tecnoscientifica, costituiscono altrettanti tentativi di fornire una risposta ad una condizione antropologica che lascia intravedere sempre più la propria costitutiva finitudine e che sembra sempre meno esprimibile e trasfigurabile in termini simbolici e sociali. Carenza originaria è il nome che l’antropologia filosofica ha dato al paradosso dell’umano e vita, lavoro e linguaggio sono le tre empiricità sulla base delle quali un’altra costruzione antropologica è stata annunciata dopo aver “messo a morte” Dio. È chiaro, infatti, come sottolinea Nietzsche, che Dio è caduto per mano dell’uomo nel momento in cui la forma - Uomo è emersa nel sapere empirico ed ha deciso di edificare una nuova religione, religione dei consumi, religione dell’uomo o – in un futuro non troppo prossimo – del post - uomo. L’homo oikonomicus rappresenta il limite, di volta in volta dilatabile o restringibile, di questo orizzonte di sapere che si fonda sul presupposto della finitudine umana e che fa del vivente un corpo bio - organico che lavora.

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La convergenza di vita e lavoro, dunque, appare evidente negli sviluppi della bioeconomia contemporanea, soprattutto nel momento in cui le attività lavorative si fanno sempre più complesse, molteplici, sfaccettate, slegate dal tradizionale assetto taylorista/fordista. Quando si parla di lavoro flessibile, ad esempio, si fa riferimento proprio al paradosso precedentemente accennato: l’indistinguibilità di vita e lavoro, tempo libero e tempo lavorativo. Il sapere delle scienze umane fa dell’uomo/lavoratore un confine aperto, un terreno bonificato e disponibile ad essere conquistato, controllato, sedotto, utilizzato da una logica capitalistica che ambisce sempre più a darsi un volto “umano”, amichevole, persino solidale nei confronti delle esigenze che travalicano il campo della produzione e del consumo. Ma il paradosso sta proprio in questo: a fronte di un capitalismo che assume sempre il più il “volto umano”, l’uomo si trasforma in un corpo docile che trasferisce al mercato, al consumo, all’impresa, alle esigenze pressanti dell’accumulazione e della formazione permanente il proprio orizzonte vitale. Ciò significa che in questa dialettica vita/lavoro è l’esistenza complessiva del lavoratore che è impiegata e coinvolta nelle dinamiche multiformi del capitale. Ma anche questa problematica non è nuova, già Marx ci aveva riflettuto. Tuttavia ciò che la critica marxista tradizionale difficilmente riesce a cogliere in questi meccanismi è la volontarietà della sottomissione e dell’asservimento o l’assenza vera e propria di una coscienza della propria condizione esistenziale, prima ancora che lavorativa. È l’assenza di un racconto condiviso e di una percezione chiara di continuità o di coerenza delle singole storie di vita che si scalfisce o che viene meno nella flessibilizzazione e precarizzazione delle prestazioni lavorative. Dunque, non è solo una questione di asservimento del corpo alla macchina (alienazione); anzi, si potrebbe persino dire che spesso è l’invisibilità dei fattori coercitivi esterni o di un inquadramento organizzativo e professionale stabile che destruttura l’identità dei corpi al lavoro. È necessario, soprattutto, sottolineare che la condizione antropologica di intere generazioni è sussunta e diretta da questa logica immateriale e multiforme. Come sostiene R. Sennett, è proprio dalla perdita di senso e dalla destrutturazione identitaria soggettiva o collettiva che bisogna ripartire nell’analisi di tali meccanismi6. Certamente è necessario anche cogliere le peculiarità di questa “immaterialità” che tutto pervade e che, come abbiamo visto, trasforma le eccedenze in materialità priva di valore. Nelle dinamiche immateriali, astrutturali, relazionali dell’economia moderna gli indicatori del valore sono, infatti, dati dall’aspetto cognitivo, ideativo, immaginativo racchiuso nel prodotto. I marchi, i loghi, gli slogan pubblicitari legano i beni di consumo ad una determinata idea che spesso il consumatore è direttamente chiamato a diffondere ed a valorizzare 6 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, op. cit.

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con le proprie abitudini ed esperienze vitali, con il corpo, con l’ostentazione di desideri e piaceri. Da ciò consegue che i beni materiali perdono importanza nella logica della valorizzazione del contenuto immateriale del prodotto. Ciò che acquistiamo invogliati dalla pubblicità, dalle immagini, dagli slogan è un’idea che racchiude determinati stili di vita, visioni del mondo, orientamenti personali e sociali. La valorizzazione infinita del capitale può avvenire soltanto se alla materialità del prodotto è attribuita una funzione secondaria, una pura utilità strumentale all’accumulazione quantitativa che deve pur sempre continuare a determinarsi. Al contrario, il marchio, il logo, il contenuto simbolico che il bene racchiude sono soggetti ad infinite valorizzazioni e consentono di includere in un medesimo abbraccio consumistico esistenze individuali, materialità delle merci e desideri più o meno indotti. Si tratta, tuttavia, di una valenza simbolica priva del proprio retroterra comune, non radicata in una tradizione, in un senso comune, in una comunione di intenti o di progetti7. Il consumo capitalistico è un rito collettivo privo di radici, nutrito di significati sociali ed individuali mutevoli ed adattabili alle esigenze del mercato globale. Il brand presenta una configurazione segnico/simbolica multiforme nella quale la materialità dei corpi, delle identità, delle cose è profondamente influenzata dall’immaterialità dell’idea che riassume e surclassa il valore d’uso della merce. Il contenuto simbolico della componente immateriale dei beni di consumo – i marchi – rappresenta un’astrazione universalizzabile e modificabile, proprio per questo estendibile all’infinito. Masse anonime di consumatori legati da un desiderio uniformante. È l’ennesimo paradosso del capitalismo moderno: il massimo di materialità coesiste con il massimo di immaterialità. L’homo oikonomicus moderno è un nodo indistinguibile e sostituibile di una rete anonima di consumatori/produttori (o prosumers!). Ma non bisogna pensare che tale dinamica si arresti al consumo di massa. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta il modello taylorista/fordista, fondato sul consumo di massa e sull’economia di scala comincia ad essere sostituito dal modello toyotista, che prevede una differenziazione degli stili di consumo, una produzione flessibile, una distribuzione in filiere rapide, un’organizzazione del lavoro incentrata sulle dinamiche di gruppo, sulla valorizzazione delle competenze relazionali e sull’uso di tecnologie innovative soprattutto in campo informatico. Ciò va, inoltre, di pari passo con forme di decentramento produttivo e delocalizzazione che separano l’impresa madre, specializzata in politiche di marketing e di 7 Il simbolo deve essere inteso come unione enantiodromica, come ciò che mette insieme realtà in origine differenti tra loro come individuo e società, dimensione cognitiva e dimensione organica, ecc. Lo spazio simbolico, inoltre, ha sempre rappresentato il contesto dell’agire umano nel quale la violenza poteva essere trasfigurata, trasformata in ordine e quest’ultimo continuamente ribaltato e messo in discussione.

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comunicazione, dalle filiere delle imprese sub - fornitrici che realizzano materialmente i beni e forniscono i servizi. Questo tipo di organizzazione comporta una nuova concezione della produzione e del consumo. I consumi di massa lasciano, infatti, il posto ai modelli che promuovono la differenziazione del prodotto, poiché, in fondo, le grandi multinazionali si accorgono che l’iper - estensione del consumo ha finito per saturare i mercati di massa e la produzione ha dovuto indirizzarsi verso la ricerca di beni – ma soprattutto di stili di vita e di consumo – differenti, più vicini alle esigenze diversificate dei nuovi produttori/consumatori flessibili. Dunque, l’individualizzazione si adatta meglio alle necessità del capitalismo moderno in quanto consente di promuovere una valorizzazione calibrata, personalizzata, flessibile del contenuto immateriale della merce, garantendosi una moltiplicazione pressoché infinita. La merce finisce, così, per colmare il vuoto identitario e di senso che la precarizzazione dei percorsi vitali e lavorativi spesso comporta. Se non sai più dipanare i molteplici percorsi della tua esistenza e delle tue sfaccettate identità sociali e personali, potrai trovare nella merce, in ciò che essa racchiude e promette, il senso di cui è priva la tua vita, il riscatto sociale che non puoi ottenere nel mondo del lavoro, il riconoscimento identitario che fatichi a trovare nell’altro! Questo è lo slogan pubblicitario di un capitalismo sempre più immateriale. Ma un’ulteriore conseguenza è che tu individuo devi essere coinvolto non solo passivamente (in quanto corpo al lavoro) ma attivamente in questa dinamica moltiplicativa. Le tue emozioni, i tuoi sentimenti, le tue competenze, le tue capacità relazionali devono essere “investite” affinché le merci che produci e che acquisterai siano più possibile simili a te. Un capitalismo dal “volto umano” emerge da una fisionomia inespressiva, quella umana8. Un altro aspetto che emerge in questo quadro è l’estensione della logica del rischio. Si può parlare, oggi, di una società del rischio diffuso9 nella quale è il singolo con il corpo e con l’esperienza lavorativa e biografica a diventare terreno di sperimentazione e di “innovazione”. Già economisti come Schumpeter, nei primi decenni del Novecento, collegarono il concetto di innovazione con quello di rischio10. 8 Nella logica del capitalismo immateriale è racchiuso, contemporaneamente, il sogno del super uomo e l’incubo del sub - uomo. Moltiplicando e rendendo infinitamente contingente l’esistenza umana, l’immaterialità del capitale annulla i confini tra queste due dimensioni, trasformando la necessità in “virtù”. Questa condizione è già racchiusa nell’atto di consumo con cui il superfluo diviene necessario. Ciò significa che la sfera della necessità, lo spazio divorante del consumo, si estende a tutto, anche a ciò che prima aveva una materialità, una consistenza, una storia. Come sostiene H. Arendt, si tratta di un mondo che piano piano si annulla, si restringe, si perde con l’umanità dell’uomo. 9 Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, op. cit. 10 Per approfondimenti si veda J. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, trad. it di L. Berti, Sansoni, Firenze, 1977.

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L’innovazione, tipica dell’etica di impresa del capitalismo avanzato e di una classe sociale imprenditoriale (gli imprenditori), configura un agire economico orientato alla gestione del rischio. Un’impresa, infatti, è un’organizzazione che può far fronte a livelli sempre crescenti di rischio, mettendo in moto una spirale virtuosa di trasformazioni economiche. Il problema del moderno capitalismo dell’immateriale, che fa dell’esistenza stessa del singolo il proprio campo d’azione, è che l’individuo è chiamato in prima persona a diventare un’impresa, a trasformarsi, cioè, in imprenditore di se stesso. Inevitabilmente ciò conduce il singolo a dover far fronte a gradi molto elevati di rischio e di indeterminazione. Nell’esperienza individuale questa condizione è vissuta nei termini di una maggiore responsabilizzazione dell’agire economico e lavorativo e di una minore responsabilità politica e sociale. Il rischio si riversa sull’intera esperienza personale, familiare, lavorativa del soggetto nei termini di un’accresciuta precarizzazione dell’esistenza. Tutto ciò, inoltre, è andato di pari passo con la progressiva destrutturazione delle politiche pubbliche nel settore dell’assistenza, della previdenza, della sanità e dei servizi alla persona. La crisi del welfare state e delle politiche keynesiane, che per decenni hanno fornito un supporto al modello economico-lavorativo incentrato sulla grande impresa fordista, può essere interpretata sia come la causa che, in un certo senso, come la conseguenza della diffusione di modelli di organizzazione economica che richiedono agli agenti quote sempre più estese di partecipazione al rischio. Naturalmente la propensione al rischio diviene sempre più diffusa man mano che i processi di finanziarizzazione invadono ambiti precedentemente coperti dalle tutele statali e welfaristiche. Oggi, ad esempio, la finanziarizzazione investe il settore delle pensioni, della previdenza sociale, delle assicurazioni; i singoli cittadini decidono di abbandonare i propri progetti futuri ed affidare i risparmi di una vita agli umori variabili dei mercati finanziari. Ma, come accennato, la precarizzazione e l’estensione della logica del rischio non è solo una conseguenza del venir meno del sostegno fornito ai singoli, ai lavoratori ed alle famiglie dallo Stato e dalla copertura welfaristica; la società del rischio non è solo conseguenza ma anche causa dei processi di privatizzazione o finanziarizzazione dei servizi sociali. Molti autori sottolineano che il modello capitalistico che fa riferimento ai tre imperativi della precarizzazione, della privatizzazione e della liberalizzazione può essere ricondotto alla dottrina neoliberale diffusa dalla scuola di Chicago ed estesa, a partire dagli anni Settanta, in tutto il mondo. La peculiarità di questo modello capitalistico è di sfruttare o produrre livelli crescenti di incertezza e di rischio, nei casi più estremi, anche sfruttando situazioni emergenziali, congiunturali o indotte. Questo modello economico, che è stato definito da N. Klein “ca-

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pitalismo dei disastri”11, sfrutta e riproduce stati di incertezza e di rischio o vere e proprie “crisi” politiche, sociali e militari per favorire lo smantellamento dello stato sociale e garantire l’avvicendamento tra modelli economico/politici differenti. La politica della terra bruciata ha fatto di una determinata etica neoliberista il sapere che ha supportato, se non favorito, l’ascesa ed il consolidamento di regimi dittatoriali o autoritari (come, ad esempio, il regime di A. Pinochet in Cile). Esiste, dunque, un legame abbastanza stretto tra pratiche emergenziali/securitarie e modelli economici neoliberali fondati sull’etica del rischio diffuso. Nello spazio dell’emergenza le tradizionali garanzie legali vengono meno o passano in secondo piano e possono essere più facilmente implementate forme di controllo o politiche oikonomico - gestionali12. È questo il contesto nel quale il governo dei viventi, le condotte economiche, i processi di soggettivazione/oggettivazione assumono specifiche valenze bio - mediche e bio - tecnologiche divenendo biopolitica dispiegata. 4.2. Capitalismo cognitivo

Nel sistema capitalistico moderno sembrano coesistere differenti modelli di produzione. Accanto al modello taylor/fordista è emerso e si è consolidato il discorso di verità della knowledge economy. L’economia della conoscenza ha il proprio perno nella valorizzazione del capitale cosiddetto “immateriale”, definito anche come “capitale umano”, “capitale conoscenza” o “capitale intelligenza”. Gli studiosi che si sono occupati di analizzare tale complessa ed interessante compresenza/transizione tra modelli economici hanno sottolineato la non assoluta novità di questi concetti. Una definizione approssimativa di capitale cognitivo è già presente in alcuni passi dei Grundrisse nei quali la conoscenza è collegata all’attività relazionale/ cerebrale dell’uomo. Nel linguaggio marxiano il general intellect, inteso come “sapere sociale generale”, è quella parte della conoscenza diffusa socialmente e trasferita, attraverso il corpo del lavoratore, nella macchina. Quest’ultima rappresenta il capitale fisso nel quale confluiscono le componenti di valore-lavoro e valore-conoscenza sociale del lavoro alienato. La natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi meccanici, ecc. Questi sono prodotti dell’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà dell’uomo sulla natura o del suo operare 11 Cfr. N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, trad. it. di I. Katerinov, Bur, Milano, 2007. 12 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Potere sovrano e la nuda vita, op. cit.

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in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza materializzata del sapere. Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale grado il sapere sociale generale, la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale, e rimodellate in accordo con essa. In quale misura le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, bensì come organi immediati della pratica sociale; del processo reale della vita13. Marx mostra, dunque, che il general intellect è l’esito di un sistema di produzione nel quale il plusvalore generato dalla forza lavoro umana si trasferisce al capitale fisso macchinico, trasformando il sapere sociale generale nell’attore fondamentale del processo di produzione. Ciò in quanto il carattere cooperativo dell’attività lavorativa trasforma la capacità tecnica in mezzo di lavoro e questo, paradossalmente, nel principale “vettore” di una sussunzione totale del lavoratore. In tal modo si determina la trasformazione di tutto il tempo di vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro dedicato alla valorizzazione del capitale. La critica marxiana, dunque, appare molto prossima ad una definizione del general intellect come una forma astratta e socialmente determinata di capitale che oggi potremmo definire cognitivo. Di grande impatto è anche l’accenno che compare in alcuni passi delle opere di Marx alla drammatica sottomissione che non solo il corpo ma l’intera esistenza del lavoratore subisce, in primo luogo, a causa dell’espropriazione di quel sapere condiviso o “sapere sociale generale” che si incorpora nell’agire tecnico dell’uomo. Come detto nel primo capitolo, Marx aveva già previsto che le logiche ed i metodi del capitalismo dispiegato non avrebbero soltanto comportato l’alienazione del lavoratore dal frutto del proprio lavoro e la trasformazione del suo corpo in un’appendice della macchina; avrebbero determinato un’integrale espropriazione del sapere sociale (saperi socialmente condivisi, cultura del saper fare diffusa) o una deprivazione di mondo con trasferimento del plusvalore lavorativo dal lavoratore alla macchina. Per Marx, infatti, il general intellect si cristallizza nel capitale fisso ed il sapere espropriato al lavoratore nelle macchine e nei mezzi di produzione capitalistici. Nel capitalismo cognitivo, tuttavia, si verifica una progressiva sparizione della materialità sia delle merci che dei mezzi di produzione con relativa eliminazione della differenza tra capitale fisso e capitale variabile. Gli studiosi di biocapitalismo sono pressoché concordi nell’affermare che nella forza lavoro flessibile, precarizzata, reticolare della knowledge economy moderna la componente di capitale fisso 13 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1976, pp. 718 - 719.

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si salda con quella di capitale variabile. L’intera esistenza, infatti, risulta investita da questo fenomeno di lenta ma significativa convergenza. La vita del lavoratore è, dunque, intesa non soltanto come forza di produzione ma anche come mezzo di produzione. Se i confini tra capitale fisso e capitale variabile sfumano significa che è l’assommarsi di queste due componenti nel corpo del lavoratore che definisce la natura della conoscenza. Si può anche dire che è la conoscenza, il general intellect, che si produce, si esprime e si moltiplica mediante i corpi e le vite messe al lavoro. Il carattere immateriale di questo tipo di capitale cognitivo fondato sulla conoscenza è, dunque, allo stesso tempo, deprivazione di sapere e cristallizzazione di informazione riproducibile. Mettendo l’esistenza del lavoratore al proprio servizio l’economia immateriale si auto - produce sulla base di una dinamica che fa coincidere il ciclo di vita del capitale cognitivo con il ciclo di vita del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, essendo il risultato dell’assommarsi di capitale fisso e capitale variabile, è anche l’individuo che auto - producendosi, cioè operando su se stesso, formandosi come lavoratore (soggetto sociale, consumatore - produttore) alimenta il ciclo della conoscenza su cui si fonda e prospera la logica capitalistica della bioeconomia moderna. In quest’ottica l’individuo diviene, pertanto, lavoratore flessibile (corpo organico infinitamente disponibile, sfruttabile, ricattabile), “risorsa umana” (soggetto in continuo stato di formazione, aggiornamento, qualificazione professionale/lavorativa) o anonimo “nodo” di una rete informazionale e comunicativa che depriva, pur intensificando quantitativamente, le risorse del “comune”. Vorrei, per il momento, mettere da parte la problematica dei corpi al lavoro per approfondire le caratteristiche che fanno del capitale una dimensione sempre più immateriale e cognitiva. Ciò deriva, come ho già più volte accennato, dalla crescente smaterializzazione della produzione o, per lo meno, della “produzione che conta” in un’economia di mercato. La maggior parte degli interpreti considerano la componente immateriale del prodotto (logo, marchio) come l’aspetto emergente della modernità bioeconomica. Se il modello economico fordista poneva il nucleo del processo di valorizzazione nella materialità della merce, il modello post - fordista considera di secondaria importanza i beni ed i prodotti nella loro consistenza materiale e nella loro solidità, concentrandosi sul valore cognitivo, simbolico, astratto veicolato dall’idea che la merce porta con sé. Ciò, naturalmente, non significa che venga meno o sia in via di esaurimento la produzione materiale; essa è semplicemente de - valorizzata, relegata alle fasi meno importanti ed economicamente remunerative del ciclo di produzione e vendita. Infatti, la fabbricazione vera e propria delle merci è, nella maggior parte dei casi, una fase che le imprese madri, le grandi multinazionali, delegano ad imprese sub - fornitrici che, a loro volta, attuano strategie internazionali di delocalizzazione al

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fine di abbattere i costi di produzione. La logica che guida questo modello economico consiste nell’esclusiva centralizzazione presso le imprese madri delle fasi di ideazione e progettazione del marchio e nella gestione dei flussi comunicativo/ relazionali (es. marketing pubblicitario). Invece, le fasi della commercializzazione e vendita sono affidate a ditte sub - appaltatrici e delocalizzate. In questo contesto è difficile interpretare le trasformazioni che avvengono sul piano della produzione capitalistica immateriale nei termini della distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio della merce. Nella valorizzazione quasi esclusiva riservata alla componente immateriale del prodotto è difficile distinguere le caratteristiche qualitative che fanno di una merce un oggetto materiale più o meno utile. Naturalmente non è vero che l’utilità non è più commisurata alle necessità vitali dell’uomo o, come ritenevano Ricardo e Malthus, alla capacità di garantire la riproduzione della forza lavoro. A partire dalla seconda metà del Novecento, nei paesi che hanno imboccato il modello capitalistico postfordista, si ritiene, con infondato ottimismo, che si sia definitivamente abbandonata un’economia di sussistenza per abbracciare un’economia dell’abbondanza. Il presupposto più immediato di tale speranza è che ci si sia svincolati da un’idea di utilità definita da livelli minimi di sussistenza. Ma questa logica non ci emancipa dal criterio dell’utile, al contrario, lo esaspera. Oggi ogni bene è considerato non solo estremamente utile ma quasi vitale per la sopravvivenza. È come se la soglia di necessità fosse stata spostata sempre più in là sulla strada dei bisogni indotti, includendo, di volta in volta, beni e servizi che precedentemente non erano considerati fondamentali o di primaria importanza. Ma tale iper - estensione ed iper - stimolazione dei meccanismi desideranti è caratterizzata da una contrazione del valore d’uso della merce o dell’importanza che quest’ultima ha per il consumatore. Le qualità del prodotto sono prese in considerazione non tanto per la capacità di soddisfare un bisogno ma per il valore cristallizzato che portano con sé. In altre parole, se la qualità di un bene continua ad avere un valore, ciò dipende dal contenuto immateriale che esso veicola, non tanto dalle caratteristiche materiali. Anche su questo punto è possibile delineare delle differenze tra modello fordista e postfordista. La società di massa (fordismo) saziava la propria bulimia di accrescimento infinito moltiplicando quantitativamente i prodotti immessi sul mercato e gli stimoli al consumo. In un’economia postfordista, invece, la quantità della produzione di massa lascia il posto alla qualità nella valutazione del valore immateriale del prodotto, in quanto la merce assume sempre più caratteristiche differenziali rispetto a specifici stili di vita ed atteggiamenti di consumo. Si può schematicamente dire che, se nell’economia fordista l’identità veicolata dal prodotto funzionava nei termini dell’uniformazione di stili vita e di consumo, nel

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modello postfordista il consumo o il possesso di un determinato prodotto deve produrre identità differenziate, deve promuovere l’unicità di chi lo possiede. Il valore simbolico incluso nel marchio comprende, solo in seconda battuta ed in maniera riflessa, la qualità materiale del prodotto. Ciò che crea valorizzazione qualitativa è pur sempre l’idea che si associa alle caratteristiche del prodotto in termini di innovatività, di specificità, di espressività. Dunque, la qualità legata al valore d’uso della merce si modifica assumendo significati che prescindono, quasi totalmente, dalla materialità del prodotto. Allo stesso tempo, il valore di scambio della merce, a causa dello svincolamento dalla materialità, è difficilmente quantificabile e valutabile. Se, infatti, la scambiabilità dei beni si fonda su una misura comune che, nell’economia classica, era quantificata nell’unità di tempo lavorativo inclusa nel prodotto, nel contesto dell’economia cognitiva è la conoscenza (ed il valore che ne deriva) che diviene unità di misura dei beni. Ma essa è difficilmente quantificabile in unità di tempo essendo, inoltre, quasi del tutto irricavabile dal lavoro materiale di produzione. Dunque, ciò che emerge come valore di scambio dell’immaterialità dei prodotti è la dimensione sociale, il retroterra comune nel quale si genera il valore - conoscenza. Se agli albori del capitalismo il valore d’uso della merce veniva trasformato interamente in valore di scambio e, dunque, era privato della qualità materiale e del sapere in esso socialmente cristallizzato, il capitalismo dispiegato nella sua dimensione immateriale subordina anche la scambiabilità della merce ad un criterio di valorizzazione relazionale, difficilmente quantificabile e capitalizzabile. E questo, detto per inciso, potrebbe costituire anche un limite intrinseco di questa forma capitalistica, in quanto, come sostengono autori come Gorz e Fumagalli, l’economia dell’immateriale ha in sé il suo stesso limite e potrebbe cadere vittima di contraddizioni interne. Anche su questo argomento rimando ai paragrafi successivi. Per ora vorrei sottolineare, tornando al paradigma marxiano, come il modello D - M - D’ si trasformi in D - M (K) - D’, dove K rappresenta il fattore conoscenza che, associandosi alla merce, ne definisce il valore immateriale. Dunque, anche D’ è in realtà D’(K). Il denaro come equivalente generale porta alla sparizione della merce (D - D’) ma genera – è questa l’ultima frontiera del capitalismo cognitivo – anche la virtualizzazione di se stesso nei circuiti della finanza internazionale. Basti pensare al mercato dei derivati che crea valore economico sul come se del denaro, sulla virtualità della speculazione borsistica. In questo quadro è, allora, chiaro che i concetti di valore d’uso e di valore di scambio sfumano e divengono indistinguibili, confondendosi nelle dinamiche che pongono il ciclo di vita della conoscenza al centro dei meccanismi di valorizzazione del capitale. L’espressione ciclo di vita non è usata a caso con riferimento alla conoscenza. Una

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delle ipotesi che guida la presente riflessione si focalizza sulla considerazione che la dimensione conoscitivo/relazionale sia schematizzabile con le stesse categorie bio - organiche che connotano i cicli di vita degli individui. Con ciò si chiarisce l’assunto esposto all’inizio della presente trattazione: la semantica della vita si congiunge e si confonde con quella del lavoro e - aggiungerebbe Foucault - con quella del linguaggio, generando un nuovo regime di verità e nuovi dispositivi di potere. Ho definito tali dispositivi nei termini del paradigma gestionale oikonomico evidenziando come questo si sviluppi nelle dottrine neoliberali moderne. Ma questo percorso oikonomico può anche essere discusso alla luce dell’emergenza di un modello capitalistico che presenta sia continuità che discontinuità rispetto al passato: il capitalismo dell’immateriale. Esso si basa su un modello bio - organico scandito dall’idea di un equilibrio non armonico né perfetto e dalla necessità di adattamenti ed interventi continui dall’esterno. È caratterizzato, dunque, da principi di regolazione imperfetti che generano esclusioni e producono “esternalità”. Diventando la base di una produzione di valore fondata sull’innovazione, sulla comunicazione e sull’improvvisazione continua, il lavoro immateriale tende in definitiva a confondersi con un lavoro di produzione di sé. Gli operatori dell’economia di rete sono gli attori di un’organizzazione in via di autorganizzazione incessante. Il loro prodotto non è una cosa tangibile ma, innanzi tutto, l’interattività che alimenta l’attività di ciascuno. Ciascuno deve prodursi come attività, per dar vita ad un processo risultante dal lavoro di tutti e che supera la somma delle attività individuali14. Ritengo che il ciclo di vita del capitalismo cognitivo, cioè lo spazio/tempo nel quale nasce, si sviluppa, si moltiplica e si estingue il valore - conoscenza tenda ad assumere la conformazione del ciclo di vita biologico di un organismo, inteso sia in senso individuale che collettivo. Ognuno di noi, appena nasce, è inserito in una cultura ed in un contesto sociale nel quale sono veicolate, attraverso processi di socializzazione ed individualizzazione, determinate forme di sapere che, emergendo da un retroterra comune, si evolvono sulla base dell’esperienza vitale del singolo, della storia particolare che ognuno di noi porta con sé. Si tratta, dunque, di un retroterra di saperi condivisi e socialmente riconosciuti che entrano a far parte dell’esperienza di vita di un soggetto il quale, nel tempo, aggiunge, in forme e modalità diverse, apporti personali alla base sociale acquisita. Il sapere che si coagula nel ciclo di vita individuale può derivare da differenti fattori educativi, familiari, personali, lavorativi, relazionali, ecc. Anche per questo il sapere, a differenza del lavoro sociale generale di Marx, non è riducibile a quantità di lavoro 14 A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, trad. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 15.

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astratto, coprendo una grande varietà di capacità eterogenee, prive di una misura comune, tra le quali possiamo citare la capacità di giudizio, l’intuizione, il senso estetico, il livello di formazione, la quantità di informazioni formalizzabili e trasmettibili, la facoltà di apprendimento e di adattamento, la mobilità, la capacità di reazione ad eventi imprevisti, l’abilità nello svolgere attività eterogenee, ecc. Proprio tale eterogeneità, che è spesso riassunta sotto il termine “risorse umane”, rende non misurabile il valore della forza lavoro e quello delle merci. Le risorse umane, infatti, si articolano essenzialmente su ciò che nell’economia classica cade al di fuori del valore di scambio (non ha valore economico). Faccio riferimento, ad esempio, alle risorse naturali, ai beni comuni, al patrimonio paesaggistico/culturale che sono appropriabili e riproducibili solo se delimitati o circoscritti da barriere artificiali che ne riservano l’esclusivo godimento a chi detiene un diritto di accesso e di sfruttamento su di essi. Come sottolinea Gorz, la privatizzazione dei criteri d’accesso è la forma privilegiata di capitalizzazione delle ricchezze immateriali, compresa la conoscenza ed il sapere del corpo. Per comprendere questo punto è necessario distinguere differenti tipi di conoscenza che operano per mezzo dei soggetti, seguendone i cicli biologici. Gorz distingue tra sapere e conoscenza codificata. Il sapere indica soprattutto un saper fare, una capacità pratica legata alla corporeità che sfugge alla possibilità di formalizzazione. Si tratta di una serie di competenze che non si insegnano ma si apprendono nella pratica, all’interno di determinati contesti culturali e sociali. Esse, inoltre, circolano facendo appello alla capacità del soggetto di produrre se stesso, generando una competenza tacita e radicata che contribuisce alla definizione della soggettività. Ma tali saperi non sono confinati al soggetto; essi scaturiscono dall’interazione sociale. È nel contesto culturale che le nuove conoscenze si integrano con il sapere comune e circolano attraverso i soggetti. Al contrario, maggiore è il livello di codificazione e formalizzazione delle conoscenze, minore è la possibilità che una cultura si arricchisca e venga liberamente incorporata dai singoli individui o divenga parte dell’esperienza personale di questi. Nel corso del XX secolo un numero crescente di saperi comuni sono stati trasformati in conoscenze codificate e professionalizzate, limitate nei diritti di accesso e di godimento e sottoposte ad un regime di profitto economico. La professionalizzazione ha squalificato le pratiche ed i saperi comuni riducendo fortemente il contenuto simbolico - relazionale che queste portavano con sé. Tuttavia, tale tipo di formalizzazione non riesce a ridurre la totalità dei saperi comuni a conoscenze formalizzate: esiste sempre un “resto” difficilmente formalizzabile in quanto incarnato nella vita, nel saper fare, nell’esperienza esistenziale del soggetto. La codificazione di una conoscenza può avvenire sempre e solo ponendo una barriera d’accesso ed un criterio di oggettivazione, cioè delle metodologie o delle pratiche

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che trasformino la conoscenza tacita in un sapere quantificabile economicamente. Ciò avviene, soprattutto, con la conversione della conoscenza tacita in atti auto evidenti, cioè in azioni che la rendono evidente esplicandola in codici e linguaggi. Ma la codificazione di tali atti implica necessariamente, secondo Gorz, il trasferimento di una serie di attitudini incorporate nel sapere da cui scaturiscono, in primo luogo, dinamiche soggettivanti, orientamenti, stili di vita, tecnologie del sé. Ciò significa, però, che il saper fare personale, il vissuto soggettivo, le dinamiche identitarie che l’individuo mette in campo nelle attività relazionali e comunicative sono, in un certo senso, espropriate e trasformate in atti quantificabili, suscettibili di produrre valore economico. Tutto ciò induce Gorz a ricordare che: I saperi comuni attivati dal lavoro immateriale esistono solo nella e per la pratica vivente. Essi non sono stati acquisiti o prodotti in vista della loro messa a lavoro o della loro messa in valore. Non possono essere staccati dagli individui sociali che li praticano, né valutati in termini di equivalente monetario, né comprati o venduti. Essi risultano dall’esperienza comune della vita in società e non possono essere legittimamente assimilati a capitale fisso15. A tal proposito C. Marazzi propone di parlare di un nuovo capitale fisso per indicare tutte quelle componenti cognitive, vitali, relazionali che, originariamente inappropriabili, sono trasformate in risorse capitalizzabili nel corso del processo di produzione. Tale capitale è costituito dall’insieme dei rapporti sociali e dalle modalità di produzione ed acquisizione delle informazioni che, sedimentate nella forza lavoro, si trasformano in capitale umano o relazionale, sfruttabile e codificabile. Tale capitale - conoscenza, inizialmente inappropriabile, può essere economicamente valorizzato e monopolizzato con la creazione di barriere artificiali d’accesso che ne limitano l’appropriazione, la fruizione, la circolazione. Si tratta, come ha mostrato E. Rullani16, di un’operazione economica volta a creare una condizione permanente di scarsità della risorsa - conoscenza che deriva dalla capacità di qualsiasi “potere” di limitarne temporaneamente la diffusione e di regolamentarne l’accesso. L’autore delinea una differenza tra il concetto di scarsità naturale, che rappresenta il limite di sfruttabilità economica e di circolazione delle risorse naturali scarse o non rinnovabili, e la scarsità artificiale, indotta e deliberatamente creata per mezzo di limitazioni normative ed istituzionali che regolano l’accesso alla conoscenza, tramite strumenti come i brevetti, i diritti d’autore, le licenze, i contratti, ecc. Tuttavia, prosegue l’autore, tali limitazioni riescono a frenare solo temporaneamente l’imitazione, la reinvenzione o l’apprendistato da parte di potenziali nuovi produttori. La scarsità è quel che dà valore alla conoscenza ma deve essere continuamente riprodotta e ricostituita. E ciò 15 A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, op. cit., p. 29. 16 Cfr. E. Rullani, Le capitalisme cognitif: du déjà vu?, in “Multitudes”, n.2, Maggio 2000.

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soprattutto perché si parla di risorse cognitive e relazionali. Come ricorda Gorz, anche nella fase di progettazione e di invenzione che precede la realizzazione del prodotto, esse non si comportano come delle merci qualsiasi. Le fasi iniziali della progettazione, della ricerca, della produzione cognitiva, infatti, sono coperte da restrizioni molto ferree all’accesso e sottoposte ad un regime di monopolio. Al contrario, il valore-conoscenza una volta applicato al prodotto materiale genera una fase di libera circolazione, agevolata dalla riproducibilità, tendenzialmente poco costosa e quantitativamente illimitata, della merce. Dunque, la conoscenza contenuta nella merce come attività cognitivo - relazionale di ideazione, progettazione, ricerca è sottoposta alle restrizioni artificialmente prodotte dal sistema dei brevetti, delle licenze e dei contratti. La merce che scaturisce da una simile produzione immateriale, invece, è materialmente riproducibile e deve avere la massima capacità di circolazione e codificazione. Si comprende immediatamente che il valore attribuito a questi due tipi di conoscenza non ha lo stesso peso nella knowledge economy. La conoscenza indispensabile nella fase di ideazione del prodotto è considerata preziosa, protetta e valorizzata proprio attraverso un atto di restrizione giuridica. In poche parole, è una risorsa resa scarsa non soltanto nella fase di appropriazione ma nelle fasi precedenti di formazione ed apprendimento. Il sistema economico che si fonda sulla valorizzazione delle risorse immateriali può operare solo se riesce a creare dei collegamenti e dei mutui scambi con le istituzioni scolastiche ed educative. È il singolo soggetto che deve coltivare i propri saperi e crearsi un bagaglio di conoscenze specifiche che potrà sfruttare come delle vere e proprie risorse umane nel contesto lavorativo. Ma è il modello economico a capitalismo cognitivo che stimola e promuove la privatizzazione, la limitazione, la selezione dei percorsi di formazione e di apprendimento, pilotando e gestendo la creazione di competenze funzionali alla propria riproduzione in forma limitata. È necessario che le competenze indispensabili alla valorizzazione capitalistica rimangano in qualche modo limitate rispetto alla circolazione ad all’accesso e che, al contrario, le conoscenze formalizzate/codificate, abbiano un’ampia diffusione. Questa è la seconda tipologia di conoscenza che consente la riproduzione ed il trasferimento rapido di valore cognitivo già solidificato nella merce. Tale conoscenza standardizzata, a basso contenuto conoscitivo ma ad alta velocità di diffusione, inoltre, deve essere continuamente riaggiornata con l’organizzazione di corsi di formazione o percorsi professionalizzanti. Gorz individua due saperi che, non a caso, sfruttano questo genere di modulazione della conoscenza: quello informatico e quello medico/farmaceutico. Le analogie tra i due contesti sono evidenti. Infatti, ponendo in discussione l’assunto della privatizzazione e monopolizzazione del capitale immateriale conoscenza

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e la moltiplicazione e circolazione delle risorse informazionali codificate, si può effettuare il confronto tra il ciclo produttivo di un medicinale (ad esempio una compressa) e quello di un software. In ambedue i casi gli investimenti economicamente più consistenti sono riservati alla progettazione ed alla ricerca che consente di produrre conoscenze innovative (brevetti), imponendo copyright sulle scoperte tecnoscientifiche. Una volta incorporato il valore immateriale nella merce può iniziare la fase di moltiplicazione e diffusione del prodotto, riproducibile in base alla codificazione ed alla standardizzazione dei linguaggi informatici o all’impiego di tecnologie che garantiscono una veloce ed economica circolazione. Dunque, l’industria farmaceutica, come quella informatica, impiegano il capitale investendo sulla formazione, la ricerca, la progettazione, l’ideazione del prodotto e del marchio. In un secondo momento il software o la compressa medicinale possono essere riprodotte e commercializzate a costi ridotti grazie a nuove tecnologie e linguaggi di codificazione. Gorz parla del primo esempio di applicazione di questo modello di produzione nel 1880 presso la Bayer. L’industriale C. Duisberg inserì la produzione cognitiva nella divisione gerarchica del lavoro di fabbrica taylorista, sottomettendo l’industria chimica alla stessa parcellizzazione delle mansioni presente in altri settori produttivi (separazione lavoro manuale/lavoro intellettuale). Ma in tale contesto le conoscenze non erano prodotte come le altre merci; il loro valore di scambio era imprevedibile per via dei rischi della ricerca e dell’impossibilità di misurare il livello di conoscenza per unità di prodotto. Nell’industria di Duisberg le compresse di una medicina potevano essere fabbricate in quantità illimitate e ad un costo unitario marginale che tendeva a diminuire progressivamente. Tali osservazioni sono estendibili ad ogni merce la cui materialità ha un costo marginale che tende ad essere minimo e che, pertanto, funge da vettore di diffusione del valore immateriale in essa contenuto. Anche Fumagalli introduce una tassonomia sulla base di tre gradi o livelli diversi di conoscenza. Egli parla di informazione, cioè produzione di dati formalizzati e strutturati in modo tale da essere facilmente duplicati; di sapere, ossia possibilità di produrre apprendimento in termini operativi (sapere fare) e di competenze specifiche (saperi specialistici); di conoscenza sistemica, ovvero comprensione a livello sistemico in grado di dare vita a nuove conoscenze. Secondo l’autore vi è un’interdipendenza funzionale tra questi tre livelli: la conoscenza sistemica si pone ad un livello superiore generando una capacità d’astrazione che contribuisce alla formazione di vere e proprie visioni del mondo non codificabili. Essa può essere intesa anche come conoscenza tacita, cioè incorporata nei processi di apprendimento personali e sociali, non separabili da chi li possiede. Il sapere, invece, si pone all’interno della conoscenza sistematica come forma più specia-

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lizzata, a metà tra apprendimento operativo ed apprendimento mimetico, che nasce da un tipo di imitazione ed interazione che genera condotte individuali e sociali. L’informazione si pone ad un livello differente, esprimendo quella componente cognitiva che è incentrata esclusivamente sull’aspetto formalizzante e modificativo della conoscenza e del linguaggio. Secondo questa tipologia la conoscenza ingloba il sapere e questo l’informazione. La distinzione tra sapere ed informazione richiama la dialettica evidenziata da Gorz ma appare più chiara non solo perché mette in evidenza il contenuto cognitivo comune che unifica sapere ed informazione ma anche perché sottolinea la differenza tra le due polarità. Tale modello, inoltre, delinea una correlazione inversa tra livelli di profondità e livelli di diffusione della conoscenza. Ciò significa che più la conoscenza è approfondita, minore è la sua velocità di diffusione. L’informazione è la modalità di conoscenza meno elaborata e con una maggiore capacità di diffusione in quanto è messa in circolazione con il semplice accesso alle tecnologie informatiche. Ne deriva che il digital divide, ovvero la distribuzione digitale asimmetrica tra le aree del mondo, rappresenta la prima forma di divisione internazionale del lavoro e della produzione nei modelli a capitalismo cognitivo. Ad un secondo livello si pone il sapere che può essere sottoposto a processi di codificazione pur necessitando di livelli di formazione e di specializzazione molto intensi. Infine, la conoscenza sistematica o tacita che è caratterizzata da un livello di profondità massima, che va a scapito della sua velocità di circolazione e di codificazione. La diffusione della conoscenza sistematica può avvenire solo tramite la relazione diretta. Tale tipo di conoscenza è, allo stesso tempo, personale e sociale in quanto è caratterizzata da un grado molto elevato di socialità. Ma, a parere di Fumagalli, la distinzione che rileva maggiormente è quella tra conoscenza tacita e conoscenza codificata. Come abbiamo detto, per conoscenza tacita si intende quel tipo di conoscenza che non può essere scorporata da chi la possiede, rappresentando un insieme di saperi che sono connessi con la vita degli individui. Per questo motivo essa è definita anche come bioconoscenza, essendo inscindibile dall’esperienza vitale soggettiva. La conoscenza tacita per definizione non può essere espropriata ed, in quanto non codificabile, è anche difficilmente trasmissibile. Fumagalli sottolinea che il primo livello di divisione cognitiva del lavoro si concentra sul grado di tacitness contenuto nella risorsa conoscenza appropriata. La conoscenza tacita funziona in questo caso come una risorsa scarsa, in quanto ha un minor grado di circolazione e rappresenta il contenuto cognitivo che per eccellenza è difficilmente accumulabile e richiede delle abilità, delle competenze ed un saper fare generale, radicato nel vissuto individuale e collettivo. La complessa questione della regolamentazione dei brevetti, dei contratti, dei copyright non deve essere sottovalutata. Fumagal-

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li, Rullani, Gorz ed altri autori, parlando della creazione di monopoli sul sapere tacito, non intendono criticare le forme di protezione e tutela del diritto d’autore e delle “produzioni” intellettuali e scientifiche. Richiamando la distinzione di Schumpeter tra invenzione (perenne tensione umana alla scoperta che prescinde dalle condizioni produttive esistenti) ed innovazione (utilizzo dell’invenzione per fini meramente produttivi o speculativi), Fumagalli sottolinea che: siamo così di fronte ad uno dei paradossi dell’attuale capitalismo. Se nell’epoca del capitalismo industriale la separazione tra invenzione e innovazione poteva giustificare l’esistenza di un diritto di proprietà intellettuale per l’inventore o l’organizzazione che generava l’invenzione, oggi, nel capitalismo cognitivo, la natura della conoscenza come bene comune, non appropriabile a livello individuale, al centro del processo produttivo ed accumulativo, rende strategicamente rilevante la questione della proprietà intellettuale come nuova forma di proprietà privata per eccellenza17.

La conoscenza non è scarsa, è “resa” scarsa nel momento in cui l’innovazione intellettuale e cognitiva del lavoratore è subordinata alla logica capitalistica di produzione ed è volta all’esclusiva creazione di pluslavoro cognitivo. E ciò soprattutto perché, parlando di conoscenza tacita, si fa riferimento a tutti quei saperi e quelle forme generali di conoscenza che non possono essere piegate o ricondotte originariamente al flusso codificato dell’informazione ed alla semplificazione dei linguaggi e delle dinamiche relazioni di cui si nutre la valorizzazione del capitale immateriale. Si tratta di un sapere che per sua essenza ricade al di fuori della logica dello sfruttamento e della valorizzazione economica, non essendo divisibile o scorporabile dal soggetto che ne è portatore e dalla sua esperienza di vita. Ciò significa che la bioconoscenza è una forma di sapere che investe l’esistenza del lavoratore e che è indivisibile da esso. Si comprende, dunque, che ogni operazione economica volta alla trasformazione del contenuto vitale della conoscenza tacita in uno strumento di valorizzazione economica è da intendersi, dal punto di vista di chi ne è portatore, come un’espropriazione individuale e sociale, e, dal punto di vista di chi se ne appropria, come un’acquisizione proprietaria. L’imposizione di diritti di proprietà su tali saperi implica, in altre parole, una spoliazione individuale e sociale. E ciò in quanto la conoscenza tacita è prima di tutto sociale e ha come sua principale caratteristica la possibilità di circolare attraverso i saperi, i corpi, le persone, le esperienze di vita. Ha un carattere di socialità che difficilmente può adattarsi al progressivo tentativo di privatizzarne l’accesso ed il godimento e di limitarne la diffusione, trasformandola in sapere tecnico e specialistico. Queste due tipologie (conoscenza tacita e codificata), inoltre, possono essere 17 A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma dell’accumulazione, Carocci, Roma, 2009, pp. 68 - 69.

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utilizzate per definire il ciclo di vita della conoscenza. Allo stadio iniziale, infatti, la conoscenza è circoscritta ed incorporata nella mente di chi ne è portatore e la sua circolazione dipende dal grado di mobilità del soggetto. Nello stadio successivo, se appare sfruttabile dal sistema di accumulazione capitalistico, essa tende ad essere codificata, fin quando, nel terzo stadio, è sostituita da altre competenze essendo considerata obsoleta. Ma proprio in questa necessità continua di circolazione e di trasformazione sta il limite dell’appropriazione capitalistica nei confronti delle risorse cognitive, come la conoscenza tacita ed i saperi condivisi. Essi sono, per eccellenza, refrattari ad essere privatizzati in quanto necessitano di un continuo processo di significazione da parte dei soggetti e devono circolare attraverso i corpi e le menti. Non costituiscono risorse produttive che possono essere stabilmente acquisite e monopolizzate, pena l’obsolescenza e la stagnazione dei saperi. Dunque, si tratta, come sostiene Gorz, di ricchezze fuori misura, cioè risorse umane che non possono essere espresse in un valore di scambio e non possono essere sottoposte ad un regime di proprietà, essendo per loro essenza socialmente valorizzate. La dimensione paradossale del capitalismo cognitivo è, dunque, visibile nell’inconciliabilità tra valore di scambio e ricchezza fuori misura. Questo aspetto manifesta le proprie contraddizioni nell’utilizzo del termine esternalità per definire – per l’appunto – ciò che sfugge al processo di valorizzazione capitalistica o è difficilmente appropriabile. Si tratta dei saperi sociali condivisi, delle conoscenze tacite che riguardano il saper fare del corpo, le competenze personali non monetizzabili, le risorse ambientali, il lavoro riproduttivo, le componenti genetiche ed organiche (codice genetico, organi, tessuti, ecc.), il patrimonio culturale e paesaggistico, i beni comuni (acqua, cibo, aria). Tutte queste possono essere considerate forze produttive di valore non monetario (ricchezze non quantificabili) e non mezzi di produzione che generano plusvalore economico. Il termine esternalità mette in luce il limite interno e la contraddizione insita nel capitalismo cognitivo. Infatti, si tratta di un termine che, essendo stato coniato proprio all’interno della semantica capitalistica, racchiude il senso dell’appropriazione di una serie di ricchezze, saperi e linguaggi che precedentemente ricadevano al di fuori dell’interesse economico e di profitto. Ma, al contempo, l’appropriazione linguistico - semantica non consente di mascherare la contraddizione che la definizione di esternalità porta con sé. Si tratta di un concetto limite nel quale un determinato significato esprime, allo stesso tempo, la possibilità e l’impossibilità di un’appropriazione integrale di tutto ciò che sfugge al discorso di verità economico. Esternalità è il nome che la knowledge economy dà a quei saperi, competenze, rapporti ai quali non è estendibile una sussunzione totale. Questo limite è esplicato da Gorz in tal modo:

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La distinzione tra “forza produttiva” e “mezzo di produzione”, tra “ricchezza” e “valore” appare dunque essenziale in quanto segna i limiti della ragione strumentale e fonda la critica interna del capitalismo cognitivo come del capitalismo industriale. Come la cultura, la saggezza, i saperi taciti, le capacità artistiche, relazionali, cooperative, ecc., la conoscenza è ricchezza e fonte di ricchezza senza essere né avere un valore di mercato, monetario. Essa è – come le altre capacità umane – una forza produttiva senza essere solo questo e senza essere necessariamente un mezzo di produzione. Essa fa parte, come le altre capacità umane, come la salute, la vita e la natura – la quale pure è una forza produttiva senza essere solo questo – di quelle ricchezze “esterne” o di quelle “esternalità” che sono indispensabili al sistema di produzione di merci ma che questo è incapace di produrre secondo la sua logica ed i sui propri metodi18.

Queste affermazioni, tuttavia, non possono indurci all’ottimismo. Appare sempre più evidente che l’estensione dell’interesse economico, soprattutto negli ultimi anni, spinge il limite di appropriazione e sfruttamento sempre più in là, cercando di inglobare anche risorse considerate precedentemente inappropriabili come le risorse naturali, i beni comuni, il patrimonio genetico, ecc. Inoltre, come sottolinea efficacemente N. Klein19, la logica capitalistica di mercato non soltanto si appropria di tutto ciò che è comune ma tende a trasformare le situazioni emergenziali o le catastrofi naturali in uno strumento di espansione. Il capitalismo dei disastri (o economia della terra bruciata) sfrutta i momenti di crisi, siano essi catastrofi naturali o stati d’eccezione provocati o indotti, per fare piazza pulita di tutto ciò che rappresenta le garanzie legali, giuridiche, ambientali contro lo sfruttamento di determinate risorse. La condizione di eccezionalità, dunque, è utilizzata come pretesto per abbattere o restringere le barriere poste allo sfruttamento economico delle cosiddette esternalità umane ed ambientali. Ho introdotto, per ora solo genericamente, il concetto di capitalismo dei disastri associandolo al problema dell’estensione del dominio bioeconomico su ciò che non ha valore di mercato in quanto vorrei mostrare che parlare, come fa Gorz, di un limite intrinseco al capitalismo cognitivo appare forse un po’ ingenuo. L’autore, infatti, giustifica la tesi della contraddittorietà interna del capitalismo cognitivo, parlando dell’esaurimento della materialità e del valore di scambio delle merci a favore di un’economia dell’immateriale che divora valori monetari per inseguire il sogno di un controllo estensivo delle esternalità cognitive e bio-organiche. Questa premessa conduce l’autore a sostenere ottimisticamente il punto di vista della contraddizione e del limite interno, spingendolo, addirittura, a sostenere che il capitalismo cognitivo provoca la crisi del capitalismo tout court. Gorz, infatti, tornando alla tesi che fa delle risorse cognitive un 18 A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, op. cit., pp. 55 -56. 19 Cfr. N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, op. cit.

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nuovo tipo di capitale fisso, attribuisce al monopolio della conoscenza una contraddizione rivoluzionaria: La conoscenza, separata da ogni prodotto nel quale è stata, è o sarà incorporata, può esercitare in sé e di per se stessa un’azione produttiva sotto forma di software. Essa può organizzare e gestire le operazioni complesse tra un gran numero di attori e di variabili; concepire e guidare delle macchine, degli impianti e dei sistemi di produzioni flessibili, in breve svolgere il ruolo di un capitale fisso sostituendo lavoro immagazzinato a lavoro vivo, materiale o immateriale. Poiché il costo marginale del software è molto basso o addirittura trascurabile, essa può economizzare una quantità di lavoro molto maggiore di quella che è costata, e questo in proporzioni gigantesche, inimmaginabili ancora poco tempo fa. Il che significa che se essa è, certamente, fonte di valore, distrugge immensamente più valore di quel che serve a creare. In altri termini, la conoscenza economizza quantità immense di lavoro sociale remunerato e di conseguenza diminuisce o addirittura annulla il valore di scambio monetario di un numero crescente di prodotti e di servizi. […] L’economia dell’abbondanza tende di per sé verso un’economia della gratuità e verso forme di produzione, di cooperazione, di scambi e di consumo fondate sulla reciprocità e la messa in comune, nonché su nuove monete. Il capitalismo cognitivo è la crisi del capitalismo tout court20.

Ritengo che la critica di Gorz, seppur fondata sul condivisibile assunto che distingue ricchezza fuori misura e valore di scambio o forza produttiva non economica e mezzi di produzione economici, non tiene in considerazione l’eterogenea ed infinita possibilità di estensione del limite che si frappone tra valori economici ed esternalità appropriabili. Come ho mostrato introducendo il concetto di capitalismo dei disastri, il limite tra queste due sfere non è fisso; il concetto stesso di esternalità ha in sé una contraddizione che può far pendere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra. L’idea che la conoscenza divori la materialità del lavoro e dei beni e trascini con sé il valore di scambio, decretandone l’impossibilità di misurazione, non pone al riparo le esternalità dalle potenzialità di estensione e di sfruttamento della logica capitalistica di mercato. Prova ne è lo sfruttamento economico di tutte quelle risorse che fino a cinquant’anni fa erano sottratte alle logiche di capitalizzazione produttiva o di privatizzazione. Il problema discende dalla difficoltà di valutazione dell’estensione dello sfruttamento economico in tali contesti, soprattutto nel momento in cui gli interventi sono inquadrati non alla luce delle normali garanzie istituzionali, politiche e legislative ma in una situazione di emergenza resa permanente o prolungata. La condizione emergenziale, infatti, consente di giustificare l’indisturbata espansione delle mire economiche su contesti non economici, come le vite umane e l’ambiente. Soprattutto consente l’accettazione di forme estreme di priva20 A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, op. cit., pp. 33 - 34.

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Infinitamente finiti

tizzazione e monopoli su beni comuni e risorse precedentemente considerate accessibili a tutti. Dunque, tornando a Gorz, la valutazione dell’impatto, senza dubbio eversivo, delle risorse cognitive sul sistema di produzione capitalistico deve essere considerato non soltanto in relazione alle politiche del lavoro e della produzione. Una caratteristica che distingue il capitalismo cognitivo dai precedenti modelli economici è la pervasività e l’estensione microfisica. Il capitalismo cognitivo si sviluppa attraverso i corpi, monopolizzando le ricchezze comuni ed inserendosi nei processi di soggettivazione ma anche invertendo la relazione tra norma ed eccezione, prosperando in una condizione di prolungata ed indefinita sospensione degli ordinamenti normali e delle garanzie istituzionali e legislative. Esso tende ad accrescersi in una condizione di sospensione della legge, non di assenza della legge. Si tratta di un equilibrio imperfetto e pseudo - naturale proprio in quanto tende a ricadere al di fuori del diritto e della legge nella sfera indeterminata della norma. Vorrei aprire una breve parentesi che riguarda l’aderenza di questo paradigma alla logica oikonomico - gestionale cui ho fatto riferimento in precedenza. Ritengo che il concetto di oikonomia si possa interpretare in relazione a quanto detto a proposito della pervasività del capitalismo cognitivo rispetto alle risorse non economiche ed alle esternalità, nonché riguardo tutto ciò che abbatte, a fini di profitto, lo spazio del “comune”, confondendo la sfera pubblica con quella privata. In altre parole, è oikonomico il tentativo di estendere la logica del profitto verso le “regioni” vitali dell’esistenza, dell’ambiente, delle risorse, dei saperi comuni, ecc., cancellando di fatto la differenza tra pubblico e privato, tra sfera domestica e sfera economica. Ma il termine domestico va inteso in senso ampio, indicando tutto ciò che è incluso nella sfera del proprio, dell’individuale, del corporeo, del privato. Tutto ciò che impone un regime di governo e controllo tipico della sfera del “proprio” è per sua essenza oikonomico. Ma l’economia politica classica - come abbiamo visto seguendo i testi foucaultiani - si sviluppa proprio a partire da tale attitudine gestionale/governamentale. Esiste, pertanto, un parallelismo tra il paradigma oikonomico e quello capitalistico che abolisce di fatto il confine tra quanto è appropriabile e quanto non è sottoponibile a sfruttamento economico. La conoscenza è la prima dimensione in cui si produce tale assottigliamento del confine.

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4. Bioeconomia

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4.3. L’accesso come limite e come risorsa

Il problema del radicamento dell’economia immateriale in ogni aspetto della vita umana può essere analizzato da differenti punti di vista. Da una parte vi sono autori come J. Rifkin21 che interpreta la “volatilità” della new economy come l’origine di un modello economico che trasforma la proprietà in accesso. L’era dell’accesso è, per l’autore, quella nella quale la proprietà perde gradualmente importanza e l’immaterialità dei servizi sopravanza la materialità dei beni. Ma il passaggio dalla proprietà all’accesso e dalle strutture gerarchiche a quelle reticolari implica anche una trasformazione del rapporto venditore compratore in un rapporto client - server. Per Rifkin l’accesso disarticola i rapporti di mercato in quanto ciò che è venduto è un diritto temporaneo di sfruttamento. Se il diritto di proprietà implica l’istituzione di un rapporto a lungo termine tra compratore e venditore (rapporto che non soltanto dura l’arco di tempo solitamente stabilito nel contratto di cessione ma struttura una relazione duratura tra l’impresa che cede e quella che richiede l’accesso) l’economia dell’accesso ha l’obiettivo primario di creare network in cui ogni singolo utente è considerato come un “impresa” che contratta il proprio diritto di accesso con i “fornitori”. In questo caso la relazione d’accesso è intesa come un limite rispetto alla proprietà e mira alla fidelizzazione dell’individuo - consumatore. Questo è uno degli aspetti che consentono di parlare dell’economia dell’accesso come una della forme attraverso le quali la knowledge economy riesce a penetrare in maniera sempre più invasiva nel corpo, nelle abitudini, nell’esistenza dell’individuo. Un secondo punto di vista, che fa capo alle recenti riflessioni sui beni comuni ed i diritti fondamentali della persona, si riferisce, al contrario, all’accesso come una risorsa per rivendicare la riappropriazione di ciò che è “comune” contro lo strapotere del “proprio”. In questa seconda accezione, autori come U. Mattei e S. Rodotà, pongono il problema dell’accesso come possibilità di superare il regime patrimonialistico e proprietario da cui discende la logica del capitalismo dispiegato, anche nelle sue più recenti configurazioni immateriali e cognitive. L’immaterialità dei rapporti di produzione bioeconomici, infatti, non modifica il presupposto individualista che attribuisce alla proprietà ed ai soggetti di diritto privato il potere di appropriazione rispetto a beni originariamente indisponibili ed appartenenti alla comunità. Questo punto di vista non evidenzia semplicemente un ribaltamento delle prerogative illecite di privatizzazione sui beni comuni in diritti comuni di accesso alle risorse fondamentali. Propone anche di guardare al comune come una terza dimensione differente rispetto al pubblico 21 Cfr. J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, trad. it. di p. Canton, Mondadori, Milano, 2009.

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ed al privato22. I beni comuni, a partire dalle enclosures inglesi dei secoli XVIII XIX, hanno rappresentato il terreno di conquista e di arricchimento delle classi dirigenti capitalistiche che hanno agito trasformando la libertà di accesso da criterio inclusivo a processo di esclusione e marginalizzazione sociale. Secondo Rodotà, si tratta di una terza dimensione che scardina la geometria piana del diritto proprietario e che si concretizza nell’esigenza di garantire il soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze delle persone23. L’accesso può consentire di godere dell’utilità di un bene senza assumere diritti di proprietà sullo stesso. In questo caso l’accesso diviene strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene. Secondo Rodotà, con la categoria di accesso si superano persino le distinzioni esistenti tra proprietà e gestione e tra proprietà formale e sostanziale. Usando la vecchia terminologia si potrebbe dire che si passa da una proprietà «esclusiva» ad una «inclusiva». Più correttamente questa situazione può essere descritta come riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti ed interessi diversi. Il discorso sull’esclusione viene tramutato così in quello sull’accessibilità24.

Questa “nuova razionalità” è esemplificata anche dalla controversa categoria di funzione sociale che, nata come insieme di vincoli e di limiti all’esercizio dei diritti proprietari, è venuta ad identificare il potere di una molteplicità di soggetti di partecipare alle decisioni riguardanti i beni comuni. Essa ha contribuito, dunque, a sviluppare un modello partecipativo. La categoria di beni comuni, inoltre, inaugura un nuovo interesse pubblico per la concretezza dei bisogni che si oppone all’astrazione del riferimento proprietario. Si modifica il rapporto tra mondo delle persone e mondo dei beni che è inteso, in questa prospettiva, come rapporto diretto, non sottoponibile alla mediazione della proprietà. È evidente che queste due concezioni teoriche esemplificano differenti punti di vista sull’economia dell’accesso, considerando quest’ultima, da una parte, come un limite e, dall’altra, come una risorsa fondamentale per la riappropriazione dei beni comuni. Ritengo che tale dicotomia vada sfumata in quanto, se è vero che l’accesso è certamente il criterio fondamentale in grado di ricostruire 22 Si fa riferimento soprattutto al punto di vista di U. Mattei. Per approfondimenti si veda U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma - Bari, 2011. 23 Ad un primo sguardo anche la Costituzione italiana afferma all’art. 42 che la «proprietà è pubblica o privata». Ma all’art.43 si afferma che possono essere affidate «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio che abbiano carattere di preminente interesse generale». Inoltre all’art. 42 si specifica che la proprietà deve essere resa «accessibile a tutti» e deve avere una «funzione sociale». 24 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma - Bari, 2012, p. 109.

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4. Bioeconomia

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i rapporti economici su basi di equità sociale (rappresentando un fondamentale criterio di riappropriazione del comune) è anche evidente che il riferimento astratto ai diritti di proprietà come causa delle derive economiciste rischia di semplificare lo scenario variegato dei complessi rapporti bioeconomici. Comune ad ambedue gli approcci è il presupposto che oggi si assista alla diffusione di un’economia cognitiva ed immateriale che destruttura la staticità e la solidità dei rapporti di produzione, rimuovendo anche l’evidenza dell’assoggettamento e degli effetti alienanti sui corpi e sulle vite. Certamente, in tale scenario il regime patrimonialista/proprietario non può essere considerato né qualcosa di superato, come sembra suggerire riduttivamente Rifkin, né ciò che giustifica isolatamente il mantenimento di una forma post - moderna di lotta di classe. Il problema, a mio avviso, va posto nei seguenti termini: il criterio dell’accesso, benché rappresenti una risorsa fondamentale alla riappropriazione dei beni comuni e delle risorse indisponibili, risulta oggi utilizzato per riprodurre quello stesso potere bioeconomico assoggettante che mira a rimuovere. Ciò significa, come abbiamo visto parlando di microfisica, che la bioeconomia circola attraverso i corpi ed i processi di soggettivazione, trasformando le tecnologie politiche “liberogene” in altrettanti punti di attacco dei dispositivi di potere capitalistici. Ciò, naturalmente, rende la resistenza a questo tipo di potere un compito arduo ma non per questo destinato all’insuccesso. L’accesso può davvero essere un criterio a partire dal quale promuovere una democratica riappropriazione dei beni e delle risorse comuni, imponendo dei vincoli allo sfruttamento economico e rimuovendo, al contrario, le barriere alla partecipazione ed alla fruizione di ciò che è originariamente “comune”. Approfondirò questo importante argomento nell’ultimo capitolo. Per ora vorrei tornare sulle contraddizioni generate dalla bioeconomia contemporanea, soprattutto per quanto riguarda i diritti di accesso alle risorse ed i rapporti client - server. Il capitalismo immateriale tende a gestire in prima persona la dimensione emozionale/sociale di ognuno di noi. Se ciò che viene dato in concessione, temporaneamente acquistato, ceduto in leasing, in franchising, in outsourcing è la promessa di una dimensione esperienziale o di un accesso ad una rete, l’accumulazione di beni e servizi in forma materiale diviene automaticamente secondaria. Il capitalismo esperienziale si basa sempre più sulla cessione di servizi che hanno un valore economico in relazione alle “condizioni” o alle potenzialità che promettono di realizzare. E tali condizioni e potenzialità sono variabili e si modificano nel tempo e nello spazio. Ciò, però, mina l’autonomia e la sovranità dell’attore economico, sia esso individuale o d’impresa, in quanto organizza un sistema reticolare che destruttura lo scambio ed erode le garanzie giuridico - legali che ne definiscono i parametri. Nei mercati tradizionali, infatti, le transazioni,

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fondate sullo scambio, si sviluppano in maniera diretta e non ripetitiva. Il mercato non richiede l’instaurarsi di un rapporto fiduciario tra venditore ed acquirente, essendo strutturato sulla base di contratti legalmente vincolanti che rappresentano la garanzia che il trasferimento del prodotto verrà effettuato e la promessa di servizio soddisfatta. Le transazioni di base si fondano su un unico atto di scambio che non prevede impegni futuri. Gli scambi di natura complessa, invece, presuppongono un sistema organizzativo di tipo gerarchico; le gerarchie formalizzate, con la loro rigida ripartizione dell’autorità, permettono alle informazioni di circolare mediante procedure standard che si adeguano perfettamente a modelli produttivi di tipo taylor - fordista ma che, nelle nuove economie di rete, appaiono inefficaci nella gestione dei rischi e dei cambiamenti repentini del mercato. Al contrario, i sistemi di rete hanno la caratteristica delle flessibilità, adattandosi alla natura volatile della nuova economia. Esse hanno un sistema di organizzazione che unisce alla reticolarità la cooperazione e l’approccio di squadra. Ma ciò impone agli attori economici (lavoratori, imprese, consumatori) la rinuncia a parte della propria autonomia e sovranità e l’inserimento in un sistema di transazioni in cui la fidelizzazione del cliente e l’instaurazione di un rapporto durevole e continuativo rappresentano i capisaldi dell’azione economica. Questo aspetto implica che il singolo attore economico, soprattutto in veste di consumatore, veda allungarsi i tempi ed espandersi le opportunità di capitalizzazione sull’insieme delle proprie condotte ed abitudini. Il “cliente” in un’economia dell’accesso è sempre sottoposto agli stimoli del mercato, è coinvolto in iniziative che tendono alla cancellazione della differenza tra tempo di produzione/consumo e tempo di vita/riproduzione. Egli è costantemente sottocontrollo nel momento in cui acquista prodotti o paga con carte di credito. I grandi gruppi commerciali, ad esempio, gestiscono un’immensa quantità di dati che associano caratteristiche anagrafiche con stili di consumo e di vita, rese volontariamente accessibili ed utilizzabili dallo stesso cliente nel momento in cui accetta di intrattenere un rapporto di fidelizzazione con l’azienda. Inoltre, grazie alle nuove tecnologie il ciclo di vita del prodotto tende sempre più ad accorciarsi, adeguandosi alle richieste mutevoli del mercato. La produzione just-in-time, già introdotta nel cosiddetto modello toyotista25, diviene oggi ancora più flessibile grazie alla tendenza delle aziende di consorziarsi per condividere informazioni strategiche, abbattere i costi di produzione, ripartire le risorse comuni e le tecnologie, assicurarsi dalle perdite, in un contesto sempre più umorale, rapido e volatile. In particolare, tale condivisione offre una sorta di assicurazione collettiva che consente di ripartire il rischio e reagire più tempe25 Cfr. T. Ohno, Lo spirito Toyota. Il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo, a cura di M. Revelli, Einaudi, Torino, 2004.

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4. Bioeconomia

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stivamente ai mutamenti dell’ambiente esterno. L’approccio reticolare consente, inoltre, alle principali aziende di liberarsi di impianti, attrezzature e competenze, creando relazioni strategiche con i fornitori. Ne consegue che il capitale fisico e l’accumulazione dei mezzi di produzione, che rappresentavano i presupposti del capitalismo tradizionale, sembrano lasciare il posto all’economia del controllo. Così molte aziende non pensano più di acquistare beni e capitali ma li prendono in prestito attraverso diversi tipi di contratti di noleggio. Tra di essi i programmi più comuni sono quelli di leasing. Nell’economia dell’immateriale le aziende ricorrono sempre più spesso alla locazione finanziaria come alternativa all’acquisto del capitale fisico al fine di porsi al riparo dai rischi di repentini mutamenti del mercato e dalla rapida obsolescenza delle tecnologie. Ma esistono anche differenti tipologie di contratto, come il leaseback che consente alle aziende che vendono i propri immobili di riacquisirli in locazione finanziaria da società immobiliari specializzate, divenendo gestori operativi di impianti posseduti da altri. L’outsourcing, invece, è un accordo in base al quale un’impresa appalta ad un’altra una funzione o un servizio che precedentemente realizzava in maniera autonoma. Questo è un ulteriore esempio di dismissione o cessione di capitale fisico ed operativo a favore dell’accesso a risorse e processi, mediato dal fornitore. I settori maggiormente investiti dall’outsourcing sono quelli della gestione dei dati, della manutenzione dei computer, della formazione, dello sviluppo applicativo, della consulenza e progettazione. Ma le aziende si affidano a fornitori esterni anche per attività considerate più riservate come la gestione della posta, la stampa e la riproduzione di documenti, la gestione di archivi e scorte, l’organizzazione dei sistemi contabili. Si assiste, inoltre, alla terziarizzazione delle attività di amministrazione del personale, di selezione delle “risorse umane”, di marketing e pubblicità, di trasporto e di sicurezza. In questo caso l’obiettivo delle aziende è di esternalizzare le attività di gestione e supporto che non producono fatturato ad aziende terze e di mantenere solo le attività considerate più remunerative, connesse, nella maggior parte dei casi, alle fasi di ideazione, progettazione, creazione e valorizzazione del marchio. Ma si ricorre all’esternalizzazione anche al fine di ottimizzare le risorse ed elevare la qualità e l’affidabilità delle competenze per i servizi gestionali ed organizzativi. Le nuove tecnologie informatiche e di telecomunicazione consentono, inoltre, di instaurare un rapporto flessibile ed istantaneo tra aziende superappaltatrici e fornitori: l’elaborazione elettronica dei dati ed i flussi di feedback consentono di disegnare l’immagine di un’azienda estesa, composta da molteplici realtà di differente peso. Nell’ambito della produzione industriale tale realtà ha visto, nel corso degli anni Novanta, una notevole espansione. Ma il decentramento funzionale, organizzativo e geografico si è rivelato

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anche uno strumento che ha consentito la deliberata violazione delle garanzie legali, lavorative e sindacali. La delocalizzazione produttiva, infatti, ha dato modo alle più potenti multinazionali di abbattere completamente i costi di produzione, sfruttando i miseri livelli salariali dei paesi del Terzo e del Quarto mondo o creando le cosiddette Zone industriali d’esportazione (EPS), aree in cui le merci sono prodotte senza dazi di import/export e senza alcuna imposta sul reddito. Queste aree sono sottratte alle garanzie legali ed ai controlli delle autorità economiche internazionali in fatto di diritti lavorativi e sindacali. Come testimonia Klein, sono aree in cui è garantita la totale libertà di azione economica a tutti i colossi che decidono di investire e di collocare in quel territorio le proprie imprese. Si tratta della creazione di veri e propri spazi d’eccezione nei quali la vita umana non soltanto è completamente asservita alla logica capitalistica di mercato ma è continuamente sottoposta alla violazione dei più elementari diritti umani. Naturalmente tutto ciò avviene con il consenso criminale degli stati in cui tali aree sono cresciute e prosperate e, spesso, non in violazione ma in accordo con legislazioni lavorative e sindacali palesemente inique per i lavoratori. Si tratta, in altre parole, di vere e proprie zone franche, protette da barriere d’accesso fisiche e commerciali, nelle quali tutto deve essere reso temporaneo e deve essere messo “tra parentesi”, dando luogo a processi di “denazionalizzazione”: Come dice un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la zona industriale d’esportazione «rappresenta per l’investitore straniero alle prime esperienze ciò che il villaggio vacanza rappresenta per il turista prudente»: una globalizzazione a rischio zero. […] Il ragionamento è un po’ in questi termini: è logico che le aziende debbano pagare le tasse e osservare regolarmente le leggi nazionali, ma, solo in quest’unico caso, in queste aree specifiche e per un breve periodo di tempo, si farà un’eccezione in nome di un benessere futuro. La zona industriale d’esportazione è quindi una sorta di realtà legale ed economica «tra parentesi», separata dal resto del Paese. […] Le barriere erette a difesa della zona servono a rafforzare il concetto che tutto ciò che accade al suo interno è solo temporaneo, o non accade realmente. […] Le zone franche fanno parte di un processo volto a «ritagliare» lembi di territorio nazionale per trasformarli in «aree denazionalizzate»26.

Le EPS possono essere considerate come un esempio di espropriazione di un territorio mediante l’imposizione di veri e propri vincoli d’accesso. Anche le garanzie legali, di conseguenza, tendono a ritrarsi ai confini di queste aree che possono, senza dubbio, essere considerate come dei luoghi in cui uno stato d’eccezione permanente prende il posto della legge. In nome dell’abbattimento dei 26 N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, trad. it. di E. Trading, S. Borgo ed E. Dornetti, Baldini & Castoldi, Milano, 2002, p. 262.

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costi di produzione dei beni materiali le politiche di outsourcing provocano, dunque, lo sfruttamento della manodopera dei paesi del terzo e del quarto mondo e l’imposizione di gravosi vincoli d’accesso nelle aree franche della produzione e del commercio. Inoltre, queste delocalizzazioni introducono anche una divisione internazionale del lavoro che suddivide nettamente economie dequalificate che si occupano della produzione dei beni materiali ed economie avanzate che gestiscono il capitale immateriale. Tutto ciò è riassunto in quello che alcuni autori hanno ribattezzato come “modello Nike”: grandi multinazionali che delocalizzano tutte le fasi della gestione, produzione, commercializzazione e distribuzione dei prodotti materiali e riservano a se stesse solo le competenze legate alla creazione ed alla continua progettazione del marchio. In questo caso, come in altri, l’aspetto immateriale costituisce da solo la dimensione di iper - valorizzazione del prodotto materiale, al quale, invece, è riservata la fetta più misera degli investimenti. Naturalmente, questo sistema non potrebbe funzionare senza eccessivi sprechi se le multinazionali, utilizzando sistemi di outsourcing, non riservassero a se stesse solo le fasi di ricerca e progettazione del marchio e non affidassero ad imprese sub - fornitrici l’intero ciclo della produzione materiale della merce. Un’altra tipologia contrattuale che consente di privatizzare l’accesso a determinate forme di conoscenza mediante brevetti applicati al marchio è il franchising. In questo caso si prevede la cessione dell’uso del marchio che è dato in locazione ad imprese che lo mettono in opera. L’impresa madre, tuttavia, ne rimane proprietaria, ponendo un vero e proprio monopolio sul capitale cognitivo/ immateriale. Ciò si definisce franchising del modello d’impresa per distinguerlo dal più antico franchising di prodotto, che rimane ancora legato alla cessione dei diritti di commercializzazione ed alla distribuzione dei beni materiali al concessionario locale. Il più recente franchising del modello d’impresa, invece, si basa sulla concessione del concetto, dell’idea racchiusa nel marchio; il valore immateriale di quest’ultima è superiore rispetto al valore materiale del concessionario (immobili, impianti, attrezzature e materie prime). Per questo i contratti di franchising stabiliscono, nella maggior parte dei casi, delle condizioni palesemente sbilanciate a favore delle imprese madri che detengono la proprietà legale del marchio. È proprio il diritto di accesso e di utilizzo del capitale cognitivo dell’impresa madre che è pagato dal contratto di licenza del concessionario. Multinazionali come McDonald’s non vendono solo panini ma pacchetti contenenti formule d’attività e marchi. Emerge una delle caratteristiche che contraddistingue in maniera più netta il paradigma della knowledge economy: il contenuto immateriale del prodotto o del bene fornito possiede soprattutto un valore simbolico, identitario, esperienziale. Il “modello McDonald’s” si configura,

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dunque, come uno degli esempi più longevi e radicati di capitalismo esperienziale. In questo caso tutti gli aspetti, dalle politiche di branding alle divise dei dipendenti, sono sottoposti ad una rigida codificazione che deve rendere il marchio (e tutto ciò che ad esso è associato) familiare al cliente. Il prodotto venduto passa in secondo piano rispetto al contenuto identitario e sociale veicolato, che nel caso della sopracitata catena di fast food consiste, ad esempio, nell’aver proposto dei modelli di alimentazione e di consumo giocosi, rapidi, economici, alla moda. Naturalmente queste dinamiche, che hanno spinto il sociologo G. Ritzer a parlare di mcdonaldizzazione del mondo27, attirano soprattutto la clientela più giovane che spesso si lascia sedurre da tutto ciò che introduce ed accompagna la vendita del vero e proprio prodotto (gadget, iniziative pubblicitarie, campagne di fidelizzazione, ecc.). Il marchio, dunque, non stimola l’acquisto di un prodotto ma la possibilità di accedere o partecipare all’esperienza emotivo - sensoriale che il logo incarna. E ciò è particolarmente vero nelle campagne di marketing che hanno la funzione prioritaria di incrementare le vendite generando una certa affezione emotivo - sensoriale nei confronti del prodotto. Le più recenti tecniche di marketing, infatti, mirano a realizzare soprattutto la fidelizzazione del cliente ed agiscono su tutti gli aspetti della vita e del tempo di quest’ultimo. Il principio che sostiene queste tecnologie bioeconomiche non potrebbe essere espresso in modo migliore da Rifkin quando, riprendendo le parole di S. Davis e C. Meyer28, sostiene che “nel vecchio regime l’idea era di indurre i clienti a fare acquisti ripetuti, come se si trattasse di una serie di transazioni separate; mentre nella nuova economia l’obiettivo di ogni azienda è stabilire rapporti continuativi con i propri clienti”29. L’obiettivo è di estendere la durata e la qualità delle relazioni con i clienti, non tanto di allargare il numero di acquirenti occasionali. L’atto di consumo è, così, inquadrato in una dimensione relazionale, familiare ed affettiva. Il cliente non deve percepire la differenza tra tempo libero e tempo dedicato al consumo. Dunque, il capitalismo esperienziale mira alla fidelizzazione del consumatore, cioè alla creazione di una dinamica relazionale stabile, prolungabile nel tempo ed estendibile a tutti gli spazi ed i tempi di vita dell’individuo. La cosiddetta quota di cliente tende a prevale su quella di mercato. Addirittura, gli specialisti di marketing relazionale enfatizzano il potenziale di mercificazione dell’intera esperienza di vita dell’individuo usando un indicatore numerico: il lifetime value (LTV)30. 27 Cfr. G. Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna, 1997. 28 Cfr. S. Davis e C. Meyer, Blur. Le zone indistinte dell’economia interconnessa, trad. it. di R. Merlini, Mce Olivares, Milano, 1999. 29 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, op. cit. p. 132. 30 Rifkin cita, ad esempio, la stima del valore del LTV di un concessionario di automobili. In questo caso, il lifetime value è calcolato sulla base del numero di automobili che il cliente medio

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4. Bioeconomia

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Per calcolare l’LTV di un cliente, l’azienda proietta nel futuro il suo attuale valore, sottraendo i costi di marketing e di assistenza necessari a costruire e conservare una relazione a lungo termine. Le società che emettono carte di credito, le case editrici e le società di vendita per corrispondenza, che sopravvivono grazie ad abbonamenti e sottoscrizioni, hanno adottato da molto tempo il LTV come metodo per la stima dei costi. Ora anche il resto dell’economia sta cominciando a seguire le loro orme31.

Il potenziale economico di un cliente stimato sulla base del LTV è direttamente proporzionale alla durata ipotetica della vita del consumatore. Per questo motivo, le campagne di marketing e di fidelizzazione si estendono sempre più in avanti, coprendo momenti della vita che precedentemente non erano toccati dalle logiche di mercato. Ciò è vero, soprattutto, per quanto riguarda la possibilità di coinvolgere nelle campagne di marketing relazionale le generazioni più giovani, le quali spesso sono il bersaglio di pressanti iniziative di tesseramento, di fidelizzazione, di inclusione in apposite communities tematiche. Ciò corrisponde anche all’estensione della gamma dei prodotti e dei servizi realizzati con specifico riferimento alle caratteristiche, alle esigenze ed ai gusti di un pubblico giovane di consumatori, i quali verranno indirizzati a costruire delle relazioni commerciali, spesso, autonome rispetto ai genitori. La determinazione del lifetime value è ottimizzata, inoltre, dalla nuova generazione di tecnologie relazionali (R - technologies) disponibili nell’economia integrata di rete. Anelli di feedback, come ad esempio quelli realizzati dalle nuove tecnologie informatiche del web 2.0 o strumenti di telecomunicazione, codici a barre, tessere elettroniche e carte di credito permettono alle aziende di ricevere informazioni continuamente aggiornate non solo sugli acquisti ma anche sui gusti e gli stili di vita dei clienti. Le R - technologies elaborano, inoltre, questa massa di informazioni, spesso eterogenee e frammentate, per ricavare un profilo di consumo del cliente e poter calcolare indici che stabiliscono il grado di fidelizzazione (LTV) ed il livello di affezione per l’azienda. Ma, in termini generali, ciò che queste strategie di marketing relazionale realizzano è il controllo del cliente, il quale, inserito in una vera e propria struttura panoptica, è osservato e controllato microfisicamente. Se è vero che le R - technologies si basano su complessi modelli di feedback e di interazione con il cliente, le possibilità di controllo sono senza dubbio sbilanciate a favore delle aziende che possono gestire un’immensa quantità di informazioni riservate, fornite volontariamente dal cliente. Queste tecnologie di marketing, acquista nel corso della propria vita, oltre agli altri servizi richiesti. La stima di questo indicatore ha come scopo, dunque, l’individuazione di un meccanismo che consenta all’azienda si trattenere il cliente per tutta la vita. 31 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, op. cit., p. 134.

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infatti, rispecchiano il modello panoptico del controllo diffuso. Il controllo solo formalmente deve essere bidirezionale: esso deve inserirsi nelle dinamiche relazionali senza trasformarsi in una vera e propria relazione. In ogni caso, il cliente, da una parte deve essere posto nelle condizioni di poter accedere a molte meno informazioni di quelle possedute dall’azienda ed, in secondo luogo, deve essere indotto a sviluppare una sorta di auto - direzione attraverso la creazione di diffuse tecniche di controllo - stimolo. Il capitalismo relazionale mira, pertanto, all’implementazione di pratiche pastorali che trasformano i produttori/consumatori in “protagonisti”. Il cliente diviene un vero e proprio agente che guida, consiglia e controlla le iniziative di consumo sue e degli altri e sa gestire, prevedere ed ordinare le preferenze dando voce a bisogni e desideri. Il cliente, in un certo senso, deve sentirsi sempre circondato da professionalità cui può affidarsi nell’atto relazionale - emotivo del consumo. Ciò gli consente di sentirsi a casa, di percepire una continuità affettivo - sentimentale che si estende dal luogo di lavoro a quello di vita e di consumo. Ma ciò mira, in pieno stile pastorale, a responsabilizzare il cliente. In altre parole il pastore - consulente - intermediario non ha solo la funzione di condurre per mano il cliente per poterne controllare i consumi e gli stili di vita. Egli deve, nel tempo, renderlo autonomo, auto - responsabilizzarlo, lasciarlo libero di fare le proprie scelte dopo averlo legato emotivamente e affettivamente. Se l’azione di direzione - controllo non fosse completata dall’apparente autonomizzazione del consumatore, la logica bio - capitalistica non potrebbe estendersi a trecentosessanta gradi alla vita dell’individuo e non darebbe luogo agli esiti oikonomici precedentemente discussi. Ma l’aspetto oikonomico e neo - pastorale di questo modello di marketing esperienziale è visibile anche nella creazione di quelle che gli economisti hanno chiamato comunità di interessi. Si tratta di gruppi di individui accomunati da determinati interessi di consumo e di spesa o da determinati stili di vita. Tali gruppi sono creati e controllati dalle aziende, le quali hanno il monopolio assoluto nella gestione dei criteri di accesso, nell’organizzazione delle iniziative e nella creazione di eventi che consentono, nel tempo, di rafforzare la comunità e di mantenerla aggregata intorno ad uno specifico interesse di consumo. Si tratta di nuove forme di socialità che destrutturano gli spazi ed i luoghi tradizionali di incontro e scambio. R. Cross e J. Smith, consulenti di marketing, individuano diverse fasi per la creazione di una comunità d’interesse32: • legame di consapevolezza: Consiste nel rendere il cliente consapevole del tipo di prodotto e servizio fornito con l’obiettivo di negoziare la prima vendita. 32 Cfr. R. Cross, J. Smith, Customer bonding. Pathways to lasting customer loyalty, NTC Business Books, Lincolnwood, IL,1995.

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• legame di identità: Il cliente incorpora il prodotto o il servizio fornito dall’azienda nella percezione del sé e nelle dinamiche di identificazione/ differenziazione rispetto all’esterno. • legame di relazione: È la fase in cui si crea un’intimità tra azienda e cliente, istaurando un rapporto fiduciario ed affettivo veicolato dall’interattività delle R - technologies. • legame di comunità: In questa fase l’azienda mette i clienti in relazione tra loro sulla base del medesimo interesse per il bene o servizio fornito. L’obiettivo è di creare una relazione a lungo termine con i soggetti implicati, ottimizzando il lifetime value di ogni cliente.

Dunque, il fine ultimo delle aziende nella creazione delle comunità di interesse è la fidelizzazione del cliente e la creazione di un certa familiarità che consenta di rendere “naturale” ed “immediata” la partecipazione alle iniziative (eventi, riunioni ed altre attività) organizzate per promuovere la condivisione e l’interesse nei confronti del marchio. Ma ciò significa che, non soltanto lo status individuale ma anche quello sociale del singolo, si strutturano in relazione alla partecipazione a tali gruppi. Il legame che questi tendono a creare è molto duraturo, in quanto costruiscono, sulla base della mercificazione delle relazioni interpersonali, un rapporto emotivo - sentimentale accresciuto dalla condivisione di momenti ed iniziative collettive. Questi strumenti fanno leva sulle competenze simbolico - affettive dei singoli e dei gruppi al fine di estendersi verso dimensioni dell’esistenza che precedentemente ricadevano al di fuori della logica del profitto. Anche i processi di socializzazione si riducono, allora, ad atti di accesso privatizzati. Il solo fatto di essere entrato in una comunità di interesse dà al singolo una serie di benefici e lo dota di uno status. In ciò la dinamica che sorregge le communities commerciali non opera diversamente da altre istituzioni. Esse sono attraversate da processi di inclusione/esclusione che definiscono identità e differenze. Il problema è che il principio di legittimità intorno al quale si struttura la comunità è il significato simbolico del marchio. Tutte le relazioni veicolate in quella sfera comunitaria, dunque, dovranno uniformarsi al “carattere” di marca o al tipo di esperienza cui essa consente l’accesso; di conseguenza le dinamiche di socializzazione, controllate dall’azienda, sono costruite su misura in base alle esigenze di commercializzazione del brand, del prodotto o del servizio. La mercificazione delle relazioni sociali ed intersoggettive va di pari passo con la contrazione degli spazi, dei luoghi e delle possibilità stesse di incontro al di fuori dei fini strettamente economici della produzione - consumo. Ciò non soltanto in quanto, a causa della flessibilizzazione del lavoro e della privatizzazione dei servizi sociali, il tempo di vita (inteso prima come tempo libero) si indetermina con il

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tempo di lavoro - consumo ma anche perché gli spazi simbolici di socializzazione tendono sempre più a ridursi a favore degli spazi di consumo. Ma tutto ciò non si ferma alla creazione di relazioni sociali/commerciali. Come abbiamo visto, i perimetri della comunità sono controllati e stabiliti dalle aziende che strutturano i criteri di accesso e quelli di limitazione. Ancora una volta, il monopolio di una “risorsa” comune molto importante come la socialità determina l’enorme potere che le aziende hanno nei confronti dei singoli. Come avviene nei casi in cui determinati beni comuni e conoscenze tacite sono appropriate dai poteri economici dominanti, anche le dinamiche di socializzazione subiscono la privatizzazione e sono sottoposte a barriere di accesso (pagamento di un biglietto, sottoscrizione di una membreship o di una carta fedeltà). Ciò è vero anche per quanto riguarda la diffusione di politiche abitative che ricalcano sempre più il modello dell’accesso privatizzato. A questo modello rispondono quelle che negli Stati Uniti sono state definite come common - interest developments (CID) communities, cioè delle comunità residenziali cintate che nascono con l’intento di raggruppare famiglie ed individui che condividono un medesimo interesse specifico, un medesimo stile di vita o condizione socio - economica. Le motivazioni che spingono sempre più individui (soprattutto negli Stati Uniti) a rinchiudersi in questi nuclei abitativi controllati è la paura ed il bisogno di sentirsi inclusi in una comunità di simili, economicamente omogenea. Questi nuclei, dunque, nascono dalla percezione di un pericolo socio - economico esterno e dalla necessità di sentirsi protetti conformemente a criteri di benessere e d’interesse commerciale. Questi centri, pertanto, nascono spesso da associazioni e gruppi di interesse preesistenti e sorgono nei pressi di grossi centri commerciali isolati rispetto agli altri conglomerati urbani. Essi sono caratterizzati, nella maggior parte dei casi, dalla proprietà in condominio di alcuni spazi e strutture comuni e dall’iscrizione obbligatoria ad un’associazione di proprietari. Inoltre, queste comunità sono circondate da barriere che regolano l’accesso e sono controllate da sorveglianti e telecamere. Rifkin mette in evidenza come i CID siano spazi residenziali completamente mercificati dove la libera circolazione di persone, beni e servizi è strettamente regolamentata e circoscritta. Ma è proprio questa la ragione che spinge molte persone ad abitarci: I CID vendono un modo di vivere, non una semplice casa. Le abitazioni sono integrate in una rete di servizi che costituiscono un’esperienza unica: in questo sono simili ad altri beni o forme di proprietà diventati contenitori o piattaforme per i servizi e le esperienze che li accompagnano33.

Per comprendere le parole di Rifkin non basta solamente citare l’enorme proliferazione di modelli abitativi come le comunità tematiche (dei pensionati, dei 33 J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, op. cit., p. 159.

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giocatori di golf, ecc.), le comunità di prestigio (nuclei residenziali abitati dalle celebrità o dai membri più ricchi della società) o le cosiddette new town (iniziative immobiliari allargate volte a creare un intero nucleo urbano). L’esempio ad oggi insuperato di comunità tematico - residenziale nata intorno al marchio di una grande multinazionale è Celebration, la città della Disney sorta in Florida nei primi anni Duemila. Questa comunità rappresenta il prototipo del nuovo genere di iniziative immobiliari volte a realizzare l’accesso ad uno stile di vita completamente monopolizzato dal marchio di fabbrica di un’azienda. Infatti, nel caso di Celebration, ciò che conferisce valore al progetto residenziale è proprio il significato simbolico - identitario associato al marchio. Ciò è evidente nelle parole contenute nell’opuscolo di presentazione del progetto urbano: C’era una volta un posto in cui i vicini di casa si salutavano nella quiete dei tramonti d’estate. Dove i bambini seguivano le lucciole. E i dondoli sotto il portico erano un riparo dalle preoccupazioni della vita quotidiana. Il cinema proiettava cartoni animati il sabato sera. L’emporio consegnava la spesa a domicilio. E c’era quella maestra che aveva sempre visto in voi qualcosa di speciale. Vi ricordate quel posto? Forse è quello dove siete cresciuti. O, forse, ve l’hanno solo raccontato. Ma era un luogo magico. Aveva la magia della piccola città americana34.

Ed è proprio in nome di questa “magia della piccola città americana” che Celebration è stata costruita in uno stile tardo ottocentesco, ricalcando lo splendore utopico delle cittadine pre - moderne. Ciò che queste “utopie pubbliche che si realizzano attraverso il privato”35 mostrano è la paradossale riproposizione di stili di vita pre - capitalistici. Celebration è un omaggio al passato che riproduce un mondo da fiaba dove, come sostiene Klein, le merci sembrano escluse dalla vita quotidiana. Ciò è testimoniato dal fatto che i muri non sono coperti da cartelloni pubblicitari e non esistono megastore che diffondono attraverso le proprie vetrine luci irreali. Il paradosso che tale forma di lifestyle branding contiene, dunque, è assolutamente compatibile con la diffusione di un modello di capitalismo emozionale. Non è l’idea del possesso ed il valore economico di merci tangibili, esposte in bella mostra nelle vetrine dei negozi, che muove tale dinamica identitaria. Al contrario, è l’aspetto immateriale, simbolico del logo a rappresentare un valore vitale. Chi acquista una casa a Celebration, come in altre comunità tematiche di questo tipo, acquista il diritto di partecipare ad un’esperienza, ad avere un determinato stile di vita (non ad acquistare un semplice immobile). Ma, proprio per questo, l’utopia immateriale della città pre - capitalistica veicola il sogno del ritorno dell’individuo alla dimensione solidaristica e confortevole della comunità. 34 R. Rymer, Beck to the future: Disney reinvents the company towns, in Harper’s Magazine, 293, n.1757, ottobre 1996, p. 65. 35 N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, op. cit. p. 203.

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O perlomeno, di ciò che si è sempre indicato, in modo senza dubbio romantico, come spirito comunitario. Si tratta, dunque, dell’utopia del ritorno ad un’incorrotta comunità d’origine, ad un “grembo materno” che consente all’individuo di non perdersi nella massa anonima. Ma non si tratta solo della contrapposizione tra un modello comunitaristico/organico ed uno individualista/societario. L’idea principale è che lo stile di vita pre - capitalista possa essere accessibile attraverso esperienze veicolate dal marchio. La paradossalità di questo modello, quindi, risiede nel fatto che è proprio l’adesione ad uno stile di vita incarnato da un marchio che consente agli individui di differenziarsi ed uscire dall’anonimato della massa che consuma. L’esclusivismo che il marchio Disney promette in termini emozionali ed esistenziali a quanti decidono di vivere in una città interamente “disneyzzata”36 è ricreato attraverso un sentimento artificiale ed indotto di nostalgia. Si tratta di una nostalgia che assume delle sfumature fortemente securitarie. Infatti, non bisogna dimenticare che le comunità di interesse costituiscono soprattutto uno spazio di assicurazione contro il rischio, contro gli imprevisti, gli ostacoli, le brutture della vita quotidiana. Si tratta, insomma, di comunità ad accesso controllato, nelle quali le politiche di self - security e di wellness security rappresentano il modello predominante. Sono comunità dove, inoltre, proprio la chiusura costituisce per gli abitanti una garanzia di autenticità contro l’indistinzione della massa. Basta acquisire il diritto di accesso per ritrovarsi in un vero e proprio “bunker dell’autenticità”37. Infatti, il fenomeno che il sociologo A. Bryman ha definito con un neologismo “disneyzzazione della società” fa riferimento alla diffusione di uno stile di vita ispirato ai parchi tematici disneyani, caratterizzati dall’interrelazione tra standardizzazione del servizio e personalizzazione della proposta di consumo38. Questo discorso riportato alla sfera della bioeconomia riesce a chiarire alcuni aspetti fondamentali del capitalismo cognitivo. Come si evince dalla trattazione foucaultiana della genealogia neoliberale, uno degli effetti più immediati dell’evoluzione bio - economica (che ha portato l’individuo ad agire in un nuovo campo governamentale coincidente con lo spazio del mercato) è il lento scivolamento della dimensione pubblica in quella privata e viceversa. Il “pubblico” si indeter36 Cfr. A. Bryman, The Disneyzation of society, Sage, London, Thousand Oaks, 2004. 37 N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, op. cit., p. 201. 38 Questi due aspetti non appaiono scindibili. Il marchio diviene veicolo di un’identità e di una differenziazione sociale giocata all’interno di una semantica economica tendenzialmente unificante. La stessa proliferazione di catene di negozi in franchising, ad esempio, testimonia tale dualismo. La familiarità del marchio veicola uno specifico riferimento identitario e sociale, un preciso stile di vita differente rispetto a qualsiasi altro. Ma la moltiplicazione dei concessionari e dei punti vendita che commercializzano quel particolare marchio manifesta anche la necessità per le aziende di mantenere un legame con il mercato di massa.

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mina con il “privato” nella strutturazione di un nuovo spazio politico - sociale: la società civile. Sono, infatti, le relazioni sociali il perno intorno a cui un nuovo modello economico si sviluppa. Questa accezione di socialità si pone a metà strada tra il pubblico ed il privato, o meglio, si radica nel pubblico per privatizzarne le risorse fondamentali come, ad esempio, le conoscenze tacite, i saperi condivisi, i beni collettivi, ecc. Il linguaggio, la conoscenza, le modalità abitative, il tempo libero divengono beni sottoposti ad appropriazione in quanto costituiscono “risorse” immateriali che possono liberamente fluire dalla sfera pubblica a quella privata. Il “comune” privatizzato è lo spazio nel quale le risorse pubbliche, come le conoscenze condivise, sono appropriate, circolando come risorse scarse o saperi standardizzati/codificati. È questa idea di comune che è ricreata artificialmente nelle comunità commerciali o in quelle residenziali di cui abbiamo parlato. In esse è la relazionalità degli individui ad essere sfruttata a fini economici e ad essere rimessa in circolazione sottoforma di lifestyle branding o marketing emozionale. Ma il problema della privatizzazione dell’accesso non emerge solo nel monopolio delle competenze cognitive e sociali degli individui; esso si intreccia con la progressiva deregolamentazione della sfera pubblica. Fumagalli solleva questa tematica molto importante non soltanto con riferimento al branding ma anche, e più genericamente, al mercato del lavoro. La destrutturazione delle tradizionali garanzie legali nel campo delle politiche di welfare non ha portato ad un corrispondente rafforzamento del diritto comune. Se, infatti, è vero che lo spazio del comune si è trasformato sempre più in un luogo di moltiplicazione esponenziale delle logiche del capitalismo cognitivo, diviene fondamentale sottoporre tale sfera ad una regolamentazione giuridica più estesa: In entrambi i casi, da una parte, la conoscenza nel momento della produzione, dall’altro, il brand nel momento della realizzazione sono il frutto di una cooperazione (…) che consente un processo di valorizzazione sociale che il diritto, oggi, rende privatizzabile, proprio per l’assenza di un diritto comune, che vada al di là del tradizionale diritto pubblico. Sia il general intellect che il brand, infatti, sono strettamente connaturati all’agire individuale e alle sue caratteristiche e perciò non possono ascriversi del tutto alla sfera pubblica del diritto. Ma, allo stesso tempo, in quanto frutto di relazione e cooperazione sociale, non sono neanche del tutto ascrivibili al diritto privato39.

Fumagalli ha individuato quattro ambiti conflittuali del comune che generano precarietà esistenziale. Il primo è quello che l’autore definisce convenzione finanziaria, cioè quel meccanismo di creazione delle aspettative, tramite il ruolo performativo del 39 A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma dell’accumulazione, op. cit., p. 194.

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linguaggio, che sta alla base degli indici dei mercati finanziari. La convenzione finanziaria è quel complesso processo di interazione individuale in base al quale si creano immaginari finanziari omogeneizzati. Dunque, la finanziarizzazione investe l’esistenza del singolo e della collettività in quanto si inserisce negli immaginari simbolici e sfrutta le abilità comunicativo - relazionali degli agenti economici sul mercato borsistico e non solo. La finanziarizzazione, in tal modo, investe molti ambiti dell’esistenza che precedentemente rimanevano al di fuori e che, per l’appunto, erano coperti da garanzie legali e pubbliche. Faccio riferimento ai settori pensionistici, assicurativi, previdenziali nei quali la vita futura, l’assicurazione contro la vecchiaia e l’accumulazione privata di reddito sono affidate agli umori dei mercati finanziari e, dunque, inseriti in una semantica del rischio e dell’eccezione permanente. Ma l’estensione del processo di finanziarizzazione a molti aspetti dell’esistenza trova una forte resistenza che può essere riassunta nella discrepanza tra temporalità di breve periodo e di lungo periodo. Il processo di valorizzazione finanziaria, infatti, si sviluppa nel breve periodo mentre l’individuo vive nel medio - lungo periodo. Ad esempio, la possibilità di ottenere plusvalenze finanziarie nel breve periodo non consente all’individuo di ottenere garanzie di sicurezza del risparmio, degli investimenti, della pensione per l’intero arco della vita. Il secondo ambito conflittuale del comune è l’intellettualità che investe quella dimensione che Marx chiamava general intellect e che noi abbiamo individuato come il cuore della knowledge economy: la conoscenza come sapere comune. Il terzo elemento è lo spazio. In esso esiste una duplice contraddizione. La prima riguarda la velocità di trasferimento di dati attraverso i network cognitivi che deve essere differenziata dalle reti del commercio dei beni materiali. A tal proposito, Fumagalli distingue tra reti lunghe materiali e reti corte immateriali. Ma tale distinzione si riflette anche su quella tra spazio virtuale e spazio fisico. Alla moltiplicazione della velocità e della potenzialità del primo tipo di spazio corrisponde la frammentarietà del secondo, nel quale la mobilità fisico - lavorativa è sottoposta ad un regime di controlli e limitazioni. In altre parole, se i capitali virtuali sono caratterizzati dalla massima libertà di circolazione, i lavoratori sono investiti da criteri di mobilità restrittivi o, comunque, sottoposti a controllo. Infine, il quarto elemento è la pubblicità. Con tale termine l’autore fa riferimento al processo che consente al marchio di veicolare valore simbolico condiviso. Se queste sono le quattro sfere conflittuali del comune individuate da Fumagalli, ve n’è un’altra nella quale il monopolio del patrimonio comune ha delle ricadute biopolitiche ancora più evidenti. Si tratta della brevettabilità del patrimonio genetico dell’umanità40. 40 Cfr. J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, trad. it. di L.

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Le risorse genetiche del pianeta hanno cominciato ad essere privatizzate nel 1971, nel momento in cui il microbiologo A. Chakrabarty ha chiesto ed ottenuto dall’ufficio brevetti e marchi registrati degli Stati Uniti l’autorizzazione a brevettare un microrganismo geneticamente modificato, progettato allo scopo di eliminare le chiazze di petrolio negli oceani. Dopo una lunga contesa giudiziaria la Corte suprema statunitense ha dato il via libera alla brevettabilità del microrganismo. Le modifiche nel patrimonio genetico del microrganismo furono considerate alla stregua di una qualsiasi invenzione tecnologica o meccanica. Questo evento ha aperto la strada allo sfruttamento commerciale delle forme di vita e del patrimonio genetico. Poco tempo dopo la prima multinazionale genetica, la Genentech, è stata quotata in borsa. Nel 1987 l’ufficio brevetti della Corte suprema degli Stati Uniti ha esteso la brevettabilità a qualsiasi organismo vivente pluricellulare, includendo animali, embrioni, feti ma anche geni umani, linee cellulari, tessuti ed organi. Ne rimangono esclusi il corpo umano nella sua integrità e gli organismi già presenti in natura che non siano soggetti a modifiche. Da allora sono stati brevettati una molteplicità di animali, ibridi (formati dall’unione di geni di differenti animali) o chimere (ibridi uomo/animale). La manipolazione è stata estesa anche alla sfera agricola allo scopo di produrre alimenti geneticamente modificati come il mais, la soia, ecc. Ma a sollevare le maggiori polemiche è stato il processo che ha portato alla mappatura ed alla successiva commercializzazione del patrimonio genetico umano. Nel 2000 è stato annunciato il primo sequenziamento del genoma umano, realizzato dalla società privata Celera Genomics nell’ambito del progetto denominato Human Genome Project. Il primo a sottoporsi al sequenziamento del proprio genoma è stato J. Watson (premio Nobel con D. Crick nel 1953), il quale nel 2007 affidò la mappatura del proprio DNA al National Human Genome Research Institute. Ma anche intere nazioni come l’Islanda, la Svezia, il Canada hanno negli ultimi anni affidato ad istituti di ricerca privati o a grandi multinazionali la creazione di vere e proprie banche dati del proprio patrimonio genetico. Nel caso dell’Islanda i diritti relativi ai codici genetici dell’intera popolazione sono stati venduti per un periodo di 12 anni alla deCODE Genetics, una società locale. Si stima che più del 20% dei brevetti sul DNA che ogni anno vengono rilasciati negli Stati Uniti è di proprietà di industrie farmaceutiche o università41. Lupica, Baldini & Castoldi, Milano, 1998. 41 Così la cronaca registra casi come quelli del signor John Moore, cittadino americano che si è visto negare dalla Corte suprema della California il diritto di procedere legalmente contro l’Università della California e la società Sandoz, accusate di aver creato e brevettato una linea cellulare prelevata, a sua insaputa, dai tessuti della milza. La Corte ha, infatti, stabilito che l’Università ha agito legalmente brevettando i tessuti del DNA di Moore, dai quali fu sintetizzata una proteina del sangue che facilita la crescita di agenti antitumorali. Fu sancito, dunque, che Moore

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Codeluppi sostiene che tali tendenze stanno portando allo sviluppo di una nuova economia dei tessuti42. Le multinazionali che operano nel campo della genetica, delle biotecnologie, della farmaco - medicina, infatti, ricavano grandi profitti dalla commercializzazione di parti minime del corpo umano come pelle, sperma, ovaie, ovuli, cellule, embrioni, cordoni ombelicali. Ciò finisce anche per alimentare un commercio internazionale di organi che spesso e volentieri sfrutta circuiti illeciti o mercati in nero per ottimizzare i profitti. In ogni caso, si tratta di un immenso potere di controllo che poche grandi multinazionali esercitano sul commercio biogenetico mondiale. Secondo N. Rose è in atto un vero e proprio salto di qualità nella nostra capacità di ingegnerizzare, modulare, controllare e gestire le componenti organiche del corpo umano43. La biomedicina, tuttavia, non opera a livello organico ma a livello molecolare, isolando, manipolando, riaggregando i tessuti umani ed in ciò rendendo sempre più labile ed invisibile il confine tra ciò che è considerato inappropriabile e ciò che è considerato passibile di intervento tecnologico. È così che la sempre più estesa ingegnerizzazione della vita si è inserita in un processo generale di reengineering economico. Il corpo umano oggi può essere frammentato e ricombinato, può essere, cioè, adattato alle caratteristiche microfisiche e virtuali dei flussi economici e cognitivi. Il patrimonio genetico è un altro di quei settori nei quali si può chiaramente intravedere il rischio di una privatizzazione dell’accesso. Infatti, il valore bioeconomico derivante dalla commercializzazione dei geni e di altre componenti organiche non deriva dalla vendita ma dalla cessione su licenza. Si tratta, dunque, del problema della privatizzazione, della monopolizzazione, della brevettabilità del patrimonio per eccellenza comune a tutti gli uomini come le basi genetiche della vita. Anche in questo caso la conoscenza, che qui investe i saperi bio - organici del corpo, deve essere limitata, circoscritta ed appropriata privatamente, apponendo un marchio o un brevetto alla scoperta ed alla mappatura di nuove linee genetiche. Solo in un secondo tempo, tale conoscenza può circolare ed essere fruita da altri, tramite la concessione di diritti di accesso e di sfruttamento del capitale simbolico - cognitivo. A riprova di ciò Rifkin propone un parallelismo tra la privatizzazione del capitale intellettuale nel campo del franchising e la politica dei brevetti nel contesto della bio - genetica moderna. Anche in questa sfera, infatti, la proprietà non avrebbe potuto avanzare alcun diritto di proprietà sulla linea cellulare di cui l’Università e la società privata ad essa collegata si erano appropriate a fini commerciali. Per approfondimenti si veda J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, op. cit. e J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, op. cit. 42 Cfr. V. Codeluppi, Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2008. 43 Cfr. N. Rose, La politica della vita, op. cit.

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intellettuale e scientifica rimane nelle mani del fornitore che è titolare dei brevetti mentre le scoperte genetiche sono cedute in uso temporaneo ad un utente. A tal fine le grandi multinazionali biotecnologiche e biogenetiche operano rilevazioni in ogni angolo della terra al fine di trovare ed isolare rarità genetiche presenti in microrganismi, piante, animali ed uomini. Una volta individuati, i geni che possiedono un potenziale valore commerciale vengono brevettati, divenendo invenzioni. A differenza del passato, dunque, la brevettabilità di una sostanza chimica, di un microrganismo, ecc. non si limita al processo tramite il quale la risorsa può essere utilizzata e trasformata; lo scarto introdotto dalla nuova industria del biotech consiste nella brevettabilità delle sostanze e dei materiali genetici stessi non dei processi scientifico - tecnologici che li rendono accessibili. Le ripercussioni di tale trasformazione sono evidenti soprattutto in agricoltura. Le grandi società biotecnologiche e biogenetiche procedono da anni all’acquisto dei pochi produttori indipendenti di sementi, ottenendo un controllo pressoché totale sul plasma germinale da cui dipende la produzione agricola mondiale. Le stesse aziende hanno poi modificato geneticamente le sementi, estraendo stringhe genetiche e ricombinandole in modo tale da ottenere delle sequenze brevettabili come invenzioni. La privatizzazione della biodiversità mondiale addirittura è stata perseguita dalle multinazionali con strumenti che hanno reso brevettabili tecnologie di sterilizzazione delle sementi, rendendo, così, impossibile agli agricoltori ripiantare i semi ottenuti dal raccolto. Questa tecnologia, soprannominata con l’eloquente appellativo di Terminator technology, è stata, però, dichiarata illegale nel 1998, vietandone l’uso alle multinazionali che l’avevano brevettata. Questi ed altri esempi dimostrano che l’obiettivo prioritario della bioeconomia contemporanea è privatizzare i percorsi di accesso alla conoscenza ed alle risorse naturali tramite la trasformazione di queste in potenzialità produttive inesauribili e dotate di un valore economico spesso indissociabile dal proprio sostrato bio-organico. 4.4. Precarietà lavorativa e processi di soggettivazione/oggettivazione

L’organizzazione flessibile del lavoro assume un’importanza fondamentale nei complessi snodi dell’economia cognitiva. La maggior parte delle indagini che si occupano di approfondire questo argomento fanno riferimento alle continuità ed alle discontinuità tra capitalismo industriale fordista e capitalismo post - industriale o post - fordista, al fine di delineare i tratti caratteristici dell’era post - salariale. Con questo termine si designa solitamente il progressivo svincolamento delle dinamiche lavorative dal sistema occupazionale e retributivo fondato su modalità contrattuali a tempo indeterminato e sulla stabilità degli orari e degli spazi lavorativi.

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Il modello più esplicativo dell’“era salariale” è quello della grande fabbrica taylor - fordista, incentrata sulla staticità e la burocraticità delle strutture organizzative e produttive. Tale sistema occupazionale risulta caratterizzato da rigidità organizzativa e da forme di controllo totalizzanti che sottopongono il lavoratore ad una minuziosa suddivisione scientifica delle mansioni, dei tempi, dei movimenti del corpo. Ma si tratta anche di una struttura occupazionale che consente di costruire percorsi lavorativi stabili e coerenti e di poter accedere a tutta una rete di servizi sociali e di garanzie welfaristiche. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, il modello fordista è stato accompagnato, ma anche concretamente supportato, da politiche di welfare che, implementando l’inclusività sociale e i diritti sostanziali dei lavoratori, ha costituito una piattaforma strategica per la nascita della cosiddetta società del benessere. Essa si fondava su un presupposto fondamentale: la produzione di massa doveva stimolare un consumo di massa (e viceversa). Dunque, se il produttore/consumatore dell’era salariale era incluso in un sistema di regolamentazioni economiche ed occupazionali che consentiva di dare solidità a percorsi di vita/lavoro costringendo l’esistenza individuale entro i vincoli della produzione e del consumo, il lavoratore flessibile della new economy vede cadere, invece, tali vincoli, essendo la propria esperienza lavorativa inclusa in flussi microfisici e reticolari di produzione. In essi alla rottura delle garanzie contrattuali a tempo indeterminato corrisponde anche una frammentazione degli orari e degli spazi lavorativi. In questo caso, la discontinuità sul piano occupazionale produce la precarizzazione delle storie di vita o l’impossibilità di dare coerenza al proprio percorso lavorativo. Ma tale condizione potrebbe - secondo alcuni studiosi - aprire anche degli spazi di autonomia per il singolo o creare dei percorsi che, riportando in primo piano i processi di soggettivazione, attutiscano o cancellino la rigidità del sistema di produzione taylor - fordista. Ma bisogna stare molto attenti nell’interpretare le trasformazioni organizzative – soprattutto quelle inerenti la condizione lavorativa – in termini strettamente dualistici. Non si tratta, infatti, di discutere la natura e le caratteristiche del passaggio da un tipo di economia ad un’altra44. Pur avendo sottolineato l’innovatività della knowledge economy contemporanea, non è possibile parlare di un esaurimento del sistema di produzione tipico del capitalismo industriale taylor - fordista. E ciò, da una parte, perché alcune caratteristiche specifiche di tale modello sono state riprese nell’ambito dei sistemi 44 La tesi della continuità tra modello di produzione taylor - fordista e toyotista è sostenuta, tra gli altri, da Gallino. Per approfondimenti si veda L. Gallino, Biopolitiche del lavoro, in A.A. VV., Biopolitiche del lavoro, a cura di L. Demichelis e G. Leghissa, Mimesis, Milano - Udine, 2008.

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di produzione toyotisti che, spesso, fanno convivere moderne tecnologie informatico - relazionali con forme di gerarchizzazione organizzativa ed istituzionale; dall’altra parte, la compresenza tra i due modelli produttivi risponde alle esigenze specifiche di un determinato sistema di divisione internazionale del lavoro. Ciò implica, ad esempio, che la produzione materiale venga esternalizzata o delocalizzata dalle imprese madri a ditte sub - fornitrici che operano in contesti di rigidità, prescrittività e controllo tipiche del modello fordista. Allo stesso tempo non bisogna pensare che le prime fabbriche nelle quali fu applicato il sistema parcellizzato di suddivisione scientifica del lavoro di stampo taylorista non fossero caratterizzate dalla direzione delle condotte e dal controllo biopolitico dei lavoratori. F. W. Taylor, ad esempio, scriveva ne L’organizzazione scientifica del lavoro che i primi cambiamenti organizzativi devono essere introdotti nell’impresa con molta lentezza, occupandosi in modo parcellare di ogni singolo lavoratore, persuadendolo dei vantaggi del sistema di produzione e strutturando le sue energie vitali fin quando il singolo non avrà dimostrato la massima adesione a quel modello lavorativo e produttivo. In seguito si sarebbe potuto procedere massivamente e con maggiore rapidità nell’attribuire agli individui nuovi metodi di lavoro, incentivando il capovolgimento delle opinioni e dei sistemi di valori soggettivi in modo tale che tutti potessero essere “ansiosi di far parte del nuovo sistema di lavoro”45. O ancora, negli stabilimenti Ford di Highland Park nel 1914 venne istituito, accanto alla catena di montaggio, il Sociology Department, una sezione di ricerca composta da 30 investigatori che aveva il compito di indagare sul comportamento personale e sulla vita familiare dei dipendenti. Non si trattava di un controllo sulle abilità professionali: questo era garantito dalla rigida regolamentazione del lavoro di fabbrica e dalla dipendenza del lavoratore dai ritmi della macchina. Si trattava, invece, di una forma di controllo microfisico indirizzato alle abitudini ed ai comportamenti extra - lavorativi dell’operaio. Si trattava, dunque, dei primi tentativi di imposizione di un regime di controllo “neopastorale”, che si esercitava, come direbbe Foucault, sia sull’anatomo - politica del corpo che sulla biopolitica della popolazione. Dunque, ritengo che le continuità tra queste due forme di organizzazione del lavoro non debbano essere sottovalutate essendo radicate nel medesimo retroterra pastorale/biopolitico di cui, peraltro, Foucault ha ricostruito attentamente la genealogia. Ma, allo stesso tempo, come suggerisce L. Bazzicalupo, è necessario considerare con la massima attenzione la specificità delle nuove prassi lavorative ed occupazionali e l’instabilità dinamica che le contraddistingue46. La descrizione 45 F. W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, trad. it. di F. Garella, L. Grandi e L. Zannini, Etas, Milano, 2004, p. 228. 46 Cfr. L. Bazzicalupo, Soggetti al lavoro, in A.A.V.V., Biopolitiche del lavoro, op. cit.

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dei dispositivi della new economy, caratterizzati da forme organizzative come la consociatività, il self employment, l’economia dei servizi e l’erosione delle garanzie giuridico - sociali (l’indebolirsi delle tutele sindacali e giuridiche, l’allungamento della giornata lavorativa, il salario - reddito), consentono di mettere in evidenza sia le continuità con il modello industrial - salariale sia le radicalizzazioni delle forme di sfruttamento o delle opportunità di innovazione. Secondo la studiosa è proprio la nozione di lavoro che deve essere sottoposta ad analisi poiché in essa - nella sua formulazione biopolitica - si annida il cambiamento. Dunque, è il dispositivo lavoro nel suo complesso, e non soltanto la sua strutturazione organizzativa, che si modifica. Ricordiamo che un dispositivo è un insieme eterogeneo di saperi, poteri, istituzioni, regolamenti, enunciati morali, decisioni economiche e giuridiche che hanno degli effetti di potere diretti sul vivente. Il dispositivo bioeconomico è già di per sé produttivo in quanto organizza, predispone, condiziona i processi di soggettivazione in cui il vivente è incluso. Ed è, dunque, a tali processi di soggettivazione che va rivolta l’attenzione in quanto rappresentano il più immediato riflesso delle trasformazioni del lavoro nell’epoca postfordista. Si tratta di considerare quali effetti di potere e di soggettivazione può avere una prospettiva lavorativa che ponga l’agire, l’intraprendenza, la libertà (nella maggior parte dei casi solo apparente) di scelta al centro dell’attenzione. Non si tratta solo di una trasformazione tecnico - organizzativa dalla passività all’attività o dalla rigidità alla fluidità. È proprio la dinamica di potere interna ad ogni dispositivo che dev’essere indagata con specifico riferimento alla connessione tra regimi di sapere ed effetti di verità. Ed è in questi termini che il self made man organizza la propria attività economica, producendosi attivamente come soggetto che incarna ed incorpora gli imperativi biopolitici della produzione e del consumo. Questo è anche il motivo per cui la figura del produttore si indetermina con quella del consumatore; il cosiddetto prosumer del capitalismo cognitivo è un soggetto che modella i propri atteggiamenti di consumo ed i propri desideri anche sulla base di criteri soggettivi come l’aspirazione all’auto - realizzazione personale o il riconoscimento del talento. Le tecnologie bioeconomiche si basano su processi di bio - controllo che investono la strutturazione dell’identità, i valori simbolici, le prassi soggettive e sociali. Si tratta di forme di governo ed autogoverno che cadono al di fuori della sfera giuridica e politica e che sono influenzate unicamente dagli imperativi mutevoli e sfaccettati del mercato. Gli individui, in qualità di agenti economici, divengono dei veri e propri vettori di processi di soggettivazione/assoggettamento che sfruttano la valorizzazione bioeconomica delle qualità, delle competenze, dei talenti bio - sociali. Tutto ciò genera, secondo Bazzicalupo, un campo di immanenza indefinito, che vincola i processi di sog-

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gettivazione alle trame infinite, contingenti, mobili, della domanda e dell’offerta di mercato, privando il singolo di un progetto d’insieme, di una coerenza e di una visione generale del proprio racconto di vita. Si tratta di dispositivi bioeconomici nei quali i singoli rappresentano degli attori molto importanti che operano sia auto - assoggettandosi che auto - liberandosi e gestendo le multiformi dinamiche che li inglobano senza una visuale d’insieme che dà coerenza ai singoli frammenti d’esperienza. La responsabilità soggettiva è moltiplicata all’infinito ma è immersa nel flusso sfaccettato delle esperienze relazionali, comunicative, organizzative dei differenti soggetti che cooperano tra loro. L’individuo, in altre parole, possiede una libertà regolata dall’esterno, eterodiretta nei flussi infinitamente contingenti delle reti economiche e comunicative cui partecipa attraverso l’azione ed un’apparente possibilità di scelta. Ma questo statuto in realtà genera dei processi di soggettivazione che creano precarietà e vulnerabilità esistenziale, lavorativa, relazionale, affettiva in quanto il soggetto, immerso in questa apparente autonomia, difficilmente riesce a cogliere gli effetti di assoggettamento e spersonalizzazione cui va incontro allorché la sua vita si trasforma in una collezione infinita ed incoerente di esperienze prive di unità di senso. Molti studiosi che si occupano dei risvolti antropologici delle trasformazioni bioeconomiche moderne ritengono, infatti, che la perdita di senso e di progettualità dell’esperienza complessiva di vita del soggetto sia la prima e più drammatica ricaduta che la precarizzazione dei processi lavorativi comporta. Il mercato del lavoro, inoltre, funziona come un sistema che seleziona continuamente gli insider e gli outsider, che pone delle barriere e dei confini, che rigetta all’esterno gli individui considerati inadeguati o inefficienti. Il capitalismo cognitivo, ad esempio, organizza la conoscenza distinguendo tra saperi più o meno taciti, che valorizzano la posizione di chi li detiene, ed informazione codificata, che dequalifica i lavoratori. Ma questa è ancora una distinzione interna al sistema economico - conoscenza. Esistono anche coloro che rimangono esclusi in via transitoria o definitiva dalle relazioni economiche e lavorative e che sono privati, con l’interdizione ai percorsi d’accesso, anche della possibilità di scegliere. Il ricatto costante di un mercato del lavoro che continuamente frammenta ed individualizza i percorsi lavorativi e le esperienze di vita si rispecchia nella differenziazione delle condotte e delle condizioni occupazionali, imponendo la rottura dei legami di solidarietà reciproca tra lavoratori e rendendo impossibili forme di organizzazione sindacale. La proliferazione del lavoro atipico, la creazione, anche all’interno dei medesimi contesti lavorativi, di figure professionali che godono di condizioni contrattuali e diritti differenti creano incertezza, disagio, disaffezione ma soprattutto rottura dei legami di solidarietà sociale tra i lavoratori. Il rischio in cui costantemente si

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imbattono i lavoratori è di poter ricadere in ogni momento al di fuori dei confini del mercato del lavoro e di doversi in qualche modo reinventare un’esistenza ed un impiego. Pertanto, come sostiene Bazzicalupo, si profilano due livelli di esercizio del biopotere: il primo è regolato dai dispositivi d’accesso al mercato (le condizioni d’accesso di cui parla Rifkin) che distribuiscono le frammentarie posizioni derivanti dalla partecipazione alle reti relazionali di un mercato del lavoro sempre più modellato sui percorsi soggettivi e vitali degli individui. Il secondo, interno al sistema, coinvolge i lavoratori che partecipano attivamente al gioco economico e che sono toccati da logiche di condizionamento ed emergenza inedite, nelle quali possono anche generarsi degli spazi parziali d’autonomia o delle controfinalità. La selezione dei percorsi di accesso è regolata con riferimento ai processi di soggettivazione. È in essi, infatti, che il prosumer assume potere sulla propria vita ed, indirettamente, sul mercato. Il produttore/consumatore, infatti, agisce attivamente nel contesto economico trasformando l’intera gamma dei suoi comportamenti, le doti relazionali, la creatività, la socievolezza, l’empatia intersoggettiva, la cooperazione, la capacità di apprendimento e di disapprendimento in valori contrattuali. L’espressività, l’identità, la socialità del lavoratore sono codificate economicamente generando un meccanismo per il quale diventa sempre più impossibile distinguere nettamente percorsi di soggettivazione personale e processi di valorizzazione delle risorse umane stimolati ed indotti dalle dinamiche microfisiche del sistema bioeconomico. Anche l’enfasi posta sul benessere soggettivo, sulla salute, sulla cura del corpo, sulla promozione di stili di vita che affidano lo spazio/tempo non lavorativo all’industria del divertimento e dei servizi concorrono a realizzare tale codificazione economica. Ciò soprattutto in quanto queste tecnologie di potere/ sapere gestiscono e monopolizzano le dinamiche desideranti del prosumer fino a trasformare i momenti e gli atteggiamenti di consumo nella massima incarnazione dell’espressività e della creatività individuale. La gratificazione personale data dal consumo coinvolge pienamente, fino a saturarli, i processi desideranti che investono il corpo del produttore/consumatore moderno. E lo fanno in maniera ancora più subdola e silente dei meccanismi tradizionali ispirati all’economia del consumo di massa. La differenziazione dei prodotti, l’economia dei servizi, l’industria del divertimento trasformano il nesso consumo - soggettivazione in un insieme di processi ancora più invasivi sul fronte bioeconomico, perché interamente giocati su fenomeni di strutturazione identitaria e sociale. Tale sistema economico, inoltre, si fonda su un equilibrio instabile, immanente, contingente, un equilibrio che Bazzicalupo definisce omeostatico. I criteri di accesso si ispirano, infatti, ad una regolazione oscillante e continuamente mutevole, fondata non

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sull’inclusività professionale dell’individuo (valutazione delle prestazioni lavorative) ma sulla capacità soggettiva di instaurare rapporti di fiducia, di affiliazione, di compartecipazione. Dunque, il processo di soggettivazione individuale è lo strumento principale attraverso cui le forme del controllo - stimolo biopolitico penetrano nel corpo e nella mente del lavoratore per essere sfruttate e valorizzate in termini capitalistici. Il coinvolgimento della vita nell’attività del lavoro permette indubbiamente alle dinamiche di mercato di mercificare l’immaginario e di far leva sul serbatoio vitale del corpo, sul suo desiderio di relazione e di riconoscimento. E lo fa volgendo questo desiderio - energia in direzioni che siano saturabili, che possano essere soddisfatte attraverso merci e servizi che sono il simulacro di ciò che è desiderato. In questo modo colma la mancanza, infantilizza e dunque desoggettivizza le persone. Ma queste dinamiche (…) sono a loro volta produttive di relazioni e di comunicazioni. Un lavoro – colonizzato per motivi aziendali di produttività, di reengineering, di outsourcing, in direzione di una sempre più marcata autonomizzazione e personalizzazione – è per sua natura riflessivo, comunicativo, vive della relazione linguistica più aperta possibile con donne e uomini che interagiscono e fanno circolare idee, combinazioni simboliche, rapporti interpersonali47.

In questo senso, la definizione foucaultiana secondo la quale nel contesto del biopotere contemporaneo è in gioco l’esistenza dell’uomo non soltanto come essere sociale ma anche come organismo significa che è proprio nei processi di soggettivazione che si crea il discrimine tra una qualificazione dell’esistente tipica del ‘mondo umano’ ed una degradazione meramente organica. Il lavoro ha sempre rappresentato il crinale tra l’umanizzazione e l’animalizzazione, articolando la dialettica tra libertà e necessità, tra autonomia e bisogno. Nell’economia dell’immateriale e nei dispositivi del lavoro flessibile il paradosso dell’umano è prodotto nell’ottica della realizzazione di un intreccio invisibile di queste due condizioni: la creatività e la libera azione possono divenire sia veicolo della massima autorealizzazione che della massima sottomissione. Di certo la precarizzazione esistenziale rappresenta la faccia drammatica della medaglia della soggettivazione biopolitica, in quanto inscrive la volontà e la libertà umana in meccanismi che generano eteronomia e dipendenza, in tecnologie che agiscono sulla frammentazione del vissuto individuale e collettivo, sulla rottura della continuità, sulla perdita di senso. Se un certo approccio sociologico tende a spiegare tale parallelismo ricorrendo alla distinzione mente/corpo, la prospettiva che vorrei approfondire si discosta in parte da questo assunto. Il ricorso alla tesi del dualismo delle sostanze costituirebbe, infatti, una spiegazione insufficiente, in quanto sfumerebbe la portata paradossale del paradigma 47 L. Bazzicalupo, Soggetti al lavoro in A.A. V.V., Biopolitiche del lavoro, op. cit., p. 68.

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biopolitico - cognitivo. Infatti, nelle nuove forme di economia dell’immateriale non è implicata una rappresentazione antropologica che scinde il lato cognitivo da quello corporeo. I processi di soggettivazione chiamano pericolosamente in causa le ragioni dell’unità non quelle della differenza tra mente e corpo, unità che nel corso dei secoli è stata lungamente rivendicata e strenuamente conquistata nel sogno di liberazione delle dinamiche desideranti dai vincoli di potere dogmatici. Su tale conquistata libertà, tuttavia, si sono inseriti l’economia del benessere ed il neoliberismo che, prendendo di mira le logiche desideranti, promuovono il coinvolgimento globale dell’unità mente/corpo nei propri meccanismi di valorizzazione - riproduzione. Proprio per questo, soggettivazione ed oggettivazione coincidono nelle dinamiche di controllo - stimolo del biopotere: perché chiamano in causa le ragioni di un corpo che non è qualcosa di diverso rispetto alla mente, un organismo che può essere inserito senza difficoltà nel flusso molteplice e sfaccettato dell’economia immateriale. Ma il problema sorge dal fatto che la rappresentazione del corpo come un flusso desiderante libero e multiforme si scontra con la materialità, la corporeità del suo substrato. Così ad un’apparente celebrazione delle potenzialità e delle virtù del corpo, della salute, del benessere fisico corrisponde un’appropriazione ed uno sfruttamento delle dinamiche di valorizzazione della corporeità. È una corporeità resa immateriale ed astratta, privata del proprio corpo e, proprio per questo, costretta ad inseguire il flusso contingente ed imprevisto degli eventi. La valorizzazione bioeconomica della componente organica si intreccia e confonde con una capitalizzazione delle competenze tipicamente umane, come la socialità, la libertà d’azione, la creatività. Il risultato di tutto questo è un sentimento complessivo e generalizzato di vulnerabilità che sorge dalla percezione che intere generazioni, masse di corpi al lavoro, cooperino ad un progetto bioeconomico di deprivazione volontaria della propria soggettività. E ciò, tristemente, proprio attraverso i processi di soggettivazione che li qualificano come corpi produttivi o corpi che consumano. La medesima contraddizione che fa del corpo un contenitore deprivato del proprio contenuto, svuota anche il significato sociale dell’agire umano. La new economy sembra, a prima vista, valorizzare proprio il contenuto sociale - relazionale incorporato nell’attività lavorativa. Ciò è testimoniato dall’importanza che assumono i valori cooperativi, comunicazionali, le attitudini espressive dei singoli nell’attività di gruppo. Il problema è che tale relazionalità è organizzata in termini strettamente funzionali alla riproduzione di un sistema che garantisca un controllo non gerarchico e rigido sulle attività lavorative e, nello stesso tempo, semplifichi e renda più veloci le attività decisionali ed operative. Si tratta di una strutturazione modulare o reticolare del lavoro nella quale la cooperazione in piccoli gruppi è incentivata rispetto a catene gerarchiche e dispersive

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di comando. Ciò crea un’ottimizzazione della prestazione lavorativa in termini di tempo, di efficienza, di adattabilità agli imperativi del mercato ma - come detto - stimola anche una microfisica del controllo che consente al lavoratore di sviluppare una certa attitudine all’autonomia ed all’auto - responsabilizzazione. Si tratta di valori e principi che devono circolare nel contesto lavorativo al fine di creare quel clima generalizzato di fiducia e di collaborazione che è funzionale alla riproduzione economica. Ma cosa si intende in questo caso per autonomia? In che senso questo termine coincide con quello di auto - realizzazione? Per autonomia si intende la creazione di spazi, seppur marginali, di responsabilità operativa: una funzionale e controllata crescita delle capacità trasformative del soggetto. Queste sono veicolate soprattutto attraverso le competenze relazionali che sono pienamente investite nell’esperienza di lavoro di gruppo. È la capacità individuale di adattamento, di risoluzione dei problemi, di reazione a situazioni fortemente instabili che struttura tale concezione di autonomia. Il lavoratore per considerarsi ed essere considerato autonomo deve essere versatile e pronto a modificare se stesso, i propri comportamenti, le proprie competenze professionali, le proprie attitudini lavorative ed extra - lavorative in situazioni di crisi, di emergenza o in condizioni di razionalità limitata. Dunque, l’autonomia si esplica nell’accumulo di attitudini e competenze che rendono il lavoratore adattabile, flessibile alle esigenze del mercato. Ma non solo. Infatti, si tratta di attitudini e competenze valorizzate in un orizzonte di potenzialità, non di attualità. Ciò significa che le potenzialità caratteriali ed attitudinali del lavoratore sono impiegate nelle dinamiche relazionali e comunicative di gruppo. L’auto - realizzazione individuale coincide con la capacità di esprimere e saper impiegare produttivamente le abilità cooperative e lo spirito di sacrificio, contribuendo a realizzare una solidarietà economicamente funzionale. Ma questa organizzazione modulare e reticolare non esprime la componente simbolico - sociale contenuta nel lavoro. Al contrario, deve, in un certo senso, frammentarla e depotenziarla al fine di differenziare le forme di gestione e controllo dei processi di soggettivazione e dei percorsi lavorativi dei singoli. La realizzazione di condizioni di vita e di lavoro differenti, la diversificazione delle garanzie, dei diritti, degli status contrattuali genera divisioni tra i lavoratori, impedendo la formazione di un autentico spirito di gruppo o la messa in comune di saperi e competenze. Il dispositivo biopolitico che regola le condotte lavorative in un’economia flessibile deve, infatti, scongiurare in tutti i modi la formazione di legami sociali, la circolazione autonoma di idee, la solidarietà e l’organizzazione sindacale. Deve, al contrario, frammentare ed isolare gli individui sottoponendoli al controllo informale ed invisibile degli altri lavoratori. Nelle dinamiche di gruppo il lavoratore subisce il controllo dei colleghi che si esplica ad un livello molto più profondo

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del tradizionale sistema gerarchico - istituzionale. Si genera, pertanto, un processo di interiorizzazione del controllo che si sviluppa, però, in termini diffusi. Non si tratta soltanto della dinamica del controllo panoptico delle istituzioni totali. Nella maggior parte dei casi non esiste né costrizione fisica né un sistema consolidato di premi e di punizioni. L’auto - controllo nasce dallo spirito di competizione, dalla rivalità con i colleghi, dall’interiorizzazione del sentimento del dovere legato alla prestazione lavorativa. Ma tale sentimento, se frustrato, si traduce in un senso di inadeguatezza che investe globalmente l’individuo. Il lavoro di gruppo, infatti, contribuisce ad estendere la presa microfisica del potere bioeconomico su ogni caratteristica comportamentale e caratteriale del lavoratore. Si tratta del veicolo di una forma inedita e depotenziata di socialità che non mette in campo la condivisione di contenuti, saperi, esperienze di vita che potrebbero accomunare i lavoratori ma che realizza forme di collaborazione frammentate ed anonime nelle quali deve essere realizzato un equilibrio collaborativo. La componente sociale del lavoro, quindi, si modifica rispetto al periodo fordista. Nel modello taylor - fordista, come detto, il lavoro era strettamente inquadrato e standardizzato, tuttavia la componente sociale che incorporava era molto forte e consentiva di parlare di una strutturazione sociale di classe. I lavoratori delle diverse classi sociali erano uniti da forme differenziate di solidarietà e dalla condivisione di un universo di valori politici, sociali, culturali. A questa tematica fa riferimento F. Chicchi in un interessante contributo dal titolo Capitalismo, lavoro e forme di soggettività, nel quale parla della progressiva disconnessione antropologica del lavoro di sussunzione sociale nei termini di una separazione della componente poietica da quella pragmatica dell’attività lavorativa: Se nel capitalismo industriale l’azione di sottomissione del lavoro al capitale si attivava attraverso il sempre più stretto comando sull’attività di poiesis del lavoro, e cioè attraverso la de - strutturazione prima e l’oggettivazione poi del sapere professionale di ciascun lavoratore coinvolto nel processo lavorativo, nel post - fordismo l’azione di controllo agisce ad un livello differente, e cioè non più direttamente costringendo nel piano produttivo l’attività lavorativa estrinseca, ma sull’altro lato generico del lavoro, quello sociale e pre - individuale della praxis. Il Capitale agirebbe cioè non più “dominando” immediatamente l’azione trasformativa sulla materia prima ma sottomettendo il senso sociale del lavoro, che diverrebbe, in quest’ottica, una mera attività strumentale volta a sostenere e a favorire la capacità di consumo di ciascun individuo. (…) Tale meccanismo di separazione interno al lavoro provocherebbe in altri termini la disconnessione del lavoro dalla sfera pubblica, escludendo l’individuo dalla pratica di costruzione partecipata del senso del mondo che abita48. 48 F. Chicchi, Capitalismo, lavoro e forme di soggettività in AA.VV., Reinventare il lavoro, Sapere 2000 - Edizioni multimediali, Roma, 2005, p. 171.

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Tale divaricazione, dunque, genera un profondo individualismo che intacca i processi di socializzazione sui quali la costruzione della soggettività umana si basa. Il post - fordismo induce illusoriamente il soggetto a considerarsi libero ed autonomo, bastante a se stesso, operatore del suo destino, self made man. Ma tale illusione si traduce nella condizione paradossale del soggetto moderno: il capitalismo flessibile genera e riproduce le situazioni lavorative, economiche, etiche, politiche che producono una disconnessione tra l’individuo e la sua esistenza sociale per ricomprendere all’interno dei propri codici strutturali di produzione le capacità e le competenze estromesse dai processi di socializzazione. Dunque, la dissociazione che la logica bioeconomica deve presupporre è radicata sia nella componente organico/corporea degli individui sia nelle dinamiche socio - politiche che investono la collettività. La rottura dei legami sociali non cancella la sfera pubblica, contribuisce a realizzare una pericolosa commistione tra pubblico e privato. è la possibilità di una separazione tra le due sfere che viene a sfumare in una logica oikonomica come quella che investe il moderno capitalismo cognitivo. La direzione delle condotte che opera nel sistema del lavoro flessibile non soltanto disarticola l’agire pubblico ma anche il privato individuale, vendendo sul mercato le dimensioni più intime dell’esistente, piegandole ad una logica di valorizzazione economica e di infinita scambiabilità. Con il prevale dei diritti d’accesso ciò che è proprio, e che dovrebbe ricadere nella sfera del privato, è reso pubblico, cioè pubblicizzato, spettacolarizzato. Non si tratta di una modalità di condivisione che implica la creazione di uno spazio collettivo di relazione. Lo spazio spettacolarizzato e pubblicizzato nel quale i vissuti individuali, gli affetti, i sentimenti sono esposti, sfruttati, prodotti, enfatizzati o repressi, utilizzati, in ogni caso, per fini di valorizzazione economica è uno spazio oikonomico nel quale viene meno ogni confine o separazione tra sfera pubblica e sfera privata. L’aveva già intuito Debord quando, negli anni Sessanta, parlò di società dello spettacolo49: regime dell’immagine nel quale la distinzione tra pubblico e privato viene meno ed in cui sia la dimensione pubblica che quella privata risultano snaturate dagli imperativi della produzione e del consumo. L’autore, naturalmente, faceva riferimento alla società del consumo di massa. La massificazione minacciava soprattutto la totalizzazione, la perdita dei riferimenti identitari. Oggi il rischio è quello opposto. La ricerca spasmodica di identità, di differenziazione e di senso diviene il maggior veicolo di penetrazione della logica capitalistica che sfrutta le componenti immateriali e simboliche dei marchi e della pubblicità per modellare gli individui, inserendosi negli aspetti più intimi dell’esistenza. La destrutturazione degli spazi sociali è la precondizione della socializzazione bioeconomica. 49 Cfr. G. Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di P. Salvadori e F. Vasarri, Baldini & Castoldi, Milano, 2004.

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Laddove un mondo cade in frantumi, non riuscendo più ad esprimere sentimenti di solidarietà sociale e spazi di condivisione politica, culturale, esistenziale si inserisce la dinamica di produzione-consumo. Se non esistono più spazi di socializzazione, si possono pur sempre creare contenitori pseudo - sociali come le communities di consumo o i centri commerciali, dove la condivisione simulata di valori e simboli passa per la merce esposta sui banconi, trasformata in pretesto di aggregazione. Crisi della socialità e precarietà di vita sono aspetti posti al centro dell’attenzione anche nell’esperienza etnografica di R. Sennett50. Il percorso di ricerca di questo autore si sofferma sulle tematiche del lavoro e delle istituzioni e sulla dimensione culturale che in tale relazione è implicata. Per cultura in questo caso devono essere intesi, in senso lato, l’insieme delle pratiche e dei valori che circolano attraverso le istituzioni e gli individui. Nell’opera La cultura del nuovo capitalismo l’autore richiama i progetti di ricerca che, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, lo impegnarono nell’approfondimento di tematiche connesse con l’organizzazione dei percorsi lavorativi e delle esperienze di vita dei soggetti da lui intervistati51. Tale riflessione diacronica consente di indagare le ragioni della continuità o della discontinuità tra il modello a capitalismo sociale e quello a capitalismo flessibile. La vulnerabilità costituisce il punto focale di tale riflessione. L’autore, infatti, si chiede quali sono i valori e le pratiche, qual è la cultura che può tenere insieme le persone se le istituzioni nelle quali vivono si frammentano. Già negli anni Novanta in un fortunato studio52 che poneva al centro dell’attenzione i percorsi di precarizzazione di lavoratori quasi tutti appartenenti alla middle class, lo studioso aveva compreso che i riflessi più pesanti della destrutturazione dei riferimenti sociali, istituzionali e politici si riversavano sul vissuto individuale ed, in particolare, sulla possibilità di attribuire una coerenza, una continuità esistenziale, una progettualità alle esperienze di vita. I soggetti intervistati sembravano essere non solo coscienti delle trasformazioni intervenute nel mondo del lavoro ma, in alcuni casi, anche pienamente inseriti nell’etica dell’economia flessibile. Tuttavia essi non riuscivano ad elaborare e a prendere coscienza del senso di un incombente fallimento, se non quando si trovavano effettivamente in stato di disoccupazione o quando sperimentavano la progressiva instabilità dei loro percorsi lavorativi. Dunque, secondo Sennett, l’assenza di coerenza, la precarietà, il senso del fallimento generano una sorta di dissonanza cognitiva negli individui, i quali aderiscono razionalmente ad un sistema che promette autonomia, libertà, indipen50 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, op. cit. 51 Cfr. R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, trad. it. di C. Sandrelli, Il Mulino, Bologna, 2006. 52 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, op. cit.

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denza a chi dimostra di sapersi adattare alle situazioni, modificando continuamente i propri ritmi, stili di vita e competenze in base alle esigenze mutevoli del mercato. Ma questa dimensione si scontra con quella che l’autore ha definito come costanza dei caratteri, cioè la necessità antropologica di dare una coerenza ai percorsi di vita, di attribuire alla propria attività un marchio identitario. I percorsi identitari degli individui, infatti, rispondono non tanto alla domanda «chi sono?» ma a quella «cosa faccio?», per cui l’attività lavorativa rappresenta uno degli aspetti più importanti nella formazione dei percorsi di soggettivazione. La dissonanza cognitiva e l’erosione del senso di stabilità dei caratteri creano quella vulnerabilità sociale che si traduce anche nell’impossibilità di narrare la propria esperienza di vita. I racconti personali, spesso, non riescono ad esprimere la continuità spaziale e temporale dei corpi e delle menti al lavoro. E proprio questa tematica è ripresa nella sopracitata opera La cultura del nuovo capitalismo in cui l’autore riassume le tematiche trattate parlando, in particolar modo, di due questioni intorno a cui ruota il problema della destrutturazione dei percorsi identitari dei lavoratori. La prima riguarda il tempo. Se le istituzioni non costituiscono più un quadro unitario e stabile, come far fronte ai percorsi a lungo termine che investono la vita ed il lavoro? Si determina un’incongruenza temporale tra esperienze biografiche che si sviluppano nel medio/lungo termine ed i tempi della produzione e del consumo che esigono il breve termine. E ciò è vero non soltanto nella sfera prettamente economica. Secondo Sennett i ritmi divoranti del consumo si estendono anche allo spazio politico, divenendo metafora della crisi della partecipazione generata dalla mediatizzazione e spettacolarizzazione del discorso politico. Privato di pubblicità, lo spazio della politica si riduce al consumo di slogan che si sforzano di differenziare un prodotto politico appiattito ed omogeneizzato. Questa può essere anche considerata la radice oikonomica dei fenomeni di disaffezione o disinteresse politico che la maggior parte dei cittadini nutre oggi nei confronti di una politica sempre meno rappresentativa di spazi di partecipazione. Ma tale dimensione, interpretata dall’autore nei termini di una passione che consuma se stessa, ha una carica dissipativa che si esprime nell’atto dell’incorporazione, del consumo veloce di tutto ciò che ha una durevolezza ed una stabilità. Ed ecco ritornare la dimensione temporale. È la temporalità degli oggetti, dei corpi, delle situazioni sociali che tende ad essere ridotta, frammentata o addirittura annullata nell’iper - estensione del desiderio di consumo a tutto ciò che esiste. La società del consumo riduce i tempi dell’incorporazione e della metabolizzazione di ciò che è consumato, rendendo indispensabili anche beni e servizi accessori e annullando la durevolezza delle corse e dei corpi. Tutto è rimesso nel flusso del consumo immediato, che agisce sui processi desideranti, accorciando o annullando il lasso di tempo che

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separa l’insorgenza del desiderio dalla soddisfazione dello stesso. Ma ciò significa – come fa notare l’autore – che si crea un circolo in cui il desiderio consuma continuamente se stesso semplicemente riducendo la distanza temporale e spaziale tra la potenza desiderante e l’atto di consumo. Come dire, moltiplicando i desideri si snatura l’emozione, il coinvolgimento, il significato che il moto desiderante ha nel vissuto individuale e collettivo. Questo, d’altronde, non significa che si riducono gli stimoli desideranti; al contrario, l’iper - stimolazione del consumatore è uno degli obiettivi principali dell’economia di mercato, soprattutto nella sua configurazione immateriale. Ma la moltiplicazione degli stimoli riduce l’intensità del coinvolgimento che, a sua volta, deve essere amplificato esponenzialmente ricercando nuove e differenziate proposte di consumo. È questo il circolo vizioso del consumo che tende a coinvolgere non soltanto beni e servizi ma anche corpi al lavoro. In questa fase, la dinamicità, l’adattabilità, la flessibilità spontanea o indotta dei corpi e delle menti deve essere iper - stimolata, agganciandola agli imperativi della produzione just in time. La seconda dimensione coinvolta nei cambiamenti del modello biocapitalista è la qualifica. Si tratta del problema della rapida obsolescenza dei saperi e delle competenze dei lavoratori. Secondo Sennett, ciò avviene soprattutto perché il nuovo ordine emergente combatte contro l’artigianalità del lavoro, intesa come attitudine a svolgere con attenzione, costanza e dedizione una determinata attività. L’artigianalità implica, infatti, un saper fare e delle competenze radicate che investono non soltanto abilità tecniche e conoscenze professionali ma anche una certa esperienza trasmessa o un insieme di saperi maturati nel tempo. Questa presuppone, inoltre, il coinvolgimento attivo del vissuto e la coerenza biografica del racconto. Riconoscersi in ciò che si fa è un presupposto indispensabile per scoprire chi si è o chi si vuole diventare. Il problema che la precarizzazione dei percorsi lavorativi pone innanzi ai soggetti è, da questo punto di vista, duplice. Discontinuità professionale significa assenza di coerenza lavorativa e difficoltà di formazione ma anche impossibilità di immaginare il futuro. La precarietà si traduce, dunque, in una disarticolazione della percezione temporale e spaziale che investe il passato, privato del beneficio di una storia professionale condivisa e trasmessa, e si proietta al futuro nei termini di una crisi dell’autocomprensione. Quest’ultimo aspetto potrebbe provocare, a sua volta, indebolimento del prestigio sociale ed abitudine al rischio. Come Sennett aveva già dimostrato ne L’uomo flessibile riportando il caso di una donna di mezza età che aveva tentato l’inserimento professionale nel campo della pubblicità, il rischio è un orizzonte che i lavoratori imparano ad accettare in nome della ricerca di un presunto spazio di autonomia e di autogestione lavorativa. Ma in questa come in altre storie narrate da Sennett, la percezione di poter

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gestire la contingenza sparisce dopo le prime esperienze lavorative; l’attitudine al rischio, infatti, coinvolge globalmente il soggetto e si espande all’intera vita del lavoratore, impedendogli di dare coerenza agli eventi e di poter impiegare le competenze maturate nel tempo. Nel caso specifico di questa donna la precarietà era aggravata da un sentimento di inadeguatezza che nasceva dalla presunta obsolescenza delle sue conoscenze e dalla percezione di essere anziana. Dunque, l’artigianalità del lavoro (caratterizzata dalla componente tempo e da quella forma di oggettività che si esplica nella valutazione del saper fare e delle competenze professionali sul terreno in cui si esprimono) è per lo più sostituita con il principio meritocratico che fa emergere la componente del talento individuale. Nel talento l’ereditarietà delle competenze, delle cariche e delle professioni è sostituito da un principio maggiormente democratico che annulla le differenze iniziali ed inscrive il criterio di valutazione nella sfera personale. Sennonché la valutazione meritocratica presuppone sempre che siano stabiliti dei criteri che facciano da metro di giudizio. Il talento è valutato prendendo in considerazione la persona nel suo complesso e sviluppando, soprattutto, un’importante riflessione sulle potenzialità del soggetto. La valutazione del potenziale, infatti, è l’aspetto fondamentale per un mercato del lavoro che esige il reclutamento di talenti che sappiano manifestare flessibilità e capacità di adattamento e reinvenzione. Ma quando si parla di potenzialità non ci si muove sul terreno delle competenze che il soggetto ha ma su quelle che potrebbe avere. Inoltre, la potenzialità possiede uno statuto particolare: è qualcosa che il soggetto deve possedere in maniera innata ma che può anche evolversi e perfezionarsi. Parlando di talento si fa riferimento, dunque, ad una dimensione intermedia tra condizione biologica ed apprendimento sociale. Se la componente innata del talento può essere colta con specifici indici di valutazione (Sennett descrive il SAT, Scholastic Aptitude Test), la componente acquisitiva deve essere stimolata ed adeguatamente diretta attraverso interventi specifici. Nella maggior parte dei casi, comunque, la valutazione delle potenzialità dei lavoratori è condotta dall’istituzione anche attraverso la gestione di complesse dinamiche di affiliazione o fidelizzazione. La valutazione del potenziale, dunque, può divenire uno strumento di controllo e direzione del lavoratore che interpreta il proprio vissuto personale e lavorativo come un processo in divenire. Se si è consapevoli di avere delle potenzialità non pienamente espresse si aspetta soltanto che qualcuno fornisca le opportunità e gli strumenti per poterle esprimere. Il criterio potenziale produce esiti di autocontrollo ed auto - disciplinamento in quanto trasforma il giudizio soggettivo dell’individuo in un bilancio provvisorio ed incompleto che aspetta solo di poter essere espresso in maniera piena e coerente. La capacità potenziale è sogno di crescita, è attesa di emancipazione. Ma fin quando il soggetto al lavoro

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non ottiene un pieno riconoscimento rimarrà un individuo in continuo stato di bisogno, eterodipendente, incapace di scegliere autonomamente. Egli permane in una condizione di sospensione che ne fa un essere infantile che deve crescere. Ma questo paradosso non può essere dipanato: la potenzialità delle attitudini, delle conoscenze, delle competenze deve rimanere tale. Deve esserci, dunque, un nocciolo duro di potenzialità non attualizzabili. A ciò va aggiunto – come abbiamo più volte accennato – che il talento investe l’intera personalità, non soltanto le competenze professionali e lavorative. Scrive Sennett: I giudizi sulla capacità potenziale sono ben più personali di qualsiasi stima delle prestazioni. La prestazione collega l’Io a condizioni sociali ed economiche, a circostanze accidentali e opportunità. La capacità potenziale, invece, riguarda soltanto l’Io. L’affermazione «ti manca il potenziale» è molto più devastante dell’affermazione «hai combinato un pasticcio», perché contiene un giudizio di fondo su chi tu sei. Essa comunica la percezione dell’inutilità in un senso più profondo53.

In termini foucaultiani, la valutazione dei potenziali rappresenta una tecnologia microfisica di potere che si inserisce nel dispositivo - lavoro. Attraverso questa ed altre forme di controllo - stimolo le istituzioni nella loro configurazione organizzativa di rete estendono biopoliticamente la presa sul vivente/lavoratore. Ciò è testimoniato anche dall’utilizzo, nel linguaggio corrente dell’istituzione, di termini come persona per indicare il dipendente. Tale uso discorsivo è attestato da alcuni studi etnografici54 e dimostra come la componente individuale venga incorporata nel discorso di potere biopolitico. Ma, come sostiene R. Esposito, lo status della persona nella nostra tradizione filosofica rimanda ad una duplice sfera, quella dei diritti - ed in questo caso indica il cittadino - e quella biologica ed in questo caso presuppone il concetto di evoluzione bio - organica55. Dunque, anche il concetto di persona, come quello di talento, ha una valenza paradossale se inserito nella logica bioeconomica capitalistica: testimonia la condizione di sospensione del vivente che lavora tra la dimensione biologica e quella giuridica. Questa riflessione emerge anche dall’esperienza etnografica: Ritengo che nel concetto di persona utilizzato in azienda si possano distinguere due significati essenziali: uno (…) fa disordinatamente riferimento ai diritti. In questa accezione, “persona” equivale di fatto a “cittadino”, uomo adulto e consapevole, in grado di comprendere ed interagire politicamente con il mondo che lo circonda, influenzandolo positivamente con il proprio apporto di idee e di 53 R. Sennett, La cultura del nuovo capitalismo, op. cit., p. 92. 54 Cfr. L. Burgazzali, La metafora della “persona” come pratica manageriale: una riflessione etnografica, in A.A. VV., Biopolitiche del lavoro, op. cit. 55 Cfr. R. Esposito, Terza persona, Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit.

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creatività. Poi, però, c’è l’altro aspetto, intrinsecamente connesso al primo, che è quello dell’essere biologico: la “persona” non è semplicemente vita, è ovvio, ma, quando non ha ancora raggiunto un livello di maturazione sufficiente ad esercitare pienamente i suoi diritti civili, il discorso aziendale la retrocede. Al dipendente viene offerta la possibilità di crescere. Non di “imparare”, non di “apprendere” ma di crescere, come il bimbo che deve nutrirsi ed andare a scuola per diventare grande. Finché non è “pronto” ad agire come una “persona” vera e propria, il dipendente si trova in uno stato di minorità e il suo essere giuridico si confonde, o perlomeno si sovrappone, alla sfera biologica. Soltanto qui, almeno nel discorso, fa capolino la nuda vita56.

Dunque, la metafora della persona va di pari passo con quella della crescita. Ma la definizione della condizione del lavoratore flessibile come un potenziale homo sacer57 dei nostri tempi merita una riflessione aggiuntiva. Ad essa sarà dedicata la parte conclusiva di questo lavoro. 4.5. Branding

Il brand, composto da logo e nome della marca, è l’elemento che genera, contiene ed esprime il valore nel capitalismo cognitivo ed è riconducibile alla dimensione immateriale ed informativa del prodotto. Si tratta di un aspetto che fa della componente socio - comunicativa incorporata nelle merci la dimensione emergente. La cultura mediatica che ruota intorno alle tecnologie elettroniche (come Internet) costituisce l’ambiente ‘naturale’ per la diffusione del valore immateriale del brand, il quale si modella proprio sfruttando i multiformi canali della comunicazione umana, traendo da essi un vero e proprio surplus etico. L’enorme amplificazione quantitativa degli stimoli espressivi ed esperienziali resi possibili dai new media crea, infatti, un ambiente immateriale particolarmente adatto alla diffusione ed alla proliferazione di culture commerciali fondate su strategie di “brandizzazione” che sfruttano le componenti emotive e socio - culturali dei soggetti per incrementare in maniera diretta o indiretta il proprio valore economico. In questo caso, infatti, il brand identifica non tanto le caratteristiche qualità associate al prodotto ma gli aspetti espressivi con cui il prodotto si presenta sulla scena sociale. La socialità, le emozioni ed i sentimenti umani sono le componenti principali che confluiscono nel valore del brand – o meglio – costituiscono ciò che del brand è suscettibile di infinita valorizzazione. Bisogna ricordare, infatti, che sono gli individui che attribuiscono al logo una specifica 56 L. Burgazzali, La metafora della “persona” come pratica manageriale: una riflessione etnografica, in A.A. VV., Biopolitiche del lavoro, op. cit., p. 120. 57 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Potere sovrano e la nuda vita, op. cit.

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identità, un carattere, delle qualità emotive o sensoriali. Il brand, dunque, assume un’importanza centrale e soppianta il valore materiale del prodotto, in quanto è l’unica dimensione nella quale la prossimità tra sfera vitale ed economica può essere pienamente sfruttata per produrre valore monetario e finanziario. Se è vero che la socialità ed i processi di costruzione simbolica delle identità sono sempre passati per l’intermediazione degli oggetti, compresi i beni di consumo, il grado di immaterialità del brand contiene una ricorsività che tende sempre più ad essere associata ai ritmi biologici della vita. Non si tratta solo della complessa tematica postmoderna della destrutturazione dei tradizionali meccanismi di costruzione simbolica, del senso di socialità e dell’emergere dell’individualismo. Un discorso simile si potrebbe fare se la valenza simbolica dei brand o la forza coesiva delle brand communities (comunità di marca) non tenesse. Al contrario, la forza con cui oggi tali dimensioni riescono a divenire veicolo di socialità o a rappresentare il maggior collante simbolico - identitario dovrebbe spingerci a problematizzare in maniera ancora più attenta il radicamento simbolico della cultura del brand nella vita umana. Quanto detto, inoltre, giustifica pienamente il punto di vista foucaultiano. In primo luogo, infatti, bisogna affermare che la cultura del brand va di pari passo con quel processo di governamentalizzazione oikonomica cui Foucault attribuì la responsabilità più diretta della sovrapposizione tra paradigmi disciplinare e biopolitico. Il discorso di verità della bioeconomia contemporanea non è un regime disciplinare come quello presente nel sistema di produzione taylor - fordista. La bioeconomia si dispiega in un regime di semi - libertà, cioè di una libertà al contempo stimolata e limitata che genera valore economico. Nella logica del brand l’emotività e la sensibilità umana sono indotte a giocare un ruolo di primo piano nel processo di progressivo trasferimento dei significati e delle valenze simbolico - vitali dal corpo individuale e collettivo al general intellect. Ed in questo strano paradosso i valori materialistici veicolati dalla cultura del capitalismo cognitivo si intrecciano con un processo di progressiva astrazione e generalizzazione delle competenze espressivo - sociali degli individui. Ciò significa che l’emotività, la sensibilità, le dimensioni affettive si allontanano sempre più dal proprio retroterra corporeo per divenire oggetto della comunicazione mediatizzata e della valorizzazione economica. Da ciò discende l’ennesimo paradosso: le componenti emotivo - desideranti risultano potenziate ed estese quantitativamente, mentre la capacità di esprimerle diviene sempre più impersonale, incorporea, astratta, uniformata. È al livello della rappresentazione che qualcosa sembra essersi spezzato. La carica simbolica del logo non consente di vivere e di mettere in comune la complexio oppositorum. Produce, al contrario, una scissione tra bios e logos tale

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per cui un’emotività sempre più esasperata si stacca dal corpo e diviene la componente comunicativa più importante dell’economia immateriale. Dunque, al ciclo di vita del prodotto si sostituisce il ciclo di vita del brand. La metafora organica è utilizzata in questo caso in maniera ancora più specifica in quanto il brand, a differenza del prodotto, non racchiude solo le componenti funzionali ma anche e soprattutto quelle espressivo/sensoriali. In tal modo si esprime anche A. Arvidsson in un recente contributo intitolato La marca nell’economia dell’informazione: I brand sono (…) esempi di capitale talmente socializzato da riuscire a penetrare nel più piccolo dettaglio delle relazioni della vita quotidiana, al punto da trasformarsi in un contesto di sviluppo della vita. E viceversa, in quanto capitale contestuale, i brand divengono sia un mezzo di produzione da utilizzare in un processo autonomo di costruzione di un comune, sia la manifestazione di una nuova forma di dominio capitalista che regola tale autonomia produttiva attraverso particolari “facoltà di fare”. La marca, come il capitale cognitivo in generale, agisce mediante il contesto bio - politico dell’esistenza per sussumere la qualità fondamentale della vita umana - la vera “nuda vita” dell’umanità, secondo la definizione formulata da Agamben: la capacità di produrre un mondo sociale comune58.

Le marche sono utilizzate, dunque, come uno strumento che direziona la vita quotidiana e soprattutto la capacità di scelta del consumatore, spingendolo a maturare un elevato grado di attenzione verso il prodotto. In questo caso il brand sviluppa un programma d’azione in grado di anticipare determinate motivazioni dell’agire e le loro conseguenze. Ciò significa che l’individuo trova nella marca non solo la motivazione presente ma anche e soprattutto quella futura. La sfida che i progettisti di brand si pongono è quella della potenzialità. La marca ha un valore virtuale o potenziale in quanto non si limita a rappresentare un prodotto ma ne fornisce il contesto d’utilizzo. La marca è una cornice d’azione, può essere definita goffmaniamente come un frame59. I brand, dunque, conferiscono al consumatore la facoltà di fare, non sostituendosi pienamente ad essi ma dando significato e senso alle azioni, anticipando quelle future. Accompagnano, pertanto, l’azione definendone il contesto, i valori, gli orizzonti di senso, le sensazioni associate a status sociali e specifiche identità. Si comprende allora come la materialità del prodotto possa divenire secondaria rispetto alla dimensione immateriale o virtuale di senso veicolata dal brand. Esso non rappresenta il prodotto ma l’idea del prodotto e, nella maggior parte dei casi, racchiude un insieme di significati simbolici, identitari, sociali, emotivi molto 58 A. Arvidsson, La marca nell’economia dell’informazione. Per una teoria dei brand, trad. it. di E. Tomassucci, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 31. 59 Cfr. E. Goffman, Frame Analysis: l’organizzazione dell’esperienza, a cura di I. Matteucci, Armando Editore, Roma, 2001.

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complessi e sfaccettati. I brand più conosciuti possono addirittura fare a meno dei prodotti in quanto sono dotati di vita propria, hanno una fisionomia, una personalità, un carattere autonomo e dotato di longevità sicuramente maggiore dei singoli beni o servizi che si prestano a rappresentare. Ed è l’attribuzione di una personalità o di un carattere alla marca che consente al consumatore di identificarsi con essa e fare del possesso di un’idea la chiave della realizzazione di molteplici e sfaccettati stili di vita, auto - rappresentazioni personali e sociali ed opportunità di socializzazione. La personalità del brand influenza ed affascina il consumatore in quanto è percepita come una componente autonoma ed astratta dalla materialità dei prodotti commercializzati. Supera le contingenze attuali ed esprime una complessità emotiva, esperienziale, sensoriale, affettiva difficile da racchiudere in singoli oggetti. Dunque, il valore del brand non è oggettivamente valutabile, esso dipende dai significati e dalle idee che rappresenta ed esprime attraverso la personalità che incarna. È attraverso il brand che si manifesta l’aspirazione all’autonomia dell’homo oeconomicus moderno. La ricerca dell’autorealizzazione è veicolata, infatti, da simboli fortemente identificativi di valori sociali o personali indotti dall’azienda o auto - prodotti dal consumatore; in ogni caso, è intorno a tali valori che si costruisce l’auto - percezione soggettiva e si recupera l’autenticità persa. Il brand, infatti, ha il potere di unificare il passato ed il futuro, di rendere il tempo continuo e privo di interruzione. Le tecniche utilizzate nelle politiche di marketing delle aziende, ad esempio, sfruttano il potere evocativo del marchio per rigenerarsi e dotarsi di nuovi significati, proiettandosi nel futuro ed innescando un complesso processo di scavo storico alla ricerca dell’essenza più intima che contraddistingue il marchio60. Per questo si può dire che le strategie di branding si fanno portavoce di una vera e propria ricerca dell’autenticità che si rende necessaria nella ridefinizione dell’immagine di marca come nei processi di socializzazione bioeconomica del consumatore. Inoltre, a differenza dei beni materiali che divengono obsoleti, il brand è continuamente proiettato al futuro, può innovarsi pur riuscendo a mantenere le proprie caratteristiche genetiche. Per il consumatore è sinonimo di dinamismo e capacità continua di apprendimento. In questi termini si può comprendere, allora, come mai le grandi multinazionali abbiano nettamente differenziato le fasi di produzione dei beni materiali (cui dedicano sempre meno risorse e finanziamenti, de - localizzando le produzioni ed abbattendo i costi) dai processi di progettazione, ricerca, re - styling del brand. Attraverso l’economia del brand le imprese si garantiscono vita eterna. Esse, infatti, possono modificare nel tempo la propria fisionomia adattandosi alle esigen60 Cfr. M. Fioroni, G. C. Titteron, Brand Storming. Gestire la marca nell’era della complessità, Morlacchi, Perugia, 2007.

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ze mutevoli del mercato globale e investendo nei processi di finanziarizzazione senza curarsi della trasformazione della produzione materiale. Inoltre – come accennavo precedentemente – la marca ha la capacità di inserirsi nelle dinamiche di socializzazione esprimendo la dimensione immateriale ed espressiva non solo dei beni e servizi ma dell’idea che ad essi si associa. Il processo di posizionamento di una marca sul mercato dipende dal livello di attenzione che ottiene da parte dei consumatori. I manager chiamano brand equality la capacità della marca di generare valore captando l’attenzione dei consumatori in base a ciò che essi pensano del brand o dell’uso che ne fanno. L’attenzione può essere parzialmente catturata tramite la pubblicità, il design e il brand management ma essa discende soprattutto dai canali esterni della comunicazione sociale che mantiene un certo grado di autonomia. Il processo produttivo che dà vita ai brand, dunque, si genera soprattutto all’esterno dell’organizzazione del management d’azienda, sfruttando i canali della comunicazione e della socialità umana. Sono i consumatori che rispondono positivamente o producono interamente il frame, la cornice di senso, l’idea intorno a cui si costruisce il valore del brand. Ma è proprio in simili processi di posizionamento che viene messo in campo il regime di libertà controllata dell’homo oeconomicus moderno. L’individuo produce se stesso attraverso la marca, o meglio, produce l’immagine di se stesso – ciò che crede di essere o che vuole essere – attraverso il frame branding. In queste condizioni gli individui si trovano in quel regime di semi - libertà o di libertà diretta e controllata di cui parla Foucault a proposito del neoliberalismo moderno. Il risultato auspicato è, in ogni caso, il coinvolgimento attivo del consumatore che diviene anche produttore. Oggi la produzione si allontana dai luoghi di lavoro e si configura sempre più come un processo che deriva da una serie di attività precedentemente considerate parte del variegato universo del consumo. Accanto alla sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo libero è l’appropriazione delle esternalità a segnare una trasformazione radicale. Il capitalismo immateriale, infatti, sfrutta sempre più il capitale sociale degli individui trasformandolo in capitale economico. Ciò è riscontrabile in un’ampia gamma di strumenti manipolatori che si diffondono microfisicamente attraverso la socialità di rete e l’on - line economy (siti di incontri, giochi di ruolo sul Web, social network, ecc.). Inoltre, M. Lazzarato61 segnala che il lavoro immateriale che scaturisce dall’attività relazionale, ludica, comunicativa degli utenti della rete e dei consumatori è in gran parte libero, cioè non retribuito e non supervisionato. Ciò produce un surplus etico o una plusocialità che costituisce l’ambiente più idoneo per la produzione/valorizzazione economica. 61 Cfr. M. Lazzarato, Lavoro immateriale: forme di vita e produzione di soggettività, Ombre corte, Verona, 1997.

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È, dunque, difficile individuare una differenza tra lavoro produttivo e comunicazione non produttiva o consumo. Le strategie moderne di brand management che riguardano nello specifico il branding dei beni di consumo ed il Customer Relationship Management puntano alla commodizzazione della produzione dei consumatori, nonché all’anticipazione, programmazione, creazione di esigenze di consumo che riproducano determinate identità di marca. Strategie di questo tipo sono ad esempio, il cool hunting (caccia alle tendenze) ed il marketing virale, che si rivolgono a segmenti di consumatori particolarmente attivi, oppure le tecniche di posizionamento mediatico come la pubblicità, la creazione di comunità di marca ed il branding urbano (predisposizione di branding spaces). Ma esistono anche numerose strategie di branding su Internet (Internet economy) che agiscono creando ambienti pre - strutturati per l’esercizio di forme controllate di libertà. Dal punto di vista dei brand manager gli individui utilizzano le marche come mezzi di produzione. Le strategie di branding che si sviluppano a partire dagli anni Ottanta differiscono parecchio dalle strategie di marketing di stampo fordista che miravano all’imposizione di forme di consumo e di comportamento ai consumatori. Il marketing esperienziale aspira, al contrario, alla trasformazione dei beni e dei servizi in strumenti attraverso i quali gli individui possono costruire i propri significati. I consumatori, dunque, non sono disposti a pagare per il brand in sé ma per l’esperienza, la sensazione, l’emozione che il brand consente di realizzare. I manager si attendono, quindi, che i soggetti aggiungano valori più o meno personali alla marca, che la incorporino nei loro stili di vita, che producano le loro interazioni a partire dall’ambiente strutturato dal marchio. Per questo, le strategie di branding più utilizzate fanno riferimento a differenti tipologie di interazione consumatore/marchio/prodotto. Una strategia che negli ultimi decenni si è diffusa notevolmente è il marketing virale (chiamato anche guerriglia marketing e stealth marketing) che consiste nello stimolare il coinvolgimento del consumatore nella diffusione e nella circolazione del brand, attraverso il passaparola e mettendo in opera le risorse comunicative della vita quotidiana, le relazioni formali o informali dell’individuo. Le tecniche di marketing che fanno capo a questa strategia sono delle più varie: diffusione di un prodotto presso un gruppo di consumatori precedentemente selezionato, considerato particolarmente affidabile ed autorevole; organizzazione di vere e proprie messinscene che coinvolgono i consumatori e consistono in slogan pubblicitari e spot da recitare in luoghi pubblici ed affollati; attività informativa con SMS, e-mail e strumenti multimediali. Una strategia simile ma più consolidata è l’introduzione del brand in reti o comunità sociali già esistenti e caratterizzate da una forte identità differenziale. L’idea è quella di associare a particolari condizioni, status, orientamenti

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sessuali, interessi uno specifico marchio che si propone di rappresentare simbolicamente la condizione, il punto di vista, l’identità del gruppo. È ciò che Nike, ad esempio, è riuscita a realizzare presso le comunità afroamericane delle periferie suburbane, nelle quali il possesso di scarpe da ginnastica con il logo della multinazionale ha rappresentato un simbolo di integrazione sociale e di emancipazione economica. Lo stesso dicasi di marchi come Absolut Vodka presso le comunità gay statunitensi o il cognac Courvoisier per gli appassionati di musica rap. La marca diviene parte integrante dell’universo simbolico di una particolare subcultura. Ma i consumatori sono utilizzati anche come tester o coproduttori nel processo di sviluppo dei beni commercializzati. Molte aziende, infatti, attendono i feedback dei consumatori ed il giudizio da questi formulato sul gradimento di un prodotto prima di procedere alla commercializzazione o al re - styling di un marchio. In altre circostanze, invece, si chiede agli stessi consumatori di prendere parte alla progettazione ed alla realizzazione del prodotto con proposte che possono essere inoltrate tramite Web, servendosi dei siti Internet delle aziende o attraverso l’utilizzo di altre tecnologie di comunicazione interattiva. Tale strategia, ad esempio, è stata utilizzata con grande successo dalla Fiat, che, annunciando la produzione della nuova Cinquecento, si servì di progetti inviati da consumatori (evidentemente esperti) per il re - styling della vettura. Tali forme di coinvolgimento diretto del consumatore non sono, come potrebbe sembrare evidente, volte alla creazione di una relazione operativa o funzionale con il consumatore. L’idea che ispira tale strategia, al contrario, è che il coinvolgimento nella progettazione possa divenire veicolo di affezione e interesse nei confronti del marchio. Il coinvolgimento attivo consente al consumatore di introiettare e diffondere il credo aziendale, di affezionarsi alla personalità del brand. Ma sarebbe errato sottovalutare il vantaggio economico che le aziende ricavano da strategie direttamente volte ad alleggerire le spese di progettazione e distribuzione del prodotto. La delega di alcune funzioni di progettazione, collaudo, organizzazione e pubblicità ai consumatori ed agli utenti è sempre più utilizzata anche nella vendita al dettaglio, ad esempio nelle grandi catene di negozi o nei megastore, dove il cliente è sempre più coinvolto nelle fasi di organizzazione (ad esempio il pagamento tramite casse fai da - te) o nella fase di trasporto e montaggio dei prodotti (ad esempio il cosiddetto “metodo Ikea”)62.

Ulteriori strategie utilizzate sono quelle che rientrano nell’ampio settore del cool hunting. Con questo termine si intendono, tanto le più recenti metodologie comportamentali impiegate nelle ricerche di mercato, quanto l’istituzione di fi62 Cfr. V. Codeluppi, Il biocapitalismo, op. cit.

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gure che consentono all’impresa di realizzare il monitoraggio dal basso degli atteggiamenti di consumo. Le aziende di trand scouting, ad esempio, vanno alla ricerca di persone che abbiano un elevato grado di motivazione ed adeguate caratteristiche relazionali e comunicative che gli consentono di prevedere o anticipare mode e tendenze. I trand setters sono dei soggetti in grado di anticipare atteggiamenti e stili di vita futuri. Recenti studi hanno, tuttavia, dimostrato che ciò che muove tali soggetti è soprattutto il risentimento che li spinge ad accettare la sfida del mercato, accentuato dal senso di provocazione sociale. In altre parole, come si evince dall’etimologia del termine inglese cool (atteggiamento di sfida e provocazione), il risentimento di questi soggetti è sfruttato dalle più recenti strategie di branding per mettere in circolazione l’immagine di marca anche in contesti difficilmente raggiungibili (come alcune comunità giovanili). E sono giovani, nella maggior parte dei casi, i soggetti che vengono ingaggiati per diventare trand setters di un determinato marchio. Ma la ribellione che questi soggetti incarnano, come sottolinea A. Quart63, costituisce una forma di resistenza privata ed apolitica, una modalità di evasione dal coinvolgimento attivo. Tale bisogno di differenziazione, non a caso, è l’opposto della tendenza all’omologazione dei gusti che anche le più recenti politiche di branding intendono contrastare. In altre parole, la conflittualità di questi soggetti, per lo più appartenenti ad una cultura giovanile priva di identità politiche forti, si manifesta contro la tendenza alla massificazione economica e si incarna nell’aspirazione a ricercare nel brand l’elemento che contraddistingue, che differenzia. Per questo il cool diviene il motore di una ribellione apolitica ed individuale, una ribellione che vede nel brand l’unico valore che vale la pena difendere. Esistono anche strategie di marketing in grado di estendere il brand a piattaforme mediatiche diverse, facendo riferimento al contenuto. Il branding di contenuto si diffonde laddove esistono una molteplicità di commodities intertestuali, cioè quando un particolare prodotto è promosso attraverso canali mediatici diversi o venduto in formati differenti (viene, per esempio, pubblicizzato in un film, in un libro, attraverso gadget, ecc.). Ciò consente al contenuto di spaziare tra differenti prodotti con il risultato che è l’ambiente in cui si strutturano i significati del brand ad assumere importanza. Ciò costituisce – come ho già sottolineato – una strategia molto produttiva per l’azienda, in quanto la creazione di ambienti in cui far circolare prodotti, utilizzando i consumatori come vettori di comunicazione e senso, consente al marchio di innovarsi continuamente e di inserirsi dinamicamente nella sfera di libertà controllata del consumatore. Si tratta, dunque, di tecnologie bioeconomiche che non fissano i soggetti entro regole 63 Cfr. A. Quart, Generazione R: i giovani e l’ossessione del marchio, trad. it. di I. Rubini, Sperling & Kupfer, Milano, 2003.

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stabilite. Creando ambienti di vita e di lavoro il branding sfrutta la capacità innovativa, la creatività, l’imprevedibilità del soggetto per produrre valore economico e rinnovare continuamente l’immagine del proprio marchio. Addirittura, entro certi limiti, l’imprevedibilità degli atteggiamenti e delle reazioni di produzione/ consumo deve essere provocata ed indotta, al fine di riprodurre il dinamismo associato all’idea del brand. La mediatizzazione del consumo si riflette soprattutto nella trasformazione delle strategie di comunicazione pubblicitaria, le quali si servono sempre più frequentemente degli ipertesti e delle tecnologie multimediali che garantiscono un’interazione diretta e costante con gli utenti. Essa, dunque, non passa più solo per i canali tradizionali come la televisione, i giornali o la radio. Anche nel caso della promozione del marchio vale la regola della creazione di ambienti di consumo, cosa che può essere realizzata, ad esempio, inserendo riferimenti pubblicitari più o meno espliciti nei film o nelle serie tv. Ma strategie ancora più sottili ed efficaci di branding sono realizzate trasformando lo stesso spazio fisico in ambiente per la creazione, promozione e circolazione dei simboli di marca. Si tratta del cosiddetto marketing urbano, tra le ultime tendenze in fatto di strategie di interazione con il consumatore. Il marketing urbano può essere applicato a vari settori, come, ad esempio, la progettazione di beni e servizi, gli interventi di riqualificazione urbana, la promozione dell’immagine e delle risorse storico - artistiche, museali, paesaggistiche della città. In altre parole, anche i simboli della città o l’immagine che ad essa si associa possono essere trasformati in un marchio, cedendo i diritti di proprietà del brand ad imprese pubbliche o private che ne gestiscono la commercializzazione, la riproduzione e la circolazione. Ma il brand prende di mira anche altri spazi fisici, quelli che Ritzer definisce come ambienti tematici64. Questi coincidono per lo più con i punti vendita delle diverse aziende. In essi non prevale l’orientamento all’esposizione ed alla commercializzazione del prodotto come nei negozi tradizionali ma la valorizzazione del brand attraverso la creazione di un ambiente in cui il cliente è chiamato a fare esperienza. L’introduzione del fattore E (dove E sta per entertainment) indica che l’organizzazione dello spazio fisico deve avvenire in base all’esigenza ludico - ricreativa del consumatore, cioè attraverso la trasformazione degli anonimi nonluoghi65 della modernità in luoghi del divertimento e dell’intrattenimento in cui le famiglie possono trascorrere il tempo e fare esperienze, entrando in contatto con lo spirito e la personalità del brand. Ritzer sottolinea come gli spazi di esposizione spettacolare della merce non possono certo essere considerati un’in64 Cfr. G. Ritzer, La religione dei consumi: cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iper - consumismo, trad. it. di N. Rainò, Il Mulino, Bologna, 2000. 65 Cfr. M. Auge, Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernita’, trad. it di D. Rolland, Eleuthera, Milano, 2002.

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venzione recente. Codeluppi mostra come la vetrinizzazione66 è un fenomeno antico come il capitalismo. Tuttavia, i santuari dell’economia moderna in cui si diffonde il marketing esperienziale sono differenti dalle vetrine dei passages parigini. Essi chiamano ad un coinvolgimento attivo del consumatore attraverso esperienze pratiche, giochi, iniziative, attività che ruotano non soltanto intorno ai prodotti ma intorno ai valori che intendono veicolare. I prodotti veri e propri divengono dei puri strumenti; ciò che interessa è produrre emozioni, affettività, coinvolgimento emotivo verso quell’ambiente e quel marchio in modo tale da incrementarne la familiarità. Oltre a ciò, vi sono le già citate comunità di marca, nate già a partire dagli anni Ottanta, dall’improvviso successo delle tecniche di Customer relationship management che resero disponibili enormi quantità di informazioni sui soggetti e sui profili di consumo, organizzati in banche dati ed accessibili gratuitamente alle aziende. Da quanto detto si evince che il brand è la manifestazione paradigmatica della logica del capitalismo cognitivo. Per esplicare questa premessa si considererà il capitale in una triplice dimensione. Da una parte, come strumento materiale utilizzato per produrre qualcosa, mezzo di produzione. Dall’altra, come una relazione di potere. Infine, come manifestazione del valore. In quest’ultimo caso, il valore indica il processo produttivo cristallizzato nelle macchine, negli stabilimenti industriali, nelle diverse attività. Si tratta di valore in divenire, plusvalore in senso marxiano. Date queste tre accezioni di capitale, Arvidsson si chiede in che modo il brand ne costituisca l’aspetto paradigmatico e l’elemento di modernità67. La risposta a tale domanda articola tre prospettive che riassumono le tre accezioni di capitale precedentemente delineate: - Immaterialità. Questo aspetto è stato lungamente trattato nella sezione dedicata al capitalismo cognitivo. Si tratta della prevalenza della dimensione emotivo - espressiva, oltre a quella prettamente cognitiva, rispetto alle caratteristiche funzionali dell’oggetto di marca. L’aspetto relazionale che costituisce il presupposto della creazione di ambienti consoni alla circolazione di nuovi significati non si limita ai rapporti tra persone ma anche a quelli tra individui e oggetti, immagini, simboli, suoni. La multidimensionalità ed il polisensualismo costituiscono componenti importanti dell’immaterialità del brand. Nel marketing di contenuto, ad esem66 Cfr. V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, op. cit. 67 Cfr. A. Arvidsson, La marca nell’economia dell’informazione. Per una teoria dei brand, op. cit.

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pio, la cultura del brand è veicolata attraverso una molteplicità, spesso eterogenea, di mezzi mediatici ed informatici. È il contenuto immateriale del marchio che emerge come mezzo di produzione capitalistica. Il capitale sociale, cognitivo, umano della conoscenza non ha un valore d’uso che risiede nella materialità dei mezzi di produzione (pixel, database, schermi, ecc.) ma nelle relazioni simboliche che questi riescono a generare. Questa caratteristica implica anche l’impossibilità di collocare le marche in uno specifico spazio fisico, divenendo, allo stesso tempo, ubique ed invisibili. È questa caratteristica che le rende, come sostiene T. Negri, coestensive alla ri-produzione, cioè affini alla vita stessa68. Ciò significa che il brand diviene uno spazio in cui la realtà può svilupparsi e costituisce, come detto, una vera e propria piattaforma d’azione. - Programmazione. I brand operano come dei programmi che producono e controllano altri programmi. All’interno di circuiti programmabili di azione/reazione la capacità progettuale del frame branding non implica un’assoluta rigidità. Al contrario, tali circuiti devono essere flessibili e gradualmente adattabili alle risposte dei consumatori. Gli individui, dunque, sono chiamati all’azione ed all’interazione produttiva all’interno di sistemi di rete che necessitano di continui adattamenti funzionali. Arvidsson sottolinea la caratteristica governamentale di tale sistema. Il governo delle relazioni economiche avviene in base ad un concetto di programmazione che, in termini foucaultiani, implica – e non esclude – l’esercizio di una certa libertà d’azione e d’iniziativa da parte dei soggetti coinvolti. Non si ha, dunque, una programmazione rigida ma caratterizzata da un equilibrio funzionale e controllato tra libertà e costrizione. Secondo l’autore il governo raggiunge la sua massima espressione con la diffusione globale delle tecnologie dell’informazione che consente di moltiplicare i processi di soggettivazione economica mantenendo, allo stesso tempo, delle forme concrete di controllo. Così Arvidsson: Il brand management deve (…) assicurarsi che ciò che viene prodotto dalla moltitudine emerga come una qualità compatibile con le altre, e quindi garantire che la produttività si sviluppi secondo «piattaforme desiderabili e preferibili». È questo lo scopo della programmazione: i brand si evolvono con l’attività del sociale, ma in maniera programmata, facendo emergere solo le qualità compatibili. Il brand management dunque si basa sulla “depurazione riflessiva” della produttività della moltitudine, che viene filtrata e reinserita nel sociale come qualità “finita”69.

68 Cfr. T. Negri, Value and affect, Boundary 2, 26 (2). 69 A. Arvidsson, La marca nell’economia dell’informazione. Per una teoria dei brand, op. cit., pp. 157-158.

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- Valore. Trasformando le qualità individuali in piani di compatibilità, il brand agisce come una sorta di medium generalizzato della comunicazione. Così come il denaro, infatti, il brand rappresenta un mezzo che trasforma qualcosa in qualcos’altro ma, in questo caso, non si tratta della trasformazione del valore d’uso in valore di scambio, della qualità in quantità. La marca assicura la trasmissibilità e la compatibilità globale di determinate qualità. Questo aspetto è riassunto in una delle caratteristiche più importanti del brand: la modularità. Le qualità del marchio possono essere trasmesse in modo discreto, servendosi di pacchetti informativi differenziati, ma possono essere anche riassemblate senza che le caratteristiche qualitative generali ne risentano. Come detto, nella letteratura sul marketing il valore di una marca è generalmente definito brand equity, cioè l’insieme delle risorse che la marca riesce a mobilitare in termini di nome, simboli, attività che consentono di aumentare o diminuire la valorizzazione di un bene o di un servizio. Oltre a queste tre proprietà (immaterialità, programmazione, valore) che contraddistinguono il brand esistono dei nuovi obiettivi che esprimono la valorizzazione dei marchi e che consentono a questi di sopravvivere in un mercato sempre più competitivo e globalizzato. Si tratta dell’adozione di codici di comportamento e valori di riferimento. Tra di essi vi è, ad esempio, quella che nella letteratura è definita come eticità: “essere etici per essere competitivi”70. È questo l’obiettivo fondamentale da cui dipende la sopravvivenza delle imprese. Si tratta di assumere la vocazione solidaristico/sociale come criterio per attribuire nuove caratteristiche al brand, associandolo ai valori di un’economia sostenibile, attenta all’ambiente e sensibile alle responsabilità sociali che derivano da un’oculata gestione delle risorse naturali (si può citare l’esempio del tonno che non contribuisce a spopolare il mare o della carta igienica che non provoca il disboscamento dell’Amazzonia). Si tratta dell’ultima frontiera della bioeconomia contemporanea: trasformare i movimenti d’opinione e i contenuti critici in risorse per rilanciare l’immagine dell’impresa e del marchio, promotrici di valori sociali, culturali, ambientali importanti. Le imprese cercano, dunque, di assecondare i fenomeni di sensibilizzazione pubblica, inserendosi in essi e sviluppando una nuova coscienza etica come forma di penetrazione bioeconomica. Tali processi fanno presa in maniera diretta sulla sensibilità e sull’emotività degli individui, attuando un controllo ancora più impercettibile e silente. Un’altra caratteristica che rinnova l’immagine dei brand nella bioeconomia contemporanea è l’interesse per la salute. Si tratta di associare i marchi a prodotti che hanno l’obiettivo di prevenire, curare, garantire la salute. Per stimolare l’in70 M. Fioroni, G. C. Titterton, Brand storming. Gestire la marca nell’era della complessità, op. cit., p. 7.

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teresse verso il marchio e fidelizzare i consumi è necessario costruire un’etica della salute/salvezza, che faccia riferimento non tanto ai singoli beni commercializzati ma alla linea di prodotti riuniti in un’immagine di marca. È necessario, in altre parole, che la vocazione salutista divenga una delle caratteristiche fondamentali – se non la principale – del carattere di marca. In questo come in altri casi è l’emotività del consumatore che deve rispecchiarsi nella vocazione etica alla salute promossa dal marchio. Ciò a cui le imprese mirano è la creazione di una relazione solida e stabile con il consumatore. In questo orizzonte valoriale il brand mira alla strutturazione di un rapporto fiduciario con il consumatore che evochi, anche se in maniera sicuramente più leggera e spensierata, la solidità di una relazione medico/paziente. L’elemento della potenzialità è molto importante anche in questo caso. Nessuno yogurt, infatti, potrebbe sostituirsi pienamente ad un medicinale curativo. Tuttavia, quello stesso yogurt può farsi promotore di una sensibilità salutista che mira alla prevenzione ed all’assicurazione contro i rischi derivanti da condotte di vita scorrette. In questo caso, dunque, la creazione di un rapporto fiduciario e duraturo con il cliente si basa sulla programmazione di stili di vita in cui pratiche di prevenzione si intrecciano con rappresentazioni etico - morali. Il marketing della salute non ha come obiettivo la cura ma la prevenzione intesa tanto in senso medico che in senso etico/morale. Ed i sentimenti individuali e collettivi intorno a cui questo aspetto ruota sono alimentati da un’implicita evocazione del rischio che porta con sé il dovere di predisporre dei rimedi. Ciò significa che i meccanismi sottili del marketing pubblicitario fanno leva sui piccoli sensi di colpa che i consumatori provano per non essersi perfettamente adeguati ai modelli dominanti di una società sempre più attenta alla dimensione estetica e salutista. Il marketing della salute ha creato nuove fette di mercato attraverso la differenziazione dei prodotti e dei marchi. In simili contesti, il ruolo del brand è molto importante, in quanto è l’elemento che cristallizza in sé le immense potenzialità di valorizzazione e rivalorizzazione sociale. è in questi termini che si esprime la letteratura economica di riferimento, parlando del branding come strumento che riesce ad esprimere e ricomporre i disagi della modernità, anche dinnanzi al rischio di sovresposizione tecnologica e mediatica. In questi termini, l’ordine del discorso del brand sembra soffermarsi non solo su un’etica salutista ma anche, in un certo senso, anti-tecnologica e antimediatica. L’ultima frontiera del branding, dunque, mira a celare o, quantomeno, sfumare le importantissime precondizioni tecnologico/mediatico/comunicative che la costituiscono. In quest’ottica il brand diventa quasi uno strumento che consente di recuperare la fisicità e l’emozionalità sopite dai regimi iper-tecnologici ed iper-mediatici in cui viviamo.

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Si può parlare, dunque, di un’impronta etica che stimola il consumatore a riporre nella forza evocativa del brand la speranza di un superamento della mera materialità e strumentalità o delle barriere che impediscono la piena espressione della fisicità. Si tratta di un ordine del discorso che si fa paradossalmente promotore di una nuova forma di umanizzazione, vista sia nei termini del ritorno ad una condizione pre-tecnologica che di un superamento delle barriere e dei confini meramente strumentali. In questo secondo caso, ci si riferisce ad un’idea di tecnologia che va oltre se stessa, che supera qualsiasi barriera fisica per aderire completamente alle esigenze espressive e vitali dell’individuo. Infatti, le politiche di branding delle grandi multinazionali dell’informatica, nella maggior parte dei casi, promuovono proprio questa capacità di superamento, questa aspirazione alla totalità, questo sogno di potenziamento delle possibilità umane verso una dimensione più che umana. In queste immagini l’aspetto strumentale della tecnologia è secondario; prioritaria è l’idea di potenza, di completezza, di realizzazione che il carattere del brand veicola dando vita alle aspirazioni ed ai sogni individuali. Si tratta di un tocco quasi magico. In fondo all’uomo viene promesso ciò che è umanamente impossibile realizzare: il superamento dei limiti, il controllo del mondo, l’assicurazione contro ogni rischio. Questo aspetto consente di individuare due dimensioni molto importanti dal punto di vista bioeconomico e biopolitico. Da una parte si assiste ad una promessa di perfezionamento dell’uomo attraverso i valori, le idee, le possibilità veicolate dal brand e dalla forza coesiva dei suoi simboli. Obiettivo del brand è la definizione di un orizzonte valoriale e di un ordine del discorso che mira, in diversi modi, al superamento dell’umanità sulla strada della totalizzazione e della pienezza esistenziale, sensoriale, emotiva, esperienziale. Evasione dalla dimensione umana, dunque, e promozione di un’immagine di pienezza. Tratto comune alla letteratura apologetica ed a quella critica sul marketing è la considerazione del brand come nucleo mitopoietico di una sorta di religione laica. Tale religione, caratterizzata dai propri simboli e dai propri rituali, nonché da profeti ed adepti, promette all’uomo il superamento della condizione di fallibilità e di precarietà attraverso una trascendenza immanente, cioè una trascendenza a cui si accede oikonomicamente. Ma, dall’altra parte, sono i brand ad assumere sempre più le caratteristiche umane. L’umanizzazione del brand costituisce il risvolto della medaglia della biopolitica contemporanea. Aderendo completamente alla vita ed al corpo individuale il brand ne assume le sembianze, si fa portatore di caratteristiche emotive, etiche e caratteriali molto simili a quelle umane. Il brand diviene, dunque, difficilmente distinguibile dall’individuo, si confonde con esso. L’umanizzazione del brand è visibile in tutte quelle strategie cui ho fatto riferimento – come il marketing virale – che assumono, anche nella

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denominazione, un significato bio - vitale. Ed è la componente genetica, ancor più che quella organica, ad essere chiamata in causa nella valorizzazione dei tratti umani del brand. Gli esperti di marketing e di strategie pubblicitarie, infatti, parlano liberamente del brand come il DNA di un prodotto, dei processi di innovazione produttiva come evoluzione biologica e delle strategie trasformative o di ristrutturazione produttiva come interventi di ingegneria genetica. Ma anche la metafora organica è molto utilizzata: il brand è visto come un organismo che deve necessariamente adattarsi all’ambiente per sopravvivere e condurre una dura lotta per l’esistenza per assicurarsi fette di mercato. La metafora organica, già utilizzata agli albori dell’economia politica (Ricardo, Malthus) riemerge nel linguaggio del branding contemporaneo. Ma in un organismo la dimensione più superficiale, più esteriore – il corpo – non ha un’importanza secondaria. Le ultime frontiere del branding tendono, ad esempio, alla valorizzazione del polisensualismo come componente bioeconomica fondamentale71. Se, infatti, il marketing si era tradizionalmente concentrato sulla stimolazione della vista, attraverso l’iper - esposizione del soggetto alle immagini, le strategie della moderna bioeconomia mettono in campo anche gli altri sensi: l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto. Ciò per realizzare una dimensione esperienziale/sensoriale completa e pienamente soddisfacente. Questo è solo uno dei molteplici esempi che potrebbero essere citati per rendere conto della vocazione sensoriale del marketing moderno. Quanto detto consente di isolare due dinamiche con le quali si intende, in questo contesto, rendere conto - seppur in maniera schematica - della duplice anima della bioeconomia moderna: 1. Attraverso la vocazione immateriale del brand si realizza la caratteristica che fa del logo il fulcro di una nuova religione laica. Non sono rari i casi di campagne pubblicitarie in cui l’approccio con il sacro, con il fine superiore dell’esistenza e con l’assoluto diventano il tema principale. Un esempio per tutti: la campagna pubblicitaria che lanciò la Nike ormai più di due decenni fa con lo slogan “Test your faith”, in cui una figura sfocata ed indefinita correva stagliandosi contro un cielo terso e nitido. Tale corsa evocava, quindi, la verticalità, il bisogno di assoluto, lo slancio religioso. In altri termini, la corsa perdeva la sua caratteristica di attività fisica e diveniva uno slancio verso il trascendente, reso possibile dalle calzature sportive. In questo come in altri esempi, ciò che valorizza il marchio non è la descrizione didascalica di ciò che si può fare con il prodotto ma la 71 Cfr. M. Fioroni, G. C. Titteron, Brand Storming. Gestire la marca nell’era della complessità, op. cit.

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dimensione simbolica cui si ha accesso. La corsa dell’atleta diviene, allo stesso tempo, simbolo di libertà, di assenza di costrizioni e veicolo di un’esperienza di natura trascendente. L’uomo si trova in un orizzonte significante che propone contemporaneamente il superamento dei vincoli umani e l’accesso ad un’esperienza trascendente, che proietti l’esistenza individuale verso un fine superiore. Se le religioni tradizionali appaiono agli individui sempre più distanti dalla realtà sociale ed incapaci di farsi interpreti dei cambiamenti socio-politici ed economici, la bioeconomia si propone come un universo trascendente caratterizzato da miti, riti, dogmi, vere e proprie forme liturgiche. Possiamo citare alcuni di questi aspetti: Credo. Si tratta della dimensione mitopoietica. Così come nel contesto religioso anche nel campo della bioeconomia è necessario costruire un nucleo mitico intorno al quale fondare il senso di appartenenza di coloro che diverranno membri della comunità di marca. Il brand riesce ad esprimere questa dimensione attraverso la narrazione di un racconto condiviso che fornisca una visione semplificata della realtà, un fine ultimo verso cui tendere. Nel caso di alcuni brand, ad esempio, il fine espresso è quello della soddisfazione assoluta, dell’appagamento emotivo ed espressivo; in altri casi il fine può coincidere con l’adesione a determinati stili di vita veicolati dai media o la promessa di diventare come qualcun altro. Ciò avviene, ad esempio, quando l’immagine di marca è associata a personaggi celebri del cinema, della musica, dello spettacolo. In questo caso, l’immagine della realtà preconfezionata dalle strategie di branding è il raggiungimento della celebrità, della notorietà o semplicemente di uno stile di vita degno di una star. Liturgia. Questa dimensione è correlata alla ritualità del consumo, che genera familiarità e relazionalità e che, in ultima istanza, struttura quello spazio simbolico, quel frame, che costituisce l’ambiente in cui l’immagine di marca nasce, cresce e si moltiplica attraverso le pratiche quotidiane ed i processi di soggettivazione. Iconografia. Fa riferimento ai simboli attraverso cui i marchi si esprimono. La dimensione simbolica è fondamentale nella sfera del branding in quanto la forza di un marchio si esprime proprio attraverso il suo indicare altro, la trascendenza che la dimensione simbolica consente di esprimere ma anche la capacità di tenere insieme (sym - ballein) ciò che per sua natura è differente, l’immanenza e la materialità dei corpi e degli oggetti. Dunque, i brand cercano di catturare sul piano bioeconomico la vocazione unificante, identitaria, relazionale del simbolo, dando in tal modo solidità ed evidenza al nucleo mitopoietico che ne costituisce la base.

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Agiografia. Il branding struttura una religiosità laica che si esprime anche nel culto di profeti e santi. La dimensione mitopoietica, dunque, si incarna in personalità creative, innovative, sui generis che rappresentano i capostipiti del brand, coloro che hanno dato vita al marchio e ne hanno garantito la sopravvivenza e la diffusione. Molto spesso i brand non sono altro che la cristallizzazione simbolica del carattere dei loro fondatori ed è, infatti, intorno a queste figure che la liturgia si costruisce anche con la sacralizzazione dei luoghi di fondazione, che divengono dei veri e propri santuari per il culto del profeta e per la venerazione delle sue reliquie72. Escatologia. La forza di un brand si rispecchia anche nella promessa di un mondo ideale che può esistere oltre a quello reale. La dimensione escatologica si riassume in una vera e propria promessa di salvezza che non implica, però, l’attesa della fine dei tempi. La redenzione è nel qui ed ora, non si proietta in un altro mondo ma nello stesso mondo. È questa una delle caratteristiche che fa della vocazione religiosa del branding una trascendenza immanente, un’elevazione spirituale che può dare la beatitudine in terra. Il segreto per la salvezza è racchiuso nell’accesso al mondo del marchio, mondo parallelo, concretamente accessibile in questa vita. Pastorale. Un altro aspetto importante è quello delle pratiche di proselitismo che un marchio deve produrre per garantirsi la maggior diffusione possibile. Questo aspetto, come ha efficacemente mostrato Foucault ricostruendo la genealogia delle pratiche pastorali, ha l’obiettivo fondamentale di garantire longevità e stabilità al credo e favorirne la circolazione attraverso le esperienze di vita dei suoi adepti. La brand religion necessita di una pastorale per creare quei campi di relazione, quei dispositivi di potere/sapere che contribuiscono a strutturare l’equilibrio, sempre instabile, tra soggettivazione ed oggettivazione, tra pratiche attive e controllo disciplinare. Ma non bisogna dimenticare che un rapporto pastorale presuppone l’assunzione di un progetto salvifico/curativo da parte dei pastori e di un atteggiamento di docile abbandono da parte degli adepti. La di72 Basti pensare, per avere un esempio di ciò, al ruolo fondamentale che Steave Jobs ha avuto come fondatore di una delle multinazionali più importanti e ricche del mondo: la Apple. Il ruolo di Jobs è stato considerato come il motore vero e proprio dell’azienda, l’anima della propria attività. La multinazionale non è riuscita a distaccarsi dal culto del suo profeta nemmeno quando Jobs, per motivi di salute, ha dato le proprie dimissioni dal consiglio di amministrazione. C’è chi, in quell’occasione, si spinse ad ipotizzare che l’abbandono del fondatore avrebbe gettato la Apple in una crisi irreversibile. Da questo esempio si può comprendere fino a che punto il brand di un’azienda possa essere caratterialmente ed emotivamente legato alle vicende biografiche del proprio fondatore.

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sciplina consente a tale relazione di perpetuarsi nel tempo, di rafforzarsi, garantendo l’ancoraggio del credo religioso nelle pratiche di vita quotidiana. Tutto ciò è visibile, ad esempio, nelle strategie di branding virale o nel settore del Customer relationship management nei quali l’individuo è continuamente chiamato a dare prova della propria fedeltà al marchio attraverso condotte esemplari e pratiche quotidiane di devozione. 2. La sfida maggiore che le politiche di branding si propongono oggi è di rendere umano ciò che per sua natura non lo è. Non faccio riferimento all’attitudine, da sempre esistita, di antropomorfizzare oggetti non animati. Mi riferisco, invece, alla tendenza a considerare i brand passibili di assumere ed esprimere caratteristiche bio-organiche, essendo definiti da veri e propri contenuti genetici e vitali. È il consumatore che chiede al marchio di umanizzarsi, per rispondere più efficacemente alle complesse esigenze bio-sociali dei singoli. Al brand si chiede, dunque, di essere amico, di farsi portatore delle esperienze più intime e profonde, di trasformarsi in principale strumento comunicativo ma, soprattutto, di divenire racconto di vita. La crisi delle grandi narrazioni, l’impossibilità individuale e collettiva di raccontarsi, in una società sempre più dominata dalla frammentazione spaziale e dalla riduzione dei tempi, stimolano la ricerca di spazi e luoghi dove ricostruire il senso dell’esperienza, l’identità, la coerenza narrativa e biografica. Una delle più importanti precondizioni affinché i brand riescano a colmare tale vuoto narrativo è che guardino la realtà con gli occhi dell’individuo, che si incarnino nei percorsi vitali, assumendone le sembianze. È proprio il senso del confine che è messo in discussione fino ad essere cancellato. Per questo la marca può essere considerata oggi alla stregua di un organismo vivente dotato di un proprio statuto organico, di un’identità e di un carattere. Ed i concetti darwiniani di sopravvivenza del più adatto e di evoluzione biologica sono ampiamente impiegati nel branding per dare corpo ai marchi, per umanizzarli. Così, ad esempio, si esprimono Fioroni e Titterton, esperti di brand marketing: Nella stessa evoluzione della marca riscontriamo i tratti dell’evoluzione umana per come essi sono stati rappresentati da Darwin. Il marchio, come l’uomo, è destinato a combattere per la sopravvivenza e quindi i principi che regolano la natura sono simili a quelli del mercato in quanto in entrambi i casi ci si trova in luoghi impervi e competitivi in cui l’imperativo diventa sopravvivere. Sopravvive il più adatto, quello che riesce ad adeguarsi prima al cambiamento delle condizioni. Con le variazioni dell’ambiente anche il brand è obbligato a mutare e chi non è in grado di farlo muore – è il principio della selezione della specie73. 73 M. Fioroni, G. C. Titterton, Brand storming. Gestire la marca nell’era della complessità, op. cit., p. 72.

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In relazione a quanto detto possono, dunque, essere isolati alcuni indicatori che rendono schematicamente conto delle dinamiche di umanizzazione del brand e che riassumono alcuni termini e concetti bio - genetici (soprattutto di matrice darwiniana) di cui il branding tende sempre più ad appropriarsi. Essi sono: Lotta per l’esistenza. Con questo termine si definisce la competizione economica come una dinamica conflittuale caratterizzata da rapporti di forza che conducono i brand più forti, più aggressivi, più dinamici alla sopravvivenza e quelli più deboli alla morte. Questo aspetto fa leva soprattutto sulla considerazione del conflitto economico come un gioco a somma zero, dove le fette di mercato e le risorse disponibili devono essere appropriate a scapito degli altri competitor. In questo universo semantico, inoltre, la dimensione economica emerge come sfera della ferinità, spazio pre - politico sottratto alle regole del mercato e della concorrenza. Ereditarietà. L’impronta genetica è massicciamente presente nel linguaggio del branding, soprattutto con riferimento all’associazione - in verità non soltanto linguistica - tra codice genetico e codice economico. Il codice, cioè, rappresenta il nucleo di programmazione che contiene le informazioni principali di un organismo, così come di un brand. Ed il brand rappresenta il codice sorgente delle informazioni e dei contenuti riguardanti determinati tipi di prodotti. La genetica è utilizzata come metafora di molti sistemi e linguaggi di comunicazione e di trasmissione delle informazioni, dunque, non riguarda soltanto la sfera del branding. C’è da dire, tuttavia, che il brand si presta meglio di altre componenti ad assumere il ruolo di paradigma informazionale e codice di programmazione. Basti pensare alla capacità del marchio di assumere sempre nuovi significati ma allo stesso tempo di conservare inalterato il nucleo significante ereditato, anche in presenza di repentini cambiamenti del mercato. Apprendimento ambientale. Abbiamo detto come una delle componenti più importanti del brand è la capacità di modificarsi, di cambiare, non soltanto adattandosi all’ambiente ma anche retroagendo creativamente su se stesso. Non si tratta, quindi, di un processo semplicemente reattivo. L’apprendimento implica un ruolo attivo, creativo, innovativo del brand che deve fare tesoro dei processi di trasformazione per sopravvivere. Questo aspetto proietta l’immagine di marca verso strategie che valorizzano la temporalità futura e la capacità previsionale.

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Variazione. Questo termine deve essere considerato nella sua accezione darwiniana. Da questo punto di vista la variazione è una dimensione intermedia tra adattamento e trasmissione genetica. Da una parte, infatti, la trasmissione ereditaria tende a selezionare il carattere considerato più forte, cioè più adatto alla sopravvivenza, con più successo di riprodursi. Dall’altra parte, però, le strategie di adattamento richiedono la consonanza tra caratteristiche genetiche ereditarie e condizioni ambientali. Ci possono essere, dunque, delle circostanze in cui determinate variazioni ambientali possono provocare un miglior adattamento di individui della specie che possiedono caratteri genetici recessivi, rispetto a quelli con caratteri genetici dominanti. In questo caso, ciò che era considerato uno svantaggio evolutivo diviene una condizione fondamentale per garantire la sopravvivenza. Gli esperti di marketing ritengono che questo concetto di variazione si presta bene a spiegare le strategie di sopravvivenza dei brand sul mercato competitivo, specialmente in un contesto massicciamente globalizzato. In questo caso per variazione si intende la capacità di un marchio di adattarsi ai cambiamenti ambientali, non perdendo ma, al contrario, rafforzando produttivamente la propria identità genetica, facendo ricorso al patrimonio originario per proporsi innovativamente sul mercato. Omeostasi. Il concetto di variazione conduce a quello di omeostasi. L’equilibrio omeostatico è variabile e nasce dal mantenimento di livelli accettabili di irritazione che non pregiudicano, comunque, la stabilità dell’organismo. L’omeostasi, quindi, è la dimensione che realizza un equilibrio interno/esterno all’organismo grazie al quale si definisce lo stato di salute. Ciò anche nel branding. In quest’ultimo contesto si dice che un determinato marchio è in salute nel momento in cui la capacità di mantenere un nucleo di significazione (valori portanti ed idee radicate) si intreccia con la necessità di variare, di trasformarsi in base alle esigenze di un mercato sempre più differenziato e competitivo. L’ereditarietà e l’apprendimento ambientale devono intrecciarsi in un equilibrio omeostatico che mantenga la dialettica tra passato e futuro del brand, impedendogli di estinguersi e conferendogli, se non proprio l’immortalità, almeno una longevità superiore rispetto a quella condizione umana che ne costituisce il termine di paragone. Rischio genetico. Non bisogna dimenticare, però, che la salute non è una condizione duratura: essa può sempre essere messa in pericolo. Dunque, il mantenimento dell’omeostasi come condizione di equilibrio presuppone che venga sempre rimesso in discussione il confine labile tra salute e malattia. Ciò stimola delle azioni di prevenzione che assicurino l’organismo sano contro i rischi di

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cadere nella malattia. Anche il brand agisce sulla base di una logica proattiva e fa di essa addirittura un valore che normativamente si propone come simbolo dell’affidabilità del marchio. Le politiche di branding che assicurano i consumatori contro i rischi derivanti dalla possibile obsolescenza dei valori economici e dei prodotti sono quelle che hanno maggiori possibilità di sopravvivenza. Ad esempio, i processi di fidelizzazione del cliente agiscono come degli strumenti di assicurazione contro i rischi derivanti dal mercato e da una società sempre più atomizzata, creando, al contempo, un clima di familiarità che si propone come risposta più efficace allo spaesamento dell’uomo moderno. 4.6. Rischio

e finanziarizzazione della vita

U. Beck identifica nella bioeconomia contemporanea i tratti caratteristici della società del rischio74. La distribuzione del potere e le dinamiche conflittuali delle società del benessere, infatti, si intrecciano con quelle della società del rischio. Si potrebbe anche dire che le società del benessere producono necessariamente una certa distribuzione dei rischi, che vengono considerati come effetti imprevisti o collaterali dello sviluppo economico. Così, sostiene l’autore, se la modernità può essere intesa come l’epoca che ha promosso l’aspirazione al benessere ed ha posto l’obiettivo della crescita economica come prioritario orizzonte di senso e di valore, la postmodernità è una società del rischio, caratterizzata dal problema di porre un freno, un contenimento, agli effetti nefasti prodotti da politiche di sfruttamento economico che si estendono globalmente, mettendo in crisi i tradizionali confini geopolitici, condizionando sempre più le condotte umane ed i processi di soggettivazione. Naturalmente l’autore non intende attribuire alla società del rischio un’innovatività assoluta: le società umane hanno sempre dovuto fronteggiare ed includere un certo livello di rischio ed hanno tratto dai dispositivi assicurativi predisposti per la difesa le condizioni di possibilità della propria esistenza. Si può dire, in altri termini, che il rischio rappresenta una categoria politica e normativa che consente alle società umane di ricreare meccanismi securitari ed assicurativi; essi consentono di individuare, di volta in volta, quali sono i confini politici del noi e chi debba esserne considerato escluso (nemico esterno/nemico interno). Ma Beck individua nella società del rischio degli aspetti che giustificano la collocazione di questa in un contesto specificamente biopolitico. Addirittura l’autore vede in tale definizione la chiave di lettura più idonea per descrivere i processi socio - politici ed economici che solitamente cadono nel più generico 74 Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, op. cit.

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campo semantico di “postmodernità”. Ed abbracciando la tesi della specificità postmoderna della categoria di rischio va sottolineato che si fa riferimento, in primo luogo, alla complessificazione ed alla moltiplicazione quantitativa degli effetti rischiosi prodotti da un’accelerazione dello sfruttamento bioeconomico e biotecnologico delle risorse naturali, del lavoro, della terra e della stessa vita animale ed umana. Dunque, il rischio scaturisce da una dinamica di interconnessioni globali difficilmente prevedibili ed arginabili. La contingenza bioeconomica e biotecnologica rende, così, lo spettro del rischio un orizzonte sempre presente nell’esistenza di tutti, esteso ad ogni dimensione della vita. Il rischio, oltre a comportare un’accelerazione delle dinamiche distributive e redistributive, moltiplica microfisicamente i propri effetti, divenendo sempre più invisibile e non identificabile (si pensi ai numerosi rischi per la salute che derivano dall’aumento delle emissioni nocive di Co2 nell’aria che respiriamo). Inoltre, se nella società del benessere il rischio si identifica genericamente con una condizione di insufficienza (ad esempio, il rischio sociale considerato più grave è la povertà o i processi di mobilità intergenerazionale discendente), il problema del trattamento bioeconomico delle esternalità sposta il dibattito della rischiosità sul terreno dell’eccesso (ad esempio, l’eccesso di emissioni nocive nell’aria o l’eccessivo disboscamento, ecc.). La percezione di sempre nuovi pericoli, inoltre, disarticola le tradizionali categorie di spazio e tempo e le sfere del pubblico e del privato. Nella società del rischio – come abbiamo visto – tempo di lavoro e tempo di vita si confondono ed il confine tra privato e pubblico si fa sempre più indistinto e labile. I rischi, dunque, sono una conseguenza dello sviluppo della società capitalistica. Essi producono una domanda indotta, potenzialmente inesauribile, infinita, auto - producentesi (la società del rischio è auto - referenziale). Senza sottovalutare la complessa portata delle trasformazioni bioeconomiche che conducono Beck ed altri autori a parlare delle caratteristiche specifiche della società del rischio, vorrei provare a spostare il baricentro della discussione sul concetto di rischio come discorso di verità. Il potenziale politico della società del rischio, infatti, si fonda anche su un sapere dei rischi75, cioè su un complesso si75 Gli enunciati sui pericoli, non essendo mai pienamente inquadrabili come meri enunciati di fatto contengono una duplice componente: teorica e normativa. Al puro fatto, cioè, è necessario aggiungere un’interpretazione causale. Quindi nella società del rischio ciò che è separato in termini di contenuto, spazio e tempo, è connesso causalmente ed è collocato in un contesto di responsabilità sociale e giuridica. Ma se i rischi sono invisibili anche la causalità resta incerta, temporanea, sottoposta al dubbio. Dunque, i rischi vissuti presuppongono un orizzonte normativo di sicurezza perduta, in quanto, a loro volta, le teorie scientifiche non sono direttamente esperibili, devono essere credute vere. Rimane, dunque, un nucleo di rischiosità del rischio che non può essere cancellato. Il problema fondamentale è quello della non - volontà dei cambiamenti, cioè il fatto che tali effetti imprevisti non sono voluti. Le modalità di determinazione del rischio sono la forma in cui l’etica fa capolino nei centri nevralgici della modernità, cioè in economia, nelle

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stema di dispositivi e tecnologie che articolano e definiscono i discorsi veri sulla rischiosità sociale, ambientale, economica, ecc. La penetrazione biopolitica della semantica del rischio avviene su due livelli d’osservazione: il discorso di verità del rischio si articola, in primo luogo, sulla definizione dell’oggettività della minaccia ed, in secondo luogo, sulle conseguenze collaterali che si manifestano a livello sociale, economico, politico, ecc.. In altre parole, quello che Back definisce potenziale politico delle catastrofi racchiude un discorso del rischio ed un discorso sul rischio. La distribuzione microfisica dei poteri, dunque, agisce, ad un primo livello, attraverso le autorità scientifiche preposte a definire le condizioni di rischio ed, in seconda battuta, attraverso l’azione di quei dispositivi che valutano gli effetti concreti dei fenomeni rischiosi in termini socio - politico - economici. Il discorso di verità prevalente diviene un tentativo di definizione della rischiosità sociale del rischio. Ma il potenziale di rischiosità che, in questo contesto, interessa approfondire, sia come dispositivo di potere che come apparato di sapere, è quello che produce la finanziarizzazione della vita. Questa rappresenta uno dei rischi più imminenti ed invisibili della bioeconomia contemporanea. A tal proposito Marazzi sostiene che nell’economia fordista il rischio era quasi completamente concentrato sul capitale, mentre oggi è distribuito tra capitale e lavoro. L’homo oeconomicus, l’imprenditore di se stesso, agisce in un contesto di libertà economica che lo espone continuamente ad un potenziale di rischio molto elevato. Cos’è in gioco con l’investimento nei mercati borsistici? È in gioco la nostra vita futura, il nostro reddito futuro, la nostra pensione, la possibilità di vivere dignitosamente una volta usciti dal mercato del lavoro per entrare in pensione e non solo; è in gioco, per la prima volta in modo perentorio, esplicito, il bios e questo attraverso la finanziarizzazione dell’economia, e attraverso di essa, della società. È, cioè, in gioco la nostra vita presente. La persona che risparmia per investire in fondi pensione è la stessa persona che subisce i contraccolpi e i dettami dei mercati finanziari, e quindi, contemporaneamente, da una parte ha interesse ad alti rendimenti dei propri risparmi investiti e dall’altra subisce questi stessi alti rendimenti in termini di precarizzazione del lavoro, dell’occupazione, di aumento della produttività e quant’altro76.

Quella che era considerata una dimensione specifica dell’agire innovativo dell’imprenditore schumpeteriano, ora rappresenta la condizione bioeconomica di ogni agente. Il problema è che il potenziale di rischio non si distribuisce solascienze naturali, nelle discipline tecniche. Questi problemi, infatti, evidenziano le domande più radicali per l’uomo e contribuiscono ad articolare il complesso rapporto uomo/natura/tecnica. 76 C. Marazzi, Il corpo del valore: bioeconomia e finanziarizzazione della vita, in A.A. V.V., Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata, 2008, p. 139.

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mente nel contesto dell’agire economico e sul mercato. L’ effetto latente collaterale del rischio77 – per dirla con Beck – tende ad identificarsi con quel surplus bio - vitale che precedentemente ricadeva al di fuori delle logiche di valorizzazione dell’economia capitalistica. Nello stato d’eccezione permanente che si instaura nelle politiche lavorative flessibili, nelle strategie di brand marketing, nei flussi de - localizzanti di un’economia altamente globalizzata, la vita è interamente colpita dalle dinamiche di precarizzazione e dall’instabilità della bioeconomia moderna. La finanza capta tale valore bioeconomico, sottraendo al lavoratore quote crescenti di lavoro vivo. Il profitto perde importanza come categoria economica, essendo sostituito dalla rendita. Ciò significa che “il lavoro è entrato in crisi come base del valore”78 in quanto il lavoro vivo diviene una componente secondaria e trascurabile del capitale nella determinazione del plusvalore. La ricerca dei profitti, dunque, passa sempre più per la finanziarizzazione di componenti vitali ed extra - lavorative: “è difficile in questo senso trovare un “fuori” in questo spazio della finanziarizzazione”79. Nella logica dei mercati finanziari tutto – anche l’esistenza di coloro che, senza reddito, sono esclusi dal processo economico – deve essere sottoposto a dinamiche perversamente espansive che trasformano gli individui in “soggetti di diritto potenziali”80. Ciò significa che quelli che erano considerati come diritti di proprietà sociale (rendita pensionistica, casa, ecc.) divengono diritti di proprietà privati. La finanziarizzazione finisce per trasformare reddito, casa, pensione in fonti di valorizzazione che creino una domanda aggiuntiva. Come sottolinea Marazzi, l’individuo che investe i propri risparmi in fondi pensione si sottopone a tutte le oscillazioni ed instabilità dei mercati finanziari e delega a questi le previsioni fondamentali che riguardano la propria vita. Dunque, i fondi pensione ed 77 Il regime di verità che pone al centro di se stesso il rischio è doppiamente vincolato ad un orizzonte di significazione potenziale. Il rischio si costruisce su un effetto latente collaterale che ammette e legittima la realtà del pericolo basandola o sulla non - conoscenza o sulla non - volontà di produrlo, cioè sulla considerazione che si tratta di una conseguenza non voluta. Questa osservazione ha un’ulteriore implicazione: la costruzione dell’ordine del discorso del rischio sulla semantica della non - volontà produce la definizione degli effetti latenti del rischio come degli effetti destinali naturali. Ciò che non è previsto non è voluto ma è potenzialmente sempre presente, può essere descritto e giustificato come un destino naturale, incorporato in determinati fenomeni sociali. Attraverso un simile discorso la società del rischio legittima il ricorso alla terminologia eccezionale come chiave di interpretazione e strumento d’azione anche in condizioni non eccezionali. 78 C. Marazzi, Il corpo del valore: bioeconomia e finanziarizzazione della vita, in A.A. V.V., Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, op. cit., p. 140. 79 Ivi, p. 139. 80 Ivi, p. 141.

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i fondi comuni d’investimento realizzano il drenaggio del risparmio collettivo ed il suo crescente investimento in borsa81. Anche Fumagalli è concorde nel definire il processo di finanziarizzazione come la forma attualmente più complessa di potere bioeconomico: Possiamo (…) definire finanziarizzazione il dirottamento del risparmio delle economie domestiche sui titoli azionari che, sull’onda dello spostamento del finanziamento dell’economia dal settore bancario a quello borsistico, ha contribuito in modo decisivo alla formazione della new economy di fine millennio. La finanziarizzazione, più o meno coatta, del reddito da lavoro non immediatamente percepito e non immediatamente spendibile è la forma attualmente più sofisticata di biopotere economico 82.

è evidente che la tematica del rischio si impone con tutta la sua drammaticità nei complessi processi di flessibilizzazione e precarizzazione dei percorsi professionali ed umani degli individui. Questo aspetto riassume in maniera più lampante la condizione d’eccezionalità permanente nella quale operano i dispositivi di potere e sapere della bioeconomia moderna. Se lo stato d’eccezione diviene una condizione esistenziale permanente la logica del rischio si estende ad ogni contesto, giustificando qualsiasi tipo di intervento e qualsiasi richiesta provenga dal sistema economico. Ritengo che esista una grande continuità tra quanto detto da Sennett in merito alla destrutturazione del senso di continuità delle narrazioni biografiche83 e 81 Fumagalli ricostruisce la storia recente della socializzazione della finanza a partire dagli anni Settanta. In questo periodo prende forma quella massificazione degli investimenti borsistici che negli anni Novanta, con l’espansione di Internet e dell’online trading, ottiene una definitiva consacrazione. Due sono le tappe fondamentali. 1. L’informatizzazione della raccolta e del collocamento del risparmio ha inizio con la crisi fiscale dello stato sociale di New York del 1974/75. La rivoluzione silenziosa della finanza prende avvio dalle politiche che utilizzarono i fondi pensione degli impiegati pubblici per finanziare il disavanzo della città. Dunque, nel 1975 cominciò il dirottamento massiccio del risparmio sui titoli borsistici e l’utilizzo dei fondi pensione per il finanziamento del debito pubblico. In questi anni si ebbe la ri - articolazione dell’esercizio del potere statuale ed imprenditoriale sul reddito e sulla vita dei lavoratori con l’effetto di far dipendere quote crescenti di reddito da lavoro dall’andamento borsistico. L’esito più immediato fu la distribuzione del rischio finanziario privato sull’intera collettività, allargando sempre più la base della partecipazione ai mercati finanziari. 2. Nel 1981 la creazione del primo schema pensionistico a contribuzione definita (401 k) soppiantò i precedenti schemi a prestazione definita, facendo dipendere la rendita pensionistica dai rendimenti dei titoli in cui i risparmi sono investiti. Gli schemi a contribuzione definita furono strutturati in modo tale da favorire i titoli azionari a scapito delle obbligazioni e dei beni immobili. I fondi comuni d’investimento si svilupparono proprio all’interno di tali piani pensionistici. 82 A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma dell’accumulazione, p. 30. 83 Cfr. R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, op. cit.

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l’estensione indiscriminata della logica emergenziale nella società del rischio. La disarticolazione del senso d’identità, l’incapacità di dare una continuità narrativa ed affettiva agli eventi esterni è il portato di questa percezione e di questa esperienza permanente del rischio. Il discorso di verità bioeconomico costruisce senza sosta profili di rischio e rende estremamente contingente e segmentata la realtà sociale, economica, vitale. Tale semantica ha provocato, da una parte, un drastico abbassamento delle soglie di accettabilità della rischiosità socio - economica, necessitando, però, dall’altra, di ricreare continuamente situazioni d’emergenza. La finanziarizzazione della vita provoca, dunque, una sorta di assuefazione al rischio ma la ridefinizione costante dei pericoli e dei possibili profili d’intervento alimenta la paura, l’instabilità, il bisogno di politiche assicurative, preventive o repressive. Si potrebbe anche osservare che, a fronte di una complessiva precarizzazione delle esistenze, soprattutto per quanto attiene alla dimensione lavorativa, si determina, come contraltare, la necessità di rifugiarsi in politiche securitarie che promettono, in termini compensativi, la prevenzione o l’eliminazione della rischiosità sociale. Poi, che queste politiche, spesso e volentieri, creino preventivamente i profili e le situazioni di rischio che mirano a combattere è una problematica spesso sottovalutata o deliberatamente rimossa. In linea generale, vorrei sostenere che ad un’elevata tolleranza nella distribuzione dei rischi economici l’ordine del discorso biopolitico fa corrispondere una stretta securitaria sulla pericolosità sociale. La dialettica libertà/sicurezza, che Foucault aveva individuato come tratto costitutivo del neoliberalismo moderno e dell’etica dell’homo oeconomicus, ha nei dispositivi e nelle tecnologie di potere della società del rischio il proprio fulcro. Tale rischiosità, però, non risiede soltanto nei processi di finanziarizzazione della vita e di precarizzazione del lavoro; essa si estende microfisicamente ad alcune condotte individuali e sociali, come quelle che riguardano la salute e le pratiche di soggettivazione biomedica e biotecnologica. 4.7. Economia della salute, biomedicina, biotecnica

I lavori di autori come N. Rose e P. Rabinow hanno messo in evidenza, nella ricezione delle tesi foucaultiane, l’interrelazione di tematiche bioeconomiche e biomediche. Ciò attraverso il concetto chiave di governamentalità neoliberale. Il biopotere è presentato come un paradigma di sintesi post - sovrana tra tecnologie del sé e tecnologie governamentali, processi di soggettivazione e di oggettivazione. Nonostante questi due autori condividano la teoria di Agamben dello stato

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d’eccezione permanente84, preferiscono interpretare i processi di radicamento dei dispositivi bioeconomici come regimi pastoral - governamentali addolciti e diffusi, fondati sui concetti neoliberali di autonomia ed interesse. Dunque, esisterebbe, secondo questo punto di vista, una convergenza di interessi tra poteri economici e dispositivi di gestione governamentale del vivente. Rose si concentra soprattutto sui dispositivi e le pratiche di medicalizzazione della salute, intravedendo in essi i principali oggetti di interesse delle lobby finanziarie, farmaceutiche e bio - tecnologiche mondiali85. Consenso informato, autonomia di scelta, azione volontaria sono i nuclei fondamentali che articolano il concetto di governamentalità proposto dall’autore. L’obiettivo prioritario di tale indagine è di spostare il confine bioeconomico dalla dicotomia etica/potere a quella coazione/consenso, mettendo in evidenza le strategie microfisiche che penetrano nei corpi mediante complessi processi di soggettivazione. Se quest’approccio ha l’indubbio vantaggio di far emergere i sottili meccanismi di soggettivazione attraverso cui il vivente assume eticamente il compito di farsi moltiplicatore delle logiche desideranti e bioeconomiche connesse al mercato, dall’altro lato sembra che dedichi poco spazio all’aspetto, per così dire, coattivo e vincolante del controllo biomedico. È difficile pensare che pratiche come il consenso informato o la libertà di scelta possano muovere le strategie di soggettivazione in paesi in via di sviluppo o in contesti politici non democratici, stretti nella morsa del sottosviluppo, dello sfruttamento, del ricatto economico. Propongo, dunque, di utilizzare gli strumenti concettuali fornitici dalle tesi di Rose e Rabinow per illuminare aspetti specifici e particolarmente spinosi di quella che potremmo definire economia della salute/salvezza, tenendo, però, ben presente che è un discorso che può essere considerato pienamente appropriato nel mondo occidentale ed industrializzato e marginale in molti altri contesti. Ciò non inficia l’importanza di tali concettualizzazioni in relazione alla tematica della globalizzazione. Gli effetti del potere globale non sono ovunque gli stessi. La microfisica del potere opera attraverso dispositivi molteplici e frammentati. Come sottolinea Z. Bauman, parlando di globalizzazione non si prende in considerazione uno spazio liscio ma segmentato86. In tal senso ritengo che le tematiche che andrebbero circoscritte o quantomeno trattate con i dovuti distinguo riguardano la corretta contestualizzazione dei dispositivi di soggettivazione/oggettivazione e delle pratiche di consenso informato, eticità della scelta, ecc. Rimane ferma, invece, la validità delle tesi foucaultiane riguardo a tematiche come governamentalità, microfisica, ecc.87. 84 Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, op. cit. 85 Cfr. N. Rose, La politica della vita, op. cit. 86 Cfr. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, op. cit. 87 Interpretando il concetto di globalizzazione in termini foucaultiani dovremmo sempre tene-

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Fatta questa indispensabile precisazione, vorrei procedere parlando più diffusamente di quella che Rose definisce politica della vita88. Alla fine del XX secolo si è diffusa l’idea di un’imminente trasformazione in senso bio - tecnologico e bio - genetico della specie umana. Alcuni autori, come J. Rifkin o G. Stock89, parlano di un secolo biotech, caratterizzato dalla diffusione di un immaginario post - genomico: il sequenziamento del genoma umano, avviato nei primi anni del nuovo millennio, avrebbe inaugurato l’epoca della manipolazione genetica. Questi autori, collegando la genomica agli sviluppi delle tecnologie riproduttive (diagnosi genetica pre - impianto, clonazione del DNA), hanno predetto la nascita di un mondo dominato dall’ingegneria genetica in cui le qualità dell’umano potrebbero essere pianificate e progettate in laboratorio. Ulteriori trasformazioni sono state intraprese nel mondo della farmacologia, delle tecniche biomediche (screening genetico), dei trapianti, delle modificazioni genetiche, della medicina personalizzata. Tutte queste tecniche hanno diffuso la speranza che le cure mediche possano, presto o tardi, essere condotte sulla base del genotipo individuale, implicando la personalizzazione dei trattamenti e delle condotte mediche. È a partire da questi presupposti, considerati in molti casi anche eccessivamente ottimistici, che oggi si è soliti parlare di biomedicina in termini etici sempre più individualizzati. La singolarizzazione dei trattamenti e delle cure comporta, inoltre, un forte investimento identitario da parte del singolo o delle formazioni sociali che si creano intorno alle pratiche ed alle terapie mediche di nuova generazione. Per questo motivo Rose e Rabinow parlano della medicalizzazione come la dimensione che muove oggi i molteplici e differenziati processi di soggettivazione individuale e collettiva. Ciò implica, da una parte, una nuova eticità, fondata su un’innovativa concezione antropologico/vitale aperta a potenzialità infinite; dall’altra, mette in campo un immaginario tecnoscientifico che scardina i confini re presente che si tratta di inserire i dispositivi e le pratiche di potere all’interno di una griglia epistemologico - concettuale che ne individua la rilevanza come discorso di potere. In tal senso, l’ordine del discorso della globalizzazione è necessariamente un ordine del discorso capitalistico/ liberale che interpreta, cioè, fenomeni globalmente diffusi con categorie e strumenti concettuali costruiti nei centri di potere dominanti. Dunque, si deve fare riferimento alle istituzioni, alle agenzie, ai poteri che articolano il discorso bio - economico sulla e della globalizzazione per cogliere gli effetti di potere. Come sostiene Foucault, bisogna sempre capire chi parla, in quanto i discorsi di potere rispecchiano la verità di coloro che li pronunciano. Dire che ciò è vero anche in relazione al discorso della globalizzazione credo non significhi metterne in dubbio o disconoscerne la portata globale. Significa semplicemente rendersi conto che se ne parla con le categorie e gli strumenti concettuali di una parte. 88 Cfr. N. Rose, La politica della vita, op. cit. 89 Cfr. J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, op. cit. e G. Stock, Riprogettare gli esseri umani. L’impatto dell’ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie, trad. it. di E. Servalli, Orme Editori, Milano, 2004.

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simbolici, etico - morali, antropologici consolidati. I cambiamenti tecnoscientifici che ci troviamo innanzi suscitano, infatti, radicali interrogativi che investono, soprattutto, la problematica relazione tra ciò che deve essere considerato naturale ed immutabile e ciò che rientra nella sfera della tèchnē, ed è destinato a mutare. In questo dibattito sono in gioco, pertanto, i confini dell’umano, i limiti e le possibilità entro i quali si costruisce l’esperienza. Non posso soffermarmi su questo interessante problema, tuttavia vorrei provare a mettere in luce il profondo paradosso che la dicotomia natura/tèchnē implica nel momento in cui si definiscono le relazioni ed i limiti entro i quali queste due dimensioni si pongono. Si potrebbe pensare, ad esempio, che le trasformazioni bio - tecnologiche che investono il corpo esprimano una tendenza espansivo - potenziante che porterebbe la tecnologia a trasformare la natura biologica dell’uomo (e del mondo) in una condizione macchinica o ibrida. Si tratta del mondo delle macchine, della robotica, dei calcolatori, dell’intelligenza artificiale, dei cyborg. Gli sviluppi bio - tecnologici aperti dall’ingegneria genetica e dalle tecniche di sequenziamento e ricombinazione del DNA aprono uno scenario nuovo che alcuni teorici considerano il futuro inevitabile della nostra specie. Le tecnologie bio - genetiche, soprattutto quelle che intervengono sulla linea germinale, sfumano la dicotomia tra natura ed agire tecnico e, addirittura, si contraddistinguono per una vocazione iper - biologica. Ciò significa, nota Rose, che tali tecnologie mirano a ridisegnare la biologia umana operando nella sfera genetica. Si potrebbe, quindi, guardare a queste come delle tecnologie che introducono un più di biologia e che mirano a rendere l’uomo biologicamente – non tecnologicamente – più potenziato. Le aspirazioni super - umane che tali tecnologie portano con sé, dunque, presentano uno scarto bio - antropologico rispetto agli scenari postumani dominati dalla cibernetica o dalla robotica. Si tratta di tecnologie che intervengono direttamente sul vivente per modificarne la costituzione, il patrimonio genetico, le potenzialità biologiche. L’aspirazione sottesa a questi tentativi credo si possa definire compiutamente superominica nel senso che mirerebbe al potenziamento illimitato ed al perfezionamento della vita umana, sostituendo l’azione artificiale dell’uomo ai processi biologici della nascita, della riproduzione, dell’invecchiamento, prevenendo o cercando di eliminare la malattia dagli orizzonti vitali. Molti si chiedono se ed, eventualmente, quali sono i limiti che devono essere posti a tali trasformazioni. Ma la domanda di base potrebbe essere ancora più radicale: «Esiste un limite o l’agire tecnoscientifico è per sua natura illimitato?». Non potendo trattare diffusamente questa tematica, preferisco rendere brevemente conto delle principali posizioni assunte dagli studiosi nel dibattito filosofico - scientifico per introdurre il nodo centrale del presente discorso: la politica

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della vita come limite estremo e possibile ribaltamento dell’oikonomia della salute/salvezza. Il dibattito sulla bioetica ha conosciuto negli ultimi anni diverse ipotesi. Da una parte ci sono autori come F. Fukuyama, L. Kass, J. Habermas, p.Barcellona che puntano a definire una nuova sfera morale entro la quale la natura umana possa essere ri - sacralizzata, opponendo all’artificialità delle moderne tecnologie la necessità di ricostruire i limiti simbolico - normativi della natura umana90. Dall’altra parte, c’è chi vede nell’ingegneria genetica e nella ricerca sulla vita l’auspicabile superamento dei limiti bio - naturali dell’umano, spingendo la tecnoscienza verso la progettazione di esseri sempre più perfetti, liberandoli dal peso della malattia, della sofferenza, della morte, dotandoli della libertà di scegliere le proprie caratteristiche vitali, modellando a piacimento il corpo ed i geni. Questo approccio, espresso da autori come R. Marchesini e R. Dawkins ed, in termini molto più radicali, da trasumanasti come R. Campa, evidenzia lo scollamento tra etica e morale, sostenendo un punto di vista che nell’individualizzazione etica e nella possibilità di scelta vede non solo un atto di libertà estrema del soggetto ma uno spazio di necessaria autonomizzazione dai vincoli delle tradizionali autorità morali91. Ciò che è possibile tecnologicamente è anche necessario per lo sviluppo ed il progresso della specie nella sua globalità. Si tratta di un determinismo tecnologico che sfida apertamente i limiti antropologici ed etici in vista di un sogno di perfezionamento. Spesso si è messo in luce il pericolo, anche solo potenziale, sotteso a tale visione del mondo e dell’uomo. Molti interpreti tendono a minimizzare il peso di queste teorie, altri le interpretano come conseguenze secondarie ed accidentali di uno sviluppo tecnoscientifico che potrebbe sfuggire di mano. Ritengo che il peso di queste teorie non debba essere né amplificato né trascurato ma valutato in relazione all’impatto sociale che visibilmente mostra nel presente, ad esempio in relazione al pericolo di discriminazione genetica o di sfruttamento economico invasivo del vivente. A quest’ultimo aspetto si richiamano Rose e Rabinow. Il loro punto di vista può essere considerato come una terza via percorribile ed alternativa ai catastrofismi morali degli uni o ai 90 Cfr. F. Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo, trad. it. di G. Della Fontana, Mondadori, Milano, 2002, L. Kass, Beyond therapy: biotechnology and the pursuit of happiness, Regan Books, New York, 2003, J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it. di L. Ceppa, Einaudi, Torino, 2002, P. Barcellona, L’epoca del postumano. Lezione magistrale per il compleanno di Pietro Ingrao, Città Aperta Edizioni, Troina (En), 2007. 91 Cfr. R. Marchesini, Post - human. Verso nuovi modelli d’esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, trad. it. di G. Corte e A. Serra, Mondadori, Milano, 1995 e R. Campa, Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Sestante Edizioni, Bergamo, 2010.

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pericolosi ottimismi biogenetici degli altri. Infatti, questi autori – al di là delle limitazioni geografiche che ho messo precedentemente in luce – si soffermano sugli aspetti sociali, culturali ed economici delle trasformazioni in atto. Essi testimoniano l’esistenza di un dibattito socio - filosofico che affronta la tematica dei rischi biotecnologici a partire dal rapporto tra i sistemi capitalistici contemporanei e gli orizzonti delle scienze della vita. Secondo questo punto di vista la governamentalità bioeconomica è caratterizzata oggi da cinque processi: molecolarizzazione: la vita è concepita come un insieme di meccanismi vitali molecolari che possono essere isolati, ricombinati, manipolati senza apparenti vincoli normativi che facciano riferimento ad un ordine vitale naturale. Ottimizzazione: il maggior obiettivo sembra essere non il raggiungimento di un ideale normativo di salute ma la possibilità di ottimizzare differenti prospettive salutari nei termini del perfezionamento e del potenziamento delle prestazioni e delle funzioni bio - organiche. Soggettivazione: nasce una nuova concezione di cittadinanza biologica che ricodifica diritti, doveri ed aspettative e crea una nuova etica somatica fondata su innovative forme di socialità, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra gli individui e le autorità medico - sanitarie. Competenza somatica: si tratta di nuovi modi di governare la condotta umana e di creare sottoprofessioni e competenze direttamente coinvolte nella gestione di aspetti specifici della nostra esistenza biologica e genetica (ad es. genetisti, specialisti in medicina riproduttiva, terapisti delle cellule staminali, ecc). Secondo Rose, questi specialisti divengono dei veri e propri pastori del soma che hanno un ruolo di giuda ma anche di controllo nei confronti degli individui o delle famiglie che spesso si trovano a dover affrontare delle scelte biomediche molto complesse. Economie della vitalità: si crea un nuovo rapporto tra la capitalizzazione della vita, la ricerca del profitto, l’investimento economico e il valore che l’individuo e la società attribuiscono alla salute/salvezza, cioè al miglioramento delle condizioni di vita ed al benessere individuale. Il biovalore ha frazionato la vita e l’ha resa disponibile allo sfruttamento economico. Inoltre, “sono nati nuovi attori come le società biotech di rischio e le società derivate, che spesso vogliono sottolineare la loro responsabilità sociale collettiva, combinandosi in vari modi con forme di cittadinanza e di competenza specialistica”92. 92 N. Rose, La politica della vita, op. cit., p. 11.

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La bioeconomia rappresenta uno degli orizzonti che maggiormente promuove la molecolarizzazione ed informatizzazione della vita: la scomposizione della vitalità in una serie di oggetti distinti che possono essere conservati, congelati, immagazzinati, scambiati, commercializzati. Inoltre, il governo economico della vita è possibile mediante la creazione di una microfisica rete di poteri, agenzie, corpi politici, autorità economiche, imprese che intrecciano i propri interessi con le aspirazioni, i giudizi, le ambizioni dei cittadini - consumatori, delle famiglie, dei gruppi di pressione. Il potere biotecnologico implica l’utilizzo delle componenti genetiche del vivente come materia prima ma anche come valore finanziario (si pensi alla politica dei brevetti farmaceutici, chimici ed agricoli che si estende ai nuovi prodotti geneticamente modificati). Quest’aspetto fa riferimento alla capitalizzazione economica del vivente. Nello spazio del biocapitale e del biovalore si muovono attori come le multinazionali farmaceutiche che quotano i risultati delle proprie scoperte in borsa o le industrie biotecnologiche che hanno modificato le forme della cittadinanza ed indirizzato gli interventi governativi in materia di prevenzione, assistenza, assicurazione sulla vita, rischio genetico. Per realizzare quella che Rose chiama politica della vita è necessario lo stanziamento di denaro su ampia scala. Gli investimenti, nella maggior parte dei casi, provengono dal capitale di rischio fornito dalle corporation private che raccolgono pure fondi sul mercato azionario. Questi fondi sono soggetti a tutte le fluttuazioni del mercato ed alle esigenze della capitalizzazione, come l’obbligo di profitto e la domanda di valore azionario. Le compagnie biotech, inoltre, non si occupano solo della commercializzazione delle biotecnologie ma svolgono ricerca ed attività di laboratorio. Sono gli investimenti commerciali a guidare ed influenzare la ricerca scientifica e le scoperte biomediche. La biopolitica diviene bioeconomia in imprese come Mec Immune Inc, Gene Logic Inc, Celera Genomics, deCodeGenetics, Genentec. Tutte queste realtà si muovono nel comune intento di produrre biovalore, cioè valore estratto dalle proprietà vitali dei processi viventi. Anche l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nella proposta di un grande progetto per la bioeconomia nel 2030, definisce la bioeconomia come quella parte delle attività economiche che cattura il valore latente nei processi biologici e nelle bio - risorse rinnovabili per produrre salute, crescita e sviluppo93. Porre la salute dell’uomo nelle mani di imprese che si muovono spesso con la sola prospettiva del profitto è molto pericoloso. In altri termini, mi limito ad osservare che, comunque si voglia valutare lo sviluppo di queste tecnologie biogenetiche ed il loro impatto sulla condizione antropologica, non si può fare a meno di notare che il profitto e la capitalizzazione costituiscono un rischio enor93 Oecd, The bioeconomy to 2030. Designing a policy agenda, 2009. Disponibile su www.oecd. org/publishing/corrigenda.

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me. Porre le prospettive future d’esistenza dell’uomo nelle mani di élite economiche che ne ridisegnano continuamente i confini potrebbe rivelarsi rischioso, in quanto determinate scelte scientifiche o tecnologiche potrebbero essere motivate esclusivamente dal profitto di pochi e non da prospettive di crescita e benessere collettivo. Inoltre, il pericolo maggiormente evocato dai critici della moderna bioeconomia è quello della discriminazione su base genetica. Fare del comune patrimonio genetico il metro in base al quale valutare il biovalore del singolo uomo potrebbe spingere l’economia futura verso la creazione di un’umanità di serie A e di un’umanità di serie B. Alcuni studiosi mettono già oggi in evidenza gli esiti discriminatori che le politiche di molte multinazionali farmaceutiche hanno prodotto utilizzando popolazioni del così detto Terzo e Quarto mondo come laboratori per esperimenti bio - genetici94. O ancora, si potrebbe parlare di effetti discriminatori indiretti anche allorquando scoperte scientifiche pensate per il ricco mondo occidentale non possano essere utilizzate nei paesi più poveri a causa dei costi che comportano. Il problema di fondo è che gli squilibri economici che necessariamente si producono non dovrebbero in alcun modo influenzare scelte bio - vitali importanti per tutti gli esseri umani come quelle che riguardano la salute presente e futura delle generazioni. Bisogna, tuttavia, ricordare che questo potere bioeconomico è controbilanciato, in molti contesti nazionali, da nuove tecnologie del sé che sviluppano processi diffusi di soggettivazione. È la componente biovitale che caratterizza, infatti, i perimetri di quella che Rose ha definito cittadinanza biologica per indicare tecnologie che mirano a realizzare l’empowerment, l’autodeterminazione, l’autocontrollo dell’individuo sulle proprie condizioni vitali. La cittadinanza biologica, infatti, tutelata da misure legislative che si pongono a garanzia delle pratiche di consenso informato, di protezione dei dati personali, di libertà della scelta in campo medico, è caratterizzata dall’impegno etico per il raggiungimento del benessere personale. Tutto ciò conduce Rose a parlare della nascita di una nuova politica della vita in luogo di quella che, con terminologia foucaultiana, poteva essere chiamata politica della sanità: Si potrebbe dire che la politica vitale del XVIII e del XIX secolo era una politica della sanità – di tassi di natalità e mortalità, di malattie ed epidemie, della vigilanza sull’acqua, fognature, derrate alimentari, cimiteri e sulle condizioni vitali degli individui agglomerati nelle grandi e nelle piccole città. Nella prima metà del XX secolo, tale interesse per la salute e la qualità della popolazione si coniugò con 94 Per approfondimenti si veda l’interessante saggio di S. Mazzadra, Le forze e le forme. Governamentalità e bios nel tempo del capitale globale, in A.A. V.V., Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, op. cit.

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una particolare visione circa i fattori ereditari della struttura biologica e circa le conseguenze della riproduzione differenziale delle diverse sottopopolazioni (…). Ma la politica vitale del nostro secolo sembra alquanto diversa. Non si situa tra i corni della malattia e della salute, e neppure è focalizzata sull’eliminazione della patologia per proteggere il destino del paese. Piuttosto, si occupa delle nostre crescenti capacità di controllare, gestire, progettare, riplasmare e modulare le stesse capacità vitali degli esseri umani in quanto creature viventi. É, come suggerisco, una politica della vita stessa95.

Essa è sorta in Europa ed in Australasia dalla diffusione delle politiche sociali e previdenziali, dal consolidarsi, nel secondo dopoguerra, dello Stato sociale. Ma anche dallo sviluppo di nuove tecnologie che hanno consentito di riorganizzare e decentrare alcune funzioni relative alla gestione della salute, precedentemente accentrate negli apparati statali. Così sono sorti, nel corso della seconda metà del Novecento, organismi di controllo e commissioni bioetiche autonome rispetto allo Stato ma anche enti privati (cliniche e società operanti nel campo biotecnologico) che commercializzano una serie di prodotti (es. test genetici) direttamente ai cittadini sfruttando le reti informatiche e le più moderne tecnologie elettroniche. Tali trasformazioni hanno attribuito grande responsabilità ai cittadini nella gestione delle pratiche mediche e genetiche che li coinvolgono in prima persona. E questo aspetto può essere inteso sia come un’opportunità importante per allargare la sfera di autonomia e libertà del singolo su questioni bioetiche personali sia come un vincolo, perché sottomette il corpo ad una pressione psico - emotiva spesso insostenibile senza il supporto di specialisti. Infatti, le scelte in materia bioetica, purtroppo, si prestano spesso alla manipolazione economica ed a forme di controllo, ancora più silenti, perché attuate direttamente sul vivente. Come sostiene Rose, le trasformazioni: Da nessuna parte sono state palpabili come nel campo della salute, dove i pazienti sono stati sempre più spinti a diventare consumatori attivi e responsabili di prodotti e servizi medici che vanno dai farmaci alle tecnologie riproduttive, ai test genetici. L’insieme di commercializzazione, autonomizzazione e responsabilizzazione conferisce un carattere peculiare alle politiche contemporanee della vita nelle democrazie liberali avanzate96.

Ed, infatti, commercializzazione, autonomizzazione e responsabilizzazione sono i tre processi che fanno sì che la politica della vita possa essere, allo stesso tempo, la base di processi di oggettivazione e controllo ma anche di inedite pratiche di soggettivazione che liberano eticamente gli individui da forme invasive di eterodirezione. L’aspetto fondamentale su cui si concentra la percezione del cambiamento 95 N. Rose, La politica della vita, op. cit. pp. 5 - 6. 96 Ivi, p. 7.

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è certamente l’intensificazione quantitativa degli interventi biomedici ma anche la portata innovativa della molecolarizzazione. Il bios non è più insondabile e misterioso. La conoscenza completa dei processi bio - vitali dell’uomo apre le porte ad una possibilità previsionale ed operativa impensabile fino a qualche decennio fa. La vita diventa un campo di conoscenza “ad alto investimento emotivo, un territorio in espansione per lo sfruttamento bioeconomico, un principio organizzatore dell’etica, la posta di una politica vitale molecolare”97. Ma ciò indica anche che nell’attuale scenario biomedico e bioeconomico si è superata una soglia prima considerata invalicabile: la vita diventa una forma “emergente” che deve essere certamente rielaborata in termini antropologici, epistemologici, semantici e politici. E, soprattutto, deve essere ripensata in relazione ad una nuova etica somatica che, esprimendo la carica paradossale del biopotere contemporaneo, potrà tradursi oltre che in una politica sulla vita anche in una politica della vita98. Da un lato, la nostra vitalità si è aperta come mai prima allo sfruttamento economico e all’estrazione del biovalore, in una nuova prospettiva bioeconomica che modifica la concezione stessa che abbiamo di noi proprio mentre ci dà la possibilità di intervenire su di noi in nuovi modi. Dall’altro, la nostra individualità neurochimica, corporea, somatica si è aperta alla scelta, alla prudenza e alla responsabilità, alla sperimentazione, alla contestazione, e dunque, ad una politica della vita in quanto tale99.

97 N. Rose, La politica della vita, op. cit. p. 7. 98 Cfr. R. Esposito, Bìos: biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004. 99 Ivi, pp. 12 - 13.

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5. ETOPOLITICA e biodiritto

5.1. Introduzione

Le riflessioni condotte finora in merito al capitalismo cognitivo, all’economia dell’accesso, alla precarietà esistenziale e lavorativa, alla finanziarizzazione del rischio ad alla capitalizzazione del corpo e delle componenti, nonché delle risorse considerate tradizionalmente indisponibili, ci conduce a problematizzare il nesso economia/vita cercando di evidenziare le ragioni teoriche e pratiche di un suo possibile ribaltamento. In questo capitolo si cercherà, pertanto, di discutere i concetti di libertà, autonomia, autodeterminazione, dignità alla luce dei processi e dei dispositivi di oggettivazione/soggettivazione che gli individui utilizzano per ritagliarsi degli spazi di azione e di libertà. Questo discorso verrà condotto a partire da una riflessione antropo - filosofica che chiama in causa, ancora una volta, M. Foucault e che si sofferma sull’innovativa dimensione che fa della cura di sé la base per la fondazione di un’etica con forti accenti politici ed estetici. Tale approccio mostra che le ipostatizzazioni del soggetto di conoscenza e del soggetto giuridico devono essere ribaltate a favore di un punto di vista che riconosca la centralità della persona nella sua integrità psico - fisica e nell’inviolabilità della sua dignità umana. Ma la riflessione di Foucault, in particolare negli ultimi Corsi al Collège de France, consente anche di considerare sotto una prospettiva differente la funzione critica della filosofia, la quale non si pone a difesa di una concezione statica e solipsistica di individualità ma si propone come strumento di comprensione del reale e di problematizzazione dell’esistente. Dalla filosofia foucaultiana scaturisce, dunque, un differente modo di interpretare il paradigma antropologico e le complesse relazioni vita/potere.

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Inoltre, da un altro punto di vista, convergente con l’analisi etopolitica, si cercherà di comprendere come i processi di soggettivazione possano contribuire a innovare le forme giuridiche; come la persona, intesa nella complessità e multiformità dei bisogni, desideri, interessi, che la animano, possa tornare ad essere protagonista della propria esistenza, capovolgendo il paradigma economico. Come sottolinea S. Rodotà, dinnanzi alla contingenza delle moderne società globalizzate, la persona deve ritornare ad essere il centro di un sistema di garanzie giuridiche e di diritti non riduzionistici che ne difendano l’integrità psico - fisica, l’inviolabilità, l’autodeterminazione, la libertà di scelta e d’azione, la dignità umana. Ciò non significa legittimare il punto di vista oikonomico che fa del soggetto moderno un individuo esclusivamente caratterizzato dal proprio statuto biologico. L’integrità biologica è la dimensione fondamentale in base alla quale ridiscutere l’estensione e la modifica delle tutele e delle garanzie giuridiche ma questo non significa che ciò che caratterizza l’umanità dell’uomo sia riducibile al mero dato bio - organico. La persona, che si costruisce tramite complessi e microfisici processi di soggettivazione/oggettivazione, è caratterizzata da uno statuto etico e politico che la trasforma in soggetto attivo, responsabile nella determinazione dello statuto e del valore esistenziale da attribuire a se stessa, sulla base di una molteplicità di riferimenti identitari che non possono essere appiattiti al mero dato biologico. Pertanto sono i molteplici modi di vita attraverso i quali i soggetti si costruiscono che vanno tutelati dal biodiritto in una duplice direzione: limitando gli effetti dei processi di capitalizzazione e di sfruttamento bioeconomico sulla vita e promuovendo con un’adeguata legislazione la dignità e l’autodeterminazione della persona, dando ai cittadini la possibilità di decidere attivamente della propria vita e della propria morte, delle modalità di affrontare la malattia, del modo di utilizzare gli strumenti tecnologici e informativi a loro disposizione. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante nella sfera della bioeconomia e del biolavoro. L’economia dell’accesso può essere ribaltata in una serie di opportunità di “liberazione” dei beni comuni, come la conoscenza, dai vincoli privatistici imposti dall’interesse economico; allo stesso modo, il lavoro può essere “protetto” dall’alienazione e dalla precarietà che un mercato del lavoro deregolamentato produce nella percezione esistenziale e professionale del lavoratore. Contro tutti questi processi che minacciano, spesso in modo drammatico, l’umanità dell’uomo vale la pena riflettere con adeguati strumenti filosofici, sociali e giuridici, sull’importanza che un ribaltamento del controllo/stimolo biopolitico può avere in termini di allargamento dei diritti di cittadinanza e di ri - accentramento delle dinamiche economiche su criteri di equità, solidarietà sociale e rispetto della dignità umana. Ciò può condurre, in conclusione, ad una possibile

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5. Etopolitica e biodiritto

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problematizzazione di quel paradigma antropo - oikonomico della salute/salvezza che, come detto, rappresenta la base antropologica della definizione moderna dell’uomo come individuo profondamente radicato nella falda bio - organica della natura e nelle necessità del corpo. 5.2. Cura di sé e processi di soggettivazione/oggettivazione

Il Corso al Collège de France, intitolato L’ermeneutica del soggetto, apre l’ultima fase della riflessione foucaultiana che si incentra principalmente sulle tecnologie di sé1. Queste vengono inquadrate all’interno della cultura classica e nel passaggio dalla filosofia greco - ellenistica a quella romana e da quest’ultima a quella cristiana medievale. Tali riflessioni, inoltre, fanno riferimento all’analisi dei processi di soggettivazione e si propongono come elemento connettivo di tutta una serie di ricerche, in verità cronologicamente anteriori, che strutturano il percorso circolare ma coerente introdotto dai contributi archeologici e genealogici. È come se nelle ultime lezioni al Collège de France il filosofo francese avesse voluto tornare indietro, problematizzando il medesimo oggetto di studio posto alla base delle ricerche sulle forme di potere/sapere che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, contribuirono alla definizione della soggettività umana. Tale percorso è contrassegnato dalla tematica della cura di sé2. Ciò che l’autore aveva analizzato in relazione al dispositivo di sessualità ora è argomemetato con riferimento ad un aspetto, al contempo, più generico e più specifico: le modalità di trasformazione del discorso sulla soggettività e le pratiche di costruzione del soggetto attraverso differenti forme conoscitive; più specificamente si tratta della relazione tra il soggetto e la conoscenza di sé. Se il problema della sessualità, infatti, era stato inquadrato, ne La volontà di sapere, nel punto di incrocio tra tecnologie e pratiche della soggettività e tecnologie e pratiche del governo della popolazione (anatomo - politica del corpo e bio - politica della popolazione), lo spazio ad esso riservato si allarga nei Corsi degli anni successivi ad analisi incentrate sulle varie forme di conoscenza e sulle modalità che le determinano3. Ma l’inquadramento della tematica del potere/sapere intorno alle modalità di elaborazione e produzione della soggettività implica uno scavo teorico ed, allo stesso tempo, storico - analitico sulla relazione esistente tra modalità di conoscenza e modalità d’esistenza. La posta in gioco della riflessione sull’ermeneutica del soggetto risiede nella necessità di individuare i termini, storicamente e filosoficamente variabili, 1 Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), op. cit. 2 Cfr. M. Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, op. cit. 3 Si veda anche M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982 1983), op. cit.

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del rapporto tra soggettivazione e conoscenza. Cosa implica tale articolazione e quali sono i presupposti di questo tipo di riflessione? Per prima cosa è necessario ribadire che, secondo Foucault, il soggetto è sempre il risultato di un processo storico di costruzione della verità. Questo non significa che non si possa definire un’immagine condivisa di ciò che in ogni epoca si intende con i termini “soggettività” o “umanità”. Il problema è che la costruzione di un universo condiviso di valori dovrebbe essere il risultato e non la matrice della definizione di soggettività. Dunque, affermare che la soggettività è l’effetto dei discorsi di verità non implica che l’uomo non possa esprimere degli spazi di autodeterminazione e di liberazione. Se, infatti, la soggettività è il risultato di processi molteplici che intrecciano forme di potere e di sapere, stratificazioni e diagrammi4 (Deleuze), bisogna anche ammettere che i rapporti strategici entro i quali la soggettivazione si determina sono costitutivamente instabili e continuamente modificabili dal soggetto stesso che agisce. La microfisica foucaultiana non pone l’individuo in una dimensione di passività ma cerca di far emergere la duplice implicazione soggettivante ed oggettivante del rapporto individuo/ potere. Pertanto è esattamente nel punto di incontro delle direttive di soggettivazione/oggettivazione che si pone il problema della conoscenza filosofica e della relazione che essa istituisce con quella che il filosofo francese chiama, in modo inusuale, “spiritualità”. Il pensiero della modernità non è più interessato alla definizione della soggettività attraverso la “spiritualità” etico/estetica ma è proteso sempre più verso l’individuazione di modalità conoscitive che, postulando l’assoluta sovranità del soggetto di conoscenza, ne decretano, contemporaneamente, la progressiva inconoscibilità. Sfuggendo al riferimento teologico o metafisico, la moderna definizione di soggettività risulta interamente determinata nell’atto conoscitivo. A partire da Cartesio, infatti, la filosofia presuppone l’esistenza di una soggettività che esprime un’intrinseca capacità di verità. Il soggetto è a priori capace di dire la verità e ciò prescinde dalla determinazione etica dell’agire. La definizione della soggettività, dunque, si distanzia dal riferimento etico all’azione retta e diviene una condizione interiore ed innata. Ma ciò significa anche che, alle soglie dell’età moderna, l’accesso alla verità non è più sotteso ad un lavoro interiore di carattere etico (quello che Foucault definisce genericamente “spiritualità” etica). Secondo Foucault, contrariamente alla definizione moderna di soggettività, l’antichità classica si caratterizzava per la centralità dei processi di soggettivazione che postulavano la necessità di un accesso del soggetto alla verità, di una conversione etica da attuarsi mediante una serie di pratiche. Queste consentivano all’individuo di costruirsi come soggetto di verità. La “spiritualità” antica implica4 Cfr. G. Deleuze, I piegamenti o il dentro del pensiero (soggettivazione) in Foucault, op. cit.

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5. Etopolitica e biodiritto

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va, pertanto, un movimento etico di accesso alla verità attraverso esercizi pratici, mnemonici, pratiche discorsive o scritte, mediante la “cura” del proprio corpo e della propria anima. Tali pratiche etiche erano contraddistinte da un carattere unificante, cioè da processi di soggettivazione che miravano a realizzare il rispecchiamento dell’interiorità nelle pratiche relazionali esteriori. Al contrario, dalla seconda metà del XVIII secolo, la domanda filosofica fondamentale diviene: il soggetto, così come esso è, può avere accesso alla verità? Le risposte affermative di Cartesio e Kant introducono la tematica della conoscenza infinita di un essere finito, in quanto le condizioni che consentono al soggetto, “così come esso è”, di accedere alla conoscenza fanno anche sì che egli non possa conoscere se stesso. E ciò soprattutto si riflette sull’impossibilità che il soggetto razionale possa dirsi anche soggetto etico. Queste due dimensioni, infatti, si separano. Al soggetto dell’azione retta dell’antichità si è sostituito il soggetto della conoscenza vera. Con la sostituzione della conoscenza di sé (presente già nel famoso precetto delfico: “conosci te stesso”) alla cura di sé si eliminano dallo spazio politico ed etico le condizioni che consentono al soggetto di accedere alla verità attraverso il gioco infinito di modellamento, definizione e ridefinizione del proprio essere. La cura nel mondo antico si strutturava in base all’ideale che mirava a stabilire nel sé un rapporto di rettitudine tra pensiero ed azione ma anche tra mente e corpo. La coerenza, non solo formale, tra azioni e condotta rappresentava un presupposto fondamentale dei processi di soggettivazione (ciò faceva corrispondere ad un ideale astratto di giustizia delle azioni considerate giuste). Invece, nei processi di soggettivazione moderna: la costruzione di sé come soggetti è funzione di un tentativo indefinito di conoscenza di sé, che si sforza ormai solo di ridurre lo scarto tra ciò che sono veramente e ciò che credo di essere. Quel che faccio, gli atti che compio, hanno valore solo in quanto mi aiutano a conoscermi meglio5.

Da tale citazione di F. Gros, curatore del Corso L’ermeneutica del soggetto, si possono trarre delle riflessioni. Un problema fondamentale concerne sicuramente la determinazione dello scarto sopracitato. Tale scarto non si determina soltanto tra “ciò che sono veramente” e “ciò che credo di essere” ma anche tra ciò che sono e ciò che vorrei essere o che spero di essere. Nella determinazione dei processi di soggettivazione moderni il pensiero risulta scavato o raddoppiato da un’esteriorità, da un “fuori” che gli impedisce di essere mai completamente pago di se stesso. Il soggetto moderno è, in questo senso, un soggetto del desiderio, cioè un individuo che si costruisce in una tensione continua tra la propria condizione finita 5 F. Gros, Nota del curatore in M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), op. cit., p. 471.

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Infinitamente finiti

e la propria capacità infinita di pensiero e di conoscenza. Ma ciò significa che il desiderio è quella dimensione che sottrae continuamente il pensiero alla determinazione dell’azione. Nei processi di soggettivazione l’uomo cartesiano e kantiano sperimenta un’irriducibile scarto che pone il pensiero in continua tensione rispetto all’azione e che porta l’agire ad essere sempre consequenziale al pensiero. Al contrario, secondo Foucault, i processi di soggettivazione incentrati sul principio della cura di sé allineano pensiero ad azione in quanto indirizzano la tensione desiderante all’atto con il quale il soggetto si costruisce. L’atto etico con cui il soggetto si forma è anche ciò che consente alla conoscenza di definirlo ed ai dispositivi di potere di investirlo. Pensiero ed azione coincidono in quanto le pratiche attraverso cui il soggetto si ridefinisce costantemente non colmano la distanza tra una dinamica desiderante infinita ed un’esistenza finita. Le tecnologie del sé diffuse nell’antichità miravano a stimolare il piacere, non il desiderio. E la ricerca del piacere proiettava i processi di soggettivazione nella dimensione del divenire. Il soggetto, cioè, sperimentava sempre nuovi modi d’esistenza che lo aprivano a differenti usi dei piaceri (il riferimento immediato è al secondo volume sulla storia della sessualità intitolato L’uso dei piaceri6). Ma non bisogna pensare che esista una vocazione prettamente edonista delle pratiche della cura di sé. Al contrario, le analisi di Foucault sui testi classici dimostrano che tali pratiche erano caratterizzate da una “governabilità della distanza etica”7. Ciò significa che i processi di soggettivazione si incentravano sulla creazione di una certa distanza tra il soggetto e se stesso, distanza che doveva, ad esempio, implicare il mantenimento di una differenza tra ruolo sociale e percezione esistenziale. L’individuo doveva in ogni momento valutare le ragioni e le possibilità di un distacco da se stesso, mantenendo un atteggiamento in ogni momento critico sulle proprie azioni e su quelle degli altri. Ciò consentiva di definire una forma di autonomia che doveva ergersi a tutela non soltanto della stabilità interiore del soggetto ma anche delle sue azioni politiche e sociali. Non si trattava, dunque, di pratiche che si fondavano su una forma di straniamento rispetto al mondo esterno ma su un lungo e complesso lavoro che doveva investire l’interiorità al fine di orientare in maniera saggia e giusta l’azione sociale e politica. La cura di sé implicava, dunque, una concezione della verità, intesa come logos, come parola vera che consentisse al soggetto di assicurarsi la salvezza. Quest’ultima non aveva un’accezione escatologica; indicava l’obiettivo etico a cui le pratiche di cura di sé miravano: dare al soggetto gli strumenti teorici e pratici che gli consentissero di modellare ed indirizzare la propria esistenza verso 6 Cfr. M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, op. cit. 7 F. Gros, Nota del curatore in M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), op. cit., p. 471.

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5. Etopolitica e biodiritto

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ciò che era considerato conveniente, in termini sia individuali che collettivi8. Si comprende, dunque, come nelle tecnologie della cura di sé diffuse nel mondo classico greco - romano la verità venisse intesa come una ragione di vivere, come una forma di attualizzazione dell’esistenza che, in senso strettamente fisiologico, costituiva l’orizzonte di verifica, intensificazione, re - iscrizione dell’individualità nella sfera delle relazioni di potere/sapere. La domanda che inaugura la riflessione foucaultiana sui processi di soggettivazione/oggettivazione, quindi, riguarda la possibilità di individuare le ragioni di un agire, al contempo etico ed estetico, che si sviluppi al di fuori della dicotomia bene/male su cui si è fondata la morale occidentale. La costruzione del soggetto nell’antichità classica era incentrata su una visione etopoietica che si presentava, allo stesso tempo, come un’estetica dell’esistenza. Foucault non sottovaluta il lato estetico dei processi di soggettivazione ma ne riconosce le potenzialità, anche e soprattutto, nelle dinamiche di soggettivazione moderna. Il filosofo francese sottolinea, infatti, che anche lo spazio strategico di liberazione dell’uomo di oggi consiste nel trasformare la vita in un’“opera d’arte”. 8 Si possono indicare alcuni esempi per comprendere questo aspetto. Il primo fa riferimento all’analisi della paraskeuē (equipaggiamento, dotazione). Si tratta di un insieme di pratiche e di tecnologie utilizzate nel mondo greco per prepararsi a fronteggiare degli eventi e coltivare interessi ed abilità. Il sapere, in questo caso, non era inteso come ciò che consentiva di conoscere bene se stessi ma come ciò che permetteva di agire rettamente in differenti circostanze. Si trattava, dunque, di tecniche che rendevano disponibile un sapere concepito come “preparazione alla vita”, un sapere che attualizzava l’azione retta piuttosto che definire i perimetri della conoscenza della propria soggettività. Un altro esempio, che Foucault introduce con riferimento ai testi di Seneca, è l’esame di coscienza. Esso ha un significato differente da quello che assumerà nel contesto della moralità cristiano - cattolica. Nell’esperienza classica, infatti, non si tratta di scoprire la verità su se stessi quanto sapere di quali principi veri il soggetto possa disporre ed in che modo o a quali condizioni poterli impiegare. Foucault sostiene, allora, che il soggetto della cura deve diventare soggetto di verità senza essere necessariamente soggetto che dice la verità su se stesso. A differenza dell’esame di coscienza che è al centro dell’esperienza monastica o, in maniera differente, della pratica della confessione, la cura di sé non mira a disseppellire delle verità segrete o latenti ma struttura il processo di appropriazione della verità indirizzando i comportamenti e le azioni. Un’altra pratica affine è incentrata sugli hupomnēmata, raccolte di citazioni e scritti tratti da opere differenti che davano all’individuo la possibilità di accedere ad una dimensione esemplare che indirizzasse l’azione. Nel 1984 il filosofo studia anche la parrēsia, definita sia come parola vera che come parola destrutturante e rischiosa. Dire il vero significa assumersi il “coraggio della verità” (titolo del Corso al Collège de France del 1984), ricercare la verità, attraverso la parola che spezza, che disarticola, che destruttura, smascherando i rapporti di forza e denunciando gli abusi di potere. Ma ciò comporta un rischio per chi parla, quello di mettere in gioco la propria esistenza, trovarsi investiti dai contro - effetti di un discorso che mina le certezze acquisite, che capovolge ironicamente i ruoli prestabiliti. Nell’ultimo ciclo di lezioni tenute nel 1984, tutto ciò sfociò nell’analisi dei testi cinici e di esperienze di vita che diedero scandalo, cioè che rappresentarono sulla scena pubblica il paradosso del ribaltamento che certi discorsi di verità possono operare.

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Infinitamente finiti

Ma egli non concepisce questa sfera come dimensione puramente artistica. Trasformare l’esistenza in un’opera d’arte implica un’attenzione, una cura ed una attività che in maniera più pertinente potrebbe essere riferita al lavoro artigiano. Il soggetto, infatti, si deve sottoporre ad un lavoro di formazione, di creazione, di trasformazione. Si comprende immediatamente come tale accezione estetica sia incentrata sull’azione, sulla capacità umana di agire, e si esplichi essenzialmente nella dimensione immanente delle pratiche attraverso cui il soggetto dà un ordine alla propria vita. Tale ordine immanente non implica, dunque, l’appartenenza ad un sistema metafisico o religioso. Esso si struttura esclusivamente a partire da una coerenza interna, una scelta personale d’esistenza che scava una distanza tra il soggetto etico e le proprie azioni (governabilità della distanza etica). Ma da questo punto di vista gli ultimi corsi al Collège de France non devono essere considerati come una ripresa inattuale di tematiche classiche che oppongono al punto di vista oppressivo della morale borghese il ritorno ad un’etica dell’esistenza di tipo individualista o narcisista. Molte critiche, infatti, sono state rivolte all’attenzione che Foucault riservò alle pratiche della cura di sé, intravedendo in esse il rispecchiamento dell’etica dandysta, narcisista, individualista che contraddistinguerebbe la contemporaneità. In realtà, Foucault non guarda all’antichità classica al fine di trovare un comodo modello etico da applicare alla contemporaneità. Egli mostra, semplicemente, come i processi di soggettivazione si modifichino e come tale riflessione possa, in ogni epoca, contribuire a chiarire la strutturazione dei rapporti di forza, le strategie di dominazione, gli strumenti di resistenza e le dinamiche oppositive che, non solo il singolo ma l’intera società, possono mettere in campo. La cura di sé implicava una serie di tecniche e di pratiche che avevano l’obiettivo di scongiurare le condizioni che avrebbero potuto trascinare gli uomini liberi in uno stato di schiavitù. Quest’ultima, inoltre, era concepita come una condizione di dipendenza per scongiurare la quale l’uomo libero doveva agire per procurasi strumenti di prevenzione e cura. Rispetto a quanto detto non si può pensare, quindi, che Foucault idealizzasse la sfera delle relazioni e delle tecnologie della cura di sé. Egli si limitò a comprenderne i meccanismi e ad indicarne le trasformazioni. Il filosofo francese propose, dunque, di partire dall’analisi delle tèkhnai tou biou per ricostruire una genealogia del soggetto capace di proporre un affrancamento dei processi di soggettivazione dagli equivoci dell’umanesimo e dalle tesi che si incentrano sul “trascendentalismo” del soggetto di conoscenza, pur senza idealizzare la bella eticità classica o proporre delle sovrapposizioni tematiche astratte ed astoriche. Quello che mi preoccupa nell’umanesimo è il fatto che esso presenta una certa forma di etica come modello universale per ogni forma di libertà. Io penso, invece, che si diano più segreti, che ci siano più libertà possibili, e che il futuro ci riserverà

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5. Etopolitica e biodiritto

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molte più novità di quanto ci possiamo immaginare sulla base di un umanesimo quale viene dogmaticamente rappresentato in ogni settore dell’arco politico 9.

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5.3. Etopolitica e filosofia

Come si è detto, la genealogia foucaultiana si sofferma su una visione della soggettività immanente e storicamente costruita. Ciò articola i processi di soggettivazione con i dispositivi di potere - sapere. Parlando di tecnologie del sé, Foucault, infatti, non intendeva mettere in luce la sola dimensione liberatoria dei processi di soggettivazione che può essere nettamente opposta a quella oggettivante delle tecnologie di potere/sapere. Al contrario, l’autore sottolinea la convergenza e l’integrazione tra direttrici di riflessione relative all’archeologia dei saperi, alla microfisica dei poteri ed alle tecniche della cura di sé. Ma non si tratta di opporre a tecniche di soggettivazione liberatorie che fanno riferimento al mondo classico una concezione restrittiva, alienante, repressiva del potere che si esercita sul soggetto moderno. Tale operazione teorica sarebbe ingiustificata da due punti di vista: in quanto proporrebbe una comparazione che in alcun modo Foucault effettua e perché disconoscerebbe nella sostanza la paradossale caratteristica di ogni processo di investimento soggettivo, cioè i vincoli e le possibilità sui quali il biopotere agisce. Quest’ultimo, infatti, non fa della repressione la caratteristica fondamentale della relazione politica. Il potere è, in ottica foucaultiana, un rapporto di forza sempre ribaltabile e modificabile, una strategia, che può dar vita a forme ordinative, ma pur sempre storicamente variabili, di dominazione10. Strategie e rapporti di dominazione costituiscono l’essenza di un potere non puramente repressivo ma che gestisce le dinamiche desideranti individuali e collettive. E ciò rende i processi di soggettivazione paradossali, in quanto forme dispiegate di potere sul corpo che corrispondono a forme più o meno espansive di potere del corpo11. Nei processi di soggettivazione che lo investono l’individuo è contemporaneamente libero ed asservito (ciò che ci incatena può liberarci e viceversa). Nelle interviste degli anni Ottanta Foucault era solito ribattere alle obiezioni riguardanti la duplice natura del biopotere rispondendo alla domanda: «Se il potere è ovunque allora ciò significa che non esistono spazi di libertà?». Le tecnologie 9 M. Foucault, Tecnologie del sé. Un corso con Michel Foucault, a cura di L. H. Martin e H. Gutman, P. H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 10. 10 Si veda M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto in H.L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, trad. it. di D. Benati, M. Bertani, F. Gori e I. Levrini, La casa Usher, Firenze, 2010. 11 Cfr, R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, op. cit.

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Infinitamente finiti

del sé, non solo nelle forme etiche della classicità ma anche in quelle differenziate e disperse della contemporaneità, consentono di ri - articolare continuamente la libertà soggettiva entro le dinamiche di potere, generando spazi molteplici di resistenza che definiscono stili di vita differenziati. Si tratta di comprendere, in questo caso, che non si può escludere la costruzione della soggettività dalla sfera delle relazioni di potere. Esse, nel bene o nel male, rappresentano lo spazio di visibilità, il cono di luce che consente alla soggettività di ridefinirsi. Ed è la vita degli “uomini infami” a testimoniare in maniera più lampante questo paradosso12. Coloro che non hanno mai avuto parola e visibilità nella storia possono essere posti sotto i riflettori in quanto soggetti investiti da uno specifico discorso di potere. Il paradosso delle “esistenze insensate”, di cui Foucault si interessa fin dai suoi primi scritti, è testimoniato da un unico gesto che fa dell’anormalità, della devianza, della malattia, della follia il campo di iscrizione delle dinamiche di potere, le quali costringono, sottomettono ed alienano ma consentono anche di formulare “discorsi veri”, restituendo, per un attimo, visibilità a coloro che ne sono sempre stati privi. La metafora del cono di luce chiarisce questo paradosso, in quanto, come giustamente nota Deleuze, ogni superficie illuminata presuppone una zona d’ombra, ogni esistenza investita degli effetti di potere diviene visibile mentre altre cadono nell’oblio13. È, dunque, importante comprendere come, in ogni epoca ed in ogni contesto, viene posizionata la fonte luminosa. L’esistenza di ogni uomo si struttura nello spazio liminare che distingue la luce dall’oscurità, il dentro dal fuori. Per il soggetto si tratta di un movimento, al contempo, passivo ed attivo, di produzione e creazione, di oggettivazione e soggettivazione. (…) l’individuo - soggetto emerge sempre e solo nel punto in cui si incrociano una tecnica di dominazione ed una tecnica del sé. Il soggetto di cui parla Foucault, insomma, costituisce la piega dei processi di soggettivazione sull’insieme delle procedure di assoggettamento, secondo una serie di raddoppiamenti che risultano, in base alla storia, più o meno sovrapponibili14.

12 Cfr. M. Foucault, La vita degli uomini infami in Archivio Foucault 2 (1971 - 1977). Poteri, saperi, strategie, a cura di A. Dal Lago, trad. it. di A. Petrillo, Feltrinelli, Milano, 1997. 13 Il soggetto che nasce nella piega del fuori, cioè nello spazio di escrescenza che si genera dall’urto delle stratificazioni all’interno del diagramma dei poteri. La soggettivazione è il movimento di piegamento/spiegamento/ripiegamento del “fuori”. Da ciò si comprende che, in ottica foucaultiana, non esiste una “natura della natura umana”, ma un’immensa creatività delle forme e una microfisica del potere che le genera. Per approfondimenti si veda G. Deleuze, I piegamenti o il dentro del pensiero (soggettivazione) in Foucault, op. cit. 14 F. Gros, Nota del curatore in M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), op. cit., p. 473.

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5. Etopolitica e biodiritto

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Tale riflessione ci induce a considerare il progetto foucaultiano in una duplice prospettiva che articola l’analitica interpretativa non solo con il problema della soggettività ma anche con quello del biopotere. E ciò a maggior ragione se si considera la tematica della soggettivazione come dimensione intermedia tra etica e politica. L’insegnamento che possiamo trarre dallo studio delle technai tou biou risiede proprio nell’interrelazione tra la dimensione soggettiva e quella relazionale/politica. Le tecnologie e le pratiche del sé, come detto, strutturano dei rapporti che investono le dinamiche relazionali che il soggetto intrattiene con se stesso e con il mondo esterno. Ciò che fa dell’estetica dell’esistenza un’etica è anche ciò che lega i processi di soggettivazione all’azione politica. Nell’Alcibiade di Platone, ad esempio, il governo di se stessi è connesso al retto governo della società15. Colui che riesce a curare se stesso, indirizzando la propria vita ed avendo piena sovranità su di essa potrà anche agire liberamente sul piano politico, senza subire o esercitare costrizione sugli altri. L’autonomia non è, in questo caso, una condizione “naturale” ma l’esito della “buona azione” indirizzata su se stessi e sul mondo esterno. L’esterno si “invagina” nell’interno e l’interno agisce per cercare di “spiegare la piega”. Solo che il movimento che il soggetto è chiamato a compiere non consiste nell’agire sulle condizioni d’esistenza presupposte all’azione ma su quelle contestuali ad essa. È nell’atto che il soggetto si costruisce, che si determina una coincidenza tra soggettivazione e veridizione. Così, l’agire è da intendersi come un movimento, una delle forme che il divenire esprime come condizione dell’individuazione. Le antiche tecniche della cura di sé possono suggerire alla riflessione moderna la necessità di tenere insieme queste tre dimensioni in contesti socio - politici nei quali la critica dei valori morali e religiosi e la constatazione disarmante della crisi dell’identità spinge molti studiosi a cercare nel postumano la chiave di lettura delle sconvolgenti trasformazioni che investono la definizione antropologico/politica dell’uomo. E se, invece che postulare una via di fuga super-umana o post-umana, si cercasse di ricostruire la complessità estetico - etico - politica dell’umano senza disconoscere l’immensa creatività delle forme che essa può assumere? Naturalmente questo interrogativo è da intendersi in senso provocatorio e critico. Foucault indicò la strada per associare a tali contenuti teorici delle proposte politiche, attuabili dai movimenti che animarono il complesso scenario delle società europee negli anni Settanta ed Ottanta. Secondo il filosofo francese il principale obiettivo delle lotte, cui egli stesso partecipò a partire dagli anni Sessanta, non era di battersi contro l’una o l’altra istituzione, gruppo o classe, quanto, piuttosto, contro una certa forma di potere caratterizzata da specifici meccanismi, dispositivi e tecnologie di funzionamento. Questo tipo 15 Cfr. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981 - 1982), op. cit.

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Infinitamente finiti

di potere si esplica in una forma di controllo, capillare e microfisico, sulla vita quotidiana immediata che classifica gli individui in categorie, etichettandoli in relazione alle pratiche di soggettivazione, agli stili di vita, alle identità assunte, ecc. Si tratta, come detto, di un potere di stampo pastorale ed oikonomico che si indirizza alla gestione, al controllo ed alla “valorizzazione” delle esistenze individuali. Data la natura microfisica di queste forme di potere, dunque, tali battaglie non possono essere indirizzate semplicemente contro lo Stato o le istituzioni. Il grande merito delle riflessioni foucaultiane è stato di aver mostrato la dimensione silente e microfisica dell’iscrizione biopolitica dei poteri sui corpi e nelle dimensioni più intime e recondite della soggettività individuale. Questo è un aspetto di grande attualità della tematica biopolitica che dovrebbe ispirare i tentativi di analisi di movimenti, partiti e sindacati al fine di comprendere la specificità dei problemi che toccano, soprattutto, il mondo del lavoro ed il dibattito bioetico/sociologico sulle nuove tecnologie. Comprendere la specificità delle problematiche, le loro trasformazioni, le loro poste in gioco significa riuscire a reindirizzare le lotte e modificare gli strumenti teorico - analitici a disposizione. Il nucleo centrale della riflessione foucaultiana si indirizza, allora, sulla necessità di problematizzare un campo complesso e spesso sfuggente di rapporti di forza e di relazioni biopolitiche che coinvolgono, in primo luogo, la definizione dell’identità e della vita umana. Secondo Foucault una nuova riflessione in tal senso si può sviluppare promuovendo forme di soggettivazione accessibili mediante innovative pratiche di sé, considerate nella loro dimensione relazionale. La distinzione tra esigenze comunitarie e diritti individuali in quest’ottica dovrebbe essere superata a favore di quelli che l’autore definisce “modi di vita”16 o “scelte d’esistenza”. Parlando delle lotte per il riconoscimento dell’omosessualità il filosofo francese sostiene che non è possibile fermarsi alla rivendicazione dell’uguaglianza giuridica, individuando la necessità di mettere in campo delle tecniche e delle pratiche di soggettivazione che siano in grado di creare una nuova etica, un nuovo modo di vita, una nuova formulazione dei “discorsi veri”. E ciò facendo prioritariamente riferimento alla dimensione relazionale e creativa cui la “stabilizzazione” di nuove modalità d’esistenza può dare accesso. Credo che uno dei fattori di questa stabilizzazione consisterà nella creazione di nuove forme di vita, di rapporti, di amicizie, nella società, nell’arte, nella cultura, nuove forme che si instaureranno attraverso le nostre scelte sessuali, etiche, politiche. Non dobbiamo soltanto difenderci ma dobbiamo anche affermare noi 16 Cfr. M. Foucault, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità in Archivio Foucault 3(1978 - 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit.

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5. Etopolitica e biodiritto

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stessi, affermarci non soltanto come identità, ma in quanto forza creatrice17.

I “modi di vita” introducono una dimensione intermedia tra individuo e società, mostrando come i processi di soggettivazione debbano condurre alla messa in comune delle differenze, alla creazione di uno spazio di confronto e relazione. Ma in questo caso non è in questione l’anteriorità della componente soggettiva o di quella comunitario - sociale. Come sottolinea J. Revel, i processi di soggettivazione spezzano la consequenzialità che spinge alcuni autori a privilegiare le interpretazioni neo - comunitarie che prevedono la riformulazione di un universo condiviso di valori come base per la definizione della soggettività18. D’altra parte, però, soprattutto in contesto italiano, sono prevalse negli ultimi anni delle riflessioni che privilegiano la costruzione di una semantica dell’impersonale19 come principio di ridiscussione delle tematiche identitarie in chiave biopolitica. Secondo la studiosa non si deve cedere né all’una né all’altra tentazione; l’ultima fase del pensiero foucaultiano non può essere interpretata nel senso di una riproposizione in chiave aprioristica dell’organicismo comunitarista ma neanche come un’ipostatizzazione solipsistica o impersonale dell’identità individuale. Comprendere la paradossalità della condizione umana non significa, infatti, dissolverla nell’impersonalità. Significa, al contrario, interpretarla come una soggettività in continuo divenire, incessantemente trasformata in termini etico - politici dall’azione che l’individuo compie su se stesso e sul mondo. A tal proposito Deleuze e Guattari hanno parlato di identità nomade20. Ma bisogna stare attenti anche nell’utilizzare tale definizione. Cosa si intende, infatti, per nomadismo? Tale definizione non rischia di coprire il vero nocciolo del problema dell’identità nella società contemporanea? Le esistenze nomadi di cui parla Deleuze, infatti, pur essendo contraddistinte dalla creatività e dalla capacità di inventare sempre nuove forme e nuovi modi di vita, sembrano difficilmente integrabili in uno spazio coerente di significato e di lotta. Rispetto all’affascinante critica deleuziana le moderne lotte politiche hanno dimostrato che è necessario non soltanto riconoscere il valore fondamentale della differenza ma far sì che esso possa porsi in uno spazio comune di discussione e di confronto. Dunque, i rischi a cui, in maniere differenti, le tesi sul carattere nomadico dell’identità o sulla 17 M. Foucault, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Archivio Foucault 3 (1978 - 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 296. 18 Cfr. J. Revel, Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche, in A.A. V.V., Foucault, oggi, a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano, 2008. 19 Cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit. 20 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma, 2010.

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costruzione impersonale della soggettività ci espongono riguardano l’impossibilità di costruire spazi comuni di discussione e di incontro, spazi nei quali le differenti identità sociali, politiche, sessuali, possano entrare in dialogo. Parlando di processi di soggettivazione, invece, l’ultimo Foucault si curò di sottolineare più volte che la dimensione etica/estetica non può prescindere da quella politica, cioè dalla costruzione di innumerevoli spazi di discussione ed azione nei quali è possibile mettere in gioco le differenze e confrontarsi con l’elaborazione dei discorsi di verità dominanti. Far giocare le differenze significa, in questo caso, rivendicare identità differenziali che possono entrare in conflitto o in dialogo con i discorsi ufficiali del potere. Credo che questo sia il messaggio che l’ultimo Foucault lascia al dibattito contemporaneo; naturalmente, le tematiche e le problematizzazioni inerenti tali forme di dialogo/conflitto si sono molto modificate dai primi anni Ottanta ad oggi ed è proprio per questo, ad esempio, che le tesi sul carattere nomadico o impersonale dell’identità devono essere ridefinite o quantomeno sottoposte ad un nuovo dibattito. A tal proposito, sembra che i processi di soggettivazione siano diventati il terreno più fertile sul quale i discorsi di verità della società di mercato o delle moderne tecnoscienze operano delle estensioni e delle intensificazioni che mirano alla segmentazione ed alla frammentazione delle condizioni, degli stili di vita e delle modalità d’esistenza di ognuno di noi. Con ciò intendo dire che la frammentazione individualista e la tanto celebrata “autonomia” dell’homo oikonomicus non presentano effetti oppositivi o reattivi rispetto al potere massificante dello Stato ma precisi meccanismi di dominazione che sfruttano le politiche pubbliche per far presa sui corpi. La posta in gioco contro il discorso di verità bioeconomico e tecnoscientifico non consiste nel frammentare o nel disperdere ma nel problematizzare per unire, creando sempre nuovi spazi di incontro e di messa in comune delle esperienze. Trovare spazi e tematiche comuni di discussione non significa, pertanto, tornare ad una visione ipostatizzata o naturalistica dell’identità ma mettere in dialogo ed in relazione soggettività in divenire, dando ad esse vita mediante l’azione etica e l’iniziativa politica. Così Revel: L’etica in Foucault non è né un riflusso morale, né un riflusso “individualista” o “egoista”: invece, apertamente, la problematizzazione di un comune che si costituisce a partire dalle differenze e le mette in gioco attraverso modi inediti di condurre la propria esistenza. E la condotta d’esistenza è qui sempre inclusiva di una relazione agli altri (…) che non solo impedisce il ritorno ad una sorta d’individualismo ma blocca in anticipo tutti i tentativi di naturalizzazione, di sostanzializzazione o di essenzializzazione di qual sé messo in gioco nell’elaborazione condivisa di modi di vita21. 21 J. Revel, Identità, natura, vita: tre decostruzioni biopolitiche, in A.A. V.V., Foucault, oggi, op. cit., p. 138.

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Inoltre, le pratiche di autoformazione aprono degli spazi inediti di libertà per il soggetto. Secondo Foucault le pratiche di liberazione devono essere distinte dalle pratiche di libertà. Le prime precedono e fondano l’autonomia in quanto danno vita all’atto mediante cui si ottiene la liberazione (una pratica di liberazione si ha, ad esempio, quando un popolo colonizzato si ribella contro chi lo assoggetta); le seconde, invece, presuppongono un agire etico che consenta alla libertà di consolidarsi come spazio relazionale e politico. Naturalmente, al centro degli interessi foucaultiani si pone questa seconda dimensione che spinge il filosofo francese a considerare l’etica come la “pratica riflessa della libertà”22 e la libertà come la “condizione ontologica dell’etica”23. Come abbiamo visto, nel mondo greco e latino la libertà si traduceva in un ethos che si rispecchiava, prima di tutto, in un modo di essere ed, in secondo luogo, in un modo di relazionarsi con l’alterità. Ma questo ethos, nelle condizioni di vita contemporanea, potrebbe coerentemente tradursi in un “atteggiamento limite” che fa della libertà l’altra faccia della medaglia del potere. Il processo attraverso cui il soggetto si forma (soggettivazione) pone il sé come limite immanente, come luogo di una formulazione continua di discorsi assoggettanti ma anche oppositivi e liberatori. La libertà rappresenta lo spazio che nasce dallo scarto prodotto dall’agire umano. Per questo motivo Foucault può dire che l’etica è “la pratica riflessa della libertà”24. Quest’ultima si riflette nelle pratiche di soggettivazione attraverso cui l’individuo si costruisce e si relaziona con il “fuori”. Ovunque vi sia potere esiste libertà. Foucault sottolinea, addirittura, che anche gli individui folli, i malati, gli anormali sono in fondo soggetti liberi nel momento in cui la loro passività stride con l’eloquenza del potere, laddove la forma minima di resistenza, pur nella dimensione del silenzio, rappresenta una barriera o una forma di rivolta. L’individuo pericoloso in attesa della sentenza che giudica gli atti e definisce il valore delle singole esistenze costituisce il grado zero della soggettivazione, tuttavia rappresenta una condizione vitale che, pur nella passività, produce un effetto di distanziamento. È vero, per esempio, che la costruzione del soggetto folle può essere effettivamente considerata come la conseguenza di un sistema di coercizione – è il soggetto passivo – ma voi sapete benissimo che il soggetto folle non è un soggetto non libero e che il malato mentale si costruisce come soggetto folle proprio nei confronti e di fronte a colui che lo dichiara folle25. 22 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà in Archivio Foucault 3(1978 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 276. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 283.

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Ma dire che la “libertà è la condizione ontologica dell’etica” significa guardare ai processi di soggettivazione/oggettivazione come delle pratiche che istituiscono uno spazio nel quale è possibile la creazione di una nuova ontologia, un’ontologia dell’etica che si costruisce nell’azione e nell’orizzonte immanente e storico di adesione/allontanamento dalle relazioni di potere consolidate. Anche in questo caso, si tratta di un atteggiamento limite in quanto è sul limite che prende forma, definendosi e ridefinendosi incessantemente. Tale limite rappresenta la linea, al contempo de - localizzante e spazializzante, in cui avviene la più compiuta forma di resistenza nei confronti di un determinato assetto di rapporti di potere (strategia) o di sistemi di dominazione. Infatti, come afferma Foucault in un saggio contenuto nella raccolta “Scritti letterari”: La contestazione non è lo sforzo del pensiero per negare delle esistenze o dei valori, è il gesto che riconduce ognuna di queste esistenze ed ognuno di questi valori ai propri limiti, e quindi al limite in cui si compie la decisione ontologica: contestare è andare fino al cuore vuoto dove l’essere raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’essere26.

Ciò che in questo caso è definito vuoto può anche essere chiamato piegamento. Deleuze ha definito la piega dell’essere come un “invaginamento” che crea un “dentro” che è, allo stesso tempo, risultato di un raddoppiamento del “fuori”. In effetti, Foucault pose la questione ontologica nei termini della riflessione su quello che definisce come “pensiero del fuori”27. Il “fuori” ha costituito, a partire dall’umanesimo, il grande impensato del soggetto. Tale limite è stato respinto verso la regione oscura ed inaccessibile dell’impensato, non inteso come ciò che si oppone al pensiero ma come ciò che, allo stesso tempo, lo precede e lo segue. Ed è per questa ragione che l’ontologia è stata sostituita da una metafisica che postula la priorità del medesimo e che respinge l’alterità verso la regione dell’impensato. Nella modernità l’essere è il risultato di uno sforzo di autoconoscenza; l’individuo si pone in rapporto al pensiero in termini conoscitivi. Ciò che rimane al di fuori del pensiero non deve e non può costituire oggetto di conoscenza, non può e non deve essere. In questo caso il pensiero è auto - riflessione del medesimo, è interiorità che conosce e riflette se stessa. Esso coincide con il cogito, con la facoltà conoscitiva. Riappropriarsi di un’ontologia che ponga la libertà come condizione di un’etica significa, dunque, in primo luogo spezzare l’autoreferenzialità identitaria del soggetto, aprirsi a ciò che sfugge al pensiero, a ciò che oppone resistenza o a ciò che consente di pensare diversamente. Si tratta di un pensiero agito 26 M. Foucault, Prefazione alla trasgressione in Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano, 2004, p. 60. 27 Cfr. M. Foucault, Il pensiero del fuori, op. cit.

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nella molteplicità delle relazioni di potere che ci legano ma che possono anche liberarci. Naturalmente non si tratta di assumere un atteggiamento consolatorio; l’intangibilità identitaria dell’homo cogitans risulta spezzata, lasciando il posto ad un’immagine immanente di quello che Foucault ha definito quasi - soggetto, per indicare il fatto che non si parla in questo caso di una sostanza ma di un essere che si definisce e ridefinisce incessantemente. La proposta foucaultiana è quella di sostituire alla riflessione sul soggetto l’analisi critica ed analitica dei processi di soggettivazione, traducendo la dicotomia tra pensiero ed impensato in un’ontologia di noi stessi che si articoli sul “fuori”, cioè che riconosca gli infiniti piegamenti e spiegamenti dell’essere. Tale ontologia ha un duplice intento: analitico e critico. L’atteggiamento che guarda al presente in termini critici, infatti, è uno degli aspetti che maggiormente consentono ad una simile ontologia di “aprire” le “pieghe”. L’ontologia di noi stessi, pertanto, si presenta anche come un’ontologia critica del presente28, cioè un atteggiamento critico che ponga delle domande sempre più radicali al presente e che faccia dell’interrogazione sull’attualità la base di una problematizzazione radicale dell’essere. Tutto ciò è connesso, ancora una volta, con l’importanza della dimensione etopolitica dei processi di soggettivazione. Per comprendere questo aspetto vorrei fare riferimento alle parole di A. Pandolfi, curatore della raccolta di articoli, interviste ed interventi intitolato Archivio Foucault 3: L’etica è un movimento che, aprendosi all’attuale, divide da ciò che è dato nel presente - le trasformazioni del potere e del sapere hanno condotto fino agli estremi dei loro assetti precedenti - per dare spazio ad una costruzione di se stessi non più necessariamente reattiva, non più costretta nell’infinita replica della resistenza, ma che si incarica positivamente della propria autonomia: “Un ethos, una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile”29.

L’ontologia critica del presente mette in movimento le identità, i dispositivi di potere/sapere, i rapporti di forza. Il presente non è un’epoca di de - soggettivazione e di irrimediabile crisi identitaria, è il momento in cui è possibile riattivare l’ethos della filosofia. Si può dire, allora, che la modernità più che un’epoca storica rappresenta “una disposizione etica che può essere attualizzata”30. L’attuale non è una categoria temporale né una disposizione né un vissuto ma è ciò che divide il presente, che modifica determinati assetti di potere/sapere ed i rapporti 28 Cfr. M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo? In Archivio Foucault 3(1978 - 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit. 29 A. Pandolfi, L’etica come pratica riflessa della libertà. L’ultima filosofia di Foucault, in M. Foucault, Archivio Foucault 3 (1978 - 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 10. 30 Ivi, p. 9.

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di forza emergenti in ogni epoca. È ciò che spinge i processi di soggettivazione/ oggettivazione verso il limite e che, parlando in termini di individualizzazione, fa emergere nell’uomo l’atteggiamento che lo spinge a ridefinirsi continuamente (che consente al “fuori” di essere problematizzato come risvolto del “dentro”). La filosofia assume, in ottica foucaultiana, proprio la funzione di formulare e spingere alle estreme conseguenze critico - decostruttive il presente per aprirlo all’attuale. Quest’ultimo, pertanto, indica ciò che fa del presente uno spazio ed un tempo non coincidente con se stesso, caratterizzato dalla continua problematizzazione degli avvenimenti, delle relazioni, dei vissuti. L’attuale è il solco scavato nel presente, così come il fuori costituisce il solco o il piegamento dell’essere. La filosofia si propone, quindi, come forma di riflessione sul limite, sulla non coincidenza dell’attuale nel presente e del “fuori” nel “dentro”. In questo senso, essa mira a sollevare e risolvere problemi non in una forma banalmente strumentale ma attraverso una problematizzazione dell’attuale e dell’essere che ne fa una continua interrogazione critica del presente e dei processi di costruzione identitaria. È , in definitiva, ciò che consente al presente di aprirsi al flusso storico ed al soggetto di spiegare la piega dell’essere mediante le pratiche e le tecnologie di sé che articolano eticamente e politicamente i processi di soggettivazione. Si comprende, a questo punto, quale sia il legame tra l’analisi delle tecnologie di sé ed i processi di soggettivazione, da un lato, e la riflessione foucaultiana sull’ontologia di noi stessi, dall’altro. È lo stesso Foucault a chiarire tale implicazione in alcuni interventi e scritti degli anni Ottanta, tra cui emerge un’interessante bozza redatta in occasione di una conferenza tenuta a New York nel 1981: Penso che sia possibile (…) tracciare una storia di ciò che abbiamo fatto che risulti, al contempo, anche un’analisi di ciò che noi siamo; un’analisi teorica cioè che abbia anche un significato politico – intendo dire un’analisi che abbia un significato in relazione a ciò che vogliamo accettare, rifiutare o cambiare di noi stessi all’interno della nostra attualità. Si tratta insomma di partire per andare alla ricerca di un’altra filosofia critica: una filosofia non più interessata a determinare le condizioni ed i limiti di una conoscenza dell’oggetto, bensì interessata a riconoscere le condizioni e le possibilità indefinite di trasformazione del soggetto31.

Ciò significa che è l’apertura della filosofia al non filosofico, a ciò che sta fuori, che rappresenta la base di tale ontologia critica del presente. Ed è questa l’importanza che deve essere attribuita alla conoscenza di tutte quelle storie di vita che mettono in crisi la nostra identità, che ci spingono a comprenderne l’irrimediabile fragilità. Lo studio della follia, della malattia, dell’anormalità rappresenta la condizione indispensabile per la problematizzazione di ciò che si intende in 31 M. Foucault, Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3 (1978 - 1985). Estetica dell’esistenza, etica, politica, op. cit., p. 147.

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ogni momento storico per razionalità, salute, normalità. La vita degli uomini infami rappresenta il dispiegamento di un fuori che tende in ogni istante ad essere respinto verso lo spazio dell’impensato ed il tempo cristallizzato e rassicurante di un eterno presente. Dunque, il primo passo da compiere per trasformare la filosofia in una riflessione sempre rinnovata sull’attualità consiste nel dar voce all’alterità, nel consentire alla parola di illuminare ciò che è stato avvolto dalle tenebre. Dare la parola a chi non ha mai avuto parola: è nella forza del racconto che Foucault ha scelto di tradurre la propria interrogazione filosofica, creando le condizioni di una problematizzazione etico - critica del presente. 5.4. Problematizzazioni, direttrici di soggettivazione e controcondotte

Dagli scritti foucaultiani degli anni Ottanta (Corsi al Collège de France, interviste, interventi) si possono trarre delle importanti riflessioni riferibili alle direttrici di soggettivazioni e alle contro - condotte che oggi possono essere opposte alle strategie microfisiche dei poteri bioeconomico - tecnocratici. A questo proposito è necessario ripartire dalla possibilità di pensare il potere come una dimensione costitutivamente paradossale che, nel momento stesso in cui incatena, può anche aprire degli spazi di libertà. Infatti, se il soggetto non fosse complessivamente investito dalle dinamiche di potere non potrebbe nemmeno agire liberandosene. Le condizioni che favoriscono la “liberazione” non risiedono nella natura pura ed innata del soggetto o nella volontà che la manifesta in forma autonoma. La volontà, come dimostra non solo Foucault ma anche Arendt, indica la naturalizzazione del nesso libertà - etica nel soggetto razionale - universale; l’etopolitica, invece, ne rappresenta il ribaltamento in una concezione dell’individualità de-sostanzializzata e de-organizzata, risultato di molteplici e mutevoli processi di soggettivazione/oggettivazione. Il riconoscimento di una forma radicale ma fragile di azione etopolitica può condurre la problematizzazione antropo - filosofica al di là delle schematiche dicotomie alienazione/libertà. Propongo, pertanto, di analizzare alcuni macro - problemi che esprimono nella contemporaneità la profonda paradossalità del potere nel contesto della bioeconomia. La prima tematica che vorrei affrontare è quella dell’auto - responsabilizzazione del soggetto. Questa dimensione è stata sottoposta ad investimenti semantici differenziati, tutti però riconducibili all’etica dell’autonomia personale e della padronanza di sé. Vorrei mettere in evidenza questa problematica perché rappresenta il concetto chiave da cui un atteggiamento etopolitico può ripartire alla ricerca di variegate direttrici di soggettivazione. Tuttavia, questo tema rappresenta anche uno dei terreni in cui la presa biopolitica oggettivante si è rivelata

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più tenace. Si tratta, da una parte, di una dinamica produttivo/utilitaristica che esercita il potere governamentale sul vivente in nome della disciplina e del controllo; dall’altra fa riferimento alla gestione delle dinamiche desideranti ed alle aspirazioni soggettive. Il potere neo - pastorale si estende ai processi di soggettivazione facendo sì che siano i singoli corpi a farsi attori del proprio assoggettamento. L’etica dell’autonomia genera una radicale forma di eteronomia individuale, dando vita a dispositivi assoggettanti che passano silenziosamente attraverso i corpi, incatenandoli ad una logica generale di produttività e di iper - stimolazione del desiderio. Tutto ciò, come detto, non ha nulla di costrittivo; l’individuo è educato a dire la verità su se stesso e a farlo in una direzione che privilegi l’autonomia, l’aspirazione alla libertà, la stimolazione del desiderio. Come sottolinea Foucault facendo riferimento alla sessualità, il biopotere non reprime ma fa in modo che la retorica della repressione del desiderio e della liberazione del corpo si trasformino in strategie assoggettanti. L’economia neoliberale, ad esempio, fa dell’auto - responsabilizzazione dell’individuo la propria bandiera, trasformando l’iniziativa personale, i tratti distintivi della personalità, le caratteristiche comportamentali, sociali, personali in presupposti indispensabili alla propria estensione. Ma, naturalmente, l’aspetto più inquietante risiede nel fatto che tale azione non è percepita come una dimensione costrittiva ma come un’occasione di promozione della piena realizzazione individuale e della crescita sociale e culturale dell’individuo. Saranno, dunque, assecondate condotte di vita che mirano all’autonomia, all’indipendenza, alla totale presa in carico dei bisogni individuali, alla valorizzazione delle capacità relazionali e comunicative, al fine di creare una sintonia quasi “naturale” tra bio etiche individuali ed imperativi produttivistico - lavorativi. Quando l’individuo nella sua interezza diviene “risorsa umana” o “capitale umano” la bioeconomia attua un controllo totale che si esercita attraverso l’autonomizzazione del soggetto desiderante e la creazione di un’identificazione profonda tra etiche bioeconomiche e condotte personali. La logica del marchio o del logo lo dimostra ma anche la centralità del concetto di personalità nei processi di selezione del personale. Come detto, questo tipo di potere è di natura gestionale e neo - pastorale in quanto stimola la “confessione” come forma di controllo e circolazione dei “discorsi veri”. Inoltre, esso diversifica le condizioni, prendendo in carico singolarmente le condotte lavorative e vitali dei soggetti, pur inserendole in una più vasta logica di massificazione. Nella bioeconomia moderna, infatti, esiste una logica oikonomica che trasforma le condizioni la vita di ognuno di noi in dinamiche individualizzanti che differenziano, ad esempio, le posizioni occupazionali, lavorative e retributive attraverso sistemi sempre più complessi di premi e punizioni. Ciò consente di conciliare totalizzazione ed individualizzazione, al fine di man-

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tenere il controllo neopastorale e spezzare tutti i possibili fronti di resistenza o di solidarietà trasversale. Questo aspetto, infatti, deve essere posto al centro dell’attenzione: il potere bioeconomico tende ad agire in un contesto strategico32 creando discontinuità, introducendo una molteplicità di posizioni differenziate, trasformando situazioni lavorative e regole comuni in un universo segmentato e discontinuo di rapporti di lavoro, al quale si applicano regimi giuridico - legislativi differenti. Spezzare le lotte, creare l’illusione di diversificate condizioni esistenziali e lavorative: in questo modo il potere neo - pastorale gestisce il “disordine”, convertendolo in ordine produttivistico ed ancorando a sé dei corpi in tutto e per tutto dipendenti ed abbagliati da un’artificiale aspirazione all’autonomia ed alla padronanza di sé. Ma ciò passa anche per i concetti di “personalità” e “carattere”. Essi esprimono la vocazione bio - sociale della logica neocapitalistica che si pone, appunto, a metà strada tra attitudine naturale ed abilità acquisita. La personalità, infatti, è considerata come un sostrato bio - naturale che struttura determinate capacità comunicative, relazionali, culturali, caratteriali su cui, poi, può innestarsi una differente disposizione all’apprendimento. La personalità è un tratto che deve essere per metà preesistente a livello naturale e per metà formabile attraverso un adeguato investimento di risorse economiche e culturali. Un altro aspetto dell’auto - responsabilizzazione riguarda la gestione del rischio. Vi sono delle tesi che considerano la propensione al rischio come una problematica globale che assume delle caratteristiche potenziali. Beck, ad esempio, sottolinea la natura microfisica del rischio che si fonda su una rappresentazione emergenziale di tipo “virtuale”, aperta al possibile altrimenti33. Ciò crea una condizione perenne di mobilitazione e di rischiosità sociale da cui il singolo è chiamato a 32 Il nucleo delle riflessioni foucaultiane ruota intorno alla dimensione paradossale del biopotere che crea degli spazi di contatto tra etica delle soggettivazioni e processi di assoggettamento bioeconomico. A colloquio con H. L. Dreyfus e p.Rabinow, Foucault espresse questo concetto in maniera molto chiara parlando della necessità, per ogni movimento di liberazione e per ogni contro-condotta, di vedere nel potere un complesso intreccio strategico. Il potere è, in primo luogo, un rapporto di forza che si istituisce non soltanto tra individui ma anche tra dispositivi, apparati e discorsi di verità differenti. Fin quando si fa riferimento alla strategia si ammette che i rapporti di forza si presentino in una forma mobile e ribaltabile. Nel rapporto di forza, infatti, gli effetti coercitivi ed assoggettanti non assumono una configurazione stabile che possa definire la superiorità di alcuni dispositivi o discorsi di verità su altri. Ma le condizioni strategiche possono trasformarsi in rapporti di dominazione nel momento in cui uno o più dispositivi o apparati di potere tendono a prevalere sugli altri, decretando cosa, in una determinata congiuntura spazio temporale, cade all’interno della sfera di visibilità e di enunciazione del potere. Anche i rapporti di dominazione, tuttavia, sono instabili e possono essere ribaltati attraverso dinamiche strategiche di lotta. Cfr. H. L. Dreyfus e P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente, op. cit. 33 Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, op. cit.

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difendersi con strumenti personali sempre più estranei ad una gestione politica e giuridica. Viviamo in società dell’emergenza nelle quali, più il rischio diventa indistinto o potenziale, più si chiede al singolo cittadino di prendere in carico la gestione dei sistemi assicurativi e previdenziali (e ciò specialmente in seguito alla crisi dei sistemi di Welfare nella maggior parte dei paesi europei). Ecco, allora, che all’individualizzazione del rischio, ed alla logica emergenziale che porta con sé, corrisponderà lo spostamento della responsabilità statale, sociale o welfaristica nella sfera del privato e nei settori della bioeconomia specializzati nella gestione assicurativa, previdenziale e pensionistica. Come sottolinea O. Marzocca34, la produzione di tecnologie e dispositivi di governo del rischio si è combinata, negli ultimi anni, con l’elaborazione di etiche individuali e collettive che privilegiano l’attenzione, la disponibilità, la gestione prudenziale delle vite (processi di soggettivazione). Ma il prudenzialismo individualista moderno si intreccia con una dimensione del rischio da intendersi non solo in termini bioeconomici ma anche genetici. Lo stesso Foucault aveva osservato, infatti, l’esistenza di un profondo nesso tra rischio economico/lavorativo e rischio genetico35. L’auto - responsabilizzazione del vivente induce il singolo a cercare continuamente stimoli in grado di ri - valorizzare il capitale umano che egli stesso produce, sfruttando le proprie risorse educative, caratteriali, culturali, affettive, emotive, ecc. Ma questa incessante azione di formazione e valorizzazione deve essere associata a dispositivi assicurativi che consentono di far fronte ai rischi ma anche di prevenirli. Tra questi dispositivi vi sono quelli che garantiscono la salute bio - genetica dell’individuo. Le campagne contro gli stili di vita nocivi, lo sviluppo della diagnostica nel settore delle predisposizioni genetiche, l’incitamento continuo a seguire diete o fare esercizio fisico sono alcune delle strategie mediante le quali il governo del rischio si riproduce nella cultura neoliberale. Si tratta della dimensione senza dubbio può subdola dell’assoggettamento, quella derivante dalla gestione delle dinamiche desideranti che fanno della cura di sé, delle tecnologie estetiche, dell’“economia dei corpi belli ed in forma” i presupposti fondamentali in processi di “valorizzazione” della soggettività. Il corpo è diventato la posta di una lotta tra i figli ed i genitori, tra il bambino e le istanze di controllo. La rivolta del corpo sessuale è il contro effetto di questa avanzata. Come risponde il potere? Attraverso uno sfruttamento economico (e forse ideologico) dell’erotizzazione, dai prodotti abbronzanti fino ai films pornografici… Come risposta alla rivolta del corpo, troviamo un nuovo investimento che non si presenta più sotto la forma del controllo - repressione ma sotto quella del controllo - stimolo, «denudati… sii magro, bello, abbronzato!» Ad 34 Cfr. O. Marzocca, Etica del rischio e governo delle vite, in A.A. V.V., Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, op. cit. 35 Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978 -1979), op. cit.

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5. Etopolitica e biodiritto

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ogni movimento di uno dei due avversari risponde il movimento dell’altro. […] Bisogna accettare l’indefinito della lotta… Questo non vuol dire che non finirà un giorno…36

Il nostro corpo è investito da sollecitazioni continue che oscillano tra le cure dei numerosi esperti cui ci affidiamo (chirurghi estetici, dietologi, insegnati di fitness, esperti di medicina alternativa, ecc) e le pratiche di self - help, gli inviti all’autodiagnosi, le tecniche di medicalizzazione del corpo. Il potere circola, pertanto, attraverso i dispositivi che fanno della salute, dell’efficienza bio - produttivista, del potenziamento delle attitudini e delle prestazioni il terreno di “valorizzazione” del vivente37. Tutto ciò crea delle insidie nella comprensione delle poste in gioco potenzialmente esistenti nelle direttrici di soggettivazione. Se, infatti, gli spazi che oggi sono considerati privati, separati, liberi dall’influsso dirompente della produzione bioeconomica o della logica scientifico - gestionale si rivelano, in molti casi, costellati da dispositivi e tecnologie che vincolano le vite a forme anatomo - politiche di controllo, come è possibile pensare ed agire “altrimenti”? In primo luogo, riconoscendo il paradosso che tali tecnologie e tali dispositivi portano con sé e poi cercando di mettere in campo delle forme alternative di soggettivazione. Proprio su questo aspetto l’etopolitica foucaultiana ha molto da dire. Agire diversamente ed agire con gli altri, contribuendo a costruire degli spazi di discussione, di circolazione e di trasformazione dei “discorsi di verità”. Un effetto dirompente, a livello politico, ad esempio, potrebbe essere determinato dalla problematizzazione della condizione di precarietà creata da un mercato del lavoro sempre più instabile e deregolamentato. Se i rapporti di forza bioeconomici e neopastorali tendono a diversificare le condizioni, spezzando le lotte ed allontanando dal terreno comune le battaglie, allora il punto di partenza consisterà nel promuovere forme di riflessione su continuità o discontinuità delle posizioni lavorative e delle esperienze di vita. Non bisogna dimenticare, infatti, che le trasformazioni del biolavoro si riflettono profondamente sulle condizioni vitali e sulle condotte relazionali degli individui. E questo aspetto, nonostante la diversità dei ruoli e dei compiti, accomuna la maggior parte dei percorsi bio - lavorativi che si muovono nella cosiddetta economia flessibile. Facendo riferimento alle pratiche biomediche, ad esempio, N. Rose ha messo in evidenza che la creazione di comitati e gruppi di pressione uniti intorno ad una battaglia medica o alla richiesta di garanzie sanitarie ha stimolato moltissimo la creazione di strategie di soggettivazione etopolitica; questi nuovi “pastori del soma” hanno 36 M. Foucault, Potere - corpo, in Microfisica del potere: interventi politici, op. cit., p. 139. 37 Cfr. L. Bazzicalupo, Soggettivazioni assoggettate: dall’eteronomia al disaccordo (dribblando il naturalismo), in A.A. V.V., Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, op. cit.

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opposto resistenza e hanno condotto campagne di sensibilizzazione capillari conto lo strapotere economico delle multinazionali farmaceutiche, agroalimentari, biotecnologiche, sposando “i principi etici del consenso informato, dell’autonomia, dell’azione volontaria, della scelta, e della non imposizione”38. Anche nel settore delle pratiche di consumo si è affermata una maggiore sensibilizzazione, che si esprime oltre che nell’attività dei comitati bioetici, in quella delle associazioni di consumatori. Ma anche queste pratiche che presuppongono un atteggiamento attivo e vigile del consumatore e del cittadino potrebbero trasformarsi in forme assoggettanti che rafforzano i discorsi di potere normalizzanti. In queste pratiche i confini tra coercizione e consenso spesso sono sfumati ed il biopotere agisce attraverso le dinamiche relazionali ed emotivo - affettive. L’emotività, infatti, rappresenta un altro aspetto importante del governo biopolitico del vivente. Emotività manipolata e plasmata dai mezzi di comunicazione di massa, stimolata ed iper - valorizzata utilitaristicamente nelle strategie di marketing e nel contesto pubblicitario, esibita in pubblico e ignorata nel privato. Una caratteristica fondamentale del biopotere, anche e soprattutto nella sua dimensione tecno/economica, è la trasformazione del privato in pubblico e del pubblico in privato. Basti pensare agli “effetti collaterali” che l’esibizionismo virtuale genera nello spazio di visibilità dei social network, nei siti di incontri, nei blog. Si tratta di strumenti utilissimi che però possono nascondere un’attitudine all’esibizione narcisistica o voyeuristica del proprio sé, in una società in cui le occasioni e gli spazi d’interazione diretta si fanno sempre più scarsi. E ciò genera un’illimitata possibilità di penetrazione per i poteri bioeconomici cui deleghiamo la gestione ed il controllo totale della nostra immagine, delle nostre convinzioni e dei nostri orientamenti personali, sessuali, politici e religiosi; ciò trasforma le direttrici di soggettivazione in punti di articolazione e circolazione della microfisica dei poteri aprendo i nostri affetti e le nostre emozioni ad un’invasiva codificazione. Dire, infatti, che il privato diventa pubblico e che il pubblico diventa privato significa accettare una progressiva codificazione non solo linguistica ma anche emotiva ed affettiva. I mezzi virtuali condizionano il modo in cui diciamo le cose ed esprimiamo stati d’animo ed emozioni ma anche il modo in cui li proviamo. L’iperstimolazione emotivo/affettiva potrebbe corrispondere ad un generale impoverimento della capacità di provare ed esprimere sentimenti, insieme ad una destrutturazione degli spazi in cui è possibile condividere esperienze. Queste affermazioni non intendono sottovalutare le enormi potenzialità che tali mezzi e tali spazi virtuali aprono per i processi di soggettivazione e per la circolazione di contro - condotte e contro - informazione. Come negli esempi precedenti, anche lo spazio virtuale può essere sfruttato come una risorsa o 38 N. Rose, La politica della vita, op. cit. p. 42.

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5. Etopolitica e biodiritto

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costituire uno strumento di etero - direzione di massa. Il problema è che, sulla scia dell’entusiasmo tecno - scientifico, si tende spesso a dimenticare questo secondo aspetto. Come sottolinea Lèvy39, lo spazio virtuale rappresenta non solo un luogo di resistenza ma anche di influenza dei percorsi identitario - relazionali degli individui. Affinché tale influenza sia accolta criticamente è necessario che il soggetto sviluppi un atteggiamento attivo e vigile nella gestione di questi spazi, facendo sì che essi rimangano “liberi” da condizionamenti economici. La questione principale che preoccupa alcuni studiosi è che, al contrario, nella sfera dei dispositivi e delle tecnologie virtuali, l’accettazione dello status quo sia rafforzata da un atteggiamento acritico che presuppone che i progressi tecnoscientifici siano per definizione benefici. Ciò che manca è, dunque, una certa problematizzazione delle tecnologie o degli spazi virtuali e del loro impatto sull’uomo. Se le tecnologie trasformano profondamente il paesaggio umano uno dei maggiori punti di contatto è proprio la sfera dell’emotività che modifica, come giustamente osservava McLuhan40, ma anche che è modificata dal contatto con il mezzo tecnologico. Ad esempio, il medium televisivo stimola l’emotività, mettendo in scena drammi privati o trasformando il sensazionalismo informativo in un business economico mediato dalla cronaca nera o dal fascino per il crimine ed il sangue. Si dirà che nulla è cambiato rispetto all’esibizione nelle piazze pubbliche del corpo denudato e martoriato del condannato a morte. L’urlo di giubilo della folla era la dimensione catartico normalizzante attraverso cui il sovrano manteneva l’ordine e rafforzava la propria autorità. Il gusto mediatico per il crimine efferato, per il sangue, per le condizioni emergenziali, pur rilevando la medesima necessità di riconoscimento e di fusione identitaria, è vissuto ed esperito in solitudine, dietro il filtro televisivo e rappresenta più che altro il piacere voyeuristico di colui che guarda dalla serratura della porta. All’iperstimolazione emotiva, dunque, corrispondono solo spazi istituzionalizzati, controllati e bonificati di espressione delle emozioni e dei sentimenti. Le espressioni deregolate e spontanee dell’emozionalità o della corporeità sono bandite dalla scena pubblica. Ritengo che questi aspetti che compongono la macro - problematica biopolitica siano accomunabili da un elemento di riflessione comune che fa riferimento alla de/complessificazione della condizione umana. Da ciò la necessità di trasformare le microrelazioni e le microcondotte in direttrici di problematizzazione etopolitica che restituiscano un punto di vista non riduttivo. Vi sono, infatti, tutta una serie di controcondotte che consentono di indirizzare i processi di soggettivazione 39 Cfr. P. Levy, Il virtuale, trad. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Raffaello Cortina, Milano, 1997. 40 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano, 1971.

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in termini critico - propositivi, aprendo spazi di dialogo e di discussione, spazi in cui è possibile trasformare i comportamenti ed i corpi codificati, normalizzati, investiti dagli effetti di potere in luoghi in cui è possibile pensare ed agire diversamente. Spazi di resistenza e di libertà, dunque, spazi non sottratti al paradosso del biopotere ma problematizzati a partire da esso. Si tratta di micro e macro condotte, tecnologie del sé che si dispiegano nella sfera relazionale e politica, movimenti che promuovono differenti stili di vita e spazi in cui costruirli. Tra di essi vorrei, solo a titolo d’esempio, citare alcune forme di solidarietà che mirano a ricreare spazi sociali e luoghi di condivisione fondati sulla logica del dono e miranti a generare stili di vita e processi di soggettivazione alternativi a quelli utilitaristici ed omologanti della bioeconomia neoliberale (come i Gas gruppi di acquisto solidale, i Gat - gruppi di acquisto della terra, le banche del tempo, i gruppi di mutuo aiuto nati sul web, ecc. ). Ma la creazione degli spazi di socialità è estesa non soltanto alla gestione delle condotte di vita quotidiana ma anche alla creazione di “luoghi” di discussione e dialogo nei quali la segmentazione e la diversificazione delle condizioni antropo - lavorative venga posta in discussione. L’assenza di una percezione chiara della condizione comune che contraddistingue le “vite precarie” all’interno dell’odierno mercato del lavoro ha l’effetto negativo di spezzare le lotte e frammentare le forme di resistenza. Perché non c’è dubbio che la tematica della precarietà rappresenta una delle sfide che le moderne società bioeconomiche devono affrontare. Concorrere sui mercati internazionali, caratterizzati dai processi di delocalizzazione funzionale e produttiva, spinge il discorso di potere neoliberale a disconoscere o sottacere le problematiche che la destrutturazione dei tradizionali ruoli lavorativi comporta. E si tratta non soltanto di conseguenze economico - produttive ma soprattutto di vere e proprie trasformazioni che toccano tanto la sfera antropologica, esistenziale e vitale dell’individuo quanto quella del “comune”. Ed è in quest’ottica che propongo nell’ultimo paragrafo una ridiscussione della tematica dei beni comuni nella dimensione del biodiritto. Ritengo, infatti, che il dibattito sui beni comuni, strettamente connesso a quello sui diritti fondamentali della persona, sia il contesto in cui oggi si profila in modo più urgente una problematizzazione biopolitica. Oltre alle controcondotte che potrebbero far riemergere un’economia del dono è necessario, infatti, rilanciare con forza l’importanza del comune come spazio etopolitico di azione, di partecipazione, di riappropriazione delle risorse fondamentali e di resistenza al potere.

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5. Etopolitica e biodiritto

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5.5. Beni comuni e biodiritto nella società capitalistica

La chiave di lettura biopolitica consente di analizzare il nesso paradossale potere/sapere nel capitalismo cognitivo e dell’economia dell’accesso, facendo intravedere la possibilità di un ribaltamento degli esiti alienanti ed assoggettanti che genera e mettendo in luce il volto soggettivante del potere. Se il potere si radica sulla vita, ciò significa anche che le tecnologie politiche e gli apparati di sapere che lo generano e lo diffondono microfisicamente possono essere utilizzati a servizio della vita e non contro di essa. Questa paradossalità riguarda soprattutto la risorsa conoscenza. Essa, come abbiamo detto, è limitata da barriere d’accesso che impediscono la fruizione di saperi comuni e che dovrebbero rappresentare un saper fare ed un patrimonio conoscitivo/informazionale accessibile a tutti. Lo stesso dicasi per quelle risorse umane che una volta isolate divengono parametri a partire dai quali poter stabilire delle regole di selezione nel mercato del lavoro. Ed, infine, questo vale per tutti quei beni originariamente definiti comuni, perché inappropriabili e non limitabili da barriere d’accesso41. Proprio facendo riferimento ai beni comuni S. Rodotà sostiene che il principio dell’accesso può essere ribaltato in senso positivo. L’accesso secondo l’autore è un criterio che può soppiantare la proprietà e che può garantire un meccanismo di controllo giuridico ma allo stesso tempo di apertura del sistema di sfruttamento delle risorse collettive a tutti. Si comprende immediatamente che in questo caso l’autore parte da un concetto di accesso differente rispetto a Rifkin. Mentre quest’ultimo sottolinea come l’accesso è la moderna forma della proprietà, il costituzionalista italiano distingue nettamente proprietà ed accesso, ribaltandolo in senso positivo e facendone la base per una rinnovata definizione di biopolitica come politica che si pone in continuità con la vita. Secondo Rodotà, infatti, i beni comuni richiedono una diversa forma di razionalità che vada al di là della logica binaria pubblico-privato che ha dominato negli ultimi due secoli la società occidentale42. 41 Tra di essi vi sono il corpo umano e le sue componenti, come gli organi, i tessuti, il corredo genetico. Come ha sottolineato Rose, questo campo di applicazione della bioeconomia ha mostrato anche delle potenzialità positive, nel senso che ha aperto degli scenari di attiva liberazione del corpo e della vita a principi di autodeterminazione. Ciò ha portato a parlare di cittadinanza biologica, proprio per indicare la possibilità di prendere le mosse da questo esteso campo di interventi, restituendo ad ogni singolo individuo la possibilità di scegliere liberamente su questioni riguardanti la propria salute ed i metodi di cura. Per approfondimenti si veda N. Rose, La politica della vita, op. cit. 42 Nel 1964 un giurista dell’Università di Yale, C. Reich, pubblicò un saggio, dal titolo The New Property, nel quale teorizzava la ridefinizione del ruolo dello Stato come diretto dispensatore di ricchezza, distribuendo risorse finanziarie e creando delle occasioni economicamente vantaggiose per i soggetti (sussidi, sgravi fiscali, incentivi, licenze, ecc.). Tutto quest’insieme di strumenti ri-

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Questa logica binaria deve essere sostituita dalla cittadinanza inclusiva che indica il rapporto prioritario che lega le persone ai propri bisogni e questi ai beni che possono soddisfarli. In quest’ultimo caso sono le modalità d’esercizio dei diritti della persona a definire le varie tipologie di beni. I beni primari sono quelli capaci di garantire i diritti fondamentali e gli interessi collettivi. Secondo Rodotà, si tratta di una terza dimensione che scardina la geometria piana del diritto proprietario e che si concretizza nell’esigenza di garantire il soddisfacimento dei bisogni e delle esigenze delle persone43. L’accesso può consentire di godere dell’utilità di un bene senza assumere diritti di proprietà sullo stesso. In questo caso il criterio dell’accesso consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene. Con la categoria di accesso si superano persino le distinzioni passate tra proprietà e gestione e tra proprietà formale e sostanziale. Usando la vecchia terminologia si potrebbe dire che si passa da una proprietà «esclusiva» ad una «inclusiva». Più correttamente questa situazione può essere descritta come riconoscimento della legittimità che al medesimo bene facciano capo soggetti ed interessi diversi. Il discorso sull’esclusione viene tramutato così in quello sull’accessibilità44.

La nuova razionalità è esemplificata anche dalla categoria di funzione sociale che, nata come insieme di vincoli e di limiti all’esercizio dei diritti proprietari, è maneva, tuttavia, nella sfera delle elargizioni pubbliche ed amministrative con le quali si intendeva favorire il passaggio dalla proprietà al lavoro. Secondo Reich, questo passaggio dalla proprietà alla non proprietà avrebbe determinato la perdita di molte garanzie legali a favore della persona, la quale avrebbe affidato le scelte sul proprio futuro a beni di incerta stabilità (che potevano essere sottratti da una decisione pubblica). La strada individuata poteva essere, al contrario, quella di attribuire a questi beni le medesime prerogative del modello proprietario. Il modello proprietario, infatti, nel corso della storia, ha incarnato la forma più intensa di protezione giuridica. Nel 2003 un altro studioso, J. Boyle, mettendo nuovamente in dubbio la centralità del modello proprietario, sposta l’attenzione verso un diverso modello di gestione dei beni che non passava per la determinazione individualistica. Rodotà ritiene che nei quarant’anni che separano la riflessione dei due autori si sviluppa un nuovo interesse per la tematica dei beni comuni che sconvolge il modo di intendere la dicotomia netta tra beni proprietari e beni pubblici. Per approfondimenti si veda S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit. 43 Ad un primo sguardo anche la Costituzione italiana afferma all’art. 42 che la «proprietà è pubblica o privata». Ma all’art.43 si afferma che possono essere affidate «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». Inoltre all’art. 42 si specifica che la proprietà deve essere resa «accessibile a tutti» e deve avere una «funzione sociale». Nella Costituzione si fa, quindi, riferimento all’accesso in relazione alla proprietà ma Rodotà mostra come in seguito tale concetto si slegò dal legame necessario con il riferimento patrimonialistico e proprietario. 44 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 109.

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5. Etopolitica e biodiritto

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venuta ad identificare il potere di una molteplicità di soggetti di partecipare alle decisioni riguardanti i beni comuni. Essa ha contribuito, dunque, a sviluppare un modello partecipativo. Nasce, in tal modo, un nuovo interesse pubblico per la concretezza dei bisogni che si oppone all’astrazione del riferimento proprietario. Si modifica la relazione tra mondo delle persone e mondo dei beni che diverrà un rapporto diretto, non più sottoposto alla mediazione della proprietà. Quello che nell’Ottocento era un conflitto che si agitava intorno al problema del possesso della terra, oggi è una battaglia che investe i diritti di accesso a beni indispensabili come l’acqua, il cibo, la conoscenza. L’individuazione sempre più netta di una serie di situazioni come diritti di cittadinanza, anzi come diritti inerenti alla costituzionalizzazione della persona, implica la messa a punto di una strumentazione istituzionale in grado di identificare i beni direttamente necessari per la loro soddisfazione. Essi sono, anzitutto, proprio quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (conoscenza). Per questa loro attitudine vengono sempre più concordemente considerati «beni comuni», per indicare in primo luogo il loro raccordo con la persona e i suoi diritti45.

Rodotà sottolinea che i beni comuni non sono definiti a partire dalla loro appartenenza a qualcuno o alle loro caratteristiche intrinseche ma dalla loro gestione che deve essere ispirata al criterio prioritario dell’inclusività sociale e della libertà d’accesso. Da ciò discende che è il modo in cui il bene viene costruito e fruito che lo rende direttamente accessibile agli utenti. I beni collettivi sono «a titolarità diffusa», appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere a essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno46.

I beni comuni si oppongono alla riduzione di tutte le risorse a fonte di valorizzazione capitalistica. Essi indicano il limite oltre il quale lo sfruttamento delle risorse collettive non può essere esteso e la loro caratteristica più importante è la condivisione ed il legame sociale anche in ottica trans-generazionale. I beni comuni, infatti, si distendono su scala globale, dove a fianco al riferimento ai diritti fondamentali compare quello al governo del cambiamento, inteso come difesa degli ecosistemi e della sopravvivenza dell’uomo. In questo caso il soggetto non è il singolo cittadino ma l’umanità intera, anche nella sua proiezione futura 45 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 112. 46 Ivi, p. 115.

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(nuove generazioni). In quest’ultima accezione il comune diviene un riferimento fondamentale per identificare le risorse e per indirizzare il global change; tali risorse sono esse stesse dei beni da tutelare, come le diverse forme di conoscenza (non soltanto derivanti dall’innovazione tecnologica ma anche facenti parte del patrimonio culturale, paesaggistico, ambientale, storico/artistico di ogni paese). Per questi beni si pone contemporaneamente il problema della tutela, per sottrarli alla speculazione economica ed alla privatizzazione, e della messa in valore, per poter incentivare il loro impiego nell’economia locale dei vari territori. Intorno ai beni comuni si sviluppa, pertanto, il dibattito sui principi di eguaglianza e di solidarietà sociale, ponendo in primo piano i presupposti fondamentali della democrazia. Restituire centralità ai legami sociali significa mettere in discussione il modello individualistico senza, però, limitare la libertà della persona. Con quest’ultimo termine non si intende un soggetto astratto «costruito nell’indifferenza per la materialità del vivere»47 ma una soggettività inserita nella complessità dei processi di partecipazione democratica che chiamano in causa l’esercizio di diritti e il rispetto di doveri che competono a tutti in quanto cittadini. Si tratta di «una rinnovata opportunità di ricongiungimento tra l’uomo ed il cittadino»48 che crea uno spazio metastatuale e metaindividuale che possiamo chiamare comune. Per individuare meglio il ‘perimetro’ di tale spazio Rodotà segnala alcuni equivoci che possono investire il concetto di comune. Un primo fraintendimento può essere individuato nell’attribuzione di una prioritaria accezione comunitaria al termine. I beni comuni non sono necessariamente dei beni comunitari e non possono essere, di conseguenza, riferiti alla distinzione tra comunità e società. Nell’era della globalizzazione i beni comuni passano dalla periferia al centro, nel senso che travalicano il riferimento alla persona ed alla comunità locale per divenire globali, proiettando il cittadino al di fuori del luogo in cui vive. È la logica del «comune», e non della «comunità», a fondare lo spazio dei beni comuni, sempre più globali: a meno che, con questo termine, non ci si voglia riferire alla «comunità umana», dunque all’opposto di una chiusura di frontiere nelle appartenenze protettive, ma nella sostanza pericolosamente legate ad un’appartenenza che può produrre conflitti con chiunque ne abbia una diversa e opponga interessi concorrenti sul medesimo bene49.

Inoltre, la ricerca di radici profonde e di un’appartenenza storica di determinate risorse a specifici contesti comunitari e locali porta con sé una seconda 47 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 121. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 123.

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5. Etopolitica e biodiritto

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contraddizione, derivante dall’attribuzione di una presunta naturalità o di una qualche essenza originaria che caratterizzerebbe questi beni al di là della contingenza storico - geografica. Il riconoscimento di un carattere globale a determinati beni non autorizza un’inferenza de - storicizzante in quanto ogni diritto, persino quello al cibo, è influenzato nella sua definizione da eventi specifici e storicamente/geograficamente determinati (nell’esempio del cibo, dal mutare degli assetti territoriali, dall’imposizione di brevetti agricoli, dai movimenti demografici, ecc.). Lo stesso discorso vale anche per la definizione di persona e, soprattutto, per l’individuazione dei suoi bisogni e delle sue esigenze, le quali, al di là della mera sopravvivenza, sono legate alla costruzione culturale ed istituzionale che le si attribuisce. Ciò non sminuisce l’importanza e il radicamento dei beni comuni come diritti fondamentali; si mette solo al riparo il biodiritto da una duplice tentazione: trasformare la materialità dei bisogni, da una parte, in una metafisica della vita e, dall’altra, in una biologizzazione del vivente. Se il diritto di proprietà incorreva certamente nel primo rischio, la biopolitica di oggi rischia di scivolare nel secondo scoglio, nel momento in cui, come rileva Rodotà parlando di Foucault, naturalizza pericolosamente dimensioni complesse come la vita o il corpo, riducendoli al loro sostrato bio - organico. Dunque, affermare l’importanza materiale dei diritti come mezzi per garantire prima di tutto la soddisfazione dei bisogni della persona non significa appiattire la vita su una definizione biologica o addirittura zoologica. I bisogni fondamentali dell’uomo, inoltre, non sono solo quelli al cibo e all’acqua, tradizionalmente intesi. Come detto, rientra nei diritti fondamentali, anche e soprattutto, l’accesso ad una libera conoscenza ma anche tutti quei diritti che consentono all’uomo di autodeterminarsi, cioè di decidere liberamente su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria vita. Questi principi disegnano un quadro composito di diritti che entrano a far parte del processo fondamentale di costituzionalizzazione della persona. Il biodiritto deve occuparsi di questi principi fondamentali nel loro complesso, perché soltanto dalla conciliazione del diritto prioritario ad un’alimentazione adeguata e di quello, altrettanto importante, alla libertà di scelta o di espressione potrà sorgere un’adeguata tutela della persona umana. In altre parole, la persona non si riduce ad un fascio di necessità e bisogni legati alla mera sopravvivenza; vivere è molto più che sopravvivere. L’uomo, dunque, a differenza dell’animale, non ha solo bisogni organici cui rispondere ma anche bisogni simbolici, legati alla socievolezza che, infatti, è il tratto fondamentale che differenzia l’essere umano dal mondo animale. E – aggiungerei – che fa sì che il mondo umano non sia assoggettato ai vincoli naturali ma che possa staccarsi da essi, costruendo un universo di senso e di azione. Da questo punto di vista sono beni fondamentali quelli che non solo consentono all’uomo

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di svincolarsi dai limiti istintuali ma che gli garantiscono una vita che possa dirsi effettivamente umana. Solo in questa prospettiva, dunque, si può comprendere la rinnovata definizione di diritto all’alimentazione. Il cibo è un bene comune fondamentale non soltanto perché sazia la fame e garantisce la sopravvivenza ma anche perché costituisce il baluardo minimo per tutelare la dignità integrale della persona. Il diritto al cibo si presenta, infatti, come componente della cittadinanza globale. Una prima specificazione è presente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo dell’Onu (1946), dove (art. 25) il diritto al cibo è considerato uno degli elementi costitutivi del più generale diritto ad uno standard di vita adeguato. Esso non può più essere considerato esclusivamente come «diritto fondamentale di ciascuno d’essere libero dalla fame»50 ma come principio che investe la condizione umana nella sua complessità. L’adeguatezza, inoltre, merita ulteriori specificazioni. Essa non è stabilita solo sulla base di criteri quantitativi ma anche qualitativi; deve, inoltre, favorire il rispetto della diversità culturale, il principio di non discriminazione, il libero sviluppo della personalità ed il diritto alla salute, inteso in senso ampio come «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non soltanto come assenza di malattia o infermità» (secondo la più recente definizione dell’Organizzazione mondiale della salute51). Inteso in questo senso, il diritto al cibo diviene uno strumento per contrastare ogni genere di riduzionismo che tocca - come detto - la definizione della vita e della persona ma che inerisce, anche, lo statuto economico del soggetto produttore/consumatore. La sicurezza alimentare deve costituire un limite alla libertà d’impresa ed allo sfruttamento economico. Lo stesso dicasi del diritto al libero accesso alle risorse idriche del pianeta. L’Assemblea generale dell’Onu ha recentemente approvato una risoluzione che, oltre al cibo adeguato, riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale della persona. In Italia, con il referendum del 2011, i cittadini si sono espressi in massa contro le privatizzazioni nella gestione dell’acqua, riconoscendo, così, questa risorsa come fondamentale bene comune. Inoltre, l’accesso alla conoscenza assume una grande rilevanza soprattutto laddove si parla di diritto alla salute ed a cure mediche adeguate. Gli interessi delle grandi multinazionali farmaceutiche pongono spesso dei limiti di accesso alle conoscenze che servono a produrre medicinali essenziali per la vita, i quali risultano coperti da brevetti che ne limitano la riproduzione e la fruizione gratuita. Si comprende come la rimozione delle barriere di accesso alla conoscenza costituisca una battaglia che deve partire dai diritti fondamentali della persona, che sono strettamente connessi con la tutela dei beni comuni. Così Rodotà: 50 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 128. 51 Ivi, p. 129.

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5. Etopolitica e biodiritto

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La questione capitale è rappresentata, dunque, da una possibile metamorfosi di un sapere tutto risolto nella logica proprietaria, com’è per la produzione farmaceutica. Il risultato di questo processo, che peraltro investe la conoscenza nel suo complesso, è la sua trasformazione, parziale o totale, in un bene comune. Non siamo, allora, di fronte ad una semplice associazione tra diritti fondamentali e beni comuni, bensì alla produzione di beni comuni attraverso i diritti fondamentali52.

Possiamo dire, inoltre, che il rispetto dei diritti fondamentali della persona ed i beni comuni possono avere un effetto di ribaltamento in termini soggettivanti degli effetti di oggettivazione e di controllo della bioeconomia contemporanea. È su questa accezione positiva di biopolitica che deve concentrarsi il dibattito anche in campo giuridico, laddove si parla in termini innovativi di biodiritto: Così il biodiritto (…) si configura come rovesciamento dello schema della biopolitica, intesa come l’insieme dei dispositivi che consentono di esercitare il potere di disciplinamento dei corpi. Il biodiritto, invece, si struttura come insieme di strumenti volti a garantire la persona proprio contro tutti i poteri variamenti invasivi sul proprio corpo53.

Il concetto di bios, poi, si distingue da quello di zoé che, come sottolinea G. Agamben, presso i Greci indicava una differenza fondamentale: zoé definiva la mera esistenza biologica, comune sia agli animali che all’uomo, mentre bios indicava l’esistenza qualificata dell’uomo: qualcosa in più rispetto al mero sopravvivere. La vita dell’uomo non è pura aderenza al dato naturale e non si risolve interamente in una forma di esistenza biologica. L’uomo è l’unico essere per cui vivere non significa semplicemente emergere dalla necessità naturale ma anche costruire un universo simbolico e sociale che gli conferisca una dignità non meramente animale. Dunque, è dal concetto di vita come bios che bisogna prendere le mosse per parlare di biodiritto e di biopolitica. Inoltre, il riferimento alla condizione biologica dell’uomo può anche rappresentare un punto di partenza per estendere le garanzie giuridiche soprattutto in una materia come quella del diritto alla salute ed alle cure. Come sostiene N. Rose, il diritto alla salute è uno dei campi dove attualmente è più intenso lo scontro tra tendenze e poteri che mirano al controllo economico del corpo e delle componenti corporee e istanze che, al contrario, puntano a liberare il bios da qualsiasi forma di condizionamento che si opponga alla libera autoderminazione della persona interessata. È intorno al bios che, in altre parole, si sta giocando la partita dell’estensione o della limitazione dei diritti individuali di autocontrollo. Contro una politica dei brevetti e delle licenze 52 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 127. 53 Ivi, p. 253.

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che, ad esempio, assegna il monopolio di certe cure a determinate case farmaceutiche, violando il principio fondamentale della gratuità delle cure, il biodiritto dovrebbe rispondere cercando di normare il campo ancora assolutamente eterogeneo dei diritti di commercializzazione e di privatizzazione dell’accesso alle conoscenze mediche o farmaceutiche. Allo stesso modo riguardo ai principi di autodeterminazione alla salute ed al diritto di accettare o rifiutare le cure mediche, lo stato dovrebbe agire in modo tale da non limitare la libertà di decisione individuale pur garantendo l’equità e l’uguaglianza. Dunque, il potere di limitazione dovrebbe essere esercitato nei confronti di tutti quei poteri, specialmente economici, che potrebbero influire sul diritto di ogni persona di esercitare la propria cittadinanza biologica. La nostra individualità somatica, corporea, neurochimica diviene oggi un terreno di scelta, prudenza e responsabilità. È completamente aperta alla sperimentazione ed alla contestazione. La vita non è immaginabile come una dote fissa ed inalterabile. La biologia non è più un destino54

Se la biologia non è più un destino essa, al contrario, deve diventare una biografia, cioè deve essere interamente determinata dall’individuo e deve essere improntata dalle sue scelte di vita. Come sostiene Rodotà, il biodiritto inaugura una terza via tra biologia e biografia, parlando, da una parte, di una rottura dell’apparato di saperi/poteri iper-biologizzanti che per decenni hanno riassunto le potenzialità della biopolitica affermativa in un riduzionismo organico; dall’altra, però, egli vuole sottolineare che lo sguardo del diritto, in una società contingente come quella odierna, deve tralasciare il punto di vista astratto del soggetto di diritto per concentrarsi su un nuovo campo di diritti che devono essere riconosciuti e tutelati. Tali diritti sono strettamente legati – come detto – alla materialità della vita, perché sono espressione dei bisogni e delle necessità vitali dell’individuo. Dunque, la critica contro il riduzionismo biologico non deve incorrere nell’errore opposto di tralasciare materie particolarmente delicate come quelle che riguardano le condizioni vitali dell’uomo, la salute o la malattia, il diritto di ricevere o non ricevere cure e la libertà di decidere in quali condizioni farlo. Ciò soprattutto perché il campo degli interventi tecnoscientifici che investono il corpo, i tessuti, gli organi, le componenti genetiche dell’organismo umano si fa sempre più esteso, sfidando le tradizionali categorie ed i confini che, ad esempio, distinguevano in maniera netta mondo umano, teriosfera e tecnosfera. Il diritto e la filosofia non possono barricarsi semplicemente dietro un rifiuto reazionario, condannandosi all’inazione. È necessario, al contrario, che la complessità della condizione umana continui ad essere indagata e difesa da più punti di vista proprio per non incorrere 54 N. Rose, La politica della vita, op. cit., p. 57.

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in un riduttivo monopolio tecnoscientifico di tematiche particolarmente delicate, come quelle che definiscono i confini tra la vita e la morte.

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5.6. Beni comuni e bene comune

Anche L. Pennacchi55 sottolinea come il dibattito sui beni comuni contribuisca a rilanciare la tematica dell’importanza dei legami sociali e della lenta erosione delle basi morali della società, sempre più minacciate dalle logiche pervasive del capitalismo finanziario. In particolare la studiosa si sofferma sulla stretta relazione esistente tra beni comuni e dimensione etica. Tale questione etica è riassumibile nella seguente domanda: «Come posso agire?» che, a sua volta richiama l’interrogativo socratico: «Come posso vivere?». Al di là delle evidenti continuità tra tale riflessione sui beni comuni e l’approccio etopolitico foucaultiano, fondato sulla cura di sé come orientamento etico, estetico e politico, mi preme sottolineare che Pennacchi fa riferimento ad un’arendtiana filosofia riabilitativa della prassi che pone in discussione, oltre all’orizzonte antropo - filosofico della vita activa di tradizione classica, anche un più generale riferimento al bene comune come orizzonte di articolazione e discussione sui beni comuni. È chiaro, infatti, che bene comune e beni comuni, pur non essendo la stessa cosa, rappresentano due facce della stessa medaglia. Infatti, l’esigenza di fornire una risposta etica alle numerose domande sollevate dal rinnovato dibattito sui beni comuni restituisce centralità anche alla riflessione sul bene comune56. E da questo punto di vista la “ragionevole follia dei beni comuni”57 deve inserirsi in un contesto nel quale alla retorica del ‘comune’ deve essere opposto un lavoro di scavo critico58. Lo stesso 55 L. Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Donzelli Editore, Roma, 2012. 56 Le costituzioni nate dalle Rivoluzioni francese ed americana, sulla base dell’intreccio tra diritti individuali e felicità collettiva, trasformano il bene comune da fine collettivo qual’era nella tradizione classica e medievale (sia nella polis che nella civica medievale il bene comune è una forma di ordine, di governo, il principio che giustifica la gerarchizzazione sociale) in condizione di equilibrio, sostituendo i diritti alle leggi di natura. Ciò conduce Pennacchi a sostenere che nella società moderna lo stato ottimale degli individui non è uguale allo stato ottimale della società e l’individuo si sente in ‘esilio’ nella sua stessa casa. 57 Cfr. F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari, 2004. 58 A tal proposito, di recente, G. Vattimo ha sostenuto che la tematica dei beni comuni può essere approcciata a partire dal pensiero minimo. La minaccia indirizzata ai beni comuni ci spinge in questa prospettiva anche a riconsiderare la tematica del bene comune che deve essere, a parere del filosofo, de - sostanzializzata ed inserita all’interno di una prospettiva storicistica e relativistica. Solo in questa prospettiva il concetto di bene comune può essere affiancato a quello di beni comuni: in termini habermassiani la posta in gioco di tale riunificazione va nella direzione di una vera e propria battaglia per la vita buona. I beni comuni sono, pertanto, quelli che garantiscono

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dicasi del pericolo che si giunga ad una “mistica dei beni comuni volta a prefigurare un mondo in cui il «comune» abbraccia ed assorbe ogni cosa e l’intero orizzonte supera e sopprime ogni contraddizione, conduce ad una rediviva «fine della storia»”59. Questa “mistica dei beni comuni” va analizzata soprattutto con riferimento alle numerose reazioni sollevate dal libro di U. Mattei, “Beni comuni. Un manifesto”, nel quale l’autore, ricostruendo la complessa vicenda storica, giuridica e sociale della progressiva privatizzazione degli spazi e dei beni comuni a partire dalle enclosures inglesi (XVII - XVIII secolo), giunge a mettere in discussione la legittimità giuridica, ma soprattutto sociale, della triangolazione pubblico - comune - privato. In altre parole, Mattei sostiene che alla colonizzazione del comune abbiano contribuito allo stesso modo sia il diritto statale che il diritto privato e che il rilancio dei beni comuni debba passare per una nuova fase costituente: All’attuale situazione di diffusa inconsapevolezza politica e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (…) è urgente opporre l’elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei «beni comuni» (…) come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio e/o patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale)60.

Ritengo che nell’interessante riflessione di Mattei vi siano due questioni che meritano ulteriore riflessione critica, questioni ampiamente ridiscusse anche nel libro di Pennacchi. La prima riguarda la non adeguata differenziazione tra pubblico e statuale. La seconda la dimensione spontaneista che, secondo Mattei, deve essere attribuita alla battaglia sui beni comuni, la quale appare slegata da qualsiasi forma di mediazione istituzionale. Vorrei partire dal secondo dei punti individuati. Almeno a partire dal contrattualismo, lo stato è visto come un immenso costrutto artificiale fondato su istituzioni che hanno il compito di mediare i conflitti e di rappresentare ed ordinare le diverse istanze che provengono dalla società civile. La funzione di mediazione, dunque, ha una rilevanza fondamentale nella strutturazione istituzionale moderna in quanto consente di definire quella ‘distanza’ delle posizioni capace di generare orizzonti comuni di senso e di azione, nonché solidarietà sociale. Pennacchi definisce le istituzioni non come mezzi o fini dell’attività politica ma come media della relazione sociale o, addirittura, una vita buona, intesa in senso relazionale e identitariamente relativistica. Si fa riferimento alla lectio magistralis “ Il bene i beni” tenuta a Roccella Jonica dal 24 al 28 luglio 2013 dal Prof. G. Vattimo nell’ambito della Scuola di alta formazione in Filosofia “Giorgio Colli”. 59 L. Pennacchi, Filosofia dei beni comuni, op. cit., pp. 11 - 12. 60 Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, op. cit.

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come “filtri civilizzatori che strutturano i due pilastri della modernità: l’autonomia dei politico e lo stato di diritto”61. Infatti, è proprio attraverso la funzione mediatrice delle istituzioni che la sfera politica può assumere una certa autonomia dalle dinamiche interrelazionali che si strutturano all’interno della società civile, le quali sono mosse da rapporti di forza non strutturati tra gli individui. Allo stesso modo la mediazione istituzionale garantisce il principio di terzietà dello stato di diritto, il quale è incentrato sulla tutela, costituzionalmente sancita, dell’eguaglianza formale e sostanziale di tutti gli individui. L’importanza della mediazione deve essere considerata anche in relazione al tentativo di smantellamento delle istituzioni pubbliche e dello stato sociale che le politiche neoliberali operano da almeno trent’anni non solo in Italia ma sul piano internazionale. Nelle politiche neoliberali non è la mediazione istituzionale a decretare la scomparsa del comune ma, al contrario, è l’idea dell’autoregolazione spontaneista della società a dare nuovo slancio e giustificazione ideologica alle politiche di privatizzazione e liberalizzazione operata dagli stati. Il pericolo, segnalato da Pennacchi, è legato alla possibile affermazione di un diritto puro, cioè purificato dalle influenze della politica o ‘rinaturalizzato’ dal falso mito dell’immediatezza e dello spontaneismo sociale. Parlo di un falso mito in quanto proprio la pretesa immediatezza e spontaneità sociale, essendo invocata come ideale neoliberale, conduce sì ad una critica radicale che si indirizza agli sprechi ed alle inefficienze del pubblico ma, allo stesso tempo, favorisce una logica privatistica e clientelare che è tutto l’opposto della presunta autonomia o spontaneità auspicata sul piano delle relazioni sociali e nel contesto della società civile. Ritengo, infatti, che tutto ciò che limita o privatizza il ‘pubblico’ conduce inevitabilmente anche ad una ritrazione degli spazi di autonomia del sociale. Abbracciare la ricetta neoliberale del progressivo smantellamento delle politiche pubbliche a favore di un’ipotetica rinaturalizzazione del legame sociale appare non solo limitante ma addirittura controproducente. Il discorso di verità neoliberale che alimenta il senso comune dei cittadini ed alcune analisi politico - istituzionali ‘riformiste’ interpreta strumentalmente le inefficienze del pubblico come fonte di legittimazione dei metodi, degli strumenti e dei fini del privato (così ad un pubblico sempre più inefficiente e ‘sprecone’ si contrappongono la presunta efficienza/efficacia ed il contenimento dei costi del privato). Non si tratta solo di un radicale processo di privatizzazione ma anche di una forma accentuata di privatismo che si produce nel momento in cui la suggestione dello spontaneismo sociale e la critica a qualsiasi forma di mediazione istituzionale genera una sostituzione dell’ethos intersoggettivo con l’individualismo economico. Tali fenomeni generano, secondo Pennacchi, il rischio di “in61 L. Pennacchi, Filosofia dei beni comuni, op. cit., p. 111.

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feudamento” o “rifeudalizzazione” delle relazioni politico - sociali, rischio che è continuamente sottovalutato da tutti gli analisti che, come Mattei, parlano oggi della validità di un assetto giuridico - sociale - economico “neomedievale” all’interno del quale potrebbe svilupparsi la battaglia per i beni comuni62. Passando al secondo punto, possiamo dire che statale e pubblico sono due dimensioni differenti. Nonostante ciò, è possibile individuare nella statualità (meglio riassumibile con il termine inglese stateness) una dimensione fondamentale per l’affermazione e lo sviluppo della sfera pubblica degli stati democratici moderni. In questo caso il concetto di stateness, infatti, va esteso non soltanto a ciò che definiamo statuale, istituzionale o burocratico ma anche a tutto ciò che definisce e struttura i principî solidaristici, partecipativi, inclusivi su cui si basa la democrazia partecipativa. Interpretata in questi termini né la mistica dei beni comuni né la retorica della sussidiarietà possono supplire al ruolo fondamentale giocato dalla statualità anche se, sottolinea Pennacchi, i beni comuni sono strettamente dipendenti dal principio di sussidiarietà. Il punto è che la sussidiarietà deve, appunto, rimanere tale e deve essere posta al servizio della funzione sovraordinatrice della sfera pubblica. Di conseguenza la strada da seguire nell’inquadramento della complessa tematica dei beni comuni e nella prassi concreta della loro affermazione è, secondo Pennacchi, il processo di costituzionalizzazione della persona, proposto da Rodotà. Come detto, la tradizione giuridica incentrata sulla persona si distingue da quella incentrata sul soggetto che presuppone soprattutto la proprietà privata e l’uguaglianza formale. L’uguaglianza sostanziale, invece, è alimentata da quell’ethos metagiuridico che definisce la dignità della persona e la solidarietà sociale. Tale costituzionalismo umanista fornisce un’alternativa valida alla dicotomia con62 Mattei parla di “nuovo Medioevo” facendo riferimento alla riflessione di P. Grossi il quale descrive l’ordinamento giuridico medievale come improntato da un profondo pluralismo/ policentrismo e da un gran numero di fonti del diritto in vigore sullo stesso territorio. Queste fonti che Grossi descrive come non gerarchiche e non coordinate, erano diffuse a livello locale e scaturivano dal diritto consuetudinario, in parte feudale, in parte statuale (ove era presente un apparato centralizzato o nei comuni italiani) ed in parte sovrastatuale (come nel caso del diritto romano insegnato nelle università o impiegato nelle formulazioni notarili). In questa produzione giuridica il principio di territorialità non era predominante in quanto il diritto era applicato sulla base del principio di personalità. Secondo Mattei, si trattava di un pluralismo giuridico che privilegiava un’applicazione del diritto dal basso all’alto e che si reggeva su un’economia dei beni comuni, strenuamente difesa dai contadini e dalle classi lavoratrici. Per Grossi e Mattei, dunque, l’ordinamento giuridico medievale può fornire oggi il modello per un sistema politico partecipato e legittimo, fondato sull’autogoverno delle popolazioni autoctone e sulla difesa dell’economia del comune che si andrebbe ad opporre alla forza centralizzatrice che, a partire dalla pace di Westfalia (1648), ha caratterizzato lo Stato moderno. Per approfondimenti si veda U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, op. cit. e P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma - Bari, 2000.

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5. Etopolitica e biodiritto

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flittuale tra individualismo illimitato (particolare estensione dell’individualismo economico al complesso dei rapporti sociali) e comunitarismo negativo (irrigidimento identitario e processi di esclusione/immunizzazione sociale). 5.7. Dignità della persona

Quanto finora detto richiede, in conclusione, un approfondimento sul concetto di dignità della persona. Abbiamo accennato all’importanza che questo statuto ha nel contesto del biodiritto e nel dibattito sui beni comuni. Vale la pena, comunque, sottolineare che l’uso del termine persona mantiene un’ambiguità interna che, se non opportunamente argomentata, rischia di non apparire estranea o differente rispetto al paradigma antropologico finora presentato. Per cercare di sgombrare il campo da possibili confusioni vorrei sottolineare sia le continuità che le discontinuità che il paradigma della persona presenta rispetto a quello del soggetto infinitamente finito dell’antropologia moderna. Come accennato, S. Rodotà sostiene che lo slittamento del riferimento giurisprudenziale dal soggetto alla persona deriva dalla capacità di quest’ultima di radicarsi in un’antropologia che esprime la materialità dei rapporti umani e sociali. Non si può parlare, però, di una vera e propria opposizione tra l’astrazione del riferimento al soggetto e la concretezza del riferimento alla persona. Ad un primo sguardo anche il concetto di persona appare derivato da un riferimento astratto, presente già nel significato etimologico greco del termine. Nell’etimologia greca prosopon è maschera, dunque qualcosa che nasconde il volto umano e lo sostituisce con un doppio. Si trattava, infatti, della maschera che gli attori greci indossavano durante gli spettacoli. Questa derivazione si è conservata nella finzione che regge la persona giuridica. Rodotà sostiene, comunque, che nel momento in cui il riferimento alla persona è assunto come connotato realistico, “il discorso giuridico prende congedo da quella storica funzione”63. Tuttavia anche il riferimento al soggetto non è unilateralmente definibile, in quanto designa, al contempo, l’individuo in sé ed il fenomeno universalistico che esso esprime. Anche il paradigma del soggetto, in ogni caso, ha avuto una funzione fondamentale nella storia del diritto occidentale sin dal Medioevo: ha comportato la liberazione della persona dal riferimento al ceto, alla gerarchia sociale ed al mestiere, rappresentando, secondo Rodotà, una garanzia di generalità ed eguaglianza. Bisogna, inoltre, dire che non è corretto affermare che il soggetto è una “scoperta” moderna. Il giusnaturalismo “non scopre 63 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 141.

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il soggetto ma un altro soggetto (…) per offrire immagini diverse dell’individuo e del suo rapporto con l’ordine”64. In ogni caso, nel passaggio dalla figura astratta del soggetto alla sua effettiva articolazione giuridica si coglie uno scarto in quanto la realtà appare sempre molto più complessa della sua categorizzazione giuridica. Per una lunga fase storica, infatti, il beneficiario della soggettività fu il borghese maschio, maggiorenne, alfabetizzato e proprietario mentre la soggettività delle donne, ad esempio, era di fatto esclusa da questa categoria. Proprio la contraddizione innescata dalla non coincidenza tra asserzione formale dei diritti e loro realizzazione sostanziale aprì le porte ad una nuova definizione che scaturì dall’esigenza di superare le contraddizione dello statuto del soggetto astratto. Rodotà sottolinea che tale dibattito non tocca solo la definizione giuridica ma anche lo statuto epistemologico, antropologico, filosofico e sociologico del soggetto, il quale diventa nomadico ed enigmatico, esprimendo una realtà frantumata e mobile, “non più approdo ma processo”65. Come esito di tale frantumazione dello statuto soggettivo, la persona diventa il riferimento prevalente (non solo a livello giurisprudenziale) in quanto consente di dare rilevanza alla materialità dei rapporti ed alle relazioni sociali senza cedere alla categorizzazione del “reale”, esclusivamente in termini economici o strumentali. Questo processo, tuttavia, non portò alla sostituzione di una figura unitaria con un’altra; secondo Rodotà entro il perimetro della persona sono presenti figure soggettive differenti che esprimono in vari modi la condizione umana. È inclusa in essa la diversità o la minorità e l’handicap (sono persone i bambini, gli anziani, i portatori di handicap). La costituzionalizzazione della persona rimuove, quindi, l’indifferenza giuridica per le condizioni materiali di vita delle persone. Per comprendere il processo di costituzionalizzazione della persona è necessario guardare all’art.3 della nostra Costituzione, nel quale è presente il concetto di dignità della persona che assume una specifica connotazione sociale. La dignità indica, da questo punto di vista, la collocazione della persona all’interno di sistemi relazionali più ampi. Ma la Costituzione italiana non ha solo il merito di riferire la persona al dato materiale e relazionale; essa “non si accontenta di attribuire rilievo a qualsiasi forma di esistenza, bensì a quella che dà pienezza alla libertà ed alla dignità”66. Si stabiliscono delle relazioni necessarie tra libertà e dignità e tra queste e lo sviluppo della personalità. Ciò significa, a parere del costituzionalista italiano, che in questo orizzonte la vita non è più “nuda vita”; l’autodetermina64 P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. IV, Laterza, Roma - Bari, 2002, p. 486. 65 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 147. 66 Ivi, p. 157.

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5. Etopolitica e biodiritto

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zione della persona non è più qualcosa di astratto ma diviene un diritto fondamentale, compendiandosi, soprattutto, nel rispetto dell’integrità della persona, intesa sia come unità mente/corpo che come corpo elettronico (tale dignità potrebbe, ad esempio, essere tutelata con il riconoscimento della protezione dei dati personali). Da quanto detto deriva che, nella prospettiva di Rodotà, la costituzionalizzazione deve avvenire restituendo centralità al corpo, inteso nella sua unità e pienezza. Naturalmente, ciò non significa che la persona non abbia dei limiti che devono essere riconosciuti, soprattutto nel contesto sociale. L’autonomia individuale, infatti, deve sempre conciliarsi con la responsabilità etica. Il superamento dello statuto astratto del soggetto di diritto, inoltre, non significa trasferire alla dimensione giuridica un ready - made, cioè un sistema di relazioni materiali già strutturate e preordinate. Il riferimento alla persona ed ai concetti di dignità ed autodeterminazione che la animano, al contrario, contribuisce a generare una tensione continua tra artificialità giuridica e realtà vitale, tra misura oggettiva (generalità della regola) e misura soggettiva (realtà materiale e concreta su cui la regola poggia). Si tratta, per Rodotà, anche di una fondamentale dialettica tra libertà e responsabilità che deve mantenersi sempre viva e mobile. Inoltre, una rinnovata riflessione sullo statuto di persona deve contribuire ad escludere i rischi di riduzionismo in quanto “vi è una permanente eccedenza della persona rispetto all’insieme dei dati fisici e virtuali che la compongono”67. Anche in questo concetto è presente l’invito a far prevale il punto di vista biografico su quello biologico68, perché “proprio la prevalenza della biografia sulla biologia (…) garantirebbe l’autonomia e l’unicità della persona”69. L’umanesimo costituzionalista cui fa riferimento Pennacchi in relazione alle tesi di Rodotà potrebbe, dunque, essere inteso come l’emersione di un nuovo campo di diritti e di risorse da difendere, che devono essere posti in essere e garantiti da un apparato istituzionale investito da una rinnovata legittimazione sociale. Essi non sono esclusivo attributo del cittadino ma discendono dal “corredo” di diritti e doveri riconosciuto nello statuto di persona. Tale statuto risulta, dunque, valido per cercare di fondare il biodiritto su un nuovo paradigma antropologico che Rodotà non esita 67 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 169. 68 Questa prevalenza biografica è cancellata in senso riduzionistico quando si pone negli strumenti genetici, come i test di paternità, la ridefinizione dei rapporti giuridici che prima erano, ad esempio, incentrati sull’adozione o su una genitorialità definita in termini affettivi e di supporto materiale. Lo stesso pericolo di riduzionismo si presenta nel caso in cui la persona venga interamente definita come corpo elettronico o persona virtuale. In questo caso il rischio non è solo quello dell’iper - esposizione delle dinamiche identitarie a criteri di giudizio normalizzante, sfruttabili in termini economici, ma anche di frammentazione e dispersione dei dati che ci riguardano, con conseguente ricostruzione di profili personali non accettati o esplicitamente autorizzati dagli interessati. 69 Ibidem.

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a chiamare paradigma dell’“homo dignus”, il quale, però, deve essere impiegato: Avendo sempre la consapevolezza che un’ipertrofia nel riferimento alla persona può portare ad un rifiuto analogo a quello conosciuto dal soggetto, determinando così una «crisi paradossale» proprio in un momento in cui lo strumento della persona si presenta come particolarmente adeguato alla comprensione dei fenomeni e, insieme, alla costruzione della dimensione giuridica ad essi riferita70.

Ma c’è un aspetto che, come sottolinea R. Esposito, tende apparentemente a riproporre il corto circuito della costruzione della soggettività moderna di cui abbiamo lungamente parlato anche in relazione alla bioeconomia. La persona, pur essendo una dimensione antropo - filosofica e giuridica che tiene insieme la materialità dei rapporti e l’universalità della funzione soggettivante, non ci conduce al di fuori del paradigma dell’infinita finitudine dell’umano e, soprattutto, non ci mette al riparo dai rischi di una penetrazione delle logiche bioeconomiche nei corpi e nelle menti. Come abbiamo visto nel quarto capitolo, il termine persona è oggi utilizzato nel linguaggio manageriale e nel marketing per indicare soggetti che sono destinanti potenzialmente a sviluppare o manifestare un talento o delle “competenze” fruttabili come “risorse umane”. Ma, più in generale, questo termine consente di esprimere simbolicamente e materialmente la condizione indeterminata delle esistenze “adattate” alle logiche di flessibilizzazione, precarizzazione, controllo microfisico dell’economia cognitiva. Si tratta di una condizione che non garantisce un superamento del rischio riduzionistico che si cela dietro il riferimento ad una soggettività connotata prevalentemente in termini biologici. In altre parole, il concetto di persona, reso indeterminato e piegato alle esigenze semantiche della bioeconomia, indica una condizione di sospensione della vita tra necessità e libertà e tra potenzialità ed attualità, uno spazio nel quale l’arbitrio o le logiche emergenziali invocate come strumento economico possono fluire liberamente attraverso i corpi e mediante silenti dinamiche inferiorizzanti, competitive, coercitive o seduttive. Esposito segnala, inoltre, che lo statuto personale rappresenta anche la soglia vitale in un terreno complesso come quello bioetico. In esso, ad esempio, lo scontro verte sull’individuazione di chi ed, eventualmente, in che momento, si diventa persone, cioè si passa dalla condizione genericamente vivente ad uno statuto che dà accesso ad una posizione antropologica e giuridica definita. Criticando Rodotà, Esposito sottolinea che vi è un nodo abbastanza stretto tra la categoria di persona e quella di soggetto di diritto (il riferimento è soprattutto ai diritti umani), un nodo che non mette in discussione il primato ontologico di ciò che solitamente si definisce “personale”. 70 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 178.

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5. Etopolitica e biodiritto

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Stefano Rodotà desume la nuova rilevanza del concetto di persona (…) dalla centralità del corpo nella realtà concreta delle effettive condizioni d’esistenza. In questo caso «lo slittamento dell’attenzione dal soggetto alla persona (…) », non nasce dal suo superiore grado di astrazione, ma, al contrario, dalla sua maggiore aderenza alla situazione materiale dell’individuo vivente71.

Riprendendo l’argomentazione arendtiana che si era soffermata sulla critica della costruzione formale dei diritti umani, Esposito si chiede perché l’unificazione antropo - giuridica garantita dal riferimento alla persona tra diritto e vita, soggettività e corpo, forma ed esistenza non ha consentito di intraprendere la strada della pacificazione di un numero crescente di conflitti e di riduzione degli abusi e delle discriminazioni ai danni di categorie di soggetti, di volta in volta, definiti “indegni” dello statuto personale o, addirittura, della vita. Il filosofo fornisce una risposta a tale radicale interrogativo: il fallimento dei diritti umani e la mancata ricomposizione unitaria della dicotomia diritto/vita non si sono verificate a causa del declino del paradigma della persona ma, al contrario, in ragione di una sua affermazione ed estensione. Da una parte bisogna mettere in evidenza che questo paradigma è caratterizzato da un’oscillazione continua tra la semantica giuridica ed il linguaggio teologico e, quindi, presenta un registro ambiguamente connotato in termini sia laici che cattolici. Ma soprattutto il riferimento alla persona risorge, dopo la fine della seconda guerra mondiale, come una categoria “reattiva”, cioè fondata sulla carica decostruttiva che pretendeva di esercitare rispetto al paradigma antropologico dell’infinita finitudine dell’umano. Esposito chiarisce che, a partire dal XIX secolo, lo statuto de - soggettivante, declinato in termini biopolitici ed organicistici, divenne il punto di imputazione di una scissione interna alla vita. La teorizzazione – avanzata da Bichat all’interno del sapere medico, e poi ‘tradotta’ da Schopenhauer in quello filosofico e da Comte in quello sociologico – di una doppia falda biologica all’interno di ogni essere vivente, una di tipo vegetativo ed inconsapevole, e un’altra a carattere cerebrale e relazionale, avvia un processo di desoggettivazione destinato a modificare drasticamente il quadro della concezione politica moderna. Nel momento in cui si pensa che l’uomo sia internamente attraversato dalla tensione tra due forze eterogenee, e anzi determinato, nelle sue passioni e finanche nella sua volontà, da quella più aderente alla semplice vita riproduttiva, viene meno lo stesso presupposto su cui poggia il paradigma politico moderno72.

Ma tale “reattività” non ha prodotto gli esiti sperati perché si limitò a modificare il riferimento ad un paradigma consolidato che continuava ad essere fondato 71 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit., p. 7. 72 Ivi, pp. 9-10.

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sulla “doppia falda biologica”. Il soggettivismo moderno reinscrive nella persona la scissione tra soggetto personale ed essere umano in modo tale che il diritto soggettivo, anziché investire la totalità dell’uomo, qualifica solo la parte superiore di tipo razionale o spirituale, che si presenta come parte dominante rispetto alla dimensione corporea ed istintuale. Quest’ultima diviene, invece, oggetto. In questo senso Esposito sostiene che nel paradigma della persona avere dei diritti significa essere soggetti della propria oggettivazione e, dunque, sovrani sulla propria vita animale. Rispetto a questa riflessione, che è qui presentata in sintesi estrema, il punto di vista impersonale proposto dal filosofo non si presenta come una negazione frontale del paradigma personalista ma come una sua “estroflessione interna”, cioè come un tentativo di ribaltamento del suo dispositivo escludente o reificante. Per questo Esposito propone di riflettere sullo statuto della terza persona, cioè su “quell’insieme di forze che, anziché annientare la persona (…), la spingono fuori dei suoi confini logici ed anche grammaticali”73. La terza persona indica ciò che sfugge alla logica personalista ed inaugura un differente regime di senso che attraversa il pensiero di autori come Benveniste, Weil, Kojève, Jankélévitch, Levinas, Blanchot, Deleuze e lo stesso Foucault. Certamente, per quanto riguarda il filosofo di Poitiers, il pensiero del fuori rappresenta una svolta che è assolutamente in continuità con le tesi etopolitiche sulla cura di sé e con gli studi sulla storia della sessualità74. Di conseguenza questo punto di vista non si risolve esclusivamente in un orizzonte di senso di tipo impersonale. Al contrario, l’ultimo Foucault rilancia con forza la riflessione sullo statuto personale del soggetto nella contemporaneità e lo fa attraverso una decostruzione critica del paradigma dell’infinità finitudine dell’umano che, attraversando la tematica dell’impersonale, non si risolve in essa. Piuttosto pone un interrogativo radicale su cosa si debba intendere oggi per persona, su quali sono le trasformazioni che la investono in termini antropologici, sociali, giuridici ed economici, su quali sono gli spazi e le intersezioni di questa condizione (l’essere persona) con i dispositivi di potere e sapere che la plasmano. In altre parole, credo che Foucault ci voglia spingere a riflettere sullo statuto personale in trasformazione, su quali poteri/saperi lo definiscono oggi e su come poter concepire la persona in termini relazionali e non esclusivamente auto - riflessivi. Si tratta, a mio parere, di un pensiero relativista/ relazionale e non impersonale. Rimane ferma la problematica questione dell’inquadramento della tematica dei diritti fondamentali e della libertà d’accesso alle risorse/beni comuni come 73 R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, op. cit., p. 19. 74 Per approfondimenti si veda il mio saggio dal titolo Pensare e vivere il fuori. Etopolitica, ontologia e scrittura nella riflessione di M. Foucault in Lo Sguardo. Rivista di Filosofia, n.11, 2013 (I), Vite dai filosofi. Filosofia ed autobiografia, a cura di L. Pisano, M. Carassai e S. Guidi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2013.

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5. Etopolitica e biodiritto

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dimensione non pienamente giustificabile né nei termini personalistici della tradizione giurisprudenziale (anche e soprattutto incentrata sui diritti umani) né nella prospettiva di una filosofia dell’impersonale che rischia di dissolvere con lo statuto personale anche la dirompente carica etopolitica a partire dalla quale è possibile ribaltare il paradigma oikonomico della salute/salvezza ed i suoi più recenti effetti bioeconomici. In questo paragrafo ho cercato di presentare i punti di vista di Rodotà e di Esposito per rendere conto di un dibattito molto attuale e molto complesso che tocca la definizione di persona come centro d’imputazione, non solo dei diritti fondamentali e dei beni comuni, ma più in generale del biodiritto. Ed ho indicato nella riappropriazione di una serie di diritti che ineriscono tanto i singoli, quanto il loro statuto sociale, il punto di partenza per un possibile ribaltamento degli esiti spersonalizzanti, alienanti e destrutturanti della bioeconomia moderna. Biodiritto ed etopolitica, dunque, possono aprire dei nuovi orizzonti di senso per gli individui ma possono farlo se si rimane all’interno di un paradigma antropologico ed epistemologico di tipo personale. È necessario andare alla ricerca di un nuovo ordine di significato e di differenti dispositivi di investimento politico e giuridico della persona umana e ciò non nell’illusoria speranza di rimuovere il paradosso dell’umano ma, piuttosto, di viverlo in un orizzonte di senso ed in una condizione vitale il più possibile sottratta alla colonizzazione del mercato ed alla logica immateriale del capitalismo cognitivo. Tale logica, come detto, genera un paradossale statuto personale nel momento in cui fa coincidere alla massima astrazione ed immaterialità del denaro, del brand e dei “valori” economici la massima materialità dei corpi e delle vite. Si tratta di un’economia che rende la vita umana sempre più finita, quantificabile e manipolabile, pur in un orizzonte immateriale che trasforma le “risorse umane” cognitive, relazionali ed emotive del soggetto in riserve economiche sfruttabili ed accaparrabili. Questo paradosso si radica nella condizione antropologica dell’uomo che, per sua costituzione, è esposto alla mancanza e vive nell’orizzonte della necessità. Il lavoro, come abbiamo visto, è ciò che articola il paradigma oikonomico della salute/salvezza su un orizzonte antropologico carenziale. Nella dimensione del lavoro ed in quella della vita passa la doppia faglia di cui parla Esposito: la distinzione/articolazione tra vita organico/animale e vita qualificata e compiutamente umana. Ora, il problema fondamentale che una critica antropo - filosofica al paradigma oikonomico comporta è il tenere in considerazione che questa condizione paradossale non è nel suo complesso superabile. Essa è sempre stata e sarà sempre l’orizzonte di articolazione dell’esistenza zoologica dell’uomo sulle condizioni materiali e simboliche che la qualificano come umana e ne fanno un orizzonte essenzialmente relazionale/sociale (l’aristotelico zoon politikon). Di

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conseguenza la questione antropologicamente rilevante non è di per sé l’esistenza del paradosso ma il modo in cui esso si articola nello statuto vitale, relazionale e sociale dell’uomo. Dobbiamo chiederci innanzitutto cosa si intende oggi per vita, quali sono i criteri che qualificano una vita come degna o indegna di essere considerata umana, quali sono i confini tra umano ed inumano75. È necessario domandarsi dove passa la doppia faglia, chi è passibile di esclusione o di inclusione nello statuto umano. Abbiamo visto che tale criterio di inclusione/esclusione diviene oggi indifferenziato, minacciando pericolosamente l’esistenza di tutti noi, rendendoci ancora più vulnerabili alle dinamiche microfisiche di controllo/stimolo dei dispositivi di potere/sapere. La finitudine è resa ancora più finita perché si moltiplicano infinitamente gli stimoli e le condizioni tecnico - strumentali che rischiano di trascinare la vita di tutti noi verso una mera esistenza organica, minacciata continuamente dalla necessità e dal bisogno. La bioeconomia ci rende sempre più bisognosi, sospesi in uno stato di necessità, dipendenti dai poteri che ci sfruttano, ricattabili ed isolati dagli altri. Il lavoro, ad esempio, è sempre più minacciato da dinamiche alienanti che, deprivandolo della sua fondamentale componente relazionale, lo trasformano in termini individualizzanti e altamente competitivi. Esso ridiventa un agire non orientato e spesso non coerente ma meramente strumentale o legato alla necessità di sopravvivenza. Come ha messo in evidenza Sennett il senso di continuità dell’esperienza lavorativa ed esistenziale viene meno, trasformandosi in un insieme di esperienze alle quali il lavoratore non riesce a dare una valenza identitariamente forte. In questa condizione socio - esistenziale è, dunque, necessario problematizzare il paradigma antropologico dominante, definendo, ad esempio, su quali basi eto - politiche e giuridiche provare a ridefinire la vita ed il lavoro. Ritengo che il concetto di impersonale, per quanto connotato da un’interessante valenza di terzietà, non riesca a fungere da punto di articolazione del discorso sull’etopolitica ed il biodiritto. Al contrario, l’interessante paradigma dell’homo dignus può essere la chiave di lettura giusta per ripensare uno statuto personale che non cada nelle aporie e nelle astrazioni dello statuto tradizione del soggetto di diritto. Infatti, dire che la dignità della persona è il principio ispiratore di una nuova generazione di diritti ma anche di una nuova etica incentrata sull’equilibrio tra libertà/ responsabilità e sull’unità mente/corpo significa non concentrarsi esclusivamente sulla dimensione materiale della vita, come Esposito rimprovera a Rodotà. 75 Questo termine deve essere differenziato da quello di subumano, in quanto indica una condizione di differenza sia nel senso della superiorità che dell’inferiorità. In altre parole, mentre subumano indica la differenza per difetto, l’inumano indica la differenza sia per difetto che per eccesso. Per approfondimenti sul concetto di inumanità si veda il mio Governare l’in - umano. Miti e politiche della razza, biopotere, eugenetica, Aras Edizioni, Fano, 2011.

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5. Etopolitica e biodiritto

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Quest’ultimo, peraltro, ha ribadito in più contesti che il paradigma che pone al centro dell’attenzione il concetto di dignità della vita si oppone tanto all’astrazione del soggetto di diritto che al riduzionismo del soggetto d’interesse e che bisogna evitare di confondere il richiamo alla materialità dei bisogni ed alle esigenze degli individui con il trionfo dell’orizzonte significante della biologia e dei saperi ad essa affini. L’homo dignus, dunque, potrebbe scalzare l’homo oeconomicus non semplicemente traducendo la finitudine antropologica nel paradigma della materialità e dell’essenzialità di bisogni fondamentali cui corrispondono diritti fondamentali. Si tratta di una visione che pone nell’orizzonte del biodiritto un compito molto più complesso ed amplio: restituire il paradigma antropologico nella sua materialità ma anche nella sua complessità, valorizzando ciò che rende l’uomo più che un semplice animale che sopravvive e si consuma (consumando il mondo) nell’attività lavorativa. Al contrario la dignità della persona, spostando il baricentro dalla biologia alla biografia, diventa un criterio che consente di conciliare la libertà, intesa non esclusivamente in termini negativi, con l’uguaglianza e la responsabilità sociale. La finitudine antropologica che ci contraddistingue, infatti, è infinita riproposizione di modi di vita, è continua elaborazione identitaria, è incessante possibilità di scegliere cosa e come indirizzare la nostra esistenza. Per affermare quanto detto non occorre, a mio parere, rifugiarsi nell’impersonale ma arricchire di contenuti e di spunti problematizzanti un paradigma personale certamente complesso e contraddittorio, utilizzato molto spesso come giustificazione formale di una condizione giuridico - politica esposta alla violazione dei diritti ed alla disuguaglianza. D’altronde Esposito, così chiaro nello spiegarci le ragioni della contraddittorietà e dell’inutilizzabilità del riferimento personalistico, non è altrettanto esplicito nel puntualizzare come l’eventuale ricorso alla chiave di lettura impersonale possa aiutarci a ribaltare il formalismo giuridico o le drammatiche disuguaglianze prodotte dalla bioeconomia contemporanea. La decostruzione del “dispositivo” della persona non basta di per sé a riempire di nuovi contenuti la necessaria azione riappropriativa, problematizzante e rivoluzionaria che oggi è necessario rilanciare mediante la riflessione teorica e l’impegno politico attivo. E ciò soprattutto perché, sebbene esista sempre il duplice rischio di zoologizzazione del bios e di biologizzazione della zoe, è la prima “sponda” di questa doppia faglia a costituire il rischio più concreto e drammatico. Il paradigma dell’homo dignus, al contrario, ribalta quello dell’homo oeconomicus in quanto consente di articolare tra loro le due prospettive “liberatorie” precedentemente descritte: l’etopolitica ed il biodiritto.

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Vorrei concludere, quindi, la trattazione specificando cosa si intende per dignità della persona e quale sia il perimetro di libertà/responsabilità che la costituisce. La dignità, in primo luogo, è il fondamento concreto della cittadinanza, “intesa come patrimonio di diritti che appartengono alla persona quale che sia la sua condizione ed il luogo in cui si trova”76. La dignità appartiene a tutte le persone, sì che debbono essere considerate illegittime tutte le distinzioni che approdino a considerare alcune vite come non degne, o meno degne, d’essere vissute, o che giungano alla negazione stessa della capacità giuridica, tipica delle legislazioni razziali, che hanno confinato milioni di esseri umani nella categoria delle «non persone»77.

La seconda considerazione da fare sul concetto di dignità è che esso vieta di attribuire alla persona una valenza strumentale, cioè di concepirla come un mezzo. Ciò è vero soprattutto nel contesto del mercato dove l’autodeterminazione personale è convertita in un concetto strumentalizzabile di autonomia e le componenti vitali devono essere trattate come delle “risorse” che generano profitto. In questo caso, “la dignità assume la funzione di misura di che cosa possa rispondere alla logica economica e che cosa sia incompatibile con questo tipo di calcolo”78 ed il biodiritto deve garantire un efficace controllo giurisprudenziale sulla compatibilità tra la logica del profitto e l’autodeterminazione degli individui. Naturalmente, il controllo sulle attività economiche non deve trasformare la dignità in un veicolo di imposizione di valori limitativi o restrittivi della libertà personale o lavorativa. Infine, la dignità è un concetto relazione che fa diretto riferimento alla costituzione di legami i quali, per rimanere nel campo problematico della bioeconomia, contribuiscono a sviluppare la solidarietà sociale e lavorativa e ad unificare le lotte, dando continuità e legittimazione alle controcondotte individuali.

76 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., p. 192. 77 Ibidem. 78 Ibidem.

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