Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza 9788895967295


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Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza
 9788895967295

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Il corpo della filosofia

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Collana diretta da Rossella Fabbrichesi e Cristina Zaltieri 7

Il corpo della filosofia è la scrittura dei suoi testi, là dove il pensiero si fa visibile, si concede al nostro sguardo. Porre l’accento su tale corpo non significa attraversare i testi mirando ad un altrove invisibile di cui essi sono i segni, ma illuminare l’intreccio scritturale che è la loro carne, il textum. Significa anche tener conto che il pensiero si dispiega sempre in un’alterità (corpo, scrittura, carne, materia) che lo contamina e lo nutre. Lungi da rimuoverlo od obliarlo, la filosofia deve essere all’altezza di tale suo corpo potente e glorioso.

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Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza di François Zourabichvili

Presentazione e traduzione di Cristina Zaltieri

Negretto Editore

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Volumi pubblicati nella collana IL CORPO DELLA FILOSOFIA:

1. Camilla Pagani, Genealogia del primitivo. Il musée du quai Branly, Lévi-Strauss e la scrittura etnografica. Prefazione di Carlo Sini 2. Andrea Parravicini, La mente di Darwin. Filosofia ed evoluzione 3. Cristina Zaltieri, L’invenzione del corpo. Dalle membra disperse all’organismo 4. Barbara Stiegler, Nietzsche e la biologia. Presentazione di Rossella Fabbrichesi e Federico Leoni 5. François Zourabichvili, Il vocabolario di Deleuze. Introduzione e Traduzione di Cristina Zaltieri 6. François Zourabichvili, Spinoza. Una fisica del pensiero Presentazione di Cristina Zaltieri Traduzione di Franco Bassani 7. François Zourabichvili, Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza. Presentazione e traduzione di Cristina Zaltieri

Immagine di copertina: Giovanni Galafassi, Hermes e Dioniso, acquerello, 2016 Progetto grafico: Ornella Ambrosio Titolo originale: Le conservatisme paradoxal de Spinoza. Enfance e royauté, © Presses Universitaires de France, 2002. © Negretto Editore, Mantova, ottobre 2016 Telefono 340 5241726 [email protected] www.negrettoeditore.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-95967-29-5

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Indice

Presentazione. Spinoza come educatore di Cristina Zaltieri 5 FRANÇOIS ZOURABICHVILI, INFANZIA E REGNO. IL CONSERVATORISMO PARADOSSALE DI SPINOZA Avvertenza

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Introduzione Memoria e forma: lo Stato e la sua rovina Amnesia e formazione: nascita di uno Stato L’infante adulto e le chimere

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PRIMO STUDIO INVILUPPARE UN’ALTRA NATURA/ INVILUPPARE LA NATURA 1. LA TRANSIZIONE ETICA NEL BREVE TRATTATO 1. Elemento proprio e elemento estraneo (KV, II; cap.26) 2. Una nuova nascita (KV, II, cap.22) 3. L’equivoco dell’«unione»

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2. LA TRANSIZIONE ETICA NEL TRATTATO DELL’EMENDAZIONE DELL’INTELLETTO 83 1. Logica della transizione etica: conversione e dilemma 83 2. Il ruolo dello «sforzo» 90 3. Il concetto d’institutum: logica della convergenza 94 4. Disorientamento, possessione: l’ombra della trasformazione 98 5. Homo concipiat naturam aliquam humanam sua multo firmiorem 107

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SECONDO STUDIO L’IMMAGINE RETTIFICATA DELL’INFANZIA 3. LA FIGURA DELL’INFANS ADULTUS 1. Il bambino della Scolastica e le contraddizioni del Rinascimento. 2. Il bambino della pittura e della medicina 3. Il bambino dei giuristi 4. La parabola del primo uomo 5. Volontarismo cartesiano, volontarismo spinoziano

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4. INFANZIA E FILOSOFIA 1. L’impotenza infantile: né privazione né miseria (scolio V, 6 e scolio V, 39 dell’Etica) Nota su Il bambino malato di Gabriel Metsu 2. La puerilità degli uomini 3. L’autonomizzazione del corpo

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5. INFANZIA E MEMORIA 1. Il regime amnesico dell’infans stuporoso 2. In che senso il corpo del bambino è «come in equilibrio»? 3. L’adolescenza: età di ragione o ultimo avatar dell’infans adultus? 4. Che cos’è una pedagogia spinozista? 5. Conclusioni del rapporto sull’infanzia

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TERZO STUDIO POTENZA DI DIO E POTENZA DEI RE 6. LA CONFUSIONE DELLE DUE POTENZE E LA DERIVA BAROCCA DEL CARTESIANESIMO 199 1. Confutazione del potere di astensione 200 2. Confutazione del potere d’alternativa 206 3. La proposizione Eth, I, 33, la sua dimostrazione e il suo secondo scolio 209 4. Aderire al barocco o scongiurare il barocco? 215

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5. La sorte paradossale dello spinozismo: chimera contro chimera e come si stabilisce in verità il rapporto con il politeismo nel pensiero di Spinoza 219 7. IL SOGNO TRASFORMISTA DELLA MONARCHIA ASSOLUTA 229 1. La divinizzazione dei re 230 2. Assolutismo monarchico e metamorfosi 233 3. L’assolutismo regio secondo Spinoza: una quintupla chimera 237 4. Prima chimera: dietro al re, i favoriti e la corte 239 5. Seconda chimera: il sogno tirannico di trasformare la natura 243 6. Terza chimera: cambiare i decreti (e la teoria della doppia mente del re). 248 7. Quarta chimera: morte del re e successione (TP, VII, 25) 253 8. Quinta chimera: ritorno sull’apoteosi e verità teocratica 259 9. Che cos’è una moltitudine libera? Guerra e civilizzazione 260 8. COS’È UNA MOLTITUDINE LIBERA? GUERRA E CIVILIZZAZIONE 266 1. Il popolo che non teme la morte (elogio degli antichi Ebrei) 266 2. Lotta e libertà nel Trattato politico (TP, § VII, 22) 270 BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

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Ringraziamenti della curatrice Desidero ringraziare Gianni Galafassi per aver dedicato a questo mio lavoro l’acquerello di copertina e Lorenzo Gatti per la sua preziosa consulenza nella traduzione.

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Presentazione Spinoza come educatore «I tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori» Nietzsche, Schopenhauer come educatore

1. Liberare l’infanzia, liberare la sovranità Se, come insegna Nietzsche, “i nostri maestri sono i nostri liberatori” lo Spinoza presentato in Infanzia e regno si rivela maestro insuperabile in quanto la sua filosofia viene qui proposta come progetto di liberazione etica del singolo e di liberazione politica della collettività. A tale riguardo i temi dell’infanzia e della regalità rivestono un ruolo cruciale perché entrambi sono luoghi complessi, problematici, nodali per il disegno spinoziano di liberazione e sono temi, peraltro, che richiedono entrambi – visti attraverso la lente di Spinoza – un ripensamento radicale rispetto a ciò che la tradizione e il senso comune di essi dicono. Laddove Spinoza riflette su entrambi i temi il suo intento è quello di depurarli da confusioni, ibridazioni malsane o, per dirla nel linguaggio spinoziano, da «chimere» che intralciano e impediscono il percorso etico-politico da lui prospettato. La chimera che imperversa nel territorio dell’infanzia è quella dell’infans adultus, nel duplice senso che questa commistione malsana ci indica: sia fare dell’infanzia una sorta di adultità imperfetta, di adultità solo non compiuta, ancora mancante e impotente ma anche, di contro, lasciare che l’intera vita adulta sia un prolungamento dell’infanzia – come stato di minorità e di assenza di autonomia. La chimera che affligge l’ambito politico – altrettanto diffusa e non di meno confusiva e pericolosa della prima – è invece quella del Dio- Re capace in un sol gesto di produrre un’immagine distorta del potere, di cui nella divinizzazione si finisce per non riconoscere i limiti e insieme di snaturare il divino, leggendo Dio come un monarca di cui gli uomini sarebbero i sudditi. Cominciamo così a comprendere quale senso si debba attribuire alla parte del titolo del testo, che accorpa – in modo a prima vista di certo curioso – infanzia e regalità. Rimane da esplorare quale significato si debba attribuire all'altra parte del titolo della ricerca di Zourabichvili che recita 9

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Il conservatorismo paradossale di Spinoza chiarendo, inoltre, in che modo esso si leghi al binomio costituito da infanzia e regalità. Iniziamo con l’osservare che François Zourabichvili presenta in queste pagine uno Spinoza con indubbi caratteri d’originalità, peraltro destinata a non sorprendere i lettori di Spinoza. Una fisica del pensiero,1la prima monografia che Zourabichvili ha dedicato al filosofo olandese cui fa seguito questo Infanzia e regno. Già in quel primo testo, infatti, Spinoza era presentato come pensatore che tematizza il divenire, rendendolo proprio cogente problema filosofico, ben lungi quindi dal consegnare all’irrilevanza e all’insignificanza il mutamento – come invece esigerebbe lo stereotipo costruito dalla tradizione di uno Spinoza esclusivo pensatore della sostanza immobile. Zourabichvili continua, in questa seconda ricerca a scrutare nelle profondità speculative di un pensiero, quello spinoziano, che si presenta, già dalle prime pagine del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, come posto al servizio di un fine pratico, quello della mutazione di istitutum vitae da Spinoza indicata come la spinta originaria alla base della sua ‘conversione’ alla filosofia. Zourabichvili vede quindi in Spinoza, al di là dell’immagine consolidata da una lunga tradizione, il filosofo del cambiamento, in primo luogo etico e politico. Tale cambiamento occorre comunque pensarlo sotto l’egida di una triangolazione entro cui si gioca il divenire, da Zourabichvili definita «il triangolo paradossale dello spinozismo: progredire è più in profondità imparare a conservarsi; e l’opera di conservazione rinvia costantemente alla questione della trasformazione». 2 In questo senso Zourabichvili può pensare Spinoza come esponente di un conservatorismo paradossale in quanto fautore di un pensiero che insegna la conservazione di sé come unica forma auspicabile di mutamento, di divenire. Nella lettura che Zourabichvili ci offre di Spinoza, la conservazione si contrappone all’alienazione, diviene il baluardo contro ogni snaturamento del sé, contro lo smarrimento della propria natura. Ma tale conservazione di sé non si effettua nell’immobilità, bensì in una costante variazione. Ora, la questione che Zourabichvili pone a Spinoza a tale riguardo è la seguente: fino a che limite può spingersi il mutamento di un ente, di un modo? È legittimo pensare che il divenire possa giungere fino a

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F. Zourabichvili, Spinoza. Une phisique de la pensée, Paris, PUF, 2002; tr. it., di F. Bassani, Spinoza. Una fisica del pensiero, a cura di C. Zaltieri, Mantova, Negretto Editore, 2012. D’ora in poi SFP 2 F. Zourabichvili, Le conservatorisme paradoxal de Spinoza. Enfance et royauté Paris, PUF, 2002; tr. it e cura di C. Zaltieri, Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza, Mantova, Negretto Editore, 2016, p. 29. D’ora in poi IR.

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quel punto di rottura costituito dalla trasformazione, intesa come tale concetto stesso assunto nel suo stretto senso tecnico esige, ossia come passaggio di una singolarità, individuo o popolo che sia, da una forma ad un’altra, dunque come ‘metamorfosi’? L’ipotesi guida della ricerca è che nella conservazione di sé, nel perseverare in suo esse, obiettivo primo della strategia del conatus di ogni singolo modo, sia sempre implicato un lavoro di incessante mutamento. Vero è che Spinoza non s’inibisce di pensare neppure gli aspetti più stranianti che il divenire può esibire, rifiutandosi così di cacciarli dal terreno della ragione, di abbandonarli alla superstizione della metamorfosi alchemica, magica, miracolistica – peraltro così pervasiva, nel tempo di Spinoza – di ogni territorio culturale, data la forza della coeva sfrenata immaginazione barocca. In continua vivimus variatione (Eth, V, 39, sch.) dice Spinoza, consegnando così al lettore uno di quegli asserti che costellano l’Ethica e che, sotto l’apparente sembianza di semplice constatazione, si rivela in realtà un vero e proprio aforisma cruciale, inviluppo denso di senso da dipanare e da svolgere, come – ad esempio- «la sostanza esiste necessariamente» (Eth, I, 11), oppure «l’uomo pensa» (Eth, II, 2 ax,)… In continua vivimus variatione constata un’evidenza indiscutibile: ognuno di noi è consegnato al mutamento, tale mutamento, essendo noi modi del pensiero e dell’estensione, è esperienza del corpo e della mente, meglio, è un accadimento del corpo e della mente dato che, per Spinoza, non si può decidere il proprio mutamento. Esso, dunque, ha in prima istanza i caratteri di un evento, non di una scelta; eppure, quando Spinoza narra con intensità drammatica – nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto – la propria esperienza di conversione alla filosofia rende il lettore partecipe di un desiderio di mutamento che poi si tramuta nel salto da quel comune institutum vitae che lo rendeva debole e infelice, come preso da un pericolo mortale, al nuovo institutum vitae al quale chiede di essere ‘salvato’ dalla disperazione. Questa è la vicenda autobiografica che Spinoza narra all’inizio del TEI, vicenda all’origine del suo percorso filosofico. Dunque, in continua vivimus variatione – consegnati senza volerlo, né deciderlo agli incontri con gli altri modi – ma potendo volere e cercare di divenire in meglio, di transire ad maiorem perfectionem. (Eth, III, 11 sch.) Resta da mettere in chiaro che dire ‘mutamento’ non equivale certo a dire ‘trasformazione’: se il mutamento trova piena legittimità nell’ambito dell’infinita molteplicità dei modi, destinati necessariamente a innumerevoli incontri che tracciano, segnano, dunque modificano la potenza di ognuno, la trasformazione presenta uno statuto assai problematico. 11

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Letta rigorosamente come abbandono di una forma primeva per passare ad un’altra, la trasformazione porterebbe con sé la distruzione stessa del modo, la cui forma, secondo Spinoza, deve – pur nelle variazioni – conservarsi, pena la distruzione stessa del modo. Non si passa di forma in forma nella Natura nomomorfica spinoziana, la metamorfosi è gioco letterario da lasciare ai poeti, caro al gusto barocco dell’epoca. Non è qui il caso di soffermarsi sulla questione della forma in Spinoza a cui Zourabichvili ha dedicato un’analisi illuminante in Spinoza. Una fisica del pensiero, di certo fondamentale per poter affrontare poi la questione della trasformazione. Limitiamoci a ricordare che la forma pensata da Spinoza non è per nulla apparentabile all’idea platonica o agli universali di genere e specie aristotelici; sia che Spinoza ci inviti a pensarla come una proporzione di quiete e di movimento – come accade nelle prime riflessioni del Breve trattato – sia che la definisca come conatus, ossia come potenza particolare e unica di agire e patire, nel pensiero maturo dell’Ethica, resta che la forma è sempre in un corrispondenza biunivoca con il singolo modo: c’è uno dove c’è l’altra e viceversa. In tale quadro la trasformazione pare propriamente affare da lasciare agli alchimisti o ai poeti che vogliono stupire, ai cagliostri che affollano l’eccentrica temperie barocca. La trasformazione, al pari del miracolo, sembra non avere patria nella Natura, esplorabile more geometrico, dell’Etica. Eppure, ciò non toglie che l’ombra inquietante della trasformazione, in quanto limite estremo del mutamento che spezza l’identità, aleggi nei testi spinoziani come ciò che si presenta al nostro sguardo nella sembianza della possibilità fatale, del pericolo incombente in ogni divenire, sia singolare – laddove è distruzione dell’identità individuale – sia collettivo – laddove è rivoluzione o catastrofe di civiltà. Prova di questa presenza inquietante, nella sua prima declinazione, è certo il celebre scolio dell’Etica a cui Zourabichvili torna più e più volte come ad un leit motiv del suo percorso, per dipanarne un senso che si dimostra comunque difficilmente esauribile. «Avviene talvolta, infatti, che un uomo subisca mutamenti tali che non direi facilmente che egli è lo stesso […]». Cosi, con un incipit degno di un racconto noir di Edgar Allan Poe, Spinoza inizia, nello scolio della proposizione 39 del libro IV dell’Etica, la narrazione di un mutamento, di una quasi-trasformazione che appare a noi inquietante: quella occorsa all’anonimo poeta spagnolo che perde la memoria, mantenendo dell’uomo che egli era prima di tale evento, solo la lingua materna. E qui Spinoza associa al mutamento del poeta divenuto amnesico il cambiamento che avviene dall’infante all’adulto sorprendendoci con questo collegamento a prima vista bizzarro: il primo mutamento è infatti straordinario laddove 12

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un uomo còlto, un poeta, non vecchio, dopo una malattia, dimentica completamente chi era prima; il secondo mutamento invece è del tutto ordinario, appartiene al vissuto di ogni essere umano adulto, ma tutti e due i mutamenti sono accomunati, ci impone di riflettere Spinoza, da una medesima radicalità che li rende entrambi sorprendenti, difficili da credere. E se questo sembra incredibile [il mutamento del poeta amnesico], che cosa diremo dei bambini? Un uomo di età avanzata crede la loro natura tanto diversa dalla propria da non potersi persuadere di essere mai stato bambino, se non formulasse riguardo a sé tale congettura a partire dagli altri.

L’accostamento delle due ‘trasformazioni’, quella del poeta in un amnesico e del bambino in un adulto, ci riporta ora alla domanda posta sin dall’inizio: perché dedicare buona parte della ricerca alla questione dell’infanzia in Spinoza? La domanda ha ora un’ulteriore risposta: perché l’infanzia è il luogo cruciale del massimo mutamento occorso all’uomo lungo la propria vita, è esperienza comune a tutti coloro che giungono all’età adulta, e ci dimostra che ciò che ai nostri occhi si può in effetti presentare come ‘trasformazione’ ha in realtà sempre una natura conservativa. Spinoza vuol dunque dirci: se anche una mutazione così straordinaria, come quella che ci trasforma da neonati a uomini di età avanzata, in realtà obbedisce a precise leggi di natura, mostra regolarità ripetibili, così anche la mutazione del poeta in amnesico come ogni altro mutamento sarà l’esito di cause precise, sarà riconducibile a ragioni naturali, anche se queste ultime sfuggono alla nostra mente tanto che essa trova straniante il cambiamento. Questo non vuol dire che la trasformazione conservativa in azione nell’infanzia abbia un esito scontato o non mostri comunque i caratteri perigliosi, di guado decisivo per la costituzione stessa dell’uomo, inevitabilmente segnata da incontri, a volte fatali per tale costituzione. Può accadere che tale mutamento non giunga a buon esito; è il caso in cui l’infante incontra quei cattivi educatori che Spinoza accusa di non firmare sed frangere (Eth, IV, app., cap. XIII), ossia di spezzare invece che rafforzare, la natura del fanciullo, la declinazione singolare o il conatus che è l’essenza individuale, invece di conservare intatta tale natura per permetterle di raggiungere la massima potenza in età adulta.

2. Figure dell’infans spinoziano Zourabichvili resta ancora ad oggi un solitario nella sua ricerca sull’infanzia in Spinoza: ad oggi ben pochi sono gli studiosi spinoziani, il più 13

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attento dei quali è certo Pierre Macherey – come Zourabichvili riconosce – che hanno dedicato più di una nota al tema dell’infanzia. Eppure in queste pagine egli ci dimostra molto efficacemente che tale ricerca non è affatto marginale nel contesto dello studio di Spinoza; in primo luogo sorprendendo molti con le numerose e costanti riflessioni nei confronti dell’infanzia disseminate lungo l’opera del filosofo olandese, che pure possono facilmente sfuggire anche ai più attenti lettori spinoziani. A tal riguardo può essere utile, per rendere più fruttuosa possibile la lettura del testo, provare a tracciare qui una sorta di economia spinoziana del concetto d’infanzia che dia conto delle differenti funzioni svolte da tale concetto nelle sue varie occorrenze disseminate lungo l’opera di Spinoza. 1) L’infans come luogo di manifestazione di un radicale mutamento. È il tema principe rispetto all’infanzia e ritorna nel testo spinoziano a partire dal Breve trattato che considera, nella nota 10 della prefazione alla seconda parte, il caso limite della trasformazione del corpo e, di conseguenza, della sua idea, ossia della mente, laddove da feto l’individuo passa a neonato: «Ma questo nostro corpo era in un’altra proporzione di moto e quiete quando era un bambino ancora non nato e, di conseguenza, quando in seguito sarà morto, esisterà anche in un’altra proporzione». (KV, II, pref.[2], nota 10) Aleggia qui l’idea che l’infanzia abbia il proprio esordio in una mutazione che sfugge alla nostra completa comprensione, così come la morte. Nell’Etica il famoso scolio del poeta spagnolo propone un altro carattere enigmatico dell’infanzia, già rilevato da Agostino: tutti la sperimentiamo eppure tutti la scordiamo, avendone attestazione solo dagli adulti che ci assistono nella prima età. Anche in Eth, V, 6 sch. si ritorna sulla difficoltà di comprendere rettamente l’infanzia. Sarebbe errore valutarla con i parametri dell’adulto che vede in essa solo impotenza e dipendenza da commiserare e non la sua particolare natura di fase necessaria al raggiungimento dell’adultità. 2) L’infans / puer come luogo fondamentale sul quale si segna nel bene e nel male la traccia educativa, che Spinoza di certo dimostra di ritenere essenziale nella costituzione dell’umano. Il primo richiamo è nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto dove si evoca la necessità di un sapere pedagogico che, insieme ad altri saperi, l’etica, la medicina, la politica…, sia d’aiuto nel raggiungimento dello scopo eminentemente paidetico che l’autore si prefigge: convertire gli uomini dal corrente vitae institutum in un novum vitae institutum. (TEI, [15]) Tale valorizzazione della pedagogia fa dire 14

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a François Zourabichvili che forse uno Spinoza vissuto più a lungo avrebbe finito per riflettere specificatamente su tale problema. Sempre a proposito della rilevanza della formazione, Spinoza considera gli aspetti imitativi della prima educazione, laddove ciò che è oggetto d’amore dei padri lo diviene anche dei figli (KV, II,3,§ 5) oppure quegli aspetti rafforzativi e non correttivi delle passioni tristi già forti nella natura umana, come invidia e odio (Eth, III, 55 sch.), o ancora quelle pratiche di manipolazione degli affetti che sono capaci di istillare nei fanciulli sensi di colpa per le azioni disprezzate dai genitori oppure orgoglio per quelle da costoro apprezzate (Eth, III, def. aff. XXVII, spieg.). Perlopiù Spinoza, laddove volge l’occhio all’educazione imperante, ne vede con lucidità gli aspetti de-formanti, quelli che non potenziano il conatus (firmare) anzi lo indeboliscono, addirittura lo frantumano (frangere) con l’esito nefasto che i fanciulli, pur di ribellarsi ai cattivi formatori, vanno incontro alla propria autodistruzione in una vera e propria deriva annichilente (Eth, IV, app., cap. XIII). Così gli incontri che dovrebbero essere formativi con genitori e maestri, mancano l’obbiettivo della ‘conservazione trasformatrice’ a cui deve mirare ogni formazione: trasformare il corpo e la mente del neonato – capaci di fare poche cose e dipendenti massimamente dall’esterno – in un corpo e un una mente ben più potenti (Eth, V, 39 sch.9), capaci di esprimere appieno la propria singolarità di modo, dell’estensione e del pensiero. È importante rilevare la diffusa presenza, nel testo spinoziano, di una vera e propria critica della cattiva formazione perché questa attenzione acuta ci legittima a pensare che proprio di contro alla paideia mal-formante imperante e diffusiva, Spinoza costruisce il suo percorso paidetico, di liberazione dell’uomo. 3) L’infans associato con pazzi e stolti. La triade di bambini, folli e sciocchi ricorre nelle opere e nelle lettere di Spinoza. Spinoza utilizza questo triplice accostamento con finalità differenti: a volte per esprimere una futilità che non merita di divenire problema del pensiero, come un gioco infantile o un passatempo sciocco (Ep. 68), ma anche, ed è il più delle volte, per indicare ciò che sfugge alla piena comprensione della nostra ratio adulta e normata (Eth, II, 49 sch.; Eth, III, 2 sch.; Ep. 74). Ad accomunare queste tre figure stanno i seguenti caratteri: la forza anarchica, imprevedibile, della loro immaginazione, la direzione assoluta, incoercibile, imperiosa che in essi assume il conatus, rendendoli – pazzi, stolti e bambini – casi dell’umano nei quali poter vedere in caratteri chiari e ben leggibili gli esiti che in ognuno di noi può produrre una passione monoidetica o l’immaginazione laddove sia sfrenata. 15

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4) Infine l’infans assurge in molte ricorrenze a modello epistemologico insostituibile dell’‘origine’ dell’uomo. È questa la figura dell’infans più presente nel testo spinoziano, capace di evidenziare la profonda valenza filosofica attribuita da Spinoza all’infans come sorta di laboratorio dell’origine: sia l’origine delle associazioni mnestiche ma anche l’origine delle concatenazioni affettive o delle connessioni immaginative. Si succedono in questo ruolo diverse figure infantili, ognuna delle quali incarna un modello didattico di situazioni umane generalizzate: il neonato che sente per la prima volta il suono della campanella e viene come ‘posseduto’ dal desiderio di sentire continuamente tale suono (KV, II, 17 § 4) oppure il bambino che pensa di volere liberamente il latte (Eth, III, 2 sch.). Entrambe le figure infantili ben ci spiegano il funzionamento, solo apparentemente libero, del desiderio umano, nel primo caso determinato dall’eccitazione del suono e impossibilitato ad avere altro oggetto a meno che non intervenga una fonte di eccitazione diversa e maggiore, nel secondo caso determinato da un radicale bisogno biologico di cui non ha nessuna coscienza. Vi è anche il caso del fanciullo che vede Pietro al mattino, Paolo a mezzogiorno e Simone alla sera e che costruisce un’associazione tra tali incontri e i differenti momenti della giornata: nel medesimo modo in cui si aspetta che il sole percorra il cielo in guisa che gli è usuale vedere, così si aspetta di rifare gli stessi incontri nei medesimi momenti del giorno. (Eth II, 44 sch.) Oppure laddove il fanciullo immagina il cavallo, che sia alato o meno non è essenziale,3 con una tale vividezza e forza da pensare che tale frutto della sua immaginazione sia esistente in carne ed ossa, esperienza infantile che ci evidenzia la capacità quasi-allucinatoria che l’immaginazione

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Paolo Cristofolini che ha recentemente curato la traduzione dell’Etica ripresa dal manoscritto ritrovato negli Archivi Vaticani qualche anno fa, considerato il testo originario di Spinoza, nota che il cavallo immaginato dal fanciullo in Eth, III, 2 sch., non è affatto alato e che tale aggettivo si deve dunque ipotizzare sia stato aggiunto dal traduttore olandese Willem Meijer e poi assunto definitivamente da Gebhardt. (cfr. P. Cristofolini, Presentazione alla prima edizione (2010), in B. Spinoza, Etica, tr. e cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa, 2014, p.15). Zourabichvili in Spinoza. Una fisica del pensiero, scritta prima del ritrovamento del manoscritto e della rettifica di Cristofolini, si dedica a un’esegesi del brano in cui si considera proprio la natura alata del cavallo un elemento importante da analizzare. (F. Zourabichvili, «I sortilegi dell’ignoranza (banalità dell’allucinazione)» in Spinoza. Una fisica del pensiero, op. cit., pp.214-218)

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umana, nella fanciullezza particolarmente viva, può sempre esprimere. (Eth II, 49 sch.) Infine il bimbo che ride o piange solo perché vede gli altri intorno a sé ridere o piangere (Eth III, 32 sch.), esperienza che rivela in funzione non tanto una supposta e misteriosa capacità empatica, quanto piuttosto il dispiegarsi di quella forza imitativa che Spinoza in vari luoghi dimostra essere essenziale alla costruzione di ogni singolarità. La disamina di questi topoi entro i quali si possono ripartire le immagini reiterate dell’infanzia presenti nel testo spinoziano ci aiuta a comprendere perché Zourabichvili, nelle sue «Conclusioni del rapporto sull’infanzia», può asserire: Spinoza tratta l’infanzia senza disprezzo né compassione, come una prospettiva, il bambino come un essere in divenire. Il rapporto con l’infanzia diviene il banco di prova di una filosofia che non intende riconoscere alcuna validità all’idea di privazione, e che esce trionfante da tale prova rettificando l’immagine dell’infanzia, appropriandosene come migliore illustrazione di se stessa. Il bambino colto nel suo divenire, alla fine dell’Etica, è l’immagine stessa, unica, definitiva, conforme all’intelletto, del divenirfilosofo. (IR, p. 191)

Spiega Zourabichvili che il bambino in Spinoza come immagine stessa del divenir-filosofo è qui da pensare in modo assai differente (non per questo contrapposto) rispetto alla relazione bambino/filosofo a cui si richiamavano Deleuze e Guattari quando asserivano in Millepiani: «lo spinozismo è il divenir-bambino del filosofo». Qui Deleuze e Guattari volevano indicare una convergenza tra la nuova modalità definitoria inaugurata da Spinoza che pensa ‘pragmatisticamente’ in termini di effetti attivi e passivi ogni singolarità e il tipico interrogare del bambino. ‘Cosa fa?’, un corpo, una mente, è questa ora in Spinoza la domanda definitoria, non più il socratico ‘che cos’è?’ la cui risposta si orienta verso l’universale. Dal canto suo, Zourabichvili pensa innanzitutto il «divenir-bambino del filosofo» come un’esplorazione della potenza, della effettualità insita in ogni gesto, in ogni procedere del corpo e della mente, che ci permetta uno sguardo ‘infantile’ sulle cose che è precedente rispetto ad ogni commiserazione o derisione o valutazione che sia. Non solo, Spinoza ci insegna che nemo miseretur infantis, ossia che l’impotenza infantile non è da commiserare poiché l’infanzia in sé non manca di nulla; solo se comparata alla compiuta maturità intesa come norma, essa può apparire mancante, carente della piena razionalità, della autonomia del corpo e della mente, della consapevolezza di 17

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sé… Resta che l’intero percorso prospettato dalla filosofia di Spinoza si presenta come un passaggio dalla vita resa impotente dalla tirannia delle passioni alla vita resa sempre più potente attraverso la liberazione dalle passioni e dagli inganni dell’immaginazione. L’infanzia diviene dunque coestensiva dell’intera vita […]. Non è triste dover cominciare con l’esser bambini, è triste restarvi. L’infanzia appare da commiserare solo a posteriori quando noi gettiamo uno sguardo retrospettivo sulla poca potenza che avevamo, comparata al grado di capacità a cui ci siamo elevati e continuiamo ad elevarci: allora, effettivamente, non c’è a rigore nulla da rammaricarsi, e solo l’adulto impotente, mostruoso lattante sotto l’aspetto di uomo fatto, può abbandonarsi con compiacimento all’allucinazione nostalgica dei suoi primi anni (impotenza per impotenza almeno là era circondato da cure); (IR, p. 192)

3. Critica della chimera politica Torniamo a considerare nel suo insieme la ricerca di Zourabichvili. La struttura tripartita di questo testo vede il primo studio «Inviluppare un’altra natura/Inviluppare la natura» dedicato alla transizione etica dall’impotenza alla potenza così come viene narrata da Spinoza nei suoi primi testi, Breve trattato e Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Sono queste le opere meno frequentate dalla critica, ma che testimoniano prima dell’Etica la sua stessa personale esperienza di transizione alla filosofia e sulle quali aleggia l’ombra della trasformazione, con i rischi mortiferi che l’accompagnano. Il secondo studio «L’immagine rettificata dell’infanzia» si apre con una disamina che, attraverso fonti eterogenee, sia filosofiche, sia storiche, letterarie, pittoriche, considera le profonde modificazioni dell’immagine del bambino avvenute dal periodo medievale al seicento olandese così da poter conoscere quale fosse la cultura dell’infanzia che ha ospitato il pensiero di Spinoza. È a questo punto che Zourabichvili entra nel vivo della considerazione che abbiamo appena esaminato, del ruolo assai complesso giocato dall’infanzia nel pensiero di Spinoza, assegnando una eminente funzione alla memoria, al costituirsi delle sue associazioni e al suo divenire nei primi tempi della vita umana. Infine il terzo e ultimo studio «Potenza di Dio e potenza dei re», affronta, dopo l’infans adultus, – prima chimera identificata come tale da Spinoza attraverso la disamina dell’infanzia e contrastata attraverso il percorso paidetico indicato dalla sua ricerca – una seconda chime18

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ra combattuta da Spinoza, ossia quella più propriamente politica del Dio - re. Zourabichvili dimostra, attraverso un attento lavoro sul testo dell’Etica, come la distinzione tra le due potenze, quella di Dio e quella dei re, stia molto a cuore a Spinoza tanto da presentarsi come importante chiave d’accesso all’Etica. Questo perché, per Spinoza Confondere la potenza di Dio con la potenza dei re, forgiare questa chimera metà divina e metà umana di un monarca celeste, vuol dire dissolvere l’identità dell’essere sovranamente perfetto nel politeismo e nella metamorfosi. (IR, p. 215)

Un Dio mutevole, contradditorio, dai decreti instabili ben si sposa con quel mondo dell’immaginazione barocca ove tutto si metamorfizza, ove nulla è distinto e ove ogni ente si confonde con un altro. Proprio questo mondo barocco nel quale la chimera è imperante è quello che Spinoza s’impegna a scongiurare ribadendo più volte nel corso dell’Etica che il potere di Dio non va per nulla confuso con quello di un sovrano i cui iniziali decreti possono essere revocati o contraddetti dai successivi. La necessità e l’immutabilità dei decreti di Dio non comportano una coercizione esterna (anche questa idea, frutto della confusione tra necessità e coercizione, è da addebitare al lavorio sotterraneo della chimera del Dio - re), è invece esito di un rigoroso lavoro della ragione trarre dall’infinita potenza di Dio l’immutabilità delle leggi della natura. Ma l’appello spinoziano a non confondere la potenza di Dio e la potenza dei re deve essere letto in entrambi i sensi ed è a proposito del secondo senso, quello che mette in causa l’identificazione del re con Dio, che la lotta di Spinoza contro le chimere mostra appieno il proprio carattere politico (peraltro sempre presente in filigrana nel percorso fin qui fatto a proposito dell’infanzia poiché l’‘uscita dall’infanzia’ è per la collettività accedere all’autonomia della propria potenza). Zourabichvili in questa terza parte del suo lavoro ingaggia un corpo a corpo con il testo del Trattato politico a proposito dell’analisi spinoziana della monarchia. Il regno di un solo è immediatamente posto sotto i due segni della contraddizione e della trasformazione, la natura chimerica, e come tale mostruosa, del potere politico – laddove esso tende al solipsismo – è da Spinoza dimostrata con più di un argomento. Il potere politico è per propria natura plurale, composito, molteplice; esso assume necessariamente i tratti della chimera laddove si vuole spacciare per «monarchia», non riconoscendo la moltitudine che si cela dietro al presunto governo di uno solo, laddove fa del potere, che per Spinoza ha un radicamento ‘vitalistico’ in quel convenire 19

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dei molteplici e differenti conatus di ogni modo, un’istanza mortifera, suicidaria4 secondo un sogno tirannico di trasformazione della natura; o laddove pretende di conciliare la legge, nella sua necessaria costanza, con la volontà dell’individuo, sempre preda della fluttuazione delle passioni; o, ancora, la continuità del potere e l’intermittenza legata alla finitudine umana. Zourabichvili vede in Spinoza non solo l’acuto e inattuale preannunciatore del tramonto di ogni monarchia proprio nel XVII secolo, momento storico dell’apogeo dell’assolutismo in Europa, ma vi legge ben di più, ossia egli riconosce in Spinoza colui che allude – attraverso la denuncia delle aporie chimeriche della sovranità – a qualcosa che concerne forse il nostro futuro: il crepuscolo dello Stato con le incognite che tale prospettiva porta con sé. Questo ultimo terzo studio si conclude, non a caso, con un paragrafo che reca nel titolo una domanda: Che cos’è una moltitudine libera? Guerra e civilizzazione. A tale espressione del titolo si può legittimamente attribuire un duplice senso: essa, infatti, evoca quel soggetto politico molteplice, plurale, la moltitudine, che è la scaturigine originaria del potere di ogni stato e che, come tale, è destinata a sopravvivere al tramonto di ogni forma politica data o conosciuta. Ma ci si interroga su cosa significa che essa, la moltitudine, sia libera, ossia adulta, emancipata da ogni infantile dipendenza da un capo/padre. Moltitudo è concetto che in Spinoza evoca la fonte immanente di ogni sovranità, ma Spinoza – sempre poco incline a idealizzazioni e trasfigurazioni – sa bene, e il realismo politico del Trattato politico lo attesta, come ogni moltitudo sia sempre passibile di svilirsi in vulgus, ossia in una massa pericolosamente trascinata da indecorosi capi-popolo, superstizioni, passioni cieche, come l’esperienza del ‘civile’ popolo olandese che lincia nella pubblica piazza i fratelli De Witt gli ha dimostrato. In bilico tra libera moltitudo e vulgus, il popolo si presta ad una analogia con l’individuo, anch’egli sempre passibile di ricadere nell’impotenza dell’infanzia mentre di contro è chiamato ad intraprendere un cammino per il conseguimento della

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A tale riguardo Spinoza, per le sue osservazioni inerenti ad una sorta di insubordinazione, anche anonima, involontaria, impersonale, legata alla forza stessa del conatus, capace di agire anche nell’individuo terrorizzato e dominato, si pone a diritto come fautore di un pensiero politico anti-tragico. Su questo tema cfr. Ètienne Balibar Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli, 2002, pp.39-40 (laddove Balibar definisce Spinoza come l’anti-Orwell) e C. Zaltieri, «La potenza e il diritto. La seconda natura in Spinoza» in G. Dalmasso, S. Maletta (a cura di), La sovranità in legame, Jaca Book, Milano, 2015, pp.69-86.

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propria autonomia. Al percorso verso la liberazione di quest’ultimo da dipendenze e tutele – da conquistare attraverso una compiuta paideia – corrisponde il percorso di liberazione della multitudo, ovvero la prassi di affrancamento dalla reductio ad unum politica, che possiamo chiamare genericamente monarchia, da parte del corpo collettivo. I due concetti, evocati anch’essi nel titolo di questa conclusione, guerra e civilizzazione, suonano da risposta alla domanda che chiede come una moltitudine divenga libera riservando una sorpresa in quanto Zourabichvili non vuole giocarli in una facile opposizione. Si tratta, piuttosto, di soppesare come la lotta nel Trattato Politico sostituisca il contratto nel costituire il luogo della formazione dell’individuo politico: La moltitudine si educa attraverso la lotta per l’indipendenza, che si tratti di conquistarla o di mantenerla, e la Lotta, educatrice immanente, si sostituisce nel Trattato politico all’educatore mitico o per lo meno eccezionale che era Mosè. Nello stesso tempo, il modello non può più essere teocratico ma democratico – una democrazia almeno derivata dalla guerra come una convenzione spontanea, che precede il patto esplicitato. (IR, p.273)

Dunque, all’origine pattizia che nel Trattato teologico politico ancora funziona come momento sorgivo della comunità, al modello teocratico, sempre proposto nello stesso testo, del popolo ebraico portato alla civilizzazione dall’educazione mosaica, si sostituisce nel Trattato politico il percorso di civilizzazione verso la democrazia – unica compiuta civilizzazione per Spinoza – del popolo che sperimenta la paura della morte attraverso la lotta collettiva per ottenere la propria libertà. Qui sta per Zourabichvili la ragione di una rivalutazione della storia romana, che Spinoza ha molti motivi per disprezzare. È storia – infatti – di un popolo spesso impegnato in guerre di conquista, lacerato da sedizioni interne, garante di paci fittizie che in realtà nascondono sottomissioni violente di altri popoli. Ma, accanto a tali misfatti politici, il popolo romano è stato anche capace di difendere al momento giusto la propria libertà con una guerra di liberazione, unica guerra legittima, come ad esempio quella contro Annibale. È la guerra di liberazione, dunque, piuttosto della rivoluzione ‘trasformatrice’ – che Spinoza considera con sospetto perché solitamente si conclude con il tirannicidio non cambiando come dovrebbe le cattivi abitudini del popolo e la sua memoria inerziale – che funge da educazione collettiva attraverso la paura della morte e che realizza quella conservazione valorizzata da Spinoza e a cui allude l’intera ricerca di Zourabichvili. Beninteso: non si tratta di conservare ciò che esiste, ma di far esistere ciò che si conser21

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va, detto altrimenti, la conservazione a cui qui si allude non ha nulla di inerziale, bensì è salvaguardia di una forza collettiva. Resta da dire che se il conservatorismo paradossale di Spinoza, paradossale perché conservatorismo che sa inventare e creare per dare slancio allo sforzo di conservazione, è concetto convincente, ben calzante perché adeguato a dar ragione del realismo tutt’altro che cinico o rassegnato del filosofo olandese, la lettura di Zourabichvili della guerra di liberazione come processo privilegiato da Spinoza della civilizzazione, del passaggio dal vulgus alla moltitudo, non convince del tutto. Lo stesso testo spinoziano, che sia il TTP o che sia piuttosto il TP, sul quale verte per lo più l’analisi di Zourabichvili in quanto ha come problema centrale il mutamento politico5, non pare suffragare tale conclusione. Spinoza molto chiaramente chiama libera la moltitudine mossa più dalla speranza che dalla paura della morte, quella collettività che vive una vita ‘autentica’, non riducibile alla salvaguardia delle mere funzioni biologiche, ma quanto al percorso di civilizzazione collettiva che conduca ad essa non pare che Spinoza ne indichi uno e uno solo, tracciato una volta per tutte; in sintonia, d’altronde, con il percorso paidetico del singolo modo che non segue un’unica declinazione. Sembra piuttosto che, per Spinoza, la fondazione pattizia, la teocrazia incarnata dallo stato mosaico (considerati nel TTP), la guerra di liberazione dal giogo straniero, le differenti forme di limitazione del potere monarchico o di organizzazione di quello aristocratico, insieme a tutti gli exempla di collettività, tutte le moltitudine che affollano le pagine del TP, Aragonesi, Turchi, Veneziani, Genovesi, Romani, siano luoghi di riflessione sugli errori da evitare, sui possibili punti di forza di una comunità, piuttosto che veri e propri modelli da ripetere: lo sforzo di conservazione collettiva richiede ogni volta uno slancio ‘creativo’ come giustamente osserva in conclusione Zourabichvili, che dunque non può illudersi di poter ripetere con successo ciò che è stato un unicum: il processo civilizzatore delle moltitudini del passato.

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«Il mutamento è l’argomento centrale del Tractatus Politicus, prima di tutto perché esso è, nelle varie forme che può assumere, un fenomeno ineliminabile, sempre presente, delle società umane; in secondo luogo perché esso è normalmente un evento pericoloso, che ridimensiona drasticamente la sicurezza che i singoli avrebbero cercato di procurarsi abbandonando lo stato di natura per far parte di una collettività organizzata» (G. Lamonica, «Introduzione» a B. Spinoza, Trattato politico, tr.it. di G. Lamonica, FrancoAngeli, Milano, 1999, p.12)

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4. Inviluppo e chimera: non solo una questione di metodo Un concetto, tra i tanti che affollano le dense pagine di questa originale lettura di Spinoza, merita una attenzione particolare perché va considerato, a nostro parere, un vero e proprio punto nevralgico nell’economia di questo lavoro: quello di enveloppement. Si tratta di un termine ricorrente in Infanzia e regno, di traduzione peraltro non immediata poiché enveloppement è infatti quella che si potrebbe definire, con Artaud, una parola-baule, in quanto ha in sé differenti valenze. Accoglie in sé il valore che attribuiamo al concetto logico di ‘implicazione’, per cui nel sillogismo le due premesse contengono già in sé la conclusione che da esse discende, ma non si può limitare la sua portata speculativa a tal senso logico, tenendo in primo luogo conto che la lingua francese ha già la parola implication per renderlo efficacemente. Enveloppement ha una portata semantica ben più ampia poiché assume il significato di ‘inviluppo’ che richiama l’idea di un ripiegamento tale da contenere nella piega qualcosa di inviluppato, difficilmente separabile da ciò che lo avviluppa, il cui pieno compimento dovrebbe essere quello di sciogliersi dall’inviluppo per compiutamente svolgersi, s-vilupparsi appunto. È concetto che ha di certo un debito nei confronti di Deleuze, autore caro a Zourabichvili e suo riferimento costante, in quanto pensatore della piega. Vero è che il testo da Deleuze dedicato specificatamente alla riflessione su tale tema, La piega, è uno studio su Leibniz, ma come indica il suo sottotitolo Leibniz e il Barocco 6 il concetto di piega attraversa, per Deleuze, quell’intero clima culturale seicentesco che nutre anche Spinoza. Inoltre, come sottolinea opportunamente Rocco Ronchi, Deleuze utilizza, per parlare della sostanza spinoziana, la lingua di Cusano e della scuola di Chartres: «È il vocabolario della ‘piega’. Semplicità, complicazione, esplicazione, perplicazione … sono tutti termini che definiscono modalità diverse dell’essere della piega […]».7 Questo perché la piega è concetto essenziale a render conto del piano d’immanenza assoluta salvaguardando, nello stesso tempo, le molteplici infinite singolarità che lo abitano, le differenti intensività che lo attraversano, i divenire che vi si intrecciano…ossia restituendo a Spinoza quella complessità irriducibile espressa dalla sua filosofia della sostanza, che resta potente fonte di ispirazione per il pensiero deleuziano del caosmo.

6

G. Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque, Paris, Les Éditions de Minuit, 1988; tr. it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004 (2. Ed.), p.36. 7 R. Ronchi, Deleuze. credere nel reale, Milano, Feltrinelli, 2016, p.87.

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Ma torniamo a Zourabichvili e al suo uso in Infanzia e regno del termine ‘inviluppo’ – che altro non è se non una piega complessa, più e più volte ripiegata su di sé – quale concetto chiave. In primo luogo si tratta di un concetto essenziale per capire il metodo di lettura ‘immanentista’ del testo di Spinoza che Zourabichvili pone in atto e che costituisce il suo tratto originale – di ascendenza deleuziana – entro l’orizzonte dell’ermeneutica: per Zourabichvili il testo filosofico non rimanda a un piano differente da quello dell’enunciato ove sarebbe posto il significato. Ogni concetto è un inviluppo di senso che occorre con pazienza dis-piegare, restando aderente alla lettera poiché tutto ciò che è da comprendere lo si dis-piega svolgendolo nel piano d’immanenza del testo. Ma il concetto di inviluppo ha ben altri usi: esso dà ragione della natura più profonda che si cela dietro la chimera, obbiettivo polemico di Spinoza, nonché – come abbiamo detto – ibrido da smascherare in questo testo sotto le due forme dell’infans adultus e del Dio - re. Che cosa sono, a ben pensarci, queste due chimere (come ogni chimera) se non inviluppi di particolare natura; una piega mortifera, potremmo dire, poiché in tal caso non vi è possibilità di potenziamento o di dispiegamento di nessuno dei due elementi inviluppati, bensì alienazione di entrambi nella implicazione di due alterità non componibili. La filosofia della liberazione di Spinoza, come arte degli incontri, mira a sceverare gli incontri produttivi, potenzianti, da quelli tra modi incompatibili che snaturano, che intristiscono i corpi e le idee. Le due chimere combattute da Spinoza, come abbiamo visto, sono inviluppi dovuti alla confusività immaginativa capace solo di alimentare superstizione e passioni tristi, inviluppi cancerosi laddove, nel primo, l’adultità misura l’infanzia come mancanza e l’infanzia proietta sull’adulto l’ombra di un’impotenza e di una sudditanza innaturali oppure laddove, nel secondo, la sovranità assume una falsa aurea divina mentre a Dio si attribuisce lo scettro del comando. Sono due espressioni dell’alienazione individuale e collettiva dell’uomo che Spinoza non smetterà mai di combattere al fine di conseguire un «regime non chimerico dell’inviluppo». Resta chiaro che ogni singolarità è peraltro un inviluppo gravido di potenza da dispiegare, è un modo la cui «trasformazione» – laddove è al lavoro nel suo procedere salvifico e formativo, sia del corpo dell’infante sia del corpo politico della moltitudine – altro non è se non dis-piegamento, sviluppo, che la filosofia di Spinoza vorrebbe insegnare a rendere il più possibile compiuto. Ora la questione paidetica assume in questa luce l’aspetto di un lavoro che in primo luogo scevera gli inviluppi mortiferi, chimerici da quelli ‘buoni’ e, in secondo luogo, insegna ad assumere l’inviluppo come luogo del proprio dispiegamento, 24

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il quale non coincide con la fine di ogni ibridazione del sé con l’altro (delirio del modo che si crede sostanza) bensì con il passaggio dalla dipendenza inconsapevole dall’altro ad un’attiva sinergia con esso. A tale proposito Zourabichvili osserva: Non si tratta però di farla finita con tale inviluppo dell’altro, si tratta piuttosto di smettere di confonderlo con noi. L’etica consiste in realtà in un cambiamento di regime d’inviluppo, passando da un primo ad un secondo tipo di rapporto con l’altro: la conoscenza del terzo genere non fa di noi tanti imperi in un impero; vuol dire che noi ci comprendiamo ormai adeguatamente come partecipi della Natura. Siamo passati da un’appartenenza subita ad un’appartenenza cosciente e attiva. Di conseguenza, non smettiamo d’inviluppare la Natura, al contrario: il legame è diventato quello di un rapporto attivo con l’altro. Lo testimonia la mutazione dell’affetto d’amore, parallelamente all’emergere di un regime non chimerico d’inviluppo.8

Il costante leitmotiv di Spinoza – messo in luce da Zourabichvili, tanto da divenire il tratto originale della sua lettura del filosofo olandese – è proprio quello dell’ impresa paidetica che è tutt’uno con il progetto filosofico e che, ormai quasi alla fine dell’Etica, fa scrivere a Spinoza: In questa vita, dunque, ci sforziamo anzitutto affinché il corpo dell’infanzia – per quanto la sua natura sopporta e conduce a ciò, si muti in un altro che sia capace di molte cose e che sia riferito a una Mente che sia molto consapevole di sé, e di Dio e delle cose. (Eth V, 39 sch.)

Lo sforzo collettivo, che tutti siamo chiamati a fare è di mutare il corpo dell’infanzia, corpo di ognuno laddove è infans, ossia in balia della propria impotenza, non ancora dischiuso appieno in quello che può, in un corpo (e in una mente), di potenza dis-piegata, per quanto ognuno di noi può tollerare. Questa è la preghiera di una trasformazione che conserva, l’auspicio che deve guidare il lavoro di ogni pratica di autentica Bildung. Cristina Zaltieri Milano, Luglio 2016

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IR, p.111.

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AVVERTENZA Per le opere di Spinoza si utilizza: Spinoza Opera. Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. v. C. Gebhardt, Heidelberg, Carl Winter’s Universitätsbuchhandlung, 5 voll., 1925. Nel testo, in nota: G, numero romano del volume, numero arabo della pagina. Per la traduzione italiana si segue la seguente edizione: B. Spinoza, Opere, a cura di F.Mignini e O.Proietti, Mondadori, Milano, 2008. Le opere saranno citate nel testo con le seguenti sigle: CM= Cogitata metaphysica Ep. = Epistolario (si segue la numerazione presentata nella tr. it. di F.Mignini e di O. Proietti) Eth = Ethica KV = Korte Verhandeling PPC= Principia philosophiae artesianae TIE = Tractatus de intellectus emendatione TP = Tractatus politicus TTP = Tractatus theologico-politicus app. = appendix ax. = axioma c. = caput cor. = corollarium def. = definitio dem. = demonstratio expl. = explicatio n. = nota post. = postulatum pr. = propositio praef. = praefatio sch. = scholium lem. = lemma

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François Zourabichvili

Infanzia e regno. Il conservatorismo paradossale di Spinoza A Félix et Timothée

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INTRODUZIONE

Dopo la morte di mio figlio, mi sono trasformato in un altro uomo, e in un altro ancora. Io non c’entravo niente, tutto questo mi accadeva e mi trascinava, improvvisamente io ero un altro. E voi dovreste conoscere ogni cosa. Ne siete stato testimone. Ignoro cosa abbiano voluto coloro che sono stato, ignoro quali altri uomini mi attendono, ignoro se io stesso, qui, Spinoza, non sia che uno degli altri. 1

La stranezza e la tensione che caratterizzano lo spinozismo appaiono sotto una luce particolarmente viva laddove si solleva la questione del cambiamento. Tale questione ci si chiede se non potrebbe dirsi esterna a un pensiero che si definisce in prima istanza un’etica e che, a tale titolo, è inseparabile dall’idea di un progresso (ad majorem perfectionem transire), elaborato sullo sfondo di un’oscillazione incessante (in continua vivimus variatione), in rapporto a una permanenza fondamentale (immutabilitas Dei). Tuttavia questo schema, che dopotutto non è altro che un truismo della filosofia morale, non dice ancora nulla sull’originalità spinoziana. Occorre integrarlo, o meglio complicarlo con quello che si può definire il triangolo paradossale dello spinozismo: progredire è più in profondità imparare a conservarsi; e l’opera di conservazione rinvia costantemente alla questione della trasformazione. Tale triangolo ottiene per così dire la sua cifra verso la conclusione dell’Etica, laddove nonostante la sua critica alle idee di chimera e di metamorfosi, Spinoza lancia la grande immagine contradditoria dell’infans adultus, del «lattante adulto», che risuona su tutto un insieme di testi di cui essa rivela i legami problematici. La nozione di trasformazione è ancora nel XVII° secolo il dominio

1 L. Borges, A. Bioy Casares, H. Santiago, Les Autres, Paris, Bourgois, 1974, sceneggiatura del film di Hugo Santiago, Les Autres. L’eleganza del film sta nel lasciar credere a un rapporto di omonimia tra il personaggio principale, di mestiere libraio, e il filosofo pulitore di lenti; e per conseguenza al carattere «surrealista» delle allusioni a quest’ultimo. In realtà, il film espone in immagini e in suoni ciò che Borges, co-sceneggiatore, aveva già da tempo intuito, ossia che la questione della trasformazione lavora dall’interno il motivo del perseverare in suo esse. Cfr. il racconto di Borges, «Borges e me» e l’ultima terzina del suo sonetto «Spinoza».

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per eccellenza del mistero: essa interessa il teologo e l’alchimista e si è potuto sottolineare quello che la stessa teologia dei misteri deve all’alchimia.2 Si sa in che poco conto Spinoza abbia tenuto la fondamentale credenza del cristianesimo, quella nell’Incarnazione o nel Dio che si fa uomo.3 Così come si conosce anche l’impostazione meccanicista del suo approccio ai fenomeni chimici. 4 La trasformazione è inoltre motivo privilegiato dell’estetica barocca, e il gusto per il meraviglioso mitologico si manifesta perfino nell’Olanda calvinista: anche a tale riguardo vi è una scarsa considerazione in Spinoza.5 Infine il XVII° secolo vede compiersi, in Inghilterra, il primo grande tentativo moderno di trasformazione politica: Spinoza è pessimista a riguardo.6 Sembra in verità che un pensiero iscritto risolutamente nell’orizzonte dell’essenza e del principio di non contraddizione abbia poco da dire sulla trasformazione e non possa che rimanere confinato nella sterile conferma di una iniziale impossibilità, eventualmente a rischio di prolungarsi nella formulazione di un interdetto morale e politico. La trasformazione intesa in senso forte o in senso stretto come un cambiamento che affetta di sé il soggetto, e non solo i predicati del soggetto – la trasformazione così compresa come cambiamento di identità si segnala come l’illogico stesso, come trasgressione capitale, rivelatrice di un fallimento della ragione.7

2

L. Brunschvicg, Spinoza et ses contemporains, Paris, PUF, 1971, V ed., p. 195. Lettera 23 a Oldenburg (Spinoza ha appena sottolineato la sapienza di Cristo): «Per il resto ho detto espressamente di ignorare che cosa significhi ciò che alcune Chiese aggiungono, che cioè Dio abbia assunto forma umana (natura humana assumpserit); anzi, a dire il vero, mi sembrano affermazioni assurde, come quelle di chi mi dicesse che il circolo ha assunto (induerit) la natura del quadrato». (Ep. 23) 4 Ep. 6 e Ep. 9, entrambe a Oldenburg, intermediario tra Spinoza e Boyle. Cfr. anche Ep. 51 a Jelles e Ep. 81 a Schuller che testimoniano una sollecita curiosità nei confronti dell’alchimia. 5 TEI, § 37; Eth, I, 8, sch.2. 6 TTP, XVIII, [8], p.709. 7 Lungo tutto questo lavoro utilizzeremo la parola «trasformazione» nel suo stretto senso tecnico. È una precisazione importante per evitare false polemiche. Spiegheremo, ad esempio come, per Spinoza, il percorso etico non sia una trasformazione e che quest’ultima non può essere in effetti l’oggetto di un desiderio: ciò non implica affatto che ci si opponga a Antonio Negri laddove egli scrive che Spinoza «pone nel protagonismo delle masse il fondamento dell’azione di trasformazione, 3

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Inoltre, il divenire di ogni cosa è circoscritto per Spinoza dalla sua essenza, che corrisponde alla forma della sua individualità. L’innovazione è reale dato che la vecchia nozione di forma è ridefinita in senso strettamente meccanicista: Ciò che costituisce la forma di un individuo consiste in un’unione di corpi (secondo la definizione precedente). (Eth II, lem.4 prop.13, dim.) Ora ciò che costituisce la forma di un corpo umano consiste in ciò che le sue parti si comunicano tra loro mentre i loro movimenti seguono un certo rapporto. (Eth IV, 39, dim.)8

Non solo la forma non si riferisce più all’anima, ma essa è ormai individuale, non più specifica. L’essenza d’altronde si attualizza in un certo quantum di sforzo grazie al quale la forma si afferma e tende a conservarsi (il famoso conatus)9 Il principio di «perseverare nel proprio essere», che definisce l’esistenza nella durata, implica la conservazione della forma e comporta la squalifica ontologica della trasformazione. Di primo acchito, dunque, il pensiero di Spinoza non appare propizio a una positiva o feconda ricerca sulla trasformazione, e lo storico della filosofia sarà più incline a tale proposito a rivolgersi a Bacone.10

insieme sociale e politica» o che, per Spinoza, l’«etica del modo è trasformazione liberatoria dell’essere finito» (A. Negri, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 14 e p. 202); né che si rifiuti Foucault quando egli sottolinea come il problema dell’accesso alla verità, nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, sia legato alla questione «in cosa, e come, debbo trasformare il mio stesso essere di soggetto?» (M. Foucault, L’hermenéneutique du sujet, Paris, Seuil/Gallimard, 2001; tr. it. di M. Bertani, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 24). Basta capire che questi autori non impiegano la parola nel suo senso tecnico e scolastico. Vedremo più avanti l’interesse di tale movimento verbale. 8 I due testi rinviano alla definizione di individuo data in seguito alla proposizione 23 della II parte. Abbiamo sviluppato altrove le conseguenze di tale nuovo concetto di forma: Spinoza. Une physique de la pensée, Paris, PUF, 2002, trad. it di F. Bassani a cura di C. Zaltieri, Spinoza. Una fisica del pensiero, Mantova, Negretto Editore, 2012. 9 Eth III, 6-7. 10 Bacone è il primo filosofo «moderno» che rinnova il concetto di forma. E la sua critica della chimica (o dell’alchimia) è animata da un acuto interesse per le possibilità tecniche della trasformazione: «Ma nessun corpo si può dotare di una natura nuova, né lo si può tramutare opportunamente e con successo in un corpo nuovo, se non si conosce alla perfezione la natura del corpo da alterare o trasformare. Altrimenti si cadrà in procedimenti vani, o almeno difficili e incomodi, e

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Tuttavia abbiamo ragione di credere che Spinoza non solo si è imbattuto nel problema della trasformazione, ma l’abbia inoltre affrontato come nessun altro filosofo prima di lui. Numerosi testi evocano una formae mutatio, o in aliam formam mutatio, potendo sostituire la parola forma con un termine equivalente, natura o essenza: «cambiamento di forma», «cambiamento di una

non appropriati alla natura del corpo sul quale si opera. Anche per questo bisogna dunque aprirsi una via nuova e fortificarla.» (F. Bacone, Novum Organum, tr.it. a cura di E. De Mas, Roma-Bari, Laterza (BUL), 1992, II, af.7, p.142, ). Il programma più generale della metafisica consiste dunque nella «ricerca delle forme» cui corrisponderà, sul piano pratico, una magia «purificata» (Ibid, af. 9, p.144). Vale la pena approfondire l’eventuale rapporto di filiazione tra Bacone e Spinoza, per esempio in funzione del seguente passaggio: «La principale utilità che ricaviamo dalle cose che sono fuori di noi – oltre all’esperienza e alla conoscenza che acquisiamo osservandole e mutandole da una forma all’altra – è la conservazione del corpo. » (Eth IV, app., cap.27) Senza dubbio il rifiuto delle cause finali che implica la ridefinizione fisica della forma in termini di «schematismo» o di leggi interne non è stata ininfluente né per Descartes né per Spinoza. Resta che Bacone è ancora lontano da una concezione veramente meccanicistica: «Vi è tuttavia un pericolo da evitare, che richiede cautela: quello che queste istanze – le ‘istanze di migrazione’ che presiedono alla generazione e alla corruzione – leghino troppo la forma alla causa efficiente, e confondano l’intelletto o almeno lo colpiscano con una falsa opinione della forma, a cagione della vista della causa efficiente. Perché quest’ultima è per noi niente altro che il veicolo o il trasportatore della forma.» (Ibid., II, af. 23, p. 188). E la forma resta per lui una specie o una qualità (ad esempio il calore, la luce, il peso) che informa una materia e di cui si tratta di spiegare l’«atto puro» per scoprire le leggi che le sono proprie. (ibid., II, af.17, p. 174). Ecco perché non crediamo granché all’avvicinamento suggerito da Koyré, che segue una tesi di Sigwart, tra le «essenze particolari affermative», ossia le «cose fisse ed eterne» del Trattato dell’emendazione dell’intelletto, e le forme di Bacone (cfr. le note di Koyré in B. Spinoza, Traité de la réforme de l’entendement, tr. fr. a cura di A. Koyré, Paris, Vrin, 1994, pp. 111-112). Koyre si appella a un supposto dinamismo comune alle concezioni baconiana e spinoziana di forma: noi non vediamo affatto alcuna filiazione fondata, in modo particolare tra lo «schematismo latente » e il «rapporto di quiete e movimento». È piuttosto in Leibniz che apparirebbe un rapporto più interessante con Bacone (cfr. la lettera ad Arnauld del 30 aprile 1687, dove Leibniz prende in prestito da Bacone la nozione di «metaschematismo» in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, Torino, UTET, 1967, vol. I, p.159»). Infine, il passaggio dell’Etica prima citato mostra bene dove si trova il centro di gravità del pensiero di Spinoza: «conservazione del corpo». Ben inteso, sulle osservazioni di Spinoza a proposito del metodo di Bacone ci fermiamo qui.

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forma in un’altra».11 Nello stesso senso Spinoza dice anche aliam natura induere, «assumere un’altra natura».12 In ogni caso, si tratta di un cambiamento di forma o di essenza, o, come spiega l’unico testo in cui figura la parola trasformatio, di una «trasformazione del soggetto».13 Spinoza inizia con il porre la trasformazione entro il dominio della finzione, o della superstizione. Ma, non è che l’inizio: la parte I dell’Etica. Già nella parte II esplora i limiti delle forme: in che misura un individuo è passibile di variare senza trasformarsi? A tale riguardo, la complessità affettiva del corpo umano pone quest’ultimo in cima alla gerarchia della natura. Poi la prefazione della parte III evoca trasformazioni perfettamente naturali o legali. È nelle due ultime parti che la trasformazione si eleva al rango di problema, come un contrappunto sordo e ostinato, nella misura in cui ci si incammina verso l’ultimo sforzo volto a definire il terzo genere di conoscenza: Spinoza vi evoca delle trasformazioni sorprendenti, inaccettabili eppure manifeste, riesumando delle domande che il buon senso tomista, poi cartesiano, credeva di aver risolto per sempre. Chi può giustificare una simile indagine su un concetto a prima vista secondario benché il suo campo di applicazione copra sia la vita individuale che la politica e la metafisica? Siamo partiti da uno stupore e da una constatazione domandandoci se non ci fosse un legame tra l’uno e l’altra. Il nostro stupore era il seguente: nel bel mezzo di una sequenza dell’Etica concernente l’utilità della vita sociale, 14 Spinoza consacra improvvisamente uno scolio alla morte individuale, e all’idea che la morte non designa per forza una mutatio in cadaver, ma talvolta una mutatio in aliam naturam. In effetti egli ha appena stabilito la differenza tra buono e cattivo in materia di fisiologia, chiamando cattive le cose che, alterando il rapporto di quiete e movimento che le parti del

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Cfr., per esempio, Eth, I, 8, sch. 2; Eth, I, 20, cor.2; Eth, II, lemmi 4-6 dopo la proposizione 13; Eth, III, prefazione; Eth, IV, praef.; Eth, IV, 20, sch.; Eth, IV, 39, sch.; Eth, IV, app., cap.27; TTP, XVIII, [8], [9] e [10] (triplice occorrenza); TP, VI, 2; X,1; 10. Non elenchiamo qui le numerose occorrenze dell’espressione mutare in. 12 Cfr., per esempio, Eth, II, ax.3 dopo Eth,II, 13; Eth, IV, 20, sch.; Eth, IV, 39, dem.; TP, IV, 4. 13 CM, II, cap.4: subjecti transformatio che definisce la transformatio propriamente detta: Spinoza riprende qui la nozione scolastica di una «corruzione che nello stesso tempo implica una susseguente generazione», che riassume il tradizionale assioma: corruptio unius est generatio alterius dato che la materia non perde una forma senza acquisirne una nuova. 14 Eth,IV, 29-40.

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corpo hanno tra di loro, conducono il corpo a «rivestire un’altra forma», per cui il corpo si trova «distrutto»: Quanto ciò possa nuocere o giovare alla mente si spiegherà nella Quinta parte. Ma qui si deve notare che intendo morto quel corpo le cui parti sono disposte in modo da ottenere tra loro un’altra proporzione di moto e di quiete. Infatti, non oso negare che il corpo umano, mantenuta la circolazione del sangue e altre condizioni per le quali si giudica che il corpo viva, possa nondimeno mutarsi in altra natura del tutto diversa dalla sua, dal momento che nessun motivo mi costringe a stabilire che il corpo non muore se non si trasforma in cadavere; ché anzi, la stessa esperienza sembra persuaderci d’altro. Avviene talvolta, infatti, che un uomo subisca mutamenti tali che non direi facilmente che egli è lo stesso, come ho sentito narrare di un poeta spagnolo che era stato colpito da una malattia e che, sebbene ne fosse guarito, rimase talmente dimentico della sua vita passata da non credere che fossero sue le commedie e le tragedie che pure aveva composto. In verità avrebbe potuto essere considerato un bambino adulto se avesse dimenticato anche la lingua materna. E se questo sembra incredibile, che cosa diremo dei bambini? Un uomo di età avanzata crede la loro natura tanto diversa dalla propria da non potersi persuadere di essere mai stato bambino, se non formulasse riguardo a sé tale congettura a partire dagli altri. Ma per fornire ai superstiziosi materia per muovere nuove questioni, preferisco lasciare a metà questo argomento.(Eth, IV, 39, sch.)

Avremo modo di ritornare su questo testo; limitiamoci per ora a sottolineare due suoi aspetti formali degni di nota. In primo luogo il concatenamento delle idee, alquanto associativo: dalla tesi (morte = trasformazione) all’illustrazione (convalescente amnesico), poi all’analogia (neonati), poi infine all’abbozzo di un’indagine sulla natura del secondo termine dell’analogia e sul rapporto dei termini tra loro (che dire della natura degli infanti? E del rapporto tra l’adulto e l’infante che egli è stato?). In poche righe siamo passati dalla fine della vita al suo inizio tramite un fenomeno strano, quasi «incredibile». Ed ecco il secondo aspetto formale: 1) una reticenza, poco frequente in Spinoza, all’asserzione pura e semplice («non oso negare», «nessun motivo mi costringe a stabilire»), locuzioni negative, la prima lo è peraltro doppiamente; 2) una leggera incertezza sullo statuto dell’asserzione («la stessa esperienza sembra persuaderci», suadere videtur – la fine del testo evoca per l’appunto una difficoltà a persuadersi: «da non potersi persuadere … se non», persuadere non posset, se; «non direi facilmente che … »); 3) infine la combinazione di sentito dire, di credenza, di congettura che coinvolge tanto il soggetto dell’enunciato (l’amnesico, 34

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quindi qualsiasi adulto) che il soggetto dell’enunciazione (Spinoza), e che getta il lettore in un clima di straniamento e di perplessità («ho sentito narrare», «da non credere che», «avrebbe potuto esser considerato», «e se questo sembra incredibile», «un uomo d’età avanzata crede … da non potersi persuadere … se non formulasse tale congettura …»). Tutto pare alla fine incerto, in un testo che peraltro partiva da una tesi perentoria; e ciò che poteva esserci di barocco nel tema dell’amnesia pare passare dal contenuto alla forma e contaminare la scrittura stessa di Spinoza. L’anonimato apparentemente definitivo del poeta in questione15 d’altra parte contribuisce non poco a questa atmosfera nebulosa, che non è nello stile usuale del filosofo. Per questo s’interrompe a costo di lasciare le cose in medio, nel momento in cui il lettore potrebbe essere tentato di lasciar cadere la riflessione per la rêverie. Vedremo tuttavia che tale scolio può essere letto in altro modo: come lo zampillio di tratti vivi e distinti che disegnano con nettezza i contorni di un problema. Veniamo ora a conclusione: il concetto stesso di in aliam formam mutatio gioca maggior ruolo nei due libri politici, fino a figurarvi come il concetto stesso della rivoluzione, o per lo meno del suo progetto (l’istaurazione di un nuovo regime). Ognuno dei due Trattati, come si sa, è ossessionato da un evento recente: la Rivoluzione regicida inglese del 1648, e il linciaggio dei fratelli de Witt a Amsterdam nel 1672, che segna la fine dell’esperienza repubblicana olandese. Nei due casi sono in gioco la possibilità e la percorribilità di una trasformazione: un cambiamento di soggetto in politica, una mutazione di soggetto politico. Si può pensare, allora, che lo scolio IV, 39 dell’Etica sia posto per caso nel mezzo di una sequenza la cui posta in gioco è politica? Si tratta di pura tattica dimostrativa o di una diversa intenzione? Nulla impediva di porre la proposizione 39 a seguito della proposizione 40,

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Guérinot crede che si tratti di Cervantés, ma è poco probabile. È spesso evocato il nome di Gongora. Ipotesi per ipotesi segnaliamo il caso del drammaturgo Montalvan (1602-1638), il discepolo più famoso di Lope de Vega. Poco prima della morte di quest’ultimo, nel 1635, Montalvan è soggetto a svenimenti e a malesseri, quindi la sua salute peggiora brutalmente, e termina la sua vita in un ricovero a Madrid, considerato folle. Secondo la testimonianza di Francisco de Quitana (in Lagrimas Panegyricas, pubblicata in sua memoria nel 1639) una serie di attacchi «l’avevano ridotto, anche nella parola, allo stadio di un infante ». Cfr. Jack H. Parker, Juan Perez de Montalvan, Boston, 1975. Spinoza possedeva nella sua biblioteca una pièce di Montalvan, Comedia famosa. El divino nazareno Sanson, repertoriata al n°65 dell’inventario.

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che non si sostiene affatto sulla prima e che chiude la sequenza politica. La catena di ragionamenti inaugurata nelle proposizioni 38 e 39 inizia per davvero alla proposizione 41.

Memoria e forma: lo Stato e la sua rovina Cogliamo con sguardo panoramico il Trattato teologico-politico. La prima parte ha per oggetto l’istituzione di un nuovo metodo di investigazione dei Testi Sacri e dedica lunghi passi e numerose osservazioni alle abitudini collettive, che si tratti di rituali, di costumi o dei cambiamenti di senso delle parole. Nella seconda parte Spinoza solleva in modo particolare il problema della tirannia, esprime dubbi sulla possibilità di una rivoluzione e cerca un’altra strategia (diversa in ognuno dei due Trattati). Ora, se Spinoza non crede alla trasformazione politica, non più di quanto creda alla possibilità di cambiare deliberatamente il senso delle parole,16 è perché la rivoluzione si risolve nel tirannicidio e non colpisce le cause della tirannia che appartengono in ugual misura all’ordine dell’abitudine o della memoria (Spinoza non distingue tra le due). Da una parte, il popolo è «abituato» (assuetus)17 alla forma politica finora in atto oppure è «poco abituato» alla nuova, il che è lo stesso. Ciò vale sia per la recente Rivoluzione di Cromwell sia per il popolo ebreo allorché esso volle trasformare il regime popolare in monarchia. È in causa la memoria di una forma, detto altrimenti un concatenamento di «leggi e costumi».18 Infatti le une e gli altri procedono insieme e all’occorrenza insieme regrediscono. Ovunque gli uomini forgiano abiti (consuetudines) e formano stati civili (societatem formare):19 non si tratta che di un solo e medesimo processo. D’altra parte, Spinoza sottolinea che il potere di un nuovo re è precario fino a che il ricordo del precedente resta vivo (memoria precedentis).20 A fortiori, se costui succede a un tiranno assassinato, diverrà un tiranno a

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TTP, VII, [9]. TTP, XVIII, [7]. (G, III, 210, 212 ), a cui occorre aggiungere consuevit, consueverat (G, III, 212, 213). 18 TTP, per esempio XVII [25]. 19 TTP, III, [5] (G, III, 33), TTP, IV, [1]. (G, III, 50 ). Cfr. TP, I, 7. 20 TTP, XVII, [29] (G, III, 206 ). 17

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sua volta e per forza di cose in quanto sarà condotto, per consolidare il proprio potere, ad abbracciare la causa del suo predecessore e a seguirne le «orme» (vestigia).21 Spinoza pensa ovviamente a Cromwell. Se conseguentemente le rivoluzioni falliscono, è questione di memoria o di oblio impossibile: la prossimità tra il poeta amnesico e l’utilità della vita sociale appare già meno fortuita. Anzi, se leggiamo la proposizione IV, 39 con dimostrazione e scolio nella scia delle precedenti proposizioni, la morte evocata concerne evidentemente la società: sorprende piuttosto che lo scolio ritorni a casi individuali.22 La morte, nell’Etica, concerne tanto il corpo politico quanto il corpo individuale. Sappiamo che Spinoza utilizza come Machiavelli e Hobbes la metafora medievale del corpo collettivo come quasi-individuo, dato che lo Stato si risolleva grazie a una speciale medicina.23 Sappiamo anche che la minaccia della morte dello Stato, espressa dai termini ruina, eversio, dissolvi, incombe sull’insieme del Trattato politico, e deve essere interpretata esattamente come nello scolio IV, 39: non come una decomposizione cadaverica pura e semplice, ma piuttosto come una trasformazione. L’enunciato fondamentale, il contenuto logico sono identici, come viene evidenziato giustapponendo i testi: Infatti, non oso negare che il corpo umano, mantenuta la circolazione del sangue e altre condizioni per le quali si giudica che il corpo viva possa nondimeno mutarsi in altra natura del tutto diversa dalla sua(in aliam natura a sua prorsus diversam mutari), dal momento che nessun motivo mi costringe a stabilire che il corpo non muore se non si trasforma in cadavere (mutetur in cadaver), che anzi, la stessa esperienza sembra persuaderci d’altro. (Eth IV, 39, sch.)

21

TTP, XVIII, [7]. (G, III, 213 ). H.A. Wolfson suggerisce l’accostamento: «Poiché la morte, aggiunge Spinoza nello scolio I, non arriva quando il corpo “si trasforma in cadavere”; un uomo si può dire morto quando “subisca mutamenti tali che non direi facilmente che egli è lo stesso” sebbene sia sempre fisiologicamente vivo. Tutto ciò che è contrario a questo è male. Così anche nel caso dello Stato. È bene ciò che contribuisce alla armonia completa tra le membra individuali dello Stato e alla stabilità dello Stato come unità organica». (H. A. Wolfson, The Philosophy of Spinoza, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1948, t. 2, p. 249). La nostra riserva si riferisce solo alle «membra individuali dello Stato»: la politica spinoziana ravvisa parti intermedie quali gli eserciti, le famiglie, le città, ecc. 23 TP, X, 1. 22

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Non accade dunque mai (come spesso avviene nelle altre società) che, per le discordie e le sedizioni che la agitano di frequente, i cittadini dissolvano una società civile. Accade invece che facciano mutare la sua forma in una forma diversa (ut ejusdem formam in alia mutent), posto che i conflitti civili non si possano sedare conservando una data configurazione sociale. Se ho parlato di mezzi che sono richiesti per conservare lo Stato, ho inteso perciò significare i mezzi che sono necessari per conservare, senza alcuna notevole mutazione, la forma dello Stato. (TP, VI, 2)

Il primo testo è seguito immediatamente dall’aneddoto del poeta spagnolo; il secondo si riferisce alle rivoluzioni. Se di conseguenza quest’ultime sono problematiche, anzi chimeriche, forse è perché manca ai popoli insorti quel nuovo stato di un uomo il quale non è che un ex-poeta: «praeteritae suae vitae tam oblitus …», essere totalmente dimentichi della propria vita passata. Ma limitiamoci per ora ad approfondire il rapporto tra memoria comune e forma politica. L’istituzione dello Stato implica un rapporto con il tempo: non basta che gli uomini rinuncino, durante un’Assemblea costituente, a minacciarsi gli uni con gli altri, occorre che la rinuncia sia durevole, che la promessa sia mantenuta («fidem summum Reipublicae praesidium».24 Di conseguenza, l’Assemblea non è più solo costituente: essa diventa un’istituzione, perde il suo carattere unico, circoscritto, originario, per diventare ciclica o periodica. Mantenere la promessa presuppone dunque una memoria comune che lo Stato s’impegna a coltivare negli individui. Da un lato Spinoza non cessa di ripetere che solo la minaccia della pena di morte garantisce la promessa e permette che ognuno confidi sull’altro: se ciascuno può mantenere la propria promessa civile ciò accade in virtù di una paura ancorata stabilmente nella memoria. È chiaro che si tratta non tanto di ricordare continuamente il giuramento prestato il primo giorno quanto d’associare, con una memoria immaginante più che testimoniante, il crimine di lesa maestà all’ultimo supplizio. Perché lo Stato sia eterno, occorre che si perpetui, attraverso qualche pubblico «monumento» (signum), l’aeterna memoria del supplizio inflitto all’autore di un crimine di lesa maestà.25 E Spinoza spinge la clausola fino al paradosso: colui che ha disobbedito, anche se nell’inte-

24 25

TTP, XVI, [7] (G, III, 178). TP, VIII, 25.

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resse del suo popolo, è comunque da condannare alla pena di morte.26 D’altro lato, e più generalmente, dato che gli uomini sono guidati dai loro affetti piuttosto che dalla ragione, solo una comune disposizione affettiva è capace di unirli e di renderli costanti (communis affectus).27 Questa idea è conforme ai testi dell’Etica sul funzionamento e sul ruolo della memoria: fintanto che non abbiamo conoscenza dei nostri affetti, il meglio che possiamo fare è di darci corrette regole di vita, di imprimerle nella nostra memoria (memoriae mandare).28 Non che basti conservare l’enunciato o la significazione verbale: la nostra immaginazione stessa deve esserne affetta tramite la loro quotidiana applicazione a dei casi concreti. Si faranno così nascere nello spirito associazioni conformi alla ragione: per esempio, «assoceremo l’immagine dell’offesa all’immagine di questo precetto» secondo cui conviene respingere l’odio con la generosità. Ecco qui il principio stesso della memoria tale quale era stato descritto nello scolio II, 18. Ma nello scolio V, 10, si tratta di modificare la memoria, di sostituire al concatenamento associativo formato nello spirito dalla casualità degli incontri (communis naturae ordo),29 un altro che sia corretto, giusto, conforme alla ragione (ordo ad intellectum).30 La strategia è identica ma l’ambizione non può essere la stessa non potendo contare sullo sforzo di perfezionamento etico di ognuno: si unirà dunque, in ogni mente, l’immagine degli atti riprovevoli o auspicabili agli affetti più potenti presso il vulgus – la paura e la speranza.31 L’esempio più chiaro è ancora una volta quello degli Ebrei: l’indefettibile attaccamento che li lega alla forma del loro Stato è nato dall’equilibrio stesso di tale forma. È un misto di patriottismo e di xenofobia, entrambi oggetto di un culto quotidiano «da diventa-

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TTP, XVI, [18] . TP, VI, 1; TP, X, 9-10. 28 Eth V, 10, sch. Si osserverà nondimeno che occorre distinguere due modi d’intervenire sulla memoria in conformità con la ragione: uno, politico, che dipende dalla formazione di una memoria passionale comune, e che permette alla moltitudine di elevarsi allo stato civile; l’altro, che concerne il progresso etico individuale, e che consiste nel concatenare le rappresentazioni della memoria secondo un ordine conforme all’intelletto. Ma, al punto in cui siamo, possiamo considerarli insieme. 29 Eth II, 29, sch. 30 Eth V, 10, sch. 31 Eth IV, 37, sch. 2. 27

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re una seconda natura» (in natura verti debuerunt).32 L’ingenium singulare di una nazione si fonda dunque su una natura acquisita e non originaria: un insieme di leggi e di costumi cui si aggiunge la lingua, basata anch’essa – secondo l’Etica – su di una memoria comune.33 Se ora ci rivolgiamo verso le modificazioni descritte da Spinoza, vediamo soprattutto decadimenti: sono inerenti al concetto stesso di trasformazione? Un solo testo lo suggerisce, ispirato ai cicli concepiti dai filosofi e dagli storici dell’Antichità:34 la democrazia tende a trasformarsi in aristocrazia e questa, a sua volta, in monarchia. Si tratta principalmente, come vedremo, di una lunga decadenza verso la tirannia, che non dipende tanto a dir il vero dalla forma politica ma che assomiglia allo stato di guerra (o di malattia permanente). Due note simmetriche mostrano d’altronde che Spinoza ha ben in mente una società che sta per dissolversi: gli stranieri assumono i costumi del popolo, il popolo assume i costumi stranieri – le frontiere dell’individualità collettiva sono diventate inassegnabili.35 Si consideri l’interminabile agonia in caduta libera dello Stato ebreo, nel capitolo XVII del Trattato teologico-politico: Spinoza descrive un crescendo di dissolutezza collettiva e di riforme istituzionali rovinose. Dopo la morte di Mosè, gli Ebrei sono presi da un fervore di cambiamenti che non hanno per nulla l’effetto d’istituire una nuova forma: essi non sortiscono altro che la distruzione dell’antica forma («grandi rivolgimenti», magnae mutationes, assiduità in pratiche «per cui tutto iniziò a peggiorare», omnia paulatim mutare, fino alla «rovina di tutto lo Stato», imperii totius ruinae).36 Si tratta di un’involuzione piuttosto che di un’evoluzione. Gli Ebrei non inventano nuove usanze, non passano da un costume all’altro: perdono il senso stesso dell’usanza e del costume e questa decadenza si traduce nel predominio del nuovo, del

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TTP, XVII, [23] (G, III, 201). TTP, XVII, [25]. Cfr. Eth II,18, sch. 34 TP, VIII, 12. 35 TP, VIII, 12 e TP, X, 4. Nel primo testo, il fenomeno negativo non è l’assimilazione degli stranieri: è al contrario, come spiega Spinoza, il rifiuto da parte dei cittadini autoctoni di un’assimilazione completa, in definitiva di una naturalizzazione. Si crea allora una distinzione che trasforma poco a poco la democrazia iniziale in aristocrazia, poi alla fine, grazie all’estinzione delle famiglie privilegiate, in monarchia. 36 TTP, XVII, [29] (G, III, 205-206). 33

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desiderio d’innovazione («rerum novandarum cupiditas»).37 Ciò che qui è importante è questa specie di amnesia collettiva, negativa in verità, che compie a poco a poco la trasformazione. Gli Ebrei post-mosaici hanno perso la memoria, dimenticano il passato e non fermano più alcun ricordo. Spinoza associa esplicitamente l’oblio alla dissoluzione dello Stato.38 Memoria e amnesia, rispetto per le usanze e isteria innovatrice: questa alternativa è ovunque presente nei capitoli XVII e XVIII del Trattato teologico-politico – gli stessi che sollevano la questione della rivoluzione. Poniamo i seguenti due testi simmetrici. Uno evoca l’oblio: Perché stupirsi dunque che nei periodi di calma, quando cessavano i miracoli più grandi e non c’erano uomini di rarissima autorità, l’animo irritato e avaro del popolo iniziasse a languire e infine abbandonasse un culto che, sebbene divino, era per lui fonte di ignominia e di sospetto? Che ne cercasse uno nuovo? (TTP, XVII, [26] p. 698; G, III, 204)

I prìncipi allora s’impegnano invano a istituire nuovi culti, spazzati via ogni volta dalla nuova sensibilità incapace d’abituarsi. Il secondo testo, di contro, valorizza la tradizione con un elogio della forma dello Stato Ebreo prima del fatale errore: Non vi poteva essere in loro, pertanto, alcun desiderio di decretare cose nuove, ma solo il proposito di amministrare e difendere il consueto e lo stabilito. (TTP, XVIII, [4]; G, III, 208)

Tentiamo una prima sintesi.

37 TTP, XVII, [4] (G, III, 189). Qui, di contro, si potrebbe intravedere un’influenza di Bacone, le cui opere politiche figurano al n°141 dell’inventario della biblioteca di Spinoza (n°21 degli in-dodicesimo): «Le cause e i motivi di sedizione sono: le innovazioni religiose, le imposte, i cambiamenti delle leggi e dei costumi (alteration ol lawes and customes), la violazione dei privilegi, l’oppressione totale, l’ascesa di persone indegne, gli stranieri, le carestie, gli arbitrii dei soldati, le fazioni esacerbate, tutto ciò che insomma, nuocendo ai soggetti, li unisce e li raduna intorno ad una causa comune». (cit. in O. Lutaud, Les deux révolutions d’Angleterre. Documents, Paris, Aubier, 1978, p. 200-201, il testo data 1625) Questo testo è da avvicinare inoltre agli sviluppi del Trattato politico sulle cause dell’indignatio che conduce all’insurrezione (TP, IV, 4). Anche se, come vedremo, il motivo della novità come fattore di decadenza è antico e risale almeno a Catone. 38 Cfr. TTP, V, [5].

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1) La persistenza della memoria della forma (leggi e costumi) rende impossibile la trasformazione; affinché si compia una trasformazione, occorrerebbe una perdita della memoria collettiva. Da qui la tentazione di chiedersi se non sia per questa ragione che l’uomo trasformato dello scolio IV, 39 è amnesico. Egli sarebbe allora, ben di più che un esempio di soggetto trasformato: un vero e proprio tipo, la figura stessa del soggetto trasformato. Noi saremmo allora condotti all’ipotesi per cui tale scolio proietta l’ombra della rivoluzione sulla dimostrazione politica dell’Etica. 2) La storia presenta un fenomeno del tutto assimilabile a un’amnesia collettiva, ma che, così come i tentativi di rivoluzione, sembra precipitare la collettività in una spirale senza fine dove la trasformazione non si compie mai e dove lo stato delle cose regredisce addirittura al di sotto dell’attuale forma. Dobbiamo pertanto concludere che l’amnesia collettiva è fortemente negativa per Spinoza? Se fosse vero perché lo scolio IV, 39 non è allora chiaramente pessimista sul destino dell’ex-poeta spagnolo? Il lettore è incline a ritenere costui folle o rimbambito, eppure il caso si presume illustri una trasformazione. L’immagine del neonato a tal riguardo è ambigua. Seconda nascita o ritorno all’infanzia? Occorre vedere se Spinoza non abbia sviluppato altrove il concetto di un’amnesia collettiva formatrice e non rovinosa. Il giudizio sull’amnesia resta tanto più aperto in quanto lo scolio IV, 39, è interrotto, come abbiamo visto: Spinoza dice di non voler offrire il destro a speculazioni superstiziose, come se certe trasformazioni reali apparissero perfino più stupefacenti di quelle dei racconti fantastici. Ora, l’interruzione sopraggiunge nel momento in cui Spinoza s’impegnava in un’interrogazione sull’infanzia. Salvo la recente eccezione di Pierre Macherey, i commentatori non notano affatto a qual punto il rapporto con l’infanzia aleggi su tutta la conclusione dell’Etica: 39 tre scolii – una simile ricorrenza è ben rara in Spinoza.40 L’Etica consegna al lettore due immagini finali: il neonato impotente, che cresce nella vicinanza permanente della morte; l’adulto impotente, che vive nella paura dei supplizi eterni dopo la morte (c’è in Spinoza, al di là del primo genere di conoscenza, una sorprendente economia dell’immagine che rivela appieno uno «stile filosofico»).

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Cfr. P. Macherey, Introduction à l’ Éthique de Spinoza, 5 voll., Paris, PUF, 1994-1998, vol. 4, p. 252, n. 2 e vol. 5, p. 71, n. 2. 40 Eth, IV, 39, sch. ; Eth V, 6, sch. ; Eth 39, sch.

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Amnesia e formazione: nascita di uno Stato Cerchiamo un eventuale caso di «buona» amnesia collettiva: non è quello del popolo che si scuote dal giogo che l’opprime? I casi d’instaurazione di una nuova forma politica rinviano sempre, in Spinoza, a moltitudini liberate di recente. In assenza di una sovranità precedente, si esiterà tuttavia a parlare di una trasformazione: non si tratterebbe piuttosto di una formazione originaria, di una genesi, di un atto costituente? Eppure tale formazione supporrebbe invero un certo modo di pre-esistenza o di individuazione preliminare della comunità, fino a che si sia manifestato uno forzo collettivo di affrancamento … Al termine dell’analisi del «genere» monarchico e della forma ottimale che conviene dare a tale Stato affinché si conservi41 (come Spinoza ormai cerca di fare per ogni genere di regime, una volta esclusa l’idea d’istituire attraverso una trasformazione il genere migliore) sopraggiunge la nota seguente: Resta soltanto da ricordare che qui ho ideato uno Stato monarchico istituito da una moltitudine libera, la sola che può trarre utili indicazioni da quanto io ho scritto. La moltitudine ormai avezza a un’altra forma politica non potrà, senza grande pericolo di rivolgimento, abbattere i fondamenti tradizionali e cambiare l’intero disegno del suo Stato (Nam multitudo, quae alii formae assuevit, non poterit sine magno eversionis periculo totius imperii recepta fundamenta evellere, & totius imperii fabricam mutare). (TP, VII, 26)

Spinoza indica per chi scrive: una moltitudine che ha l’abito della libertà. E ne rende ragione: nel caso contrario occorrerebbe tentare una rivoluzione rischiando una rovina pura e semplice. I casi sono due: o lo Stato monarchico è preesistente e si tratta di riformarlo; oppure, in conformità alla parola instituitur, di cui vedremo l’uso sul piano etico, la moltitudine libera fonda il suo Stato, o detto in altri termini si forma essa stessa. Dovremo chiederci in che misura il Trattato politico sfugge all’aporia pratica che una simile alternativa pare suggerire. Che possibilità ha la seconda ipotesi che rimanda con evidenza a una moltitudine libera? Il capitolo, prima di concludersi, presenta una sorta di lunga coda dedicata a un’altra storia spagnola, quella della moltitudi-

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TP, VII.

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ne aragonese che, liberatasi dal giogo arabo, opta per la forma monarchica. Tale è dunque, manifestatamente, la situazione più propizia alla politica spinoziana – perlomeno quella che, per sua stessa ammissione, ne illustra meglio i principi: l’autoritratto che ebbe sotto gli occhi il primo biografo dove il giovane Spinoza si presenta nella posa e nel costume di Masaniello, capofila della rivolta della moltitudine napoletana contro il giogo spagnolo nel 1647, riveste a proposito una rilevanza filosofica.42 Infine ricordiamo che le Province Unite sono nate da una rivolta attraverso la quale la moltitudine olandese si è affrancata dal medesimo giogo spagnolo (è vero che il caso è ambiguo in quanto Spinoza ritiene che gli Olandesi non abbiano fatto altro che ristabilire gli antichi diritti degli Stati generali di provincia rispetto ai conti).43 L’irruzione del tema dell’amnesia, nel cuore della sequenza politica dell’Etica, condensa in sé drammaticamente una duplice ed essenziale considerazione del Trattato politico: da un lato – per forza di cose – mancherà sempre all’impresa di trasformazione un’amnesia collettiva (limite in peggio). Ma, d’altro lato, la sollevazione eroica e vittoriosa di un popolo sottomesso vale una nascita o un rinnovamento – ossia una formazione immacolata (limite ottimale). Tutti gli esempi di successo politico – in Spinoza – sono legati a un affrancamento: dalla fuga d’Egitto degli Ebrei fino agli Olandesi liberati dal servaggio spagnolo passando per gli Aragonesi affrancati dal giogo arabo. L’unico apparente contro-esempio è quello dei Romani che si liberano dal tiranno e instaurano la Repubblica: ma questo perché in effetti i loro spiriti non erano ancora abituati alla monarchia; e la loro Repubblica non è agli occhi di Spinoza altro che un lungo stato di guerra che sfocia ineluttabilmente nel peggio, il regno di uno solo, la monarchia assoluta.44 Insomma, è mancato agli Inglesi ciò di cui gli Aragonesi furono capaci e manca agli Olandesi attuali, carnefici dei fratelli de Witt, quello stesso che i loro antenati avevano saputo conquistare, pur senza dargli realmente forma: una libertà senza memoria. Infatti, per quanto una moltitudine rivoluzionaria aspiri alla libertà, essa vi aspira come l’ignorante che si crede libero ignorando totalmente le cause che lo determinano:45 la moltitudine rivoluzionaria ignora

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J. M. Lucas, J. Colerus, Le vite di Spinoza, a cura di R. Bordoli, Macerata, Quodlibet, 2015 (I ed. 1994), p.74. 43 TTP, XVIII, [10]. 44 Ibid. 45 Eth, I, app.; Eth, III, 2, sch.

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le cause della tirannia che l’opprime e la sua vita resta sottomessa ai costumi corrotti che portarono la tirannia ad affermarsi. Di contro, una «moltitudine libera» è senza memoria come un neonato (la lotta di liberazione non è di per sé stessa un atto di libertà, non è essa che procura una libertà senza memoria?). Consideriamo il capitolo V del Trattato teologico-politico: Spinoza pone in parallelo la situazione degli Ebrei dopo la dissoluzione dello Stato (sotto il giogo babilonese, dimenticano in fretta la legge di Mosè) e la loro situazione prima dello Stato (sotto il giogo egiziano, tranne che alle leggi del Faraone, essi obbediscono solo al diritto naturale: non avevano più una memoria politica propria). La fuga d’Egitto è dunque un ritorno allo stato di natura, stato sia informe sia costituente, appello alla forma laddove la rivoluzione sfiora solamente lo stato di natura, cavalcando senza saperlo una chimera, un’antica forma sotto un nuovo vestito: Quando uscirono dall’Egitto, gli Ebrei non erano più vincolati al diritto di un’altra nazione; potevano liberamente sancire nuove leggi, ossia istituire un nuovo diritto, fondare uno Stato in un luogo qualsiasi e occupare le terre che preferissero. (TTP, V,[10])

Devono scegliere la forma dello Stato e il territorio: che cosa hanno allora in comune? Che cosa fa di loro a priori una moltitudine, anche se informale? Solamente la lingua, come il poeta amnesico; la lingua come sola memoria e identità collettive in quanto essi ancora non hanno culto. E questa differenza linguistica basta a rendere possibile sia la schiavitù sia la ribellione, come vedremo: un nodo complesso di servitù e di libertà, di memoria e di oblio.

L’infante adulto e le chimere Ammettiamo di essere in presenza di moltitudini senza passato, prive di forma preliminare e che dunque non corrono il rischio di una trasformazione legata alla memoria dei costumi precedenti: tali moltitudini non sono nella situazione dell’infans adultus, adulto neonato o infante nato adulto che Spinoza paragona a quella del poeta amnesico spagnolo? In effetti c’è un nuovo adulto, senza passato e senza ricordi che pare venire al mondo già formato. Ne scaturiscono tutta una serie di difficoltà: 1°) il bambino è tutto il contrario di un essere libero per Spinoza; 2°) ma l’amnesico non è propriamente parlando un infante 45

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dato che lo si chiama infante adulto; 3°) di nuovo, non è egli solo folle o rimbambito?; 4°) in ogni caso, che valore ha questa alleanza di contrari, infans adultus, per il filosofo nemico giurato delle chimere? La V e ultima parte dell’Etica definisce la libertà dell’uomo, ed espone il genere supremo di conoscenza. Quest’ultimo implica in particolare una svalutazione della memoria: non solo non si comprende nulla della specie-eternità sotto la quale si tratta di afferrare intuitivamente le cose, fintanto che la si confonde con la memoria, ma occorre che l’attività intellettuale venga ad occupare nello spirito una parte più grande che la memoria.46 Cosa intendeva dire la prima frase dello scolio IV, 39: «Quanto ciò possa nuocere o giovare alla mente – sottinteso: ciò che conserva o altera la forma individuante del corpo – si spiegherà nella Quinta parte» ? L’altro scolio 39, alla fine del libro, spiega che il nostro compito, in questa vita, è di cambiare il corpo dell’infanzia in un altro infinitamente più capace, in modo tale che la mente dell’infanzia, quasi interamente occupata da memoria e immaginazione muti anch’essa in un’altra nella quale l’intelletto abbia la parte maggiore. Quasi che qui l’Infanzia equivalesse al primo genere di conoscenza e la crescita dell’individuo al passaggio dall’incoscienza alla saggezza o alla virtù (perché, in effetti, Spinoza dice corpus infantiae invece che corpus infantis?): Poiché i corpi umani sono atti a moltissime cose, non v’è dubbio che possano essere di natura tale da essere riferiti a menti che abbiano una grande conoscenza di sé e di Dio, e la cui parte massima o principale sia eterna, sì da temere difficilmente la morte. Ma affinché ciò s’intenda più chiaramente, qui si deve osservare che noi viviamo in continuo mutamento (in continua vivimus variatione) e che ci diciamo felici o infelici a seconda che cambiamo in meglio o in peggio (in melius sive in pejus mutamur). Chi passa infatti dalla condizione di neonato o di bambino a quella di cadavere (in cadaver transiit), si dice infelice; al contrario, si attribuisce la felicità aver potuto percorrere tutto lo spazio della vita con la mente sana in un corpo sano. In effetti, chi ha un corpo atto a pochissime cose e dipendente massimamente da cause esterne, come un neonato o un bambino, ha una mente che, considerata in sé, non è quasi consapevole di sé né di Dio né delle cose; al contrario, chi ha il corpo atto a molte cose ha una mente che, considerata in sé sola, è molto consapevole di sé, di Dio e delle cose. In questa vita, dunque, siamo spinti soprattutto a far sì che il corpo dell’infan-

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Eth, V, 23, sch.; Eth,V, 38, sch., e Eth,V, 39, sch.

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zia si trasformi, per quanto la sua natura consenta e vi sia disposta, in un altro che sia atto a moltissime cose e si riferisca a una mente che sia il più consapevole di sé e di Dio e delle cose, e in modo tale che tutto ciò che si riferisce alla sua memoria o immaginazione sia difficilmente di qualche importanza rispetto all’intelletto, come ho già detto nello scolio della proposizione precedente. (Eth V, 39 sch.)

Pure qui accontentiamoci per cominciare di note formali dato che dovremo spesso tornare su questo testo. 1) La sua ambiguità non pertiene solo all’analogia stabilita implicitamente tra lo sviluppo del bambino e il processo etico. Pertiene anche al fatto che questo scolio associa due interpretazioni incompatibili della mutatio:47 inizialmente perfezionamento (cambiamento in meglio o in peggio), in seguito trasformazione (cambiamento del corpo dell’infanzia in un altro). Inoltre queste due interpretazioni paiono accavallarsi nella stessa frase: la trasformazione del corpo «in un altro» pare subito smentita dalla condizione specificata: «per quanto la sua natura consenta». Perché è certo che nessuna natura «consente» la trasformazione. Si tratta di una sola e medesima natura, chiamata comunque a subire un radicale cambiamento, una rottura simile ad una metamorfosi. 2) L’insistenza sull’eterogeneità delle due età, infantile e adulta, è la grande affinità dei due scolii 39, e questo è probabilmente il motivo per cui essi hanno in comune, da una parte, il riferimento alla decomposizione cadaverica come a un’antitesi necessaria (la morte non è per forza mutatio in cadaver; l’infanzia non è per forza transitio in cadaver…), dall’altra parte, di sollevare il problema della memoria. Forse allora non dobbiamo confondere il bambino e il bambino-adulto; magari essi si attestano ai due antipodi del campo politico. Il bambino-adulto è amnesico, il bambino ha la mente dominata dalla memoria (l’apparente contraddizione viene dal fatto che il bambino nasce senza passato e nonostante ciò non ha altra attività mentale se

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Cfr. Eth IV, praef.: «Infatti, si deve notare anzitutto che, quando dico che uno passa da una minore a una maggiore perfezione (a minore ad majorem perfectionem transire), e viceversa, non intendo che da un’essenza o forma si muti in un’altra (ex una essentia, seu forma in aliam mutatur), (ad esempio, il cavallo si distrugge tanto se si muta in uomo quanto in insetto), ma che concepiamo la sua potenza d’agire incrementata o ridotta, in quanto venga intesa mediante la sua stessa natura. »

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non mnestica).48 È certo vero che gli adulti sono dei grandi bambini per Spinoza: per esempio, Mosè dovette esortare gli Ebrei affinché essi «a partire dalla loro puerile capacità di comprensione, fossero maggiormente avvinti al culto di Dio».49 E una parte di ciò che nell’Etica è detto a proposito dell’infante vale anche per la «folla» o per i «comuni mortali» (vulgus) nel Trattato teologico-politico: soggetto alla collera, all’imitazione, all’invidia, alla vendetta (inoltre la folla, ben inteso, è ugualmente incapace di liberarsi dall’immaginazione e dalla memoria). Ma se la maggior parte degli adulti sono dei grandi bambini, ci sono anche, si direbbe, dei bambini grandi, bambini collettivi, che nascono dall’eroismo di una sollevazione contro l’oppressione straniera: sono, anch’essi, nati adulti? Ecco un difficile problema di cui per ora abbiamo solo una confusa rappresentazione. Notiamo inoltre che lo sfioramento dello stato di natura che caratterizza la folla insorta in cerca di una nuova forma senza essere in grado di desiderarla (in quanto non ha desiderio che per la sua attuale forma) assomiglia molto alla situazione del bambino che sfiora la morte nel processo di crescita lungo il quale è condotto a cambiare corpo senza neppure desiderarlo. Lo scolio V 39 è, a tale riguardo, strano quanto lo scolio IV 39: da un lato Spinoza dice «corpo dell’infanzia» e non «corpo dell’infante», d’altro lato non dice che l’infante è spinto bensì che «noi siamo spinti» (conamur) a far sì che questo corpo, che è comunque il suo, cambi. Questa frase, che noi assumiamo subito in senso figurato, deve altresì essere compresa alla lettera, presagendo sotto il termine conamur gli adulti che si prendono cura del bambino, come se il cambiamento richiesto fosse sproporzionato in rapporto alle forze proprie dell’infante. Se, in effetti, ci riferiamo al principio gerarchico che fungerà da cornice al processo descritto nello scolio V, 39, diventa difficile non assegnare a tale parola una connotazione collettiva, al di là del suo immediato significato distributivo: … e quanto più le azioni di un solo corpo dipendono soltanto da esso stesso e quanto meno gli altri corpi concorrono con esso nell’agire, tanto più la sua mente è atta a capire distintamente. (Eth II, 13, sch. (e anche Eth III, 7, dim.)50

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Tutti questi aspetti saranno, beninteso, chiariti ulteriormente. TTP, III, [2], (G, III, 31: puerili captu). 50 Naturalmente, la formula «altri corpi concorrono con esso nell’agire» vale anche nel caso in cui il vento mi sospinga in avanti, ecc. Resta che lo schema si 49

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Dunque l’enunciato sarebbe provvisoriamente il seguente: un corpo vive un cambiamento in certi casi mortale, prossimo alla trasformazione senza però esserlo, e vissuto nell’impotenza e nell’incoscienza. E nuovamente lo stesso enunciato è applicabile a due livelli: quello della moltitudine in rivolta e quello del neonato in crescita. Insistiamo su questo punto: non si può, in senso stretto, volere la propria trasformazione per Spinoza. Sforzarsi di trasformarsi comporterebbe la morte quand’anche un altro individuo emergesse al suo posto e in sua vece. Giungere alla conclusione che il fallimento è inevitabile esito di ogni rivoluzione non è dunque sufficiente: lo stesso desiderio di rivoluzione è un mostro logico per una filosofia che fonda il desiderio sull’essenza o la forma e che lo definisce come l’essenza attuale. La trasformazione implica un cambiamento d’essenza laddove il desiderio è l’auto-affermazione di un’essenza data. Anche nella trasformazione dell’ex-poeta, in qualsiasi modo si interpreti la sua nuova vita, sta comunque una morte, una distruzione, corruptio generationem subsequentem includens, secondo la formula dei Pensieri metafisici: nessun soggetto garantisce la transizione. Si dice dunque bene: morte dell’individuo, morte dell’istanza desiderante, non potendo un’essenza sviluppare – a qualunque grado – la propria negazione.51 Si noterà a tale proposito che il suicidio è pensato nell’Etica come una trasformazione, e persino come la coesistenza temporale di due forme, una sorta di chimera reale (quando qualcuno si suicida è necessariamente per conto di una volontà che non è la propria e nondimeno è di certo lui).52 Ora Spinoza non smette d’attirare l’attenzione, nei suoi libri politici, sui comportamenti a volte suicidi del sovrano: così come

applica alla fine del libro alla crescita del neonato e che il plurale conamur: 1) si conforma alla regola per la quale «se più individui concorrono in una sola azione in modo tale da essere tutti insieme causa di un solo effetto, li considero tutti, sotto questo riguardo, come una sola cosa singola» (Eth II, def.7); 2) si applica solo a degli esseri umani. Intanto Spinoza, dimostrando di non concepire astrattamente la crescita dell’infante, ha menzionato più di una volta il ruolo educativo dei genitori (Eth, III, def. aff. 27, spieg.; Eth IV, app., cap. 13 e cap. 20 – commenteremo questi testi nel capitolo V). Aggiungiamo che la maggior parte delle azioni concomitanti alle quali il nostro corpo partecipa passivamente sono transitorie e non attengono all’«unione» che definisce la forma individuale, salvo casi eccezionali quali, appunto, la gestazione del bambino e l’obbedienza allo Stato. 51 Eth, III, 4-5 (seguite precisamente da due proposizioni che definiscono il conatus come l’essenza attuale di ciascuna cosa). 52 Eth IV, 20 sch.

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non ci si deve accontentare di un giudizio pessimista sulle rivoluzioni occorre anche comprendere, rendersi conto, che sono necessarie. Funeste sì, ma conseguenti quasi geometricamente dal comportamento del sovrano. Capita a Hobbes di paragonare il corpo politico in via di dissoluzione a quello, malsano, di un ragazzino nato da genitori malati e lui stesso destinato o a una morte prematura o a eliminare la sua cattiva disposizione.53 Il rapporto tra infanzia e malattia, in politica, appare anche in Spinoza quando egli vuole illustrare la chimera che costituisce il regno di un solo, dato che le monarchie che si dicono assolute sono in generale solo nominali e dissimulano la loro reale forma – aristocratica – dello Stato: un re bambino o già vecchio è come un re malato, inadatto ad assumere il peso degli affari di Stato.54 Bambino, uomo malato, vecchio: ritroviamo in un certo modo gli elementi dello scolio IV, 39 che si uniscono subito per formare l’emblematica figura di un regime chimerico. Per chimera s’intende un essere contradditorio, che tiene insieme due nature;55 in questo caso, la coesistenza impossibile e di conseguenza rovinosa di due forme in seno allo Stato, una visibile e l’altra nascosta – un po’ come nei miti, una forma ne avviluppa un’altra a favore di una trasformazione magica. Nel mondo illusorio della finzione, secondo Spinoza, «qualsiasi cosa si muta in qualsiasi altra».56 Ma la natura ignora tali magiche ambiguità: le forme individuali non comunicano, non sconfinano le une nelle altre. Qual è allora lo statuto di tali strani margini d’incertezza o di transizione, scavati dalla malattia: quello del poeta spagnolo, certo, ma soprattutto quello del bambino? Il corpo del bambino oscilla, secondo lo scolio V, 39, tra il cadavere e la salute. In ambito politico i margini sono assegnabili: è lo spettro del ritorno allo stato di natura che non equivale a una dissoluzione pura e semplice.57 Non proprio il caos ma già un abbozzo: una società colta nel suo punto di genesi, o che sta pericolosamente regredendo verso esso; meno un caos, di conseguen-

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T. Hobbes, Leviatano, tr. it. di A. Lupoli, M.V. Predaval, R. Rebecchi, a cura di A. Pacchi, Bari, Laterza, 1989, 11 ed. 2006, cap. XXIX: questo succede quando il sovrano ha lasciato indebolire il suo potere e non può ristabilirlo se non attraverso un’azione di forza impopolare. 54 TP, VI, 5. 55 PM, I, cap. 1, n° 1. 56 Eth, I, 8 sch.: quascunque formas in alias quascunque mutari, imaginantur. 57 TP, VI, 2.

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za, quanto piuttosto uno stato larvale che minaccia sempre l’esistenza dello stato civile e il cui paradossale concetto affiora periodicamente nei due Trattati. Non esiste completa dissoluzione se non in un corpo più grande, estraneo, e non esiste, di contro, nascita se non nell’affrancamento. In ogni caso l’idea di una regressione allo stato della pura moltitudine senza alcun legame è un’astrazione dato che lo stato di natura è caratterizzato da un potente desiderio sociale che non ha ancora trovato la sua formula o la sua soluzione. C’è dunque un intervallo tra la moltitudine formata e la sua pura e semplice abolizione nella società che ci conduce alla considerazione di uno stato sociale problematico a metà strada tra l’individualità (l’assuefazione a delle disposizioni giuridiche che instaura una regolarità tra movimento e quiete che le differenti parti della moltitudine si comunicano) e il niente (esplosione o dispersione delle parti). Tale stato di tensione, tra la forma e l’informe, comprende una dinamica a doppio senso, in quanto s’incarna in due figure opposte, l’Assemblea (specie nel Trattato teologico-politico) e la Solitudo (nel Trattato politico). L’Assemblea è costituente. Tende verso l’unione o la forma, ma non la possiede ancora, sebbene non si separi dall’atto formatore che le da senso, essa è meno uno stato che un evento, il processo d’individuazione di una collettività umana. La Solitudo tende di contro verso la dispersione, tendenza contrastata dal potente desiderio sociale degli uomini. Essa designa dunque uno stato limite e letteralmente esplosivo, quello di un regime – la «tirannia» – che tendenzialmente si nega essa stessa giungendo a toccare, coi suoi ordini, i limiti stessi dell’umana attitudine a obbedire, e che perciò oscilla verso lo stato di guerra.58 Tali margini d’indecisione formale non hanno idealmente alcuno statuto nello spinozismo dove il principio di non contraddizione impone all’essere una netta divisione in nature distinte. Ma fermarsi qui sarebbe semplicistico e equivarrebbe a trascurare la regola di trattare ogni cosa come parte della Natura, a tale titolo esposta all’aggressione o alla malformazione, e più generalmente al processo di composizione-decomposizione-ricomposizione che è il divenire stesso dell’universo. In Spinoza le cose esistono solo in quanto formate e al contempo ogni problema è un problema di forma. D’altronde non vi è alcuna obiezione – lo vedremo – a considerare il mostro in politica o altrove; per tentare un primo approccio, diciamo che la sua unità è semplicemente inattuabile, dipende dall’illusione, e pertanto non è lui che vive

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TP, IV, 4.

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ma una pluralità di forme alle prese le une con le altre le quali non possono che annientarsi. La meditazione politica di Spinoza verte principalmente su situazioni inattuabili, su quei confusi intermezzi della Storia che possono durare secoli, come testimonia la storia romana. La riflessione politica di Spinoza è alquanto attenta alla malattia (degrado) e alla morte (rovina), alla regressione verso un’altra forma, alle trasformazioni imminenti o mancate perché l’analisi propriamente detta del regime monarchico viene preceduta da un lungo preambolo59 nel quale sono evocate non solo le trasformazioni politiche, i limiti umani della conservazione della forma (tirannia), ma anche le forme latenti dissimulate sotto l’apparenza di un’altra forma. Spinoza, che intende definire la forma migliore, comincia in realtà dalla peggiore: «Così, lo Stato che tutti credono senz’altro monarchico, è nei fatti e in realtà aristocratico, non in modo manifesto, ma latente, e perciò pessimo».60 Tale inviluppo o im-plicazione di una forma in un’altra, o piuttosto della vera forma, nascosta, dentro un’altra, apparente e fittizia, non può che richiamare il tema dell’ imperium in imperio: impero nell’impero, Stato nello Stato. Se l’uomo non è «nella natura come un impero nell’impero»61 é perché non può essere una parte della natura, assoggettata a leggi universali, e insieme dotarsi di leggi autonome; piuttosto le leggi della sua propria natura sono rapporti necessariamente soggetti ad altri rapporti, più generali, sicché la pretesa di farli valere come leggi stesse della Natura non può che essere onirica (una Natura di conseguenza finalizzata, fatta per l’uomo). E se l’uomo non può essere una chimera, quest’ultima quanto meno trionfa nella rappresentazione che egli ha di sé non senza che l’illusione produca poi effetti veri. Non pare allora che la chimera o la trasformazione si trasferisca metaforicamente dalla politica alla psicologia per poi trasferirsi realmente dalla psicologia alla politica? In effetti non è immediatamente visibile il rapporto tra gli usi propri e quelli figurati della formula imperium in imperio: in politica, Spinoza la usa per descrivere il fronteggiarsi dei re e dei profeti derivante dalla trasformazione dello Stato ebraico in monarchia (riesce difficile descrivere questa aristo-

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TP, VI, 1-8 (i primi quattro paragrafi formano un passaggio delle teoria politica generale verso il regime monarchico in particolare, e costituiscono la cornice problematica di un proficuo studio di quest’ultimo). 60 TP, VI, 5. 61 Eth, III pref.; TP, II, 6.

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crazia latente che è la monarchia assoluta).62 Che cosa ci fa credere, malgrado tutto, a un legame tra i tre tipi di testo – i re ebraici che «dovevano far conto con uno Stato dentro lo Stato e regnavano a titolo precario» (senso proprio), la concezione immaginaria dell’uomo «nella Natura come uno Stato dentro lo Stato» (senso figurato), la cosiddetta monarchia assoluta che nasconde un regime aristocratico (presunta immissione implicita del senso figurato nel senso proprio) ? Si tratta espressamente, ogni volta, della credenza o della vana aspirazione a una potestas absoluta che in nessun caso può spettare a un solo uomo. È perché il re, che è un uomo, tende a credersi «nella Natura come uno Stato dentro lo Stato» che il suo regno effettivo è minacciato strutturalmente dallo Stato dentro lo Stato. Il contesto storico ha la sua importanza. Da un lato si assiste, in tutt’Europa e infine persino in Olanda, all’ascesa, apparentemente irresistibile, della monarchia assoluta. Ma, d’altro lato, chimera per chimera, Spinoza ricorda che lo Stato olandese, prima del trionfo di Guglielmo d’Orange, era comunque segnato sin dalle origini da un’esitazione riguardo al luogo della sovranità (non si sapeva dove risiedesse il vero potere). Era come in un pendolo: in tempo di guerra la sovranità ricadeva dal lato dello Statholder, in tempo di pace essa rioscillava verso il lato del Gran Pensionario e dell’Assemblea dei Reggenti. La Repubblica olandese aveva dunque un incerto statuto, era «difforme», e la sua forma è sempre restata indecisa.63 Ritorniamo infine alla questione dell’infanzia come transizione morbosa verso l’adulto. Abbiamo visto come la figura dell’infans adultus sia strana: essa esprime l’immagine approssimativa di una situazione certo negativa ma reale (la trasformazione di un individuo) e pertanto non può che essere una chimera se è vero che il corpo dell’adulto è un corpo diverso da quello del bambino. Quando Spinoza ritorna su que-

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TTP, XVII, [15] (trasformazione che porta allo Stato nello Stato); XVIII, [4] e [5] (trasformazione e avvento della guerra regia). 63 TP, IX, 14 (deformi). Lo studio del genere monarchico si assume il problema olandese: il valore della monarchia si mostra meglio in tempo di guerra, ma il valore della democrazia brilla in tempo di pace (TP, VII, 5). Non sarebbe difficile completare a seguito del ragionamento di Spinoza l’analisi della storia olandese recente: quando la funzione dello Stadtholder viene abolita, nel 1654, dopo un colpo di mano del principe d’Orange, si crede di avere, non certo trasformato, bensì formato finalmente lo Stato; però la memoria sociale del regno dei nobili persiste e l’indecisione formale persiste fino al dramma finale del 1672 (il linciaggio del Gran Pensionario De Witt).

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sta figura, un poco più avanti, questa volta la tratta chiaramente come una chimera e l’associa alla aberrante concezione della naturalità del vizio, che non ha smesso di combattere dall’inizio della terza parte: Ma se la maggior parte degli uomini nascessero adulti e solo uno o due di essi bambini, allora ognuno avrebbe commiserazione dei bambini, poiché in tal caso non considererebbe la stessa infanzia come una cosa naturale e necessaria, ma come un vizio o un peccato della natura. (Eth V, 6 sch.)

È vero che l’immagine sembra rovesciata: non si tratta più di un adulto ridiventato neonato, ma di un neonato già adulto. E Spinoza pare voler dire che la negazione dell’infanzia equivale a concepirla come un vizio, a meno che non sia il contrario. Come per gli altri due scolii per ora accontentiamoci di note formali fino a che non avremo modo di ritornarci a lungo. Noi ci troviamo di fronte tre testi – gli scolii IV, 39; V, 6; V, 39 dell’Etica – che affrontano il rapporto dell’età adulta e dell’infanzia: il primo pone una chimera curiosamente reale (ma senza futuro); il secondo assume tale chimera al contrario e la tratta come tale, il terzo evoca semplicemente il passaggio (invero pieno di rischi) da un’età all’altra. Regressione verso l’infanzia, negazione dell’infanzia, uscita dall’infanzia. Si tratta nello stesso tempo di tre diversi e successivi modi di accedere al rapporto dell’adulto all’infanzia: non crederci, o meglio non credere che si sia potuto essere neonati se non perché si è visto altri neonati crescere; praticare la negazione considerando l’infanzia come una mancanza e pensarla di conseguenza come un vizio; infine, forse, concepire la vita intera come una sorta d’infanzia. Questa ipotesi di lettura dovrà, ben inteso, essere giustificata e confermata dall’analisi, il che sarà possibile solo dopo aver condotto una profonda ricerca sulla concezione spinoziana della trasformazione. Diciamo solo una parola a proposito della prima delle tre idee, forse la più semplice, ma anche la più stupefacente (al punto che generalmente passa inavvertita). La tesi di Spinoza sul rapporto con l’infanzia può essere enunciata brutalmente nei seguenti termini, esonerati da sfumature o precisazioni ulteriori: un adulto non si ricorda d’esser stato neonato, ha bisogno di un altro da cui apprenderlo. Rileggiamo infatti la fine dello scolio IV, 39 dell’Etica: E se questo sembra incredibile che cosa diremo dei bambini? Un uomo di età avanzata crede la loro natura tanto diversa dalla propria da non potersi persuadere di essere mai stato bambino, se non formulasse riguardo a sé tale congettura a partire dagli altri.

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Per valutare appieno questa idea, occorre forse non identificare del tutto la parola infans con neonato. L’abbiamo a volte fatto perché lo stesso Spinoza evoca l’incapacità di parlare, di camminare, di ragionare, a proposito dell’infans; quando nomina il puer, si tratta già di altro, dei meccanismi affettivi complessi che permettono di modellare per certi aspetti la condotta dell’adulto (di qui, reciprocamente, la pueritia di quest’ultimo …), oppure di problemi dell’adolescenza; e certi testi distinguono espressamente infans e puer. Tuttavia, nella frase stessa ove Spinoza menziona le incapacità del piccolo, egli parla di una quasi-incoscienza di se che dura «per tanti anni». In effetti, infans in latino ha un senso stretto e uno più ampio: talvolta esso designa precisamente ciò che noi intendiamo con la parola «neonato», talaltra esso ingloba i sette primi anni che i Romani stimavano necessari per parlare propriamente.64 Troverà allora un suo equivalente nell’espressione «bambino piccolo». Dunque non si sia tentati troppo frettolosamente d’assimilare l’idea di Spinoza a l’«amnesia infantile» dei moderni psicologi e si formi l’ipotesi provvisoria che questa espressione concerne la prima infanzia: sapere che si è stati neonati non deriva affatto da un ricordo; non è la memoria che assicura il legame di due epoche ma l’osservazione degli altri (o ciò che Spinoza chiama a volte «esperienza vaga»), e forse anche il sentito dire. Si ricordi che in effetti i due esempi di percezione per sentito dire, nel Trattato della riforma dell’intelletto, si rapportano all’infanzia: essere nati il tal giorno, aver avuto i tali genitori. Spinoza non vuol dire che il bambino piccolo sa solo per sentito dire che quei tali adulti sono i suoi genitori: sarebbe un luogo comune e il primo esempio basterebbe. Dice alla lettera, per quanto possa sembrare strano: la convinzione di un adulto d’avere avuto quei tali genitori non può esplicarsi che per sentito dire, non attraverso la memoria: «Ex auditu tantum scio[…] quod tales parentes habui » («Soltanto per sentito dire conosco[…] che ebbi tali genitori»).65 È il punto di vista di un adulto che pensa alla sua infanzia, come in Eth IV, 39 sch. Spinoza sembra dunque fare allusione a un’amnesia che separa per sempre l’adulto dal bambino piccolo che un giorno egli è stato. L’idea, applicata ai genitori, dunque ad un periodo che può teoricamente coprire tutta l’infanzia, sembra «incredibile»,

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Cfr. A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots. Genève, Klincksieck, 1985. Si aggiunga che infans designa persino un infante che non è ancora nato. 65 TEI, [20].

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e del tutto contraria al senso comune. Che può voler dire Spinoza? E si può trarre un concetto generale di amnesia che ben si accordi alla sua concezione della mente e del corpo? Infine, un’ultima questione. L’assurda ipotesi di Eth V, 6 sch. («Ma se la maggior parte degli uomini nascessero adulti e solo uno o due di essi bambini […]») non fa pensare a un’immagine rovesciata della reale situazione sociale, come Spinoza la vede: la maggior parte degli adulti restano bambini, salvo uno o due saggi? Non è l’immagine effimera dell’età dell’oro denunciata come pura favola all’inizio del Trattato politico? 66 Se tutti nascessimo adulti, in effetti, se gli uomini potessero affrancarsi dai loro costumi per giudicare le cose sub specie æternitatis, è chiaro che la trasformazione politica non sarebbe più un problema: la moltitudine avrebbe da scegliere tra le tre o quattro forme politiche ottimali proposte da Spinoza,67 e si auto-formerebbe eternamente. Non è allora per questa ragione che il Cristo demistificato del Trattato teologico-politico appare sia come il filosofo per eccellenza, colui che percepisce Dio e le cose attraverso il terzo genere di conoscenza, sia come colui che fa eccezione alla regola dell’assoluta illegittimità della rivolta? Sopra, infatti, alla fine del capitolo XVI, ho detto espressamente che tutti sono tenuti a tener fede al tiranno, ad eccezione di colui al quale Dio, per indubitabile rivelazione, ha promesso un singolare ausilio contro il tiranno. Perciò nessuno può trarre da questo un modello d’azione, posto che non abbia la capacità di fare miracoli: cosa che risulta evidente da quanto Cristo disse ai suoi discepoli, quando li ammonì a non temere coloro che uccidono i corpi (vedi Matteo 10, 28). Se lo avesse detto a tutti, inutilmente si fonderebbero stati […]. Si deve dunque necessariamente concedere che l’autorità che Cristo diede ai discepoli fu data esclusivamente a loro, e che nessuno può trarre da questo un modello. (TTP, XIX [13])

È chiaro che la trasformazione per Spinoza non è solo un oggetto il cui referente è spesso problematico (quando si tratta di produrre un giudizio sulla rivoluzione, sulla trasmutazione alchemica, sull’amnesia, sulla crescita del bambino, ecc.): è una sfida che travaglia il suo pensiero nella misura in cui esso vuole essere pratica e non può di conseguenza evitare la questione dello statuto e delle modalità del suo intervento.

66 67

TP, I, 5. Quattro, come si sa, dato che il Trattato politico esamina due casi d’aristocra-

zia.

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La filosofia di Spinoza pone al centro delle sue preoccupazioni pratiche il tema della conservazione della forma. Tuttavia, nessuna filosofia è mai stata così interessata alla rottura: essa propone all’individuo una nuova vita e alla collettività nuove istituzioni. Non smette dunque di incontrare il problema della trasformazione, della sua realtà, del suo fantasma e delle situazioni-limite che vi si innestano: da qui i temi cruciali dell’amnesia e dello sviluppo del bambino, ma anche – tanto nell’etica che nella politica – della schiavitù e del suicidio. Ci sono tre modi di sottrarsi a ciò che la filosofia di Spinoza ci incita qui a pensare: 1°) interpretarla come un conservatorismo (anche politico), 2°) interpretarla come un “trasformismo” (anche politico), 3°) interpretare tale antitesi – stabilita tra due controsensi – come una contraddizione attribuibile al pensatore. Il più grave dei controsensi è forse il primo, il solo a non essere apparentemente privo di senso (dato che è chiaro, al contrario, che Spinoza è di un assoluto pessimismo per quanto concerne le rivoluzioni). Però il conservatorismo rettamente compreso del Trattato politico, pensiero dell’autoaffermazione irresistibile della forma che suggerisce a ogni tipo di regime di reinventarsi nel profondo per infine esistere (avere realmente una forma) possiede di che infrangere ogni spirito «conservatore» o «riformista» nel senso usuale di tali termini. «Conservare»: non è anch’essa una di quelle parole – come «Dio» – con cui Spinoza, in certo modo, inganna il suo mondo, sovvertendone radicalmente l’usuale interpretazione a forza di affermarne proprio il senso? La questione della portata pratica del procedere spinoziano diventa solo più urgente. Proponiamo qui tre studi che concernono differenti domini, ma che costituiscono tre approfondimenti successivi del medesimo problema. Ci è parso subito bene concentrare la nostra attenzione sul modo in cui la rottura etica veniva tematizzata nei primi testi, meno studiati delle tre ultime parti dell’Etica. Ecco il primo studio: come lo schema tradizionale della conversione è ripensato, in una nuova problematica dell’«elemento», poi dell’«institutum vitae». Il secondo studio affronta l’Etica e mostra che l’emergenza del tema dell’infanzia è solidale con una messa in causa dello schema stesso e con una ridefinizione del percorso etico. Il terzo studio, infine, s’impegna ad analizzare l’articolazione delle dimensioni metafisica e politica del problema della trasformazione: critica e sovversione dell’ordine teologico-politico. Vedremo che la meditazione sul trasformismo politico esce di gran lunga dai limiti di un semplice commentario sulle rivoluzioni e conduce Spinoza allo stadio più alto del suo pensiero della libertà collettiva – il concetto di «moltitudine libera», ultimo in ordine di tempo, posto solo in embrione, nuovo pensiero che lo occupa fino a che la tisi ebbe definitivamente ragione di lui. 57

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PRIMO STUDIO INVILUPPARE UN’ALTRA NATURA/ INVILUPPARE LA NATURA La crescita del tema ambivalente dell’infans adultus, alle due estremità del cammino etico (primo e terzo genere di conoscenza) conduce al suo più alto grado, nelle ultime pagine dell’Etica, l’interrogazione sullo statuto di un tale cambiamento. Tutto accade, abbiam visto, come se la questione dell’essenziale continuità, nel processo di crescita, non potesse essere troncata: il testo si chiude senza che sia apparentemente delucidata la relazione del saggio con l’ignorante, sia il rapporto del saggio con gli altri uomini, ma anche con il «vecchio uomo» che egli inizialmente è stato. È dunque il delicato statuto del cambiamento etico di cui dobbiamo in primo luogo occuparci. La prefazione della IV parte dell’Etica ha un bel da ricordare che il perfezionamento è una transizione non una trasformazione, Spinoza moltiplica gli indici in favore della rottura: l’immagine della crescita, trattata come una quasi-trasformazione; lo scarto tra il saggio e l’ignorante comparato a una differenza di specie, infine e soprattutto, l’incompatibilità degli instituta vitae formulata così drammaticamente all’inizio del Trattato dell’emendazione dell’intelletto. Sembra che il cammino etico abbia tutti i tratti di una trasformazione senza esserlo.

1. LA TRANSIZIONE ETICA NEL BREVE TRATTATO 1. Elemento proprio e elemento estraneo (KV, II; cap.26) Spinoza nel Breve trattato pone il problema del passaggio o della transizione tra contrari.1 La vittoria sulle passioni non può logicamente precedere la conoscenza e l’amore di Dio-Natura: un rapporto di successione, una semplice giustapposizione temporale dei contrari sarebbe un’assurdità, in quanto l’ignorante si troverebbe nella situazione di dover smettere d’ignorare prima di conoscere. Si ripresenta qui il vec-

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KV, II, cap.26.

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chio paradosso socratico dell’apprendimento. I contrari non possono convivere ma solo la presenza del secondo termine può far trascorrere il primo: «solo la conoscenza è causa della distruzione dell’ignoranza». È un paradosso fragile in quanto ha tutta l’aria di un sofisma: i contrari qui non sono due cose di natura differente ma l’assenza e la presenza di una stessa cosa (il sapere); quindi dire che il sapere scaccia l’ignoranza son solo parole dato che esso non scaccia altro che la propria assenza. Tuttavia, l’ignoranza, lungi dall’essere un nulla o uno spazio vuoto, corrisponde a un «modo della conoscenza»2 che dipende da quella che potremmo definire una polarizzazione soggettiva: da qui la necessità di una rottura, d’un cambiamento di vita là dove il senso comune vedrebbe piuttosto una progressione. Infatti l’ignoranza e il sapere sono degli opposti più che dei contrari. Se vi è opposizione o incompatibilità è perché l’ignoranza è uno stato di percezione confusa delle cose che secerne la sua propria illusione sul vero e sul bene e suscita un genere di vita particolare fondato su tale errata valutazione. Donde l’aspetto drammatico, presente sia nel Breve trattato sia nel Trattato sull’emendazione: l’elevazione verso il sapere implica una intima lotta tra due principi soggettivi rivali. I commentatori hanno sempre privilegiato la versione offerta dal Trattato sull’emendazione, a volte sottolineando la sua dimensione di esercizio di stile, eredità dello stoicismo romano. Eppure il Breve trattato utilizza un’immagine sorprendente: quella dell’«elemento» Senza virtù o, per meglio dire, senza la guida dell’intelletto tutto cade in rovina, non possiamo godere alcuna pace e viviamo come al di fuori del nostro elemento. (KV, II, cap.26, § 2)

Resta inteso che ognuno cerca per natura il proprio bene o la propria quiete, in altri termini ciò che gli è utile. Ma, a seconda del modo in cui investe il proprio sforzo, egli corre verso la salvezza o verso la rovina. La salvezza consiste nella sovranità dell’intelletto, altrimenti detta virtù. La rovina è laddove cerchiamo «i piaceri dei sensi, la voluttà e le cose mondane»3. Questi sono dei falsi beni che, laddove ci conducono a trascurare la nostra conservazione, costituiscono per noi un elemento estraneo, incompatibile con la nostra natura. Di contro, c’è l’amore

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KV, II, cap.1. KV, II, cap.26, § 5.

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di Dio-Natura, tipologia d’unione che costituisce il vero bene. Spinoza non parla esplicitamente di un bene «proprio», forse perché egli intravede, proprio a tal riguardo, una difficoltà: non si tratta di trovare la quiete in noi stessi, ma in qualche cosa di infinitamente più grande di noi, anche se non si tratta di una alterità pura e semplice, dato che vi partecipiamo, e che ci procura la sovranità. È rimarchevole che la decisione tra i veri e i falsi beni qui dipenda da una prova affettiva: «poiché è tale – la quiete che segue all’amore di Dio – che, godendone, non vorremmo mutarla per nessun’altra cosa al mondo»4, «sperimentando che, cercando i piaceri dei sensi, la voluttà e le cose mondane, non conseguiamo in questi il nostro bene ma la nostra rovina».5 È la gioia che ci fa riconoscere il nostro proprio elemento. Spinoza rincara a proposito dell’argomento della ricompensa, ammesso da «grandi teologi», secondo il quale la rinuncia alla vita frivola è giustificata dalla convinzione d’ottenere in cambio l’eternità (qui si riconosce un’anticipazione dell’ultima proposizione dell’Etica dove s’indentificherà la beatitudine con la virtù). Tale argomento comporta una conseguenza assurda: se l’eternità non è certa, tanto vale seguire la propria inclinazione. La critica è qui sostenuta da una doppia attestazione d’immanenza. L’assenza di vita eterna non diminuisce affatto il pericolo della rovina, dato che ne va di questa vita qui che non si vuole sprecare, la decisione in favore dell’amore divino non è in funzione della speranza di una vita dopo la morte, ma dell’esperienza concreta di una gioia suprema quaggiù. Spinoza può dunque concludere: Questo è tanto insensato come se un pesce (per il quale non c’è vita fuori dell’acqua) volesse dire: se da questa vita nell’acqua non seguisse per me una vita eterna, vorrei passare dall’acqua sulla terra. Eh già! Che cos’altro possono dirci quelli che non conoscono ancora Dio? (KV, II, cap.26, § 4)

«Vorrei passare dall’acqua sulla terra»: è certamente significativo che Spinoza faccia qui parlare i pesci, e che provi il bisogno di adottare il loro punto di vista per illustrare un problema umano.6 Egli sembra

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KV, II, cap.26, § 3. KV, II, cap.26, § 5. 6 Spinoza ammette nel TIE un uso legittimo delle finzioni d’essenza. Vi ricorre volentieri nella propria corrispondenza: non solo gli uomini possono a volte essere comparati ad animali, ma si può immaginare un triangolo parlante (lettera a 5

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proprio tenere a tale fantasia visto che l’esposizione del concetto del diritto naturale sarà fatta anch’essa a partire dai pesci e dal modo in cui essi «sono padroni dell’acqua», loro proprio elemento. (TTP, XVI, [2]) Ma ciò che sorprende sta altrove e concerne l’aspirazione ad un’altra vita. La frase ha in primo luogo una funzione polemica, se ci si ricorda il mito del Fedone al termine della discussione sulle ragioni per credere all’immortalità dell’anima: l’uomo che accede al vero cielo e alle «cose di lassù» qui è paragonato ai pesci che «emergendo dalle onde, vedono quanto accade quaggiù» (Platone, Fedone, 109e).7 Non si potrebbe immaginare un rovesciamento più laconico e più certo del platonismo: per Spinoza, l’immagine della salvezza è diventata immagine di rovina, in una scherzosa satira del pensiero della trascendenza (far dipendere la salvezza dalla credenza in un aldilà e abbandonarsi alle passioni per l’incapacità di credervi è tutt’uno). Tuttavia, la polemica non esaurisce il senso della frase. Essa non è che il rovescio di un’idea positiva davvero curiosa: l’altra vita non è quella che si crede, non è al di là della condizione presente, come un destino incerto; è nella vita comune che gli uomini, senza rendersene conto, s’impegnano a praticare un’altra vita – intendendo questa volta una vita non umana come se si cimentassero a volare o a vivere nell’acqua. L’altra vita è quella, poco vivibile, che mena il vulgus, i comuni mortali. Da qui la trasposizione degli elementi e il suo potenziale umoristico: l’acqua è per la terra ciò che la terra, nella mitologia cristiana, è per il Cielo, in quanto gli uomini si inventano inconsapevolmente un cielo sopra la terra e in quanto è sulla terra che occorre cercare una vita celeste: il tentativo in atto d’una vita in un elemento altro dal nostro proprio. Se il Cielo non c’è che il Cielo sia allora sulla terra! Inoltre vi si legge una attestazione d’immanenza: le utopie non sono solo dei pii sogni destinati a restare tali; tutta la vita volgare, segnata dal primato dell’immaginazione, partecipa di un’effettiva utopia, come tale rovinosa (ciò che Spinoza chiamerà più avanti «sogno da

Boxel, Ep.72), una pietra pensante (lettera a Schuller, Ep. 74), oppure un cerchio gemente (lettera a Oldenburg, Ep. 27). 7 Questa fonte ci sembra più convincente della divertente parabola talmudica della volpe che cerca di convincere i pesci a sfuggire una volta per tutte i pescatori ritornando alla vita dei loro lontani antenati terrestri. (F. Mignini, Commento in B. Spinoza, Korte Verhandeling, introd., ediz., trad. it. e commento di F. Mignini, L’Aquila, L.U. Japadre, 1986, p.745, n°33).

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svegli»). 8 Infatti gli uomini hanno una certa natura e l’utopia consiste in primo luogo nella proiezione di un’altra natura umana. Nella misura in cui tale altra vita sulla terra è la condizione comune degli uomini, la tendenza a proiettare un’altra natura umana è naturale, inerente alla passività quale stato innato d’ogni uomo. Al contrario, la via eterna, come Spinoza la concepisce, è la nostra propria vita nell’elemento che ci conviene: il Cielo è ricondotto sulla terra e tale ritorno al proprio elemento, come vedremo, ha per condizione paradossale l’unione con «Dio». Il problema della felicità è così rovesciato in quanto il cambiamento d’elemento – o la trasformazione – comporta la nostra rovina e non la nostra salvezza. Cercare il Cielo è quello che ognuno fa nella sua vita quotidiana, specie colui che negando ogni vita eterna crede di consacrarsi alla Terra. In tal senso, la rappresentazione comune, religiosa, della salvezza non è che il riflesso dello stato di perdizione tendenziale che la suscita: l’aspirazione al Cielo – lo ripetiamo – è la logica stessa della vita ordinaria o dello stato di passione. La chiave di questo passaggio del Breve trattato si trova proprio alla fine dell’Etica, nel penultimo scolio, posto nella cornice di due testi che propongono al lettore la stessa visione finale dell’opposizione tra due stati estremi della condizione umana: incoscienza, impotenza, passività al massimo (vita fragile del neonato, vita agitata dell’ignorante); conoscenza, potenza, impassibilità (vita libera e gioiosa del saggio). Questo scolio prepara il secondo enunciato dell’immanentismo pratico: «La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa»9, che sviluppa ciò che veniva enunciato alla fine della IV parte: «L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita».10 Spinoza ha appena svolto la sua speciale dottrina dell’eternità; ora ne precisa il ruolo pratico per evitare il controsenso d’una vita che cercherebbe il proprio senso al di là della morte, al di là di se stessa. L’inversione dei valori che caratterizza la vita volgare (scambiar la licenza per la libertà) ha come effetto di render intollerabile il dominio delle passioni; tale dominio

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Abbiamo esposto questo concetto di «sogno da svegli» o di «sogno ad occhi aperti» in F. Zourabichvili, Spinoza. Una fisica del pensiero, op. cit., cap. VII. 9 Eth V, 39 sch., e Eth, V, 42 sch. Vedremo tuttavia nello studio seguente che l’equivalenza delle due impotenze, quella del neonato e quella dell’adulto disperatamente ignaro, è ingannevole. 10 Eth, IV, 67, e Eth, V,42.

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si rende possibile solo facendo scattare la molla della speranza e della paura che implica la credenza in un aldilà scisso (paradiso/inferno). Qui Spinoza descrive una struttura reale, quella della vita del volgo, o della salvezza degli ignoranti: non si può fare la scelta d’essere contemporaneamente ignorante e incredulo, poiché ciò equivarrebbe a un suicidio o a una caduta nella follia. È il destino del pesce incredulo del Breve trattato, che la sola fede nell’eternità trattiene dall’uscire dall’acqua. Il rovesciamento dei valori si inasprisce: per l’ignorante la razionalità minima si pone a lato della superstizione mentre una sobria immaginazione conduce all’assurdo e alla perdizione. A costo di essere ignoranti, occorre credere: la finzione è l’ultimo soccorso. L’Etica non deve preoccuparsi della salvezza eventuale degli ignoranti dato che la sua funzione sociale è di esortare alla vita saggia; ciò non toglie che essa la implichi. In pratica solamente la paura dell’inferno spiega il fatto che la maggioranza degli uomini non sia folle o suicida: esiste una modalità passionale di risoluzione o almeno d’attenuazione del dilemma di Medea (Video meliora proboque. Deteriora sequor). Nulla mostra meglio la funzione strutturale della fede trascendente nella vita del volgo che il modo in cui Spinoza descrive la sorte dell’incredulo. Ha un bel da non crederci, egli è marchiato dall’eternità, ne prova nostalgia: Se gli uomini non avessero questa speranza e questa paura, ma credessero invece che le menti muoiono con il corpo e che ai miseri, consumati dal peso della pietà, non resta un’altra vita da vivere, tornerebbero alla loro inclinazione e vorrebbero regolare tutto secondo i loro impulsi obbedendo alla fortuna più che a se stesso. E questo mi sembra non meno assurdo che se qualcuno, non credendo di poter nutrire il suo corpo di buoni cibi in eterno, volesse saziarsi piuttosto di veleni e di sostanze letali; oppure, vedendo che la mente non è eterna o immortale, preferisse perciò essere privo di senno e vivere senza ragione. Cose assurde che a malapena meritano di essere segnalate. (Eth, V, 41 sch.)

Qui è ben mostrato il dilemma terribile della vita comune: l’individuo non ha altra scelta che tra due alienazioni, di cui l’una, pur mancando di capacità d’ispirazione, è almeno conforme nei propri effetti alle prescrizioni della ragione (liberarsi del servaggio della fortuna o detto altrimenti, dei desideri immediati, legati al potere incontenibile delle affezioni del corpo). Il pesce si risolve a rimanere nell’acqua nella prospettiva di una vita eterna; l’uomo trova le risorse per un’adesione seppur minima al proprio elemento – la razionalità, al di fuori di cui egli è impotente e infelice – proiettando tale scopo fuori di se stesso. 64

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Una razionalità fuori di sé: tale è la vita del vulgus regolata dalla paura dei tormenti eterni nella sua dimensione privata, dalla paura dello Stato nella sua dimensione pubblica. Questo tema di una natura umana fittizia proiettata dall’immaginazione passiva emerge nei testi successivi di Spinoza. In primo luogo, a proposito degli pseudofilosofi per i quali pensare significa moralizzare: «Sanno celebrare, in modi molteplici, una natura umana che non esiste in nessun luogo e combattere a parole quella che esiste realmente». 11 Oppure proiettare una natura umana fittizia equivale a porre l’uomo fuori dalla natura: «Sembrano concepire l’uomo nella natura come un impero nell’impero».12 È evidente il legame con la tendenza del vulgus a vivere in un elemento altro dal proprio. Porre l’uomo fuori dalla natura è come far uscire il pesce dall’acqua. Si attribuisce ad entrambi una potenza che non hanno (padroneggiare immediatamente le proprie passioni, vivere sulla terra), si ignora la loro vera potenza (comprendere attraverso le cause, operare nell’acqua). Non che la Natura in generale sia un elemento, ma vien fatta astrazione del rapporto tra una natura particolare e l’elemento che ad essa conviene. Considerare una cosa extra naturam significa rimuovere la questione dell’elemento e di conseguenza dei limiti sia positivi sia negativi di una natura. Da un lato (quello del vulgus), l’altra natura è semplicemente quella in funzione di cui l’uomo passivo conduce la sua vita; d’altro lato (quello del filosofo moralista) l’altra natura è quella che permette di condannare la passività come una scelta viziosa, contro-natura. È Spinoza stesso che stabilisce il rapporto: tali moralisti, «concepiscono difatti gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero».13 Detto altrimenti, questa loro attitudine è dovuta alla inadeguatezza delle loro idee e c’insegna di più su di loro che sull’oggetto che essi pretendono di studiare. Abbandonarsi ad un elemento altro dal nostro e passare sotto silenzio la questione dell’elemento è tutt’uno. È chiaro che noialtri pesci impegniamo ogni nostro sforzo nel pericoloso gioco che consiste nel cercare di vivere sulla terra, senza rendercene conto; ma alcuni di noi non vedono nemmeno che detestando tale gioco, si spingono ancor più lontano nell’affermazione di quella terra, sviluppando l’astratta concezione di un pesce imperiale che non richiede l’acqua. Credono

11 12 13

TP, I, 1. Eth, III, praef. TP, I, 1.

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di smettere di adorare la terra non pensando più agli elementi, ma si impediscono in questo modo di affermare l’acqua (a loro manca d’aver gioito e di saper gioire in un certo qual modo della loro propria natura). Ben dice Spinoza che la politica di questi moralisti non può che essere una «chimera»,14 ossia l’assemblaggio improbabile e impotente di due essenze in un’unica natura che implica contraddizione. Essi sostengono un uomo che non c’è, propongono rimedi adatti a un essere che non esiste e che, se esistesse, non ne avrebbe bisogno. Non è in causa solo il moralismo: vedremo come anche la tirannia operi tendenzialmente in funzione di una natura fittizia e costituisca, di conseguenza, più una «chimera»15 che una forma politica. Ciò che la caratterizza sono atti o comandi che «ripugnano alla natura umana» o, detto altrimenti, le sono contrari.16 Non si tratta più del caso di quelle costituzioni ambigue di cui abbiamo parlato in introduzione, a cavallo tra due forme politiche distinte: la chimera politica giunge al culmine indicando un regime che s’adopera a governare gli uomini reali come se fossero di un’altra specie. Si presenta il problema del limite naturale del trasferimento del diritto all’autorità politica su cui torneremo nel terzo studio, ovvero di quella soglia, superata la quale un uomo non può più obbedire ad un altro senza cessare d’essere un uomo. Allo stesso modo per cui non si riuscirebbe a far mangiare dell’erba ad un tavolo, volendolo, così non è possibile che «la società abbia il diritto di far sì che gli uomini volino»17 – di far sì che essi abbandonino la terra per l’aria, come il pesce che esce dall’acqua. Torniamo ora al testo del Breve trattato. La questione del cambiamento etico è qui sollevata in due modi: dall’angolo di visuale della transizione (paradosso dell’apprendistato) e dall’angolo di visuale dell’elemento. Al punto in cui siamo, dobbiamo pensarli insieme: «senza la virtù…viviamo come fuori dal nostro elemento»: questa è dunque la nostra condizione ordinaria. Ora Spinoza avverte fin dal § 1 che «le cause (o per meglio dire ciò che noi chiamiamo peccati) che ci impediscono di giungere alla nostra perfezione sono in noi stessi». L’esteriorità che ci minaccia è intima. La metafora dell’elemento, così immediatamente forte, qui si rivela troppo debole, nella misura in cui l’esteriorità ci si presenta come dissociazione da noi stessi: la diffe-

14 15 16 17

Ibid. TP, IV, 4. TP, III, 8. TP, IV, 4.

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renza tra l’elemento e noi dunque dobbiamo attenuarla, mediarla, in quanto la nostra vita è compromessa dall’elemento ostile in ragione della forza che fa pressione su di noi. Perdizione e salvezza corrispondono a orientamenti divergenti del desiderio. Ci sentiamo in noi entro un elemento estraneo poiché tutto il nostro essere lo esige. Di conseguenza non si tratta di innalzare un bastione tra noi e l’esterno: l’esterno in sé non è in causa, non è una minaccia; tutto dipende dalla nostra relazione con esso. La questione della transizione allora ricompare: chi giocherà il ruolo di termine medio da Platone in poi richiesto per pensare il miglioramento o l’apprendimento? Vediamo dunque che per attingere la verità di ciò che affermiamo come certo riguardo al nostro bene e alla nostra pace, non dobbiamo badare a nessun altro principio che al nostro vantaggio, una cosa molto naturale in tutti gli enti. E poiché sperimentiamo che, cercando i piaceri dei sensi, la voluttà e le cose mondane, non conseguiamo in questi il nostro bene ma la nostra rovina, scegliamo perciò la guida del nostro intelletto. Tuttavia, non potendo questo compiere alcun progresso senza essere prima giunto alla conoscenza e all’amore di Dio, è stato perciò sommamente necessario cercare Dio; e poiché (secondo le precedenti riflessioni e considerazioni) abbiamo trovato che egli è il sommo tra tutti i beni, siamo costretti a fermarci qui e a riposare. Infatti abbiamo visto che fuori di lui non c’è cosa alcuna che possa darci qualche salvezza e che la sola vera libertà è di essere e rimanere incatenati con le amabili catene del suo amore. (KV, II, 26,§ 5)

Cosa dice questo testo? La ricerca dell’utile riesce a noi naturale, intima, e tuttavia portatrice di salvezza come di rovina: infatti noi ci inganniamo sulla natura dell’utile, e noi indirizziamo le nostre forze verso dei falsi beni. L’investimento delle nostre forze è posto innanzi ad una alternativa: o i piaceri sensuali, o la sovranità dell’intelletto (capace, il testo lo dice più sopra, di procurarci una gioia superiore). E noi sappiamo per esperienza che la prima via è rovinosa. Sottolineiamo bene questo punto: fin qui Spinoza insisteva soprattutto sull’esperienza positiva di una gioia superiore per distoglierci dalle gioie impure e pericolose della passione: Se veniamo a conoscere, amando qualcosa, una realtà migliore di quella che amiamo, sempre ci volgiamo immediatamente a questa e lasciamo la prima. (KV, II, 5,§ 10)

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Infatti, conoscendo e godendo il meglio, il peggio non ha alcun potere su di noi. (KV, II, 19,§ 2, nota 2)

Un amore viene distrutto dal concetto che formiamo di qualcos’altro che è migliore. (KV, II, 19,§ 14) Tuttavia, Spinoza già invoca una duplicità di soluzioni: Possiamo scioglierci dall’amore in due modi: o attraverso la conoscenza di una cosa migliore o attraverso l’esperienza che la cosa amata – che prima era ritenuta grande e magnifica – trascina con sé molto male e molta sventura. (KV, II, 5,§ 4)

Solo in una nota del capitolo 19 queste due vie cominciano a darsi un ordine. Spinoza qui presenta il processo di perfezionamento secondo uno schema ternario che corrisponde alla triade esposta nel capitolo 2: Opinione che produce le passioni; Convinzione che mostra ciò che c’è di buono e di cattivo nelle passioni; Conoscenza chiara che mette in opera la liberazione (vi è qui un abbozzo di quelli che nell’Etica saranno i tre generi di conoscenza). Ed egli raffronta questo schema a una triade cristiana: Peccato, Legge che mostra il peccato, Grazia che ce ne libera. Dunque, la logica della transizione sembra implicare un simile schema ternario che introduce un termine medio tra lo stato di passione e il compimento della liberazione, dato che la condizione positiva (esperienza di una gioia d’intensità superiore a quella procurata dalle passioni) è essa stessa subordinata a una condizione negativa (acuta consapevolezza del carattere rovinoso delle passioni). Ora, al capitolo 26, Spinoza argomenta a partire dalla rovina e non a partire dal godimento. Se fa così è per evitare di cadere in un circolo vizioso possibile nella transizione; infatti se noi sapessimo positivamente, per averne goduto una volta, che la nostra salvezza sta nell’intellezione, il sapere presupporrebbe il sapere, e il perfezionamento finirebbe per dipendere da un caso fortunato. Il seguito del testo solleva in effetti il problema della transizione assegnando come termine medio: «cercare Dio». L’ultima frase conferma questa modalità argomentativa: non è per averlo già incontrato che noi sappiamo che si deve cercare, ma semplicemente procedendo per eliminazione («fuori da lui non c’è cosa alcuna…»). Spinoza non esita tra due vie, positiva e negativa. Ancora una volta, l’esperienza di un godimento superiore è un leitmotiv lungo tutta la II parte del Breve trattato. Ma tale godimento non sopraggiunge 68

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per caso, è il risultato di uno sforzo paziente, è il coronamento della ricerca. Esso presuppone la conoscenza che si ottiene solo attraverso una meditazione raziocinante. Ma la semplice Convinzione, del tutto esteriore, non ha in quanto tale alcun potere di rottura: «mentre la ragione, pur mostrandoci ciò che è migliore, non ci fa godere di esso».18 La Convinzione mostra, «indica» (aanwyst):19 non vediamo ancora la cosa, ma sappiamo che deve esserci, per necessità dimostrativa. Dunque, è solo un segno della cosa, un «messaggio» che la cosa ci invia (bood-schaft).20 Restiamo con la cosa in un rapporto esteriore ancorché necessario, senza unione o amore dal momento che il rapporto con l’oggetto passa attraverso la mediazione di un segno.21 La Ragione o Convinzione non ha una propria efficacia: essa orienta solo il soggetto, «ci conduce a (brengt tot) un chiaro intelletto mediante cui amiamo Dio»,22 essa «è soltanto come una scala lungo la quale ci innalziamo al luogo desiderato».23 La Convinzione è per eccellenza il momento del dilemma o del conflitto interiore quando il sapere è ancora impotente a modificare la nostra condotta.24 Essendo la conversione operata, per così dire, dalla Convinzione ma compiuta solo dalla Conoscenza chiara, occorre attribuire la rottura a questi due termini complementari presi insieme. La Convinzione corrisponde appieno a quella tappa intermedia in cui il futuro sconfina nel presente: non abbiamo ancora abbandonato la vita passionale e tuttavia il movimento di conversione si delinea o si prepara. Essa dispone, in seno alla vita passionale, le condizioni per uscirne. È uno stato fra-due-amori – benché non sia percorribile25 e Spinoza sia obbligato di conseguenza a

18

KV, II, 21,§ 2, nota.

19

KV, II, 4,§ 4. KV, II, 26,§ 6. 21 G. Boss, L’einsegnement de Spinoza. Commentaire du «Court traité», Zurich, Éditions du Grand Midi, 1982, p.144: «La cosa è colta a distanza» 22 KV, II, 4,§ 3. 23 KV, II, 26,§ 6. 24 Il capitolo 21 sulla Ragione inizia con la parafrasi della celebre formula di Ovidio citata più sopra, che ricomparirà nella IV parte dell’Etica. 25 «…data la debolezza della nostra natura, non potremmo esistere senza godere di qualcosa con cui essere uniti e rafforzati». (KV, II, 5,§ 5) La divisione del concetto d’amore, nel capitolo 5, da luogo a una triade che non conferma quella che abbiamo esposto. Così l’amore intermedio dedicato agli oggetti che «non sono instabili in virtù della loro causa», ossia ai «modi che dipendono direttamente da Dio» (o Natura Naturata: movimento e intelletto che sono i due soli modi immediati che 20

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fargli corrispondere un «desiderio» specifico nato dal ragionamento, che altro non è se non quella necessità di cercare Dio enunciata nel testo che commentavamo.26 La Ragione è in effetti «come un buon spirito che, fuori di ogni falsità e frode, ci informa del bene supremo per spronarci, con ciò, a cercarlo e a unirci con esso».27 Torniamo ora a tale testo e rileggiamolo. A prima vista la sua formulazione appare poco coerente dato che l’esperienza del carattere rovinoso delle passioni conduce a scegliere «la guida del nostro intelletto», ora, noi non possiamo progredire verso tale guida senza prima (alvoren) conoscere e amare Dio, noi dobbiamo dunque cominciare cercandolo. Noi tenderemmo a pensare che il progredire dell’intelletto si confonde con il procedere verso Dio, ma il testo parla di due processi successivi, l’uno legato all’altro. La sola via di delucidazione, se si prende sul serio la sintassi, è invocare da una parte la modalità in cui la Convinzione o Ragione ci conduce (senza produrlo) all’amore di Dio, dall’altra parte i gradi dell’amore di Dio di cui si parla nel capitolo 5. Tornando all’ultima frase del testo, non solo essa conferma la strategia che suggeriamo, ma soprattutto definisce rigorosamente la relazione dentro/fuori, sottolineandone il paradosso: nostro proprio elemento è Dio,28 fuori da cui non si da alcuna salvezza, e in cui noi coincidiamo con noi stessi, ossia cerchiamo il nostro utile. Dio non è tuttavia noi stessi; ma non è neppure una cosa esterna: noi siamo con lui in una relazione di partecipazione. È per questo che questa unione non è una dipendenza e può esser chiamata libertà. Il termine «unione» è certamente ambiguo dal momento che si tratta del rapporto tra una parte e il suo tutto. Non siamo affatto estranei a tale tutto al quale noi ci uniamo, ma esso deborda oltre noi; ancor meglio, noi ci ricongiungiamo con noi stessi solo partecipando a quel tutto più vasto di noi. Il paragrafo 9 ne tira le conseguenze:

noi conosciamo, secondo KV, I, 9) non corrisponde allo stadio della Convinzione o Ragione. Piuttosto si tratta del primo stadio della Conoscenza chiara, cfr. infra, nuove note in KV, II, 26, § 5. 26 KV, II, 26, § 5. La necessità di cercare Dio qui si pone come esito, in effetti, di un ragionamento. L’invocazione di un «desiderio che deriva dal ragionamento» (de begeerten die uyt de redenering voort kompt) si trova alla fine del capitolo 21. 27 KV, II, 26,§ 6. 28 Come Scrive Gilbert Boss: «noi viviamo in Dio (o nella natura) come il pesce nell’acqua» (G. Boss, op.cit, p.167,).

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Da tutto ciò che si è detto si può ora comprendere molto facilmente quale sia la libertà umana < nota: la schiavitù di una cosa consiste nel soggiacere a cause esterne, al contrario, la libertà consiste nel non soggiacere alle medesime, ma nell’essere libero da esse > che dunque definisco così: è una stabile esistenza che il nostro intelletto acquista attraverso l’immediata unione con Dio, per poter produrre in sé stesso idee, e fuori di sé opere ben convenienti con la sua natura, senza, tuttavia, che i suoi effetti siano sottoposti ad alcuna causa esterna dalla quale possano essere mutati (veranderd) o trasformati (verwisseld). ((KV, II, 26,§ 9)

Una definizione reale incornicia qui una definizione nominale: solo la lettura congiunta delle due permette di comprendere la logica posta in opera da Spinoza. Solo unendosi con Dio ci si armonizza con sé e ci si preserva da una trasformazione. Indubbiamente Spinoza parla qui degli affetti; l’equivoco del cambiamento etico viene rilanciato poiché questo testo autorizza per lo meno a parlare di una trasformazione dell’affettività (o di ciò che potremmo chiamare «soggettività», a costo di utilizzare un termine anacronistico). Tuttavia, poco prima,29 Spinoza spiegava che «quanto più le cose sono unite a Dio dalla loro maggior essenza, tanto più hanno di attività e meno di passività; e sono anche tanto più libere da mutazione (verandering) e rovina (verderving)». Qui non si tratta più di affetti, ma dei loro soggetti. L’inalterabilità può essere interpretata in due sensi: 1° l’unione con Dio dà una costanza all’affettività che esclude ogni regressione allo stadio anteriore (l’aggettivo vaste, all’inizio del testo, che traduciamo con «stabile» corrobora tale idea), 2° tale unione ci libera da una esistenza in cui siamo minacciati dalla trasformazione. Quanto più ci uniamo a Dio quanto più il pericolo di morte e di trasformazione si allontana; ciò significa, di contro, che la vita passiva si caratterizzava per il perpetuo rischio d’una trasformazione. Fintanto che non abbiamo raggiunto il nostro proprio elemento, la trasformazione pesa su di noi come una fatale pendenza. Tale è il significato un po’ enigmatico di una frase dell’Etica: «Se invece [l’uomo] si trova tra individui tali che non si accordano con la sua natura, difficilmente potrà adattarsi a essi senza un suo grande mutamento (magna ipsius mutatione)».30 Non di meno essa indica un’altra risposta possibile alla questione dell’elemento propizio ad una vita umana: la società. Unirsi a Dio o agli altri uomini? Non è un caso

29 30

KV, II, 26,§ 8, 1. Eth, IV, app., cap.7.

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se Spinoza utilizza la formula: Homo homini Deus.31 Resta comunque che il Trattato sull’emendazione sottolinea con pathos tale rischio di trasformazione inerente allo stato di passività.

2. Una nuova nascita (KV, II, cap.22) Ma prima di giungere al Trattato sull’emendazione dell’intelletto notiamo quanto il capitolo 26 della seconda parte del Breve trattato illumini a contrario il capitolo 22 che definisce la natura del cambiamento etico. Tutto il libro s’impegna a suscitare nell’uomo un nuovo tipo d’amore che, sostituendosi all’antico, gli assicurerà la suprema felicità. Ciò che si trasforma è dunque l’amore, non il soggetto che lo prova. Ora Spinoza, alla fine del capitolo 22, usa il termine «rigenerazione» (Wedergeboorte), che significa una «altra o seconda nascita» (andere of tweede geboorte). L’immagine, improntata al cristianesimo, corrisponde al rito del battesimo.32 Ma lo stesso cristianesimo la eredita dagli antichi riti di iniziazione che paiono aver sovrapposto al passaggio da un’età della vita ad un’altra (dall’infanzia all’età adulta) il tema di una purificazione dell’anima, dunque di un cambiamento del modo d’esistenza, e aver assimilato il nuovo modo di vita a una nuova vita, come se un nuovo essere emergesse in luogo del vecchio – lo stesso e tuttavia nuovo donde l’idea di una rinascita.33 Tale doppia dimensione non è senza rimandi ai due scolii 39 sulla crescita del neonato (Eth V, 39 sch.) e sulla trasformazione dell’amnesico (Eth IV, 39 sch.). Si tratta evidentemente di sapere se l’immagine è qui introdotta solo a titolo di semplice simbolo, tutto sommato banale, o se essa raggiunge uno statuto filosofico. Consideriamo i due seguenti testi: Gesù gli rispose: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio» Nicodemo gli disse: «Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?» Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico che

31

Eth, IV, 35, sch. Come ricorda Filippo Mignini, Commento in B. Spinoza, Korte Verhandeling op. cit., p.719. 33 Cfr. Dictionnaire de théologie chrétienne, Paris, Desclée, 1979, t.1. 32

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se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: ‘Bisogna che nasciate di nuovo’». (Vangelo secondo Giovanni, 3, 3-7) Se siete morti con Cristo …se dunque siete stati risuscitati con Cristo … poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, la vita nostra sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifesti in gloria. Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e la cupidigia che è idolatria. Per queste cose viene l’ira di Dio sugli uomini ribelli. E così camminaste un tempo anche voi, quando vivevate in esse. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene. Non mentite gli uni agli altri perché vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue opere e vi siete rivestiti del nuovo, che si va rinnovando in conoscenza a immagine di colui che l’ha creato. Qui non c’è Greco e Giudeo, circoncisione e incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. (Epistola di S.Paolo ai Colossesi, 3)

Ecco ora il testo di Spinoza: E quando percepiamo questi effetti, allora possiamo dire con verità di essere nati di nuovo. Infatti la nostra prima nascita è avvenuta quando ci unimmo con il corpo, da tale unione sono sorti gli effetti e i movimenti degli spiriti. Ma questa nostra altra o seconda nascita avverrà quando percepiremo in noi gli effetti completamente diversi dell’amore, costituito secondo la conoscenza di quest’oggetto incorporeo. E tanto differisce dalla prima, quanta è la differenza di corporeo e incorporeo, spirito e carne. Questa può essere chiamata perciò con maggior diritto e verità la rigenerazione, poiché solo da quest’amore e da questa unione segue, come mostreremo, una stabilità eterna e immutabile. (KV, II, 22, ,§ 7)

Al di là del riferimento comune ad una conversione etica, balzano agli occhi due somiglianze: la rinascita secondo lo spirito e la rinascita in Dio (attraverso Cristo che è lui stesso, secondo Paolo, un secondo Adamo).34 Ecco che elevazione spirituale attraverso la conoscenza e unione partecipativa con Dio coincidono con il mito cristiano. Ma non è questo l’essenziale: ci domandiamo in che misura Spinoza pen-

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Cfr, Paolo, Epistola ai Corinti, 1, 15-45.

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sa effettivamente la conversione etica come una seconda nascita, in che misura una tradizione religiosa ha potuto inspirare un insieme di concetti filosofici, senza essa stessa in quanto tale introdursi in tale insieme. Nelle Riflessioni metafisiche Spinoza mette in guardia contro i possibili slittamenti dal senso proprio al senso figurato della parola «vita»: «Sebbene questo termine sia spesso assunto in senso traslato per significare i costumi di un uomo»35 ed egli nota che il cambiamento dei costumi è «quella mutazione nella quale non si da alcuna trasformazione del soggetto»,36 non è assimilabile ad una trasformazione. Ora, questo è invece ciò che sembra fare l’apostolo dal momento che identifica il cambiamento di modo di vita con una nuova vita, benché l’idea della trasformazione sembri giustificata logicamente dalla radicale eterogeneità di corpo e spirito. Bisogna non vederci altro che un modo d’esprimersi improntato all’immaginario cristiano del suo cerchio di auditori? Di certo, dato che la rottura inerente alla transizione etica è una «riforma» e non una trasformazione, anche se essa implica una rottura che si tratta precisamente di pensare. Ma la questione è sapere in che misura – per riprendere il tema della V parte dell’Etica – l’immagine è conforme all’ordine dell’intelletto. Il capitolo 26 ci ha permesso di intravederlo: l’immagine dei due elementi conduceva a pensare la vita passionale come uno stato di alienazione, in cui l’uomo cerca di godere di un elemento che non è il suo in quanto si forgia una idea fittizia della sua propria natura. La vita passionale era la sua perdizione perché lo poneva nella situazione di vivere o di impegnare tutte le sue forze per vivere in un modo non umano, come se fosse un essere di altra natura. Di conseguenza la transizione etica consiste nel compiere il tragitto inverso, muovendo da tale vita invivibile, nella quale l’uomo tendenzialmente diventa un altro, verso la vita che è la propria – e non solo verso il modo di vita che gli corrisponde. Si vede, in effetti, che non si tratta più solamente di modi di vita differenti; di contro, se uno di essi può trovarsi svalutato a profitto dell’altro è perché esso tendenzialmente esprime una vita ontologicamente altra da quella del proprio soggetto e lo mette in pericolo (vedremo come il Trattato dell’emendazione dell’intelletto accentua e drammatizza tale aspetto). La transizione etica appare dunque come il contrario di una trasformazione tendenziale: oltrepassa nell’altro senso la linea dell’eterogeneità. O piuttosto, dato

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CM, II, VI. CM, II, IV.

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che il soggetto non cessa di approssimarsene come ad un limite asintotico, installandosi in pericolosa vicinanza della morte, il movimento di conversione gli permette di sfuggire a ciò che legittimamente può dirsi la sua attrazione, nella misura in cui l’eterogeneo era pur l’oggetto di un amore. «Nuova nascita», allora, non è più solo un’immagine forte, un’allegoria spettacolare. Essa corrisponde pienamente alla logica messa in atto. Quest’ultima non era forse decifrabile attraverso le parole di Cristo secondo Giovanni? «Non mentite gli uni agli altri perché vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue opere e vi siete rivestiti del nuovo, che si va rinnovando in conoscenza a immagine di colui che l’ha creato». Si tratta d’imparare a percepire noi stessi come un altro, che vive alla maniera di un altro che noi non siamo e di far diventare vecchio questo nostro altro-noi man mano che la sua alterità si rivela. Distorceremmo comunque il senso del Breve trattato volendo privilegiare eccessivamente l’opposizione stesso/altro, proprio / estraneo, dimenticando che tale opposizione continua a dipendere da quella del corpo e dello spirito; non comprenderemmo inoltre perché Spinoza non ha mai più ripreso esplicitamente il tema della nuova nascita. Come può invocare una «rigenerazione» quando si tratta per l’anima di convertire solo il proprio amore e non di trasformarsi essa stessa? Il Breve trattato presenta una configurazione logica che assume il paradosso della «rigenerazione», ossia di una trasformazione del medesimo: la curiosa teoria dell’amore, non priva d’equivoci.

3. L’equivoco dell’«unione» Spinoza sviluppa nel Breve trattato una concezione che in seguito abbandonerà benché essa getti le linee di una logica della salvezza che troverà il proprio compimento nell’ultima parte dell’Ethica. Si sa che il tema della salvezza attraverso una conversione attiva, intellettuale, di un amore d’ora in poi rivolto verso Dio, non è invenzione di Spinoza: esso appartiene piuttosto a un certo «senso comune» dell’epoca. Già nel Rinascimento, Giordano Bruno aveva distinto due forme di amore, una passiva, l’altra attiva; Descartes pone anch’egli tale distinzione e il «Grand siècle» si conclude in piena «querelle du pur amour» (Fénelon e Bossuet). Ciò che qui cattura la nostra attenzione è – da un lato – lo statuto quasi ontologico dell’amore nel Breve trattato, che solleva il 75

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problema dell’essenza e della trasformazione; da un altro lato – la logica partecipativa, in funzione ben inteso dell’identificazione di Dio e di Natura, che permette di evitare il classico problema della «teandria», fusione di due esseri di diversa natura che, dal punto di vista di Spinoza, viene apparentato alla chimera. L’unione ha come effetto paradossale un tutto composto da due cose differenti: «intendiamo un’unione tale per cui l’amante e l’amato costituiscono una medesima cosa e formano, insieme, un tutto». Ora, noi non esistiamo affatto fuori da tale tutto: «dunque è necessario non esserne liberi perché, data la debolezza della nostra natura, non potremmo esistere senza godere di qualcosa con cui essere uniti e rafforzati».37 Ma il tutto è composto di cose differenti, occorre dunque che l’unione possa distinguersi dalla chimera. Spinoza non nega la differenza di essenza tra i termini uniti: l’uomo si unisce abitualmente a cose che possiedono poca o nessuna essenza.38 Nello stesso tempo egli afferma che «l’essenza della cosa non aumenta per l’unione con un’altra con cui forma un tutto; al contrario, la prima rimane immutabile». Tuttavia egli avanza che l’ente unito a cose carenti di essenza tende a subire la loro sorte,39 o che gli effetti dell’unione dipendono dall’essenza della cosa alla quale siamo uniti. 40 Vero è che il primo enunciato proviene da uno dei due Dialoghi; ma nulla, nel corpo stesso del testo, viene detto pro o contro esso. È difficile conciliare l’idea di un tutto o d’una medesima cosa con l’idea che gli esseri uniti sono di differente essenza: la nota sugli effetti sembra indicare che l’amato imponga il suo proprio destino all’amante, lo conduca a regolarsi sulla sua natura – detto in sintesi, che l’esistenza dell’amante si conforma ad un’essenza altra dalla sua. Inoltre, la salvezza risiede nella conversione del nostro amore verso un altro oggetto (Dio) la cui essenza non è comunque identica alla nostra, così come la relazione logica non è dello stesso tipo. Se tuttavia l’eterogeneità delle essenze non fa problema è perché Spinoza ritiene di risolvere la difficoltà mediante la relazione epistemologica del tipo idea-oggetto. Tale soluzione è sorprendente, sia perché identifica così l’amore come relazione epistemologica forte (unione), sia perché ne risulta – tramite la concezione della mente come «idea del corpo» – che la mente ama il corpo. Questo ultimo tratto sarà assente

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KV, II, cap.5,§ 5. Ibidem. KV, II, cap.5,§ 6. KV, II, cap.22,§ 5.

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nell’Etica: esso testimonia una lontana ispirazione platonica, seguendo la quale il desiderio si volge verso i corpi esterni attraverso il legame dell’anima al proprio corpo, Nel Breve trattato, il concetto di «idea del corpo» permette di porre sullo stesso piano, analogicamente, il rapporto con il corpo proprio e il rapporto con Dio (gli altri corpi, evocati un istante, sono presto obliati). Se la chimera è evitata è perché Spinoza costruisce il proprio concetto d’unione sul modello del rapporto epistemologico che combina due nature senza confonderle (in luogo dell’idea fittizia di una mente estesa). Ma il corpo e la mente sono davvero di differente natura? Ammetterlo significherebbe anche pluralizzare Dio, contestando l’assegnazione degli attributi pensiero ed estensione ad una medesima essenza. Vediamo il testo: «Infatti assumete che il corpo sia unito con la mente secondo la comune dottrina di filosofi; tuttavia il corpo non comprende mai né la mente diviene estesa, perché allora una chimera, nella quale concepiamo due sostanze, potrebbe divenire una sola sostanza, e ciò è falso».41 Questa nota, che compare solo in uno dei due manoscritti (manoscritto B) necessita di attenzione. Essa sopraggiunge nel contesto dell’obiezione posta ai fautori delle facoltà, che considerano l’Intelletto e la Volontà come enti reali. Spinoza vuole semplicemente mostrare, tramite l’analogia con corpo e mente, il non-rapporto che separa irriducibilmente le due pretese facoltà, e che di conseguenza rende impensabile il loro funzionamento congiunto oppure il passaggio dall’una all’altra. Il procedimento è acrobatico, in quanto l’analogia non è possibile se non adottando temporaneamente il punto di vista dell’avversario: Spinoza non intende ridurre al minimo il dualismo di corpo e di mente, ma piuttosto mostrare che esso non è numerico, bensì formale. D’altra parte la chimera designa generalmente la confusione di due essenze sotto il medesimo attributo. Ma non si tratta infine del caso, o per lo meno della tendenza illusoria, che Spinoza stigmatizza? La concezione o la non- concezione tradizionale dell’unione della mente e del corpo consiste nel cercare una transizione dall’una all’altro su di un piano omogeneo. È la critica che verrà mossa a Descartes e alla sua famosa ghiandola pineale, nella prefazione alla V parte dell’Etica: il preteso punto di scambio tra mente e corpo appartiene ancora all’estensione, esso consiste nel legarli sotto un medesimo attributo come se si trattasse di due nature differenti. Concependo dunque il rapporto di amante e amato in senso stretto sul modello epistemico di una relazione oggettuale, l’unione non corre più il rischio di produrre una chimera.

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KV, II, cap.16,§ 3, nota 4.

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Comunque il problema rispunta. Spinoza non dice di certo che corpo e mente differiscono per essenza: il concetto della mente come «idea del corpo» implica che esso abbia l’essenza del suo oggetto – «la nostra mente, essendo una idea del corpo, ha dal corpo il suo primo essere» .42 Ma allora, la mente non va a mutare di natura – a trasformarsi – unendosi ad un altro oggetto? Il corpo al quale la mente è «unita» non si trasforma senza che anche la mente stessa si trasformi. 43 Infine, l’unione con quella cosa immutabile ed eterna che è la natura divina sconvolge radicalmente la vita di un uomo, e l’ampiezza o lo stato di tale sconvolgimento restano per l’appunto da definire. La teoria dell’amore e della sua conversione esige una relazione percettiva della mente al corpo proprio e poi a Dio, e si accorda così al concetto di «idea del corpo»; ma essa diverge seriamente sulle conseguenze del cambiamento d’oggetto. È l’equivoco della salvezza o della conversione: perfezionamento o trasformazione? Spinoza cerca la formula filosofica della «seconda nascita»: un rinnovamento del medesimo, una rottura che non sia trasformazione. Se la salvezza è dalla parte dell’utile o del nostro proprio elemento, la «reintegrazione» ha per oggetto di condurci a riposare in noi stessi: una trasformazione annullerebbe ogni idea di salvezza o piuttosto non sposterebbe il problema, non avendo l’essere nuovo guadagnato propriamente nulla dalla «sua» metamorfosi. La teoria dell’amore del Breve Trattato è dunque posta in tensione tra due linee logiche opposte. Ora, conformemente al concetto di mente come «idea del corpo», l’essenza non è indipendente dall’oggetto, l’amore essendo una relazione essenziale; ora, il testo ci suggerisce che la mente costituisca da sola l’essenza di un uomo, il corpo non essendo che uno dei suoi oggetti possibili, indifferente alla sua essenza. Sembra che Spinoza tenti di far coesistere la nuova concezione della solidarietà mente/corpo, che trionferà nell’Etica, con il vecchio schema morale seguendo il quale solo la nostra anima ci appartiene,

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KV, II, cap.22, § 5, nota. Si obbietterà ben inteso che le note del KV non sono contemporanee al corpo del testo. Tuttavia teniamo presente che Spinoza non ha ritenuto opportuno rivedere il testo, ma solo aggiungervi note e appendici. Siamo dunque legittimati a esaminare la compatibilità dei concetti di unione e di idea corporis: la maggior anzianità del primo non lo rende affatto obsoleto ma oggetto di una implicita reinterpretazione. Il Breve trattato non è un palinsesto ma un originale il cui senso senza dubbio non è più lo stesso quando Spinoza lo rilegge per annotarlo. 43 KV, II, Prefazione, 2, nota, § 10.

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mentre il corpo è una potenza straniera. Spinoza ha già una teoria del corpo proprio, ma la sua teoria dell’amore la contraddice. A dir il vero, il testo regge al prezzo di una coesione assai debole. Se in effetti l’idea muta al mutare del suo oggetto, l’unione con qualcos’altro plasma altrimenti anche noi stessi: la salvezza, a tali condizioni, non è una metamorfosi? Inoltre, prima di parlare di unione della mente con il corpo, Spinoza evoca l’unione con cose effimere: se seguiamo tale ragionamento, la mente non dovrebbe divenire idea non solo del corpo ma di molti altri oggetti? Non diviene mente di qualcos’altro? La lunga nota del Breve trattato fa solo menzione della nascita e della morte, ossia di trasformazioni del corpo proprio: la mente non si trasforma abbandonando il corpo per qualcosa di altro, ma assumendo il contraccolpo delle trasformazioni del corpo. Ancora una volta, il testo sovrappone e a tratti unifica degli strati teorici eterogenei. Spinoza inizia con il dire che l’idea e il suo oggetto sono necessariamente uniti in quanto «l’una non può esistere senza l’altro»:44 ciò vale dunque anche per il rapporto tra mente e corpo. In seguito, considerando Dio, egli afferma che la nostra unione con lui è naturale poiché «senza di lui non possiamo né esistere né essere concepiti».45 Si avverte sia la somiglianza sia la asimmetria di tali due relazioni: la seconda è senza reciprocità. O meglio la prima è una relazione di reciproca presupposizione, in quanto ciascuno dei termini ha senso solo in relazione all’altro; la seconda è una relazione d’implicazione, pensata sul modello della partecipazione. La nostra idea presuppone quella di Dio perché noi partecipiamo di lui; senza dubbio la relazione tra idea e oggetto acquista un valore ontologico con l’idea di corpo, ma non di meno non differisce dal rapporto tra parte e tutto. Infatti, è solo perché l’anima diviene l’istanza di riferimento, assumendo tendenzialmente su di sé tutta l’essenzialità dell’essere umano, che il rapporto con il corpo proprio e il rapporto con Dio possono apparire sullo stesso piano, come concorrenti. Giacché la questione è proprio quella della loro concorrenza: non è solo un effetto retorico, legato alla drammatizzazione del processo di salvezza? Se siamo uniti a Dio per natura, allora l’unione non si confonde con l’amore che ne è solo la forma cosciente. Per questo Spinoza parla de «l’unione che abbiamo con lui mediante la natura e l’amore».46 Di contro, una

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KV, II, cap.20,§ 3, nota, punto 10. KV, II, cap.22,§ 3. KV, II, cap.22,§ 4.

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volta compiuta la conversione, l’unione con Dio relega in secondo piano l’unione con il corpo, che resta comunque. Questo porta infatti a relativizzare il paradosso della conversione: l’amore, differentemente dall’unione, non ha ruolo ontologico e noi non dobbiamo credere che Spinoza limiti l’essenza all’anima. Contro alcune delle sue formulazioni, occorre considerare amore e unione per certi versi distinti. Ogni uomo nasce, da una parte, unito ad un corpo (come «causa prima» della sua anima, «prima cosa» che essa percepisce),47 dall’altra, unito alla Natura-Dio. Ma il suo amore, quello, è esclusivo e si rivolge sia al corpo e a ciò che l’affetta, sia al solo Dio. Questa lettura ovviamente non è del tutto giustificata. Noi inciampiamo di nuovo in formule che minano il concetto di «idea di corpo» identificando l’unione e l’amore: «se la mente è unita solo (alleen) con il corpo, e il corpo viene a morire, allora anch’essa deve morire; infatti, mancando del corpo, che è il fondamento del suo amore, deve annientarsi con esso».48 Di contro, se la mente è giunta a unirsi a Dio, il corpo non la trascina più con sé nella morte: essa viene sciolta dalla sua unione con il corpo e questo non è dunque più essenziale. Spinoza sviluppa così una concezione molto astratta: l’unione con il corpo diviene un caso tra gli altri, un complesso del tutto arbitrario e accidentale che ha come solo privilegio quello d’essere il primo nella vita della mente e che può essere sciolto: «la mente, essendo un’idea di questo corpo, è talmente unita con esso da formare un tutto con questo corpo così costituito».49 E soprattutto: E poiché la prima cosa che la mente conosce è il corpo, ne deriva che la mente lo ama tanto ed è unita ad esso. Ma […] poiché vediamo in modo chiaro e distinto che un amore viene distrutto dal concetto che formiamo di qualcos’altro che è migliore, da ciò segue chiaramente che, quando veniamo a conoscere Dio almeno con una conoscenza così chiara come quella con cui conosciamo il nostro corpo, allora dobbiamo anche essere uniti con lui più strettamente che con il nostro corpo ed essere come distaccati da questo. Dico: più strettamente, perché prima abbiamo già dimostrato che senza di lui non esistiamo né possiamo essere concepiti. E ciò avviene perché lo conosciamo e lo dobbiamo conoscere non attraverso qualcos’altro, come accade con tutte le altre cose, ma soltanto mediante lui stesso, come abbiamo già detto anche in precedenza. Lo conosciamo perfino meglio di noi stessi, poiché senza di lui non possiamo in nessun modo conoscere noi stessi. (KV, cap.19, § 14)

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KV, II, cap.22,§ 5. KV, II, cap.23,§ 2. KV, II, cap.19,§ 9.

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Questo passaggio lascia intendere una contemporaneità delle due unioni, delle quali l’unione con Dio risulta essere solo la più stretta e implica un distacco riguardo all’unione con il corpo. Tale superiorità di una sull’altra deriva dal fatto che noi siamo uniti a Dio in un’implicazione essenziale dato che ne siamo una parte. La vita rivolta a Dio è tale distacco relativo che conduce a una sopravvivenza della mente al di là della morte del corpo. Ma Spinoza ha talvolta degli accenti più netti, come se l’unione fosse essa stessa esclusiva e non solo l’amore: «Inoltre abbiamo osservato che la mente può essere unita o con il corpo, del quale è l’idea, o con Dio, senza cui non può né esistere né essere concepita (of met het lichaam…of met God…)».50 Ora, se la mente può così prendere congedo dal corpo senza rinunciare alla sua propria essenza, bensì al contrario può perfezionarsi e assicurarsi la salvezza, ciò significa che tutta l’essenza di un uomo vi si condensa. Niente lo dice meglio di questa nota, al momento di invocare la «rigenerazione»: «infatti la nostra prima nascita è avvenuta quando ci unimmo con il corpo».51 A complicare vieppiù le cose, il concetto di «idea del corpo» contamina l’analogia dei due rapporti, con il corpo proprio e con Dio, e sembra quindi supporre una certa fusione o identificazione con Dio. Ecco risorgere lo spettro della trasformazione, in modo questa volta compatibile con la salvezza dato che essa implica una elevazione – un’apoteosi. Se vi è pur un’analogia, in effetti, tra i due rapporti, e d’altro canto tra le due relazioni all’oggetto che sono l’amore e la conoscenza, allora la mente da idea del corpo, quale essa originariamente era, diviene idea di Dio – seppur «in qualche modo» (eenigzins) e non «come è» (zo hy is), ossia come egli stesso si pensa.52 Tale fusione è dunque parziale, o piuttosto unilaterale, senza reciprocità. È sintomatico che taccia qui sulla questione dell’essenza, benché abbia suggerito che l’essenza stessa non fosse modificata dall’amore.53 Non è di

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KV, II, cap.23,§ 1. KV, II, cap.22,§ 7. 52 KV, II, cap.22,§ 2. 53 KV, Secondo dialogo,§ 4. I commentatori testimoniano tutti il loro imbarazzo a proposito. Gilbert Boss, riferendosi implicitamente all’ eeningzins del cap. 22, suggerisce che l’anima «può anche divenire in una certa misura una Idea di Dio» (G. Boss, op. cit., p.152), ma non rileva la difficoltà che una tale proposizione implica: l’anima cessa allora di definirsi idea del corpo? E in quale misura s’identifica con Dio? Egli va a finire in una formula che sa inaccettabile, ma che ha il pregio 51

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meno sintomatico che tale idea alla fine del testo venga contraddetta, se quanto meno, nel capitolo 26, si interpreta dinamicamente la prima proposizione del § 8: «quanto più le cose sono unite a Dio dalla loro maggiore essenza». La lettera del testo suggerisce una gerarchia tra gli esseri naturali ma Filippo Mignini legge qui una crescente partecipazione all’essenza divina.54 Poiché tale è la relazione di partecipazione che permette una identificazione parziale senza alterazione dell’essenza. Quando Spinoza dice che l’unione con Dio si rinforza, vuole parlare della nostra coscienza di tale unione; ma resta vero che tale coscienza sintonizza il modo di vivere dell’uomo con la condizione ontologica che è la sua, così che è possibile parlare di rafforzamento o d’intensificazione di tale unione nel senso ontologico del termine. Per riassumere, se ci chiediamo perché Spinoza ha rifiutato tale prima concezione dell’amore intellettuale di Dio, la ragione principale è la contraddizione tra il concetto di mente come «idea del corpo» e l’analogia che porta a considerare sullo stesso piano, in modo molto astratto, l’unione con la natura-Dio che costituisce la conversione etica e l’unione con il corpo. È l’intero equivoco di un rapporto epistemico immediato concepito come amore. Nell’Etica tale equivoco sarà tolto sia tramite l’abbandono dell’analogia (e dell’idea correlata, dipendente dalla tradizione, dell’amore del corpo), sia attraverso la creazione di un nuovo concetto, l’essenza del corpo espressa sub specie aeternatatis (Eth, V, 29, sch.). Non sarà più posta in questione una seconda nascita, per la carne prima, poi per lo spirito, e la filosofia come pratica dovrà trovare una nuova immagine per se stessa.

d’indicare molto precisamente, benché di sfuggita, il problema: «Il saggio accede effettivamente, attraverso una ‘seconda nascita’, ad una immortalità che non è più quella del corpo sensibile, ma quella del suo nuovo corpo, se si può dire, ossia quella dell’essere eterno che è diventato l’oggetto del suo amore». (p.153) G. Boss invoca insomma un corpo mistico, quello di Dio o del suo Figlio, richiamando non più il Battesimo ma l’Eucarestia. Si sa quale sarà a tale riguardo la trovata geniale dell’Etica: la mente «esprime l’essenza del corpo sotto l’aspetto dell’eternità» (Eth, V, 23 sch.). Ci si richiama a riguardo al commento di Filippo Mignini: «Ma poiché il soggetto dell’amore verso Dio è la mente intesa pur sempre come idea del corpo, come potrà quell’amore non solo sussistere ma conservarsi come parte imperitura di quella stessa mente quando questa verrà meno?». (F. Mignini, Commento a KV, op. cit, p.723-724) F. Mignini sottolinea come nell’Etica l’immortalità della mente sarà fondata sulla definizione di quest’ultima come idea dell’essenza del corpo, che in quanto tale è eterna. 54 F. Mignini, Commento a KV, op. cit., p.749.

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2. LA TRANSIZIONE ETICA NEL TRATTATO DELL’EMENDAZIONE DELL’INTELLETTO55 Spinoza pone dunque una seconda volta la questione della transizione. L’interesse del Trattato sull’emendazione dell’intelletto per la nostra ricerca è il seguente: 1° il problema è quello dell’incompatibilità di due instituta vitae; 2° ciascuno di loro si caratterizza per un tipo di «amore» particolare (o di determinazione del desiderio) 3° l’institutum originario del quale noi dobbiamo elaborare il lutto tradisce uno stato di tendenziale trasformazione.

1. Logica della transizione etica: conversione e dilemma L’importanza del prologo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto sta nel proporre il racconto della transizione. Come è noto, la prima frase – di una eccezionale densità – introduce il lettore nella doppia temporalità della cesura (Postquam me experientia docuit [...])56 e dell’indugio (constitui tandem inquirere [...], ripreso con insistenza all’inizio della seconda frase, Dico, me tandem constituisse [...]).57 Pierre-François Moreau58 ha mostrato come i due enunciati che dovrebbero costituire a prima vista il contenuto della lezione empirica, non rinviino al medesimo momento: (Postquam me experientia docuit, omnia, quae in communi vita frequenter occurunt, vana, et futilia esse [...]59 e cum viderem omnia, a quibus, et quae timebam, nihil neque boni, neque mali in se habere, nisi quatenus ab iis animus movebatur, [...]60 sono separati, nella cronologia soggettiva, da un intero periodo precario al quale rinvia l’avverbio tandem. Già Leon Brunscvicg sottolineava che tale frase introduttiva riassume da sola tutto

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Dato che l’analisi che segue s’incentra particolarmente su dettagli letterali del testo, ci è parso preferibile, sebbene pedante, citare direttamente il latino e rinviare in nota la traduzione. 56 «Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato[…]». (TIE, [1]) 57 «decisi infine di ricercare[…]». (TIE, [1]), «Dico decisi infine». (TIE, [2]) 58 P.-F. Moreau, Spinoza. L’expérience et l’éternité, Paris, PUF, 1994. 59 «Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili[…]». (TIE, [1]) 60 «e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato […]». (TIE, [1])

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il percorso descritto nel prologo.61 Si concorderà tanto più volentieri con la conclusione di Pierre-François Moreau secondo cui il secondo enunciato ricompare al § 9, per l’appunto al tempo della scoperta, e nel suo versante discendente, appena dopo il parossismo del § 7. La cesura iniziale è dunque a doppio scatto, e comporta una durata concreta che conduce il soggetto dall’iniziale insegnamento empirico, che avvia il processo, alla «emendazione» propriamente detta (emendatio), annunciata dal titolo. Tale insegnamento, in effetti, che induce indubbiamente una tendenziale disaffezione verso le occupazioni della vita ordinaria, non è ancora sufficiente per effettuare ciò che si presenta come una rinuncia necessaria (rejectis caeteris omnibus[...]), 62 la quale implica – proprio come nel Breve trattato l’ignoranza e le passioni non vengono abbandonate prima che si dia conoscenza poiché è la conoscenza che le fa arretrare – una conversione positiva dell’affettività verso un altro tipo di oggetto. 63 Ora – e qui è la ragione dello spazio

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L. Brunschvicg, Spinoza et ses contemporains, Paris, PUF, 5°, 1971, p.4. Brunschvicg ha l’originalità di non citare la frase iniziale se non al termine della sua parafrasi del prologo. Egli lasci tuttavia intendere che il giudizio vana et futilia, che egli non separa dall’enunciato sul bene e sul male, giunge alla fine del processo. Così egli presenta le cose come se Spinoza, all’inizio, fosse solo mosso da una curiosità teorica, o da un vago imperativo morale: «Gli uomini hanno generi di vita differenti, ognuno deve scegliere il proprio […]. Spinoza inizia con il considerare gli uomini intorno a sé. Come vivono? [...]». (L. Brunschvicg, op. cit., p.1) La sua intenzione è corretta laddove egli pone come centro dello spinozismo la domanda «come vivere? »; ma non va molto lontano, la domanda resta teorica per lui, mentre il prologo la fa sorgere dal corso stesso dell’esistenza. La sua parafrasi in cui la tensione dinamica si percepisce molto debolmente, presenta un soggetto volontario di stile cartesiano: «a forza di meditare tale contraddizione egli si volge verso il rimedio[…] egli fu indotto a cercarlo con tutte le forze » (L. Brunschvicg, op. cit., pp.3-4), tradendo la lettera del testo: cfr. infra, le note sull’uso del verbo cogo, spingere, forzare, costringere. All’opposto, Victor Delbos, che comincia ugualmente il suo libro con l’evocazione del prologo, pone l’accento su ciò che divide il dubbio spinoziano dal dubbio cartesiano: «Il dubbio da cui parte Spinoza è un dubbio pratico, generato e rafforzato da inquietudini, da delusioni, da tristezze reali: di qui la necessità urgente di superarlo. Si può fare a meno della scienza, non della vita». (V. Delbos, Le probléme moral dans la philosophie de Spinoza et dans l’histoire du spinozisme, Paris, Alcan, 1893, p.16) 62 «abbandonate queste cose[...]». (TIE, [6]) 63 Cfr. la simmetria delle espressioni: ab iis animus movebatur […] e a quo solo, […]animus afficetur[…].

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aperto dall’avverbio tandem – il nuovo oggetto non è ancora conosciuto, e la sua scoperta si rivelerà presupporre a ritroso la rottura di cui inizialmente sembrava essere la condizione. L’originalità del prologo è di descrivere una complessa dinamica che risolve il dilemma, e che, agli antipodi di un metodo derivato da un ragionamento a priori, si scioglie solo attraverso un’esperienza irriducibile: noi vi vediamo un desiderio sospeso, preso tra la sua delusione e la sua incertezza, che va a scoprire passo passo le condizioni della sua propria ripresa. In che consiste il dilemma? Finché il vero bene non è noto, finché la sua esistenza e la possibilità di ottenerlo non sono certe, la prospettiva rimane quella del vuoto o del niente: primo enim intuitu inconsultum videbatur, propter rem tunc incertam certam amittere velle .64 I beni ordinari, anche se destituiti dal rango supremo, non sono uguali a niente: essi offrono dei «vantaggi» (commoda) certi. Così riprendono valore laddove li si compare al niente. Gli indugi descritti al § 2 sembrano così riproporre la questione di sapere se la suprema felicità consista nei beni comuni in un modo ipotetico o scettico che rompe con la certezza empirica enunciata nella prima frase. Sembrerebbe un movimento di riflusso: l’incertezza dell’alternativa ingenera una tendenza che controbilancia il movimento di disaffezione. La prima frase ipotizza dunque un mutamento radicale dell’affettività. Non di certo una trasformazione, dato che il soggetto – qui l’animus – si suppone implicitamente che resti uguale a se stesso; ma piuttosto una conversione, un mutamento radicale che affetta la scelta dell’oggetto di desiderio, segnato dall’oscillazione: ab iis animus movebatur/ a quo solo, rejectis caeteris omnibus, animus afficerentur. Da qui l’idea dell’abbandono e della rinuncia (amittere, abstinere, § 2 e § 6) che incombe su tutto il prologo, e che ne costituisce il dilemma. Di colpo è posta un’alternativa che pare compromettere in anticipo ogni soluzione compromissoria. Ora la pratica sopraggiunge immediatamente a contraddire la semplicità teorica di tale scelta: essa comporta una parte di rischio, in quanto l’alternativa non è che un vuoto concetto, l’idea di un bene del quale non possediamo che la forma senza ancora sapere se esiste o se può essere ottenuto. Dunque si dà come eventualità che tale scelta si effettui tra un tutto svalutato e il niente – il che comporta una riabilitazione almeno parziale o tendenziale del «tutto svalutato» (videbam nimirum commoda [...] et si forte

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«perché a prima vista sembrava sconsiderato voler rinunziare a una cosa certa per una ancora incerta».(TIE, [2])

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summa felicitas in iis esse sita [...],65 ipotesi che in se stessa viene a contraddire la conclusione della prima frase). Ma l’altra eventualità è quella che “optando per questo tutto” si comprometta la possibilità di ottenere il bene supremo. Il dilemma sta dunque in questo: il raggiungimento della certezza rispetto al secondo termine della scelta dipende dalla scelta stessa. Già nel Breve trattato l’ipotesi dell’assenza di vita eterna comporta la rivalutazione dei beni ordinari, agli occhi dei «grandi teologi». Tuttavia, qui Spinoza denunciava un sofisma, ed egli contava sulla forza della nostra disaffezione nei confronti dei beni comuni per sfuggire a tale illusione, il tempo almeno di scoprire il bene supremo e di gioirne. Si trattava allora di qualcosa di più che sola disaffezione: un sentimento di estrema tristezza – la perdizione – all’idea di continuare a perseguire tali beni. Spinoza non prendeva quindi sul serio il rischio di riflusso: non vedeva che un ragionamento contradditorio, non una necessaria tendenza soggettiva. Egli andava di filato alla questione dell’utile, laddove si rianimava lo sforzo di conservazione, la ricerca dei beni comuni non solo si attesta vana (non procurando alcuna salvezza) ma rovinosa, vettore di perdizione. Nel TIE, al contrario, la dimostrazione attraverso l’utile, che ha per oggetto la trasformazione di un’indifferenza crescente in repulsione, non comincia che al § 6: occorre aspettare che la questione divenga soggettivamente necessaria. Noi evochiamo un riflusso, dopo lo slancio iniziale: ma non è la stessa scrittura del prologo ad obbedire ad una logica di flusso e riflusso? Si è spesso qualificato come formalismo il modo in cui Spinoza presenta i suoi indugi anticipandone chiaramente l’esito. Il regime di scrittura richiesto per il problema posto non potrebbe comunque essere quello della suspance. Lo studio del prologo è disagevole e il lettore è incline a incolparne la costruzione maldestra: non si discerne alcuna chiara concatenazione, malgrado la generale progressione ed ogni tentativo scolastico di suddivisione sembra scoraggiato in anticipo. Il § 1 presenta due eventi: la lezione empirica e la risoluzione che ne segue. Il § 2 ritorna sulla conclusione del precedente per approfondire uno scarto tra lezione e risoluzione, in ragione del dilemma dei guadagni e delle perdite, essendo uno dei rami dell’alternativa assai incerto. I § 3, 4 e 5 rifiutano una prima soluzione che sarebbe quella di compromesso, per il motivo che i modi d’esistenza in lizza si escludono

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«Vedevo senza dubbio i vantaggi[...] se per caso la suprema felicità fosse posta in essi». (TIE, [2])

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vicendevolmente; tali paragrafi propongono una prima digressione sui tre beni perseguiti ordinariamente: voluttà, onori, ricchezza. I § 6, 7, 8 e 9, forti di tale esclusione reciproca, sollevano la questione dell’utile e richiamano il dilemma per attenuarne subito la vastità. Comincia allora una nuova digressione sui tre beni, il cui scopo è mostrare il loro carattere dannoso (è la vera soluzione); a questo stadio, la risoluzione è presa. I § 10 e 11, per contrasto, presentano la forma del vero bene, ma ritornano su una riserva formulata in precedenza riguardo la capacità di assumere la decisione presa (§ 7) per rispondervi attraverso la dinamica dell’esercizio e la riabilitazione relativa dei tre beni a titolo di mezzi (supplemento della soluzione). Quindi il dilemma è tolto e la scrittura può riprendere senza ostacoli in maniera lineare la sua andatura enunciatrice. È noto che la soluzione del dilemma è agli antipodi della scommessa; Spinoza è chiaramente alla ricerca di una dinamica di scelta che escluda l’atto di fede. Nondimeno egli si guarda bene dal semplificare il problema annullando il paradosso di una scelta in sé già decisa. L’esito sta allora in una dinamica interna al dilemma. Ed è il secondo impatto con l’esperienza nel cammino dell’«emendazione»: il testo moltiplica i videbam, viderem, vidi, «io vedevo», «io vidi» – detto altrimenti, imparavo passo passo, facendo, e non ragionando. Nel Breve Trattato la dinamica della salvezza era posta nell’acuto sentimento di perdizione, poi nell’esperienza positiva di una gioia inaudita, la prima essendo il perno di un capovolgimento, la seconda – il momento d’iscrizione nell’irreversibile. Nello stesso modo qui, l’ultimo tentativo oltre ogni speranza di un malato grave (§ 7), guizzo puro in quanto immotivato della vita, provoca e trova sul proprio cammino l’esperienza che lo esaudisce – al tempo stesso promessa di gioia e fugace anticipazione, quantunque proprio reale, di tale gioia, promessa ben più affidabile di quanto essa stessa desse a vedere e a pregustare ciò che promette. Vi è qui una sorta di provvidenza immanente, felice incontro dovuto esclusivamente agli sforzi del solo soggetto, alla sua vitale caparbietà, non a qualche concorso esterno. La fede non salva, per Spinoza – bensì la forza, bensì la sorda protesta della vita. È comunque da notare che, a differenza del Breve Trattato, l’estremo sforzo non sia stavolta disponibile in anticipo. La coscienza dell’utile è all’ordine del giorno solo a partire dal § 6. Infatti – l’avverbio enim del § 7 lo chiarisce – il rimedio è incerto, ma la sua ricerca, sostenuta da un supremo pericolo, diviene per sé bonum certum. Allora rinasce la speranza, vuota ma di natura diversa dalle speranze prima evocate al § 5. Ciò che è bene certo, sovranamente buono, è da 87

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cercare nell’evitare la morte e nel conservarci nella forma d’esistenza che è nostra (concetto del proprio utile). Il bene supremo dunque si anticipa esso stesso, senza contraddizione, nello sforzo che gli è infine dedicato. Il seguito mostrerà che non vi è differenza tra ricerca e possesso, la differenza è di grado, non di natura: il processo che porterà al rifiuto dell’ordinario e all’affermazione del nuovo “se non può dirsi concluso” è comunque intrapreso. Come definire allora la fase pratica che compie la transizione? È l’oggetto del § 11, che chiude ciò che comunemente si definisce il prologo. Spinoza qui ritorna a quella speranza al di là della speranza descritta al § 7, ultimo guizzo di fronte al supremo pericolo, per svolgerne le implicazioni. Egli richiama (fine del§ 10) la riserva allora formulata a proposito della ricerca: modo possem serio deliberare, «purché potessi decidermi seriamente». Lo slancio c’è, disponibile, ma tutto accade come se le condizioni del suo dispiegarsi manchino ancora. La conversione a malapena avviata deve ancora compiersi e la partita non è giocata: nam quamvis haec mente adeo clare perciperem, non poteram tamenideo omnem avaritiam, libidinem, atque gloriam deponere.66 La condizione necessaria ad una conversione immanente – senza appello né aiuto – è richiesta, ma non basta ancora ad effettuarla. Non di meno la bilancia è d’ora in poi riequilibrata: la mente ha posto fine al suo «disorientamento», o al suo esclusivo impegno verso ciò che a torto considera il bene sovrano; anche se non è ancora conquistata esclusivamente dal vero bene, secondo l’esigenza del 1°paragrafo. Versabatur risponde a versari del § 7: non è più in direzione dell’«estremo pericolo» nel quale il soggetto «versa» oppure viene «assorbito», al culmine del suo «disorientamento», bensì in direzione dei pensieri che denunciano precisamente tale pericolo e per contro concepiscono la forma del vero bene. Così questo nuovo nascente orientamento si accompagna ad un movimento opposto, aversabatur, attraverso cui il soggetto «si distoglie» dai tre oggetti di desiderio corrente, compiendo ciò che la lezione empirica iniziale non faceva che abbozzare negativamente. La parola si oppone a distrahitur (§ 3-5) esprimendo un movimento contrario o correttivo – il movimento stesso dell’emendatio. Il movimento di conversione è dunque iniziato, ma

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«Infatti, benché con la mente percepissi in modo chiaro queste cose tuttavia non potevo per questo deporre tutta l’avarizia, il piacere e la gloria». (TIE, [10])

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è un movimento lento il cui esito non è sicuro, tutto il contrario di un’oscillazione immediata. Ora proprio questo costituisce la seconda rivelazione empirica, dopo la lezione iniziale: questo inizio di conversione è proprio l’intera conversione, ma in modo fugace. In effetti Spinoza dice senza equivoci che a tale stadio il bene supremo è conosciuto anche se tale conoscenza è perfettibile (postquam tamen verum bonum magis ac magis mihi induit […]);67ciò che, lo si riscontra, conferma l’identità tra ricerca e possesso. Ovvero, più esattamente, la ricerca è un possesso ancora troppo scarso e troppo breve. La mente scopre dunque il vero bene nel suo sforzo per cercarlo e secondariamente scopre che questa esperienza del vero bene ha una sua propria dinamica, detto altrimenti tende essa stessa a diventare più frequente (frequentiora, § 11) e più lunga. Un orecchio sensibile risentirà qui, in eco, il frequenter della prima frase del prologo: ora la parola non rinvia più alla reiterazione ciclica o discontinua che caratterizza la vita ordinaria, ma alla progressiva sutura di una durata segmentata che tende verso la continuità dell’eterno. Infine – terzo elemento di questa nuova rivelazione empirica – noi assistiamo alla correzione del problema iniziale che apre il campo definitivamente alla conversione. Il problema era mal posto finché nei tre beni che possono perire si vedeva il nemico; in verità il nemico è solo la tendenza che vede tali beni come supremo fine. Di conseguenza la conversione fa propria tutta la forza d’attrazione di queste tre istanze (ciò che il § 2 chiamava i loro commoda, i loro «vantaggi») finora diretta contro di lei: recuperati a titolo di mezzi, essi diventano degli aiuti preziosi: sed contra ad finem, propter quem quaeruntur, multum conducent […]68 Tutta l’iniziale resistenza alla conversione, che obbligava al drammatico percorso attraverso il pericolo sommo, per ivi destare l’energia decisiva, consisteva in effetti in quei «vantaggi» che non sfuggono a nessuno. Il problema mal posto aveva un corollario, il tentativo ingenuo e assurdo di un compromesso; si scopre adesso che i beni che possono perire sono conciliabili con l’institutum novum – più precisamente, a torto si credeva che essi costituissero l’institutum communi vitae. Spinoza non si accontenta dunque di mostrare l’impossibilità di un compromesso, dato che questo ci lascia davanti ad una aporia pratica che bisogna risolvere. Abbiamo ricordato che poteva costituire un pro-

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«dopo che il bene vero mi fu sempre più noto […]». (TIE, [11]) «al contrario, gioveranno molto al fine per il quale si cercano […]».(TIE, [11])

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blema, data l’alternativa del certo e l’incerto, abbandonare brutalmente i beni comuni, per quanto grande fosse la nostra delusione nei loro confronti. Ora sopraggiunge un nuovo appello all’esperienza: perveni, ut viderem[…] e poi hoc unum videbam […]Nam videbam […] postquam vidi […].69 Tale esperienza è quella della meditazione, che ci insegna due cose: una, teorica, benché abbia già un effetto pratico di persuasione, è la superiorità del bene cercato sui beni comuni. Senza dubbio non possiamo ancora giudicare il suo contenuto, ma ne conosciamo almeno la forma, quella di un bene stabile che procura gioia pura, propizio dunque ad assicurarci la salvezza, mentre la ricerca dei beni che possono perire ci allontana dalla cura stessa della nostra salvezza. L’altro insegnamento empirico è pratico: lo stesso esercizio della meditazione contribuisce a staccare il soggetto dai falsi beni, per lo meno durante il tempo della meditazione. Ora la pratica crea la sua propria abitudine, rafforzata dalla progressiva presa di coscienza del vero bene, e soprattutto dalla scoperta di una chiave di lettura: il problema è non tanto quello di rinunciare puramente e semplicemente ai falsi beni per potersi mettere alla ricerca del vero, quanto quello di ristabilire una gerarchia rovesciata, quella dei mezzi e dei fini. In tal modo si realizza che i falsi beni sono ugualmente dei beni, sebbene a titolo di mezzi, assoggettati all’ottenimento del bene sommo (mentre laddove la loro relatività non è compresa, appaiono erroneamente come i soli beni). Non ci si veda un ritorno al compromesso, subito eluso: l’incompatibilità tra gli instituta resta totale, ma la sua natura è corretta. Ciò che non può conciliarsi non sono i beni incerti e il bene stabile, ma un modo di vita che vede nei primi un bene in sé e un altro che vi vede solo un mezzo. D’ora in poi i commoda procurati attraverso i beni incerti non sono più un ostacolo, né una smentita, senza alternative, del sentimento di disaffezione che proviamo nei loro riguardi; non ci lasciano indifferenti, ma non vediamo più in essi la nostra salvezza. Il venire meno dell’equivoco favorisce l’abbandono del vecchio modo d’esistenza.

2. Il ruolo dello «sforzo» Non si sottolinea mai abbastanza l’importanza dell’idea di forza, di costrizione, di sforzo presente lungo l’intero prologo. Il dilemma,

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«giunsi a vedere[…]».(TIE, [7] e poi «Osservavo soltanto[…] vedevo infatti […] »dopo aver visto […].(TIE, [11]

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questo sforzo aberrante ma inevitabile per mantenere aperta la domanda irragionevole di compromesso, sfocia in quello che Spinoza presenta come il solo esito possibile: una riflessione intorno all’«utile». Per meglio dire, il dilemma costringe a pensare l’utile (cogebar inquirere, quid mihi esset utilius[…].70 Cogebar, che nel § 2 aveva un senso puramente logico, legato a un ragionamento ipotetico, assume d’ora in poi un senso dinamico o categorico, ancora più netto nel paragrafo seguente (Videbam […]me cogi, remedium, quamvis incertum, summis viribus quaerere; […]).71 È significativo che la riappropriazione del proprio sforzo che nell’Etica verrà pensata in termini di «attività» abbia come punto di partenza una costrizione. Non c’è contraddizione, ma il passaggio da un regime di necessità ad un altro, da una necessità costretta ad una necessità libera, come dirà la lettera a Schuller. Le formulazioni passive mostrano solamente quanto la decisione qui sia estranea ad una scelta volontaria di tipo cartesiano. L’effetto della costrizione corrisponde ad un grado di maturazione della mente tale che non può che risultarne la decisione o la conversione. Hoc unum videbam, quod, quandiu mens circa has cogitationes versabatur, tamdiu illa versabatur et serio de novo cogitabat instituto; […].:72 il soggetto assiste come spettatore alla mutazione della mente, che non è altro che la sua propria. Mai il soggetto in quanto tale è stato meno pensante; testimone operante, ma non volontario, del proprio divenir-attivo, egli si confonde con un processo al quale non comanda. Se l’entrata in scena del concetto di «utile» ci appare così decisiva è in quanto esso diviene il criterio in rapporto al quale gli instituta si contrappongono e in ultima istanza si gerarchizzano. E il momento della sua comparsa è anche quello in cui la dinamica si rilancia, d’ora in poi in favore della ricerca. Spinoza giustifica in due tempi l’opposizione o l’incompatibilità (opposita, § 6): all’inizio attraverso il «disorientamento» inerente alla ricerca dei tre beni perituri, in seguito tramite la rispettiva posizione dei due instituta riguardo all’utile o all’autoconservazione. Ma questi due tempi sono legati nella misura in cui il «disorientamento» non distoglie la mente dalla meditazione senza

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«ero costretto a indagare che cosa fosse più utile per me[…]».(TIE, [6] «Mi vedevo[…] costretto a cercare con tutte le mie forse un rimedio, per quanto incerto; […]».(TIE, [7] 72 «Osservavo soltanto che la mente, fino a quando si rivolgeva a tali pensieri, si distoglieva da quelle cose e pensava seriamente ad un nuovo regime di vita […]». (TIE, [11]) 71

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distoglierla da se stessa e dalla sua propria potenza. Riprendere la propria potenza – ci ritorneremo più avanti – è il principio più generale dell’«emendazione»; ora, è per il medesimo processo che le forze del soggetto riprendono la loro originaria funzione di autoconservazione e che il soggetto conquista la forza necessaria per il compimento della propria «emendazione». Sotto ogni aspetto, i § 6 e 7 costituiscono il punto d’inflessione del prologo, la soglia ove tutto si rovescia. Questo è il solo punto di divergenza con l’analisi di Pierre-François Moreau, che insiste sull’assenza, nel prologo del TIE, del concetto di «conato» (conatus) come lo espone la III parte dell’Etica73 e rimprovera Victor Delbos, che si è avvalso dell’idea di vita per comporre il suo commentario, di «congiungere l’esperienza della vita umana ai rapporti del conatus e della Ragione»74 In effetti, il concetto completo di «conato», pensato nel suo rapporto alla produzione e alla esplicazione, è assente nel prologo. Ma Delbos non lo suppone neppure lui, ci pare; ovvero, egli suppone tutt’al più lo «sforzo» quale è definito nei Pensieri metafisici, anteriori al prologo. Sforzo di una cosa per conservare il proprio essere;75 ed è precisamente qui la definizione che Spinoza offre della «vita».76 Indubbiamente i Pensieri sottolineano che vita si intende solo metaforicamente nel senso di costumi; ma rileggiamo i primi tre paragrafi del prologo: «vita comune» (communi vita), «ordine e regime abituale della mia vita» (ordo et commune vitae meae institutum), «le cose che si incontrano per lo più nella vita» (quae plerumque in vita occurunt). Non solo il termine è ben presente, ma si tratta d’organizzare la vita in altro modo, d’interrogarsi su un «nuovo regime di vita» (novum institutum). La vita, nel TIE, è una nozione diversificabile: in generi o in modi, diremmo; in instituta, dice Spinoza. Vedremo più avanti che la parola institutum ha la portata di un vero concetto, ma sottolineiamo fin da ora il presupposto evidente del prologo, fin dalla prima frase. Comune o non, la vita in generale si caratterizza per atti orientati verso la ricerca del sommo bene – dato che si può inferire a partire da essi il modo in cui tale bene si assegna: Nam quaue plerumque in vita occurunt, et apud homines, ut ex eorum operibus colli-

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P.-F. Moreau, op. cit., p..219 e segg. P.-F. Moreau, op. cit., pgg.51-52. 75 CM, I, 6. 76 Ibidem, II, 6 (benché egli impieghi qui la parola vis, «forza» in luogo di conatus. Ma si tratta del medesimo concetto). 74

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gere licet, tamquam summum bonum aestimantur.77 La vita appare, in generale, come una tensione in direzione della gioia.78 Il fatto che tale tendenza sia sempre investita in un oggetto preciso ma mutevole non impedisce comunque la sua presupposizione logica a titolo di concetto determinabile, come si direbbe in stile postkantiano; correlativamente, l’oggetto è lui stesso problematico, un puro desiderandum o quaerendum (§ 10). Senza il desiderio in generale, l’alternativa tra bene certo e incerto non s’imporrebbe affatto come un dilemma in quanto ci sarebbe posto per una vita indifferente al bene.79 Al § 7, tutti i pretendenti al titolo di bene sommo vengono sottoposti al criterio della «conservazione del nostro essere»: ora – secondo presupposto – il bene supremo concorrente dei beni comuni risulta superiore ad essi sia in relazione all’ utilità sia in relazione alla gioia. Tali due criteri coincidono nell’espressione valde desiderandum nel § 980, che rinvia esplicitamente all’idea del «rimedio» (attraverso la risonanza delle espressioni summis viribus quaerere, § 7 / totisque viribus quaerendum, § 9)81 e all’idea di gioia che viene ad essere espressa. Sembra che s’imponga la seguente inferenza: se la vita è ricerca del bene sommo, e se il bene sommo è sia gioia che utilità, il presupposto più generale di questo prologo è chiaramente la tendenza a gioire e a conservarsi, la tendenza a gioire auto-affermativamente. Se ci limitiamo per il momento a queste osservazioni senza tener conto anche del tema della conoscenza della nostra propria potenza, che appare più avanti nel TIE, vediamo come in gioco nel prologo vi sia la riappropriazione delle nostre forze «disorientate», la conversione auto-appropriante dei nostri sforzi quotidiani al fine – ma è già una ridondanza – di far pendere la bilancia dal lato dell’emendazione, o del novum institutum. Allora, perché non dire con tutto rigore, insieme a Victor Delbois: «occorre dunque, quando si desidera il sommo bene, compiere un ri-

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«Infatti, le cose che si incontrano per lo più nella vita e sono considerate dagli uomini come bene supremo, per quanto è lecito concludere dalle loro opere […] ». (TIE, [3]) 78 Cfr. fruerer (TIE, [1]); fruitio (TIE, [3]). 79 Si può comparare alla nota seguente del Breve Trattato: «Dunque è necessario non esserne liberi [dall’amore] perché, data la debolezza della nostra natura, non potremmo esistere senza godere di qualcosa con cui essere uniti e rafforzati». (KV, II, cap.5,§ 5). 80 «questo si deve desiderare grandemente». 81 «è costretto a cercarlo con tutte le forze»/«questo si deve desiderare grandemente e ricercare con tutte le forze»

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torno a sé, e tale atto di riflessione, lungi dal frenare la vita, segna il momento in cui essa comincia a riprendersi e a governarsi»82

3. Il concetto d’institutum: logica della convergenza La questione del dilemma – il riflusso verso i beni comuni è sufficiente a compromettere la ricerca? Quest’ultima non potrebbe giungere ad un compromesso? – ottiene risposta in due tempi: 1° il compromesso è impossibile poiché la ricerca dei beni comuni «disorienta» la mente e l’allontana da ogni meditazione (dilemma degli instituta); 2° tuttavia, il problema si rivela impreciso, così posto, e la sua rettifica permette d’intravedere una conciliazione che, lungi dal relativizzare la rottura tra il vecchio e il nuovo, permette di contro la sua effettuazione (tematica dei mezzi e dei fini). Si vede ora come Spinoza proceda dall’impossibilità empirica a quella teorica, come egli pensi l’eterogeneità dei due instituta. La seconda morale che, dopo la frase iniziale, presiede alla cesura – quella che concerne il rapporto tra valutazione e affettività – assume qui tutto il suo senso, nel momento stesso in cui convergono il tema degli instituta e quello dei mezzi e dei fini. Ritorniamo dunque all’inizio del prologo, quando Spinoza si chiede se l’«emendazione» implica il cambiamento del modo d’esistenza oppure se è possibile lanciarsi nella ricerca del bene sommo continuando a vivere del tutto come prima. La risposta, a dire il vero, sembra già data, in quanto la frase iniziale indica che la conquista del vero bene ha per condizione che vengano «respinti tutti gli altri» (rejectis caeteris omnibus). Tuttavia, il dilemma legato all’incertezza conduce all’eventualità di un compromesso, alla speranza di poter evitare alla fine di scegliere, dunque alla messa in causa della radicalità dell’alternativa. La risposta negativa di Spinoza è così netta e immediata quanto tenace si è mostrata la seduzione esercitata sulla mente da tale ipotesi. Ecco il testo: Volvebam igitur animo, a forte esset possibile ad novum institutum, aut saltem ad ipsius certitudinem pervenire, licet ordo et commune vitae meae institutum non mutaretur; quod saepe frustra tentavi.83

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V. Delbos, op. cit., p.17 e la critica di P.-F. Moreau, op. cit., p.52. «Meditavo dunque se non fosse per caso possibile pervenire a un nuovo regime di vita, o almeno alla certezza di esso, senza mutare l’ordine e il regime abituale della mia vita: ciò che, spesso, invano tentai». (TIE, [3]) 83

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Qui ancora, Spinoza invoca una confutazione attraverso la stessa esperienza e il parallelo con la frase iniziale è sorprendente: saepe risponde a frequenter, frustra a vana & futilia. L’essenziale, per noi, è ora che questa tentazione psicologica di compromesso sia l’occasione per Spinoza di sottolineare, da un lato, il legame tra la via attraverso cui ci si assicura il bene sommo e il modo d’esistenza nel quale ci si addentra, d’altro lato, l’incompatibilità dei modi di esistenza. Raramente si traduce nello stesso modo i due sensi d’institutum, nuocendo così alla chiarezza del testo.84 Ora, la parola designa in entrambi i casi una condotta regolare, una maniera regolata di agire, che si tratti di un’abitudine acquisita o di un programma per il futuro.85 Occorre comprendere ciò che rende omogeneo tale tessuto o che costituisce tale ordine; in altri termini quale è la logica di tale «istituzione». All’occorrenza, si tratta chiaramente di sapere se la condotta implicata nella ricerca del bene sommo è compatibile con la comune condotta di vita, se essa può – in poche parole – fondersi con il modello attuale d’esistenza o se inviluppa un altro modo d’esistenza che l’esclude; la risposta negativa, alla fine della frase, dà rilievo al confronto dei due instituta valutati ormai come modi eterogenei d’esistenza.. È impossibile che uno s’affermi senza che l’altro muti (non mutaretur). Il testo, che oppone al novum institutum l’ordo et commune vitae institutum, anticipa a tale riguardo la risposta. Se il nuovo institutum è incompatibile con il commune vitae institutum, come indicato nettamente dall’inizio del § 6, è perché quest’ultimo si caratterizza per la ricerca di oggetti che «disorientano la mente»: per ben tre volte ritorna l’espressione distrahitur mens. Tale oggetti

84 Koyré, per esempio, traduce il primo impiego della parola con «progetto», «ricerca», «disegno» (tenuto conto delle altre ricerche ai § 6 e 9) ), ma con «condotta» il secondo impiego. 85 Cfr. O. Pfersmann: «L’ordine costante che la lega a quella degli altri […]. Un ordine duraturo di azioni attraverso cui si sostiene la vita sociale e privata di un individuo». (O. Pfersmann, «Spinoza et l’anthropologie du savoir» in Spinoza. Science et religion, Actes du colloque de Cerisy-la-Salle du 20-27 septembre 1982, Paris-Lyon, Vrin, 1988, pp.57 e 61, n.15) e P. – F. Moreau: «Che significa dunque il termine? Esso indica la struttura, il tessuto, l’organizzazione della vita; non a caso viene associato ad ordo. La vita comune non forma una semplice giustapposizione di attività ma costituisce un tessuto omogeneo». (P. – F. Moreau, op. cit., p.110)

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sono le ricchezze, il sesso86, la fama. Che la mente sia disorientata significa che la sua attitudine a concepire un altro bene è minima (ut minime possit de alio aliquo bono cogitare. Fine del § 3). Simmetricamente, la frase seguente dice che il suo impedimento a pensare ad altro è massimo (quo maxime impeditur, ne de alio cogitet; § 4; cfr. anche più avanti, al § 5: magno impedimento). Tuttavia, la prima formula aveva un valore generale, mentre la seconda concerne il sesso laddove la mente è subito «sospesa» – giocando qui Spinoza manifestamente sui due significati di «sospesa»: attaccamento (al sesso) e interruzione – durante il tempo del desiderio; poi «turbata» (perturbat) et «inebetita» (hebetat), dopo il godimento. In breve, la mente è ossessionata e poi inebetita, e tali sono i due stati possibili del disorientamento: pieno/ vuoto. La mente, indisponibile per un altro pensiero, ha l’illusione di essere colma, il che la pone in una disposizione contraria alla ricerca. In effetti, Spinoza indica la ragione di tale abdicazione della mente: l’illusione di essere in presenza di un bene che ne determina una postura di «riposo» (ac si in aliquo bono quiescieret; § 4). La mente è distolta da ogni proprio slancio, credendo di detenere la chiave dello slancio in generale del pensare, ossia pensare il bene supremo. Gli oggetti correnti del desiderio «disorientano» – conducendo all’ossessione – la mente in quanto non son cercati che per se stessi (non nisi propter

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Nel Trattato come poi nell’Etica la parola libido designa per lo più e senza possibile equivoco il desiderio sessuale. Koyré traduce con «voluttà», parola che ha assunto oggi una connotazione pudibonda assente nel testo. Quando Spinoza giunge ad utilizzare voluptas è nel senso ben più generale di «cattiva volontà», rivolta verso il bene apparente, in opposizione alla «buona volontà» (Spinoza qui si rifà alla glossa scolastica di Aristotele, che gioca sulla vicinanza delle parole voluptas e voluntas): cfr. KV, II, cap. 17, § 2. È significativo che al § 11, quando la libido viene riabilitata sotto condizione, Koyré traduce con «passione carnale» come se fosse preoccupato che il lettore fraintenda la questione. Al seguito di Appuhn, P. – F. Moreau traduce con «piacere» . Tuttavia quando Spinoza vuole parlare di piacere o di godimento, ossia non del desiderio in quanto tale ma della sua soddisfazione, dice gaudium, o ancora fruitio, come è il caso d’altronde al § 4, laddove P. – F Moreau è allora obbligato a tradurre «godimento del piacere». D’altra parte la ricchezza e la gloria sono dei piaceri, così come il pensiero divenuto attivo. B. Rousset, con la parola «sensualità» trova una soluzione più felice, anche se un po’ desueta, come egli riconosce: cfr B. Rousset, Commentario a B. Spinoza, Traité de la réforme de l’entendement, Paris, Vrin, 1992, p.150. Questa discussione è di poca importanza dal momento che ognuno sa ciò che deve comprendere. Da parte nostra, giudicando più semplice chiamare gatto un gatto, diciamo: «il sesso».

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se quaeruntur, § 5); in altri termini, si suppone sempre che siano un bene supremo (quia tum supponuntur summum esse bonum; § 5) o «un bene in sé» (supponitur enim semper bonum esse per se, § 5 ). È proprio qui la radice dell’ostacolo della mente, dell’esclusività di cui godono in essa i tre oggetti del desiderio, della sua indisponibilità per qualsiasi altra cosa. Ma Spinoza dice anche che si suppone che siano «il fine ultimo al quale tutto viene diretto» (tamquam finis ultimus, ad quem omnia diriguntur. § 5) Tale formula, meglio di ogni altra, dice fino a che punto il compromesso ricercato inizialmente è aberrante e quanto i due instituta siano incompatibili: ognuno dei due si definisce in effetti in rapporto ad un centro di convergenza che organizza la vita. Così la vita corrente non è solo una somma di attività, un impiego del tempo al quale sarebbe possibile aggiungere un po’ di filosofia. Le sue occorrenze non sono semplicemente negative, pura carenza (vana & futilia): esse implicano una valutazione, affermano una concezione del bene sommo, per erronea che sia. Il «disorientamento» indica in un certo senso un fenomeno d’illusione: se la mente non può pensare ad altro è perché essa aderisce ai tre oggetti come a tre beni e orienta ogni proprio sforzo verso di loro. Spinoza sembra comunque abbozzare una differenziazione in seno all’institutum commune vitae: così un individuo ossessionato dalla gloria deve «necessariamente condurre la vita (dirigenda) secondo le opinioni degli uomini» (stesso paragrafo). S’indica in questo modo un decentramento degli sforzi del soggetto, che ora convergono verso un altro soggetto: ci torneremo presto. Al punto in cui siamo giunti, la mente tanto meno cerca in quanto crede d’aver trovato e si compiace della sua apparente scoperta; non si tratta dunque solo di riassorbire un’incertezza, bensì d’estirpare una falsa credenza. Si comprende come la vita ordinaria non possa accogliere la ricerca filosofica la quale, muovendo alla ricerca di un altro punto di convergenza, trascina l’insieme dei suoi componenti in un movimento di divergenza e di ridistribuzione. Vedremo, a tal riguardo, che il novum institutum, non elimina i tre principali componenti – ricchezza, sesso, gloria – ma li sottomette a un altro centro di convergenza. Un lettore frettoloso potrebbe in effetti essere tentato da un’obiezione: Spinoza fustiga la preoccupazione fissa della mente, sotto il regime della vita ordinaria, ma non è ancora questa la caratteristica di ciò che egli propone? Pensiamo alla frase iniziale: «decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto […]». Senza alcun dubbio, si tratta di sostituire 97

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un centro di convergenza ad un altro, e non sorprende di ritrovare la stessa immagine nelle note che preludono l’esposizione del metodo: convergenza di tutte le scienze verso un medesimo fine (me omnes scientias ad unum finem et scopum velle dirigere, […]),87 convergenza di tutti i nostri atti e pensieri verso tale fine (omnes nostrae operationes simul et cogitationes ad hunc sunt dirigendae finem).88 Solo uno di questi centri è esclusivo, in ragione dell’illusione che lo determina (dato che l’institutum commune vitae riserva ai tre oggetti del desiderio ordinario il posto che spetta di diritto all’intelletto puro, quest’ultimo escluso), mentre l’altro è gerarchico (il bene supremo autentico nel novum institutum non esclude i propri rivali ma li subordina a sé).

4. Disorientamento, possessione: l’ombra della trasformazione Ritorniamo al «disorientamento». Distrahere può significare «trascinare in diverse direzioni» (è lo strappo, la lacerazione: la coesione del soggetto è messa in pericolo), ma anche «condurre lontano da» (un’attrazione che è allo stesso tempo uno smarrimento, un’ossessione che dirotta). Ciò che è trascinato in differenti direzioni è il soggetto; ciò da cui ci si allontana è il vero bene. I due significati sono solidali nel prologo? Lo sarebbero nella misura in cui si potesse dimostrare che Spinoza pone un legame tra il bene e il sé. È giusto il caso dopo i tre paragrafi sul disorientamento: dapprima con la nozione di «utile» (§ 6), poi, nel momento in cui la narrazione raggiunge il suo punto di drammatizzazione estrema, con la nozione implicita di salvezza (§ 7). La questione dell’utile emerge laddove l’antagonismo degli instituta è riconosciuto come irriducibile, e la radicalità dell’alternativa distrugge definitivamente ogni possibilità di compromesso; in tal senso, la prima frase del § 6 chiude la parentesi aperta al § 3 (Nam […]) con il fine di chiarire lo scacco dei tentativi di evitare la scelta. La piena coscienza dell’antagonismo è anche ciò che costringe a pensare l’utile, o il più utile (cogebar inquirire, quid mihi esset utilius […]), e nello stesso tempo procura la forza di pensarlo in un momento in cui lo slancio nato dalla lezione empirica iniziale, controbilanciato dalla seduzione persistente dei beni effimeri, parrebbe

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TEI, § 16, così come la ridondante nota richiamata nel mezzo di questa espressione. 88 TEI, § 49.

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arenarsi nel dilemma dell’incerto. In effetti cambiar vita ha senso solo se ciò è «utile». I § 6 e 7 segnano un’intensificazione, un’accelerazione del racconto. Essi recano un’improvvisa nuova illuminazione su ciò che precedeva sia per quanto riguarda il rispettivo peso dei dati tra cui occorre effettuarsi la scelta, sia per quanto concerne lo statuto ontologico dei due instituta. 1° Si assiste in effetti a un’inversione di tendenza. Spinoza ricorda che la scelta sembrava fino a quel momento effettuarsi tra un «bene certo» (i «vantaggi» procurati dai tre oggetti del comune desiderio, ricchezze, sesso e gloria) e un «bene incerto». Ora l’analisi dei tre oggetti li rivela piuttosto incerti, per lo meno, ognuno «per sua natura» (sua natura – dato che il seguito del testo mostra che essi sono implicitamente considerati certi «riguardo al conseguimento», quoad ipsius consecutionem); mentre l’oggetto nuovo e ancora sconosciuto verso il quale tende la ricerca è per lo meno conosciuto nella sua forma (deve essere un «bene certo», fixum bonum), e risulta di contro certo quanto alla sua natura, incerto quanto alla sua acquisizione. Il vantaggio che pare spettare all’institutum commune vitae si annulla dunque a profitto di un equilibrio tra due beni parzialmente certi o parzialmente incerti. Ma tale equilibrio oscilla a sua volta, all’inizio del § 7, a profitto di un novum institutum: attraverso un completo rovesciamento, ciò che era considerato un bene certo – i tre oggetti – appare improvvisamente come un «male certo», mentre il bene incerto – l’oggetto cercato – ha acquisito lo statuto di «bene certo» . 2° Questa spettacolare inversione a U eseguita in nove righe è seguita da una spiegazione (Videbam enim […]) che introduce il tema della morte. La posta in gioco della lezione empirica iniziale è più greve: valorizzare solo le cose vana & futilia non solo ci priva del meglio, ma ci espone al peggio; abbiamo lasciato la logica del rischio o della sicurezza per una logica della rovina o della salvezza, ove i ragionamenti del tipo «meglio un uovo oggi che una gallina domani» non valgono più. Adesso, gli oggetti della scelta devono essere valutati di nuovo in funzione del pericolo di morte, o seguendo il criterio dell’autoconservazione. Il § 7 si conclude in effetti così: illa autem omnia, quae vulgus sequitur, non tantum nullum conferunt remedium ad nostrum esse conservandum, sed etiam id impediunt, et frequenter sunt causa interitus eorum, qui ea possident, et semper causa interitus eorum, qui ab iis possidentur.89

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«Invece, tutte le cose che la maggioranza degli uomini segue, non solo non

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Il vocabolario ben testimonia la radicalizzazione del proposito: laddove l’«impedimento» concerneva fin qui la capacità di pensare a altro o, a rigore, l’esercizio stesso del pensiero, si tratta ormai della conservazione della vita; nello stesso modo, frequenter, che rinviava nella frase iniziale alla vanità e alla futilità della nostra vita ordinaria, ora si rapporta al rischio mortale che incombe su noi. Lo slittamento da possident a possidentur, giocando sul classico equivoco della «possessione», accentua tale rovesciamento. Per comprendere questo passaggio, si è tentati di rivolgersi all’Etica e non pare esserci ragione di dissuasione. In effetti l’Etica enuncerà che l’essenza di una cosa non può inviluppare contraddizione, detto altrimenti, la cosa non contiene nella propria natura ciò che giustifica la propria distruzione: si deve ricorrere a una causalità esterna.90 In realtà, i tre oggetti del desiderio comune – omnia, seguendo il leitmotiv che li connota tutti nel corso del prologo – sono designati ormai come la «causa» della nostra rovina e se vi si aggiunge l’idea della «possessione» che si fa avanti alla fine della frase, tutto è pronto per evocare una tale causalità esterna. Il sesso ci assoggetta ad un essere altro da noi, gli onori alla folla, la ricchezza al denaro e ai beni materiali. Non che si tratti di forze malefiche che ci manipolino dietro le quinte; si presterà piuttosto attenzione ai precisi componenti di tali omnia. Sotto la definizione generale di «beni», si può in primo luogo distinguere le passioni (avaritia, libido, gloria al § 10) e i loro oggetti (divitia, honor e…e cosa? Spinoza non ha un nome per il godimento sessuale: dice fruitio illius, sottinteso della libido e – solo al § 17 – deliciae). Ma in un secondo tempo l’oggetto si divide: la ricchezza rinvia alla presenza concreta del denaro (nummi ai § 11 e 17) o dei «beni» materiali (opes al § 8), l’onore alla folla (vulgus al § 5) – occorre ora distinguere nell’oggetto della passione, il godimento e il suo mezzo concreto. Qui ancora, il sesso fa eccezione: per caso o no, il TEI non fa menzione del o dei partner che il suo godimento richiede secondo l’Etica. Godimento e mezzo concreto: è ben vero che in questo testo l’acquisizione e la possessione si dicono l’uno dell’altro indifferentemente, tuttavia ci sembra importante sottolineare che la prima designa qualcosa di esteriore, la seconda l’effetto di tale cosa su di noi. Nel modo comune d’esistenza, noi godiamo dell’effetto prodotto in

offrono alcun giovamento alla conservazione del nostro essere, ma la impediscono persino: spesso sono causa della rovina di quelli che le possiedono e sempre causa della rovina di quelli che ne sono posseduti». (TIE, § 7) 90 «Nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna». (Eth,III, 4)

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noi da altri corpi (sesso), da lodi o da segni di pubblica stima (onore), da beni materiali che noi sappiamo nostri (ricchezza). Le due istanze del corpo esterno e del suo effetto formano una triade con la passione, che equivale a una scelta di oggetto, ad una selezione di corpo e di effetto.91 Giacché un conto è la folla, un altro è sposare corpo e anima ogni suo soprassalto perché si è fatto della gloria il proprio ultimo fine; una cosa è il denaro, un’altra farne la propria unica ossessione e orientare tutta l’esistenza nel senso di un’ illimitata acquisizione; una cosa infine è un legame di coppia, un’altra il sesso come idea fissa che invade tutto il tessuto della vita. L’oggetto in quanto tale non ci possiede, o ci possiede solo in quanto, convergendo tutti i nostri sforzi verso di esso, noi potenzialmente diventiamo altro da noi stessi. Si comprende forse ora la ricorrente presenza dell’enunciato concernente la valutazione del bene e del male: una prima volta nella frase iniziale, precisamente come condizione della decisione etica; una seconda volta al § 9, precisamente nella falcata del passaggio che commentiamo, dove il racconto oscilla in favore della decisione una terza volta alla fine del prologo (§ 12). Noi siamo alla seconda occorrenza. Spinoza aveva detto: gli oggetti non sono buoni o malvagi in sé, ma solo in quanto essi muovono l’anima (§ 1). Ora egli pare sostenere il contrario: felicità e infelicità dipendono dalla qualità dell’oggetto amato (§ 9: in qualitate objecti, sottinteso: sita est). Ma si prospetta ormai una valutazione dei modi di esistenza stessi, non più la valutazione di ciò in cui ogni modo consiste. Si da una superiorità della «cosa eterna e infinita» sulle cose «che possono perire» (fine § 9 – inizio § 10), fondata sul criterio dell’affetto: una tale cosa ci procura una gioia pura e continua. La qualità dell’oggetto resta dunque relativa (i valori non si attribuiscono se non respective, § 12), consiste nella sua modalità di renderci affetti; essa non è meno obbiettiva in quanto relativa a ciò che noi siamo, alla nostra supposta natura. Anche il TEI, dopo il prologo, non si orienta verso la ricerca dell’oggetto supremo senza indagare sulla nostra natura, cioè sulla nostra potenza di comprendere (a partire dal § 13). In relazione a una natura, si può gerarchizzare i possibili oggetti del suo desiderio: tutto ciò che è suscettibile di renderla affetta. Tale gerarchia cambia se il soggetto affettato è di una differente natura. Invece, la valutazione obiettiva dei modi di esistenza in rapporto ad una data natura può addirittura essere disconosciuta; anzi – dato che Spinoza non ha qui altro criterio che l’esperienza – gli uomini non sospettano certi godimenti e

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Cfr. Allegato 1.

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restano nell’ignoranza del modo di esistenza superiore. È dunque vero sia che il giudizio di valore su un oggetto dipende dal modo in cui siamo affetti da esso, sia che la nostra felicità o infelicità dipende dalla qualità dell’oggetto. Il ragionamento del § 9 ne è testimone, al di là del suo strano allure. Nella spiegazione (Nam […]), Spinoza pare inizialmente abbandonare il tema appena enunciato di una qualità propria all’oggetto: egli evoca l’indifferenza nei confronti di un oggetto che non sia amato, in questo caso la possibilità di non essere affetti dalle cose che possono perire, che costituisce uno sviluppo dell’enunciato del § 1. Ma c’è un modo contorto di far valere la superiorità dell’amore di una «cosa eterna e infinita», come indica già la fine della frase: Spinoza inizia a svalutare l’amore per le cose «che possono perire» per far sentire cosa ci si guadagna a lasciarlo. Occorre dunque complicare lo schema: gli stessi oggetti non affettano di sé sempre in modo uguale una stessa natura, poiché tutto dipende dalla valutazione che è propria a tale natura, dalla gerarchia che essa stabilisce, dal centro di convergenza che attua la sintesi della sua vita o – detto altrimenti – dal suo modo di esistenza. Sembriamo contraddirci subordinando alla fine l’affetto al giudizio: ma la gerarchia, come abbiamo ricordato, dipende appunto dall’esperienza. Lo schema comporta dunque tre momenti: il modo in cui siamo affetti dalle cose che possono perire (1) dipende da come noi le valutiamo (2), ossia dalla nostra esperienza affettiva generale (3)92. Detto a chiare lettere, se non abbiamo conosciuto altro godimento che quello del sesso, dell’opulenza e della gloria, vien da sé che mettiamo tali cose al primo piano e che ogni sforzo della nostra esistenza converge verso di loro, o verso una o l’altra di loro. La valutazione cambierà se la nostra esperienza affettiva si amplia e ciò comporterà una mutazione dell’affettività stessa – della modalità con cui siamo affetti dalle cose che possono perire. Di qui l’importanza di poter «pensare ad altro» (de alio cogitet, § 4). Il momento dell’ amor, variabile in funzione dell’esperienza, si pone dunque bene nel prologo in relazione alla questione degli instituta. Ciò che noi amiamo, vuol dire: ciò che noi preferiamo, da cui noi siamo più vivamente e positivamente affetti (valde desiderandum, § 10)? La gerarchia dei nostri affetti e la valutazione che essa implica determinano il nostro modo di esistenza, il nostro institutum. Ciò perché, lo ripetiamo, la «possessione» (possidentur) non è una relazione a due termini, soggetto – oggetto, il secondo che determina il desiderio del primo. Il mo-

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Cfr. Allegato 2.

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mento importante è certo quello del desiderio, ma ciò che determina il desiderio è l’esperienza degli oggetti, non già l’azione oggettiva di ognuno di loro su di noi, come in un sistema fisico. L’effetto di un oggetto su di noi dipende dalla sua natura come dalla nostra ma dipende anche – e varia in sua funzione – dalla nostra esperienza più ampia, dall’effetto prodotto eventualmente da altri tipi di oggetti su di noi. La «possessione» implica dunque al più alto grado una conversione della soggettività: non è un semplice fenomeno di dominazione. Ed è questa che ci interessa: come, in questo terzo termine che le nozioni di amor, di institutum e l’immagine del centro di convergenza circoscrivono, il soggetto diventa altro, e non solo subisce la legge dell’altro; come l’incorporazione – bisognerebbe poter dire l’«inspirazione» – dell’altro da parte del soggetto si traduce in uno sfasamento di quest’ultimo in rapporto a sé, che il verbo distrahere, ora lo vediamo meglio, dice con precisione. In effetti, noi dobbiamo dire nella nostra lingua: distratti da sé, 93 in quanto la parola ha assunto per noi il senso di un lasciarsi andare della mente, proprio come divertissement; non udiamo più la doppia idea di strappo, di contrasto e di dirottamento, di attrazione verso un punto lontano da sé.94 Distrahitur mens – così Spinoza definisce il soggetto separato da se stesso, che raccoglie le sue forze nell’affermazione di un modo di vita che contraddice la sua natura, nella conservazione di una natura altra dalla sua. Sesso, gloria e avarizia: in ognuno di questi tre casi la vita ha il proprio centro fuori di se stessa, come se il desiderio e gli atti dell’individuo convergano verso altro da lui. È proprio vero – se è permesso qui usare il lessico che sarà dell’Etica – che la vita del ricco «inviluppa» una cosa esterna a lui, denaro e possessi materiali; che la vita dell’ambizioso inviluppa la folla; che la vita del dissoluto inviluppa per definizione altri esseri oltre a lui. Ma che significa inviluppare altro da sé? Una simile relazione è molto più profonda di quella duale che pone in relazione un soggetto e un oggetto, come quando si dice che si solleva una pietra o che si saluta un amico. La relazione considera un effetto prodotto da un soggetto, ma che non ha per sola causa tale soggetto. È dunque l’effetto, non il soggetto, che è inviluppante: esso inviluppa il soggetto, più altro.95 Ecco perché diciamo: la vita del ricco, la vita dell’ambizioso, ecc. Una vita è

93 94 95

Come fa Koyré tra virgolette. Per questo Koyré traduce ogni volta «attirato e distratto» Cfr, Eth,, II, 16.

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una somma di effetti, ma anche di sforzi che li producono e che si rivelano essere essi stessi degli effetti. Quando il ricco s’impegna per aumentare la sua fortuna, il suo desiderio ha un bel da inviluppare il denaro (e anche i suoi simili, inviluppati attraverso l’invidia, cfr. § 9), egli ha di mira comunque la propria soddisfazione, non quella del denaro che, del resto, non ha individualità propria. Eppure la sua preoccupazione sarà d’aumentare e di conservare il proprio denaro piuttosto che aumentare la propria potenza e conservare se stesso: egli traferisce il suo sforzo di conservazione verso altro e dà al denaro un’esistenza propria tramite sé. Gli ambiziosi cominciano a «difendere» gli onori che possiedono piuttosto che la loro vita (defenderent § 8): il loro sforzo di conservazione persiste ma sono dislocati da se stessi a un’altra cosa ed è precisamente in tal senso che essi ne sono posseduti o che il loro possedere diviene passivo. In senso generale, le cose periture sono «ostacoli» (obesse, oberunt, § 11) «fin quando si cercano per sé stesse» (propter se quaerentur), a titolo di fini e non di mezzi. Lungi da dimenticare semplicemente noi stessi, da perdere di vista i nostri propri interessi, noi ci impegniamo positivamente a far prosperare altro da noi. Di conseguenza sarebbe sminuente definire inutili tali sforzi, come se fossero neutri rispetto alla nostra conservazione: «tutte le cose che la maggioranza degli uomini segue, non solo non offrono alcun giovamento alla conservazione del nostro essere, ma la impediscono persino […]». (§ 7) Da qui il radicale viraggio sopra evocato dato che il «bene certo iniziale » si rivela come un «male certo». In conclusione, noi nuociamo a noi stessi perché ci preoccupiamo della prosperità e della conservazione di altro da noi. “Inviluppare altro” si dice dunque degli effetti di un soggetto impegnato in un divenir-altro, in un divenire-altro-dall’umano, donde la considerazione di una terza istanza: oltre al soggetto e all’oggetto, ciò che il soggetto va a diventare (e, correlativamente, ciò che l’oggetto va a diventare attraverso il divenire del soggetto). Così il richiamo esercitato da quella categoria di cose esteriori si traduce nella formazione di un modo di esistenza decentrato rispetto a sé, il cui centro di convergenza implica una divergenza con sé. Spinoza non dice che noi siamo manipolati da altre cose; egli parla meno della funesta attrazione di tali cose su di noi che dei nostri sforzi senza ritegno per acquisirle e conservarle. Sembra di conseguenza che il nostro sforzo stesso sia decentrato e che persegua altri fini invece della nostra conservazione: la conservazione della fama, del denaro… Il vulgus, l’umanità ordinaria vista attraverso gli occhi di Spinoza sembra una folla d’eccentrici, d’individui stravaganti che divergono dalla natura umana (si riveleranno inoltre «sonnambuli» nell’Etica). 104

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Dunque, si direbbe una trasformazione: essi conducono un’altra vita invece che la loro, una vita contraria alla loro essenza, di cui il centro di convergenza è la fama. Ciò che vive o si afferma attraverso noi, non siamo noi stessi, ma la ricchezza, l’onore, il sesso, come se tali fini accedessero ad una esistenza autonoma attraverso le nostre cure; quasi che delle nature estranee, corrispondenti ai centri di convergenza che tali fini costituiscono, trovassero modo d’incarnarsi in noi. Si tratta di una di quelle «chimere» o «illusioni» considerate a lungo nel seguito del Trattato (§ 53 – 64)? L’uomo comune non è forse un’oggettiva mescolanza di uomo e di denaro, o denaro in figura d’uomo? Non è un misto di uomo e di folla? Non è infine un uomo-donna, prima ancora di un seduttore di donne (e viceversa)? La folla in noi è divenuta onore, il denaro ricchezza, le donne voluttà. La dualità di oggetto e bene indica perfettamente il decentramento degli sforzi individuali verso una vita estranea: «difendere l’onore», ossia di questo altro-da-noi che noi stessi formiamo fittiziamente insieme ad un’alterità; gli «eccessi sessuali» (nimia libidine), detto altrimenti l’affermazione violenta e ostinata di una vita che non è la nostra, ma quella di un improbabile ibrido in cui la nostra natura non si distingue più con chiarezza dalla serie dei nostri possibili partner. Ancora una volta, Spinoza non nomina l’oggetto sessuale in nessun momento del prologo (noi qui abbiamo evocato le donne in solo riferimento all’Etica). Laddove oggetti di godimento quali la gloria e la ricchezza presuppongono espressamente dei mezzi quali la folla e di denaro, non è segno che l’oggetto in se stesso è divenuto secondario? Allora, non ci sono solo due modi di esistenza in gioco, due instituta per un medesimo soggetto, ma – a causa della radicalizzazione – vi è trasformazione almeno tendenziale di un uomo in altro dall’uomo. Tutto il gioco del prologo del Trattato è d’insistere sul carattere non tollerabile di tale vita altro-che-umana, che lascia come unica prospettiva la morte; tale vita non è vivibile perché è una «chimera», idea confusa di una natura che non può esistere dato che implica due nature differenti. A tale riguardo il § 58 è assai sorprendente: Spinoza vi enuncia in primo luogo che la potenza di finzione è inversamente proporzionale alla comprensione; ora l’esito del prologo consiste precisamente nella risoluzione di «emendare l’intelletto e renderlo atto a intendere le cose nel modo necessario per conseguire il nostro fine » (§ 18), e in particolare «conoscere le mie forze e la natura che desidero perfezionare» (Nostram naturam, quam cupimus perficere, exacte nosse, § 25). Sembrerebbe che il momento del dilemma, di cui il prologo narra le peripezie, sia in pari tempo il più propizio alla finzione. Il § 58 si conclude con una lista esemplare di trasformazioni che una mente 105

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non emendata può compiacersi a forgiare. Sorprende che il vulgus leghi la propria sorte al denaro, ai partner sessuali e alla folla? Questa è la chimera propria al commune vitae institutum: non poter pensare un uomo senza il denaro, senza le donne, senza la folla; non concepire la sua natura se non in rapporto ad altro. È interessante che il tema della morte, nel Trattato sull’emendazione emerga nel preciso momento in cui l’individuo, scegliendo senza averne chiara coscienza di conservare ciò che è altro da sé, diviene decisamente estraneo a sé: nell’ Etica come nel Trattato politico tale contraddizione sarà quella del suicida. Spinoza qui vuol dire che noi non periamo sotto i colpi inferti dal mondo esterno, ma perché abbiamo adottato un modo di esistenza che ci rende estranei a noi stessi. Si riconosce l’avvertimento delle opere politiche: lo Stato ha più da temere le lotte interne che non le aggressioni dall’esterno; 96 l’«emendazione» etica o politica, ha in primo luogo per oggetto metter fine ad una situazione suicida. Tuttavia lo scolio IV, 20, dell’Etica non è il solo testo al quale la lettura del prologo del Trattato dell’emendazione faccia pensare: l’immagine della «malattia mortale» (lethali morbo)97 non evoca forse per anticipazione lo scolio IV, 39? L’ortografia non è insignificante, seppur corrente all’epoca: lethalis procede per contagio da Lethe, il fiume degli inferi e dell’oblio. Ora l’esposizione al male mortale è anche il momento, nel Trattato, in cui diventa possibile disfarsi del vecchio: il § 11, come si è visto, descrive implicitamente la formazione di un nuovo abito di vita. Il processo di emendazione può allora essere assimilato ad una trasformazione? Evidentemente no, dato che esso mira a riannodare i fili della cura d’autoconservazione; ma si tratta di por fine alle forze centrifughe presenti nell’uomo, ad una vita del tutto chimerica, al fine di ricentrarsi sulla natura umana correttamente intesa, centro di convergenza dell’institutum novum: «dirigere tutte le scienze a un unico fine (ad unum finem et scopum) […]. Per dirlo con una parola, tutte le nostre azioni e insieme i nostri pensieri devono essere diretti a questo fine» (§ 16). L’«emendazione» è il rovescio – o più esattamente – il diritto – della trasformazione tendenziale che abbiamo appena definito.

96

TTP, XVII; TP, VI, 6. B. Rousset segnala l’origine ciceroniana di tale espressione: B.Rousset, op. cit., p.154. 97

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5. Homo concipiat naturam aliquam humanam sua multo firmiorem Tale ricentrarsi presenta una difficoltà che Spinoza, sia nel Trattato sull’emendazione sia nell’Etica, non evita: quello del modello. Che cosa giustifica il darsi di un modello se è vero che tale nozione implica un’idea di imperfezione, assente sia nella natura di una singola cosa come nella Natura intera? Proprio il primo decentramento che ci allontana da noi stessi e produce l’illusione d’essere stranieri a sé. Dice Spinoza: l’uomo, con tutta la sua ignoranza e la sua debolezza (humana imbecillitas) «concepisce una qualche natura umana molto più stabile della propria senza veder nulla che impedisca di conseguirla» (talem natura acquirat, § 13). Ciò che l’uomo concepisce è una natura superiore alla propria, un ideale o un modello al quale desidera conformarsi e che cade sotto i colpi della critica spinoziana al moralismo; ma forse è anche – in modo ancora astratto e formale – la natura umana stessa, la natura propria dell’uomo, in rapporto con la sua propria potenza che è suo compito recuperare: natura & potentia hominis (§ 25), vis nativa intellectus (§ 31). Spinoza ha cura d’aggiungere una nota in cui definisce tale «forza innata» dell’intelletto: «ciò che non è causato in noi da cause esterne». È da essa che l’individuo viene distolto, adottando un modo di esistenza che rinvia in effetti a una causalità esterna. Il presentimento di «una qualche natura umana molto più stabile della propria» si esplica dunque attraverso un clivaggio, nel soggetto, tra la sua imbecillitas attuale e ciò che in lui è «nativo» o «innato» (innata instrumenta, § 32). L’Etica dirà che «gli uomini nascono ignari delle cause delle cose»:98 tale potenza originaria è separata da se stessa in origine – ciò ci rimanda una volta di più alla prima infanzia, età generarice di chimere per eccellenza. Alquanto problematica è la formula «una qualche natura umana molto più stabile della propria». Koyré segnala la volontà di Wenzel e di Cassirer di vedervi un errore, e di leggere naturam aliquam humana sua multo firmiorem in luogo di humanam: 99 si tratterebbe allora di una natura superiore alla natura umana, che si accorderebbe senza dubbio ai testi fustigatori dei moralisti, ma costituirebbe in tal modo una vera e propria oscurità. La formula è rilevante sotto due aspetti. In primo luogo, Spinoza qui s’esprime come se si trattasse di un progetto di trasformazione: data una natura, se ne concepisce un’altra, superiore, che si intende acquisire. In secondo luogo, tale altra natura si rapporta

98 99

Eth, I, app. Cfr. la sua nota di traduzione, p.98.

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non di meno allo stesso essere cui si rapporta la prima, l’uomo: qui sta l’apparente assurdità, di una pluralità di nature umane. L’incerta sovrapposizione di due logiche, quella della trasformazione e quella della progressione per gradi, non può non ricordare l’ambiguità dello scolio V, 39 sulla prima infanzia. Eppure qui siamo al cuore della problematica spinozista, e tutto si svolge come se una formula logicamente aberrante fosse la sola adatta ad esprimerla con precisione. Senza dubbio si tratta, in prima istanza, di una natura superiore alla natura umana; ma questa operazione dell’immaginazione, portando nella coscienza che l’individuo ha di sè una zona di potenzialità, è anche ciò che gli permette – ad un secondo livello – di accedere alla natura umana, ossia alla sua propria natura ben compresa (potenza umana o forza innata). Il seguito del testo lo evidenzia senza equivoci: «Quale sia questa natura mostreremo a suo luogo: senza dubbio essa consiste nella conoscenza dell’unione che la mente ha con l’intera natura». (fine del § 13) Vi è qui, in un vocabolario che è ancora quello del Breve trattato, un’allusione molto chiara allo stadio supremo della conoscenza al quale un uomo può aspirare – questa conoscenza intuitiva di cui si tratterrà nella V parte dell’ Etica che considera precisamente la «potenza umana». Meglio ancora, nella prefazione della IV parte che costituisce per molti versi uno sviluppo dei § 13 e 14 del Trattato sull’emendazione, Spinoza riprende esattamente la stessa idea: dopo aver denunciato l’uso dei «modelli» (exemplaria) in quanto conduce a giudicare arbitrariamente le cose dall’angolazione dell’imperfezione, lo riabilita a condizione di ben comprendere che i valori della perfezione e dell’imperfezione non implicano «qualcosa di reale nelle cose». Pertanto Spinoza propone di «formare un’idea di uomo come modello della natura umana al quale guardare», chiamando «bene» ciò che ci aiuta ad avvicinarci ad esso, «male» ciò che ci impedisce di raggiungerlo, e più o meno perfetti gli uomini a seconda che vi si approssimino o meno. Inoltre egli previene l’obiezione: no, non si tratta di una trasformazione: «Infatti, si deve notare anzitutto che, quando dico che uno passa da una minore a una maggiore perfezione, e viceversa, non intendo che da una essenza o forma si muti in un’altra».100 Interpretare il progresso come una trasformazione vorrebbe dire ripiombare nel cattivo uso dei modelli o non averlo mai abbandonato. Imperfezione e perfezione non misurano delle differenze ontologiche, ma il grado di allontanamento del soggetto da sé stesso – il grado del suo «disorientamento». Ma nella misura in cui il modo di

100

Eth, IV, pref.

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esistenza ordinario ci decentra in direzione di una natura chimerica che non è la nostra ma che noi crediamo sia la natura umana, la mutazione affettiva che conduce dall’institutum commune vitae all’institutum novum assume necessariamente l’andamento di una trasformazione, è una quasi-trasformazione: dall’altro-da-noi che crediamo di essere ma che non siamo, a noi stessi; dalla chimera in cui mescoliamo confusamente la nostra natura a quella delle cose esteriori alla natura umana ben compresa. L’«emendazione» compie il tragitto inverso del «disorientamento» e riassorbe la trasformazione virtuale inerente al vecchio stato. Riassumendo, 1) l’«emendazione» è inseparabile da un cambiamento di modo d’esistenza (institutum) e dunque implica una vera cesura; l’incompatibilità dei modi di esistenza vecchio e nuovo è legata al «disorientamento» che caratterizza la mente quando si dedica alla ricerca di beni che periscono; 2) tale cambiamento non è una trasformazione dato che consiste propriamente nel riprendere lo sforzo d’autoconservazione che ci costituisce (il «disorientamento» è in primo luogo allontanamento da sé), ma esso rivela a contrario le illusioni e le chimere che abitano la vita communis. Un’ultima nota: il prologo del Trattato sull’emendazione attesta che il «nuovo», contrariamente a ciò che abbiamo visto nel Trattato teologico-politico, non è intrinsecamente cattivo per Spinoza. Si differenzierà più nettamente il seriam rei alii novae iperam dare velle (o operam novo alicui instiuto dare) dalla cupiditas novandarum degli Ebrei del Vecchio Testamento: «nuovo», che è nel Trattato teologico-politico il tratto della più alta instabilità, qui si oppone a communis, all’ordinarietà della vita degli uomini, caratterizzata da precarietà e incostanza, e si rapporta alla salvezza. Nello stesso spirito, si confronterà una nota iniziale del Trattato politico: «Volgendomi pertanto a trattare di politica, non mi sono proposto nulla di nuovo o di inaudito. Ho inteso solo dimostrare in modo certo e indubitato ciò che si accorda perfettamente con la prassi […]»,101 e quella che chiude il Breve Trattato: «Per concludere tutto, mi rimane ancora da dire agli amici per i quali scrivo questo [trattato]: non meravigliatevi di queste novità[…]».102 Al termine di queste due analisi, cosa possiamo concludere? È chiaro che il cambiamento etico non consiste in una trasformazione, in un cambiamento di essenza: non si tratta di divenire un altro uomo. Ma il coincidere con sé dello sforzo di perseveranza consiste nel farla finita

101 102

TP, I, 4. KV, II, 26, § 10.

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con quel quasi-altro in noi che ci disgiunge (in quanto lo sforzo, per natura, non può mai essere determinato esclusivamente ab alio). Tale quasi-altro non è direttamente assimilabile a una cosa o ad una causa esterna che ci abiterebbe, come se noi potessimo delinearlo chiaramente e distinguerlo da noi. Perciò introduciamo l’istanza apparentemente anacronistica – ma come fare altrimenti? – della soggettività: l’alterità non collima con il sé del primo genere di conoscenza nella modalità di una relazione ad altro, bensì in quella di una relazione tra le due metà di uno sforzo scisso. C’è sicuramente in Spinoza un’istanza del soggetto nel senso moderno del termine nella misura in cui, per lui, la concreta manifestazione della tensione verso l’utile dipende dalla maniera in cui gli uomini si rappresentano l’utile: sta qui tutto lo scarto paradossale tra il desiderio e l’essenza, anche se la nostra essenza si manifesta tramite un desiderio sempre investito, all’altezza di un certo quantum. Spinoza svolge lo studio di tali decentramenti esistenziali, di tali focolai di soggettivazione che coincidono con chimere più che con la distribuzione metafisica delle essenze. Il compito etico consiste nel fatto che l’individuo torni da una posizione immaginaria di sé (essenza sognata) alla propria posizione naturale (essenza reale): si capisce come essa, in tal senso, possa essere vissuta come una trasformazione, come l’acquisizione di una nuova natura o di una natura umana superiore (punto di vita dell’imbecillitas humana). Solo in apparenza si tratta di un movimento d’espulsione dell’alterità: non confondere più inconsciamente il sé e l’altro, non mescolare più le essenze vivendo di chimere, secondo una soggettività anch’essa chimerica. Il concetto di idea inadeguata presenta un regime di doppio inviluppo: di noi stessi e dell’altra cosa. Non si tratta però di farla finita con tale inviluppo dell’altro, si tratta piuttosto di smettere di confonderlo con noi. L’etica consiste in realtà in un cambiamento di regime d’inviluppo, passando da un primo ad un secondo tipo di rapporto con l’altro: la conoscenza del terzo genere non fa di noi tanti imperi in un impero; vuol dire che noi ci comprendiamo ormai adeguatamente come partecipi della Natura. Siamo passati da un’appartenenza subita ad un’appartenenza cosciente e attiva. Di conseguenza, non smettiamo d’inviluppare la Natura, al contrario: il legame è diventato quello di un rapporto attivo con l’altro. Lo testimonia la mutazione dell’affetto d’amore, parallelamente all’emergere di un regime non chimerico d’inviluppo.103

103

Analizziamo tale mutamento nel nostro Spinoza. Una fisica del pensiero, op. cit., cap. VI.

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ALLEGATO 1

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Triade dei beni volgari (illa[…] omnia, quae vulgus sequitur, in TIE, § 7) 1. 2. 3.

cose esteriori (natura) effetti rispettivi di tali cose su di noi (ventaglio di godimenti) selezione e valutazione (bene sommo, modo di esistenza)

ALLEGATO 2 Triade del desiderio o dell’affettività 1. 2. 3.

il modo in cui siamo affetti dalle cose periture dipende da il modo in cui noi le valutiamo dipende da nostra esperienza affettiva generale.

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Il bambino malato del pittore fiammingo Gabriel Metsu, Rijskmuseum di Amsterdam.

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SECONDO STUDIO L’IMMAGINE RETTIFICATA DELL’INFANZIA L’importanza dell’infanzia, nel pensiero di Spinoza, è generalmente sottovalutata o non correttamente valutata.1 Lo studio di un tema a prima vista marginale in un autore, è a volte assimilato a un frivolo passatempo. Un simile studio si giustifica però, se il tema non è solo oggetto di un’originale trattazione ma svolge anche un ruolo nell’economia generale del pensiero. Questi due requisiti ci paiono qui riuniti. Il rapporto di Spinoza all’infanzia è ancor più rimarchevole in quanto non si irrigidisce mai in una posizione. Si direbbe perfino un rapporto contradditorio – quasi ci fosse un legame con la contraddizione insita laddove la ragione affronta il suo altro nella fattispecie dell’età definita priva di ragione. Ad ogni modo Spinoza inizia confessando che non sa che pensare propriamente dei bambini.2 Le sue osservazioni disparate, dalla problematica coerenza, nondimeno aprono un orizzonte che lo distingue nettamente dai pensatori del XVII° secolo, Locke compreso.

1

Pierre Macherey è l’unico commentatore che insiste con forza sull’importanza del tema dell’infanzia in Spinoza: «Questo tema ossessionante attraversa l’intera Etica: per Spinoza l’infanzia è uno stato che si caratterizza in modo principalmente negativo, per difetto: è come una malattia ». (P. Macherey, op. cit., vol.4, p. 252, n. 2) «Il tema dell’infanzia ritorna frequentemente nell’Etica, con una connotazione generalmente negativa: per Spinoza l’infanzia è uno stato imperfetto, che si può caratterizzare solo per difetto, al più come una sorta di male necessario». (P. Macherey, op. cit., vol.5, p. 71, n.2) Come lui, noi sottolineiamo l’importanza del tema, con lui concordiamo anche sul fatto che il problema etico spinoziano è di uscire dall’infanzia e di divenire adulti, ma crediamo di dover dimostrare in questo capitolo che Spinoza si distacca radicalmente sia dalla posizione scolastica sia da quella di Descartes e che è ingiusto oltre che insufficiente ricondurre il problema ad una visione negativa tutto sommato banale (questo il motivo per cui Macherey tende peraltro a spiegare l’ossessione con motivi privati). Avremo più avanti l’occasione di precisare i punti di accordo e di disaccordo con Macherey su questo tema. Qui ci limitiamo a un’osservazione minima: ci pare illegittimo inferire dal bambino strutturalmente malato l’infanzia come malattia (come fosse, allora, un «vizio di natura»?). 2 Eth, II, 49, sch.

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A ben pensarci, sarebbe stato sorprendente il contrario: come immaginare che lo stato della domanda nell’Olanda del Secolo d’oro – che cos’è l’infanzia? Umanità mutilata o mondo a parte? Suprema umiliazione o felice follia? – non abbia condotto il demistificatore delle idee di privazione e di metamorfosi a un sovrainvestimento filosofico sul periodo iniziale della vita? Fino alla fine dell’Etica il processo etico o il divenir-filosofo, nel suo insieme, è identificato al divenire del bambino che cresce; è qui in gioco l’intera economia spinoziana dell’immagine all’interno dell’esplicita prospettiva d’una immaginazione emancipata, tanto più affrancata dalle chimere da immaginare «più distintamente e più vividamente» e da meglio ordinarsi sotto le dipendenze della mente.3 Per affrontare il problema, Spinoza ha dovuto compiere uno strano ma necessario percorso attraverso una figura che ha curiosamente l’aria di una chimera, l’infans adultus, bambino-adulto o adulto-bambino. Questo intero programma – naturalizzare l’infanzia, sviluppare un’immaginazione ordinata «tramite» l’intelletto e così ristabilire, in conformità del resto al senso comune, un’immagine rovesciata, insomma, non dispiacersi per l’infanzia, nel duplice senso di rimpiangerla o di piangerla – è condensato nell’ammirevole scolio V, 6, che occorre citare integralmente: Quanto più tale conoscenza – cioè che le cose sono necessarie – si riferisce alle cose singole, che vengono da noi immaginate più distintamente e più vividamente, tanto maggiore è questa potenza della mente sugli affetti, come attesta la stessa esperienza. Vediamo, infatti, che la tristezza per la perdita di un qualche bene viene mitigata non appena l’uomo che lo ha perso considera che non avrebbe potuto conservarlo in alcun modo. Così vediamo che nessuno commisera un bambino perché non sa parlare, cam-

3 L’allusione ad un’immaginazione libera, al termine di Eth, II, 17 sch., non da risalto alla finzione; essa anticipa la V parte (precisamente Eth, V, 6, sch., considerato più avanti; Eth, V, 7, dem.; e Eth, V, 10 e sch.). Le riserve di Gueroult sull’analogo passaggio della lettera 17 a Balling ci appaiono tanto meno decisive in quanto si confutano parzialmente da sole (Gueroult, Spinoza. T.2: L’Ame, appendice, n°10). Gueroult ha tuttavia ragione nel dire che la questione dell’immaginazione libera è in primo luogo quella del linguaggio (dato che le parole sono delle «immagini»). Ma per prenderne del tutto la misura, occorre da un lato essere attenti agli sforzi di Spinoza per introdurre nuovi usi linguistici (li consideriamo in Spinoza. Una fisica del pensiero, op. cit., cap. V), d’altro lato porre il problema, forse ancor più delicato, dello statuto dell’immagine nel discorso filosofico (cercheremo di farlo, o di iniziare a farlo, proprio qui).

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minare, ragionare e, infine, perché vive per tanti anni quasi ignaro di sé. Ma se la maggior parte degli uomini nascessero adulti e solo uno o due di essi bambini, allora ognuno avrebbe commiserazione dei bambini, poiché in tal caso non considererebbe la stessa infanzia come una cosa naturale e necessaria, ma come un vizio o un peccato della natura; e a questo modo potremmo notare molte altre cose.

Per comprendere la posta in gioco nella figura dell’infans adultus che, ricordiamolo, è introdotta nello scolio IV, 39 per immaginare la trasformazione di un individuo («in verità avrebbe potuto essere considerato un bambino adulto, se […]» e per sottolineare la frattura che separa l’adulto dal bambino che è stato («Un uomo di età avanzata crede la loro natura tanto diversa dalla propria da non potersi persuadere di essere mai stato bambino, se […]»), alcune sommarie considerazioni storiche sono utili. Spinoza non interviene in un contesto qualsiasi: come in molti ambiti, in questo secolo paradossale che mette spesso insieme arcaismo e modernità, l’infanzia dà luogo a un insieme particolarmente ricco e complesso di discorsi e di attitudini eterogenee, particolarmente in Olanda dove si succedono e persino si mescolano la scolastica, il cartesianesimo, la predicazione calvinista, l’eredità umanista, la medicina ippocratica e galenica, ma anche delle tendenze inedite rilevabili nelle pratiche collettive, in certi approcci medici empirici, nella riflessione giuridica, e infine nella poesia e nella pittura. Non risulta eccessivo affermare che l’Olanda del Secolo d’Oro è effervescente a proposito dei bambini; e l’opera di Spinoza ben testimonia come egli non sia rimasto estraneo a tal contesto, anche se la potenza e l’originalità della sua riflessione debordano dal quadro delle correnti di pensiero esistenti.

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3. LA FIGURA DELL’INFANS ADULTUS 1. Il bambino della Scolastica e le contraddizioni del Rinascimento. Tommaso d’Aquino si sforza di pensare la relazione tra infanzia e età adulta secondo la continuità numerica. Un simile progetto esige di conciliare lo stesso e l’altro, le differenze di quantità e di qualità. Il problema è che non può trattarsi di una semplice crescita, di un aumento (l’obesità, ad esempio, è una disfunzione e non il risultato della crescita). Pertanto occorre aggiungere un secondo schema che corregga o limiti il primo, che gli ponga un termine, un limite. La tradizione aristotelica ha imposto quello del perfezionamento. La differenza è dunque sia di grado (aumento) sia di segno negativo (una mancanza che richiede di essere colmata, una privazione che tuttavia non è semplice negazione dato che il divenire implica potenza o potenzialità); e, per fare ciò, occorre differenziare il concetto di privazione per poter pensare una privazione che non escluda la presenza della forma o dell’anima, senza cui il corpo non esisterebbe. Questa è l’imperfezione, che non ha la stessa natura se si tratta del corpo o se si tratta dello spirito. Tutto accade come se il processo si sdoppiasse: il cambiamento quantitativo si riferisce al corpo e quello qualitativo allo spirito. Nel corpo, in effetti, la perfezione è legata al possesso della quantità che corrisponde naturalmente alla forma. Ora, gli esseri animati, a differenza di quelli inanimati, provengono da un seme e non ricevono da subito né la forma né la quantità che a loro è dovuta: nascono imperfetti, e sono condotti poco a poco alla loro misura ottimale attraverso il processo della nutrizione.4 Si tratta dunque di una pura crescita che si compie tramite la nutrizione, anche se essa è finalizzata. Lo scarto tra la quantità attuale e quella ottimale è solo questione di grado, il bambino deve semplicemente crescere: Ora, nel corpo di un uomo mentre è in vita le parti non sono materialmente sempre le stesse, ma lo sono soltanto secondo la specie; invece, secondo la materia codeste parti vanno e vengono. Ma ciò non impedisce che un uomo sia l’identico individuo dal principio della vita fino alla fine […]. Infatti per tutta la vita rimangono la specie e la forma delle singole sue parti,

4

E. Gilson, Le Thomisme, Paris, Vrin, 1964; tr. it. di F. Marabelli, a cura di C. Marabelli, Milano, Jaca Book, 2011, pp.342-343.

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ma la materia di codeste parti si dissolve per l’azione del calore naturale, ed esse vengono reintegrate dagli alimenti. […] poiché anche per opera della natura avviene che la statura del bambino riceva nuovi apporti esterni, per raggiungere la statura perfetta, e tuttavia codesti apporti non alterano l’identità numerica; poiché da bambino e da adulto un uomo è numericamente lo stesso. (Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, tr. it. a cura di Tito S. Centi, Torino, UTET, 1975, libro IV, cap.81, 4)

Diversamente va per lo spirito. In tale caso, il perfezionamento si presenta come una quasi-generazione, dato che l’operazione questa volta passa per gli opposti in quanto il bambino è inizialmente privo di ragione e deve divenire ragionevole. È qui che compaiono le difficoltà e che sentiamo Tommaso d’Aquino oscillare tra due enunciati. Se l’uomo è definito animal rationale, è in qualche modo l’umanità che il bambino deve acquisire; e tuttavia l’anima che informa il corpo di quest’ultimo non è di una specie differente dall’umana. Se questo paradosso è possibile, è in virtù dell’unità dell’anima e della sua specificazione attraverso il suo ultimo grado di perfezione (intellezione). In tal modo diviene possibile pensare l’uomo senza l’uomo, l’uomo privato di sé, in una privazione che non sia semplice negazione. Il bambino viene meno alla sua propria essenza, alla sua propria forma, e viene meno a se stesso. Tommaso d’Aquino rifiuta con forza l’idea di una differenza d’essenza, che implicherebbe una trasformazione: è proprio il mancare di qualcosa che caratterizza l’infanzia, impotenza propria di chi non esiste se non in potenza. In fondo, la crescita pertiene all’ambito dell’accidentale.5 L’infanzia si definisce attraverso la propria negatività: scorgere in essa un’età positiva vorrebbe dire compromettere la continuità numerica. E tale negatività è la conseguenza di una finalità: il bambino esiste solo per l’essere umano che è chiamato a diventare

5

Cfr. il commento alla parola di Paolo: «Ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte sarà abolito». (1 Co, 13,10) Tommaso commenta: «Le parole dell’Apostolo valgono solo per le cose imperfette in cui l’imperfezione è essenziale. In questi casi infatti la presenza di ciò che è perfetto esclude ciò che è imperfetto: come l’aperta visione esclude la fede, a cui è essenziale la non evidenza. Quando invece l’imperfezione non è essenziale alla cosa imperfetta allora l’identica cosa che prima era imperfetta può divenire perfetta: come la puerizia non fa parte dell’essenza dell’uomo (non est de ratione hominis) per cui l’identico soggetto che prima era bambino diviene adulto. Ora, lo stato informe non è essenziale alla fede (informitas fidei), ma è per essa accidentale […]. (Summa theologica, op. cit., IIa, IIae, q.4, art.4, sol.1, vol.3, pp. 50-51)

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e che non è ancora, l’infanzia non ha senso in se stessa. E questo è il primo enunciato: Perciò siccome il bambino è potenzialmente intelligente, anche se attualmente non intende, bisogna che in lui ci sia una potenza mediante la quale è in grado di intendere. (Tommaso d’Aquino, Summa conta i gentiles, op. cit., II, 60, 5) La disposizione diventa abito come il bambino diventa uomo. (Tommaso d’Aquino, Summa theologica, tr. it. a cura della redazione delle Edizioni Studio Domenicano, Bologna, ESD, 1996, vol II, p. 371)

Tale statuto di potenzialità è fragile: esso implica una visione dinamica del bambino. Ripiegato sulla sua attualità presente, egli perde il tenue filo che lo legava alla specie umana. Ed ecco il secondo enunciato: Infatti il bambino, finché non ha l’uso della ragione, non differisce dall’animale irragionevole. Perciò come il bue o il cavallo appartengono a un padrone che può usarne a proprio arbitrio come di strumenti, secondo il diritto civile, così secondo il diritto naturale il figlio prima dell’uso della ragione, è sotto la cura del padre […]. Quando invece [il bambino] comincia ad avere l’uso del libero arbitrio, allora comincia ad appartenere a se stesso e può decidere di se stesso nelle cose di diritto divino e di diritto naturale. (Summa theologica, op. cit., IIa, IIae, q.10, art.12, vol. 3, p.101)6

Il bambino sembra appartenere al genere, senza differenza specifica; così si parlerebbe di un animale in generale, dunque di una bestia (dato che gli si riconosce almeno la capacità motoria). Non è già di un’altra specie, a dire il vero non ne consta di alcuna. Tuttavia bisogna pure che egli possieda già la forma ad un certo grado, senza cui il perfezionamento sarebbe impensabile: il bambino sarebbe un umano ancora indiscernibile dagli animali. Se la teologia decide di riconoscere un’anima immortale al bambino battezzato, la cultura popolare sembra rigettare l’idea che il bimbo piccolo contenga già una persona umana.7 Tale età può ben essere detta informe dato che Tommaso d’A-

6

Tutti questi testi concernono il puer. L’età della ragione era tradizionalmente a 12 anni per le femmine e a 14 per i maschi; corrisponde alla pubertà. Su questo particolare cfr. Summa theologica, op. cit., IIa, IIae, q.189, art. 5, vol.4, p.802. 7 P. Ariès, L’enfant et la vie familiale sous l’Ancien Régime, Paris, Le Seuil, 1973; tr. it. di M. Garin, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Roma-Bari, Laterza, 1968, p.145.

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quino stesso parla di informitas per designare lo stato d’imperfezione o di incompiuta attualizzazione; ma anche nel senso dell’impossibilità di accordare una forma all’infanzia, sia in quanto il cambiamento costante la renda improbabile, sia in quanto il corpo, si pensa, non abbia ancora dei tratti marcati.8 L’identità numerica e formale che nasconde la differenza tra il bambino e l’adulto, così come la logica di perfezionamento radicale che vi si sovrappone, hanno una contropartita: assumendo senso soltanto in relazione ad una norma da cui si discosta, il bambino disturba, inquieta, turba, la sua incompiutezza è segnale di una anormalità che lo avvicina al folle, al muto, al nano.9 Questo genere di accostamento non è certo assente dai testi spinoziani: «Sono bambini, sciocchi o pazzi?».10 «Se mi domando: un tal uomo non è da considerare piuttosto un asino che un uomo? Rispondo di non saperlo, come non so in quale modo sia da considerare chi si impicca e come siano da considerare i bambini (pueri), gli stolti, i pazzi ecc.».11 La questione è sapere se Spinoza si limita a questo, se effettivamente si accontenta dello schema di negazione o di privazione che deriva dalla logica del perfezionamento ma che tende a ritorcervisi contro a vantaggio di un’opposizione di natura. In effetti, il legame di potenza non toglie l’abissale differenza di stati attuali cosicché considerando unicamente la realtà dell’infanzia, l’umano incompiuto sembra non solo unirsi a coloro che sono restati bambini o che lo sono ridivenuti (altro non essendo quest’ultimi che adulti/bambini o ripiombati nell’infanzia, se si assume quest’ultima come paradigma d’incompiutezza), ma sembra anche pericolosamente inclinare verso il lato degli animalia

8

Cfr M. de Montaigne, Essais, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, «La Plèiade»1962; tr. it a cura di F. Garavini, Milano, Adelphi, 1966, vol.I, libro II, cap. VIII, pp. 497-498: «Non posso ammettere quella passione con cui si abbracciano i bambini appena nati, che non hanno né impulso nell’anima né forma riconoscibile nel corpo per cu possano rendersi amabili». 9 Cfr. D. Lett, L’enfance: aetas infirma, aetas infima, in Mèdièvales, n°15, aut.1988, Saint-Denis, PUV, pp.85-95. 10 Ep, 68 di Spinoza a Boxel. 11 Eth, II,49, sch. Questo trio si trova già in Hobbes, Leviathan, op. cit., cap. XVI, p.133 e cap. XXVI, p. 224 e anche in J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, tr. it. a cura di M. Abbagnano e N. Abbagnano, Torino, UTET, 1971, I, 1, § 27, pp. 85-86.

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irrationalia.12 L’intero rapporto di Spinoza alla potentia e all’idea di perfezionamento è qui in gioco. Insomma, il bambino è un essere piccolo rispetto al corpo e privo di mente. Doppio o persino triplo niente, come vediamo, in quanto piccolo, il suo corpo è il medesimo di quello dell’adulto di cui differisce solo dal più al meno; in quanto in crescita, egli altro non è che divenire inafferrabile e fuggitivo (sono i suoi due modi d’essere invisibile); infine, privo di ragione, si definisce per ciò che non è. Da questo punto di vista, l’infanzia non dovrebbe cadere sotto i colpi della critica spinoziana come ipostasi di un semplice modo di pensare, al pari della cecità o della morte? La relazione con l’infanzia è dunque presa in un’alternativa i cui due termini opposti giungono a cumularsi: il bambino come adulto preformato; il bambino come opaca preistoria dell’uomo che abita con i suoi simili e qualche essere analogo – i semplici di spirito, gli idioti – un mondo impenetrabile. Il Rinascimento, che prende in contropiede l’atteggiamento tradizionale prestando un’attenzione affascinata ai bambini, in una frequente miscellanea di tenerezza e di spavento, di gravità e di ilarità, asserisce l’eterogeneità dei due mondi e i loro scambi costanti; di modo che talvolta non si sa se è il bambino che scimmiotta l’adulto o se non è piuttosto il contrario. Talvolta è uno specchio: follia degli uomini presentita nel comportamento discolo dei bambini. Talvolta è una permuta dei contrari fino all’indiscernibile che richiama le parole famose di Paolo: Non ha forse Dio reso pazza la sapienza del mondo?[…] ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti […]. Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio; perché la sapienza di questo mondo è pazzia davanti a Dio. (S. Paolo, Lettere, Corinti, I, 25 e 27; 3, 18)

Erasmo incarna a meraviglia tale ambivalente attitudine del Rinascimento, debitore dello schema scolastico dato che non fa che invertirlo. La sua idea innovatrice, decisiva, di un apprendistato alla libertà attraverso la libertà non gli impedisce di riprendere in carico l’idea

12

Per la sua forma negativa che definisce le bestie solo tramite la negazione della differenza specifica dell’uomo, questa espressione scolastica utilizzata da Spinoza nello scolio di Eth, III, 57 sembra del tutta adeguata a confonderle con bambini, stolti e pazzi.

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tomista d’informitas del neonato che non parla (infans), in questo senso indiscernibile dall’animale: l’educazione è proprio l’acquisizione della forma umana, logos inteso come lingua piuttosto che ragione.13 D’altra parte, nella sua finzione a doppio taglio, egli si fa testimone d’una cultura che celebra la follia del bambino e che vede nella sua maturazione progressiva una perdita deplorevole di vitalità. L’assoluta separazione dei due universi rivela allora la propria chimera e il teorico dell’educazione riappare sottobanco per tracciare la propria figura dell’infans adultus: Che cosa hanno i bambini da indurci a baciarli, abbracciarli, accarezzarli, per cui persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa se non la grazia che viene dalla mancanza di senno […]. Che altro è l’infanzia se non sragionare e non avere senno? Non è l’ignoranza totale che più piace di quell’età? Chi non detesterebbe ed esecrerebbe come mostruoso un bambino con la saggezza di un uomo? (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, tr. it. di S. Fiorini, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 45-46)

2. Il bambino della pittura e della medicina Ridurre la crescita infantile ad un aumento delle parti del corpo porta dritto dritto alla chimera dell’infans adultus: il bambino, adulto in miniatura. Tale confusione di bambino e adulto è antica: risale in Occidente all’inizio del Medioevo che segna una rottura con il tardo ellenismo.14 Sappiamo che la pittura ha rappresentato a lungo il bambino senza riconoscergli dei tratti specifici o un’espressione particolare, tanto più che l’abbigliamento allora in uso non offriva passaggio alcuno dalla camiciola per neonato all’abito dell’adulto. L’infanzia era segnalata dalla sola differenza di taglia, mantenendosi le stesse proporzioni di corpo dell’adulto: si passava da un’età all’altra attraverso un semplice cambiamento di scala. Di fondo, l’adulto era dato da subito e questo non può essere senza rapporto con la tesi aristotelica dell’anteriorità dell’atto sulla potenza ripresa da Tommaso d’Aquino:

13

Cfr. P. Jacopin e J. Lagrée, Erasme. Humanisme et language, Paris, PUF, 1996, pp. 23-31. 14 Cfr. P. Ariès, op. cit., p.145.

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Il perfetto è anteriore all’imperfetto: in senso assoluto, sia dal punto di vista della natura che dal punto di vista del tempo; senza dubbio, nello stesso soggetto, il perfetto è anteriore per natura ma l’imperfetto è anteriore sul piano temporale, così come un uomo (homo) è cronologicamente bambino prima di essere un uomo maturo perfetto (vir perfectus), tuttavia l’uomo maturo perfetto è anteriore per natura, essendo l’oggetto naturale della tendenza; ma in senso assoluto lo è anche sul piano temporale, poiché il bambino è generato da un uomo fatto. (T. D’Aquino, Commentarium in libros Aristotelis De Caelo et Mundo, a cura di P. Fr. Raymundi, M. Spiazzi, O.P., Roma, Marietti, 1952, Liber II, lectio 5, 347 [4], nostra trad.)

Le cose mutano tuttavia a partire dal XIII° secolo, lentamente, con la rappresentazione degli angeli, di Gesù Bambino, dei putti. La tendenza si accentua rapidamente nel XVII° secolo che crea sia l’abito da bambino sia il ritratto infantile.15 Velasquez forse segna una transizione laddove esibisce la chimera dell’infans adultus: la bambina de Las Meninas, vestita come una dama, con le sue arie da grande tra i nani, è in realtà una bambina, ma è mostrata come una bambina-adulta cui si rifiuta la sconcertante transizione della crescita; il piccolo principe Balthasar Carlos dal corpo e dal viso non dimostra più di dieci anni, ma Velasquez dipinge il suo ritratto equestre in abito da re (qualche anno prima l’aveva dipinto ancora lattante in compagnia di un nano e già costretto in un pesante abito regale).16 Parallelamente Velasquez s’interessa ai nani di corte che, a prima vista, costituiscono il fenomeno inverso dell’adulto – bambino: da qui di nuovo Las Meninas in cui i due fenomeni stanno fianco a fianco. Ma i nani, non essendo bambini, proiettano su questi ultimi l’ombra della mostruosità: sono loro che fanno deviare

15

Ibidem, cap.2: «La scoperta dell’infanzia». Il Principe Balthasar Carlos con il suo nano, Museum of Fine Arts, Boston; Ritratto equestre del Principe Balthasar Carlos, Museo del Prado, Madrid. Il confronto di questa seconda tela con il Ritratto equestre di Filippo IV, anch’esso al Prado, è impressionante: l’atteggiamento e i caratteri sono i medesimi. Il re-bambino, delfino o regnante, è evidentemente l’infans adultus per eccellenza, dato il suo stato e le insegne che lo accompagnano. In una terza tela Balthasar Carlos compare alla stessa età in abito da caccia. P.-M- Schuhl ha studiato oltre Las Meninas, la serie di ritratti dell’infanta Margherita: cfr. «Sur l’enfance d’une Infante» in Mélanges Alexandre Koyré, Paris, Hermann, 1964, t. 2, pp.471-474. Nella stessa Olanda, Gerard Ter Borch nel 1648 fa il ritratto di una bimba di due anni con vestito di seta e borsetta (Ritratto di Helena van der Schalcke, Rijksmuseum, Amsterdam). 16

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l’infanzia dal retto cammino verso l’età adulta, e suscitano il vago sospetto di un mondo a parte e disgraziato, opaco, dove gli adulti non entrano.17 Il nano fa del bambino un adulto, ma non nel senso di una crescita prematura o affrettata, o ancora di un’invisibilità dell’infanzia, quanto piuttosto di una visibilità troppo grande, accecante, ammaliante. Ci sono così due modi di separare il bambino dal suo sviluppo, confondendolo con l’adulto: o facendo subito di lui un adulto oppure riconducendo la sua differenza ai margini, tra gli adulti separati dagli adulti. Il divario, l’asimmetria, tra il bambino trattato come un adulto e l’adulto con dimensioni da bambino, sono evidenti; il loro accostamento rende incerta la frontiera tra le due età e produce gli scambi, il contagio dall’uno all’altro, seminando scompiglio nell’uno e nell’altro. Sono le due facce della chimera, diritto/rovescio, ma forse anche la collusione di due ispirazioni che coesistono molto tardi nel XVII° secolo sia in Olanda che in Spagna: una umanista o rinascimentale (il nano come mediazione inquietante), l’altra «classica», ossia inedita (comparsa del bambino dalla chimera che lo cela). Questo sguardo indirizzato specificatamente al bambino, in Velasquez, attraverso la cosciente esibizione della chimera, troverà il proprio compimento nella pittura olandese del Secolo d’Oro, specialmente in Rembrandt (i ritratti di Tito)18 e Metsu (Il bambino malato).19 Una differenza di natura si

17

Simon Schama commenta una tela di Molenauer dove si vedono bambini e nani e vi decifra un compendio di tutte le ambiguità di comportamento degli adulti e dei bambini (S. Schama, The Embarassment of Riches. An Interpretation of Dutch Culture in the Golden Age, New York, A.A. Knopf, 1987; tr.it. di V. Sperti, Milano, Mondadori, 1993, pp.727-728). 18 Una certa leggenda vuole che Rembrandt, componendo nel 1656-1657 il Tito che legge abbia attribuito a suo figlio i lineamenti di Spinoza. È noto che Rembrandt frequentava la comunità ebraica di Amsterdam. A tale epoca il futuro filosofo era appena stato scomunicato e iniziava a frequentare la scuola di Van den Enden. La serie dei Tito, dal 1650 (se il ritratto di bambino è proprio quello di Tito, allora dell’età di 9 anni) al 1663, anno in cui la malattia fatale si legge già nei tratti del giovane, illustra tragicamente lo scolio di Eth, V, 39: «Chi passa infatti dalla condizione di neonato o di bambino alla condizione di cadavere […].» 19 Cfr. la riproduzione a pag. 112 e la nota infra. È vero, come scrive Simon Schama, che «Gli olandesi inventarono l’immagine straziante del bambino malato» (S. Schama, op. cit., p.683) da notare che la serie dei bambini adulti di Velasquez ne contiene già uno: Ritratto del principe Filippo Prospero, Kunsthistorisches Museum, Vienne, 1661 (si potrebbe obbiettare che la presenza di ninnoli e di una

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è rivelata. Di conseguenza, riconoscendo l’individualità del bambino, la nuova pittura rifiuta la differenza negativa stabilita dalla scolastica: essa vede il bambino mentre la scolastica enumera di contro ciò che non vede (il camminare, la parola, la fede ...); non che la nuova pittura s’intenerisca, ma non condivide più l’inquietudine umanista di fronte alle frequentazioni infantili dell’inumano, inquietudine ancora tributaria dell’equivoco scolastico per cui il bambino è nello stesso tempo uguale e altro, adulto in negativo, provvisoriamente animale. Il bambino inizia ad esistere positivamente, ha smesso, per riprendere la categoria spinoziana, d’essere un modo di pensare immaginato e non per essere rinserrato in un mondo a parte, ancora segnato dalla sua definizione del tutto negativa, anche se – lo ripetiamo – l’umanesimo e la sua rappresentazione delle oscure diavolerie dell’infanzia ha coesistito a lungo nel XVII secolo olandese con la nuova sensibilità: il bambino è ora l’umano in divenire, né pre-adulto, né confinato in una sfera impenetrabile (Rembrandt dipinge suo figlio mentre sta crescendo e sta cambiando).20 Non lo si distingueva né dal folle né dalla bestia; ora, al contrario, egli è la figura dell’essere che non smette di differire sia dal folle che dalla bestia. A tale titolo diviene forse l’immagine adeguata dell’umanità. La medicina, dal canto suo, concepiva nello stesso modo il bambino e la sua salute sul modello dell’organismo adulto; tuttavia non si può dire che essa abbia conosciuto a riguardo una evoluzione analoga a quella della rappresentazione pittorica.21 Dato che la fisiologia

campanella sulle veste del principe fa sparire completamente il lato adulto ; resta comunque l’essenziale – il contrasto tra il piccolo bambino febbricitante legato ai giochi della sua età, e il suo abito, infantile senza dubbio, ma da bambino regale, che segnala la sua gravosa natura d’erede al trono). In Spinoza la natura chimerica della monarchia assoluta si manifesta eminentemente nella figura del re bambino, malato o senescente. Il quadro di Metsu, come vedremo, si rapporta a ben altro aspetto del suo pensiero. 20 Schama cita anche un disegno del 1630 dove un bimbo fa i primi passi. 21 L’edizione Clerselier del Traité de l’homme di Descartes lo testimonia: la figura 13, secondo la numerazione di Alquié, rappresenta innegabilmente un bambino-adulto (cfr. R. Descartes, Œuvres philosophiques, ed. Alquié, Paris, Garnier, 19631973, tome 1, p.424, tr. it. di G. Micheli in R. Descartes, L’uomo in R. Descartes, Opere scientifiche, Torino, UTET, 1966, vol.I, p. 105). Ne L’uomo il bambino ha come unica particolarità l’esser fatto di una materia più «tenera», fatto che spiega la sua crescita: essendo i pori più adatti a allargarsi, il continuo ricambio delle parti si realizza ogni volta a vantaggio delle parti più grandi, o più numerose, fino a che

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di riferimento è quella dell’adulto, l’organismo del bambino appare strutturalmente malsano: la crescita ininterrotta così come la fragilità del bambino sono interpretate, in termini ippocratico-galenici – come uno squilibrio umorale strutturale (predominanza del caldo e dell’umido, da cui la necessità d’un sovrappiù di cibo ma anche una certa tendenza alla decomposizione cadaverica – i testi di Spinoza, seppur di ben altro spirito, presentano tracce di tali due aspetti). Il bambino non ha le proporzioni dell’adulto ma non ne ha neppure di proprie in quanto queste non smettono di cambiare, e si crede vano cercare una norma di salute per il bambino: dall’assenza di forma stabile deriva una incessante variazione che resterebbe incomprensibile se non trovasse la propria legge in una causa finale – l’organismo compiuto dell’adulto. Insomma, è in primo luogo la stessa infanzia che occorre curare e superare.22 Vediamo come il tentativo di un riconoscimento (la differenza delle proporzioni) sia compromesso dal sentimento angoscioso di una vertigine (la crescita continua).23 Si è quasi giunti alla distinzione di fisiologie distinte, e ciò che non convince a tal proposito i medici è meno lo scarto tra le forme (esigenza di una continuità identitaria di sviluppo), che l’impossibilità di fissare una forma nel bambino (inconsistenza). Il meccanicismo, preoccupato di eliminare le categorie occulte della qualità e del fine, accentua paradossalmente la convinzione che la cultura di contro sta facendo vacillare, e non può che confermare l’invisibilità medica dell’infanzia: semplice differenza di misura dato che lo sviluppo è ridotto a una crescita. Osserviamo le difficoltà di Descartes in La descrizione del corpo umano: egli riporta alla teoria degli umori – come del resto fa Spinoza 24- «il diverso temperamento

la materia delle membra si sia indurita (Ibidem, p.67). 22 B. Jolibert, L’enfance au XVII° siécle, Paris, Vrin, 1981, pp. 49-51. 23 I trattati ermetici la cui diffusione fu notevole alla fine del XVI° secolo, hanno spinto più lontano tale idea di trasformazioni successive dell’uomo nelle differenti età della vita. Se un adolescente s’assentasse per lungo tempo nemmeno i suoi famigliari sarebbero in grado di riconoscerlo. L’infanzia propriamente detta non è che un sogno, nella misura in cui ciò che è incostante manca di realtà. Così non bisogna parlare di bambino bensì di «immaginazione di un bambino». Il bambino è quell’essere «pronto a mutare di stato in poco tempo, così poco che altro non fa se non cambiare ad ogni istante» (Pimandre di Mercurio Trismegisto, trad. franc., 1579, commentario al cap. XV, p. 670). 24 TTP, II.

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di ogni corpo».25 Ma evita di servirsi di tale teoria laddove tenta di spiegare la crescita. Egli pone così un principio di diminuzione e di aumento che allo stesso tempo principio di strutturazione secondo il temperamento anche se questo secondo aspetto non lo interessa e lo lascia nel vago. Il principio consiste nello sfregamento tra parti solide (composte da «filamenti») e parti fluide (umori e spiriti animali), le prime si muovono più lentamente delle seconde. Segue allora una descrizione della crescita che comporta infatti due aspetti: l’accrescimento propriamente detto, che concerne le parti solide e attraverso cui il corpo «si allunga» e la sua degenerazione, dovuta a un eccesso umorale, attraverso cui il corpo «s’ingrassa». La costruzione del testo in quattro paragrafi merita di essere considerata: Descartes inserisce il processo reversibile di produzione del grasso nella narrazione in forma di dittico di un processo irreversibile, quello della giovinezza e della vecchiaia. Paradossalmente è il ricorso al disequilibrio che qui meno tradisce l’intenzione meccanicista. La crescita, di par suo, è chiaramente finalizzata; all’inizio, i filamenti «non sono ancora26 congiunti molto strettamente gli uni agli altri» così che il corpo mantiene la sua plasticità – questa è la giovinezza, ma «di mano in mano che s’invecchia»27 – l’explicandum diventando nel passaggio l’explicatio – i filamenti «pervengono infine a un tale grado di durezza» che la crescita e la nutrizione s’interrompono, ed è la vecchiaia, trovando il proprio termine nella morte per la «sproporzione» tra il movimento delle parti fluide e il riposo assoluto cui pervengono le parti solide (lo sfregamento, sottintende Descartes, non c’è più). È chiaro che si passa da una giuntura lassa a una giuntura perfettamente saldata e che l’invecchiamento non è in fondo altro che l’inverso della giovinezza. La visione cartesiana è strana: la vita non declina, è una continua crescita affetta da un progressivo rallentamento. Invecchiamento e morte sono presupposti; non sono affatto spiegati. Unico abbozzo di una ragione: l’evocazione sfuggente di una sproporzione. Ma perché tale ragione si sviluppi e divenga rapporto di movimento e riposo tra parti del corpo occorrerà che giunga Spinoza e dopo di lui forse Baglivi, e che la nozione così affermata si ricongiunga all’altra effi-

25

R. Descartes, La description du corps humain, III (De la nutrition), in Œuvres philosophiques, op. cit., t.3, p.827; tr. it. in R. Descartes, Opere scientifiche, op. cit., p. 214. 26 Sottolineatura nostra 27 R. Descartes, Descrizione del corpo umano, op. cit., p.215

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mera allusione fatta al temperamento del corpo per formare un solo e unico concetto dell’individualità biologica. Tale è l’impaccio del primo meccanicismo che sfugge alla finalità solo reintroducendola di soppiatto, lasciando fluttuare nel vago, a volte servendosene altre no, le nozioni tradizionali di equilibrio e di proporzione. La differenza tra bambino e adulto si attenua del tutto, non essendo gioventù e vecchiaia che una maschera bifronte. In verità, la preferenza dei filosofi classici (Leibniz, Malebranche) per il preformismo conferma e anzi rafforza la confusione del tempo: l’adulto è già presente nel germe stesso. La medicina tuttavia evolve in Olanda, ma per un differente versante: sotto aporia teorica il medico pone un’attenzione inedita al bambino. I trattati di pediatria e di puericoltura si moltiplicano.28 Non si mette in causa il giudizio sull’infanzia: impotenza, fragilità, morbilità. Ma le conseguenze che se ne traggono cominciano ad essere opposte: da un quasi nulla teorico non si giunge all’indifferenza pratica, bensì al contrario all’urgenza di un’assunzione in carica e di una lotta. La figura del bambino malato non ha in modo manifesto lo stesso senso per il medico e per il pittore olandese del XVII° secolo: per il primo, la malattia è innanzitutto l’infanzia stessa – forma insicura – e non si separa da una fragilità costitutiva, ma proprio per tali ragioni merita ormai ogni attenzione; per il secondo, la malattia è senza dubbio essenziale all’infanzia, ma rafforza precisamente la sua specificità e contribuisce a renderla visibile per se stessa. Si direbbe che Spinoza opera il legame tra queste due attitudini: occorre che anche la medicina riconosca definitivamente che il viso e il corpo del bambino non s’ottengono per riduzione, ma per differenza, in figura e proporzioni, da quelli dell’adulto: tra le due età non si dispone più di una procedura di passaggio. 3. Il bambino dei giuristi La concezione dell’infanzia muta anche nell’ambito del diritto. Se la questione principale era fino ad allora quella del bastardo, ossia della demarcazione tra legittimo e illegittimo in vista dei diritti di successione, si

28 S. Schama, op. cit., p. 682 e segg. Non solo si pubblica De morbis infantum ad uso dei sapienti, ma anche dei trattati popolari redatti in olandese. Ci vorrà ancora un secolo perché la Francia, del resto in ritardo su tutta Europa, cominci ad interessarsi di pediatria. (F. Lebrun, Se soigner autrefois. Médecins, saints et sorciers aux XVII et XVIII siècles, Paris, Le Seuil, 1995, p.135)

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cerca ormai di definire uno statuto del bambino come tale, specialmente di fronte ai casi d’infanticidio e di abbandono («esposizione»). Tuttavia il fatto principale è la comparsa di una contestazione dell’autorità genitoriale.29 L’Olanda sembra superare in questo tutti i suoi vicini europei: l‘indisciplina e l’indocilità dei bambini, la tolleranza inedita dei genitori, infine la frequenza e l’ampiezza dei conflitti con gli adolescenti sembrano aver stupito tutti i viaggiatori.30 Spinoza, come vedremo, da voce a questi drammi, che senza dubbio lo addolorano, ma lo stimolano ad una riflessione sullo scacco dell’educazione piuttosto che ad una condanna morale dei bambini. D’altra parte, l’evoluzione dei costumi non manca certo di riflettersi nel pensiero giuridico: Hobbes, in particolare, dà prova di una notevole modernità. Egli sostiene che il dominio paterno «deriva […] dal loro [dei figli] consenso» (per il lattante l’obbedienza è dovuta alla madre, essendo colei che si occupa della sua conservazione; tuttavia la versione latina del Leviathan sembra accordare alla madre un diritto di vita e di morte sul proprio figlio),31 dato che i bambini fino a quando non hanno l’uso della ragione, ossia della parola, non possono dirsi né giusti né ingiusti, poiché la legge non ha alcun senso per loro e dato che «non hanno la capacità di stipulare alcun patto o di comprenderne le conseguenze».32 Tuttavia Hobbes assimila virtualmente il bambino a un servo, e il diritto di vita e di morte che egli accorda alla madre del lattante, determinando il dovere di obbedienza di quest’ultimo se costei sceglie di proteggere la sua vita, è se non analogo comunque comparabile alla convenzione per cui il vinto aliena la sua libertà in favore del vincitore in cambio della vita (la relazione giuridica in entrambi i casi è fondata sull’evitare la morte, anche se il lattante su ciò non si accorda).33 Pure l’autorità paterna non si distingue affatto dal dispotismo, ciò che giustificherà – ci ritorneremo – una focalizzazione della questione tanto netta che concisa nel Trattato politico. Il XVII° secolo manifesta dunque una nuova attenzione al bambino, ai margini della filosofia, della teologia e della medicina teorica. Si tratta di considerare se Spinoza sia impegnato a portare a compimento

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Su questi diversi aspetti cfr. Jolibert, L’enfance au XVII siécle, op. cit. Cfr. P. Zumthor, La vie quotidienne en Hollande au temps de Rembrandt, Paris, Hachette, 1959, ried.1990, pp.119-121. 31 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., cap. XX, p. 167 e p. 168, per il diritto di vita e di morte. 32 Ibidem, cap. XXVI, p.224. 33 Ibidem cap. XX («Delle dominazioni paterna e dispotica»), pp.167-168. 30

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tale nuova tematica offrendole una prima formulazione filosofica; o meglio, se prende addirittura spunto da essa per rinnovare la filosofia. 4. La parabola del primo uomo L’infans adultus non è un mito particolare, una chimera tra le altre nell’Europa cristiana del XVII° secolo. Ne abbiamo visto una prima manifestazione in S. Paolo, con la distinzione tra due nascite, nella carne e nello spirito, e il tema di una rigenerazione, del sorgere di un nuovo adulto, deposto il «vecchio uomo»: questo mito è talmente importante nel cristianesimo che da luogo al primo dei sacramenti, il battesimo.34 Ma c’è una seconda manifestazione, quasi più decisiva in quanto legata al dogma fondamentale del peccato originale. «Ma se la maggior parte degli uomini nascessero adulti e solo uno o due di essi bambini […]»35: Spinoza sa bene che la Sacra Scrittura racconta il contrario, all’inizio la comparsa di un primo uomo, bell’è che fatto, e della congiunta, ugualmente già costituita; poi, dopo la trasgressione dell’interdetto, il parto di Caino e di Abele e l’espansione del genere umano.36 Spinoza commenta a più riprese il racconto biblico del primo uomo. Il lettore d’oggi s’aspetta che egli rifiuti in primo luogo l’idea del primo uomo. Del resto, può esserci un primo uomo in questa filosofia? Non vorrebbe dire ricadere nella finzione di una creazione ex nihilo, o per lo meno di una trasformazione soprannaturale? La Genesi dice: «Il Signore Iddio plasmò l’uomo con polvere del suolo».37 Ma il suo autore vale più di coloro che «immaginano che gli uomini si formino tanto dalle pietre come dal seme e che qualsiasi forma si muti in qualsiasi altra»?38 Questo passaggio che allude probabilmente al mito di Deucalione e Pirra che Spinoza conosceva almeno nella versione di Ovidio, si riferisce ad un tema analogo a quello del primo uomo biblico: la

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Ricordiamo che il battesimo dei bambini è un’invenzione tardiva, medievale, legata al problema della salvezza dei bambini deceduti prematuramente, in un periodo di altissima mortalità infantile. A partire dal Rinascimento si levano voci (Erasmo in particolare) che chiedono che il giovane adulto venga chiamato a confermare i voti del battesimo. 35 Eth, V, 6 sch. 36 La lettera della Genesi è comunque ambigua sul caso dei due primi nati: passa senza transizione dalla loro nascita alla loro attività di adulti («Abele faceva pascolare le pecore, Caino coltivava la terra», 4,2). 37 Genesi, 2,7. 38 Eth, I, 8, sch.2.

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rinascita dell’umanità dopo il suo annientamento deciso da Zeus.39 Infine il legame tra infans adultus e la metamorfosi senza regole si conferma in Lucrezio la cui critica sembra aver ispirato quella di Spinoza: Allo sviluppo dei corpi non sarebbe necessario del tempo perché i semi si uniscano, se potessero crescere dal nulla. Infatti da piccoli fanciulli a un tratto si produrrebbero dei giovani, e subito appena sorti dalla terra si eleverebbero gli alberi.40

In effetti, la produzione dal nulla comporta che tutto può nascere da tutto: che un uomo sorga dal nulla o da una pietra è lo stesso, in assenza di un germe, di un seme che garantirebbe la continuità causale del processo. È un salto, una sostituzione, non strettamente una produzione: non si comprende affatto come si passi dalla pietra all’uomo, dato che nulla nella natura della pietra inviluppa la natura umana. Certamente, la polvere e la pietra sembrano nei miti, avere il valore di una materia in attesa della forma, pura potenza; ma tale modo di pensare non è accettabile né per Lucrezio né per Spinoza, che rifiutano entrambi le cause finali. In effetti, ex nihilo più ancora che «senza materia» significa «senza regola»: quando inizia la Genesi, la terra c’è già, deserta e vuota, immersa nelle tenebre; ma la volontà di Dio è prima in assoluto, nessuna legge, nessuna ragione la predeterminano (il bene vie-

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Ovidio, Le Metamorfosi, tr. it. a cura di E. Oddone, Milano, Bompiani, 1992. Il contrasto con il racconto biblico è eclatante: la copia di amanti ricrea castamente l’umanità con un gesto anodino che vale come un’immacolata concezione ante litteram; uomini e donne emergono dalla pietra senza la minima allusione a uno stato infantile (al contrario la loro resistenza ereditata dalla pietra, li dispone immediatamente al lavoro, un po’ come per Caino e Abele). Proprio così li vede Michelangelo quando scolpisce le sue figure volutamente incompiute, ancora alle prese con la pietra, e le battezza Prigioni. La nascita di un adulto, metafora della scultura in generale. Trattandosi della natura, Spinoza rifiuta evidentemente questo modello ileo-morfico, che trova a partire da Aristotele un esempio privilegiato nell’atto finalizzato dello scultore. 40 Lucrezio, De rerum natura, I, 184-186, tr.it. di L. Canali, Bur, Milano, 2009. Le mitologie greca e romana contengono molti racconti di crescite miracolose, o accelerate che dotano il bambino di un vigore fuori dal comune. Molto rare, tuttavia, sono le crescite istantanee (come quella dei figli di Callìroe o della Sibilla Eritrea); e il mito di Deucalione, per quanto ne sappiamo, è il solo caso di nascita adulta. Cfr P. Grimal, Dictionnaire de la mythologie grecque et romaine, Paris, PUF, 1951.

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ne solo constatato a posteriori). Spinoza contesta proprio questa negazione del principio di causalità: le metamorfosi equivalgono a subitanee comparizioni, anche se la nuova forma sembra procedere dalla precedente. Le metamorfosi non hanno causa, giustappongono nature che non possono procedere l’una dall’altra. Come Lucrezio, Spinoza denuncia questa relazione tra la metamorfosi e la comparsa repentina ex nihilo, come testimonia la conclusione dello scolio sul suicidio: «ma che l’uomo, per necessità della sua natura, sia spinto a non esistere o a mutarsi in altra forma, è tanto impossibile quanto lo è che qualcosa derivi dal nulla, come può vedere ognuno con un po’ di riflessione».41 Il primo uomo è dunque un mito, coerente con quello della creazione. Spinoza non si prende neppure la pena di confutarne l’assurdità. Fa solo osservare che conviene leggervi una parabola piuttosto che un racconto. S’interessa all’uso che ne viene fatto nella spiegazione dell’attuale impotenza degli uomini nel superare le loro passioni, e propone una contro-interpretazione di cui confessa con humour di non esser sicuro che essa «si accordi con il pensiero del narratore». Si tratta di confutare l’idea della Caduta, del peccato originale, mostrando che è contradditoria.42 Tale idea in effetti presuppone un Adamo da subito perfetto, dotato di una mens sana, ossia saggio e libero, dispensato dal lungo e precario percorso che conduce idealmente ogni essere umano dal suo primo stato di infante incosciente e impotente a quello di uomo saggio e felice, definito precisamente dalla formula di Giovenale mens sana in corpore sano. Ora, in tali condizioni, la Caduta è impensabile, dato che un uomo siffatto, capace di un uso corretto della sua ragione e impegnato naturalmente a perseverare in tale stato, non può né essere ingannato né provare il folle desiderio di elevarsi al rango di Dio. Se il vero Adamo – colui di cui la Genesi narra la storia – è davvero stato ingannato, è perché era un uomo come gli altri che «nascono ignari delle cause delle cose».43 Adamo non è certo un infans adultus.44

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Eth, IV, 20, sch. Anche a proposito del suicidio Spinoza avvicina la metamorfosi ad una comparizione ex nihilo. 42 TP, II, 6. 43 Eth, I, app. 44 Cfr. G. Deleuze, Spinoza. Philosophie pratique, Paris, Minuit, 1981, tr. it. di M. Senaldi, Spinoza. Filosofia pratica, Guerini, Milano, 1991, pp. 30-31, che avvici-

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Questa critica era già presente nell’Etica, laddove Spinoza evoca il mito del primo uomo nel commento ad un asserto ipotetico – «Se gli uomini nascessero liberi […]»45 – che anticipa l’ipotesi analoga della V parte: «se la maggior parte degli uomini nascessero adulti […]».46 Tale commento apporta tuttavia una precisazione concernente l’assurdità dell’ipotesi: essa presuppone di considerare la natura umana astraendo dal resto della Natura, e anche, di conseguenza, la produzione dell’uomo da parte di Dio come una produzione singolare, separata dall’ordine e dalla connessione delle altre cose.47 In fondo, i moralisti denunciati nella prefazione della III parte, o i filosofi dell’inizio del Trattato politico, non fanno che riprendere la concezione biblica del primo uomo, laddove ragionano in funzione di uno stato fittizio di perfezione per concludere con una natura al presente viziata. L’infanzia, per il cristianesimo, è il risultato e l’eredità del peccato originale? Spinoza denuncia quell’inversione dell’ordine naturale per cui, eludendo questa res naturalis & necessaria che è l’infanzia, secondo lo scolio V,6, si giunge a caricare le spalle degli uomini (e in particolare dei bambini – ci torneremo a proposito dell’educazione) del fardello d’una presunta Caduta di cui la loro natura viziata recherebbe traccia, invece di presentare le condizioni naturali di un progresso. In questo scolio, Spinoza riprende l’interpretazione che aveva dato dell’avvertimento divino nel capitolo IV del Trattato teologico-politico. Da una parte, egli vi spiegava che «Dio rivelò ad Adamo soltanto il male che a lui sarebbe derivato se avesse mangiato quel frutto, ma non il necessario conseguire di quel male», di modo che Adamo per «il solo difetto della sua conoscenza» ha percepito l’av-

nando la sorte dei bambini alla condizione adamitica reale, arriva quasi a sollevare la questione dell’infans adultus: «È questo il motivo per cui non dobbiamo assolutamente immaginare che i neonati siano felici, o che il primo uomo fosse perfetto: ignoranti delle cause e delle nature, ridotti alla coscienza degli eventi, condannati a subire degli effetti la cui legge sfugge loro, essi sono schiavi di qualsiasi cosa, angosciati e infelici, a misura della loro imperfezione (nessuno più di Spinoza si è scagliato contro la tradizione teologica di un Adamo perfetto e felice)». Dovremo tuttavia modificare un poco questo giudizio. 45 «non formerebbero alcun concetto di bene e di male finché fossero liberi». (Eth, IV, 68) 46 Eth, V, 6, sch. 47 Su tale punto si farà riferimento all’illuminante analisi di Pierre Macherey, Introduction à l’Ethique de Spinoza, op. cit., vol. 4, pp.391 e segg.

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vertimento di Dio come l’enunciato di una legge istituita arbitrariamente da un re, non come l’enunciato di un legame causale tra la natura dell’atto e il male che ne segue. D’altra parte, egli riportava tale avvertimento, con una certa forzatura interpretativa, al suo proprio precetto di agire liberamente in vista del bene, piuttosto che obbligati, per paura del male. Vedremo che questo precetto, per quanto possiamo giudicare, è per l’appunto alla base della teoria dell’educazione che Spinoza auspicava e che avrebbe forse elaborato dopo l’ Etica.

5. Volontarismo cartesiano, volontarismo spinoziano Fondato su di un lavoro della memoria, il primo tragitto di salvezza proposto dalla V parte dell’Etica mima da vicino il processo di una trasformazione.48 Si tratta di riorganizzare la memoria, di abituarla ad altre concatenazioni. Senza dubbio, Spinoza pare di primo acchito aver fatto ricorso, per il tempo di una transizione, alle vecchie ricette della morale tradizionale: contrarre buone abitudini attraverso uno sforzo di attenzione sostenuta in vista dell’interiorizzazione vivente e pratica dei precetti. Ma vi è tutto lo scarto con la proposizione V, 10 e il suo scolio la cui funzione è differente: se Spinoza qui parla ancora di «imparare a memoria» dei «precetti certi di vita» è più per addomesticare il lettore concedendogli alcune impressioni famigliari – sulla soglia del viaggio straniante che lo attende – e ciò non avviene senza paradosso, quando si tratta proprio di sottrarlo a quella famigliarità invitandolo a compiere su di sé il grande lavoro di rottura. La vecchia ricetta è solo l’inizio di un processo in realtà radicale, destinato a sostituirla progressivamente. Ciò che distingue l’Etica dalla morale tradizionale è che la memoria non vi gioca come ausiliario, come strumento per il lavoro su di sé, bensì è la stessa posta in gioco, è l’oggetto di tale lavoro. La memoria non è una facoltà ma un ordine; ora, si tratta di instaurare l’ordine conforme all’intelletto, e di conseguenza di riformare, di trasformare quello della memoria. Tutto il meccanismo associativo che costituiva la nostra soggettività – il nostro institutum vitae, secondo il concetto del Trattato dell’e-

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Eth, V,10, prop., dim. e sch.

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mendazione dell’intelletto 49– deve, se non cancellarsi, per lo meno marginalizzarsi a vantaggio di un altro, conforme alla ragione, ossia a noi stessi. Possiamo dire infine – dato che il testo ci dispone a sospendere alcuna reticenza, a costo di rilanciare il problema – che qui si presenta un lavoro di trasformazione, e per di più di trasformazione volontaria, di distruzione cosciente della propria affettività, delle proprie valutazioni, dei propri desideri. È forse questa la «stranezza» su cui Spinoza si sarebbe intrattenuto con i propri discepoli, secondo la testimonianza, da assumere con cautela, di Lucas?50 Un volontarismo senza libera volontà, naturalmente senza neppure «stati d’animo», dove Spinoza si mostra molto più radicale di Descartes, a meno che Spinoza non lo prenda alla lettera: impresa concertata di sradicamento dell’infanzia (intendendo l’età seconda quando la memoria si forma e quando l’educazione compie la sua opera), della dissoluzione dell’io così come si era passivamente costruito, sedimentato. Descartes crede sufficiente attendere «un’età che fosse tanto matura che dopo di essa non ce ne fosse stata un’altra più adatta» per emergere subitaneamente rinato, del tutto equipaggiato per una conversione che, richiedendo solo tempo e applicazione, si rivela inizialmente data. «Oggi ho liberato la mente da ogni preoccupazione […]»:51 siamo agli antipodi dello scolio V, 39. Descartes può dunque rimanere lo stesso: il salto sul posto non muove nulla, il problema non è neppure ravvisato. Descartes ha una così tranquilla convinzione di comparire alla luce di un primo mattino che può ben continuare ad accettare l’essenziale delle sue credenze d’infanzia, che egli riordina soltanto, sotto il nome di «misteri», in un dominio speciale sottratto alla giurisdizione della ragione umana. Ma, per Spinoza, la faccenda si presenta molto meno brillante. Piuttosto che un eroismo

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In generale in Spinoza – l’abbiamo visto nello studio precedente – non c’è soggetto, ma differenti regimi di investimento o di «determinazione» di questo sforzo a perseverare nel nostro essere che definisce la nostra «essenza attuale» o l’attualizzazione della nostra essenza: in termini contemporanei, si parlerebbe di regimi di soggettività. 50 Cfr. nota 55. 51 Queste due citazioni si trovano all’inizio delle Meditazioni metafisiche in R. Descartes, Opere 1637-1649, tr. it. di I. Agostini, a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2009, p. 703.

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mattutino, a presentarsi sono i postumi nauseanti della veglia, le brumose pesantezze della depressione: le cose della vita hanno perduto il loro sapore, vana & futilia. 52 La filosofia di Spinoza comincia nella malattia, non possiede quei risvegli atletici che, fin dal primo movimento, mettono in riga tutte le ragioni per affossare da qui al calar della sera. «Vedo il meglio e lo approvo» – tutto si stava presentando sotto i migliori auspici – ma ecco che all’accenno della minima operazione, non perché me ne dimentico, ma «il peggio segue». Quel gesto inaugurale delle Meditazioni è da leggere come semplice pratica d’esorcista, semplice evocazione magica? Svolto nondimeno da uomo felice, da «primo uomo», che crede di aver le risorse di una vita facile e sovrana. La conclusione dello scolio V, 10, chiede di non «godere di una falsa apparenza di libertà». O davvero Descartes è il saggio perfetto oppure non ne è che il sogno; senza dubbio egli si è vissuto come primo uomo, calcando una nuova terra, aperta alla libera meditazione dal suo fiat di uomo maturo, di vir perfectus. Ma quando Spinoza chiude il suo libro sulle parole difficilia e rara, queste ultime non hanno di certo lo stesso senso del richiamo alla «infermità e [la] debolezza della nostra natura» su cui si chiudono le Meditazioni. Per quanto concerne l’avvertimento di Descartes a proposito dell’importanza dei pregiudizi dell’infanzia e la probabile lezione che ne ha tratto Spinoza,53 conviene sottolineare come la problematica dell’infanzia, in quest’ultimo, sconfina dal proprio tema: in linea generale non è per ritornare sul tormentone di Descartes che egli evoca l’infanzia. Solo in due casi ciò non è vero: nel commento dei Principi, dove si accontenta, ben inteso, di una parafrasi attenuata,54 e in un passaggio del Trattato teologico-politico, dove evoca il proprio caso personale. Occorre qui notare che in Spinoza, la rottura con la memoria lentamente sedimentata durante l’infanzia non è solo più difficile ma è anche caricata di risonanze biogra-

52 Cfr. la prima frase del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, commentato nello studio precedente. 53 P. Macherey, op. cit., vol.4, p.252, n.2. 54 Descartes affermava nell’articolo 71 della prima parte dei I principi della filosofia: «La principale causa dei nostri errori discende dai pregiudizi dell’infanzia». (R. Descartes, I principi della filosofia, in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., tr. it. di S. Di Bella, p.1763) Spinoza scrive: «nell’infanzia ci siamo nutriti di molti pregiudizi dai quali non ci liberiamo facilmente» (PPC, I, Intr.)

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fiche evidenti e drammatiche: rottura religiosa, familiare, sociale, professionale, linguistica, rottura persino nel nome – da Baruch a Benedictus. Così come egli non crede di poter rompere con i pregiudizi dell’infanzia attraverso una decisione volontaria seguita da costanza, bensì attraverso un lavoro attivo sulla sua propria memoria, così Spinoza non rompe con il proprio passato di giovane ebreo osservante, anche se vigile, senza iniziare a convertire lo sguardo sul materiale stesso della sua passata educazione, le Sacre Scritture (al contrario la fede cristiana di Descartes resta quella della sua infanzia, almeno pubblicamente). E senza dubbio questo lavoro era cominciato molto presto, dall’adolescenza. Spinoza assume dunque la formula cartesiana,55ma non si ritiene comunque esonerato dalla disamina dell’infanzia. A lui interessa altrettanto l’amnesia che ci separa irrimediabilmente dalla primissima infanzia. La sua problematica è quella di una doppia rottura: quella, consumata da molto tempo, di ogni individuo con il neonato che è stato; quella, problematica, che inizia nell’adolescenza, con l’infanzia successiva sottomessa all’educazione. Il tratto principale dell’infanzia è d’essere trascorsa: non siamo più gli stessi di quando eravamo bambini, non siamo solo cresciuti, evoluti nelle nostre concezioni.56 E senza

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Lucas lo testimonia, nella misura in cui si può dargli credito: «Per questo, affermava che solo coloro che si erano liberati dalle massime della loro infanzia possono conoscere la verità […]» (J. M. Lucas, J. Colerus, Le vite di Spinoza, op. cit., pp. 50-51). Tenuto conto della gravità che riveste tale processo nel caso personale di Spinoza, può essere che il seguito della frase abbia una risonanza autentica, a meno che non si debba metterlo sul conto dell’antisemitismo che porta per altro Lucas ad accentuare l’eroismo della conversione spinoziana: «sono necessari sforzi straordinari per vincere le tracce dell’abitudine e per cancellare le idee false di cui la mente dell’uomo si riempie prima che sia in grado di giudicare le cose per se stesse». (Ibidem, sottolineatura di F. Zourabichvili) Sorvoliamo sul «miracolo» invocato in seguito da Lucas: ci riporta in un ambiente calvinista, in cui è la grazia a condizionare la conversione. 56 P. Macherey vede in questa problematica della rottura una semplice conseguenza dell’eredità cartesiana: «Il fatto di dover necessariamente essere stato bambino prima d’essere uomo, per riprendere una formula di Descartes su cui Spinoza ha di certo riflettuto molto, è la forma per eccellenza che assume l’esistenza temporale, con le sue costrizioni che la ragione fatica enormemente ad accettare tanto sono contrarie alla sua propria vocazione. Ecco perché all’uomo adulto viene così difficile pensare d’esser stato lui stesso bambino e di aver visto il mondo con occhi da bambino, cosa che può solo congetturare per analogia». (Ibidem) Macherey

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dubbio, per certi aspetti, restiamo puerili. Spinoza sviluppa quindi una problematica nuova, estranea alla riflessione cartesiana.

4. INFANZIA E FILOSOFIA Resta da chiedersi se questo pathos della creatura umile, in verità così orgogliosa, nel senso spinoziano di un’ambizione soddisfatta dal sogno, non si trovi destituita a vantaggio di una nuova immagine del pensiero, estranea a ogni retorica di miseria e di gloria: l’infanzia finalmente retta su di sé. La lettura meccanicista, per la sua incapacità di proporre una nuova norma di salute, ci è parsa rafforzare la chimera dell’infans adultus. Si potrebbe perfino, a tale riguardo, evocare l’esempio al secondo grado dell’elefante che passa per la cruna di un ago (giudicandone l’impossibilità evidente a tutti, Spinoza se ne serve come immagine distinta, conforme all’intelletto, adeguata a illustrare l’illustrazione che le liste di chimere o di metamorfosi già costituiscono).57 Ciò che è evidente è l’opposizione tra piccolo e grande e tra i loro mutui termini. Che cosa impedirebbe all’immaginazione di ridurre mentalmente l’elefante, come in Lewis Carroll, fino a che possa passare dalla cruna dell’ago? La finzione sarebbe tanto più facile in quanto non dovrebbe passare attraverso una trasformazione: l’elefante conserverebbe la sua figura, le sue proporzioni, proprio come Alice, tormentata dall’idea di crescere, diventa enorme e poi minuscola. Come gli gnomi che appartengono alla tradizione ebraica. Come pure i Lillipuziani e gli abitanti di Brobdingnag di Swift, presso i quali Gulliver è ora un gigante, ora un nano – ed è un nano persino presso lo stesso nano della regina di Brobdingnag, di cui diviene lo zimbello, e un nanunculus preso la bimba che si prende cura di lui. «Pensai alla mortificazione di dover apparire in quel paese come un minuzzolo non meno miserando di un Lillipuziano fra noi».58 Que-

trova qui la miglior formula possibile («aver visto il mondo con occhi da bambino») per caratterizzare la rottura, ma il suo ragionamento suppone che l’«uomo di età avanzata» dello scolio IV, 39, sia un uomo illuminato, praticante la ragione, e non il primo venuto, come pare voler dire Spinoza. 57 TIE, § 34. 58 J. Swift, Gulliver’s Travels, tr. it. di U. Dettore, Milano, BUR, 1975, p158. Swift

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sta sensibilità alla relatività del piccolo e del grande, che è un tratto dell’epoca – nella misura, ben inteso, in cui si possano considerare Spinoza e Swift contemporanei – non ha chiaramente nulla a che vedere con l’idea di crescita e non è in questi termini che si può pensare il divenire del bambino; ed è anche per questo che Swift può condurre attraverso queste oscillazioni una satira nei confronti della sua società di adulti (Alice nella sua ingenuità di bimba, confonde il divenir-adulto con la crescita smisurata di una bambina). L’esempio dell’elefante e della cruna dell’ago è dunque molto fragile ed è quasi umiliante che la prova la si trovi in Descartes: Ma voi confondete l’intellezione con l’immaginazione, e fingete che noi c’immaginiamo Dio come qualche grande e forte gigante, come farebbe colui che, non avendo mai visto un elefante, immaginasse che è simile a un pellicello d’una smisurata grandezza e grossezza; il che confesso con voi essere assai fuor di proposito. (R. Descartes, Risposte alle quinte obiezioni, in R. Descartes, Opere, op. cit., vol. I°, pag.532)

In realtà Spinoza lascia anch’egli intravedere la precarietà del suo esempio: non solo non si concepisce bene, se non per esperienza, perché la riduzione dell’elefante sarebbe chimerica, e neppure perché l’elefante in miniatura non sarebbe più un elefante e nemmeno un elefantino (dato che il semplice cambiamento di taglia, se è proporzionato, non si suppone incida sull’identità della forma, secondo il lemma 5 della II parte dell’Etica), ma Spinoza stesso mette in guardia dal pericolo di chimerizzare, se si passa l’espressione, una semplice differenza di taglia, con il pretesto che sia inusuale: anche «uomini fortissimi e di grande statura» sono comunque opere, seppur insolite, della natura.59 L’enunciato (piuttosto che l’immagine) dell’elefante che passa per la cruna dell’ago resta malgrado tutto appropriata a ciò che Spinoza vuole dire: noi abbiamo una percezione chiara dell’opposizione attuale del grande e del piccolo (i ricordi dell’elefante e della cruna si assumono come richiamati tali e quali in una finzione che riguarda solo l’esistenza). Torniamo al meccanicismo: niente permette tuttavia di affermare che

è nato nel 1667, Spinoza vivente. L’opera è datata 1726. 59 TTP, I[24]: a proposito di coloro che si rappresentano i profeti come superuomini perché la loro immaginazione è più viva dell’ordinario. I profeti sarebbero di un’altra specie se avessero altre facoltà mentali oltre alle nostre. Un elefante microscopico avrebbe altre facoltà?

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esso sia incompatibile per natura con una concezione complessa dello sviluppo psicologico. Ma tocca proprio a Spinoza mettere in chiaro tale compatibilità, elaborando quel nuovo concetto di forma che renda possibile un pensiero meccanicista della norma. Dunque, se la medicina meccanicista (o iatromeccanicista) esclude inizialmente ogni pediatria, intesa come specialità teorica e pratica, e se è così paradossalmente al traino di una nuova coscienza sociale, come testimoniano i pittori e certi atipici medici e levatrici,60non c’è di contro pediatria se non meccanicista, in quanto solo il meccanicismo è atto a distoglierci dalla visione finalistica che nientifica l’infanzia iscrivendola nella mancanza. Non si getterà più ormai sull’infanzia quello sguardo d’adulto «fatto» che trova in essa solo la propria negazione, e per conseguenza non vede nulla, se non l’abisso tra due età incompatibili, tra l’essere che egli al presente è e il nulla da cui proviene. Di contro si adotterà il punto di vista del bambino, non per infantilismo, ma perché tale è il buon senso con cui occorre considerare la vita umana: punto di vista di un essere esposto alla morte e il cui corpo come la cui mente devono divenire forti, e dei genitori61che lo sostengono in questo percorso. Spinoza contesta, lo abbiamo appena visto, questa posizione chimerica dell’uomo fatto: è infatti lui, questo falso adulto, questo incorreggibile sognatore, che meriterà lungo l’intero Trattato teologico-politico l’epiteto puerilis – ultimo avatar della figura dell’infans adultus. L’uomo non diviene adulto se non uscendo dal sogno; tutto sta nel divenirne conscio.

1. L’impotenza infantile: né privazione né miseria (scolio V, 6 e scolio V, 39 dell’Etica) Il significato dello scolio V, 39 si chiarisce ora. Il confronto tra adulto e lattante, nella penultima frase, non ha solo come oggetto quello di metterci in guardia sul legame necessario tra le attitudini del corpo e quelle della mente debole. Tale confronto tende a fare dell’infanzia, e anche dell’età neonatale la condizione comune degli uomini e il punto di vista da cui occorre ripartire per sostenere infine un vero discorso etico: un discorso che non si atteggia alla virtù disillusa, che non ironizza né geme sull’infantilismo degli adulti, che non vede nell’infanzia

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Cfr. l’analisi del diario di Catharina (Vrow) Schrader in S. Schama, op. cit., cap.7. Cfr. l’osservazione fatta in introduzione sull’impiego della prima persona plurale in Eth, V,39, sch.: conamur.

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un limite ontologico invalicabile (essere i bambini di Dio). Giacché riportare l’uomo alla prima infanzia non vuol dire maledirlo ma ricordargli le cure essenziali che deve al suo corpo e alla sua mente – da qui il testo, di rimando, reca le tracce di un’attitudine culturale nuova nei confronti del neonato. Si eviterà di obiettare che Spinoza riabilita a modo suo la chimera dell’infans adultus: al contrario, come per il «sogno da svegli», vigilando somniare, egli s’impegna a mostrare che l’infanzia, se compresa correttamente, si estende più di quanto non si creda e che conviene infine porsi in modo da uscirne. E se leggiamo bene, ci accorgiamo che il confronto si prepara già nelle due frasi precedenti: Ma affinché ciò s’intenda più chiaramente , qui si deve osservare che noi viviamo in continuo mutamento e che ci diciamo felici o infelici (felices aut infelices dicimur) a seconda che cambiamo in meglio o in peggio. Chi passa infatti dalla condizione di neonato o di bambino a quella di cadavere, si dice infelice; al contrario, si attribuisce a felicità aver potuto percorrere tutto lo spazio della vita (totum vitae spatium) con la mente sana in un corpo sano. (sottolineature nostre)

Il testo appare assai confuso, tanto intreccia inestricabilmente tre considerazioni: 1. l’oscillazione perpetua della potenza d’agire; 2. l’orientamento decisivo che prende il corso della vita, decrepitezza o beatitudine; 3. il divenire incerto del bambino tra morte e sopravvivenza. Occorre leggerlo così com’è, senza cercare di separare ciò che Spinoza ha in modo manifesto immaginato insieme. Tuttavia nulla segnala che qui si tratti di una rappresentazione confusa: noi ci vedremo piuttosto una distinta immagine che va a formarsi una sintesi in corso che si realizzerà senza ambiguità nelle frasi che seguono. La vita di un uomo oscilla, esita tra la felicità e l’infelicità, come il bambino è perpetuamente tra la vita e la morte. In questo senso, l’infanzia è già in anticipo un’immagine dell’intera vita. Si noteranno le armoniche aristoteliche del testo. Aristotele esitava già tra due schemi: la concezione della felicità come inflessione decisiva della vita, formazione di una exis o di un habitus virtuoso, e l’impossibilità, per tale ragione, di definire il bambino felice o infelice; il criterio complementare di un «compimento della vita», e per conseguenza l’incertezza fino alla fine, tenuto conto dell’eventualità 140

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di un rovescio di fortuna.62 L’espressione felices aut infelices dicimur nel testo di Spinoza, richiama fortemente la trasposizione tomista del testo di Aristotele: puer non potest dici felix.63 L’immagine dell’infanzia è già virtualmente posta a partire dalla descrizione della condizione di adulto. Sarebbe falso sostenere che l’infanzia, per Spinoza, è il paradigma dell’impotenza: ciò vorrebbe dire confonderla con la melanconia, l’anoressia, il suicidio. Indubbiamente ne è per un certo grado indiscernibile: come tali stati, si caratterizza per una dipendenza quasi totale dalle cause esterne. Ma con questa importante differenza: i bambini non sono né melanconici, né anoressici, né tendenti al suicidio – «essendo il loro corpo come in continuo equilibrio».64 E Spinoza non li dice «vinti» (victus) e «infelici», ma presi in un divenire incerto tra la salute e la morte. L’infanzia è certo uno stato di impotenza; ma presentare le cose così significa creare stereotipi. Spinoza descrive al contrario la Passione del bambino («quantum ejus natura patitur […]»), che rinvia alla potenzialità espressa all’inizio dello scolio, «non dubium est, quin ejus naturae possint esse, ut […]» come l’avvento della sua potenza d’agire. In fondo l’infanzia non è l’impotenza stessa – l’impotenza è innata – ma il progressivo dischiudersi, doloroso, drammatico, della potenza di agire. È un controsenso insistere sulla condizione miserabile del bambino, secondo Spinoza: tale luogo comune del XVII° secolo vale per molti filosofi ma non per Spinoza. Sono i pensatori cristiani, da S. Francesco di Sales a Bossuet, passando attraverso l’Oratorio e Port Royal, che rendono tema la miseria del bambino. Basta passare da Pascal o da Malebranche a Spinoza per avvertire un cambiamento di clima.65

62 Aristotele, Etica nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Bari-Roma, 1999, 1100 a. Cfr. TTP, III, 5: «Ma i mezzi che servono per vivere con sicurezza e per conservare sano i corpo, sono principalmente riposti nelle cose esterne, e perciò si dicono doni della fortuna, poiché dipendono soprattutto dalla direzione delle cose esterne, che noi ignoriamo. Tanto che lo stolto, in questo, è felice o infelice al pari dell’uomo saggio e prudente». 63 Tommaso d’Aquino, In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum expositio, Marietti, Torino, 1964, I, 1. XIV, n.176. 64 Eth, III, 32, sch. Per il senso da dare a tale frase cfr. più avanti nel testo il paragrafo 2 del capitolo V: In che senso il corpo del bambino è «come in equilibrio»? 65 Si rimanda più avanti nel testo alla nota 85. Soffermiamoci un istante sul commentario di Charles Ramond. Costui è uno dei pochi (con Macherey e Bove) a con-

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Nemo miseretur infantis: 66 nessuna pietà per gli infanti! Questo grido riassumerebbe piuttosto bene l’atteggiamento calvinista; non risuona affatto così in Spinoza, data la definizione spinoziana della pietà (commiseratio): «tristezza associata all’idea di un male che accade a un altro che immaginiamo simile a noi».67 S’intravede subito l’ambivalenza della pietà, che riposa all’occorrenza sulla credenza che un male tocchi ai bambini in quanto tali, del quale l’incoscienza e la debolezza fisica non sono che le manifestazioni (e qual è questo male, se non la naturae vitium seu peccatum al quale allude lo scolio V, 6 – il male dell’infanzia in quanto tale, come punizione della Caduta?). Perché se immaginiamo i bambini simili a noi, da una parte non vedremo in loro altro che degli infermi, privi di facoltà che noi possediamo; d’altra parte rifletteranno l’immagine della nostra stessa impotenza. Da qui una tendenza della pietà a virare a sua volta verso il disprezzo (contemptus), speciale sensibilità per ciò di cui un oggetto è privo che va ad esprimersi nello scherno (irrisio) e nella humilitas, affetto al quale «la natura umana, considerata in sé, si oppone, per quanto può».68 Abbiamo pressappoco il ritratto del predicatore moralista della prefazione

siderare le asserzioni di Spinoza sull’infanzia. E soprattutto egli nota l’esitazione di Spinoza a proposito del cambiamento di essenza o trasformazione (C. Ramond, Qualité et quantité dans la philosophie de Spinoza, Paris, PUF, 1995, pp.215-216). Ma la sua ansia di vedere solo miseria nel bambino – una parola ancora una volta estranea al vocabolario e al tono di Spinoza – lo conduce a passare sotto silenzio i problemi veramente importanti della memoria e della privatio, sottolineando solo lo scarto quantitativo, davvero considerevole, tra adulto e lattante, ma che non è poi così minore tra il saggio e l’ubriaco, e anche – rovesciamento problematico – tra il puer, il cui corpo è continuamente «come in equilibrio», e il melanconico, ecc. Da ciò una frase molto discutibile sullo scolio V, 6: «Poiché l’infanzia è per Spinoza uno stato miserabile: solo l’abitudine che ce la fa credere necessaria, la rende tollerabile; ed è solo per questo motivo che, contrariamente a ciò che potrebbe essere, ‘nessuno commisera il bambino’». (ibidem, p.215, nostre sottolineature) Ma, per la precisione, il contrario non potrebbe essere, oppure tale contrario non è che nella testa dei teologi e di altri acidi melanconici… Ancora una volta, l’interesse filosofico del caso del lattante ci sembra chiaro: rappresenta il banco di prova di una filosofia che nega ogni validità al concetto di privatio. Ne deve conseguire per Spinoza una rivalutazione generale del rapporto della filosofia con l’infanzia. 66 Eth, V,6, sch. 67 Eth,III, def. aff. 18. 68 Eth, III, def. aff. 29, expl.

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della III parte dell’Etica. Nella bocca di tale sinistro personaggio «nessuna pietà!» diviene un grido d’odio.69 Di contro, ci sono due diverse modalità per sfuggire a questa tristezza, di rifiutarsi al gioco della pietà. In primo luogo quella dell’«uomo di età avanzata» le cui congetture analogiche a proposito dei bambini sono meno intense della sua propensione a «credere la loro natura tanto diversa dalla propria»70: i bambini gli appaiono tendenzialmente come dei veri stranieri, come esseri di un’altra specie, ai quali non si applica neppure più la categoria di privazione. Si indovina tuttavia che questa soluzione illusoria non evita le fluttuazioni dell’animo e che il suo adepto non ha egli stesso, come traducono alcuni tra cui Pautrat, «l’aria di assomigliare all’uomo».71 La modalità vera è quella del filosofo – «la commiserazione è di per sé cattiva e inutile nell’uomo che vive sotto la guida della ragione […] l’uomo che vive sotto il dettame della ragione è spinto, per quanto può, a fare in modo da non essere toccato dalla commiserazione».72 Il filosofo, ricongiunto con una certa saggezza popolare, secondo il nemo dello scolio V, 6 – non giudica un incidente sfortunato ciò che egli sa dipendere da una necessità naturale (lo stato d’infanzia, al quale la debolezza e dunque le vicissitudini della malattia sono inerenti). Quando Spinoza scrive che «il cerchio, infatti, esprimerebbe assurde querele perché Dio non gli ha assegnato le proprietà della sfera, e il bambino, che soffre di una malattia renale, poiché non gli ha dato un corpo sano», sottolinea laconicamente a che condizioni l’infanzia in generale ci appare miserevole: quando noi attribuiamo al bambino una natura che non ha, vale a dire quando lo si sottrae all’ordine naturale per inscriverlo all’ordine magico delle chimere e delle metamorfosi nel quale le attribuzioni di proprietà sono tutte accidentali e

69 Disprezzo e derisione si rapportano in ultima istanza all’odio: Eth, IV, 45, cor.1. Il calvinismo olandese condannava le effusioni di dolore alla morte di un bambino. Predicando una rassegnazione prossima all’insensibilità, i pastori spiegavano ai genitori che i loro bambini si trovavano meglio in paradiso che nella «valle di lacrime» del mondo mortale. Schama sottolinea che la morte del neonato era l’incubo della famiglia olandese del XVII° secolo e contesta la tesi dell’indifferenza dovuta a un supposto condizionamento culturale dovuto alla realtà demografica (S. Schama, op. cit., p. 679). Ciò che traspare dei sentimenti di Pierre Balling nella lettera 17 a Spinoza,va in tal senso. 70 Eth, IV, 39, sch. 71 Eth, IV, 50, sch. 72 Eth, IV, 50 e cor.

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arbitrarie mentre la miscellanea delle nature suscita il miraggio della privazione.73 Aggiungiamo, per chiudere sul tema della pietà, ch’essa non solo è una passione triste ma anche una passione di natura imitativa e, a tale titolo, eminentemente infantile.74 In verità, l’infanzia in quanto tale non deve né rallegrarci né rattristarci: solo così si può contemplarla veramente. Ma quali adulti, genitori o no, non oscillano tra questi due poli? Chi oltre Spinoza ha saputo sostenere questo sguardo senza pathos? Forse Cecov? Se torniamo allo scolio V, 39 certamente comprenderemo meglio la scelta, nell’ultima frase, delle espressioni infantia (invece di infans) e in hac vita (in luogo di in infantia), quest’ultima assume il posto del totum vitae spatium invocato due frasi prima: 1) lo sforzo di cambiare il corpo e lo spirito dell’infanzia in un altro corpo e un altro spirito incomparabilmente più potente diventa coestensivo alla vita tutt’intera (totum vitae spatium mente sana in corpore sano percurrere = in hac vita conari, ut corpus in alium et mens in aliam mutentur, quae ad plurima apta sint);75 2) l’infanzia diviene correlativamente la posta in gioco principale della filosofia. Rileggiamo ora le due ultime frasi (lo scolio evocato alla fine concerne l’accesso alla conoscenza di terzo genere): In effetti, chi ha un corpo atto a pochissime cose e dipendente massimamente da cause esterne, come un neonato o un bambino, ha una mente che, considerata soltanto in sé, non è quasi consapevole di sé né di Dio né delle cose: al contrario, chi ha il corpo atto a molte cose ha una mente che, considerata in sé sola, è molto consapevole di sé, di Dio e delle cose. In

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Ep, 27 a Olbdenburg. Spinoza non prende a caso l’esempio di un bambino malato: il bambino esemplifica la debolezza fisica (per la debolezza morale evocherà in seguito un adulto). Ogni bambino è più o meno un malato sebbene non nel senso della medicina tradizionale. È dunque in gioco qui la condizione naturale dell’infanzia, piuttosto che la natura particolare di un bambino particolarmente «infelice» (nel senso di sventurato – come nello scolio V, 39 – e non di miserevole, stricto sensu nel lattante la distinzione di felicità e infelicità è ancora in sospeso). Per quanto concerne il legame tra miseria e privazione, si noterà come Spinoza si servisse già dell’argomento del cerchio e delle proprietà della sfera nella lettera 19 a Blyenbergh. 74 Eth, III, 32, sch. 75 Per questa seconda formula, ci permettiamo di contrarre il seguente passaggio: in hac vita conamur, ut corpus infantiae in aliud …mutetur, quod ad plurima aptum sit, quodque ad mentem referatur, quae sui, et Dei, et rerum plurimum sit conscia.

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questa vita, dunque, siamo spinti soprattutto a far sì che il corpo dell’infanzia si trasformi, per quanto la sua natura consenta e vi sia disposta, in un altro che sia atto a moltissime cose e si riferisca a una mente che sia il più consapevole di sé e di Dio e delle cose, e in modo tale che tutto ciò che si riferisce alla sua memoria o immaginazione sia difficilmente di qualche importanza rispetto all’intelletto, come ho già detto nello scolio della proposizione precedente.

Infine, come non pensare che si disegni in filigrana, lungo l’intero scolio, la figura dell’uomo fragile, come Spinoza? La confusione apparente che viene evocata è comunque insolita: il testo passa dalla salute precaria al divenire del bambino, senza altra transizione se non questa indecisione tra felicità e sventura. Tutto accade come se gli stati valetudinari oscillassero tra due destini estremi: la morte del bambino, la salute perpetua del saggio danzante.76 È solo un caso se Gilles Aillaud, in una pièce che mette in scena Spinoza, in prima istanza attribuisce a quest’ultimo, in modo apparentemente arbitrario, «un’impetuosità, una velocità e un’abilità da scimmia, come volesse mostrare che sta nel nostro mondo come un pesce nell’acqua, inafferrabile»,77 per poi descriverlo curiosamente come un infans adultus: «questo neonato che cullavo è una vecchia scimmia… Quando mi scappa, è come se il neonato che tanto desideravo tenere in braccio sia diventato un padre».78 Che significa «inafferrabile» nella scrittura di Alliaud? Non è forse lo schema dell’attività, se si rammen-

76 Spinoza definisce la salute come la capacità di un corpo di fare tutto ciò che segue dalla sua natura (Eth, IV, 45, sch.) ossia sia in suo potere d’essere affetto e di affettare in molti modi (Eth, IV, 39, dim.) Tra gli esercizi o gli alimenti che egli raccomanda figurano non solo gli esercizi fisici, ma anche la musica, il teatro, i profumi, ecc. Non si potrebbe dunque riportare tale salute alle performances di un atleta. Si tratta piuttosto di un corpo sia agile sia sensibile. In mancanza di meglio, ossia di una parola non solo capace di unire questi due significati, ma che resti aderente all’esperienza di Spinoza, proponiamo danzante, che rimanda inevitabilmente – ma chi oserebbe dire inopportunamente? – a Nietzsche. Ricordiamo che quest’ultimo aveva una passione per Spinoza. Gli era certo successo di trattarlo da «eremita per forza» (Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1968, § 25). Ma nella famosa lettera a Overbeck del 30 luglio 1881, lo chiamava il suo «precursore», parlando di una «solitudine a due» e concludendo: «Per il resto, le mie condizioni [di salute] non rispondono affatto alle mie aspettative». (Epistolario 1880-1884, Milano, Adelphi, 2004, p.106) 77 G. Aillaud, Vermeer et Spinoza, Paris, C. Bourgois, 1987, p.19. 78 Ibidem, pp.19-20.

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ta che il problema per il pesce nel Breve Trattato era di farla finita con il sogno di una vita fuori dall’acqua?79 Spinoza si sente chiaramente partecipe sia del saggio che del bambino dato che il suo sviluppo intellettuale non è giunto a termine e che la malattia minaccia ad ogni istante di interromperlo.80 Da questo punto di vista, lo scolio V, 39 è altrettanto carico di vita vissuta quanto il Trattato sull’emendazione dell’intelletto. È ugualmente difficile non pensare al bambino malato della citata lettera a Oldenburg che la sorte ha dotato di un corpo debole (natura infirma) ma che non si lamenta, perché sarebbe come sognare un’altra essenza o sognare se stesso come una chimera, analoga a un cerchio che avesse le proprietà della sfera. Infine, se le reminiscenze aristoteliche sono certe, lo scolio V, 39 conferma un’affinità più profonda di Spinoza con Lucrezio. Dopo la figura chimerica dell’infans adultus ecco ora l’idea, espressa proprio all’inizio dello scolio, che uscire dall’infanzia sarebbe come farla finita con la paura della morte: Infatti, come nelle cieche tenebre i fanciulli trepidano Spaventati da ogni cosa, così nella luce noi talvolta temiamo cose che non sono affatto più paurose di quelle che i fanciulli paventano nelle tenebre, immaginandole imminenti Questo terrore dell’animo, dunque, e queste tenebre occorre che siano dissipate non dai raggi del sole o dai lucenti dardi del giorno, ma dalla visione e dalla scienza della natura. (De rerum natura, III, 87-93)

Ritorna allora la grande domanda: perché lo scolio V, 39, appare così contradditorio? Perché Spinoza vi evoca lo scambio di un corpo con un altro, quando esclude nella stessa frase – quantum ejus natura patitur – un cambiamento di essenza? Cosa giustifica uno schema logico così vicino a quello dell’uscita dalla crisalide? Rivediamo il cammino compiuto dopo il Breve trattato: allora era in questione: 1) la nascita biologica come trasformazione pura e semplice, come instaurazione di un’altra proporzione di quiete e movimento analoga a quella che fa succedere un altro uomo al posto di un famoso

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Vedi il primo studio. «Tuttavia di queste cose forse un giorno, se sarò ancora in vita, tratterò con te più chiaramente». (Ep, 86) Cfr. anche la lettera 44 a Bouwmeester, laddove Spinoza evoca la sua convalescenza. 80

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poeta spagnolo (ciò a cui il lettore non poteva dare un senso se non in riferimento al concetto di «elemento»); 2) una «seconda nascita» o «rigenerazione», puramente spirituale, che richiama la simbolica cristiana del battesimo e il tema paolino del Vecchio Uomo. Non c’era dunque spazio alcuno per una filosofia dell’infanzia, intesa sia come comprensione sia come punto di vista. Ora invece la filosofia si riposiziona in una prospettiva che è quella dell’infanzia per rammentarci, al di là di ogni valutazione negativa, che il nostro problema è uscirne, ed è proprio questo che fa il bambino, che non basta umiliare noi stessi guardandoci come dei bambini cresciuti, ma che occorre ancora, per così dire, divenire il bambino che eravamo, con il quale abbiamo rotto senza peraltro cessare di esserlo, anzi fissandolo in noi, lui che altro non è se non sviluppo, gestazione. La filosofia del primo uomo sogna una natura umana, fittizia e insieme essa sogna l’infanzia quale sorta di preistoria dell’uomo, scomodo vestibolo della vita, affollato di miasmi e fantasmi. Contemporaneamente essa nega la rottura (crescita continua) e non cessa di porla in risalto (frattura del non-umano e dell’umano). Ora, non c’è un essere del bambino, non c’è essenza speciale che lo differenzierebbe dall’adulto; ma neppure non-essere, negazione assurda del suo proprio accadere. Occorre aiutare la logica ad uscire dal suo sviamento onirico. Perché l’infanzia non è un mondo? Perché crescere è uno sviluppo e non una trasformazione? In primo luogo, perché il bambino, perfetto nel suo essere, non avrebbe alcuna ragione d’uscire dall’infanzia: sarebbe infans adultus, bambino «fatto», come si dice di un uomo. In secondo luogo, perché sarebbe incomprensibile, che ogni vita debba comportare il succedersi di due essenze (una differenza deve rimanere nel caso dell’adulto colpito da amnesia, realmente trasformato). In terzo luogo, perché allo sguardo dell’intelletto infinito, la dualità dell’infante e dell’adulto non ha senso: Dio non produce bambini ma uomini – che nascono al più basso livello della loro potenza di agire e di pensare. Questo truismo deve comunque essere rammentato: diviso dal suo divenire, il bambino non cresce più. Ciò vuol dire semplicemente che il bambino è divenire. Si obbietterà che noi cadiamo in un peggior sofisma, posto in relazione con il miraggio descritto nel Breve trattato del pesce suicida: come potrebbe la vita confondersi con l’infanzia se essa è l’atto di uscirne? Come potrebbe il bambino essere in perpetua negazione di se stesso? Ma noi saremo prigionieri del paradosso del divenire solo se vi acconsentiremo: sta solo a noi non ipostatizzare il bambino. La differenza tra il bambino e l’adulto diventa in Spinoza una pura diffe147

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renza di prospettive. Prospettiva della vita vigile (il bambino in corso di sviluppo), prospettiva del sogno ad occhi aperti (pseudo-adulto, infans adultus, bambino pietrificato credendosi adulto e contemplando l’infanzia al contrario, negativamente, dall’alto della propria illusione e delusione). La nuova frontiera passa attraverso il divenir-adulto del bambino e la puerilità soddisfatta dell’adulto apparente. E nello stesso modo in cui non c’è un esser-bambino, ma uno stato di innata impotenza da cui il bambino esce non senza pena né senza aiuto, così non c’è un esser-adulto in quanto sarebbe lo stato del saggio perfetto. La differenza tra la realtà del divenire adulto e la finzione dell’esser-adulto spiega la famosa dichiarazione di Spinoza: «non presumo di aver trovato la filosofia migliore, ma so di comprendere quella vera». (Ep, 88) Non è forse, alla lettera, lo scarto tra adulescens e adultus? Vedremo più avanti cosa dice Spinoza degli adolescenti. Il Breve trattato faceva allusione qua e là all’infanzia come a un certo regime d’affettività (l’Etica non lo smentisce a proposito); ma mai l’ha letta come sviluppo. Al contrario era inteso che l’etica s’indirizzava all’adulto, al circolo di giovani adulti ai quali Spinoza dava lezioni. Ma le due nascite, nella carne e nello spirito, erano sintomi di un pensiero ancora prigioniero della chimera dell’infans adultus. Una vita fetale separata dal suo avvenire dal momento che non vi si può accedere se non con la morte; un uomo che scaturisce d’un tratto bell’è che fatto, nuovo e puro. La dottrina tradisce tuttavia una contraddizione abbagliante che rinviava certamente a degli strati differenti del testo ma che, lasciata così com’è, testimonia un pensiero non ancora compiuto: la coesistenza della tesi innovatrice della mente come idea del corpo e della tesi arcaica della mente separata dal suo corpo per unirsi a Dio. Di contro, quando il concetto della mente come idea corporis è condotto alle sue estreme conseguenze, il rapporto con il corpo, lungi dal cancellarsi, muta e il tema dell’infanzia emerge come lo schema di tale mutazione. La conversione è diventata immanente, cosa così «naturale e necessaria» come l’infanzia.81 Ma non abbiamo comunque risposto alla domanda. Perché il perfezionamento ha l’apparenza di una trasformazione come se Spinoza, per proprio conto e alla sua maniera, avesse dovuto cercare come Leibniz la formula di una «trasformazione di un animale già formato»?82 I

81 82

Eth, V, 6, sch. (testo citato all’inizio del capitolo). Leibniz, lettera ad Arnauld del 9 ottobre 1687, in G.W. Leibniz, Saggi filosofici

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termini della questione sono i seguenti: il perfezionamento inviluppa una rottura, ma questa deve essere pensata correttamente e non come se l’essere scaturisse dal nulla, poiché se resta inteso che il lattante può accedere alla ragione, lo statuto di tale potenzialità, entro una filosofia che afferma l’attualità di ogni potenza, non dovrebbe più essere lo stesso che nella scolastica. Tuttavia pare che Spinoza resti scolastico su questo punto: il bambino è privo di ragione, ma poiché è chiamato per natura a conquistarla, non gli è possibile sostenere, come nel caso del cieco nella corrispondenza con Blyenbergh, che la privazione da noi immaginata non è ontologicamente altro che una semplice negazione;83 la ragione in lui è quindi una privazione anche positiva, consistente nell’essere «in potenza». Evidentemente Spinoza non può dirlo; ma l’ipotesi che ci appare inevitabile, considerata l’importanza dello scolio di Eth, V, 6 e l’analisi appena svolta dello scolio di Eth,V, 39, è che egli non può nemmeno non pensarlo. Si noterà che lo scolio di Eth,V, 6, si guarda bene dall’utilizzare la parola privatio. In compenso egli oppone chiaramente una concezione conforme al senso comune, per cui il lattante «non sa» parlare, camminare, ragionare, ignoranza che porta a considerare l’infanzia (infantia) come «cosa naturale e necessaria», e una concezione falsa, ottenuta attraverso una scorciatoia, quasi procedesse dal sogno di un uomo che nasce adulto, per la quale l’infanzia dipende da un «vizio» o da un «errore della Natura». È la ripresa della tesi enunciata nella prefazione della III parte: «in natura non si dà nulla che possa essere attribuito a un suo difetto». È dunque anche una allusione molto chiara ai moralisti, tanto più chiara in quanto l’infanzia si trova ad essere lo stato d’impotenza per eccellenza. Spinoza scriveva in effetti nella stessa prefazione: Attribuiscono, inoltre, la causa dell’impotenza e dell’incostanza umane non

e lettere, tr. it. a cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 1963, p.203. 83 L’idea di privazione è quella di una proprietà che difetta ad una cosa alla quale tuttavia appartiene per natura. È un essere di ragione che nasce da un confronto: cfr. Eth III, def. aff. 3, spieg. (caso della tristezza che suppone il confronto di uno stato presente con uno stato passato); Eth, IV, pref. (caso dell’imperfezione e dell’impotenza). Spinoza enuncia dunque che «la privazione non è qualcosa di reale e che essa si dice soltanto rispetto al nostro intelletto e non rispetto all’intelletto di Dio» (Ep, 37). Occorre quindi ammettere che anche un cieco che ha perso la vista non ne è tuttavia privato: non vedere è «una semplice e pura carenza […] pura negazione», astratta rispetto alla sua nuova natura (Ep, 39). La trasformazione individuale è implicita e forma il correlato psichico di tale ontologia affermativa.

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alla comune potenza della natura, ma a non so quale vizio della natura umana, che pertanto piangono, deridono, disprezzano o, come avviene per lo più, detestano […].

Secondo Tommaso d’Aquino, la Creazione comporta tutti i gradi della perfezione o della bontà (dall’essere più nobile all’essere più vile). Ma la differenza non concerne solo l’ineguale distribuzione delle perfezioni; essa riguarda anche la capacità o meno di decadere da una perfezione posseduta, e tale decadimento è la definizione stessa del male. È vero che quest’ultimo non è niente, non possiede una realtà, ma non è nemmeno una semplice assenza o negazione; esso è «una mancanza di una qualità che dovrebbe naturalmente possedere», ossia è una privazione.84 Se l’uomo si definisce per la ragione, la privazione di questa non si spiega solamente con un possesso solo potenziale; è anche il segno di un decadimento. Così anche il bambino è colpevole, anche se la colpa di cui egli assume il fardello è del primo uomo. L’infanzia stessa è il decadimento dell’uomo, e la presenza dei bambini, la necessità di nascere bambini, sono il richiamo incessante e umiliante al peccato originale. Posto il tema, il suo utilizzo evidentemente varia da teologo a teologo. Il calvinismo, dominante in Olanda, si è spinto il più lontano possibile nella maledizione del bambino: è scandaloso prestar loro la minima attenzione, insistere a curarli quando sono malati, occuparsi della loro educazione; scandaloso pure baciarli prima di metterli a letto e affliggersi del loro decesso.85

84

E. Gilson, Le thomisme, op. cit. Abbiamo qui riassunto l’analisi delle pp. 268274. 85 S., Schama, op. cit., passim. Calvino: «tutti sono avvolti nel peccato originale e sporcati dalle sue macchie. Per questa ragione persino i bambini sono inclusi nella condanna, non solo per il peccato altrui ma per il proprio. Sebbene infatti, non abbiano ancora prodotto i frutti della propria iniquità, ne hanno tuttavia la semenza nascosta in se stessi. E per di più la loro natura è una semenza di peccato; essa non può che dispiacere ed essere abominevole a Dio». (G. Calvino, Istituzioni della religione cristiana, tr. it. a cura di G. Tourn, Torino, UTET, 1983, vol. I, libro II, cap.I,, p.364). Questo duplice argomento, che non è peculiare del calvinismo, figura nei Canoni del sinodo di Dordrecht (1619): cfr. Confessioni e catechismi della fede riformata, (art.2 e 3). Dalla corruzione dei discendenti si passa alla corruzione degli uomini in generale, ridotti alla condizione infantile (in senso figurato). – Con la notevole eccezione di Descartes, più sobrio anche se si attiene ad una concezione negativa sulla quale torneremo, e di Leibniz, indifferente alla questione, i filosofi cristiani insistono sull’immagine della miseria morale che, ai

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Spinoza si oppone dunque all’idea che l’infanzia manchi di qualcosa e che possa essere considerata uno stato di privazione. Egli concorda con il pensiero cristiano solo su un punto: lo stato di estrema impotenza e conseguentemente di dipendenza dei bambini. L’impotenza dei bambini non è affatto il segno di un decadimento del primo uomo, la cui perfezione originaria, immaginata attraverso il peccato, non è che un sogno chimerico. Ecco perché Spinoza utilizza il verbo nescire: se il lattante non parla, non cammina né ragiona è evidente che non può; ma questa impotenza, che d’altra parte stricto sensu non è che un minimo di potenza, una potenza troppo insufficiente comparata a quella delle cause esteriori, è solamente un fatto di ignoranza. Egli non sa nulla di ciò che può il suo corpo, né di ciò che può la sua mente, è «quasi ignaro di sé».86 L’infanzia «cosa naturale e necessaria» vuol dire, in fin dei conti, che «tutti gli uomini nascono ignari delle cause delle cose».87 Privato di nulla, il lattante deve solo imparare ad affermare la sua natura. E se «la facoltà di pensare è assopita nei bambini» come scrive Descartes,88 non accade, come egli crede per una suggestione platonica in rottura con il tomismo89, perché la loro anima è troppo esclusivamente rivolta al corpo; è piuttosto, come enunciato dalla proposizione V, 39 e dal suo scolio, perché il suo corpo non è ancora abbastanza educato. Spinoza indica chiaramente l’unico mezzo per tale educazione in

loro occhi, costituisce l’infanzia. Pascal, parlando di grandi di questo mondo: «No: sono più grandi di noi, perché han la testa più in alto; ma i piedi li hanno in basso quanto i nostri. Si trovan tutti sul nostro stesso piano, poggian tutti sul medesimo terreno; e, per quest’estremità, son bassi, quanto noi, quanto quelli infimi, quanto i bambini, quanto le bestie».(B. Pascal, Pensées, éd. Lafuma, Paris, Le Seuil, 1962; tr. it. di P. Serini, Mondadori, Milano, 1968, n°78) Per Malebranche anche il bambino nato da una madre pia è interamente rivolto al corpo e nasce peccatore: «si trova ad essere privo di un ordine e di una norma e non vi ha nulla in lui che non sia degno della collera divina». (N. Malebranche, La ricerca della verità, tr.it. a cura di M. e E. Garin, riv. da E. Scribano, Bari, Laterza, 2007, p. 178). 86 Eth, V, 6 sch. 87 Eth, I, app. 88 R. Descartes, Meditazioni. Quarte risposte, in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., p. 989. Cfr. anche la lettera ad Arnauld del 29 luglio 1648, in R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, tr. it. a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2005, n°665, pp. 2577-78. 89 Su tale opposizione alla dottrina tomista cfr. P.-F. Moreau, «L’Éthique et la psychiatrie» in Psichiatrie et éthique, Toulouse, Privat, 1979, p.38.

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un’arringa violentemente anti-calvinista: alimentazione sana e varia, curare tanto le parti motrici che quelle sensoriali.90 Ma ci vuole una estrema cura perché il corpo del neonato ha poca capacità di sopportazione. A tale riguardo, e posto nel contesto olandese del XVII secolo, il conamur associato al quantum ejus nature patitur dello scolio V, 39, suona quasi come un manifesto in favore dello sviluppo della pediatria e della puericoltura (la prefazione della V parte, ricordiamolo, sottolinea il ruolo decisivo della medicina).

Nota su Il bambino malato di Gabriel Metsu91 Tutto un gioco di risonanze lega lo scolio V, 38 dell’Etica al quadro di Metsu. È il quadro che illustra lo scolio o è lo scolio che commenta il quadro? Metsu divide la tela in due secondo una diagonale che segue il corpo del bambino e ripartisce nella metà inferiore le tinte vive, rosso, blu e giallo, i tre colori fondamentali, mentre l’altra metà è come velata, tendente al bianco e nero, nonostante qualche giallo e qualche bruno: il bambino, alle prese con la malattia, è chiaramente tra la vita e la morte (Qui enim ex infante, vel puero in cadaver transiit, infelix dicitur, & contra id felicitati tribuitur, quod totum vitae spatium mente sana in corpore sano percurrere potuerimus). La diagonale che conduce in alto verso la rappresentazione oscura di una Crocefissione, è oltrepassata in basso da una tazza colorata nella parte grigia – senza dubbio perché si tratta di un rimedio. Il quadro non meriterebbe granché interesse se la disposizione dei soggetti ripetesse la suddivisione cromatica; ma il busto e il viso della madre sana sono nella parte offuscata mentre il bambino è interamente nel triangolo vivace, il colore e il grigio s’incontrano sul suo viso livido. È stato detto che la composizione ricorda le Vergini con bambino, in modo particolare quella della collezione Wallace a Londra, di Van Dyck. Ma qual è il senso di tale reminiscenza, al di là del fatto che Il bambino malato si colloca più esattamente tra una Vergine con bambino e un Cristo deposto? In realtà, i divini bambini panciuti del Fiammingo hanno poco a che vedere con il bambino di Metsu. Resta l’analogia formale, che suggerisce che la Passione, come dicevamo sopra, è ormai quella del bambino, perché designa lo schiudersi doloroso e incerto della potenza d’agire

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Eth, IV, 45 sch. Riprodotto a pag: 112

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(quantum ejus natura patitur), mentre la madre incarna il conamur che circonda il corpicino tremulo e debole. Lo sguardo del bambino non ha niente di patetico (Eth,V, 6, sch.: nemo miseretur infantis),92 ma la Pazienza illimitata che esprime, prendendo congedo dalla madre, dal pittore e dalla predica, smentisce che la sua impotenza sia pura privazione. Ciò che le anime buone chiamano le «connotazioni religiose» (consolazione, riscatto, …) passa in secondo piano, in un quadro che altro non è se non il simbolo del fragile scarto tra il conamur e il patitur. Se occorre vederci una redenzione, questa sarebbe nella tela stessa, da qualche parte tra lo sguardo del bambino diretto fuori dal quadro e l’angolo di stoffa rosso intenso che copre il ginocchio della madre. Ma soprattutto Metsu traccia una contro-diagonale il cui punto di partenza, in basso a destra è indicato dallo sguardo del bambino, e la direzione della freccia nera che occupa il centro della tela. 93 Questa seconda diagonale gode doppiamente del favore del pittore: essa conduce anche a ciò che alcuni elementi di supporto permettono di identificare come una carta dove egli ha deposto la sua firma. Si direbbe che il quadro rinvia da un lato a L’allegoria della fede dove Vermeer riproduce la Crocefissione di Jordaens che a sua volta imita Metsu, d’altro lato a L’allegoria della pittura dove lo stesso Vermeer firma sulla carta. Poco importa che la datazione differisca di qualche anno: essa ci priva solo di una conferma aneddotica; resta l’evidente comunanza di problemi. Insomma, perché questo quadro, senza essere spinozista, ci par essere in strana risonanza con lo scolio di Eth, V, 39 come noi lo analizziamo? Come in Spinoza, la vicinanza indecisa della vita e della morte propria allo sviluppo del bambino, eleva quest’ultimo al rango di immagine eminente della condizione umana (primo asse e divisione cromatica) solo a condizione che l’immagine stessa dell’infanzia sia al tempo stesso rettificata: leggete la carta della natura, non cercate più il rapporto con la miseria e con il suo riscatto (secondo asse, metodologico). 94

92

Basta compararlo, per convincersene, con La fanciulla malata dello stesso Metsu, di due, tre anni prima, dove la madre in nero asciuga le lacrime (Berlino, Gemäldegalerie). 93 La freccia è un tratto tipico di Metsu: cfr. La giovane donna che riceve una lettera (Dublino, National Gallery of Ireland). 94 Sull’importanza del modello cartografico nella pittura olandese del Secolo d’Oro cfr. S. Alpers, L’art de dépeindre. La peinture hollandaise au XVII°siecle, Paris, Gallimard, 1990, in particolare il Cap. IV: «L’appel de la cartographie dans l’art

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2. La puerilità degli uomini Prima di procedere nella risoluzione del problema della rottura, può forse essere utile esaminare le osservazioni sulla puerilità degli uomini del Trattato teologico-politico: l’assunzione della differenza di prospettiva (divenire adulto/fossilizzarsi nell’infanzia) incita a rivederle, a vedervi qualcosa di diverso rispetto alla retorica usurata. Accade qui, inoltre, come per il rapporto alla debolezza corporale e mentale dei bambini che non poteva essere oggetto d’afflizione: come può essere che Spinoza si dedichi per molte pagine a una pratica da lui esecrata – la satira e lo scherno (irrisio)?95 Forse occorre innanzitutto ricordare che la trasformazione evocata nello scolio di Eth, IV, 39, ha senso concreto, accettabile senza riserve, solo sul piano politico: legandosi tra loro in un nuovo rapporto di quiete e movimento, le stesse parti obbediscono a una nuova legge fondamentale: la rivoluzione. Abbiamo sottolineato già nell’introduzione la situazione significativa dello scolio in seno alla sequenza politica dell’Etica, così come il legame analogo stabilito nel Trattato teologico-politico tra trasformazione e amnesia (scacco di ogni rivoluzione, legata alla memoria dell’antica forma politica). Ma, d’altra parte, gli Ebrei sono descritti come un popolo senza memoria politica, infantile, alla ricerca di una forma: «Quando uscirono dall’Egitto, gli Ebrei non erano più vincolati al diritto di un’altra nazione, potevano liberamente sancire nuove leggi […] E tuttavia a nulla erano meno idonei che a istituire sapientemente una nuova legislazione».96 «[Mosè] li educò [gli Ebrei], dunque, come di solito fanno i genitori con i figli del tutto privi di ragione».97 Insomma gli Ebrei da soli non avrebbero saputo formare uno Stato, essi devono la loro salvezza a Mosè che si è condotto come un padre. Se il problema è che gli Ebrei neonati escano dall’infanzia (essendo l’uscita d’Egitto equivalente ad una nascita), le condizioni del processo sono assai simili a quelle che abbiamo creduto di riconoscere nello scolio di Eth, V, 39: conamur, ossia uno sforzo esteriore che

hollandais». 95 Sull’opposizione di riso (risum) e di scherno (irrisio) cfr. Eth, IV, 45, sch. Sulla critica al tono satirico cfr. Eth, III, pref. e TP, I, 1. 96 TTP, V [9]. Stessa idea nel capitolo XVII. 97 TTP, II. [15] Anche Appuhn, come nella traduzione di Proietti qui utilizzata, traduce «privés de raison» ma il verbo è carere che designa una semplice carenza, senza idea di soppressione.

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sostituisce lo sforzo ancora infimo, perché ignorante di tutto, del neonato. E il problema stesso si pone in termini quasi identici: acquistare un vero corpo, una vera forma, stavolta in senso politico (societatem formare).98 Ora, se la storia degli Ebrei è esemplare politicamente, lo è giustamente a causa del contrasto tra la loro puerilità estrema e la durata del loro Stato, che mostra una forma riuscita (TTP, III [6]). Possiamo parlare di un paradosso dei bambini felici? Tale felicità è più collettiva che individuale: continua imperii foelicitas. 99 Dal punto di vista della salvezza individuale, in effetti, non c’è ragione alcuna perché gli Ebrei siano stati più felici di altri100 se per vera felicità s’intende, oltre la fortuna, la virtù o l’amore di Dio101 e, per conseguenza, la tranquillità d’animo che mette fine alla fluttuazione mentale e affettiva.102 Una formula riassume bene l’idea: l’elezione degli Ebrei consiste nella «sola felicità temporale del corpo e tranquillità dello Stato»,103 in altri termini i due aspetti della felicitas -mens sana in corpore sano – sono divisi, ripartiti tra gli individui e la comunità. E Spinoza sottolinea che la profezia di Isaia contiene due promesse: mens sana in corpore sano per gli uomini liberi e caritatevoli (i saggi), sicurezza dello Stato, prosperità materiale, conservazione dei corpi per coloro che avranno almeno osservato il culto (gli ignoranti).104 Qual è dunque questo insegnamento mosaico, analogo a quello che i genitori riservano ai più piccoli? Spinoza dice che il problema generale era quello di far obbedire gli Ebrei: egli non smette di ricordare la loro leggendaria insubordinazione.105 Ma vedervi il carattere proprio o la natura di una nazione sarebbe secondo lui una risposta «puerile», poiché la natura non crea che degli individui e il carattere di una nazione concerne solo «leggi e costumi» che sono gli abiti di vita collettivi. Spinoza ci invita dunque a distinguere una insubordinazione innata – problema di puericoltura politica, per così dire – e una insu-

98 99 100 101 102 103 104 105

TTP, III [6]; (G, III, 33) e TTP, IV [2]; (G, III, 50). TTP, III [6]; (G, III, 34): «la duratura felicità dello Stato». TTP, III [7]. TTP, IV [4]. TTP, IV [12]. TTP, V [1]. TTP,V [4]. Ad esempio TTP, III [6], TTP, III [10], TTP, V, [3], ecc.

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bordinazione diventata habitus, per via di certi difetti di ordine istituzionale (il torto, di fatto, è stato quello di cambiare la costituzione).106 L’insubordinazione originale è un dato universale, quella persistente è solo il segno di uno scacco educativo. Il contenuto dell’insegnamento è una «regola di vita vera», i famosi Dieci Comandamenti, che data la «puerile capacità di comprensione» (puerilis captus) degli Ebrei,107 Mosè non può far apprendere con ragionamenti ma attraverso un gioco di minacce terribili e meravigliose promesse, anche se utilizza il più possibile la persuasione e il meno possibile la dissuasione.108 Egli adatta così il suo discorso al livello di comprensione del suo pubblico, sollecitando la sua immaginazione e cercando innanzitutto di incidere nella sua memoria con forti associazioni (Spinoza sottolinea che perfino i bambini possono accedere alla profezia).109 E proprio come se avesse a che fare con dei bambini piccoli che non hanno la minima idea di ciò che è il loro utile, egli instaura quello che noi oggi chiameremmo un regime totalitario – estendendo la legislazione e il diritto penale ai minimi dettagli della vita privata (come radersi, vestirsi, arare, far festa, ecc.)110 – e per di più egalitario.111 Spinoza non descrive qui una città ideale, come se la comunità umana potesse scaturire da sola bell’è pronta, ma un lattante politico, inadatto a conservarsi da solo: «infine, affinché un popolo che non poteva esser padrone di sé pendesse dalle labbra di chi comandava, non permise che uomini abituati alla servitù compissero una qualsiasi azione a proprio capriccio».112 Gli Ebrei non sono certo navigati in alcuna forma politica: il giogo egizio li ha abituati alla schiavitù, nascono dunque schiavi. E i loro primi anni non possono essere altro che anni di sottomissione, sotto la guida illuminata di un padre dispotico ma giusto. Da un altro punto di vista, tuttavia, essi nascono liberi, chiamati ad autodeterminarsi (ritorno allo stato di natura, democrazia primitiva).

106

Cfr. Introduzione. TTP, III [1]; (G, III, 33). 108 TTP, XI [4], («Mosè, il più grande dei profeti, non produsse nessun legittimo argomento»). 109 TTP, XIII [5]. 110 TTP,V [7]. 111 TTP, XVII, [26], [27], [28]: il privilegio ereditario accordato ai Leviti per ricompensarli per non aver adorato il Vitello d’oro è l’errore politico decisivo del tempo stesso di Mosè. 112 TTP, V [11]. 107

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Ci si può stupire che Spinoza giudichi positivamente un tale regime, in un testo in cui sostiene che la democrazia è il regime «più naturale e il più vicino alla libertà che la natura concede ad ognuno».113 Ma tale stupore è astratto. Solo la nozione d’infanzia politica permette di comprendere. Non si tratta di una tirannia; al contrario, è il fallimento del sistema di Mosè che conduce ineluttabilmente gli Ebrei alla tirannia.114 Per di più Spinoza spiega che la conduzione per obbedienza (ex mandato), per quanto non sia libertà, non è tuttavia per sua natura schiavitù, in quanto tutto dipende dallo «scopo dell’azione», actionis ratio.115 Lo schiavo è colui la cui azione su mandato, vicina in questo ad una azione suicida, lo rende «inutile a se stesso». Ma i bambini non sono degli schiavi, in quanto fanno ciò che è a loro utile ex mandato parentis.116 Trovandosi all’uscita dell’Egitto in uno stato di natura, gli Ebrei si rimettono immediatamente a Dio, cui trasferiscono la loro sovranità. Qual è a riguardo il significato della teocrazia così proclamata? Perché Spinoza non vi vede un sogno ad occhi aperti, come nel caso di coloro che credono che la Bibbia sia stata realmente scritta da Dio e inviata agli uomini? 117 Per un certo verso la teocrazia è in effetti una chimera, lo è doppiamente, dato che consiste nel rappresentarsi Dio come un re e poi ad assegnarselo come sovrano.118 Ma essa è forse il modo in cui il popolo neo-nato percepisce come in sogno la condizione reale: Infatti, proprio perché credettero che la sola potenza di Dio potesse salvarli, trasferirono in Dio ogni loro potenza naturale e quindi ogni diritto di conservare se stessi; diritto che prima avevano creduto di possedere essi soli.119

Il neonato ha di certo un conatus, e a tale titolo si conserva grazie a ciò che il Trattato teologico-politico chiama «aiuto interno di Dio». Tuttavia, essendo la potenza di cui dispone del tutto sproporzionata in rapporto a quella delle cause esteriori che su di lui agiscono e non conoscendo se stesso né il proprio corpo né l’ambiente circostante, i suoi sfor-

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TTP, XVI [11]. TTP, XVII [29]. TTP, XVI [10]; (G, III, 180). TTP, XVI [10] (G, III, 181). TTP, XII [1]. Per questa trattazione si rimanda più avanti al Terzo studio. TTP, XVII [7].

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zi risultano insufficienti a conservarlo, e la sua sopravvivenza dipende da un «aiuto esterno».120 Allo stesso modo, gli Ebrei vivono inizialmente una breve era di democrazia primitiva che corrisponde alla loro indipendenza in quanto popolo neo-nato; ma ben presto essi si rimettono a Dio. Tale decisione è d’altra parte già ispirata da Mosè in quanto è la sola forma di dipendenza non tirannica, non oppressiva. La scelta teocratica è dunque l’oscuro riconoscere da parte degli stessi Ebrei che non possono trovare in se stessi la propria legge, che non hanno la coscienza dell’utile che permetterebbe loro di conservarsi. Bisogna anche che essi obbediscano e perché questo accada che apprendano ad obbedire. Tutto avviene come se la prima educazione abbia come unico contenuto l’obbedienza in quanto il lattante non può comprendere perché gli si faccia fare una cosa piuttosto che un’altra e gliela si faccia fare in un modo piuttosto che in un altro. Tacitamente egli allora trasferisce la propria potenza di conservarsi ai genitori, conamur, cosa non tanto lontana dall’idea hobbesiana di un’obbedienza fondata, anche se il lattante non è ancora in età da firmare accordi (come in Hobbes, l’educatore spinoziano – Mosè – esercita, se non detiene, un potere di vita e di morte sui suoi protetti).121 E l’obbedienza è vitale dato che senza di essa il lattante è abbandonato a se stesso. L’aiuto esterno è in un certo senso l’avvio dell’aiuto interno. Ritroveremo più avanti questo meccanismo decisivo. Ma Spinoza sembra aver contato anche su un secondo meccanismo: l’interiorizzazione dell’obbedienza, considerata in grado di realizzare la trasformazione progressiva dalla schiavitù alla quasi libertà. In questo modo egli cerca la chiave per passare dalla prima infanzia alla seconda, dall’infans e dal puer all’adolescens, età ambigua e transitoria: Li spingeva inoltre moltissimo la rigidissima disciplina dell’obbedienza, nella quale erano educati: il fatto, cioè, che dovevano compiere ogni cosa secondo una determinata prescrizione della legge. Non era infatti lecito arare a capriccio, ma in certi tempi e anni e ogni volta con un solo tipo di bestiame; così anche si poteva seminare e mietere solo in un certo modo e in un tempo stabilito. Senz’altro la loro vita era un continuo culto dell’obbedienza (vedi il capitolo V sull’utilità delle cerimonie). Perciò, assuefatti totalmente all’obbedienza, l’obbedienza dovette sembrar loro non tanto servitù, ma libertà. Ne dovette conseguire che nessuno desiderasse la cosa negata, ma solo ciò che era prescritto. (TTP, XVII [25])

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Per la definizione di queste due specie di «aiuto divino» cfr. TTP, III [3]. TTP, IV [2]: il «timore del patibolo» è, in ultima analisi, ciò che sostiene il comandamento (confrontare con la conclusione della lettera 41 a Blyenbergh).

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Tuttavia tale educazione fallisce e il giovane Stato così promettente s’incammina lentamente verso la decadenza, fossilizzato in una specie di infanzia che invecchia. L’educatore geniale ha commesso un passo falso senza ritorno: alla sua morte gli uomini ritornano all’insubordinazione originaria, sinonimo della più grande sottomissione. Comincia allora la deriva tirannica, morte lenta dello Stato. Obbedire: è dunque la salvezza degli ignoranti. È l’infanzia divenuta vivibile in se stessa e sopportabile agli altri (liberata dal di fuori, attraverso la passione, dalla schiavitù delle passioni). La maggior parte degli individui si fermano qui: «Giacché tutti possono certamente obbedire, ma solo pochissimi (se comparati con tutto il genere umano) possono acquisire l’abito della virtù per la sola guida della ragione»122 (liberazione dal di dentro, per la trasformazioni delle passioni in azioni). Ma l’insubordinato, che non coltiva la ragione e non sa nemmeno obbedire, costui è «un essere posto fuori dall’umano, quasi una bestia». È l’infans adultus, lattante grande, adulto poco dissimile dal neonato, che, secondo i tipi di cui Spinoza infiora la sua opera, può essere un suicida, uno scettico, una bestia sanguinaria, un folle. Solo lui può esser detto privato123e in tal senso differisce dal lattante. Quest’ultimo, né felice né infelice, ha davanti a sé la prospettiva di due destini estremi e di un destino minimale che gli assicura comunque la salvezza: la felicità o ricompensa immanente (divenire adulti); l’infelicità o punizione immanente (infantilismo), infine essere, come si suol dire, un bravo bambino, e restarlo fino alla fine dei propri giorni. Spinoza insiste tanto sull’importanza delle parole di Giacomo: «non possiamo conoscere nessuno se non dalle sue azioni», questo comporta che il bambino non possa esser giudicato con precisione perché non possiamo conoscerlo in anticipo.124 L’acquisizione principale di questa analisi è la seguente: la prima tappa importante dell’infanzia è imparare a obbedire. Lungi dall’imporre al lattante e poi al bambino un destino servile, si tratta di: 1) renderli capaci di «aiuto esterno» senza il quale non sopravvivrebbero; 2) sottrarli all’insubordinazione, condizione di schiavitù nel senso psicologico e politico del termine, dato che l’insubordinazione – o sottomissione alle sole proprie passioni – significa comunque degenerazione; 3) condurli, con modo ancor leggermente aporetico (puntare sulla speranza piuttosto che sulla paura, favorire l’interiorizzazione

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TTP, XV [10]. TTP, IV [6] e [12]. TTP, V [20] e XI [9].

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dell’obbedienza), alla soglia della seconda tappa – diventare adulti, ossia liberi, saggi, amanti di Dio nel senso della V parte dell’Etica. Vedremo più avanti che la differenza tra bambini in divenire e adulti rimasti bambini deve essere approfondita in funzione delle indicazioni dell’Etica: in particolare il corpo del bambino è detto «come in equilibrio», mentre l’adulto puerile vive diviso tra le proprie contraddizioni, in perpetua «fluttuazione», e il bambino non ha lo stesso rapporto dell’adulto con la memoria. Prima di giungervi, sottolineiamo semplicemente quanto il problema della «moltitudine libera», nell’opera di Spinoza, vada oltre l’ambito della soluzione mosaica (caratterizzata dal legiferare fin sui minimi dettagli dell’esistenza). Il lettore della fine del XX° secolo non può esporre tale soluzione senza rabbrividire, ma anche Spinoza stesso non doveva attenervisi. Da un lato l’era dei profeti è chiusa: «Ma Dio ha rivelato attraverso gli apostoli che il patto con lui non è più scritto con l’inchiostro e in tavole di pietra, ma nel cuore, con lo spirito di Dio».125 Cosa significa la rottura cristiana in termini politici? Significa che il problema è ormai quello della democrazia.126 D’altro lato, Spinoza giudica utile precisare che il modello mosaico è agli antipodi delle aspirazioni olandesi: «Tale forma di Stato, inoltre, potrebbe forse risultare utile a chi vuole vivere per sé solo, senza commercio estero, restando chiuso nei propri confini e segregato dal mondo, ma sarà del tutto inutile a quanti hanno la necessità di commerciare con gli altri».127 Ma per quale motivo una tale nota, se non perché gli Olandesi, come gli Ebrei, sono un popolo nuovo, bambino, al quale di conseguenza si pone il problema di affermare la propria libertà, di apprendere ad essere liberi? Simon Schama sottolinea che

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TTP, XVIII [1]. Come scrive Matheron: «Non più sovrani divinizzati, non più un Dio legislatore, non più tabù istituzionali, non più un valore privilegiato accordato ad una singola comunità: lo Stato laicizzato, demitizzato, riportato alla sua vera natura di strumento concepito dagli uomini e per gli uomini, poteva organizzarsi e riorganizzarsi liberamente. Ma ciò che diventava sacro era la comunità in generale: fate e rifate insieme le leggi che volete, dice in sostanza Cristo, ma che ciascun di voi in seguito le rispetti personalmente con tutta l’anima; e dato che esse altro non sono che mezzi imperfetti, completatele senza contraddirle spingendovi il più lontano possibile nella direzione che esse indicano: sforzatevi, nella sfera della vostra esistenza dove vien meno la loro autorità, di fare regnare quotidianamente più armonia possibile tra gli uomini». (A. Matheron, Le Christ et le salut des ignorants, Paris, Aubier, 1971, pp.68-69) 127 TTP, XVIII [1]. 126

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nessun tema ha più preoccupato i compatrioti di Spinoza che quello del rapporto dialettico tra gioco e istruzione, tra libertà e obbedienza: E poiché questo tema affondava le proprie radici nelle preoccupazioni degli adulti, questo significava che per divenire adulto in Olanda, occorreva forse attraversare delle prove più aspre che altrove. Poiché ciò voleva in effetti dire che l’età adulta (e politicamente la Repubblica) alla quale si accedeva era tormentata dalle stesse difficoltà che si attribuivano all’infanzia. Nel XVII° secolo essere Olandesi voleva dire, come minimo, essere prigionieri di uno stato in divenire: una sorta di perpetua adolescenza politica […]. Se gli Olandesi dovevano tenere ai propri bambini più di qualsiasi altra cultura europea prima di loro, ciò era dovuto alla considerazione un poco ossessiva che avevano di se stessi, poiché si consideravano come bambini impegnati a compiere il loro cammino. (S. Schama, op. cit., p.647 e p.678)

3. L’autonomizzazione del corpo Abbiamo dapprima avanzato un poco nella risposta alla questione preliminare rispetto al problema: la rottura implicata dallo sviluppo non è l’altro verso di una privazione. Restava il problema in quanto tale: perché è necessario che ci sia rottura? Qui Spinoza ha senza dubbio incontrato una difficoltà e le soluzioni intraviste sono per forza congetturali. Noi ne vediamo due: la formazione, l’autonomizzazione. Tenuto conto della precedente analisi, cerchiamo di esporre una analogia più volte suggerita da Spinoza. Questi compara gli Stati agli individui, gli Ebrei usciti dall’Egitto a un popolo infantile e si direbbe persino che talvolta ci invita a procedere nel senso inverso e a decifrare il politico nella storia di un individuo. Questo è vero, in tutta evidenza, nello scolio IV, 39; e possiamo chiederci se tutta l’analisi del divenire degli Ebrei dall’uscita d’Egitto non fornisca di contro una chiave di lettura almeno plausibile della mutatio del corpo infantile dello scolio V, 39. Ecco gli elementi per l’analogia. Uno spatium vitae è creato da una certa unione di corpi votati ad un comune destino. La vita intra-uterina del feto è quella di un corpo vivente sotto una legge altra rispetto alla propria, in uno stato di dipendenza totale, ma che si afferma sempre più come uno Stato nello Stato. Viene il momento in cui la sua crescita compromette l’integrazione del suo rapporto di quiete e movimento con quello del tutto e in cui tale divergenza diviene minacciosa per la parte quanto per il tutto: così esce. E come si sono trovati i Giudei una volta liberati dal giogo 161

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egizio, il neonato è in quel momento nudo: di certo libero perché non più sottomesso ad una legge straniera ma inabile a vivere se non nella dipendenza e ancora incapace di affermare una propria legge. Solo in tal senso Spinoza ha potuto sostenere un giorno, nel Breve trattato a rischio di scivolare nella chimera del fœtus adultus che la nascita di un bambino valeva come trasformazione.128 Ancora una volta Lucrezio: Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato a riva Dalle onde infuriate, giace nudo sul suolo, incapace di parlare, bisognoso d’ogni aiuto vitale appena la natura lo getta sulle prode della vita, con doglie del grembo materno, e riempie lo spazio di un disperato vagire, come è giusto che faccia colui cui in vita è serbato l’attraversare tante sventure. (De rerum natura, V, 222-227)129

Proseguiamo: le parti si rinnovano costantemente, integrate al tutto seguendo una gerarchia di livelli complessi (per il corpo politico: individui, famiglie, tribù, città…), esse possono cambiare rapporto senza peraltro dissociarsi, mantenendo alcune funzioni (la conservazione della lingua, come nello scolio IV, 39, essendo l’analogo della circolazione del sangue). La generazione propriamente detta, per la comunità, altro non è che la «continua rigenerazione»: è l’alimentazione del corpo politico, un incessante succedersi delle generazioni. La generazione non è forse l’alimentazione di un popolo? Ma il corpo non deve solo mantenersi in vita, deve crescere, fortificarsi e accogliere il maggior numero di corpi estranei che sia in grado di integrare: «Si dovranno anzi escogitare degli espedienti perché il numero dei cittadini

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KV, II, pref., [2], nota 10. Modifichiamo la traduzione dell’ultimo verso per far apparire il verbo transire, reso con «attraversare», che Spinoza utilizza nello scolio V, 39, in riferimento al divenire incerto del lattante. Ci si ricorderà anche, malgrado l’anacronismo, il formidabile commento kantiano di questo passaggio di Lucrezio, che si allaccia alla complessa problematica dell’infanzia del Trattato teologico - politico, condizione servile ma prospettiva di libertà: «Anche il bambino, appena si sia staccato dal seno materno, sembra che, a differenza degli altri animali, entri nel mondo ad alte grida solo per questo; che a lui par di sentire come una coazione nella propria impotenza di servirsi delle sue membra, e così manifesta la sua aspirazione alla libertà (della quale nessun altro animale ha idea)». (I. Kant, Antropologia pragmatica, tr. it. di G.Vidari, riv. da A. Guerra, Roma-Bari, Laterza, 1985, p.160.) 129

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si accresca facilmente e vi sia un grande afflusso di uomini».130 Capita inoltre che a seguito di una crisi o di una malattia particolarmente grave, il corpo tanto politico che individuale sia sottoposto a un cambiamento di forma.131 Ma ecco ciò che è più importante: lo sviluppo, come si è detto, non è solo crescita, è anche rottura; occorre che il corpo dell’infanzia sopporti una mutatio, che tuttavia non è una trasformazione. Ne consegue una prima ipotesi, che presenta due versanti: 1) forse la forma fetale e quella infantile sono parzialmente chimeriche nella misura in cui la prima inviluppa la forma della madre, la seconda perché essa inviluppa ancora la madre da cui il lattante nei primi tempi non è affatto separabile, poi i genitori e gli adulti che se ne occupano, sebbene in questi due ultimi casi l’inviluppo sia di grado minore perché si presume non debba fornire l’elemento stesso, nel senso del Breve trattato, dell’esistenza. Giacché sia il lattante sia il bambino piccolo, non sanno prendersi cura di sé: sono inutili a se stessi, come lo schiavo di-pende dal padrone, l’ossessionato di-pende dal suo piacere e il suicida pende dalla forca132 – tutte queste sono le figure spinoziane paradossali di chi «non si appartiene». Questo è il senso ultimo del conamur: non tanto sforzarsi in molti, come quando si forma una comunità, ma non poter affermarsi se non appartenendo ad altri. 2) In queste condizioni, il lattante deve trovare la sua forma vivibile, come il popolo-bambino deve trovare una forma politica che non lo riporti allo stato di natura dal quale egli tende giustappunto a uscire. E come non vedere che l’assemblea non è che un individuo in stato di quiete, esattamente come descritto nella prima metà della definizione dell’Etica?133 Le componenti del popolo si tengono ben assemblate e letteralmente convenienti134 ma ciascuno torna ben presto alle proprie

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TP, VI, 32. La causa della decadenza delle democrazie in aristocrazie viene dal rifiuto di naturalizzare gli stranieri. L’accrescimento delle parti è assicurato a livello degli individui, ma il loro rinnovamento è ostacolato a livello delle famiglie; queste si estinguono le une dopo le altre e chi sopravvive costituisce una oligarchia divisa in fazioni che fanno degenerare il regime aristocratico in monarchia (TP,VIII,12). 131 Per il confronto dei testi si rimanda all’introduzione. 132 Lettera 23 a Blyenbergh. Non appartenersi è pendere dalla bocca di un altro, dice a due riprese Spinoza (TTP, V [11]: penderet; TTP, XX [2]: pendeat). 133 Eth, II, 13, def. Per il suo commento cfr. Parte I, Capitolo 2. 134 Si suppone che gli Ebrei siano capaci di pacte (TTP, XVII [7]), ora l’attitudine a patteggiare presuppone una promessa reciproca, o convenzione.

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attività e i movimenti degli uni e degli altri devono conservare tra di loro una proporzione che corrisponda alla convenzione iniziale. Di qui la necessità di passare dalla forma in quiete alla forma in movimento, transizione che consiste nella vera instaurazione di una forma politica. Tutta l’infanzia è qui considerata una formazione, un processo durante il quale la forma si afferma cercando se stessa, dove le parti in crescita cercano il loro migliore concatenamento. Il bambino, e ancor più il lattante, è tra la vita e la morte come l’assemblea detta costituente resta a margine dello stato di natura fintanto che i rapporti in seno al corpo politico non sono ancora regolati – composizione fragile, insicura, che ancora non ha trovato un rapporto vivibile, differente in ogni individuo come in ogni popolo. La cesura nel divenire del corpo deve interpretarsi come il correlato dell’avvento della ragione nella mente? Ciò sarebbe vero in Tommaso d’Aquino che fa corrispondere età della ragione e pubertà. I testi di Spinoza lasciano piuttosto intravedere due cesure, con ricaduta ineguale: 1) da infans a puer (apprendimento del camminare e del parlare), forse accompagnata da amnesia; 2) la crisi dell’adolescenza, quando il corpo è abbastanza sviluppato da permettere un’educazione della ragione ma anche quando l’individuo si trova esposto alle passioni propriamente dette, denaro, sesso, potere – il problema è a questo punto quello di un oblio attivo. Ma tutto ciò dovrà essere confermato attraverso uno studio più preciso della dottrina spinoziana della memoria. Tale ipotesi è comunque inaccettabile per un’evidente ragione, anche se i suoi elementi paiono pertinenti: essa ci conduce allo schema tomista dell’attualizzazione, dunque dell’infanzia come privazione. Occorre avanzare una seconda ipotesi: quest’ultima mantiene alcune acquisizioni analogiche della prima (il rapporto parte-tutto), ma cercando di spiegare la rottura senza ricorrere all’idea di privazione; essa poggia sull’alternativa tra dipendenza e indipendenza, della dipendenza della parte al tutto, poi della sua secessione e della sua autodeterminazione come tutto. Essa richiederebbe d’abbandonare la stretta adesione a un unico concetto di forma nella fisiologia e nella politica: la forma –un certo rapporto di quiete e movimento tra le parti – è già presente nel feto, la rottura consiste nel fatto che le parti del corpo (fetale), abituate a non avere un rapporto costante tra di loro se non sotto la legge di un altro rapporto costante, d’ordine superiore, che le integra, devono imparare ad affermare il proprio rapporto in modo autonomo, e non sotto la sola «pressione dell’ambiente» che rende conto della formazione del corpo e della sua conservazione fintanto che vi è integrazione fra loro, ma che ormai può rivelarsi ostile: l’ambiente è 164

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divenuto estraneo, l’elemento è diventato esterno. Il corpo non forma più, insieme al proprio ambiente, un individuo, l’alimento deve essere trovato fuori, prelevato da una diversità a volte conveniente, a volte no. Poiché, come veniva menzionato in «Introduzione», lo scolio di Eth, V, 39, si chiarisce su questo punto attraverso lo scolio di Eth, II, 13 (a sua volta solidale con la definizione 7 della stessa parte), che evoca il «concorso di altri corpi» dal quale il corpo in sviluppo si affranca, prendendo congedo da un’individualità allargata di cui esso non era che una parte, per affermare la sua propria individualità. Questo schema, che noi chiamiamo di autonomizzazione, e che ci appare il solo adatto a risolvere il problema, mette in rilievo il passaggio dal conamur al conor, ritenuto la chiave del cambiamento subito dal corpo: lo sviluppo delle attitudini motorie, linguistiche, intellettive, consiste non tanto nel fatto che le parti del corpo entrino in nuovo rapporti dinamici (opzione che poteva sembrare difendibile dato che il passaggio dal gattonare al camminare, per fermarsi a considerazioni superficiali, rende disponibili le mani e riorganizza completamente il campo percettivo) quanto nel fatto che l’individuo diventa capace di conservare se stesso. Lo sviluppo delle attitudini implica una rottura, perché passa attraverso la riappropriazione del conatus. È ciò che si evidenzia, senza dubbio, nel cambiamento della figura o delle proporzioni apparenti del corpo: delle membra non solo accresciute ma armoniose e sciolte, delle corrispondenti attitudini, destre e sicure. Questo è il cambiamento che scoprono i pittori e che dunque non è semplice illusione. In nessun caso, tuttavia, dobbiamo confonderlo con un cambiamento di proporzione di quiete e movimento tra le parti, che affetterebbe l’identità individuale del corpo. Il problema della memoria diviene così più complesso.

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5. INFANZIA E MEMORIA Con più forza di qualsiasi altro filosofo, Spinoza sostiene la cesura, questa volta mentale, che ci separa dall’infanzia. A partire dalle annotazioni del Breve trattato per passare allo scolio IV, 39 dell’Etica emerge che, se la mente è l’idea del corpo, non c’è trasformazione del corpo senza una trasformazione della mente, che si manifesta come amnesia. Di conseguenza, se la dottrina è coerente, la fisiologia della memoria, così com’è esposta nel De natura corporum della II parte dell’Etica, deve almeno permettere alcune ipotesi sulla natura di questa amnesia, e precisamente deve dirci se è totale (cancellazione delle tracce mnestiche) o soggettiva (le immagini restano ma come se non fossero state vissute). 135 Ma Spinoza sembra nello stesso tempo indicare una seconda direzione: ecco che l’amnesia deve essere pensata anche in assenza di trasformazione, se è non meno legittimo applicarla all’infanzia. Ora, tutto ci invita in questa direzione: ci vorrebbe un po’ di malafede per rifiutare il raffronto dei due scolii 39. Quello della IV parte sottolinea l’abisso che separa la prima infanzia dall’età adulta; quello della V parte evoca il cambiamento del corpo dell’infanzia in un altro più adatto. È da rilevare, nel primo, che da tale abisso in un qualsivoglia «uomo di età avanzata» consegue una sorta di fluctatio imaginationis tra due credenze, quella in una differenza di natura tra il lattante e se stesso, la quale implica una trasformazione, e quella di essere stato egli stesso un giorno lattante. Spinoza non sostiene espressamente la tesi di un’amnesia, ma questa è il legame implicito che giustifica il passaggio dall’aneddoto dell’uomo metamorfizzato alla questione del rapporto che noi intratteniamo con la nostra infanzia. Inoltre, il rapporto in questione deriva dall’«esperienza vaga» definita nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto: inferenza analogica tratta dall’osservazione dei miei simili. Io so che un tempo sono stato lattante così come so che un giorno morirò: la convinzione è dello stesso ordine, estranea alla memoria. Questo perlomeno vuol dire che la memoria, supponendo che ci sia, è incapace di vincere la mia tendenza a credere all’esistenza di un fossato invalicabile tra il lattante e me. Spinoza sa che questa

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Abbiamo condotto questa indagine nel capitolo IV di Spinoza. Una fisica del pensiero, op. cit.

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idea del rapporto all’infanzia propria come estranea s’incontra già in S. Agostino? Ebbene, Signore, questa età che non ricordo di avere vissuto, di cui credo ciò che mi dicono gli altri, e che suppongo di aver trascorso solo perché la vedo negli altri infanti, per una supposizione, dunque, sebbene assai fondata, l’annovero con riluttanza fra le età della vita che vivo in questo mondo. Per oscurità e oblio non è da meno di quella che vissi nel grembo di mia madre. (Agostino, Le confessioni, tr. it. di C. Carena, a cura della Cattedra Agostiniana presso l’«Augustinianum» di Roma, sotto la direzione di padre Agostino Trapé, Einaudi, Torino, 1966, libro I, 7.12.)

Come render conto di tale oblio e di tale estraneità? Tentiamo di metter insieme tutti gli elementi di cui possiamo disporre a riguardo del divenire della memoria.

1. Il regime amnesico dell’infans stuporoso Dato che la memoria è una «concatenazione di idee» che «nella mente avviene secondo l’ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo umano»,136 essa non ci è data alla nascita, ma si costituisce di seguito all’esperienza. La sua formazione è dunque un processo tipico dell’infanzia, ed è poco probabile che la messa in scena che circonda la sua descrizione logica sia dovuta al caso: Supponiamo dunque che ieri un fanciullo abbia visto prima Pietro al mattino presto, poi a mezzogiorno Paolo e di sera Simeone e oggi di nuovo Pietro al mattino. Dalla P18 di questa parte è evidente che, nel momento in cui vedrà la luce del mattino, il fanciullo immaginerà il sole percorrere la stessa parte del cielo che aveva visto il giorno prima, ossia l’intera giornata e, contemporaneamente, immaginerà Pietro al mattino, Paolo a mezzogiorno e Simeone la sera[…]. (Eth, II, 44 sch.)

Spinoza prende ad esempio un bambino perché ha bisogno, per mettere a nudo il meccanismo, di supporre un soggetto ingenuo che

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Eth, II, 18 sch.

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incontra le cose, e cioè le vede per la prima volta.137 Si ricorre al bambino in quanto colui a cui, per eccellenza, si presenta il nuovo. Il testo descrive un doppio circuito associativo: il percorso del sole durante il giorno, ossia una successione, e l’associazione di ciascun momento della giornata con una particolare persona. Ora, se è inerente alla memoria comporsi di concatenazioni e non semplicemente di iscrizioni, se il richiamo del ricordo è associativo, un oggetto che lasciasse una traccia isolata nel cervello non avrebbe alcuna possibilità di ritornare alla mente. L’idea sarebbe data ma sarebbe impossibile da riattivare. Si obbietterà che il caso è ben poco probabile dato che un oggetto non è mai dato da solo al mondo. Ma propriamente, ad eccezione del passaggio appena citato, Spinoza offre solo due esempi di percezioni infantili isolate. Prendiamo il sogno ad occhi aperti del cavallo alato: 138 non solo nessuna percezione di cose presenti interviene a turbare l’immagine del mostro la cui intensità è del resto allucinatoria (possiamo supporre che il bambino sia al buio o interamente risucchiato dalla sua visione non prestando alcun attenzione a ciò che lo circonda) ma l’immaginazione si presenta qui come un curioso prodotto della memoria. La compo-

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Pierre Macherey ha ragione di affermare che il bambino gioca in Spinoza il ruolo di un «modello sperimentale» che permette di vedere il «nudo funzionamento» di un meccanismo affettivo e di trarne «il diagramma semplificato di gran parte dei nostri comportamenti» (P. Macherey, op. cit., vol 3, pp.257-258). Lo dice a proposito dello scolio III, 32, che commenteremo più avanti, ma la nota ci pare applicarsi altrettanto bene – se non ancor più chiaramente – a questo scolio, in cui la ragione del ricorso al personaggio del bambino è limpida. Laurent Bove, con lo stesso spirito, spiega che «è il bambino che continua a vivere, dissimulato, nelle passioni dell’adulto», essendo il bambino il «modello (epistemologico) del comportamento umano (del vulgus)». (L. Bove, La stratégie du conatus. Affirmation et résistance chez Spinoza, Paris, Vrin, 1996; tr.it. di F. Del Lucchese, Milano, Ghibli, 2003, p.118) Queste note si collegano a ciò che abbiamo creduto di dover identificare con il nome di pueritia dell’adulto, comportamento caratteristico non del bambino propriamente detto, in divenire, ma del bambino fossilizzato per sempre che è l’adulto ordinario. 138 Eth, II, 49 sch. Cfr. nota 3 della Presentazione Spinoza come educatore. Nota della traduttrice: nella traduzione dell’Ethica di Paolo Cristofolini (Pisa, ETS, 2014) l’aggettivo «alato» è tolto in conformità con quanto è riportato nella versione dell’opera di Spinoza ritrovata negli Archivi del S. Uffizio nel 2011 (utilizzata da Niels Stensen nel 1677 per denunciare l’opera come eretica) che sconfessa l’aggiunta dell’aggettivo operata dal Gerbhardt.

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sizione delle due immagini non è il frutto di un’associazione ma corrisponde ad un movimento spontaneo del corpo 139 oppure a un desiderio. 140 Le immagini scaturiscono al di fuori di qualsiasi processo associativo e se noi non sappiamo «che cosa può il corpo», 141 indoviniamo che esso ha, tra gli altri, il potere di risvegliare delle tracce isolate le cui idee, simultaneamente, si presentano alla mente in combinazioni mostruose, di modo che certi stati fisici come il sonno o la febbre sono propizi alla mobilitazione non associativa di certi ricordi, e forse alla riattivazione dei ricordi non collegati, normalmente non accessibili nello stato di veglia. È certo ragionevole credere che il bambino già capace di immaginare un cavallo alato colleghi peraltro nella sua memoria l’idea del cavallo al contesto della strada, o del tiro, ecc., senza cui non avrebbe potuto formare tale idea; allo stesso modo per quanto concerne l’idea dell’ala. Tuttavia queste concatenazioni non hanno alcuna presa su di lui: l’immagine unica e mostruosa ha riempito la sua mente. Spinoza chiama questo fenomeno admiratio (ammirazione o stupore). Si tratta di una «immaginazione singolare» che «non ha alcuna connessione con le altre», e nella quale per questa ragione «la mente resta ammaliata»: lo stupore si produce dunque ogni qual volta si presenti una nuova sensazione, che non si collega a nulla. 142 Lasciamo il caso un po’ particolare del cavallo alato e rivolgiamoci a questo testo sorprendente: Ma per dimostrare che tale inclinazione [il desiderio] non avviene in modo libero, immagineremo (per rappresentarci con una certa vivacità che cosa sia passare da una cosa all’altra ed essere attratti) un bambino che per la prima volta giunge a percepire una certa cosa. Ad esempio, gli presento una campanella, la quale, producendo nelle sue orecchie un suono piacevole, suscita in lui appetito. Vedete, ora, se egli possa smettere di provare tale appetito o desiderio. […] Che cosa può infine distogliere [quel bambino] dall’appetito? Null’altro, per la verità, se non che egli, secondo l’ordine o il corso della natura, venga affetto da qualche cosa che per lui è più piacevole della prima. (KV, II, 17, § 4)

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Ep, 35. Ep, 68. Eth, III, 2 sch. Eth, III, def.aff.4 e spieg.

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Si tratta senz’alcun dubbio di una finzione, di un esperimento mentale: la prima percezione di un bambino. Il lettore può credere per un istante che si tratti della prima percezione di un sonaglio, ma Spinoza precisa qualche riga sotto che «questo è tutto ciò che egli conosce». In un certo senso, peraltro, poco importa: alla fascinazione del sonaglio ne seguirà un’altra per un oggetto altrettanto nuovo, che a sua volta avrà il valore di prima percezione. Il neonato ignorando ogni cosa, va di fascinazione in fascinazione, la mente ogni volta risucchiata da singolarità isolate. Senza dubbio queste affezioni lasciano delle tracce nel cervello,143 ma senza la minima concatenazione tanto che il lattante non ha memoria. Senza dubbio bisogna che la mente si abitui agli oggetti per poterli considerare insieme e di conseguenza associarli: se il bambino dello scolio II, 44 dell’Etica avesse visto il sole per la prima volta, non avrebbe prestato attenzione a Pietro, a Simeone, ecc. E se avesse visto un uomo per la prima volta, non avrebbe prestato attenzione al sole. La digressione sulla memoria del Trattato sull’emendazione dell’intelletto conferma questa analisi? In apparenza no: la memoria è rafforzata più facilmente se «affetta da una qualche cosa singolare». Ma cosa vuol dire Spinoza? Egli evoca una situazione di confusione: se avete letto una sola commedia che racconta una storia d’amore, ne conserverete un ricordo più distinto che se voi ne aveste lette un gran numero, tendendo a confonderle. Ma soprattutto egli evoca il criterio del «conoscibile» o del senso: «se presento a qualcuno un gran numero di parole disordinate, le riterrà molto più difficilmente che se presentassi le stesse parole nella forma di una narrazione».144 In un certo modo, qui la memoria presuppone se stessa: non solo perché è la condizione del linguaggio, ma perché consiste in un legame. La narrazione è una concatenazione: la sua memorizzazione è più facile in quanto le sue differenti parti vi si presentano associate le une alle altre, seguendo una progressione drammatica. Ma l’esperienza percettiva del lattante è molto prossima alla situazione di colui al quale vien proposto «un gran numero di parole disordinate»: non ha alcun modo per memorizzarle.

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Sebbene Spinoza nell’Etica paia esitare tra la necessità che una affezione si produca «spesso» affinché lasci una traccia (Eth,II, 13, post.5) e la semplice condizione che si produca «una volta» (Eth, II, XVII cor.) 144 TIE, § 81.

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Poniamo, dunque,145 che l’attività mentale del lattante sia senza memoria: ne deriva che l’amnesia infantile, l’assenza di ricordi dei nostri primi anni si spiega piuttosto che con una trasformazione, con il fatto che la memoria si forma solo in seguito. Il lattante è incapace di legare le sue idee d’affezione, egli le ritiene isolatamente, ed esse possono riemergere solo grazie ad un qualche movimento spontaneo, oppure patologico, del corpo. Il vissuto originario non è stato dimenticato, né è stato fissato, piuttosto è stato oggetto di una ritenzione senza memoria. Ma non è che un primo periodo. In seguito subentra la formazione automatica della memoria che non mette certo fine allo stato di quasi incoscienza di sé che per Spinoza caratterizza la prima infanzia.146 Soffermiamoci su questo stato d’incoscienza di sé: ci sembra che rinvii a tre caratteristiche dell’infanzia. 1) Un regime di successione discontinua delle percezioni, che l’acquisizione della memoria non fa che complicare. La mente del bambino è catturata dalla percezione presente, che il gioco variabile delle sollecitazioni esterne e delle associazioni involontarie non cessa di rimpiazzare con un’altra. Egli passa così, senza rendersene conto, di palo in frasca, poiché l’idea nuova ha cancellato completamente la vecchia. Come osserverà Fenelon: «il bambino vi fa una domanda e prima che voi rispondiate, i suoi occhi si levano verso il soffitto, conta tutte le figure che vi sono dipinte, e tutti i pezzi di vetro che sono alle finestre, e se voi lo volete ricondurre al suo primo oggetto, si sente molestato come se lo teneste in prigione».147 2) Il bambino, fino ad una certa età, è incapace di esperienza vaga, non trae alcuna lezione dall’esperienza; così egli è «inutile a se stesso», incosciente del pericolo, come si dice correntemente. Nessuna forma di educazione sembra aver presa su di lui: la spiegazione è

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Descartes aveva già sviluppato una dottrina molto interessante della fissazione inconsapevole; ma egli la spiegava attraverso la necessità, perché si formi un ricordo, di associare un concetto ad ogni percezione di un nuovo oggetto e attraverso l’inettitudine del bambino a tale riguardo. È perciò – diceva – che conserviamo in noi le vestigia di sensazioni confuse della vita intra-uterina, che ci affettano ma che non identifichiamo come ricordi. Cfr. lettera del 4 giugno (o del 16 luglio) ad Arnauld, in R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, op. cit., pp. 2555-2556; lettera del 29 luglio 1648 allo stesso Arnauld, già citata alla nota n°88 di questo studio. 146 Eth, V, 6 sch. e Eth, V, 39 sch. 147 Fénelon, Traité de l’éducation des jeunes filles in Fenelon, Œuvres, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1983-1997, t.1, cap. V, p.104.

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vana e la minaccia senza peso. L’istanza di fondo dell’educazione dissuasiva è il principio di scegliere il minore dei mali – «legge della natura umana universale »148 e diretta espressione del conatus – in virtù del quale un individuo è capace di rinuncia. Ma il bambino, almeno fino ad una certa età, non è ancora retto da tale principio:149 catturato del tutto dalla sua impressione presente, egli soffre la punizione senza d’altra parte identificarla come tale (perché ciò implicherebbe un legame causale), ma non la teme. Donde la perplessità di Spinoza a cui accade di accostare i bambini ai folli e ai suicidi.150 3) Infine, il bambino è incosciente dei suoi stati di passione e incapace di padroneggiarli, che si tratti della compulsione a parlare o di un’eccitazione che lo rende intrattabile. Di questi tre punti, il primo concerne solo il lattante, il secondo concerne la prima infanzia e qualche adulto (ad esempio i criminali cui la prospettiva del supplizio non suscita alcuna paura), il terzo è il modello dell’abituale condotta umana; ecco perché infans e puer iniziano la lista dei grandi sonnambuli, tanto nella lettera 58 a Schuller che nello scolio III, 2 dell’Etica.

2. In che senso il corpo del bambino è «come in equilibrio»? Il terzo punto merita che vi si dedichi attenzione, in quanto rinvia a un testo importante di cui non sempre si è data un’interpretazione chiara. Spinoza ha appena svolto la sua dottrina dell’«imitazione degli affetti»: Se vogliamo infine consultare l’esperienza stessa, constateremo che essa insegna tutte queste cose, specialmente se faremo attenzione ai primi anni della nostra vita. Sperimentiamo infatti che i bambini, essendo il loro corpo come in continuo equilibrio (continuo veluti in aequilibrio), ridono e piangono solamente perché vedono altri ridere o piangere; e qualunque cosa vedono fare agli altri desiderano subito imitarla e desiderano infine per sé tutto ciò da cui immaginano che gli altri traggano diletto […]. (Eth, III, 32 sch.)

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TTP, XVI [6]. I bambini ai quali gli Ebrei puerili assomigliano, occorre pensarli più grandi. Eth, II, 49 sch.

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Spinoza qui si appella all’esperienza, non al ricordo,151 per descrivere un comportamento di totale estroversione. I bambini, per lo meno quelli molto piccoli, non hanno ancora un carattere differenziato, non sono definibili come intrepidi o come audaci o come timidi secondo i termini che gli uomini abitualmente usano per compararsi gli uni agli altri152 (e che non possono a volte impedirsi di applicare indebitamente ai bambini piccoli). Se gli uomini hanno in una certa misura, delle buone ragioni per farlo, è perché si differenziano effettivamente per ingenium, complessione, temperamento, carattere naturale.153 L’ingenium è il prodotto di un certo «temperamento del corpo» e di una sedimentazione dell’esperienza nel corpo e nella mente. In tal senso, Spinoza può parlare di ingenium a proposito di un adolescente come Casearius,154 ciò che sarebbe invece imprudente per i piccoli Van der Spyck: senza dubbio i bambini molto piccoli lasciano già intravedere un abbozzo d’ingenium, dato che, passata la prima fase di puro stupore, cominciano a sperimentare; ma possiamo comunque supporre che occorra l’intera infanzia per creare tale forma di destino, e che certi traumi sono in grado di modificarla brutalmente. Comunque sia, l’«equilibrio» evocato significa chiaramente che l’affettività infantile è

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Contrariamente a ciò che suppone Macherey: «In questo passaggio dell’Etica, Spinoza sembra ricordarsi di sfuggita il bambino che lui stesso è stato» (P. Macherey, op. cit., vol.III, p.257, n.2). Spinoza, come abbiamo visto, non concepisce altro rapporto con l’infanzia se non esterno, per mezzo dell’osservazione altrui. Egli chiama ciò «esperienza vaga», e qui è proprio il termine «esperienza» che viene utilizzato. Teniamo presente che Spinoza negli ultimi anni della sua vita fu inquilino dei Van der Spyck che avevano quattro bambini e che i bambini olandesi erano, in generale, molto visibili, ammessi a giocare nelle pubbliche piazze e sul sagrato delle chiese, con grande stupore degli stranieri di passaggio (P. Zumthor, op.cit, p.119; S. Schama, op. cit., p.668). Colerus (in J. Colerus, J. – M. Lucas, Le vite di Spinoza, op. cit., p.77) afferma che egli parlava ai piccoli Van der Spyck, «esortava i ragazzi della casa alla sottomissione e all’obbedienza verso i genitori e alla frequentazione del servizio divino». Dobbiamo accogliere questa testimonianza con circospezione, da un lato collocandola nel suo contesto di idealizzazione (Colerus condanna la dottrina ma insiste sulla virtù irreprensibile di Spinoza), d’altra parte ponendola in rapporto con la complessa problematica dei rapporti genitori/figli che analizzeremo più avanti. 152 Eth, III, 51. 153 Sulla nozione di ingenium cfr. l’analisi di P.- F. Moreau, Spinoza. L’experience et l’éternité, Paris, P.U.F., 1994, pp.395-404. 154 Ep, 30.

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ancora priva di habitus, sebbene la mente oscilli tra tristezza e gioia senza mai stabilmente soggiornarvi e senza riconoscersi nell’una o nell’altra. Non c’è melanconia infantile ed è questo il motivo di una rilevante differenza all’interno dell’impotenza tra il bambino in divenire e il suicida in preda alla disperazione. Allo stesso modo, il bambino non ha desideri ossessivi: il suo desiderio è versatile, sottomesso alla legge della determinazione esterna o dell’automatismo sonnambulico. Il rovescio si tale situazione è molto evidente, come sottolinea Pierre Macherey: l’estrema facilità con cui le influenze esterne modellano la sua memoria, che ad esse non oppone alcuna configurazione prestabilita. 155 L’equilibrio in qualche modo si condanna da solo, a più o meno breve scadenza. La scelta della parola «equilibrio», che risuona in modo molto favorevole, può stupire, e noi dobbiamo dunque assicurarci del suo significato. Se l’infanzia è un’età fondamentalmente morbosa, a metà via tra cadavere e mens sana in corpore sano (salute e libertà insieme), l’equilibrio è, per contro, fin dall’Antichità il criterio per eccellenza della salute. Tale eredità perdura in Spinoza, nella sua rivendicazione di una ugual cura di tutte le parti del corpo. Questo è ciò che giustifica un’interpretazione originale e stimolante di Laurent Bove, in una sezione intitolata «La passione gioiosa del neonato»:156 egli, dal carattere poco esigente dei desideri del bambino di tenera età, e dalla facilità di soddisfarli, fa dipendere il frequente stato d’hilaritas infantile, o «allegria», estremamente raro e difficile da ottenere in un adulto. Ricordiamo che l’allegria è per Spinoza l’esatto opposto della melanconia: una gioia affettante tutte le parti del corpo in modo uguale.157 Laurent Bove avvicina dunque il quasi equilibrio del corpo del bambino all’omogeneità ilare del lattante satollo. Se tale stato è così difficile da raggiungere per l’adulto è perché dipende interamente da cause esterne e perché le attitudini del corpo, divenute così diverse, hanno ognuna una propria richiesta; tali condizioni sono difficili da combinare. In compenso, possiamo pensare che il lattante, considerato lo stato di dipendenza utile in cui si trova, distinta – come abbiamo detto – dalla schiavitù e all’infimo grado di potenza al quale corrisponde un bisogno elementare, acceda a questa forma di felicità passiva. Ne consegue un giudizio d’insieme, dopo aver ricordato il ruolo di modello epistemologico giocato

155 156 157

P. Macherey, op. cit., vol. 3, p.258. L. Bove, La strategia del conatus., op. cit., pp. 122-126. Eth, III, 11 sch.

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dalla figura del bambino nella descrizione della condotta passionale dell’adulto: «In Spinoza, tuttavia, c’è anche una percezione positiva dell’infanzia, compresa nella sua prospettiva etica».158 Non possiamo che sottoscrivere questo giudizio, ma per altre ragioni rispetto a quelle di Laurent Bove, le quali ci suggeriscono quattro riserve: 1) il problema dell’hilaritas dell’adulto ci pare rinvii a quello della libido e del godimento sessuale descritto nei termini di «quiete» illusoria;159 e se Spinoza condanna quest’ultimo è perché sottrae completamente l’individuo a quello che dovrebbe essere il suo più grande desiderio adulto, la felicitas intellettuale; egli lo sostituisce con una lista di pratiche successive, nella quale la sessualità brilla per la propria assenza, cosicché l’improbabile hilaritas può e deve essere rimpiazzata da un’abile combinazione di titillationes locali e varie, una cura alternata e periodica di tutte le parti del corpo.160 2) Laurent Bove scrive che c’è nel neonato «una soddisfazione e un gaudio proprio della sua natura, ossia del suo rapporto singolare di movimento e quiete, condizione della sua pienezza»:161 abbiamo prima esposto le ragioni della nostra opposizione a una essenzializzazione del corpo del bambino, che d’altronde l’autore associa ad una essenzializzazione forse un po’ affrettata degli ingenia, dato che un certo rapporto di quiete e movimento impedisce, secondo lui, l’hilaritas, mentre un altro rapporto vota l’individuo a una sorta di disequilibrio gioioso (titillatio).162 3) Quindi, egli interpreta l’equilibrio continuo del corpo (astrazione fatta del veluti che sfuma l’espressione) come già partecipe in un certo modo alla «gioia della beatitudine»163 esposta nella V parte dell’Etica, cosa che pare incompatibile con le condizioni a tal proposito esplicitate da Spinoza: che il corpo dell’infanzia si muti in un altro molto più adatto e che l’intelletto giunga ad occupare gran parte della mente.164 4) Infine, se l’ipotesi di una certa attitudine del lattante all’hilaritas pare plausibile, essa non pare poter essere inferita dalla nota sul quasi

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L. Bove, op. cit., p.119. TIE, § 4. 160 Eth, IV, 45 sch. 161 L. Bove, op. cit., p.125. 162 Senza dubbio egli qui pensa all’opposizione del profeta ilare e del profeta triste in TTP, II, [7]. 163 L. Bove, op. cit., p.126. 164 Eth, V, 39 sch. 159

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equilibrio continuo del corpo, che concerne il puer, supposto capace di desideri e di affetti già molto diversificati. Queste obiezioni conducono a due osservazioni, l’una sul senso della parola «equilibrio», l’altra sul rapporto tra infanzia e beatitudine. In primo luogo, l’equilibrio può senza dubbio intendersi nel senso medico del termine, entro la dottrina tradizionale degli umori, ma solo in relazione agli stati di relativo disequilibrio che differenziano i temperamenti (secondo l’umore che prevale sugli altri: bilioso, collerico, flemmatico, sanguigno). Questo si congiunge all’idea che il bambino non ha ancora ingenium.165 In compenso, egli non può opporsi qui allo squilibrio morboso, dato che l’infanzia è proprio questo stato morboso in cui la conservazione del rapporto di quiete e di movimento non è mai assicurato (per esempio, i lattanti olandesi da una parte beneficiano della protezione e della sazietà che procura loro il seno materno, dall’altra sono esposti, nonostante le misure di tutela prese, ai miasmi di una atmosfera particolarmente viziata). In secondo luogo, se è certo che il quasi equilibrio del corpo, in un testo consacrato all’oscillazione mentale, rinvia ad un regime di determinazione della mente puramente esterna, sembra importante insistere qui sulla differenza tra bambino e adulto: il primo non ha passione morbosa che possa innalzare un ostacolo insormontabile allo sviluppo delle sue facoltà mentali. Per due ragioni egli non è esposto al dilemma di Medea secondo Ovidio, ossia vedere il meglio e approvarlo ma fare il peggio: da una parte, il bambino piccolo non ha ancora acquisito la struttura razionale di base della scelta del male minore, e d’altronde egli non è ancora capace di comparare due cose; d’altra parte, non essendo ancora combattuto tra

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Pierre-François Moreau sottolinea lo scivolamento della teoria medica tradizionale verso la nuova concezione dell’individualità biologica, laddove pone in relazione l’ingenium spinoziano con la concezione dell’ingenio di Huarte: «In quest’ultimo, la nozione di ingenio interviene per spiegare perché, laddove le anime sono tutte uguali, gli individui e le nazioni hanno delle capacità talmente diverse, sia rispetto al sapere sia rispetto le attività pratiche. La diversità di ingenios si ancora a sua volta in quella della disposizione del corpo – ossia dei modi irriducibili in cui la Natura ha, per ogni singolo individuo, applicato le sue proprie leggi. Ciò che, secondo Huarte, rinvia alla mescolanza dei quattro umori, in Spinoza rinvia a una equazione in termini di quiete e movimento. Ma, nei due casi, si tratta proprio di porre un concetto che circoscriva la diversità degli individui e pensarla in relazione con la loro determinazione corporale». (P.- F. Moreau, op. cit., pp. 397-398). L’espressione Temperamentum corporis (TTP, II [8]) costituisce la transizione tra la concezione umorale e la concezione meccanicista.

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passioni violente, durevolmente inscritte in lui, egli non resiste alla diversione (ci ritorneremo). L’ideale sarebbe in fondo di crescere come Cristo, andando dritto alla saggezza, dall’equilibrio infantile all’attività, senza la deviazione delle passioni; un’educazione riuscita, che renderebbe vana l’etica. O piuttosto l’etica, come educazione alla vita governata dalla ragione,166non sarebbe più separabile dall’educazione, nel senso corrente del termine – in quanto, come sottolinea lo scolio V, 39, deporre il corpo dell’infanzia e la mente che ad esso corrisponde, è l’impresa della vita in generale. 167 Prima infanzia senza memoria, seconda infanzia dove la memoria si forma: resta un terzo stato della memoria, quello dell’adulto nel vero senso del termine, tale quale è descritto nella V parte dell’Etica: solo gli uomini puerili coltivano la memoria e vivono nel rimpianto; divenire libero e attivo, in una parola divenire adulto, è cambiare il corpo dell’infanzia in un altro ben più adatto che corrisponde ad una mente «tale che tutto ciò che si riferisce alla sua memoria o immaginazione sia difficilmente di qualche importanza rispetto all’intelletto».168 Qui ancora, se vale da modello, il Cristo è il senza-memoria, lo splendido Amnesico: egli conosce le cose attraverso il terzo genere, intuitivamente.169 Almeno egli si avvicina a questo stato di completa amnesia (non di oblio, bensì di assenza di memoria) – in quanto rendendolo un uomo perfetto, un primo uomo, un adulto compiuto, si ricadrebbe nella chimera dell’infans adultus, quella che all’occorrenza fa di Cristo l’incarnazione di Dio (tutti i Vangeli, tranne quello di Luca, passano senza transizione dal neonato all’adulto pronto per il battesimo). E dato che il corpo conserva una memoria che occupa almeno un minimo di attività mentale, ciò vorrebbe dire nello stesso tempo disincarnarlo.

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Eth, IV, app., cap.9. Forse la meditazione di Spinoza è in effetti tormentata dall’immagine dell’infanzia di Cristo. L’evangelista Luca parla della crescita di Cristo in termini simili a quelli di Eth, V, 39 sch. dato che essa vi appare solidale allo sviluppo intellettuale: «E il bambino cresceva e si fortificava, era pieno di sapienza […]» e soprattutto: «Gesù cresceva in sapienza e in statura» (Vangelo secondo Luca, 2,40 e 2,52 in Il Nuovo Testamento). La «fuga» di Gesù a dodici anni per andare a discutere al Tempio con i teologi non può che evocare una precocità analoga a quella di Spinoza, considerato l’inizio della Vita di Spinoza di Lucas in J. Colerus, J. – M. Lucas, Le vite di Spinoza, op. cit., pp.32-33. 168 Eth, 39 sch. 169 TTP, IV [10]. 167

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Far sì che la memoria non occupi che una parte trascurabile della mente non significa dimenticare: un’amnesia radicale presuppone in effetti una trasformazione, un cambiamento di forma o di essenza individuale. E tuttavia si tratta proprio di una forma di oblio, ma che procede altrimenti – per riorganizzazione. Divenir-adulti vuol dire intervenire sulla propria memoria per rimodellarne quanto è possibile le concatenazioni in modo che le sensazioni conservate si concatenino o si riattivino, secondo un ordine «conforme» all’intelletto.170 Se è vero che la memoria consiste non nella ritenzione di semplici unità ideali, ma nel meccanismo associativo che ne fa altrettanti stimuli le une per le altre, allora c’è pur ben una dimensione di oblio nell’impresa etica. Amnesico, l’uomo libero, ragionevole, attivo e adulto lo è tendenzialmente due volte: all’inizio in quanto egli si forgia una nuova memoria che non è più quella della sua infanzia, in seguito in quanto l’ «automa spirituale», la mente che concatena le sue idee sub specie aeternitatis, accede alla sinossi che produce la dimostrazione come al di là di ogni memoria. E senza dubbio bisogna distinguere due, forse tre tipi d’adulto: 1) una specie molto rara, quella dei saggi, che abbandonano la loro memoria da bambini e si forgiano una memoria e un’immaginazione razionale, mutando le loro passioni in azioni; 2) una specie frequente, quella degli ignoranti pii o civili, che lasciano orientare la propria memoria dalla religione e dallo Stato secondo il senso dell’obbedienza; 3) una specie relativamente rara, quella degli ignoranti refrattari ad ogni apprendimento, comunque inadatti all’obbedienza, che si attengono alla loro memoria da bambini, e per i quali altro non resta che soffrire le pene dell’inferno. Tre tappe, dunque, del divenir-adulto del bambino, tre modi anche di esser adulto. Per attenerci al percorso descritto in Eth, V, 39 sch.: in prima istanza il neonato non ha memoria e di conseguenza l’individuo, nelle successive età, non conserva alcun ricordo di quel periodo; in seguito il bambino subisce passivamente la formazione di una memoria, secondo gli incontri e l’educazione; infine, venuto al termine della sua maturazione fisica, egli può proseguire il suo sviluppo riformando attivamente la sua memoria, cosa che implica una seconda rottura con l’infanzia. È possibile prevedere che si pongano due questioni, che forse sono una sola: la questione dell’adolescenza, ossia dell’età in cui l’intelletto

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Eth, V,10.

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emerge, in un rapporto forse per forza conflittuale con la memoria forgiata durante l’infanzia; la questione dell’educazione, ovvero della possibilità di sfuggire il più possibile alle comuni derive passionali del periodo intermedio, andando se possibile di continuo, dalla prima memoria alla seconda.

3. L’adolescenza: età di ragione o ultimo avatar dell’infans adultus? Se si crede a Lucas,171 la riflessione critica sulle Sacre Scritture – dunque sul contenuto stesso dell’educazione ricevuta – che doveva confluire nel Trattato teologico-politico sarebbe iniziata ben presto nella vita di Spinoza: dagli anni dell’adolescenza. In altri termini, durante gli anni critici in cui si compie il processo di mutazione del corpo del bambino e in cui emerge una mente adatta alla conoscenza – quelli evocati in Eth, V, 39 sch. Tali anni si può a ragione chiamarli critici, dato che la maggior parte delle menti così maturate, al contrario del giovane Baruch, si lasciano nondimeno assorbire per sempre nel sogno ad occhi aperti della memoria, come se la giovanile scoperta del potere della ragione non avesse prodotto nulla. Diviene ancor più importante soffermarsi sulle riflessioni di Spinoza a proposito dell’adolescenza: Ma per questo [perché gli uomini stringano amicizia tra loro] si richiede abilità e vigilanza. Gli uomini sono infatti mutevoli (rari sono quelli che vivono secondo il precetto della ragione), e tuttavia per lo più invidiosi e maggiormente inclini alla vendetta che alla misericordia. Si richiede dunque una singolare potenza d’animo per sopportare ognuno secondo la sua indole (ingenium) e trattenersi dall’imitarne gli affetti. Ma quelli che, più che insegnare la virtù, sanno censurare gli uomini e biasimare i vizi, e più che rafforzarli sanno spezzare gli animi degli uomini (non firmare, sed frangere), sono molesti e a se stessi e a gli altri. Onde molti, per l’eccessiva impazienza dell’animo e un falso amore per la religione, hanno preferito vivere tra i bruti piuttosto che tra gli uomini; come i fanciulli o gli adolescenti (pueri vel adolescentes), che non potendo sopportare serenamente (æquo animo) i rimproveri dei genitori, si rifugiano nell’esercito e preferiscono i disagi della guerra e il dominio della tirannide ai vantaggi della casa e alle ammonizioni paterne, lasciandosi imporre qualunque peso pur di vendicarsi dei genitori. (Eth, IV, app. cap. XIII)

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J. Colerus, J. –M. Lucas, Le vite di Spinoza, op. cit., pp. 32-33.

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Questo testo si collega con Eth, III, 32 sch.: non è più sottolineata la comune provenienza della pietà e dell’invidia, ma l’inclinazione pronunciata e quasi unanime in favore della seconda, il problema non è più quello d’illustrare con l’esempio dei bambini il processo universale dell’imitazione affettiva, ma di saper come sfuggirvi; infine, là dove Spinoza evocava un quasi equilibrio del corpo, qui parla di uno squilibrio della mente (incapacità di sopportare aequo animo). Il bambino è cresciuto ed è ora «fanciullo o adolescente», ed egli pratica la scelta del male minore (benché in modo aberrante e quasi suicida). Il desiderio non è più versatile, è polarizzato sulla vendetta. Si direbbe, senza tema di esagerare, che in pochi anni si è passati dal latte alla vendetta, dal desiderio gioiosamente primitivo e sano di rigenerazione al desiderio triste e crepuscolare di fare del male agli altri e a sé.172 E paradossalmente, l’indocilità conduce ad una estrema docilità, sottomissione alla disciplina tirannica dell’esercito, qui paragonata alla vita in mezzo alle bestie. Questo testo può prestarsi a controsensi: «sopportare ognuno secondo la sua indole» prosegue con «i fanciulli e gli adolescenti che non potendo sopportare serenamente i rimproveri dei genitori». Tra le due espressioni scivola una osservazione su ciò che la critica morale ha di negativo per sé e per gli altri, derivandone sia il destino dell’eremita (ma animato da un falso zelo religioso) sia il destino del soldato (ma dettato da una preoccupazione di vendetta). Spinoza dunque, inchioda ognuno alle proprie responsabilità, rispettivamente genitori e figli, predicatori ed eremiti. Ed ecco l’esposizione del problema: come sopportare, una volta giunta l’adolescenza, ciò che gli altri hanno di dannoso, come evitare di imitarli? Si ammirerà la forza aforistica del testo, l’attitudine tipicamente spinoziana alla scrittura densa, tesa, falsamente goffa, che non rivela subito il proprio senso. Spinoza non indica il legame tra le due questioni: spetta al lettore decifrarlo con tutto il rigore necessario, mentre fluttuano nella sua mente, fuggitivamente indiscernibili, le posizioni dell’educatore e dell’educato (chi condanna l’altro? chi fa la morale?). L’adolescente non vuole più imitare, ossia cerca di diventare adulto: ma è proprio l’obbedienza che vuole fuggire? E non piuttosto un am-

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Ricordiamo che Eth III, 2 sch. e la lettera 74 a Schuller evocano entrambi, insieme al desiderio di bere dell’ubriaco e al desiderio di parlare del chiacchierone anche il desiderio di latte dell’infans e il desiderio di vendetta del puer, come se si trattasse di due tipi.

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biente affettivo da cui si sente oppresso e di cui rifiuta, percependone la puerilità, la volgarità? Un passaggio del Breve trattato ricorda che i bambini inizialmente credono spontaneamente a ciò che dice il padre, non avendo conoscenza che per sentito dire.173 Precisamente, è nel momento in cui l’individuo entra nel pieno possesso dei suoi mezzi corporei e mentali che egli sente crescere in lui attraverso esperienze effimere, la possibilità di un utilizzo attivo della mente: la presa del sentito dire comincia ad allentarsi. È allora che l’impazienza ha la tendenza a prevalere e a viziare il processo: l’adolescente si separa dagli uomini piuttosto che guadagnare la propria indipendenza tra di loro e, per certi versi, contro di loro. L’equilibrio innocente del puer ha ceduto il passo al disequilibrio dell’adolescente, che ha buone probabilità di prolungarsi fino alla morte. «Rari sono in effetti coloro che vivono secondo i precetti della ragione»: questo tema lo ritroveremo in tutte le ultime righe dell’Etica, poco dopo l’evocazione della crescita del lattante posta in coincidenza con l’impresa etica, in un ultimo scolio che riprenderà propriamente i termini utilizzati per qualificare il lattante («quasi inconsapevole di sé, di Dio e delle cose»,174) al fine – questa volta – di applicarli all’ignorante in generale, adulto puerile. Confondere vendetta e libertà, è certo la tragedia dell’adolescenza, che vota gli uomini ad un’esistenza triste, «puerile». Non ci si stupirà se sia anche la tragedia della rivoluzione, dato che il rapporto città-infanzia disegna i contorni di un problema comune. Da rilevare anche in questo testo è la critica agli educatori, che fa eco al programma del Trattato sull’emendazione dell’intelletto: «inoltre si deve por mano a una filosofia morale, così come ad una dottrina relativa all’educazione dei fanciulli».175 La morte precoce di Spinoza invita ad una fantasticheria (sebbene questa morte, legata probabilmente a uno stato generale di esaurimento dovuto alla tisi, non sia del tutto accidentale e sebbene la morte dei tisici abbia un certo carattere di compimento): che cosa avrebbe fatto, dopo aver terminato il Trattato politico, se per lo meno la sua intenzione era tale? Sappiamo che aveva intrapreso una traduzione di alcuni libri dell’Antico testamento. Ma poi? Se per «filosofia morale» bisogna intendere le ultime tre parti

173 «Questo [l’amore che sorge dal solo sentito dire] lo osserviamo comunemente nei figli rispetto al loro padre: i quali, poiché il padre dice che questo o quello è buono, sono a ciò inclini senza saperne niente di più». (KV, II,3,§ 5) 174 Eth, V, 42 sch. 175 TIE, § 15.

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dell’Etica, niente ci permette di escludere che egli stesso abbia progettato di elaborare tale dottrina dell’educazione. Si avrebbe torto a considerarla come una dottrina speciale: tenuto conto di Eth, V, 39 sch. dove lo sviluppo della ragione si re-inscrive entro un processo più ampio di una vita umana riuscita che conduce dalla condizione neonatale a quella del saggio, essa non sarebbe stata nulla di diverso che una riscrittura dell’Etica per il suo destinatario inconsapevole o il suo paziente di diritto – il bambino. Del resto «in nessuna cosa ciascuno può mostrare maggiormente quanto valga in abilità e ingegno che nell’educare gli uomini a vivere sotto il sicuro comando della ragione».176 Che cosa rimprovera Spinoza agli educatori del suo tempo? Non firmare sed frangere: di spezzare lo spirito dei giovani in luogo di rafforzarlo. E di conseguenza – poiché lo unde del testo citato rinvia tanto al carattere insopportabile dei loro sermoni quanto all’incapacità di sopportazione da essi incrementata – di renderli impazienti, di farne letteralmente degli squilibrati e, per finire, di precipitarli in un’esistenza inautentica dove la loro esigenza d’assoluto è compromessa in anticipo dallo spirito di vendetta che si è impadronito di loro. Non l’ipocrisia dei falsi devoti e dei pastori, ma l’incosciente sincerità di un’anima che si vorrebbe pia, anche se la sua energia si alimenta d’odio; oppure un tal ardore combattivo che va a esaurire le sue forze nella vendetta, una capacità d’obbedienza che non ha niente di civile. Insomma, l’educazione dei pastori e dei rabbini e delle famiglie che li riveriscono e a loro si ispirano non lascia altra scelta che tra l’obbedienza servile e la rivolta già inasprita. Il Trattato teologico-politico insisterà su tale vicolo cieco: Non vogliamo tuttavia accusare d’empietà questi settari, perché adattano le parole della Scrittura alle loro opinioni […] Li accusiamo invece di non voler concedere questa stessa libertà agli altri, ma di perseguitare come nemici di Dio tutti quelli che non sentono come loro, benché onestissimi e ottemperanti alla vera virtù, e di prediligere come eletti da Dio quanti li ossequiano, benché d’animo impotentissimo. Il che è la cosa più scellerata e nociva che si possa escogitare per rovinare uno Stato. (TTP, XIV [1])

Ecco dunque due follie, due fallimenti del vivere sociale: «vivere tra le bestie», «preferire i disagi della guerra e il dominio della tirannide». Tanto è vero che l’enigmatica quasi-trasformazione individuale, che da

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Eth, IV, app. cap.IX.

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bambini deve farci divenire adulti, si articola al problema politico (divenire cittadino)177 e alla sua propria crisi, il tentativo di trasformazioContent accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 30/08/2018

ne rivoluzionaria. E come per la rivoluzione, l’attitudine sediziosa degli adolescenti è allo stesso tempo disapprovata che scusata: la colpa che là era dei tiranni, qui ricade sui genitori. Due altri testi dell’Etica confermano questa critica all’educazione tradizionale. Uno denuncia il pentimento, tipica istanza di ogni educazione morale di tipo cristiano, mostrando che non ha altro fondamento che delle associazioni affettive prodotte attraverso l’educazione e variabili secondo il costume e la religione: I genitori, infatti, biasimando i primi [gli atti chiamati cattivi] e rimproverando spesso i figli a causa di essi e, viceversa, raccomandando e lodando i secondi [gli atti che si dicono retti] hanno fatto sì che a quelli si unissero emozioni di tristezza e a questi di gioia. […] Dunque, a seconda di come ciascuno è stato educato, si pente di ciò che ha fatto oppure se ne gloria. (Eth, III, def. aff. XXVII, spieg.)

Il pentimento non è la rivelazione di una verità, ma il servile esercizio di una memoria che invade la mente e ne testimonia la docilità; il pentito non prende coscienza di niente, non fa che obbedire alle parole d’ordine della sua comunità. L’altro testo viene direttamente a sostegno della lettura qui proposta. Esso accusa l’educazione di incoraggiare la parte vendicativa della natura umana: «È chiaro dunque che gli uomini sono per natura inclini all’odio e all’invidia, alla quale inclinazione si aggiunge l’educazione. Infatti, i genitori sono soliti incitare i figli alla virtù soltanto con lo stimolo dell’onore e dell’invidia stessa».178

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«Gli uomini non nascono civili, ma lo diventano». (TP, V [2]) Eth, III, 55 sch.

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4. Che cos’è una pedagogia spinozista?179 Non firmare, sed frangere. Il voto del calvinismo rigorista – frantumare la volontà del bambino, del resto giudicata peccaminosa – non fu mai, sembra, di grande successo in Olanda, dove si prestava un’attenzione inedita e particolarmente indulgente ai bambini.180 Spinoza comunque, doveva averne abbastanza per giungere a tale digressione (così come lo scolio sui piaceri della vita).181 Un testo del medico Van Beverwijck dà un’idea dello stato della questione nell’Olanda del XVII° secolo: «In tutto ciò che è educazione e istruzione, non bisogna affatto tener la briglia troppo stretta ai bambini, ma lasciarli andare al loro infantilismo al fine di non schiacciare con fardelli troppo pesanti la loro fragile natura, né seminare di grani intempestivi il campo non ancora pronto del loro intelletto. Lasciateli dunque giocare a modo loro e lasciate che la scuola li maturi attraverso il gioco […] senza cui si ribellerebbero allo studio ancor prima di sapere cosa sia».182 Da parte sua, Christian Huygens, che fu per un certo periodo assai vicino a Spinoza, militava per una forma di apprendimento ludico.183 Quali sareb-

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Il vecchio articolo pubblicato nel 1933, di Adolfo Ravà, La pedagogia di Spinoza (in Septimana spinoziana, La Haye, Nijhoff, 1933, pp.195-207), è di una banalità penosa, anche se promette per cominciare «delle idee pedagogiche precise», insiste sul ruolo «molto elevato» della pedagogia in Spinoza, e congettura che una vita più lunga ne avrebbe permesso lo «sviluppo adeguato» (p.195). Egli intende soprattutto mettere in relazione lo spinozismo con due correnti di pensiero, con lo stoicismo, ma anche con Fichte e con Comte, per i quali la filosofia non è solo un’attività teoretica, ma una «arte del vivere», e che quindi «implica la tendenza al proselitismo» (p.199). Le parti III e IV dell’ Etica gli appaiono come una «grandiosa pedagogia sociale, fondata sulla psicologia» (p.197), ecc. Per il resto, è una raccolta di aneddoti biografici sull’insegnamento, che il lettore può trovare anche in K. O. Meinsma, Spinoza et son cercle, (Paris, Vrin, 1983) e l’abbozzo di un programma scolastico che non presenta nulla di sorprendente: importanza della matematica, della meditazione degli storici romani, ecc. Non è mai posta la questione del rapporto di Spinoza coi bambini. La sola nota interessante concerne il Compendio di grammatica ebraica: «Spinoza fu, se non erriamo, il primo ad intuire il principio della moderna glottologia delle fissità delle leggi fonetiche». (p.294). E Ravà vi vede un approccio linguistico di spirito galileiano, desideroso di eliminare le eccezioni e di far luce sulle regolarità della lingua. 180 S. Schama, op. cit., p.736. 181 Eth, IV, 45 sch. 182 S. Schama, op. cit., p.736. 183 Ibidem.

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bero state le linee direttrici della dottrina spinoziana dell’educazione? Proviamo a decifrarle nei testi esistenti, senza cedere alla tentazione di dedurre da qualche nota sparsa – che, del resto, hanno a volte il carattere di semplici opinioni, una dottrina dettagliata alla quale Spinoza, se ne avesse intrapreso l’elaborazione, avrebbe necessariamente consacrato una riflessione specifica dai risultati imprevedibili. Ricordiamo per esempio l’allusione del Trattato teologico-politico, laddove Spinoza evoca il rapporto di Mosè alla ribellione degli Ebrei: «Inoltre egli li distolse, attraverso minacce terrificanti, dalla trasgressione dei comandamenti e, di contro, promise che molti beni ne avrebbero ricompensato l’osservanza. Mosè insegnò dunque agli Ebrei come i genitori hanno l’abito d’insegnare a figli privi del tutto di ragione».184 È possibile vedere qui una concezione educativa? È ciò che sembra pensare Macherey, quando propone di leggere Eth, IV, 43 come «l’abbozzo di una pedagogia» fondata sul castigo corporale utile: «La sollecitazione eccitante può produrre eccessi ed essere negativa; ma il dolore può essere buono nella misura in cui l’eccitazione, o la gioia, è negativa». Questa proposizione, nella quale possiamo scorgere la considerazione di una sorta di supplizio immanente (il disgusto), resta ben inteso interpretabile alla lettera come la riabilitazione intempestiva di un certo utilizzo ragionevole della punizione corporale, in reazione alla deriva lassista dell’Olanda dell’epoca che forse non serviva né agli adulti né ai bambini. E Pierre Macherey ha ragione di ricordare l’insistenza di Spinoza a proposito della paura del castigo nella teoria politica. Ma la questione è di sapere più precisamente come la punizione corporale potrebbe essere un mezzo pedagogico. «Il dolore, scrive Macherey, può avere un valore di allerta, attirando l‘attenzione sul carattere eccessivo di alcuni piaceri che esaltano una sola parte dell’organismo a detrimento del suo equilibrio globale».185 E più avanti: «Perché esitare a far soffrire un poco i bambini, se questo deve essere al fine di far loro del bene, ossia a impedire che restino bambini?»186 A scanso di equivoci: non si tratta di abbandonare la mente a motivi sentimentali che scartino a priori un’eventualità che la filosofia deve saper considerare e valutare serenamente, a dispetto del clamore circostante. Ma la questione è la

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Ethique, II, Appuhn, p.61. P. Macherey, op. cit., vol.4, p.264. P.Macherey, op. cit., vol.4, p.265, n.1.

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seguente: il dolore è di certo dissuasivo, per lo meno per un bambino abbastanza grande da poterlo associare al gesto riprovevole, e da poter scegliere il minore di due mali (nel bimbo piccolissimo restano due percezioni singole e senza rapporto, e il dolore resta solo un dolore). Esso non è meno dissuasivo di una scottatura: l’esperienza cosiddetta vaga conduce ad evitare un atto per il ricordo della conseguenza. Affinché il dolore risulti anche persuasivo, conducendo direttamente il bambino ad un giudizio morale sul suo atto, occorrerebbe che avesse come effetto di fargli evitare l’atto in ragione della sua natura, non delle sue conseguenze. In breve, vediamo bene come il bambino può esser condotto a giudicare bene e male sullo sfondo della sua paura. Ma vediamo anche quanto tale procedere urti contro un principio spinoziano fondamentale, consegnato a una brillante posterità nella storia delle dottrine dell’educazione: «chi è guidato dalla paura, e fa il bene per evitare il male, non è guidato dalla ragione».187 Scolio:

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Eth, IV, 63. Tschirnhaus è senza dubbio il primo pedagogo spinozista. Cfr. E. W. von Tschirnhaus, Medicina mentis, a cura di L. Pepe e M. Sanna, Napoli, Guida, 1987, pp.222-223 (l’influenza di Spinoza si fa sentire a partire dalla pagina 214 – Tschrnhaus sembra soprattutto aver compreso che Spinoza – lungi dal condannare l’immaginazione – invita a svilupparne la potenza). Più vicino a noi William James termina il suo Talks to Teachers on Psychology con queste parole: «Molto tempo fa Spinoza scriveva nella sua Etica che tutto ciò che un uomo può evitare pensando che è male, potrebbe ugualmente evitarlo pensando che è bene un’altra cosa. Colui che agisce abitualmente sub specie mali, con l’idea negativa, la nozione di male, Spinoza lo chiama schiavo. Egli chiama uomo libero colui che agisce abitualmente spinto dalla nozione di bene. Badate dunque, ve ne prego, a far dei vostri allievi degli uomini liberi, abituandoli ad agire, ovunque sia possibile, pensando al bene.». (William James, Talks to Teachers on Psychology, New York: Holt, 1899; cit. in L. S. Vygotskij, Pédagogitcheskaïa psikhologiia, Mosca, Pédagogika Press, 1996; tr. it. di M.S. Veggetti, Erickson, 2006, p. 269). Lev Vygotskij cita queste frasi di James nella parte della sua Psicologia pedagogica che egli consacra all’insegnamento dei valori morali e mostra quanto la proposizione di Spinoza si oppone all’Emilio di Rousseau: «La morale non va trasformata in polizia interna dello spirito» egli conclude (L. S. Vygotskij, Ibidem – per evidenti ragioni, quest’opera pubblicata a Mosca nel 1926, ha conosciuto una ripubblicazione solo nel 1996, anche se Vygotskij era sempre più insegnato nei dipartimenti di psicologia). In generale il lavoro molto importante di Vygotskij sullo sviluppo del bambino s’ispira costantemente a Spinoza. Dimostrarlo oltrepasserebbe i limiti di questo studio, ma il lettore russofono può riferirsi segnatamente a L. S. Vygotskij, Igra i iéio rol’v psikhitchiestom razvitii riébionka («Il gioco e il suo ruolo nello sviluppo psichico del bambino») in «Voprossy psikhologuii», Mosca, 1966, n°6.

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I superstiziosi, che sanno biasimare i vizi più che insegnare le virtù, e si adoperano non a guidare gli uomini con la ragione ma a contenerli con la paura in modo da fuggire il male invece di amare le virtù, non mirano ad altro che a questo: che gli altri divengano miseri come essi stessi; perciò non è sorprendente se sono per lo più molesti e odiosi agli uomini. (Eth, IV, 63 sch.)

L’educazione non può avere altro fine che quello di formare un uomo libero, o un adulto nel senso non compromesso del termine. Certamente, come la politica, anch’essa non può che cercare all’inizio di ottenere l’obbedienza, ma sempre tenendo conto del pericolo che tutto rovina: non firmare, sed frangere. La politica, che assume gli uomini come sono, abbandonati per lo più ad una puerilità senza rimedio, e che ha innanzitutto il compito di condurli a vivere insieme, è già vittoriosa laddove riesce, almeno, a farli obbedire. Ma Spinoza assegna comunque alla politica un secondo fine: condurre gli uomini a vivere una «vita umana», ad «avere di mira la vita» piuttosto che ad «evitare la morte».188 È questo il problema della «moltitudine libera», che noi ritroveremo nell’ultimo studio. Così Mosè fa in modo, per quanto è possibile, di utilizzare non solo la paura, ma anche la speranza; e nelle sue conclusioni Spinoza enuncia che «le leggi di qualsiasi Stato debbono essere istituite in modo che gli uomini siano condotti non dal timore, ma dalla speranza di qualche bene, che desiderano in sommo grado».189 Imparare a obbedire è preparatorio alla libertà, non solo perché il bambino fa progressi solo sotto la guida dell’educatore, ma anche perché il contenuto stesso dell’obbedienza è il dominio sulla inclinazione immediata. Ma resta inteso che i mezzi per ottenere obbedienza possono compromettere per sempre la tappa successiva, producendo una bestia ferita, a volte servile, a volte vendicativa. Il programma di ogni pedagogia spinoziana è dunque il seguente: studiare i mezzi perché si eviti il male per quanto possibile «indirettamente»190 attraverso la prospettiva del bene, e favorire così una padronanza di sé che non sia autodistruttiva ma che si fondi con il dispiegarsi delle attitudini. All’educatore spetta far sì che la speranza si diriga poco a poco verso una ricompensa immanente, che sia virtù piuttosto di trastulli.191

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TP, V [5] - [6]. TTP, V [9]. Eth, IV, 63 cor. In epoche molto diverse, Tschirnhaus (in Médecin de l’esprit, op. cit., pp. 214-

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In che misura la minaccia, seguita all’occorrenza da un effetto, resta un mezzo di educazione? Se non è propriamente parlando uno strumento pedagogico, può non di meno essere prescritta a titolo di ultima ratio? Il pensiero di Spinoza permette senza arbitrio di distinguere due casi: o l’educatore è condotto ad utilizzare la paura non sapendo far immaginare distintamente all’allievo il bene che conseguirebbe dalla rinuncia richiesta, perché egli non ha saputo mostrarsi se non molestus, noioso, insopportabile, fastidioso, e la punizione può solo allora aggravare la situazione (l’educazione non avendo altro effetto se non quello di incidere nella memoria dell’allievo un habitus vendicativo, o di sviluppare una sottomissione da schiavo che è proprio l’opposto del suo vero scopo); oppure l’educatore si trova a esercitare nelle condizioni simili a quelle di un fondatore dello Stato, avendo da imporre un minimo ordine a una moltitudine insubordinata. 192 Resta tra i due casi un margine per un ricorso ausiliario alla paura laddove l’habitus dello studio sostenuto dal suo proprio godimento sia ancora esitante e laddove l’allievo è preda di quelle situazioni di torpore in cui si aliena dal suo stesso desiderio (ma se minaccia e punizioni diventano dei mezzi abituali, il rischio è che l’allievo associ lo studio a degli affetti tristi – truismo della pedagogia dell’epoca che l’intera teoria spinoziana delle passioni conferma). Solo da questo punto di vista possiamo ritrovarci con Pierre Macherey. La differenza di queste due situazioni – l’educatore e il suo allievo, l’educatore davanti ad una classe – corrisponde nel Trattato teologico-politico alla differenza tra Mosè che educa la folla turbolenta degli Ebrei, già evocato, e Dio che educa il primo uomo, tenuto conto della sua immagine rettificata (Adamo nasce ignorante di ogni cosa): La prima cosa che incontriamo è la storia del primo uomo, ove si narra che Dio comandò ad Adamo di non mangiare il frutto dell’albero del bene e del male. Il che sembra significare che Dio comandò ad Adamo di fare e cercare il bene in ragione del bene (sub ratione boni), e non in quanto

223) e Vygotskij (nell’opera citata sopra) insistono ambedue su questo punto. 192 Cfr. il quadro di Jan Steen, Il maestro di scuola (1663-65, National Museum of Scotland, Edimburgo) riprodotto nel libro di Simon Schama (p.136) e il commento di costui: regna nella classe una sorta di caos animale, dove l’educazione e il gioco si oppongono invece di mescolarsi.

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contrario del male. In altre parole, di cercare il bene per amore del bene e non per timore del male. Chi infatti, come già si è detto, fa il bene per la vera conoscenza e l’amore del bene, agisce con libertà e con animo fermo; chi invece compie il bene per il timore del male, agisce costretto dal male e in modo servile, e vive su comando degli altri. (TTP, IV [11])

Sulla questione della disciplina noi disponiamo di un testo capitale dove Spinoza evoca le tensioni tra genitori e figli comparandole con quelle che agitano uno Stato democratico. È una risposta a Hobbes, che non rilevava alcuna differenza essenziale tra la dominazione paterna e la dominazione dispotica.193 Il solo confronto, in un contesto in cui si tratta di rifiutare lo pseudo-legame tra la monarchia assoluta e la pace civile, vale quasi come manifesto pedagogico, ma anche forse, dal momento che il principe d’Orange si è appena impadronito del potere, come una meditazione implicita sulla Repubblica delle Provincie Unite.194 «Tra genitori e figli si danno, di solito, litigi più numerosi e più aspri che tra padroni e schiavi. Ma non è certo nell’interesse dell’economia domestica mutare il diritto paterno in dominazione e tenere i figli come schiavi».195 Sono righe che fanno eco al testo sugli adolescenti che abbiamo commentato prima: ne sono quasi la soluzione. Una volta di più è in causa la condotta dei genitori: questa volta non la stupidità dei loro principi educativi, ma la possibile deriva dell’esercizio della loro autorità di fronte all’indocilità dei figli. È qui evocata da Spinoza una deriva tirannica della famiglia, capace di compromettere l’esistenza stessa dei legami famigliari. Qual è propriamente questo «interesse dell’economia domestica»? I figli e i cittadini, secondo una formula incontrata più sopra, fanno ciò che è loro utile sotto i comandi altrui, genitori o sovrani, mentre lo schiavo non fa altro che l’utile del padrone.196 E l’instaurazione del focolare domestico non si giustifica se non attraverso un desiderio di unione fisica animato dall’«amore di procreare figli e di educarli saggiamente», un amore ispirato dalla

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Cfr. supra. Cap. 3. Anche se questa dipende piuttosto dalla forma aristocratica, si può pensare che il testo la consideri, non solo a causa del pericolo monarchico, ma perché gli Stati qui chiamati popolari o democratici sono in primo luogo quelli in cui regna la libertà di parola. 195 TP, VI, § 4. 196 TTP, XVI [10]. Si noterà l’impiego di liberi, fedele all’uso laddove si tratti di relazioni con i genitori, ossia di uno statuto giuridico che, per il padre di famiglia, si oppone all’altra categoria posta sotto la sua autorità, i servi. 194

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«libertà dell’animo».197 In altri termini, il ruolo dei genitori è quello di provvedere alla libertà dei figli, questo è il fondamento della loro autorità e, di conseguenza, anche il suo limite: il bambino diviene quasi un cittadino nella propria famiglia. Di tale concezione del ruolo dei genitori potrebbe ben essere indicativa una commedia di Terenzio, I due fratelli, se è vero che il testo spinoziano sui conflitti tra adulti e adolescenti ne porta la traccia (d’altronde tali conflitti facevano parte dell’attualità olandese). La commedia presenta due fratelli, Eschino e Ctesifone: il primo, adolescente turbolento, debosciato, al limite della delinquenza, è allevato con indulgenza e tolleranza dal fratello del padre, mentre Ctesifone, restato presso il padre, più docile in apparenza, riceve un’educazione rigida (il padre fa delle rimostranze al fratello per il suo lassismo). Ora, è proprio Ctesifone, non Eschino, che non sopporta più l’autorità paterna e minaccia di espatriare andando sotto le armi.198 Inoltre, Micione, lo zio tollerante, all’inizio della commedia fa una sorta di professione di fede: «Questo è il compito del padre, abituare il figlio a comportarsi di sua volontà (sponte) e non per il timore degli altri (alieno metu)».199Ecco ora l’elogio di Mosè fatto da Spinoza: «prestò la massima attenzione affinché il popolo facesse il suo dovere non per paura, ma spontaneamente (non tam metu, quam sponte)».200Ma Micione prosegue: «qui sta la differenza tra un padre e un padrone. Chi non ne è capace ammetta di non saper guidare i suoi figli». Questa volta, ritroviamo per anticipazione la distinzione anti-hobbesiana del Trattato politico. Decisamente, il lettore invano cercherebbe la minima svalutazione morale dei bambini in Spinoza. L’infanzia è solo uno stato d’impotenza dal quale occorre uscire e dal quale l’individuo esce solo grazie l’educazione, e la connotazione collettiva del conamur dello scolio V, 39, assume qui tutta la sua forza tenuto conto che l’educazione può rovesciarsi in ostacolo tragico se scommette sull’interiorizzazione del giudizio morale attraverso l’intimidazione, piuttosto che sullo sviluppo delle forze intellettuali. Le stesse misure di prudenza di Spinoza davanti all’instabilità di Casearius, suo giovane allievo, sono animate da una

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Eth, IV, app., cap. 20. PlubioTerenzio Afro, «I due fratelli» in Commedie, tr. it. di O. Bianco, Torino, UTET, 1993, atto II, scena IV, p.803 e atto III, scena III, p.815. 199 Ibidem, atto I, scena I, p.781. 200 TTP, V [10]; (G, III, 61). 198

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sollecitudine educativa piuttosto che da diffidenza, e testimoniano più un amore e una confidenza espliciti che un’irritazione.201 Tracciamo in conclusione le grandi linee di una educazione spinozista: 1. coltivare in modo uguale tutte le attitudini del corpo e sviluppare la potenza della mente; 2. Sollecitare la speranza piuttosto che la paura, insegnando a desiderare delle ricompense immanenti (acquiescentia in se ipso, virtù); 3. Adeguarsi alla comprensione dell’allievo, seguendo il leitmotiv della concezione spinoziana del profetismo (prima il nucleo comune a tutte le religioni, amore del prossimo, giustizia e carità,202in seguito la matematica appena sia possibile,203 meno per il suo contenuto proprio che per le sue qualità formatrici); 4. E, quindi, non dimenticare mai il legame tra ragione e affetto. I pedagoghi d’ispirazione spinoziana, ciascuno a suo modo, sapranno ritrovarsi in questi quattro aspetti.

5. Conclusioni del rapporto sull’infanzia «E ad un tratto io scorsi un giovanetto dietro la schiena di Gedali, un giovanetto dalla potente fronte di Spinoza, dal decrepito volto di monaca. Egli fumava e trasaliva come un fuggiasco ricondotto in carcere dopo l’evasione. Mordhe lo straccione strisciò furtivamente fino a lui, gli strappò la sigaretta di bocca e corse a me. – È Elja il figlio del rabbino – mi disse Mordhe con voce rauca all’oreccchio, fin quasi a toccarmi con la carne sanguinolenta delle sue palpebre arrovesciate, – un figlio maledetto, l’ultimogenito, un figlio ribelle … E Mordhe minacciò il giovanetto col pugno e gli sputò in faccia». Isaac Babel, L’armata a cavallo, tr.it. di R. Poggioli, Torino, Einaudi, 2004, p.45.

1. Spinoza è dapprima stupito e perplesso. Come abbiamo potuto avere il nostro inizio da esseri così deboli, così incoscienti di sé, così lontani dall’immagine che ci costruiamo di come dovrebbe essere un uomo? È possibile che non si abbia più altro legame se non esterno con quell’essere intorpidito e interamente sonnambulico che un tempo siamo stati ?

201

Ep, 30. TTP, XIII [3] e [4]. 203 TTP, XI [8]: «le matematiche, sulla cui verità nessuno dubita» e TTP. n.VIII: «le proposizioni di Euclide sono colte da chiunque, prima di ogni dimostrazione». Cfr anche Eth, I, app. 202

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2. Per poter pensare correttamente l’infanzia, occorre in primo luogo correre il rischio della chimera dell’infans adultus in tutti i suoi avatar: adulto miniaturizzato, primo uomo, bambino ipostatizzato come un’essenza a parte. A cui si aggiunge la figura ben reale dell’adulto che non è cresciuto (puerilità del vulgus), la figura rara e problematica del malato amnesico sul quale incombe il dubbio (nuova vita o anticamera della morte?),204 infine la figura dell’adolescente. 3. Per la prima volta in filosofia è posto uno sguardo attivo sui bambini. Non che si trattasse di amarli, commiserarne la sorte o intenerirsene. Tra la fascinazione umanista per il mondo opaco e irridente dell’infanzia del XVI°secolo e la «carineria» di una madame de Sévigné del XVIII° secolo, e al di là delle contraddizioni di un secolo di transizione dove coesistono, a volte intrecciati, modernismo e arcaismo, Spinoza tratta l’infanzia senza disprezzo né compassione, come una prospettiva, il bambino come un essere in divenire. Il rapporto con l’infanzia diviene il banco di prova di una filosofia che non intende riconoscere alcuna validità all’idea di privazione, e che esce trionfante da tale prova rettificando l’immagine dell’infanzia, appropriandosene come migliore illustrazione di se stessa. Il bambino colto nel suo divenire, alla fine dell’Etica, è l’immagine stessa, unica, definitiva, conforme all’intelletto, del divenir-filosofo. Divenir-filosofo colto nell’immagine del bambino: enunciato da non confondersi con quello di Gilles Deleuze e Felix Guattari, «lo spinozismo è il divenir-bambino del filosofo».205 Una convergenza non è certo esclusa, ma i due enunciati non hanno né lo stesso senso né lo

204

È possibile leggervi anche una certa ironia riguardo al tema cristiano della seconda nascita, che il giovane Spinoza, nel Breve trattato prende in considerazione. Ancora una volta, l’ex-poeta non è semplicemente rimbambito o, come si dice, tornato bambino? Cfr. Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, op. cit., pp 45-46: «Se, come gli Dèi dei poeti di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi è sul punto di perire, così anch’io, per quanto è possibile, non riportassi all’infanzia quanti sono prossimi al feretro, donde l’abitudine del volgo di dirli, non senza fondamento, tornati all’infanzia. Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, non lo celerò certamente. Io li conduco alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate – il Lete che scorre agli Inferi è solo un sottile rigagnolo. Lì, appena hanno bevuto a larghi sorsi le acque dell’oblio, un poco alla volta, le preoccupazioni si dissolvono e tornano bambini. Ma si dice che essi delirano ormai, non ragionano più! Certo, ma proprio questo significa tornare all’infanzia». 205 G.Deleuze, F.Guattari, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980; tr.it. di G. Passerone, Castelvecchi, 1996, vol.II, p.117.

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stesso oggetto. Deleuze e Guattari vedono nella concezione spinoziana del corpo (rapporti cinematici tra elementi e composizione di tali rapporti) un’essenziale affinità con il modo di domandare infantile. Per ciò che ci concerne, indagando sulla presenza esplicita e insistente del tema dell’infanzia in Spinoza, siamo condotti a insistere sulla critica generale della categoria scolastica di privazione. E senza dubbio dal canto nostro potremmo invocare un «divenir-bambino del filosofo», ossia un’ispirazione propriamente infantile del filosofo. Lo faremmo a proposito dello scolio IV, 59 dell’Etica: «l’azione di picchiare, considerata dal punto di vista fisico e ponendo attenzione solo al fatto che un uomo alza il braccio, chiude la mano e muove in avanti con forza tutto il braccio, è una virtù che si concepisce mediante la struttura del corpo umano». Che ogni gesto sia per prima cosa in sé virtù, da cogliere come tale indipendentemente dai suoi fini o dai suoi possibili motivi, non è forse la scoperta che fa il neonato che si dedica con ostinazione all’azione di colpire, senza altra ragione apparente se non l’acquiescientia in se ipso che gli procura?206 Non è forse il punto di vista del neonato che ci chiede qui di adottare? Divenir neonato vuol dire liberare la parte d’innocenza e di potenza inerente ad ogni gesto: decisamente, nemo miseretur infantis, l’impotenza infantile non è misera. L’infanzia diviene dunque coestensiva dell’intera vita, come conferma per altri versi il Trattato teologico-politico: «tutti gli uomini, al contrario, nascono ignari di tutto e, prima che possano conoscere la vera regola di vita e acquisire l’abito della virtù, è già trascorsa, anche se ricevettero una buona educazione, gran parte della loro vita».207 Occorre dunque riannodare i fili con l’infanzia, con una modalità particolare che si situa, oltre ogni memoria, agli antipodi del «rammarico». Non è triste dover cominciare con l’esser bambini, è triste restarci. L’infanzia appare da commiserare solo a posteriori quando noi gettiamo uno sguardo retrospettivo sulla poca potenza che avevamo, comparata al grado di capacità a cui ci siamo elevati e continuiamo ad elevarci: allora, effettivamente, non c’è a rigore nulla da rammaricarsi, e solo l’adulto impotente, mostruoso lattante sotto l’aspetto di uomo fatto, può abbandonarsi con compiacimento all’allucinazione nostalgica dei suoi primi anni (impotenza per impotenza almeno là era circondato da cure); a meno che, naturalmente, il ricordo sia quello dei balzi in

206

«L’acquietamento in sé stesso è gioia nata dalla considerazione di sé e della propria potenza di agire». (Eth, III, def. aff. 25) 207 TTP, XVI [3].

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avanti compiuti e dell’acquiescentia in se ipso che accompagnava ogni volta la scoperta di una nuova capacità. In ogni modo l’infanzia non è malinconica, oscilla tra gioia e tristezza, senza mai fissarsi né sull’una né sull’altra; a fronte dell’infelicità, essa è la raffigurazione stessa della libertà e della felicità.208 4. La memoria infantile, mescolanza d’incontri, di pietà filiale e di educazione, si modifica nell’adolescenza, età della ragione, per passare in secondo piano trasformandosi nel rarissimo caso del saggio, o per

208

È venuto il momento di commentare la posizione di Pierre Macherey. Se non possiamo che apprezzare il modo in cui egli sottolinea meglio di chiunque il ruolo del bambino nell’Ethica, noi abbiamo l’idea che egli abbia un po’ sottostimato l’originalità degli intenti di Spinoza. Citiamo questa nota significativa a proposito dello scolio III, 2: «L’infanzia, in luogo di essere trattata come uno stato autonomo, al quale l’umanità non prenderebbe parte, è evocata, senza nostalgia, nella prospettiva di uno sviluppo genetico dove essa appare come costituente il nostro proprio passato di uomini […]». Fin qui non si potrebbe dire meglio. Ma il seguito ci sembra contestabile: «si pensi qui a Descartes, laddove ci invita a non dimenticare mai che siamo stati bambini prima d’esser uomini. In questo passaggio dell’Etica Spinoza sembra ricordarsi fuggitivamente del bambino che lui stesso è stato, e lo fa con spirito puramente sperimentale, oggettivo in apparenza, ma da cui un amaro sentimento di derisione non è affatto assente. Com’è triste pensare che si è potuto essere bambini!, sembra sottintendere questo passaggio. Lo si vede, l’attività teorica della filosofia, che fissa in principio sulla realtà ch’essa analizza uno sguardo completamente disinteressato, resta attraversato da fantasmi immaginari: ma l’essenziale è che il peso di tali fantasmi, ridotto al minimo, non gravi su quello del rigore dimostrativo» (P. Macherey, op. cit., vol.3, p.257, n.2). Le nostre osservazioni sono le seguenti: 1°) Spinoza minimizza il tema cartesiano dei pregiudizi dell’infanzia, non vi vede che un aspetto del rapporto con l’infanzia (è sufficiente, per convincersene, confrontarlo con Malebranche); 2°) Spinoza caratterizza il rapporto con l’infanzia come esterno e non attraverso il canale della memoria, effettuandosi indirettamente attraverso l’osservazione altrui, e non il canale della memoria personale; 3°) attribuire a Spinoza un atteggiamento afflitto riguardo all’infanzia, vuol dire metterlo in contraddizione con la sua abituale norma di condotta, o con quella che potremmo definire la sua deontologia intellettuale (non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere), ciò che, ben inteso, resta umanamente plausibile; ma è soprattutto contraddire gli intenti stessi di Spinoza in Eth, V, 6 sch.; 4°) Non possiamo certo escludere l’intervento di fantasmi immaginari, ma la ricorrenza di osservazioni sull’infanzia nell’Etica, se le nostre analisi non sono errate, si spiega perfettamente senza tale eventualità. Non escludiamo a priori l’esistenza di tali fantasmi (non possiamo dirne niente); diciamo che, fantasma a no, Spinoza ha trovato i termini di un rapporto filosofico con l’infanzia, innegabilmente inedito.

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piegarsi sotto l’effetto della tensione non risolta tra l’educazione e le forze di liberazione da una parte e la deviazione di quest’ultime dall’altra. L’infanzia è il luogo di un conflitto tra due processi che dovrebbero potersi congiungere: l’educazione e lo sviluppo. È chiaro come l’educazione ben concepita, essa stessa emendata, potrebbe coltivare una memoria che favorisca la compiuta fioritura delle attitudini. Ma, il bambino è più spesso ostacolato, fintanto che l’educazione non si ricentra sul problema dello sviluppo della sua potenza di comprendere secondo i termini del Trattato dell’emendazione dell’intelletto. Inizialmente amnesico, il bambino subisce la formazione in lui, lungo l’intero suo sviluppo, di una memoria più o meno sfavorevole fino a che il compimento della crescita la mette in crisi e conduce l’individuo a sottomettersi, sia attraverso la docilità sia attraverso la pseudo-ribellione, oppure a emendarsi. Per riassumere la complessità di tale rapporto con la memoria e l’oblio, possiamo riunire gli elementi di un’autobiografia fittizia: «[…] io Bento, ora Benedictus, commerciante per eredità, divenuto filosofo e ottico, figlio di un notabile della comunità ebrea di Amsterdam, divenuto cittadino povero e senza religione, errante con serenità nell’Olanda cosmopolita, «[…] io mi vedo in primo luogo un passato relativamente recente, d’adolescente, periodo critico in cui, prima dei vent’anni, come sottolinea la mia agiografia, io cominciai a ragionare e posi ai rabbini delle questioni che li lasciarono muti, consumando poco a poco la mia rottura fino a che questi decisero di cacciarmi;209 e pertanto io non ne uscivo ancora da questo periodo di travaglio laddove esitavo sulla vita da condurre, le cose della natura mi parevano vane, disordinate e assurde,210 montava in me la più grande tristezza;211 «se risalgo più lontano, cosa che faccio malvolentieri,212 rivedo il passato della mia infanzia, durante la quale io ricevevo l’educazione giudaica tradizionale dalla quale mi sono separato e di cui mi giunge il ricordo dal fondo della mia memoria emendata, gettando su di essa uno sguardo che non può più essere quello di allora (cambiamento del mio Institutum vitae).213

209 210 211 212 213

J. Colerus, J. – M. Lucas, Le vite di Spinoza, op. cit., pp.32 e segg. Ep, 15. TIE, § 3. KV, II, XIV e Eth, III, def.aff. 32 e expl. TTP, IX [12].

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«Infine, opaco e silenzioso, c’è questo passato così lontano al quale io resto legato solo per il legame esterno del sentito dire e dell’esperienza vaga: sono stato neonato e i genitori vegliavano su di me».214

214

Eth, IV, 39 sch; TIE, § 15.

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TERZO STUDIO POTENZA DI DIO E POTENZA DEI RE All’inizio della II parte dell’Etica, Spinoza nota che il vulgus ha tendenza a «paragonare» o a «confondere» due potenze di diversa natura, quella di Dio e quella dei re. Questo scolio segna un punto d’arresto per una ricapitolazione ma nello stesso tempo un avvertimento, dove trapela l’impazienza di Spinoza. La progressione è notevole: Ma questo lo abbiamo confutato […] e abbiamo dimostrato che […]. Inoltre […] abbiamo dimostrato che […]. Se piacesse poi svolgere ulteriormente questa argomentazione, qui potrei dimostrare ancora che […]. Ma non voglio intavolare tante volte un discorso sulla stessa cosa. Prego soltanto con insistenza (iterum atque iterum) il lettore di esaminare a più riprese (atque iterum) le cose dette su questo argomento nella prima parte, dalla P16 fino alla fine. Infatti nessuno potrà comprendere rettamente ciò che intendo se non si guarda accuratamente dal confondere la potenza di Dio con la potenza o il diritto dei re. (Eth, II,3 sch.)

Spinoza attira l’attenzione del lettore su tre punti: 1°) tutta la seconda metà della Prima parte dell’Etica, che quest’ultimo ha appena letto, ha avuto come oggetto la distinzione delle due potenze; 2°) tale distinzione non è facile; 3°) è vano darsi la pena di leggere il seguito se non la si è assimilata. Succede che Spinoza ci dica di continuare a leggere, anche se avvertiamo di non seguire o di non essere d’accordo.1 Ma qui, l’alternativa è chiara: o voi avete compreso o non vi resta che chiudere il libro. Niente etica, insomma, se voi non comprendete che Dio non è un re. Imbevetevi dunque di questa seconda metà: leggetela iterum atque iterum…atque iterum, ossia aritmeticamente quattro volte! La distinzione delle due potenze è una chiave d’accesso all’etica. Noi dobbiamo riconoscere che Spinoza ha le sue ragioni per spazientirsi: senza contare l’appendice, è la quarta volta dall’inizio dell’Etica che egli asserisce questa distinzione della potenza divina e della potenza umana.2 La questione delle due potenze ha dunque un’importanza capitale.

1 2

Per esempio, quando si mette a «parlare spinoziano»: Eth, II,11 sch. Eth, I, 8 sch.; Eth, I, 15 sch.; Eth, I, 17 sch.; Eth, I,33 sch.2.

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La si incontra già nella prima lettera a Blyenbergh, del 1664, a proposito del linguaggio antropomorfico dei profeti: «Ossia, in primo luogo hanno rappresentato Dio come un re o un legislatore, perché egli ha rivelato i mezzi per la salvezza e per la perdizione, dei quali è anche causa»3 (per esempio, «Quando Michea diceva al re Achab di aver visto Dio sedere sul suo trono»).4 La si ritrova in seguito nel Trattato teologico-politico a proposito dei miracoli: il volgo «si limita solo a immaginare la potenza di Dio come il potere di una qualche maestà regale»,5 «immagina Dio come corporeo e detentore di un potere regio, il cui trono raffigura sulla volta del cielo […]»;6infine i miracoli «non derivano da non so quale potere regale che il volgo attribuisce a Dio, ma dal comando e dal decreto di Dio, ossia (come si è chiarito con la stessa Scrittura), dalle leggi e dall’ordine della natura».7 Che cosa bisogna intendere per «potenza dei re»? Questo paragone biblico si ritrova quasi ovunque nella tradizione teologica cristiana (fino a Tommaso d’Aquino, a dispetto della sua critica della metafora). Ma è significativo che la sua demistificazione spinoziana coincida con una tappa decisiva nella storia della monarchia: l’avanzata dell’assolutismo regale in Europa. Spinoza non può aver affatto la stessa idea di regalità che avevano i Profeti ai loro tempi. Su questa polemica metafisica – non confondere la potenza di Dio con la potenza dei re – soffia un vento d’attualità.

3 4 5 6 7

Ep, 37. Ep, 39. TTP, VI [1]. TTP, VI [19]. TTP, VI [22].

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6. LA CONFUSIONE DELLE DUE POTENZE E   LA  DERIVA BAROCCA DEL CARTESIANESIMO Domandiamoci in prima istanza quale concetto del potere regale sia enunciato nello scolio: Il volgo intende per potenza di Dio la libera volontà e il diritto di Dio su tutte le cose che esistono, le quali vengono perciò considerate comunemente come contingenti. Dicono infatti che Dio ha il potere di distruggere tutto e di ridurlo nel nulla. Paragonano inoltre molto spesso la potenza di Dio alla potenza dei re. Ma questo lo abbiamo confutato in 1P32C1 e 2; e in 1P16 abbiamo dimostrato che Dio agisce con la stessa necessità con la quale intende sé stesso. Ossia, come dalla necessità della natura divina segue (come tutti unanimemente affermano) che Dio intende sé stesso, con la stessa necessità segue anche che Dio compie infinite opere in infiniti modi. Inoltre in 1P34 abbiamo dimostrato che la potenza di Dio non è altro che l’essenza attiva di Dio, e perciò ci è tanto impossibile concepire che Dio non agisca quanto che Dio non sia. (Eth, II, 3 sch.)

La distinzione delle due potenze ne richiama altre due: quella tra natura divina e natura umana,8 e la distinzione di concezioni della libertà.9 L’uomo ordinario (vulgus) è incline ad attribuire un corpo e una mente a Dio, e di conseguenza a renderlo soggetto a passioni; quanto ai filosofi, giudicando della sua sovrana perfezione a partire dalle perfezioni umane, gli attribuiscono un intelletto e una volontà. Spinoza pensa alle visioni profetiche del Vecchio testamento, studiate nel Trattato teologico politico. Il testo riprende d’altro canto l’espressione instar hominis, utilizzata nello scolio in Eth, I, 15 sch. Tuttavia l’antropomorfismo è qui di altra natura: consiste nell’attribuire a Dio una potentia humana; interviene allora la polemica sulla libertà (i filosofi, che si tratti di Tommaso d’Aquino o di Descartes, hanno la tendenza a confondere costrizione e necessità, e a definire la libertà di Dio come «volontà libera», «volontà assoluta», «beneplacito», «indifferenza»). Si presenta una difficoltà: questa «potenza umana», che presume di definirsi attraverso la «libera volontà» e il «diritto su tutte le cose», detto altrimenti per un doppio potere di deliberazione e di esecuzione, sembra contraddire l’Appendice della prima parte, che denunciava tale libera volontà come illusione, pregiudizio, vanteria dell’uomo (nello

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Eth, I, 8 sch.; Eth, I, 15 sch.; Eth, I, 17 sch. Eth, I, 17 sch e Eth, 33 sch.

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stesso modo Spinoza condurrà nella seconda parte dell’Etica una critica alle nozioni d’intelletto e di volontà in quanto tali). I re non fanno eccezione. Libera o assoluta, la volontà del re la è in quanto egli decide da solo, supponendo che sia possibile, non nel senso di un potere di alternativa. Spinoza dimostrerà nel Trattato politico che tale autonomia di decisione è impossibile. È giocoforza ammettere che i due attributi della potenza regale – beneplacito e autorità concentrata su un solo uomo – rivelano una finzione meta-psico-politica. Il paragone tra le due potenze si rileva doppiamente mistificante: esso fonda una superstizione su un’altra superstizione. Giacché è la medesima impotenza che conduce l’uomo a ingannarsi su se stesso e a immaginare Dio secondo l’immagine che egli ha di sé. Osserviamo subito come la libera volontà è definita: potere d’annientamento (sottinteso: di ciò che è stato creato, o – detto altrimenti – Dio può ritornare sulla propria decisione, la sua volontà può cambiare) o potere di astensione (e Spinoza ne esprime chiaramente le conseguenze: la negazione stessa di Dio). Insomma, un Dio versatile e un Dio che non esiste – tali sono le conclusioni alle quali conduce la definizione abituale della volontà libera, la quale tuttavia è formulata dai più accaniti partigiani dell’esistenza e dell’immutabilità di Dio.

1. Confutazione del potere di astensione Occorre dunque fare ciò che ci dice Spinoza: riandare a ritroso e rileggere la prima parte dell’Etica dalla proposizione 16, ossia tutto ciò che concerne il modo di produzione del mondo da parte di Dio. Rileggere in particolare lo scolio della proposizione 17, che rifiuta la falsa concezione, scolastico-cartesiana, della causa libera: Altri pensano che Dio sia causa libera perché può fare sì che le cose che abbiamo detto seguire dalla sua natura, cioè che sono in suo potere, non vengano ad essere o non siano da esso prodotte. Ma questo equivale a dire che Dio può far sì che dalla natura del triangolo non segua che i suoi tre angoli siano uguali a due retti; oppure che da una causa data non segua un effetto, il che è assurdo.

Per libertà divina s’intende dunque un potere negativo di astensione, un potere di non fare. Dio manifesterebbe la sua onnipotenza non giungendo al compimento di ciò che può, bensì trattenendo la sua potenza (potere di ritenzione o di omissione). Spinoza si sforza 200

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di dimostrare quanto sia aberrante tale teoria: essa impone in realtà il contrario di ciò che vuole affermare, infatti compromette la potenza di Dio. L’argomento principale è fondato sulla solidarietà della causa e dell’effetto, o dell’essenza e delle sue proprietà. «Ma questo equivale a dire» – Spinoza non può ignorare che Descartes precisamente lo ha detto: Quanto alla difficoltà di concepire in che modo per Dio è stato libero e indifferente far si che non fosse vero che i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti, o in generale che i contradditori non potessero stare insieme: tale difficoltà si può facilmente superare considerando che la potenza divina non può aver limite alcuno. (Lettera a P. Mesland, 2 maggio 1644)10

Ciò che Descartes giudica «difficile da concepire», data la finitezza del nostro intelletto, è esattamente ciò che Spinoza rifiuta come «assurdo». Per Descartes, la necessità di legame causale s’imporrebbe a Dio dall’esterno, come un contratto, mentre per Spinoza tale necessità è l’espressione della natura divina. La relazione tra l’essenza e le sue proprietà è analitica: non la sciogli senza distruggere i termini. Una figura di cui la somma degli angoli non sarà più uguale a due angoli retti non sarebbe più un triangolo, e se si mantenesse che i suoi angoli sono tre di numero, non si farebbe che forgiare una impossibile mescolanza di due nature – una chimera. Per mescolanza impossibile intendiamo che le due nature, essendo contradditorie, non potrebbero che distruggersi l’un l’altra.11 È dunque solo per errore che si può separare un’essenza dalle sue proprietà. Infine tale errore, privato di contenuto positivo, non è in fondo che un malinteso, una cattiva denominazione delle cose: E certamente la maggior parte degli errori consiste soltanto in questo, che non applichiamo in modo giusto i nomi alle cose. Quando, infatti, qualcu-

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R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, op. cit., n° 454, p. 1913. Cfr. ugualmente Meditazioni. Risposta alle seste obiezioni: «nè ha voluto che i tre angoli del triangolo fossero uguali a due retti, perché sapeva che non avrebbe potuto essere diversamente.» (R. Descartes, Risposta alle seste obiezioni in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., p. 1225). 11 Eth, III, 4 e 5 e le dimostrazioni.

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no dice che le linee che sono condotte dal centro del cerchio alla sua circonferenza sono disuguali, in verità egli per cerchio intende, almeno allora, qualcosa di diverso da quello che intendono i matematici. Così, quando gli uomini sbagliano nel fare i calcoli, essi hanno certi numeri nella mente e altri sulla carta. (Eth, II, 47 sch.)

Gli abbagli linguistici producono chimere effimere, esseri puramente verbali: un cortile volato sulla gallina del vicino, ad esempio.12 Prima di redigere l’Etica, Spinoza aveva già meditato lo strano enunciato cartesiano. È significativo che allora egli l’abbia collegato alla questione dell’immutabilità divina.13 In un primo tempo, Spinoza ha cura di isolare la trasformatio da altre specie di cambiamento, dato che l’assurdità di un cambiamento di Dio quanto ad essenza appare immediatamente; trasformarsi implica «la corruzione delle cose che include simultaneamente la generazione che segue alla corruzione»,14 cosicché una trasformazione di Dio implicherebbe a sua volta la sua morte, contraria alla sua esistenza necessaria, e l’emergere di un altro Dio, ossia il politeismo che si oppone all’unicità implicata nel suo stesso concetto.15 Poi, dopo aver rifiutato ad una ad una le altre specie di cambiamento, Spinoza giunge ad un altro argomento, aggiunto in nota nella traduzione olandese; se è vero che in Dio intelletto e volontà si confondono, allora la volontà per la quale Dio ha decretato che la somma degli angoli di un triangolo fosse uguale a due angoli retti si confonde con la sua comprensione della suddetta uguaglianza: «Perciò ci sarà sempre impossibile concepire che Dio possa mutare i suoi decreti, come pensare che i tre angoli di un triangolo non siano uguali a due retti».16 L’interesse di questo argomento consiste nel legare l’alternativa a un cambiamento di decreti ma anche e soprattutto, benché implicitamente, a un impensabile cambiamento di concezione. La versatilità, concepibile sul piano umano, equivarrebbe per Dio a non pensare ciò che pensa, a non concepire come concepisce: essa introdurrebbe in lui la contraddizione e minaccerebbe la sua identità. L’alternativa, la scelta implicherebbero la non identità a sé: un Dio

12 13 14 15 16

Eth, II, 47 sch. CM, II, cap. 4. Ibidem. Spinoza si prende cura di rifiutare preliminarmente il politeismo in CM, II, cap. 2. CM, II, cap. 4; Appunh, t.1, p.365.

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altro da sé, tendente alla metamorfosi o alla pluralizzazione. Senza dubbio si tratta di una prima tappa, segnata dalla identità in Dio di intelletto e volontà (che, si sa, non è una tesi specificatamente di Spinoza). La tappa successiva, nell’Etica sarà la soppressione di tali due facoltà, abbassate al rango di modi o di effetti. Ma la formula delle Riflessioni metafisiche suggerisce fin d’ora un legame diretto tra l’essenza di Dio e la natura della sua produzione, dello stesso tipo di quello che unisce una figura geometrica alle sue proprietà: i decreti di Dio si rapportano analiticamente alla sua essenza, proprio come l’uguaglianza dei tre angoli ai due retti si rapporta all’essenza del triangolo.17 La conferma si trova nel commentario dei Principi di Descartes, dove Spinoza propone una prova dell’immutabilità divina che non figura nell’originale cartesiano. Tale prova poggia sulla semplicità, che viene riconosciuta a Dio e il cui corollario è giustamente l’impossibilità di separare il decreto di Dio dalla sua essenza: «da ciò segue che l’intelligenza, la volontà o decreto e la potenza di Dio non si distinguono dalla sua essenza se non per ragione».18 Le implicazioni anti-cartesiane di tale tesi sono sorprendenti, in seno di quella che si presenta come una semplice esposizione dei Principi: stabilire un legame di natura tra Dio e il suo decreto è far crollare in un solo colpo la sua libertà d’indifferenza e la contingenza del mondo che ha prodotto. Vediamo subito ciò che ne segue: Dio è immutabile. Dimostrazione: Se Dio fosse mutevole, non potrebbe mutare in parte ma in tutta l’essenza (P17); ma l’essenza di Dio esiste necessariamente (P 5, 6 e 7); dunque Dio è immutabile. (PPC, I, 18 e dem.)

Sarebbe meglio lasciar intendere, da una parte, che alternativa e cambiamento sono lo stesso; d’altra parte, che ogni cambiamento, in Dio, equivarrebbe alla sua trasformazione; infine, che la pretesa indifferenza di Dio, essendo una tale trasformazione contradditoria, è una pura finzione. Si comprende meglio allora come un poco più avanti, nella stessa sedicente esposizione dei Principi, Spinoza si sia applicato molto seriamente a confutare il politeismo, che non preoccupava affatto Descartes.19

17 18 19

Cfr. anche TTP, IV [7]. PPC, I, 17 cor. Costui lo evoca nondimeno nella V Meditazione, nello stesso contesto pro-

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È stato sostenuto che tale confutazione, così frequente di contro in Spinoza, aveva per oggetto di negare la sostanzialità del mondo e di conseguenza l’esteriorità del suo rapporto con Dio.20 Si è fatto notare a tale riguardo che il ragionamento parte dall’ipotesi di due dei, come se si trattasse di confutare un possibile dualismo. Tuttavia ciò può dirsi vero solo per i Principi: 21 l’Etica evoca «due o più dei» seguendo l’espressione cartesiana,22 in riferimento alla scelta che Dio si ritiene abbia fatto, nella tradizione tomista ma anche in Descartes, al momento di produrre. La scelta è in primo luogo tra produrre e non produrre, dato che essa è il segno per eccellenza di una volontà libera, donde i Due; in seguito la scelta è tra più mondi possibili, come nel tomismo donde i più Dei. Si noterà che le Riflessioni metafisiche, che fanno seguito ai Principi si riferiscono all’ipotesi di «più Dei».23 Infine l’Appendice della I parte dell’Etica, come lo stesso Trattato teologico-politico, fa ampio riferimento al politeismo pagano.24 In Spinoza, il problema del politeismo è legato alla questione di sapere se l’attribuzione di una volontà libera a Dio è compatibile con la sua unità e la sua immutabilità; ciò solo indirettamente, e come conseguenza, tocca l’esteriorità del mondo, corollario della sua contingenza. I suoi ragionamenti possono in parte improntarsi alla tradizione, non di meno assumono un senso nuovo e vivente, in funzione di un contesto originale che, lo vedremo, è quello dell’Europa barocca. Ritorniamo subito allo scolio I, 17. L’argomento della solidarietà causale potrebbe bastare; Spinoza tuttavia va a evocarne un secondo,

blematico: «Senz’altro, infatti, intendo in molti modi che essa [l’idea di Dio] non è qualcosa di fittizio o di inventato, dipendente dal mio pensiero, bensì l’ immagine di una vera ed immutabile natura: in primo luogo, perché non può essere da me escogitata alcuna altra cosa alla cui essenza appartenga l’esistenza oltre al solo Dio, poi, poi, perché non posso intendere due o più Dei siffatti». (R. Descartes, Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., p. 771) Il legame tra il pluralismo e la trasformazione è chiaramente stabilito, anche se Descartes non vi si attarda affatto. Toccherà a Spinoza di ritornare su tale legame contro il suo autore, scorgendo in esso lo strumento per una confutazione della dottrina della creazione delle verità eterne. 20 È di tale avviso H. A. Wolfson in The Philosophy of Spinoza, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1948, cap.IV («Unity of substance»). 21 PPC, I, 11 e dim. 22 Eth, I, 33 dim. 23 CM, II, cap. 2 e cap. 4. 24 TTP VI [1], XIV [10] (insistenza sull’unicità di Dio); XV [2]; XVII [6].

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che è di altra natura e assolve un’altra funzione. Il nuovo argomento è polemico. Senza dubbio ciò è vero di ogni argomento laddove esso interviene in un contesto di avversità, ma noi dobbiamo distinguere tra i ragionamenti che sostengono una tesi e partecipano ad un movimento positivo d’enunciazione, e i ragionamenti il cui solo interesse è di invalidare gli argomenti dell’avversario rivelandone le contraddizioni interne. La differenza, nello scolio, è molto marcata: Spinoza va subito a stabilirsi in uno spazio logico ai suoi occhi fittizio. Si spiegherà d’altronde su questo punto nello scolio 1, 33, la cui struttura è simile, a tal riguardo: l’ordine geometrico non ha il potere da solo di imporre l’accesso ad una mente che non accetta la prova della dimostrazione, protetta com’è da un baluardo di credenze che ne discreditano in anticipo le conclusioni. Si tratta dunque di valutare l’argomento avverso: una creazione esaustiva equivarrebbe a un esaurimento della potenza di Dio, «è perciò essi hanno preferito ammettere che Dio è indifferente a tutto e che crea solo ciò che, per una certa volontà assoluta, egli ha deciso di creare». Spinoza risponde in due tempi. Inizialmente, questo argomento suppone che una parte della potenza divina resti potenziale, tesi alla quale egli s’oppone. Qui non fa, tuttavia, che ricordare le conclusioni del ragionamento geometrico,25donde una certa apparenza di petizione di principio che lo conduce a formulare una seconda risposta, dall’aria di contro-argomento: una creazione non esaustiva significherebbe che Dio concepisce un’infinità di possibili «che egli non potrà mai creare». Dio, impedendosi di portare a buon fine ciò che può, eserciterebbe su se stesso una costrizione che limiterebbe la sua potenza.26E che cos’è quella parte della divina potenza destinata a non essere mai attualizzata per preservare l’altra dall’esaurimento? La pretesa potenza potenziale non è in realtà che niente, che impotenza. Sebbene la contraddizione sia flagrante: «Egli non può fare tutto ciò a cui la sua potenza può estendersi». Ricordiamo che la confutazione dell’idea di sostanza finita, nel Breve trattato, mostra precisamente l’aberrazione di una tale concezione: «[la sostanza] non ha limitato se stessa perché, essendo stata illimitata, dovrebbe aver mutato tutta la sua essenza», ossia, dovrebbe trasfor-

25

Eth, I, 16. Pierre Macherey evoca questi «caratteri negativi o sospensivi che pongono tale potenza in posizione di rivolgersi contro di sé fuori da ogni ragione». (P. Macherey, op. cit., vol.1, p.153)

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marsi.27Tutto accade dunque come se l’autolimitazione di Dio, che abbiamo appena visto essere la conseguenza logica di una ritenzione di parte della sua potenza, debba condurre alla sua trasformazione. Una costrizione suppone un rapporto di esteriorità altrettanto impensabile nel caso di Dio quanto il suicidio, dato che un tale rapporto sarebbe nientemeno che un rapportarsi a sé. È sorprendente che questo problema di un potere di omissione occupi il seguito del ragionamento del Breve trattato. Poiché se «è impossibile che una sostanza abbia voluto limitarsi»,28 non può trovarsi limitata per causa propria? Occorre dunque esaminare la condotta di Dio mentre produce. La risposta non ci soddisfa affatto poiché è ancora di scuola cartesiana: «Che egli [Dio] non abbia potuto di più si opporrebbe alla sua onnipotenza; che egli non abbia voluto di più, pur potendo, sa quasi di gelosia, che in Dio, pienezza di ogni ben, non c’è assolutamente».29 Vedremo presto che ne è di tutto ciò nell’Etica; l’importante, per ora, è sottolineare che il Breve trattato stabilisce realmente, seppur in modo implicito, un rapporto tra il potere d’astensione, considerato a torto carattere della libertà divina, e l’idea di una trasformazione di Dio.

2. Confutazione del potere d’alternativa Spinoza non ha con ciò finito con la «volontà libera»: ci ritorna in un lungo scolio al quale noi abbiamo già fatto allusione, il secondo della proposizione I, 33. Nel frattempo – ossia tra l’ultima parte dello scolio I, 17 e il secondo corollario della proposizione I, 32 – egli ha condotto l’intelletto e la volontà al rango di semplici effetti della produzione divina, sciogliendo ancora un po’ di più il fallace legame tra libertà di Dio e sua pretesa volontà.30 Nell’attribuire a Dio una «volontà libera», in effetti, vi sono due cose passibili di critica, due tratti antropomorfici che hanno entrambi in comune la partecipazione ad un’illusione sulla natura umana: la volontà, il libero arbitrio. Ciò che conta ormai, è l’identità in Dio della sua potenza e della sua essenza, formulata soltanto nella proposizione 1, 34 (alla quale d’altronde

27 28 29 30

KV, I, cap.2, n.2. KV, I, cap. 2, § 4 KV, I, cap. 2, § 5. Eth, I, 32, cor.1.

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rinvia lo scolio sulla potenza dei re), sebbene già presupposto nello scolio secondo di I,33. Sottolineiamo ancora quanto l’attacco riguardi particolarmente Descartes. L’idea di un «regno di Dio» è di origine biblica, e Spinoza cita a tal riguardo i profeti. Ma egli subito precisa che nel loro caso la metafora è pienamente giustificata, poiché costoro non hanno alcuna pretesa teorica e parlano un linguaggio adatto al volgo, con il solo scopo di far conoscere a questo la legge divina, ossia di farlo obbedire. Questa concezione è già in Tommaso d’Aquino.31 Hobbes, quanto a lui, consacra metà del suo Leviathan al «re dei re»,32ma egli precisa che il regno di Dio si esercita in senso proprio solo sulle creature dotate di ragione: l’espressione non si applica all’ordine della natura se non metaforicamente.33 Leibniz, non considerando per nulla l’avvertimento di Spinoza, s’inscrive anch’esso in questa linea d’ispirazione cristiana.34

31

Tommaso d’Aquino esclude dalla teologia, dottrina suprema, il ricorso alla metafora, che spetta alla dottrina più bassa, la poetica. Tuttavia bisogna pur che la metafora si confaccia alle Sacre Scritture visto che ne fanno grande uso. Una prima ragione è che la conoscenza umana parte dal sensibile. Ma se ne aggiunge un’altra: «è conveniente che essa [la Scrittura] ci presenti le realtà spirituali sotto parvenze corporali, affinché almeno in tal modo le persone semplici le possano apprendere, non essendo esse idonee a capire le realtà intelligibili così come sono in se stesse». (T. d’Aquino, Somma teologica, op. cit., I, q.1, 9, p.41). Egli aggiunge tuttavia una riserva capitale: anche ricorrendo a paragoni, sembra più conveniente evitare i «corpi nobili» poiché «le figure delle cose che sono più distanti da Dio ci fanno intendere meglio che Dio è al disopra di quanto noi possiamo dire o pensare di lui». (ibid., p.42). Tommaso d’Aquino sembra tuttavia meno vigile rispetto alla situazione reciproca, dato che la regalità gli appare come avvicinantesi alla divinità (egli giustifica a riguardo i riti di apoteosi degli antichi re: cfr. E. Gilson, Le thomisme, op. cit., p.548). 32 Come spiega nelle ultime righe del cap. XXX. 33 T. Hobbes, Leviatano, op. cit., cap. XXXI, pp.289-90 (la questione della regno di Dio inteso in senso letterale, storico del termine, cfr. cap. XXXV, qui non ci riguarda). 34 Per Leibniz, Dio può essere considerato sia «architetto della macchina dell’universo» sia «monarca della più perfetta repubblica di tutti gli spiriti», in virtù dell’armonia dei due regni della natura e della grazia.(Cfr. G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, § 36-37 in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, Torino, UTET, 1967, vol. I, pp.108-110; la corrispondenza con Arnauld, cfr. G.W. Leibniz, Lettera ad Arnauld del 9 ottobre 1687 in op. cit, p.180; G.W. Leibniz, Sull’origine radicale delle cose in op. cit. p. 224; G.W. Leibniz, Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, § 15 in op. cit., p. 281; G.W. Leibniz, Monadologia, § 85-87 in op. cit., pp. 297-98).

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In questo contesto, un solo filosofo si compiace dell’assimilazione globale della potenza di Dio alla potenza regale: Descartes. «È Dio che ha stabilito queste leggi in natura come un Re stabilisce le leggi nel suo regno».35 Descartes sta esponendo la sua dottrina della creazione delle verità eterne, e si fa egli stesso un’obiezione:36 «Se Dio avesse stabilito queste verità, potrebbe cambiarle come fa un Re con le sue leggi», o – detto altrimenti – sono io che «le concepisco come eterne e immutabili». La sua risposta è la seguente: «Sì posto che la sua volontà possa cambiare». Ora, ben inteso, questa non può cambiare, dato che sarebbe un marchio d’incostanza, dunque d’imperfezione. Descartes, di fronte all’obiezione, si trova dunque in una postura assai acrobatica: 1° la sua intenzione, che sarà anche quella di Spinoza, è quella di affermare senza limiti l’onnipotenza di Dio; 2° Dio non deve dunque, a differenza delle antiche divinità, essere assoggettato a verità da lui indipendenti, seppur la verità stessa debba recare il segno della sua libera volontà, o esser l’oggetto di una creazione (la creazione verte non solo sull’esistenza ma anche sull’essenza); 3° non è chiaro tuttavia come la contingenza potrebbe evitare la mutabilità, come il potere d’alternativa vada a smorzarsi per il solo fatto che la volontà è stata esercitata una volta. L’arbitrarietà della decisione non inviluppa la sua versatilità? Come evitare che la libera volontà sconfini nel capriccio? Un Dio capriccioso, ecco però che minerebbe il dogma: è senza dubbio troppo per Descartes, ma non ancora abbastanza per Spinoza. La questione si sposta velocemente sulla logica della scelta. Si può solo concepire un Dio capriccioso? Si noterà la reticenza di Spinoza a pensare la scelta, che in lui interviene solo in due casi: uno che implica una costrizione esterna, aver da «evitare con un male minore uno maggiore» (problema di Seneca);37 l’altro che implica una interiorizzazione della costrizione, e di conseguenza un conflitto interno, «conosco il meglio e lo approvo; ma inseguo il peggio» (problema di Medea).38

35

R. Descartes, Descartes a Mersenne, 15 aprile 1630, in R. Descartes, Tutte le lettere 1619-1650, op. cit., n°30, p.147. Cfr. ugualmente, anni dopo, R. Descartes, Risposta alle seste obiezioni, § 8 in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., p.1231. 36 Geneviève Rodis-Lewis nota che Mersenne doveva essere sensibile a tale obiezione: nel 1634, egli scrive che «Dio può cambiare tutto ciò che è nella fisica». Cfr. G. Rodis-Lewis, L’œuvre de Descartes, Paris, Vrin, 1971, p.139 e p.491, n.57. 37 Eth, IV, 20 sch. 38 Eth, IV, 17 sch.

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Soltanto la dipendenza è in grado di opporre il soggetto a se stesso, di renderlo fluttuante. La scelta è sempre tra un male e un bene, oppure tra due mali o tra due beni: dipende da un meccanismo affettivo e non lascia alcun spazio all’indifferenza. In effetti la scelta rivela una resistenza all’affermazione spontanea di una natura, e presuppone sempre almeno un’altra natura. Perché Dio abbia scelta, occorrerebbe che la corrente del fuori passi in lui e ne comprometta l’identità. Non ci si stupirà di ritrovare sul piano di Dio la medesima conseguenza che risulta sul piano etico: l’alternativa non è esterna al soggetto, è la sua stessa divisione, almeno tendenziale. Anche la conclusione di Spinoza è radicale: affermare che Dio ha scelta vuol dire dissolvere la sua identità, ponendo solo un’identità verbale. Ed è togliergli tutto ciò che si credeva di attribuirgli: il gesto attraverso cui Descartes credeva di elevare il monoteismo alla sua espressione più alta e più propria ci conduce al politeismo. Non solo l’alternativa e il cambiamento dipendono dalla medesima logica, ma tale logica opera sul piano dell’essenza: pluralità di Dio = trasformazione di Dio. Tali sono i due momenti polemici contro il necessitarismo: aver scelta è poter cambiare; è dunque esser altro da sé o trasformarsi. E questo è l’oggetto della proposizione I, 33 dell’Etica, della sua dimostrazione e del suo secondo scolio.

3. La proposizione Eth, I, 33, la sua dimostrazione e il suo secondo scolio La strategia di Spinoza è la seguente: la rovina dell’alternativa è il complemento polemico indispensabile alla dimostrazione positiva del carattere necessario della produzione delle cose. La proposizione I, 33 a ciò si adopera: «Le cose non hanno potuto esser prodotte da Dio in altro modo né con ordine diverso da come sono state prodotte». La dimostrazione procede per assurdo, per mostrare che l’affermazione di un’alternativa conduce al politeismo. Se è vero che la produzione del mondo deriva dalla necessità della natura divina, allora altro mondo, altro Dio: Se dunque le cose avessero potuto essere di un’altra natura o essere determinate ad operare in altro modo, così che l’ordine della natura fosse diverso, allora anche la natura di Dio avrebbe potuto essere diversa da quella che è; di conseguenza (P11) anche questa seconda natura dovrebbe esistere e, quindi, si potrebbero dare due o più dei, il che (P14C1) è assurdo.

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Questo ragionamento ha l’aria di una petizione di principio, dal momento che si fonda su ciò che in apparenza è ritenuto da dimostrare, ossia la necessità del legame tra Dio e l’ordine naturale. Se c’è tale legame, allora la possibilità di un altro ordine naturale porta con sé il politeismo; oppure quest’ultimo è assurdo in relazione alla definizione di Dio, allora il legame esiste. Il ragionamento sembra valere solo per il sillogismo ipotetico che vi spicca: se l’ordine del mondo consegue necessariamente dalla natura di Dio, allora l’idea dell’alternativa fa esplodere la nozione di Dio. Resta che l’ipotesi è stata precisamente dimostrata: ciò che noi consideriamo una petizione di principio è in realtà una tautologia. La proposizione Eth, I, 33 non è alla fin fine altro che l’inverso polemico delle proposizioni 16 e 29, citate nella premessa: il versante che accusa l’avversario. Essa nulla aggiunge, le conferma negativamente. L’apparenza di petizione di principio deriva dunque dal fatto che non vi è in realtà niente da dimostrare: ci si appoggia solo su di un enunciato già stabilito per far emergere l’assurdità della proposizione contraria. Il ragionamento per assurdo, di cui Tschirnhaus giunge a rimproverare a Spinoza l’insufficienza,39riveste qui una funzione per così dire, naturale: la funzione polemica. Non è più la prova indiretta del vero, già prodotto, ma la confutazione del falso, che ne deriva. E tuttavia il passo è insufficiente dato che la polemica implica anche che l’avversario, scioccato per l’enunciato di una tesi, non abbia più orecchio per ascoltarne le ragioni. La «dimostrazione» spezza una prima lancia, ma, a dire il vero, non è che una provocazione a malapena dissimulata: Descartes politeista! Lui che iniziava precisamente la sua lettera su Dio - re denunciando il paganesimo residuale della concezione scolastica!40… Bisogna ora portare l’attacco dentro il campo dell’avversario: se egli è sordo ai nostri ragionamenti, che si distruggano allora i suoi. È il passaggio a tale seconda tappa della polemica che spiega il tono d’impazienza con cui esordisce il secondo scolio, preparando il passaggio dello scolio II, 3:

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Ep, 78. «In effetti, dire che queste verità sono indipendenti da Dio significa parlare di lui come di un Giove o Saturno e assoggettarlo allo Stige o al destino». (R. Descartes, Descartes a Mersenne, 15 aprile 1630, in R. Descartes, Tutte le lettere 16191650, op. cit., n°30, p.147) Da notare che Dio, per Tommaso d’Aquino, conosce le essenze contemplando se stesso: la sua creazione verte solo sulle esistenze. Cfr. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, op. cit., I, q.14, 5. 40

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Da ciò che precede segue chiaramente che […]. Né questo fa conoscere in Dio alcuna imperfezione […]. Anzi, dal contrario seguirebbe in modo chiaro (come ho appena mostrato) che […]. Ma non dubito tuttavia che molti rigettino come assurda questa opinione e non vogliano neppure disporre l’anima ad esaminarla ; e questo per nessun’altra ragione se non perché sono abituati ad […]. Tuttavia non dubito neppure che, se volessero meditare la cosa ed esaminare lealmente tra sé la serie delle nostre dimostrazioni, respingerebbero infine del tutto quella libertà […]. Né è necessario che io qui ripeta le cose dette nello scolio della P17. Tuttavia, a loro beneficio mostrerò ancora […].

Lo scolio si conclude con queste parole: «Perciò non c’è ragione che perda tempo nel confutare questa assurdità». Spinoza deve consentire a interrompere il corso produttivo delle tesi dimostrate ordine geometrico, per muoversi temporaneamente nello spazio logico dell’assurdo, che egli dispiega per meglio annientarlo. In tale spazio baluginano dei curiosi «esseri verbali»: «due o più dei», come abbiam visto, ma anche la figura di un Dio in metamorfosi, non identico a sé. Potrebbero confondersi. Il secondo scolio della proposizione 33 introduce l’idea di perfezione: non solo l’alternativa è una tesi falsa, ma essa contraddice la natura sovranamente perfetta di Dio. Al contrario, la perfezione della produzione delle cose consegue necessariamente dalla perfezione divina. Perché l’imperfezione consegue dalla tesi dell’alternativa? Perché se la produzione fosse fatta altrimenti, Dio sarebbe di un’altra natura. Inoltre, tale natura, differente da quella che consegue dalla considerazione della perfetta sovranità, non sarebbe più divina.41 Si noterà che la nozione di scelta non interviene: l’alternativa intravista è oggettiva e Spinoza sottintende «se le cose fossero state necessariamente prodotte in altro modo […]». Il ragionamento opera sempre nel registro della necessità; l’interrogazione verte solo sull’esistenza di un’alternativa nella necessità, sull’eventualità di un’altra necessità. Ma, aggiunge Spinoza, coloro che sono «abituati» a concepire la libertà come l’esercizio di una «volontà assoluta» (contrariamente alla def.7) rischiano di giudicare la tesi assurda ancor prima di averla esa-

41

Eth, I, 33, sch.2.

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minata, mentre questo esame, se vi ci sottomettessero, li condurrebbe a rifiutare tale falso concetto di libertà.42 Egli supera il proprio tedio (rinvio impaziente a Eth, I, 17) e inizia una nuova dimostrazione, il cui scopo è di mostrare che nonostante una importante concessione all’avversario (l’attribuzione a Dio di una volontà appartenente alla sua essenza) non cambia affatto la conclusione: incompatibilità della perfezione e dell’alternativa. Spinoza pone dunque due premesse: 1° i decreti vertono anche sulle essenze (se no Dio sarebbe impotente), 2° i decreti sono eterni (se no Dio sarebbe incostante). Analizziamo il ragionamento. 1° Spinoza sottolinea in prima istanza come l’eternità ben compresa, che è una perfezione di Dio, escluda l’alternativa. In effetti, l’eternità esclude l’ante e il post, donde la doppia impossibilità di cambiamento («non può») e di alternativa iniziale («non ha potuto»). Dio è indissociabile dai suoi decreti («non può essere senza di essi»). 2° Si obbietterà che Dio avrebbe potuto senza imperfezione avere decretato altrimenti da tutta l’eternità? L’alternativa, questa volta attribuita a Dio non lascia alcuna scelta. E soprattutto, Spinoza sottolinea che tale obiezione conduce dritto all’incostanza (possibilità di cambiare i decreti). Giacché se Dio avesse decretato altrimenti, egli avrebbe un altro intelletto e un’altra volontà. Supponendo che ciò sia possibile, ossia non implichi né trasformazione né imperfezione (sottinteso: trasformazione significherebbe decadimento), resta ugualmente possibile che egli decreti in altro modo oggidì. Riprendiamo con più precisione: se Dio avesse decretato altrimenti da come ha decretato (d’ora innanzi il soggetto che resta assume l’alternativa), egli avrebbe avuto un altro intelletto e un’altra volontà oltre quelli che ha. Ora, se c’è compatibilità tra il presente e l’irreale del passato, essa vale tanto per il presente quanto per il passato ove tale presente ha cominciato. E se si tiene conto del consenso dei filosofi sul carattere attuale dell’intelletto divino e sull’impossibilità di distinguere l’intelletto e la volontà di Dio dalla sua essenza, si ritrova la conclusione iniziale: peggio dell’inconsistenza, aver avuto un altro intelletto in atto e un’altra volontà ha il senso assurdo d’aver avuto un’altra essenza.43 Spinoza può allora ritornare all’ipotesi d’una ritenzione di potenza, la cui confutazione, nel Breve trattato, ci era parsa insufficiente, ma che prefigurava il giudizio avanzato nello scolio I, 17 dell’Etica: una

42 43

Ibidem Ibidem.

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tale ipotesi equivale ad attribuire a Dio una certa impotenza. Questa ultima parte del testo è difficile. Spinoza comincia con l’enunciare di nuovo la proposizione, per aggiungere che se la necessità del rapporto tra natura divina e ordine naturale consegue dalla perfezione, allora l’argomento della ritenzione non può più esser sostenuto in alcun modo. Bisogna comprendere: 1° che la ritenzione di potenza diviene impossibile data l’assenza d’alternativa: ciò che Dio può egli lo vuole; 2° che essendo la perfezione in ogni modo incompatibile con l’alternativa, la ritenzione perde il suo senso (il concetto di onnipotenza non solo ne fa a meno ma la esclude). Spinoza fa allora posto a un’obiezione ispirata alle Risposte alle seste obiezioni di Descartes: se Dio è anche l’autore delle verità morali, allora la perfezione non è nelle cose e «se Dio avesse voluto, avrebbe potuto far sì che ciò che adesso è perfezione fosse suprema imperfezione e il contrario». Ritroviamo lo stesso tipo di ragionamento di quello a proposito del triangolo inseparabile dalle sue proprietà: l’assurdità dell’obiezione consiste nel porre l’arbitrarietà del legame tra l’essenza delle cose e il loro tenore di perfezione. Il Breve trattato, che contiene una prima versione di questo argomento, proponeva un esempio chiarificatore: è come se la giustizia potesse astenersi dall’essere giusta. Poiché è ben questa la conseguenza di una concezione secondo la quale Dio ha il potere d’attribuire indifferentemente il bene o il male ad una cosa qualsiasi, e di far sì quindi «che il male diventi bene»: si separa il valore da se stesso, si finge che il suo senso sia indifferente alla natura delle cose o degli atti ai quali lo si rapporta. Una tale aberrazione suggerisce a Spinoza una replica tagliente: Ma questo argomento scorre così bene come se io dicessi: Dio è Dio perché vuol essere Dio; dunque è in suo potere di non essere Dio, il che è l’assurdità stessa. (KV, I, cap. IV, § 6)

Spinoza naturalmente vuole dire che non si potrebbe porre un soggetto facendo astrazione della sua essenza. È d’altronde ciò che implicitamente traspariva già nelle Riflessioni metafisiche, in quanto le due formule definiscono i cambiamenti che non sono delle trasformazioni: «ogni genere di variazione che possa darsi in un soggetto rimanendo integra la sua essenza», «quella mutazione nella quale non si dà alcuna trasformazione del sogget213

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to». 44 Quindi, credere che Dio possa attribuire indifferentemente i valori e poi cambiarli equivale a dire che sia «in suo potere di non essere Dio», ossia d’essere una chimera che è e nello stesso tempo non è ciò che essa è, ovvero che si distrugge per divenire ciò che non è (abbiamo già avuto l’occasione di sottolineare come lo sforzo di trasformarsi fosse una contraddizione in termini, dato che «nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna» 45). Nello scolio che ora ci impegna, dire che la perfezione non sta nelle cose ma in un decreto di Dio è in verità un sofisma giacché le due cose non si escludono affatto: Dio crea le essenze delle cose che inviluppano un certo grado di perfezione.46 Sciogliere il legame tra la natura di una cosa e la sua perfezione, supporre che ci sia tale possibilità, reintroduce uno scarto in Dio tra ciò che egli concepisce e decreta, mentre egli decreta precisamente come concepisce: Dio, come Spinoza sottolineava già a proposito del triangolo, «intende necessariamente ciò che vuole», enunciato ambiguo che potrebbe interpretarsi nel senso cartesiano di una libertà d’indifferenza, ma che significa solamente che volontà e intelletto, decreto e concezione di Dio non sono che una sola cosa (egli non intende come vuole senza reciprocamente volere come intende). Spinoza denuncia qui chiaramente, nella dottrina cartesiana della creazione delle verità eterne, la persistenza di un primato della volontà a dispetto dell’indistinzione teorica della volontà e dell’intelletto. Tutto accade in effetti come se il Dio di Descartes concepisse da una parte tutti i possibili, astrazione fatta di ogni considerazione di verità o di perfezione, e dall’altra decretasse a loro proposito una arbitraria ripartizione di vero e di bene.47 L’ipotesi di un potere omissivo sfocia in fin dei conti nell’assurdità di un Dio schizofrenico che «può con la

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CM, II, cap. IV. Eth, II, 4. 46 Sulla scala dei gradi di perfezione o di realtà cfr. Eth, I, 11 sch.; Eth, II, 13 sch. 47 Citiamo il passaggio di Descartes incriminato: «Quanto alla libertà dell’arbitrio, la sua natura è in Dio di gran lunga diversa di come è in noi. Ripugna infatti che la volontà di Dio non sia stata dall’eternità indifferente a tutte le cose che sono accadute o mai accadranno, perché non si può fingere alcun bene, o vero, o alcunché da credere, o da fare, o da omettere la cui idea sia stata nell’intelletto divino prima che la sua volontà si determinasse a far sì che fosse tale». (R. Descartes, Risposta alle seste obiezioni in R. Descartes, Opere 1637-1649, op. cit., p. 1225). Segue, tra altri, l’esempio della proprietà del triangolo. 45

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sua volontà fare in modo da intendere le cose altrimenti da come le intende».48 Infine, il rapporto tra queste due assurdità costituite dall’inversione dei valori e dalla trasformazione di Dio è già enunciata nel secondo corollario della proposizione Eth, I, 20, sulla base dell’identità dell’essenza e dell’esistenza di Dio (variante dell’argomento della semplicità, esposta più sopra): Dio, ossia tutti gli attributi di Dio sono immutabili. Infatti, se mutassero in ragione dell’esistenza, dovrebbero anche (per la proposizione precedente) mutare in ragione dell’essenza, cioè (come per sé è noto) diventare da veri falsi, il che è assurdo. (Eth, I, 20, cor.2)

4. Aderire al barocco o scongiurare il barocco? Riassumiamo queste molteplici incursioni geometriche nello spazio logico dell’assurdo (uno spazio falso, ben inteso, che balugina solo tra le parole – ma Spinoza ama prendere l’avversario in parola, e condurlo a cadere nella sua stessa trappola verbale). Confondere la potenza di Dio con la potenza dei re, forgiare questa chimera metà divina e metà umana di un monarca celeste, vuol dire dissolvere l’identità dell’essere sovranamente perfetto nel politeismo e nella metamorfosi. Si può giudicare molto «barocco» questo modo spinoziano d’immaginare il cartesianesimo, o piuttosto di rilevarne l’immagine soggiacente, le tendenze alla finzione. Si può tuttavia, a ben guardare, obbiettare che il «Barocco» è la deriva che Spinoza stigmatizza nella dottrina cartesiana della creazione delle verità eterne e che, di conseguenza, è tenuto a distanza da Spinoza. Questo punto merita che ci si soffermi. Abbiamo evocato la confessione della lettera 15 ad Oldenburg in cui Spinoza confessa che certe cose «che non si accordavano minimamente con la nostra mente filosofica» «mi sembravano in precedenza vane, disordinate, assurde». Se si nota inoltre che la teoria della morte come trasformazione, enunciata nello scolio IV, 39 dell’Etica, fu un’idea cara al tardo Rinascimento (o, se si preferisce, al primo Barocco), si è tentati di ricostruire una melanconia spinoziana giovanile la cui equazione congetturale si troverebbe in Ronsard:

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Eth, I, 33, sch.2. Tutto questo ragionamento ricordiamolo, riposa su una concessione temporanea: per Spinoza intelletto e volontà di Dio non solo non sono che uno, ma sono anche il risultato e non la condizione della sua produzione.

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Nulla muore, si cambia solo Di forma in forma, e tale cambiare si chiama Morte, quando si prende forma novella (Discorso a mastro Julien Chaveau) La tua potenza (o Morte) è grande e ammirabile […] Ciò che fu si rifà, tutto scorre come l’acqua E nulla c’è di nuovo sotto il cielo Ma la forma si muta in un’altra nuova E questo cambiamento è il vivere al mondo E morire quando la forma in un’altra se ne va. (Inno alla morte)49

In Ronsard morte e nascita tendono a divenire indiscernibili, sebbene la visione lugubre di un mondo dove tutto si corrompe si accompagni ad uno strano vitalismo. Il giovane Spinoza, animato dal solo desiderio di comprendere, e ossessionato dal disaccordo tra ragione e cose, ha vissuto e portato in lui la contraddizione fino a un punto «mortale», come egli mostra nel prologo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Nel quadro di questa crisi, dove il desiderio di razionalità urta costantemente con la confusione apparente delle cose, occorre ricollocare l’antico sentimento. Quest’ultimo non ha di certo mai oltrepassato lo stadio della tendenza o della credenza in certi momenti, dato che lo stesso prologo, che descrive la reazione alla crisi, testimonia una tergiversazione attiva che sbocca alla fine nella conquista di un pensiero sicuro di sé. La filosofia di Spinoza, prodotta dalla crisi alla fine superata, porta in sé il rifiuto del caos generalizzato: la confusione è nella mente, non nelle cose; il processo universale e perpetuo di trasformazione che è lo stesso divenire della Natura, è retto da leggi costanti. Non è certo nostro proposito discutere qui i criteri del barocco. Attenendoci ad una definizione minimale che si spera sia condivisa, chiamiamo Barocco quell’acuto rapporto della mente affetta dall’infinito nei confronti dell’instabile, del confuso, della sproporzione anche, che segna in modo ineguale nello spazio e nel tempo, la cultura europea dagli ultimi decenni del XVI° secolo fino alla seconda metà del

49

Citato in M. Jeanneret, Perpetuum mobile. Métamorphoses des corps et des œuvres de Vinci à Montaigne, Paris, Macula, 1988, pp.43 -44.

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XVII° secolo.50 Se ci vediamo la condizione di un dibattito piuttosto che l’enunciato di una doxa o di una dottrina, noi possiamo individuare pressappoco tre momenti dello spirito barocco: 1°) il sentimento dell’evanescenza di ogni fissità, e il vitalismo malinconico che ne deriva (posizione che Spinoza non ha mai sottoscritto, e che è quella di un scetticismo che rinuncia virtualmente alla filosofia); 2°) la crisi della ragione, (che Spinoza ha vissuto credendo di poterla superare, mentre Pascal l’assumeva come un dato ultimo e irriducibile; 3°) la crisi superata, che assume del tutto il caos apparente ma crede possibile decifrarvi un ordine (Spinoza diventato spinozista, Malebranche, Leibniz). La filosofia di Spinoza appartiene di certo a tale terzo momento: si pensi per esempio alla decisione di non indignarsi del disordine delle passioni umane come fanno coloro la cui immaginazione è assorbita dalla rappresentazione ideale di un uomo perfetto, ma di affrontare l’apparente confusione per palesarne il meccanismo riposto (teoria delle passioni); oppure si pensi alla ricerca spinoziana di una legge del variabile, in luogo d’opporre o di sovrapporre l’uno e il molteplice, l’immutabile e il diveniente, come due regni irriconciliabili (teoria dell’individuo), oppure ancora alla tipica maniera di naturalizzare lo straordinario, sottraendolo al soprannaturale (teoria del miracolo, dell’allucinazione e del presagio). Se il Barocco in arte abolisce le nette opposizioni, l’assoluta delimitazione dei contrari, esso trova il suo equivalente filosofico nelle diverse maniere di finirla con il rifiuto scolastico delle figure della sragione, nella convinzione di non poter più

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Si suole dire che le Provincie-Unite hanno «resistito» al Barocco, per esempio F. Lebrun, Le XVII siècle, Paris, Armand Colin, 1967, p. 45. Solo i Paesi Bassi restati spagnoli, dunque cattolici, sarebbero stati aperti al Barocco (Rubens ad Anversa, ecc), mentre i calvinisti esigevano dei luoghi di culto nudi, così come la borghesia commerciante, cercando soprattutto nella pittura un semplice specchio della sua vita quotidiana, ne avrebbero impedito la diffusione. Tale giudizio deve essere relativizzato. Abbiamo fatto notare nello studio precedente che il calvinismo era impotente ad arginare l’evoluzione dei costumi olandesi in materia di puericoltura; allo stesso modo, esso dovette assai rapidamente permettere la reintroduzione dell’organo nelle chiese. Più generalmente, non si dovrebbe immaginare l’Olanda, terra la più aperta e cosmopolita d’Europa, al riparo di una tendenza che è dilagata nell’intero continente. Il teatro spagnolo (Lope de Vega, Calderon) v’incontra un vivo successo, così come l’Asteée le cui imitazioni olandesi sono numerose, e lo stesso Racine, la cui opera si fa eco della problematica barocca del potere politico. Infine, è difficile non riconoscere in Rembrandt una sensibilità barocca (compenetrazione dei contrari, passaggio continuo da una forma a un altra, ecc.).

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tener la ragione al riparo del confuso e dell’oscuro annullati sotto la categoria della privatio: sia che si tratti di riconoscere che un pensiero non è mai netto (Pascal) sia, di contro, che si tratti di leggere la ragione sotto il disordine apparente (Spinoza). Questi sono anche i due modi d’introdurre il sogno in filosofia: presentimento dell’indiscernibile, o esigenza di uno sforzo superiore di distinzione. Ed è perché Spinoza vuole accogliere nel suo pensiero più varietà e variazioni possibili che l’esigenza in quanto all’immutabile è più forte e più radicale in lui che in nessun altro, più drammatica anche data la condizione d’immanenza che ripercuote su Dio – l’abbiamo visto nella critica velata a Descartes – ogni concessione fatta all’immutabilità del mondo. Lo spinozismo domanda un minimo di permanenza o di identità, purché ci sia una roccia incrollabile, al fine di salvare la conoscenza ma anche la relativa continuità delle esistenze: […] le cose create, ossia tutte le cose eccetto Dio, esistono soltanto per la sola forza o essenza di Dio, non invece per forza propria; da ciò segue che l’esistenza attuale delle cose non è causa della loro futura esistenza, ma lo è soltanto l’immutabilità di Dio, per la quale siamo costretti a dire che, quando Dio ha creato una cosa la prima volta, la conserverà in seguito continuamente o proseguirà quella stessa azione di creare. (CM, II, cap. I, § 3)

L’importanza di questo testo giovanile, fedele alla dottrina cartesiana della creazione continua, sta nel garantire il futuro conatus attraverso l’immutabilità di Dio. È chiaro che un Dio incostante, «fluttuante» come dice Filippo Mignini,51 insomma un Dio che non cesserebbe di cambiare decreti passando lui stesso per le metamorfosi corrispondenti, renderebbe le essenze instabili e comprometterebbe ogni passo scientifico o etico, non solo perché l’oggetto sarebbe mutevole ma perché il soggetto medesimo andrebbe di amnesia in amnesia. Vi è qui qualcosa di simile ad una prova propriamente spinoziana del cinabro kantiano, un inferno che risulta dal cartesianesimo spinto fino alle sue ultime conseguenze e che ci conduce al primo momento del barocco, quello della confusione universale, mondo onirico dei puri effetti ove tutto si metamorfizza in luogo di riprodursi, davanti ad un’immagina-

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«Ma se la volontà divina fosse libera, cioè priva di una regola interna necessitante, la stessa esistenza di Dio – che consiste in un’essenza perfetta – non sarebbe necessaria ma abbandonata al fluttuare della sua volontà di essere o non essere» (F. Mignini, Introduzione a B. Spinoza, Breve Trattato, p.538. Controllare)

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zione impotente a affascinata.52 È questo che Spinoza ha visto e si è impegnato a scongiurare – in questo pure egli partecipa al Barocco.53

5. La sorte paradossale dello spinozismo: chimera contro chimera e come si stabilisce in verità il rapporto con il politeismo nel pensiero di Spinoza Si da il caso che i primi confutatori abbiano imputato al sistema spinoziano ciò che il sistema stesso s’impegnava a distruggere: un Dio instabile e polimorfo, corporeo, in breve, una chimera. Lo spettro che Spinoza demistificava nel Dio di Descartes e della scolastica, si è creduto di riconoscerlo nello stesso spinozismo. È vero che tale pensiero prestava il fianco magnificamente a questo effetto di ritorno laddove proponeva la soluzione più paradossale e più acrobatica possibile: distinguere veritativamente l’infinito dal finito ponendo il finito immanente all’infinito. «Tutti coloro che giudicano le cose in modo confuso e non sono abituati a conoscerle mediante le loro cause prime […] non distinguono tra le modificazioni delle sostanze e le sostanze medesime e non sanno in quale modo le cose sono prodotte».54 Spinoza aggiungeva: da qui viene la credenza nelle metamorfosi, da qui viene la confusione delle nature divina e umana. La violenza dei confutatori si sentiva in dovere d’essere a misura dell’inaudita insolenza di questa filosofia che in sostanza diceva ai Cristiani che la loro religione di «mediazione» (mistero dell’Incarnazione) riposava su di una chimera degna della mitologia antica. Per Spinoza, l’uomo-Dio giunto a salvare gli uomini non è meno favoloso di Zeus che prende forma umana per sedurre una fanciulla (è in tutt’altro sen-

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Cfr. I. Kant, «Della sintesi della riproduzione nell’immaginazione» in Critica della ragion pura, prima ed., tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, a cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 1975, tomo secondo, p.653. 53 Il nostro proposito non è qui di fare un’analisi esaustiva dei tratti barocchi nell’opera di Spinoza: oltre i temi del sogno, dell’amnesia, bisognerebbe evocare la relativizzazione dei valori (non nel senso che il valore è intrinsecamente relativo, ma perché esso ha senso solo in relazione a un punto di vista: sentimento del bello e del brutto legati alla struttura del nostro occhio), l’evocazione del punto di vista di un verme nel sangue, la finzione di un triangolo parlante che giudicherebbe Dio triangolare, forse anche la tesi dell’infinità degli attributi, infine l’uso proliferante dell’avverbio quatenus. 54 Eth I, 8 sch.2.

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so, di contro, che Cristo è per lui «divino»). Ora c’è apparentemente un’analoga cura che anima i filosofi cristiani. Prendiamo Malebranche: la sua preoccupazione per una distinzione radicale tra l’infinito e il finito lo conduce a porre una distanza infinita, un non-rapporto tra l’Altissimo e l’insondabile nulla al quale ci ha ridotti il peccato, tanto che un rapporto malgrado tutto si rende possibile solo attraverso un «mediatore», Uomo-Dio, per coloro per lo meno che «considerano davvero un nulla il loro proprio essere», dato che gli altri vivono d’illusione e di orgoglio: «osano accostarsi a Dio come se non sapessero più che la distanza tra lui e noi è infinita».55 Insomma, ciascuno accusa l’altro di confondere ciò che occorre distinguere. Lo sforzo di confutazione s’incentra dunque principalmente su questa nozione di modo, che da una parte distrugge la dottrina del Mediatore, d’altra parte ne propone una sorta di sostituto: per questo, al seguito di Malebranche, molti autori rilevano nello spinozismo una divinizzazione della creature e nello stesso tempo una riduzione in tanti pezzi del Dio unico, semplice e inesteso. Per poter ritorcere contro Spinoza l’accusa di produrre delle chimere, per compiere questa inversione vitale per il cristianesimo minacciato nei propri fondamenti, sarà importante restare sordi al rapporto tra sostanza e sue modificazioni. Più che un controsenso, vi è qui, in tutta evidenza, in spiriti così acuti come quelli di Malebranche, Bayle, Fénelon, Leibniz, un indispensabile malinteso. Malebranche, come si sa, lancia il tema, usando anche lo stesso percorso argomentativo caro a Spinoza che consiste nel denunciare nell’avversario una confusione analoga a quella di un cattivo geometra che attribuirebbe ad una figura le proprietà di un’altra: Quale disordine, quale contrasto tra la Divinità e le sue parti! Quale mostruosità, Aristo, quale spaventosa e ridicola chimera! Un Dio necessariamente odiato, bestemmiato, disprezzato, o per lo meno ignorato da quella che è la sua parte migliore; infatti quanti sono gli uomini disposti a riconoscere un simile Dio? Un Dio necessariamente o infelice o insensibile nella maggioranza delle sue parti, un Dio che si punisce o fa vendetta di sé su se stesso, in una parola: un Essere infinitamente perfetto e tuttavia composto da tutti i disordini dell’Universo. Si dà mai una nozione più piena di visibili contraddizioni? Certamente, se vi è gente capace di farsi un Dio in base a una idea così mostruosa, si tratta di tipi o che non vogliono aver alcun

55

N. Malebranche, Entretiens sur la métaphysique et la religion, tr. it. a cura di A. De Maria, Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, Milano, S.Paolo Edizioni, 1999, XIV, § 8.

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Dio, oppure che vogliono trovare nell’idea del cerchio tutte le proprietà del triangolo. (N. Malebranche, Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, op. cit., IX, § 2,)

Bayle, Lamy, Leibniz riprendono questo argomento della modificazione ridotta alla parte, che comporta un Dio composto e non semplice, variabile e non immutabile, corporale e non puro pensiero. Fènelon ha un approccio un poco diverso. Certamente egli tuona contro l’idea che Dio possa modificarsi. Ma, credendo manifestatamente che il Dio di Spinoza si risolva nella facies totius universi, egli cerca di dimostrare che l’universo non potrebbe soddisfare la sua idea dell’infinitamente perfetto. Egli compara l’ipotesi dell’universo infinito al movimento interno di una quantità di acqua bollente chiusa in un recipiente: Risponde al vero dire che tutta questa acqua bolle, che è agitata, che cambia di rapporti, e che in una parola niente è più mutevole di dentro, anche se di fuori apparisse immobile. Lo stesso sarebbe di questo universo che si supporrebbe infinito: esso non potrebbe cambiare di luogo tutto intiero; ma tutti i movimenti differenti di dentro che formano tutti i rapporti, che fanno le generazioni e le corruzioni delle sostanze, sarebbero perpetui e infiniti. L’intera massa si muoverebbe senza tregua in tutte le sue parti. Ora, è evidente che un tutto che muta perpetuamente non potrebbe soddisfare l’idea che ho dell’infinita perfezione […] (Fenelon, Œuvres, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1983-1997, t.2, p.626)

Per Fénelon, il concetto di modificazione non può che comportare la visione barocca di un Dio in perpetua metamorfosi: Io vedo dunque bene che mi occorre un altro infinito per riempire questa alta idea che è in me: Niente può bastarmi se non un infinito semplice e indivisibile, immutabile e senza modificazione alcuna; in una parola, un infinito che sia uno e che sia sempre lo stesso. Ciò che non è realmente e perfettamente immutabile non è uno; poiché esso è ora una cosa, ora un’altra: così ciò non è uno stesso essere, ma più esseri successivi. (Ibidem, p.631)

Quale sia l’angolatura dell’attacco (teoria del modo, della pluralità degli attributi o dell’universo permanente nella variazione), ciò che si denuncia è un politeismo, ovvero un Dio mutevole, contradditorio, 221

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suicida. 56 La cosa è salace se si tiene conto della disinvoltura con cui un Malebranche o un Leibniz fanno loro stessi uso di retorica politeista: «Dio ci considera in Gesù Cristo come degli Dei»,57 «tanti piccoli dei sotto quel grande Dio».58 Una sola via di confutazione, molto meno sfruttata, era tuttavia plausibile: come si passa dall’unità sostanziale dell’attributo all’unicità di una sostanza comprendente tutti gli attributi? Solo Wittich, in apparenza, s’impossessa di questo problema per sostenere che lo spinozismo, sotto la chimera della sostanza unica, nasconde in realtà un Dio irriducibilmente plurale.59 Spinoza stesso aveva potuto scrivere: «Quanto agli attributi dei quali Dio consiste, non sono altro che infinite sostanze, ciascuna delle quali deve essere infinitamente perfetta».60 Si noterà che quando Oldenburg gli domanda se egli va a sfociare in un politeismo, costui si affida alla tesi dell’esistenza necessaria della sostanza, senza comprendere che il concetto non ha più la sua applicazione o la sua estensione abituale.61 A discolpa di Oldenburg, occorre tuttavia tener conto della conversione intellettuale che Spinoza gli richiedeva, anche se quest’ultimo ha cura di fornirgli subito la sua definizione di Dio dove d’altra parte non compare il nome di sostanza. Inoltre, all’inizio dell’Etica aleggia, a partire dalle proposizioni I, 6-8, un aroma di politeismo che il secondo scolio di Eth, I, 8, pur evocando Dio

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L’ingiuria consistente nel denunciare nello spinozismo una chimera nel senso stretto del termine doveva avere una lunga posterità. Essa virerà talvolta nell’ingiuria ad hominem: come Foucher de Careil che denuncia nel XIX° secolo «l’accoppiamento di Descartes e della Kabbala in un cervello vigoroso ma deforme» (citato in G. Friedmann, Leibniz et Spinoza, Paris, Gallimard, 1962, pp.20-21). 57 N.Malebranche, Entretiens sur la métaphysique et la religion, op. cit., IX, art.6. 58 Leibniz, lettera ad Arnauld del 9 ottobre 1687 in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, op. cit., vol. I, p. 180 (si tratta di menti, o anime ragionevoli). Cfr. anche Nuovo sistema in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, op. cit., vol. I, p. 191 e, segnando al contrario una reticenza, la lettera a Thomasius del 20-30 aprile 1669 in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, op. cit., vol. II, p. 49 e la Monadologia, § 60 in G.W. Leibniz, Scritti filosofici, op. cit., vol. I, p.293. 59 C. Hubert, Les premières réfutations de Spinoza. Aubert de Versé, Wittich, Lamy, Groupes des recherches spinozistes, Travaux et documents n°5, Paris, Presses de l’Université de la Sorbonne, 1994, p.75. 60 KV, I, cap.7, § 1,n.1. 61 Ep, 3. Risposta di Spinoza nella lettera 4: «La seconda proposizione non fa sorgere molti dei, ma uno soltanto, che consta di infiniti attributi». (Ep, 4)

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senza ambiguità nella sua singolarità, rafforza laddove tratta del rapporto modo/sostanza come se concernesse delle «sostanze» al plurale – ciò che non è privo di paradossalità, in uno scolio dove per altro si denunciano le fantasmagorie mitologiche. Spinoza qui avanza sul filo del rasoio: la progressione geometrica, che deve passo passo compiere la riforma del concetto tradizionale di sostanza per culminare nell’enunciato della sostanza unica (Dio, alla proposizione 11), e fare così apparire la chimera che costituiva il pluralismo delle sostanze, opera necessariamente in uno spazio logico transitorio e fluttuante, dove il filosofo, senza troppo poter anticipare sulla sua tesi finale (come nella lettera 2, egli concede al lettore solo l’indizio iniziale della definizione di Dio, alla maniera della sfinge), continua a parlare il linguaggio comune della sostanza al plurale, fittizio dal suo punto di vista, reale per il lettore.62 Molto più tardi, Tschirnhaus chiederà se l’infinità degli attributi comporti un’infinità di mondi.63 Spinoza si limiterà ad indicargli la proposizione II,7 dell’Etica, che enuncia l’identità dell’ordine e della connessione tra gli attributi. Una infinità di mondi comporterebbe un’infinità di ordini, detto altrimenti, di produzioni simultanee, come a volte lascia credere il nome abusivo di «parallelismo» che si è sovrapposto a questa dottrina a partire da Leibniz. Se così fosse – e non si vedrebbe come la logica del parallelismo potrebbe sottrarsi a questa conseguenza ultima – si dovrebbe porre non le dodici divinità del Pantheon greco, ma un’infinità di Dei dagli atti miracolosamente sincronici, implicando non si sa quale armonia prestabilita. Di tutte le dimostrazioni dell’unicità di Dio, la sola interessante è quella che non si offre come tale, che non parte dal concetto già bell’è che fatto di Dio o della sostanza unica ma che, al contrario, lo genera. Ordinariamente, Spinoza deduce l’unicità di Dio a partire dalla sua definizione nominale (essere sovranamente perfetto). Dati

62 Come scrive Lachièze-Rey: «L’ipotetica pluralità delle sostanze prime c’è, è vero, presentata in apparenza come un fatto che, se esistesse, esigerebbe una causa, ciò che sembra implicare l’intervento del principio di causalità, ma si tratta piuttosto di tentare di farci realizzare, nella posizione di questa pluralità, una operazione spirituale di cui noi saggeremo l’impossibilità in un modo così immediato come quello di ‘costruire un cerchio quadrato’ o di ‘rappresentare un elefante che passa dalla cruna di un ago’». (P. Lachièze- Rey, Les origines cartésiennes du Dieu de Spinoza, Paris, Vrin, 1950, p.250) 63 Ep, 77. La lettera è scritta da Schuller, che si esprime a nome di Tschirnhaus.

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due Dei A e B, tra le altre perfezioni, essi hanno in comune quella di essere onniscienti; dunque essi si conoscono l’un l’altro; di qui la necessità che l’idea che A forma di B sia in B, in quanto quest’ultimo, che esiste necessariamente, è egli stesso la causa della propria idea, e così reciprocamente, mancando dunque a ciascuno la perfezione che si trova nell’altro; A e B non sono dunque che falsi Dei.64 Nell’Etica il ragionamento diventa caduco, essendo acquisito – a partire da Eth, I, 5 – che non possono esserci due o più sostanze della stessa natura (dato che considerate in sé, fatta astrazione delle loro affezioni, non differirebbero in nulla), Ora le proposizioni Eth, I, 2 e Eth, I, 3 aggiungono un’altra premessa: se ci sono più sostanze, esse sono dunque di diversi attributi, non hanno niente in comune tra di loro e non possono avere un legame di causalità. L’originalità è qui65 di non rendere da subito assurda l’ipotesi del politeismo, cosa che dà al ragionamento un carattere davvero creativo: avvicinato a tale empia prospettiva, il lettore è intellettualmente costretto a orientarsi verso la sintesi degli attributi.66 Quest’ultima, come si sa, non opera che dal punto di vista dell’idea di Dio: c’è dunque un salto da un momento logico ad un altro, dalla sostanza elevata all’infinito o dall’attributo elevato alla sostanzialità, a Dio, essere assolutamente infinito che assorbe tutto l’essere e al quale appartiene necessariamente, per suo concetto, ogni attributo. Il secondo scolio II, 8, segna giustamente una pausa tra i due momenti del processo. Di tutti i corrispondenti di Spinoza, solo Hudde pare aver partico-

64 PPC, I, 11, dim. Ragionamento analogo nelle Riflessioni metafisiche, con la leggera differenza che opera su più Dei, come è stato notato sopra. Sull’origine medievale di questo ragionamento cfr. Wolfson, op. cit., pp. 79-111 e Gueroult, op. cit., t. 1: Dieu, p. 224, n. 8. 65 Come d’altra parte già in KV, I, cap. 2, dove la dimostrazione era meno elegante. 66 Lachièze-Rey va persino più lontano ipotizzando nel momento intermedio della dimostrazione un momento del pensiero stesso di Spinoza: «Sotto l’influenza della distinzione radicale stabilita da Descartes tra l’estensione e il pensiero, Spinoza non è forse stato condotto a introdurre nel suo sistema, trasponendola, una analoga distinzione tra gli attributi, e non è stato condotto ad ammettere, se non come reale, per lo meno come possibile, una pluralità di autoposizioni, formando ogni essenza infinita con la causa sui corrispondente una sorta di mondo completo e chiuso su se stesso?» (P.Lachièze-Rey, op. cit., p.98). Questa questione, come sopra è stato suggerito, non dovrebbe essere separata dalla messa in causa dell’interpretazione «parallelista» del rapporto tra attributi.

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larmente insistito per ottenere una dimostrazione spinozista dell’unicità divina. Egli ottiene una prima risposta:67 1°) la definizione di una cosa implica solo la sua essenza, non indica mai un numero, e di conseguenza l’esistenza di una cosa in più esemplari non si spiega attraverso la sua essenza ma attraverso una causa esterna; 2°) l’esistenza di Dio si consegue dalla sua stessa essenza; 3°) dunque «non se ne può concludere l’esistenza necessaria di una pluralità di Dei». Il ragionamento di Spinoza è valido, ma ha l’aria di un sofisma, dato che lui pone come premessa che la sola definizione non può decidere del numero: donde questa conclusione che, in luogo di sancire l’unicità di Dio, rifiuta solo la necessità del politeismo.68 Si comprende che Hudde abbia il sentimento di non aver ottenuto una vera risposta alla sua domanda. Spinoza propone una seconda risposta69che mette insieme gli argomenti formali dei Principi e delle Meditazioni metafisiche, ma che si presenta sotto una forma meno rozza, più problematica e, si potrebbe dire, barocca: come un doppio che si separa momentaneamente dal suo originale, per il solo gioco delle parole Dio e Essere, per reincorporarvisi subito. 1° Data la seguente definizione: Dio inteso come l’Essere di cui l’essenza implica l’esistenza, e che per conseguenza (inferenza stabilita preliminarmente) è supremamente perfetto. 2° Supponiamo ora un Essere dall’esistenza necessaria, dunque supremamente perfetto. 3° L’essenza di tale essere non può che essere quella di Dio. 4° Se essa esistesse fuori di Dio, si tratterrebbe

67

Ep, 34. In realtà, questa via di dimostrazione conduce alla tesi che «Dio è detto uno e unico soltanto impropriamente» (CM, I, 6; formula analoga nella lettera 56 a Jelles). Questa tesi ha le seguenti implicazioni: da una parte, numerare una cosa presuppone d’averla preliminarmente rapportata a un genere comune, di modo che la questione – e la stessa tesi – dell’unicità di Dio abbiano per quadro teorico la posizione virtuale di una comunità di suoi simili, e costituisca di conseguenza un non-senso; d’altra parte, si può solo dire che l’esistenza di Dio, in quanto deriva immediatamente dalla sua essenza, esclude ogni numero, dunque in particolare la pluralità. Su questa questione si rimanda allo studio di Pierre Macherey, “ Spinoza est-il moniste?” in Spinoza: puissance et ontologie, sous la direction de M. Revault d’Allonnes et de H. Rizk, Paris, Kimé, 1994. La questione nondimeno riprende un senso laddove si tratta di pensare l’identità degli attributi eterogenei, perché il problema dell’unità (e non dell’unicità) divina è allora direttamente legato all’ipotesi di una pluralità numerica, pensabile sotto il genere comune dell’attributo. 69 Ep,47. 68

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di un secondo esemplare, cosa che, per la dimostrazione precedente, è un «assurdo», in quanto supporrebbe che l’esistenza di Dio derivi da altra cosa che la sua essenza, indifferente al numero. Ma Hudde rimane perplesso: «e tuttavia dici che persiste intera la tua difficoltà (perché, cioè, non potrebbero darsi più enti esistenti per sé, ma diversi per natura, come il pensiero e l’estensione, che sono diversi, eppure possono forse sussistere in virtù della propria sufficienza?».70 Avendo a nostra disposizione solo le risposte di Spinoza, noi non possiamo sapere se la domanda gli era stata sottoposta inizialmente sotto questa forma. Se così fosse, ciò significherebbe che egli vi si era inizialmente sottratto, sostituendo alla sintesi degli attributi di Dio l’enumerazione di questi. In ogni caso Hudde mette Spinoza davanti al cuore del problema: egli non intravvede affatto la riproducibilità di Dio in più esemplari, egli domanda come si produce la sintesi dell’estensione e del pensiero e perché questi ultimi non siano degli Dei senza comunicazione. La risposta sta evidentemente nella differenza tra «l’infinito nel suo genere» e «l’assolutamente infinito». Curiosamente, nella sua lettera precedente, Spinoza aveva fatto accettare al suo corrispondente che se un essere, in quanto possiede una certa perfezione, esiste, allora necessariamente, a maggior ragione, l’essere infinitamente perfetto deve esistere; curiosamente, perché questa proposizione era contigua alla dimostrazione dell’unicità, ma non aveva alcuna ragione d’intervenirvi dato che essa preparava sottomano un’altra dimostrazione. Spinoza l’espone ora: certamente l’estensione e il pensiero esistono ciascuno per se stesso; ma pertanto, per l’argomento dell’ a maggior ragione, noi non possiamo che attribuirli a Dio che, se possiede tutte le perfezioni, deve tra le altre possedere l’estensione e il pensiero. Il ragionamento è audace dato che va il più lontano possibile nell’accettazione di una pluralità delle sostanze: questa è posta, ma nello stesso tempo assorbita. Ammettiamo il nostro problema: due verità sono poste,71 di cui

70

Ep, 48. Come sottolinea Macherey: «occorre dunque accordare ai due momenti dell’argomentazione una uguale realtà: considerata dal punto di vista della diversità (infinita) di suoi attributi, la sostanza non è una finzione, o la rappresentazione di un puro possibile, che non potrebbe essere costruito che attraverso un conteggio all’infinito, dato che un tale conteggio ha senso solo dal punto di vista dell’immaginazione. Ma c’è uno stesso contenuto, una realtà identica che si presenta come diversità, poi come unità». (P. Macherey, Hegel o Spinoza, Paris, Maspero, 1979, p.122)

71

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l’una tuttavia annulla l’altra. Tanto Spinoza confutava il politeismo cartesiano, perché si trattava di denunciare la dissoluzione schizofrenica del Dio unico mal concepito, tanto egli non confuta il politeismo degli dei minori, ma lo cancella con la sola posizione del Dio unico ben compreso: sussunzione necessaria di tutti gli infiniti di un genere determinato sotto l’assolutamente infinito. L’attributo non è un modo, esso esiste per sé. Il concetto di estensione si forma per esempio, senza quello di Dio, essa è dunque sostanza; la sua essenza implica l’esistenza, essa è dunque causa di sé. L’estensione non deriva da nulla, essa è assolutamente causa prima, ma laddove pure Dio non può che essere posto, il suo concetto assorbe quello di estensione. Dio, si potrebbe dire, diventa il soggetto di una molteplicità di sostanze; ma ciò non vorrebbe dire nulla, dato che la posizione di Dio annulla la molteplicità seppur irrefutabile delle sostanze.72 Se noi dobbiamo ammettere qui un salto logico, dobbiamo concedere anche che non vi è un reale problema di pluralismo, a meno di interrogare la possibilità stessa del concetto di Dio, come farà Leibniz.73

72 Come scrive Gueroult: «l’unicità implicata necessariamente nel concetto di Dio, non essendo possibile senza questa unione, la impone di conseguenza a due sostanze che, considerate in se stesse, nel loro concetto, gli sono perfettamente estranee» (M. Gueroult, op. cit., t.1, Dieu, p.226, sott. di Gueroult). Gueroult conclude a giusto titolo che «l’unicità propria alla natura infinitamente infinita di Dio è il principio dell’unità in lui di tutte le sostanze che lo costituiscono» (Ibidem, sott. di Gueroult), sebbene che l’errore sarebbe di cercare di contro l’unicità di Dio in una impotenza delle sostanze a esistere le une senza le altre. Ed egli ipotizza plausibilmente che Hudde, vista la risposta ultima di Spinoza nella lettera 48, attendeva una dimostrazione di questo genere («spero di cogliere chiaramente il senso in cui tu l’intendi» scrive Spinoza). In modo generale, Gueroult riassume eccellentemente il problema: «Si cercava, in effetti, vanamente in loro < le sostanze> una qualunque cosa che richiami la loro inseparabilità o la loro unità. La loro inconciliabile diversità implica, al contrario, la loro reciproca indipendenza. Dopo averle abilitate come ingredienti possibili di Dio, stabilendo la loro autosufficienza e la loro causalità di sé, Spinoza non le rapportava a Dio con l’argomento della loro insufficienza e della loro impotenza. A meno di mancare della più elementare logica, bisognava che deludesse il suo interlocutore e che dimostrasse l’unicità delle sostanze, non partendo da queste, ma concependo che l’unicità è loro imposta da fuori, se non malgrado loro non di meno indipendentemente da loro, dall’essere infinitamente infinito la cui natura esige che esse siano unite in lui ». (Ibidem, p.227) 73 La questione, come nota Friedmann, sarà allora di provare: «la compatibilità delle perfezioni, in numero infinito, che Dio implica» (G. Friedmann, op. cit., p.131).

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Ritorniamo al falso problema sollevato dai primi confutatori. La contestazione sana del monoteismo spinoziano non può poggiare che sulla irriducibile dualità degli approcci che ne caratterizzano la fondazione e sull’eventuale insufficienza della loro articolazione: problema classico della conciliazione della distinzione reale e dell’identità sostanziale degli attributi.74 Non tocca a noi risolvere la questione: noi avevamo solo bisogno di mostrare lo spostamento tra il modo in cui i primi confutatori hanno creduto di poter rivolgere l’arma spinoziana contro se stessa (critica di una concezione pluralista e trasformista di Dio dovuta ad antropomorfismo, inizialmente avanzata da Spinoza nei confronti dei suoi predecessori e in particolare nei confronti di Descartes) e il modo in cui Spinoza stesso ha potuto ritrovare sul suo terreno il problema del pluralismo e del politeismo.

74

Lachièze-Rey giunge in tal senso ad un disaccordo definitivo, nello spinozismo, tra un «metodo regressivo analitico» ereditato da Descartes, fondato sull’implicanza modo-sostanziale e universo come sistema di essenze, e un «metodo progressivo» sintetico, fondato sull’intuizione propriamente spinoziana della causalità immanente (P. Lachièze-Rey, op. cit., conclusione). Per un’esposizione del dibattito in seno alla scuola tedesca cfr. G. Huan, Le Dieu de Spinoza, Arras, 1913, cap. III: riassumendo, 1° Hegel e Erdmann propendono per un’interpretazione soggettivistica degli attributi, stimando che se ogni attributo è in sé e concepito per sé, si ottiene una diversità irriducibile a qualsiasi sintesi, ma essi si scontrano con l’obiezione che l’intelletto infinito non può da sé solo produrre tale eterogeneità; 2° Herder poi Fischer fanno l’ipotesi di una pluralità di forze, tentando così di oltrepassare l’alternativa del formalismo (rinuncia alla realtà degli attributi) e del pluralismo (rinuncia all’unità della sostanza), ma si espongono inevitabilmente all’accusa di arbitrarietà; 3° Camerer considera la questione indecidibile, giudicando la contraddizione insanabile all’interno dello spinozismo; 4° a partire dalle suggestioni di Zulawski e di Windelband, e senza peraltro pretendere di risolvere completamente la questione, Huan stima che la diversità degli attributi è contemporanea all’azione di Dio (modificazione).

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7. IL SOGNO TRASFORMISTA DELLA MONARCHIA ASSOLUTA Se la fittizia attribuzione a Dio di una potenza regale ha tali conseguenze, non accade che i re a loro volta abbiano a che fare con il politeismo e con la metamorfosi? L’appello a non confondere la potenza di Dio e la potenza dei re non si dovrà leggere nei due sensi? Quando leggiamo la frase nell’altro senso noi lasciamo il terreno della metafisica per quello dell’attualità. Spinoza redige l’Etica nel momento in cui Luigi XIV estende progressivamente la sua egemonia sull’Europa, ottenendo assai presto la preminenza sui sovrani di Spagna, di Inghilterra e sull’Imperatore, per arrivare in più a scontrarsi ben presto contro la sola resistenza delle Provincie Unite e particolarmente dell’Olanda. Oltre al suo calvinismo dominante e alla sua insolente riuscita economica, l’Olanda rappresenta in Europa l’alterità politica, rifugio di tutti i dissidenti e di tutte le sette religiose; è qui anche che si stampano libelli e giornali introdotti clandestinamente nel regno di Francia.75 Nello stesso tempo, il regime repubblicano è lui stesso minacciato dall’interno dal principe d’Orange. Luigi XIV, tuttavia poco favorevole a una restaurazione orangista per interesse diplomatico, conduce la spedizione punitiva76del 1672 che dà il colpo di grazia all’esperienza repubblicana.77 È allora che Spinoza, sollecitato dal diplomatico Stouppe, declina l’offerta di una borsa regia.78

75

«La loro insolenza mi pungeva sul vivo spronandomi a rivolgere tutte le mie forze contro questa nazione altera e ingrata», scriverà Luigi XIV nelle sue Memoires (citato in L. Mugnier-Pollet, La philosophie politique de Spinoza, Paris, Vrin, 1976, p.176). 76 Le Provincie Unite, sentendosi minacciate, avevano ispirato la recente Triplice Alleanza antifrancese alla quale prendevano parte L’Inghilterra e la Svezia. Ma all’ultimo momento Luigi XIV era riuscito a subornare l’Inghilterra promettendo a Carlo II una ricompensa territoriale e un aiuto per ristabilire l’assolutismo e il cattolicesimo nel suo regno. 77 Tutti gli avvertimenti del Trattato politico contro il catastrofico trasferimento dell’intera sovranità a un capo militare in una situazione di pericolo nazionale rinviano con evidenza a tale recente evento, e hanno come sfondo o come griglia di decifrazione gli ultimi decenni della repubblica romana (il prestigio di uno Scipione, la dittatura di Silla, poi Cesare…). Cfr. TP, VII, 5 ; TP, VII, 17; TP, VIII, 9; TP, X, 9. 78 Colerus riporta la testimonianza dei coniugi Van der Spyck, presso cui Spinoza era alloggiato. Egli avrebbe detto a loro, dopo la famosa visita presso l’occupante francese, che «avendo avuto tuttavia uno scambio di opinioni con il signor

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Tutto accade dunque come se la frase sulla potenza di Dio e la potenza dei re avesse come sfondo l’attualità stessa: il rapporto è troppo forte perché si tratti di una semplice coincidenza.79 Sembra d’altronde che il confronto non possa aver senso se non perché i re, nell’immaginazione del volgo, sono già distinti come degli esseri di eccezione, al limite dell’umano. Ma l’osservazione resterebbe convincente per metà se Spinoza non avesse egli stesso rovesciato la sua formula.

1. La divinizzazione dei re Se noi ci rivolgiamo verso lo studio della monarchia nel Trattato politico (capp.VI-VII), vediamo che tale studio si effettua in due tempi: prima l’esposizione di una costituzione valida (fundamenta), poi la sua ripresa, in modo dimostrativo. Ora, nel momento in cui l’autore annuncia, all’inizio del capitolo VII, che egli va a «dimostrare con ordine» ciò che precedentemente non ha fatto che «enunciare», Spinoza comincia con la seguente osservazione: «I re, infatti, non sono dei […]» (egli veniva dal dire a contrario: «I Persiani veneravano come dei i loro re […]»). Il tema era già presente nel Trattato teologico-politico. La confusione del regale e del divino non è d’altra parte presente in filigrana nel titolo stesso? Si sa che l’intenzione dell’opera è di combattere ogni intromissione del teologico nell’ambito del politico, ogni intrusione del clero negli affari dello Stato, contro le pretese teocratiche del Concistoro calvinista. Ora, della massa timorosa e superstiziosa degli uomini, la prefazione dice che «accade perciò che essa sia indotta facilmente, con la scusa che si tratti di religione, a venerare come divinità i propri re, e poi a esecrarli e a detestarli come la pestilenza più diffusa del genere umano». Seguono quindi le famose proposizioni sull’assolutismo regio:

Stoupa, questi gli aveva promesso di volersi adoperare per fargli ottenere un tale trattamento da parte del re tramite le sue raccomandazioni; ciò che però fu da lui cortesemente rifiutato poiché non intendeva dedicare nessuno dei suoi scritti al re di Francia». (J. Colerus, J.–M. Lucas, Le vite di Spinoza, op. cit., p.80) 79 Pierre Macherey suggerisce già questo rapporto all’attualità, in una nota che lascia persino intravedere lo scambio tra il Divino e il Regale, attraverso cui, nel XVII° secolo, si tende a fare di Dio un re e del re un dio. (P. Macherey, op. cit., vol.2, p.61 e n.2)

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Se l’arcano più grande del regime monarchico e il suo più grande interesse è quello di ingannare gli uomini e mascherare, con lo specioso nome di religione, la paura con la quale tenere a freno i sudditi, perché combattano per la propria servitù come se fosse la propria salvezza e non ritengano una vergogna, ma il massimo onore, perdere sangue e anima per il trionfo di un uomo solo, in una libera repubblica, al contrario, non si potrebbe escogitare né tentare nulla di più infelice: infatti ripugna assolutamente alla libertà di tutti riempire a forza con i pregiudizi, o coartare in qualche modo, la libera capacità di giudizio di ognuno. (TTP, pref. [7])

Il lettore olandese del 1670 non poteva che pensare al giovane re di Francia che Racine comparava già qualche anno prima ad Alessandro:80 il Trattato teologico-politico è scritto durante i preparativi militari, offensivi sul versante francese, difensivi su quello olandese (Luigi XIV ha già conquistato le Fiandre). Negli anni successivi l’invasione, le note insistenti del Trattato politico sulla legittimità esclusivamente difensiva delle guerre81 rinvieranno non solo al bellicismo antispagnolo della Casa d’Orange ma all’aggressività della Francia di cui l’Olanda era ormai la vittima privilegiata (Spinoza vi evocherà nominalmente Luigi XIV nella sua critica ai matrimoni fautori di guerra):82 la monarchia assoluta è pia e bellicista per natura, sono queste le due facce della sua mistificazione. La nota iniziale della prefazione si ripresenta nel capitolo XVII, che fornisce questa volta due esempi: l’apoteosi di Augusto la divinizzazione dei re persiani (come più tardi nel Trattato politico), infine Alessandro. Se l’accostamento di Luigi XIV e di Alessandro, tende all’epoca a diventare un luogo comune,83 il Trattato teologico-politico offre del conquistatore greco un’immagine per lo meno complessa: superstizioso come l’inferno,84 sebbene uomo astuto.85

80

Racine, Alessandro il Grande, dedica. «La guerra si dovrà portare solo per amore della pace […]». (TP, VI, 35); «Non c’è dubbio che i consiglieri, in larga maggioranza, non avranno mai il proposito di fare la guerra […]». (TP, VII, 7), ecc. 82 TP, VII; 24: l’allusione è rivolta alla Guerra di Devoluzione (1667- 1668), con la quale la Francia, alla morte del padre di Maria Teresa, fece valere i suoi diritti sui Paesi Bassi spagnoli, La pace di Aix-la-Chapelle, che ne risulta nel 1668, suonò come un campanello d’allarme in tutta Europa, nel momento stesso in cui Spinoza redigeva il Trattato teologico-politico. 83 Dopo Racine, Mignard dipinge un ritratto del re come Alessandro, ecc. 84 TTP, pref. [4]. 85 TTP, XVII [6]. 81

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L’idea è la seguente: «per garantire dunque la propria sicurezza, i re che un tempo usurparono il potere si sforzavano di far credere che la loro stirpe discendesse dagli dei immortali. Pensavano che i sudditi e tutti gli altri avrebbero sopportato volentieri il loro dominio e si sarebbero facilmente sottomessi, solo che non li avessero considerati come uguali, ma come dei». Ma viene in conclusione l’osservazione seguente: Altri, invece, riuscirono più facilmente a persuadere che la loro maestà fosse sacra e rivestisse in terra il ruolo di Dio, e che non risultasse dal suffragio e dal consenso degli uomini, ma si conservasse e fosse tutelata dalla singolare provvidenza e dall’ausilio di Dio. E i monarchi, per la sicurezza del loro Stato, escogitarono molte cose di questo tipo. Le lascerò tutte da parte[…].

Spinoza fa allusione alla deviazione gallicana della dottrina teologica tradizionale dell’origine divina di ogni autorità (secondo la formula paolina: Non est potestas nisi a Deo). Tale dottrina tradizionale del diritto divino è del resto ugualmente ricusata in nome della sovranità popolare: Spinoza sostiene che il diritto divino non esiste propriamente parlando che in funzione di un trasferimento di sovranità dal popolo a Dio, instaurando la teocrazia, 86 e concedendo validità alla formula Non est potestas nisi a Deo solo nel quadro della sua interpretazione immanentista87 – due idee evidentemente mostruose per un teologo. Ma, nel testo citato, Spinoza considera più precisamente la versione monarchica del diritto divino, detto altrimenti la concezione assolutista del re vicario di Dio. L’attualità si segnala dunque di nuovo, dato che tale concezione, già adottata dai re inglesi, s’impone definitivamente con la propria rivendicazione in Francia sotto il regno di Luigi XIV: essa significa che il potere si trasmette direttamente da Dio, contrariamente alla concezione teologica originale che afferma solamente la natura divina della sovranità ma lascia agli uomini la cura di determinare la forma del suo esercizio, implicando di conseguenza, nel caso della monarchia, un consenso popolare iniziale (contratto primitivo). Questa sparizione della mediazione elettiva comporta una sacralizzazione della persona stessa del re e riconduce tendenzialmente all’antica pratica dell’apoteosi.88

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TTP, XVI [19]. Cfr. TP, II, 2: «la potenza delle cose naturali, per la quale esistono e quindi agiscono, potrà essere soltanto la stessa potenza eterna di Dio». Da questo punto di vista, origine divina della potestas e sovranità popolare si confondono. 88 Tenendo il suo primo letto di giustizia (all’età di quattro anni e mezzo!), Luigi 87

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La figura del Grande Re potrebbe dunque giocare un certo ruolo in filigrana nel testo di Spinoza.89 Appartenenti alla stessa generazione, iniziano la loro carriera nello stesso anno 1661, l’uno attraverso la presa del potere, l’altro attraverso un commentario del grande pensiero innovatore dell’epoca, si direbbero due punti luminosi in un perfetto rapporto di opposizione: l’uomo-Sole e l’esperto in lenti astronomiche. È probabile che il re, malgrado gli approcci ingenui di Colbert e la curiosità del Grand Condé, sia restato indifferente a Spinoza, anche se Schuller assicura che il Trattato teologico politico è in Francia «stimato da molti».90 È sufficiente dire che l’Etica e le due opere politiche lo implichino in quanto incarnazione vivente della figura da demistificare. È sufficiente inoltre che il lungo regno si sia concluso in conformità al pronostico del Trattato politico a proposito dei regimi autocratici: guerra, miseria, controllo, intolleranza – una società trasformata in «deserto».91

2. Assolutismo monarchico e metamorfosi Potrebbe quindi essere che ci fosse un rapporto tra l’assolutismo monarchico e la metamorfosi? Nel caso di Luigi XIV, in modo quanto mai evidente. 1° Tra tutti i libri di poesia classica, il più apprezzato nel XVII°

XIV si sente dire: «Lo scranno di Vostra Maestà rappresenta per noi il trono di Dio vivente», gli ordini del regno vi rendono onore e rispetto «come a una divinità visibile» (G. Lacour-Gayet, L’éducation politique de Louis XIV, Paris, Hachette, 1923, p.263). Un po’ più tardi, in Le catéchisme royal di Antoine Godeau, nel 1650: «Voi siete l’immagine visibile di Dio in tutta la sua estensione… Che vostra maestà si sovvenga ad ogni istante che ella è un vice-dio» (citato in J.-P. Néraudau, L’Olympe du Roi-Soleil. Mythologie et idéologie royale au Grand Siécle, Paris, Les Belles Lettres, 1986, p.14). 89 Questa suggestione si fregia anche di un aneddoto simbolico: Van den Enden, antico maestro di Spinoza, s’installa nella sua vecchiaia a Parigi, nel quartiere di Picpus, per organizzarvi forse un attentato contro il re; lo paga con la sua propria vita nel 1674. Cfr. Paul Vernière, Spinoza et la pensée française avant la revolution, Paris, PUF, 1954; Genéve, Slatkine Reprints, 1979,pp.91 e sgg.) Di qui proviene la leggenda di un viaggio di Spinoza in Francia e di minacce di imprigionamento alla Bastiglia. Verniere si domanda se Van den Enden, sotto tortura, abbia nominato Spinoza. 90 Ep, 81. Le ricerche di Paul Vernière conducono a esiti più scettici. 91 TP, V, 4 e TP, VI, 4.

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secolo è Le metamorfosi di Ovidio. Lo si apprezza particolarmente a Versailles, la cui decorazione vi si ispira tutta, sotto la ferula autoritaria di Le Brun. Ma più ancora, eccedendo ogni piano, Versailles testimonia una sottomissione dell’architettura stessa, pietra, marmo, fino al metallo dei mobili, al principio della metamorfosi: «non c’è un luogo a Versailles che non sia stato modificato dieci volte», dice la principessa Palatina.92 A volte ci si dimentica che il castello esisteva già, e che l’intervento di Luigi XIV è consistito, non nel farlo costruire, bensì nel metterlo in movimento nel medesimo tempo in cui egli affermava la sua nuova concezione del potere di uno solo: le trasformazioni di Versailles cominciano con l’assolutismo, nel 1661, e non cessarono più fino alla Rivoluzione. Sotto lo stesso regno di Luigi XIV, ci sono i segni della fortuna e della volontà regale che rimandano un’immagine del monarca di una molteplicità irriducibile, nel momento esatto in cui egli si vuole assoluto.93 Questa estetica ufficiale, che si nutre di Ovidio, non ha che uno scopo: servire la gloria del re, trovare la simbolica più adeguata alla monarchia assoluta. 2° L’ideologia assolutista consiste nella trasformazione favolosa del reale. Luigi XIV non è solo comparato a un Dio, ma a tutti gli dei. Ecco un esempio di elogio: Il vostro impero, sire, sussisterà eternamente, come il vostro augusto nome; sebbene gli dei si trovino tutti oggi nel vostro palazzo incantato, e la loro presenza lo renda con la Vostra Maestà più considerabile del Campidoglio, ciascuno di loro si prodiga ad assistermi e ad abbellire questo Tempio, di cui voi sarete sempre il più bel ornamento. Versailles è ora un Panthe-

92

Citato in Joël Cornette, “Le palais du plus grand roi du monde” in Versailles, le pouvoir et la pierre, Les collections de l’Histoire, n°2, juillet 1998, p.9. Cfr. anche Ph. Beaussant, Versailles Opéra, Paris, Gallimard. 1981, pp. 69-70: «prima di Luigi XIV, ci furono già tre Versailles. Con lui, ci sarà una metamorfosi permanente, una trasformazione incessante – Le Versailles di Le Vau, le Versailles di Mansart, di Robert de Cotte -, un perpetuo cantiere di cui si lamentavano amaramente i cortigiani tartassati». 93 «Il castello fu, in effetti, in perpetua metamorfosi, e le tappe, le trasformazioni, i rifacimenti di questo regale cantiere traducono le trasformazioni, i combaciamenti estetici e alcune delle sfide politiche che segnarono il Grande Secolo. Le Versailles dicono molto di più dell’immagine troppo fissa del ‘re della gloria’ rinviata dai riflessi e dalle luci dei grandi specchi e dei lampadari di cristallo della galleria degli Specchi che ogni sera catturano i raggi del sole al tramonto». (J. Cornette, op. cit.)

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on; l’antico fu costruito da Agrippa che lo dedicò a Giove il Vendicatore: quanto a me, Sire, non ho tema di passare per adulatore né per profano, dedicandovi il nuovo come all’Augusto Apollo di Francia… Poco ci manca, Sire, che io chiami Vostra Maestà il Nuovo Pantheon, dato che la sua sacra persona racchiude le perfezioni delle divinità del paganesimo, l’intelligenza di Saturno, la potenza di Giove, il valore di Marte, la luce di Apollo. (Guyonnet de Vetron, Le Nouveau Panthéon, ou le rapport des divinités du paganisme, des héros de l’Antiquité et des Princes surnommés grands aux vertus et aux actions de Louis-Le-Grand, Paris, 1686.)94

Il re è tutti gli dei insieme. Pantheon lui solo. Ma su un altro piano, incarnando Giove, egli costituisce attorno a lui, a Versailles, un Pantheon. Molti storici hanno sottolineato questa propensione a circondarsi di piccoli dei secondari: un reuccio assoluto per la pittura (Le Brun), un altro per le belle lettere (Boileau), un terzo per la musica (Lully). Questo sogno pantheonico egli lo proietta anche, attraverso la diplomazia, sull’intera Europa, sostenendo ovunque lo sviluppo della monarchia assoluta, purché i sovrani a lui si alleassero, a cominciare dal re spagnolo, dall’inglese e, ben inteso, dall’imperatore. 3° La vita stessa di questo re è punteggiata da capovolgimenti spettacolari che si avvicinano a delle metamorfosi.95 Quello della fine degli anni 1650 quando il sovrano suonatore di chitarra e amante della caccia, politicamente irresponsabile, si muta a sorpresa generale in politico inventivo e metodico; quella degli anni 1680, quando il padrone dell’Europa, barocco e libertino, passa alla devozione. 4° Fino al 1670, il balletto fu il divertimento preferito di Luigi XIV. Andava in scena egli stesso, non importa in quale ruolo: Apollo senza dubbio, ma anche Ercole, Alessandro, qualche imperatore romano e ancora un pastore, un folle, un Moro e persino ruoli femminili. Queste

94

Citato in J.-P. Néraudau, op. cit., p. 65. L’autore parla di un «monoteismo pagano»; noi saremmo inclini per quanto ci concerne a parlare di un politeismo cristiano…Già Augusto si compiaceva di moltiplicare i suoi legami divini: discendente da Venere, si faceva volentieri rappresentare come Mercurio, come Apollo, come Giove (tenuta trionfale). Cfr. P. M. Martin, L’idée de royauté à Rome, 2 voll., Clermont-Ferrand, Adosa, 1998, pp.426-434. L’autore avanza un’interessante idea: «Prima di tutto, occorreva completare l’opera di riconciliazione degli uomini attraverso quella degli dei» (pp. 426-427). Quindi, Augusto s’impegna a ricostituire il Pantheon esploso: Giunone, Minerva, Nettuno, infine Bacco, con il quale Antonio s’era identificato, sono riabilitati. 95 Cfr. a questo proposito P. Beaussant, op. cit., pp.54 e segg.

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le tante successive trasfigurazioni del corpo del re: ciò che in letteratura e in pittura non è che metafora diviene qui metamorfosi vivente.96 Quest’ultima coinvolge beninteso il contenuto stesso dei balletti, che attingono molto dalla mitologia. Il balletto ha infine un noto ruolo politico: il re assegna ad ognuno il suo ruolo indicando chiaramente ai nobili la loro trasformazione in cortigiani. Sotto ogni aspetto, Luigi XIV è la grande incarnazione concreta della trasformazione, quella in cui si condensano tutti gli elementi del problema sollevato da Spinoza. Durante la vita di quest’ultimo, l’immagine mitologica del re conobbe un vivo successo. Essa conoscerà poi una crisi per diverse ragioni: degenera in luogo comune; ad alcuni ripugna questo uso politico della mitologia, o molto semplicemente la divinizzazione dell’autorità regale; infine ad altri sembra ancora troppo debole per esprimere il miracolo che si realizza nel corpo del re. Poiché la metamorfosi è inerente al monarca assoluto non solamente perché egli è ritenuto unire in sé tutti i talenti, ma anche e soprattutto per il doppio corpo che fa di lui un’altra Incarnazione, quella della nazione. Ora questo mistero, questo miracolo permanente sembra molto al di là di ogni raffigurazione.97

96

Cfr. J. – P. Néraudau, op. cit., p.119. E P. Beaussant, op. cit., p.65: «Quindi, Les Plaisirs de l’Isle enchantée sono un teatro, ma non si tratta di una rappresentazione. È una trasmutazione, una translazione in scala epica e mitica del personaggio reale e del suo entourage». 97 Il gusto monarchico per Ovidio invita infine a interrogarsi su un eventuale rapporto tra Le metamorfosi e la politica. Questa indagine va oltre il nostro intento, ma occorre notare che Spinoza ha lasciato due indizi, poco concludenti, è vero: la strana definizione di Ovidio autore di «cose politiche», che a volte viene considerato un lapsus (nota del traduttore: nella traduzione del TTP di Omero Proietti, qui utilizzata, si parla infatti di Ovidio che scrive di «cose poetiche», TTP, VII [15]), e il riferimento alla divinizzazione di Augusto (TTP, XVII [6]). Ricordiamo la collera di Augusto e la sentenza di confino che s’abbatte per sempre sul poeta nell’anno 8, al momento in cui conclude Le metamorfosi. Senza soffermarsi sulle ragioni di tale sanzione, che non saranno mai pienamente delucidate, è possibile considerare Ovidio come un testimone particolarmente perspicace della grande mistificazione politica di cui egli è contemporaneo: l’instaurazione progressiva di un regime monarchico sotto la copertura di una restaurazione repubblicana (il Principato). Gli ultimi versi de Le metamorfosi evocano precisamente l’avvento di Augusto (Spinoza, da parte sua, vi fa allusione alla fine del capitolo XVIII del TTP). Come scrive Néraudau: «Ovidio colloca la metamorfosi di Augusto in linea con altre metamorfosi che sono incredibili e fa entrare il potere del Principe nel mondo agitato che crea la sua poesia. Egli spinge all’estremo le ambizioni mitologiche del potere […]». (J. –P. Néraudau, Préface à Ovidio, Les mètamorphoses, tr. fr. di G. Lafaye, Paris, Gallimard, 1992, pp.19-21)

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Il rapporto tra monarchia e trasformazione deve ora essere verificato nelle analisi che Spinoza consacra a tale regime. Queste, come vedremo, non smettono di denunciare una chimera politica, un regime che non esiste se non nel sogno di un sovrano e di una popolazione

3. L’assolutismo regio secondo Spinoza: una quintupla chimera Il richiamo che «i re non sono dei» non è secondario, e Spinoza non lo pone certo invano all’inizio alla sua dimostrazione dei fondamenti ottimali del regime monarchico, nel Trattato politico. L’originalità del passo è attualmente ben conosciuta: da una parte, tutta la dimostrazione riposa sull’impossibilità di fatto e di diritto dell’assolutismo regio,98 e ne rivela la menzogna: la realtà d’un tale regime implicherebbe in effetti che i re fossero dei; d’altra parte, è precisamente in nome di una concezione assolutista della sovranità che Spinoza conduce la demistificazione ed è essa che orienta lo sforzo di ottimizzazione verso una costituzione agli antipodi dell’assolutismo regio.99 Vedremo infine che tutta l’analisi della monarchia è attraversata da un altro tema argomentativo che ne è il contrappunto: non più l’impossibilità del regno di un solo e il suo difetto di assolutezza, ma la sua deriva tirannica e barbara, avatàr politico del «sogno ad occhi aperti» che è la condizione più comune degli uomini, niente meno per l’appunto della tendenza trionfante in Europa – Olanda compresa – al momento in cui Spinoza scrive. Chi può credere che un uomo possa tenersi al di sopra delle passioni umane e che abbia di vista in ogni circostanza, solo il bene comune? «Nessuno infatti è così vigile che talvolta non sia preso dal sonno», ossia che finisca per confondere il privato e il pubblico.100 Lo studio della monarchia comporta due parti, il capitolo VI e il capitolo VII. I tre primi paragrafi del capitolo VI hanno un incerto statuto: essi contengono delle osservazioni generali che sembrano protrarre i capitoli precedenti, e tuttavia Spinoza scivola lentamente verso il caso della monarchia, come appare nel mezzo del § 3. Crediamo che i quattro primi paragrafi formino una introduzione specifica al problema

98

Cfr. J. Préposiet, Spinoza et la liberté des hommes, Paris, Gallimard, 1967, pp.232-233; A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., p.404. 99 Cfr. E. Giancotti, “La teoria dell’assolutismo in Hobbes e in Spinoza”, in Studia spinoziana, I, 1985, pp.231-255. 100 TP, VI, 3.

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della monarchia, un insieme di premesse che tratteggiano un quadro problematico che il lettore dovrà tenere a mente lungo l’intero studio: è vero che la monarchia sia la soluzione per eccellenza del problema politico? Queste premesse possono essere ricondotte a due principali. 1° La moltitudine, mossa dalla sua paura della solitudine, desidera lo stato civile e l’ottiene solo a condizione di lasciarsi condurre «come da una sola mente» (una veluti mente).101 Giungere alla conclusione che la soluzione è nel regime di uno solo, vorrebbe dire riferirsi in modo indebito all’esperienza che mostra come la perennità delle monarchie assolute si paga con una pseudo-concordia ottenuta con l’intimidazione, con una pace che è solo lo stare «senza guerra» (belli privatio), e che merita in realtà i nomi di «barbarie» e «solitudine».102 La monarchia appare dunque implicitamente come una soluzione politica contradditoria: fuggire la solitudine per un’altra forma di solitudine. 2° Essendo gli uomini sottomessi alle passioni, da una parte la condizione sotto la quale possono «convenire» è la formazione di un «affetto comune»,103 d’altra parte non è realistico affidare la cura della «salute comune» a un uomo solo (monarchia assoluta), attendendo da lui un’abnegazione di cui nessuno può considerarsi capace.104 Inoltre, questo stato di passione spiega che la propensione alle discordie sia forte quanto il desiderio di concordia, donde una perpetua tensione, forse inevitabile,105 che si risolve all’occorrenza con un rovesciamento dell’autorità che è meno la dissoluzione pura e semplice dello Stato che la morte di una forma politica a profitto di un’altra forma (come la morte individuale, nell’Etica, non è necessariamente una decomposizione cadaverica ma forse una trasformazione).106 Perché sopraggiunge qui il tema della trasformazione? Per comprenderlo, basta considerare gli esempi degli affetti comuni atti a unire gli uomini: la speranza e la paura, i quali – tutto il Trattato teologico politico lo mostra – sono stimolo all’obbedienza, insieme anche al «desiderio

101

TP, VI,1. TP, VI, 4 e TP IV, 4. 103 TP, VI, 1. 104 TP, VI, 3. Alla fine del precedente capitolo, Spinoza spiegava che l’intenzione di Machiavelli ne Il Principe era forse di «mostrare quanto una moltitudine libera si deve guardare dall’affidare la sua salvezza ad un solo e unico individuo […]». (TP,V, 7) 105 TP, VI, 2 e TP, VI, 4. 106 TP, VI, 2. 102

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di vendicare qualche offesa fatta a tutti», in diretto rapporto con il sentimento di «indignazione» che anima le insurrezioni contro il tiranno.107 Si noterà che la rivolta, come nel caso degli adolescenti, è per Spinoza una condotta vendicativa, triste, impotente, che tuttavia non ha alcun senso condannare in quanto essa promana da individui spinti al limite di ciò che la loro natura può sopportare da individui «dannosi» che sono falsi educatori – genitori, predicatori, tiranni («il volgo non ha nulla di moderato, fa spavento se non ha paura: difatti non è facile conciliare schiavitù e libertà»108). Posto davanti all’alternativa tra negazione di sé e rivolta, tale negativo soprassalto è l’ultimo segno della salute del conatus. Il regime monarchico, laddove si vuole regno assoluto di un solo, è dunque immediatamente posto sotto i due segni della contraddizione e della trasformazione. Ora vediamo sotto quali aspetti si manifesta tale doppia tendenza.

4. Prima chimera: dietro al re, i favoriti e la corte Spinoza insiste per prima cosa sull’impossibilità per il monarca di regnare da solo, di qui il paradosso intrinseco della monarchia. La questione non è solo quella della razionalità del governo, ma della sua possibilità pratica. «E certo sbaglia assai chi crede che possa accadere l’impossibile: che uno solo detenga il potere sovrano di uno Stato». 109 Il peso dello Stato oltrepassa in tutti gli aspetti la potenza di un solo uomo: pensare in ogni istante ad ogni cosa, essere competente su tutto, farsi obbedire da tutti. Per questo, dopo che il bene comune è stato «affida-

107

TP, III, 9: «In terzo luogo si ponga questa considerazione: una norma che provoca l’indignazione della maggioranza dei cittadini ha poco a che fare con il diritto di una società civile. È infatti certo che gli uomini, per impulso naturale, ricercano l’unità o per una speranza o un timore di tutti, o per il desiderio di vendicare qualche offesa fatta a tutti». Il comune timore rimanda qui alla solitudine dello stato di natura, e si noterà che Spinoza, nel Trattato teologico-politico, XVI, [8] ((G, III, 33, 177), definiva l’atto contrattuale negli stessi termini: in unum conspirare. Sull’indignazione cfr. ugualmente TP, IV, 4 ; Eth III, 22 e Eth, III, def. aff.20. 108 TP, VII, 27. Spinoza aggiunge che la pratica del segreto di Stato non fa nulla per permettere alle genti di elevare il proprio livello di giudizio politico. 109 TP, VI, 5.

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to alla sola lealtà di qualche individuo» 110(absolute commitatur), questo uomo deve circondarsi di generali, di consiglieri, di amici «ai quali affida la propria e la salvezza di tutti» 111 Si tratta dunque di un secondo trasferimento di sovranità, attraverso cui il re, tenendo in disparte la moltitudine degli uomini, tradisce la fede o la promessa giurata (fidei), e si rimette a sua volta alla lealtà (fide) di un piccolo numero, capace di trattare gli affari e di fare obbedire la massa. 112 «Così, lo Stato che tutti credono senz’altro monarchico, è nei fatti e in realtà aristocratico, non in modo manifesto, ma latente, e perciò pessimo». 113 Appena formato, il regime è immediatamente e per forza di cose trasformato, secondo la logica della metamorfosi mitologica: sotto la forma, un’altra forma. E per un gioco d’incastro abbastanza barocco, può darsi persino che il re abbia a temere un terzo trasferimento di potere, ad opera questa volta del suo entourage: «Quanto più, dunque, i consiglieri saranno pochi di numero e quindi più potenti, tanto maggiore incomberà sul re il pericolo che essi trasferiscano il suo potere ad un altro. […] Si aggiunga che è facilissimo trasferire ad un altro il potere che si è tutto concentrato nelle mani di un solo individuo». 114 In effetti, la logica delle passioni vuole che il regno di un solo susciti invidia, e che il re, mentre deve fatalmente affidarsi, nel medesimo tempo diffida di tutti. Questa contraddizione pone il sedicente sovrano in un rapporto di reciproca paura con i suoi sottoposti e necessariamente lo distrae dalla considerazione del bene comune, impegnandolo a «tendere tranelli» e a fare del segreto di Stato il principio della

110

TP, VI, 3. Sull’impossibilità per un solo uomo di pensare simultaneamente a tutti gli affari e di essere competente su tutto cfr., rispettivamente, TP, VII, 3 e TP, VII, 5. 111 TP, VI, 5. 112 TP, VI, 3. Sulla necessità nella quale si trova il re di contare sulla lealtà dei suoi soldati, cfr. TP, VII, 12. La fides è egualmente evocata a proposito del trasferimento assoluto di potere a un capo militare (TP, VII, 17). 113 TP, VI, 5. Cfr. E. Balibar, Spinoza et la politique, Paris, PUF, 1985, p.87. 114 TP, VII, 14. Spinoza aggiunge, citando Tacito, che «Due semplici soldati si incaricarono di trasferire il potere romano e lo trasferirono» (allusione all’avvento di Ottone – la formula di Tacito non si trova al capitolo 5 della I parte delle Storie, come indica Appuhn, bensì al capitolo 25). Questa frase è anche citata in TTP, annotazione XXXV.

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sua politica.115 Lo Stato è così catturato nella spirale della tirannia, in quanto il monarca è facilmente destituito a nome di una sollevazione popolare contro l’oppressione, a profitto di un altro che sarà ancor più diffidente. È in questo quadro, descritto dal Trattato teologico-politico, che s’inscrive il giudizio pessimista di Spinoza sulle rivoluzioni, di cui

115

TP, VI, 6; TP, VII, 27 e TP, VII, 29. Vi è qui, ben inteso, tutta una critica della concezione barocca della politica, annunciata all’inizio del testo (TP, I, 2). Cfr G. Naudé, Considérations politiques sur les coups d’État, Paris, Les Éditions de Paris, 1988, con il commentario di Louis Marin, «Pour une theorie baroque de l’action politique», pp. 23 e sgg.; e M. Senellart, Machiavélisme et raison d’État, Paris, PUF, 1989, p. 55 (su Naudé e sulla sua ricerca di un «machiavellismo legittimo») e p.99 (sul rapporto di Spinoza con Machiavelli e sulla sua analisi «anti-tirannica»). Il problema della legittimità del colpo di stato è esaminato da Spinoza nel capitolo X del Trattato politico in polemica con Machiavelli a proposito dell’istituzione dell’istituzione della dittatura nella repubblica romana. Spinoza la legge come una trasformazione periodica della repubblica in monarchia, con il rischio che quest’ultima si perpetui: «Il potere di un dittatore è senz’altro un potere da re, e per quanto sia breve c’è il grande pericolo che talvolta lo Stato divenga una monarchia (in Monarchicum – sottinteso imperium – mutari)». (TP, X, 1) Egli cita poco dopo il caso di Scipione, e quando evoca, nella sua critica al giudizio positivo di Machiavelli sulla dittatura come rimedio che riporta periodicamente lo Stato ai suoi fondamenti, il rischio di cadere «in Scilla, pensando di evitare Cariddi», si è quasi tentati d’intendere Silla. Alla fine il rischio si concretizza con Augusto, come egli indica in TTP, XVIII [9]: «finché lo Stato, mutando come in Inghilterra il nome soltanto, tornò a essere di nuovo una monarchia». Con il pretesto in effetti di un ritorno alla virtù repubblicana, il Principato equivalse a una trasformazione monarchica, il nome servendo ad ingannare il popolo romano il cui odium regni era leggendario, ma che aveva serbato odio, dopo tanti anni di guerra civile, solo per il nome del re. Cromwell, un po’ diversamente da Augusto, visto che egli restaura e non instaura la monarchia (Spinoza spiega che il popolo romano non si era mai abituato alla monarchia, uccidendo tre dei suoi sei re), prende il nome di Lord Protettore. Curiosamente, trattando di Roma, la reale trasformazione non fu quella evocata (la rivoluzione del 509 mettendo fine alla tirannia dei re etruschi), ma la trasformazione augustea comparata non senza equivoco alla pseudo-trasformazione della Rivoluzione inglese. Le cose diventano più chiare nel Trattato politico, dove il problema centrale è ormai la deriva monarchica suicida di ogni stato (TP, VII, 12), mentre la storia romana diviene il riferimento principale (cfr. soprattutto TP, VIII, 9 e TP, X, 10). Sulla paura reciproca che comporta la pretesa di regnare da solo e la spirale tirannica cfr. A Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., pp. 405-420 e E. Balibar, «Spinoza l’anti-Orwell. La crainte des masses» in E. Balibar, La crainte des masses, Paris, Galilée, 1997, pp.57-99; tr.it. di A. Catone, Milano, Mimesis, 2001, pp.33-57.

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abbiamo parlato in introduzione. Un tale ingranaggio non solo riduce gli uomini a schiavi, ma toglie libertà al capo di Stato. La contraddizione inerente all’assolutismo regale conduce Spinoza a questa conclusione paradossale: Da quanto si è detto si trae come necessaria conseguenza che un re è tanto meno padrone di sé e nel suo pieno diritto, e la condizione dei sudditi tanto più miserevole, quanto più una società civile trasferisce tutto il suo diritto in un re. Per ben istituire uno Stato monarchico è necessario pertanto gettare fondamenta stabili sulle quali si possa edificare. Fondamenta dalle quali conseguano la sicurezza del monarca e la pace della moltitudine; dunque tali che un re sia padrone di sé e nel suo pieno diritto, proprio quando provvede al bene della moltitudine. (TP, VI, 8)

È dunque per realismo, e non per utopia che Spinoza invita il monarca non tanto a disfarsi di un’autorità assoluta che egli sogna ma che non ha, quanto a svegliarsi giustamente dal suo sogno che volge in incubo sia per i suoi sudditi che per lui. Si comprende tuttavia che Spinoza esita tra due visioni, tra due pronostici: la spirale furiosa dell’ambizione del potere e della paura reciproca, che fa dell’assolutismo regale un sistema instabile e suicida («nessuno può conservare a lungo un potere violento, quelli moderati invece durano», secondo Seneca)116 e la cappa di piombo silenziosa del dispotismo orientale («Non c’è stato, infatti, che come il sultanato dei Turchi si sia conservato tanto a lungo senza notevoli mutamenti. E viceversa non vi furono mai Stati così poco duraturi, e così travagliati dai conflitti interni come quelli democratici o popolari»).117 È sintomatico che, nel secondo caso, Spinoza abbandoni l’argomento pragmatico per un argomento normativo: l’ordine certo, ma a quale prezzo? Egli non evoca più la probabile rovina del regime, ma lo sprofondarsi nella barbarie; non più il destino funesto del tiranno, ma il divenir-inumano dei suoi sudditi.118

116

La frase, citata due volte nel TTP (TTP, V [8] e TTP, XVI [9]) non viene ripresa nel TP dove il tema del suicidio politico del tiranno è tuttavia molto presente così come la figura sotto traccia di Nerone. 117 TP, VI, 4. 118 A noi pare sia arbitrario che Matheron leghi i due argomenti come due momenti di una stessa logica (A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., p.418).

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5. Seconda chimera: il sogno tirannico di trasformare la natura Quando Spinoza tratta per la prima volta della barbarie, ossia del regime di pace apparente dove i sudditi non si sollevano perché sono terrorizzati, «atterriti dalla paura»119(metu territi), egli evoca l’idea di una vita ridotta alla «circolazione del sangue» e ad «altre cose comuni a tutti gli animali»120 in opposizione a una vita degna di essere chiamata umana, che si definisce in primo luogo attraverso la ragione, ossia «la vera virtù e la vita della mente» (nel Trattato teologico-politico, Spinoza notava che sempre ci sono uomini che pensano solo ad arricchirsi e a riempirsi lo stomaco, pronti per questo ad ogni compromesso: costoro si accomodano facilmente entro un tale regime che, di contro, poggia su di essi).121 Si pensi a questo passaggio dello scolio IV, 39 dell’Etica: «Infatti, non oso negare che il corpo umano, mantenuta la circolazione del sangue e altre condizioni per il quale si giudica che il corpo viva, possa nondimeno mutarsi in altra natura del tutto diversa dalla sua […]». Ben inteso, il contesto è ora, nel Trattato politico, quello della differenza specifica, non più individuale: uomini ridotti allo stato di bestie. Spinoza si autorizza questo giro di parole a titolo di costruzione retorica e polemica, ma nello stesso tempo – un po’ come Ovidio quando parla dell’amore – l’immagine della trasformazione corrisponde bene alla realtà di una natura condotta ai suoi limiti, al punto di esser dimentica di sè, voluta diversa dal tiranno, essa stessa si pensa diversa. In effetti, quando Spinoza domanda se il sovrano è vincolato alle leggi, egli risponde in prima istanza di no, conformemente al diritto romano (secondo una massima tradizionale, princeps legibus solutus, «il principe non è vincolato alle leggi»). Ma è per poi distinguere tra leggi civili e leggi naturali: egli può certo cambiare la legislazione, lui solo è d’altronde abilitato a farlo, ma entro determinati limiti per cui egli, in quanto sovrano, non si suicida per non trascinar così l’intero corpo politico nella sua caduta. La Civitas è realmente paragonabile a un corpo naturale, e la vecchia metafora medievale, ripresa da Machiavelli e da Hobbes e costantemente presente nel Trattato politico, è sempre quella: come ogni corpo, lo Stato (Civitas), altrimenti detta la moltitudine unita, dotata di forma, non ha né essenza né identità che per la legge fondamentale o l’insieme di leggi che formano una legislazione che la costituisce. In

119 120 121

TP, V, 4. TP, V, 5. TTP, XX [11].

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modo che, a questo livello, per uno di quei percorsi logici di cui Spinoza ha il segreto, leggi civili e leggi naturali si confondono, il sovrano risulta del tutto legato alle leggi (a meno che lo Stato non si trovi nel caso in cui la sua sopravvivenza dipenda da una riforma costituzionale, analoga alla magna ipsius mutatio di un corpo necessario affinché si adatti a nuove condizioni:122 se il sovrano è il solo abilitato a prendere decisioni, il giudizio in qualche modo immanente di opportunità di ciò è dato dalla reazione della moltitudine, secondo che essa consenta o meno):123 Se una società non fosse tenuta al rispetto di quelle leggi e regole che la rendono tale, essa non sarebbe da riguardare come cosa naturale; sarebbe invece una chimera. Pecca dunque una società quando compie o permette che si compiano azioni che possono causare la sua rovina. Diciamo allora che pecca nel medesimo senso in cui i filosofi o i medici affermano che la natura pecca. In questo senso possiamo affermare che una società pecca quando compie qualcosa contro il dettame della ragione (per l’art.7 del precedente capitolo). Viene dunque meno alla sua natura, o pecca, quando agisce contro la ragione. Tutto ciò può essere inteso più chiaramente con le seguenti considerazioni. Se diciamo che qualcuno può fare quello che vuole di una cosa in suo possesso, questo potere è definito non dalla sola capacità di chi agisce, bensì anche dalla conformazione di chi patisce. Se dico, ad esempio, che posso fare per diritto ciò che voglio di questo tavolo, non intendo certo dire che ho il diritto di far sì che questo tavolo mangi l’erba. Analogamente, se pure diciamo che gli uomini non godono del loro diritto, ma sono soggetti al diritto della società civile, ciò non significa che hanno cessato di essere uomini per acquisire un’altra natura, e che quindi la società abbia il diritto di far sì che gli uomini volino oppure, cosa altrettanto impossibile, che riguardino con tutti gli onori cose che provocano il riso o la nausea. Vogliamo dire invece che si danno alcune circostanze, poste le quali si danno il rispetto e il timore de sudditi verso la società civile, e tolte le quali svaniscono il rispetto e il timore, e con essi la stessa società civile. (TP, IV, 4)

Questo passaggio comincia con il mettere in guardia contro una «chimera»: credere che lo Stato possa sottrarsi alle condizioni di una certa natura in generale, detto altrimenti non dipendere né per essenza né per esistenza da un certo numero di leggi che sono le leggi di natura; credere insomma che lo Stato sia cosa sovrannaturale. In conclusione si pone in rilievo una tendenza trasformista inerente alla

122 123

Eth, IV, app. cap.7. TP, IV, 6.

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tirannia: intimare agli uomini una condotta contraria alla loro natura e che s’indirizza ad esseri costituiti differentemente da essi – in altre parole, sognare ad occhi aperti che gli uomini possano cambiare natura.124 E quando Spinoza tenta un accostamento tra tirannia politica e tirannia domestica, in un passaggio che sembra guardare direttamente a Hobbes e di cui abbiamo parlato nello studio precedente, egli evoca precisamente una trasformazione del diritto paterno in pura dominazione (jus parternum in dominium mutare), laddove i genitori divengono i padroni dei figli e degli schiavi.125 Nel capitolo precedente, Spinoza offriva degli esempi di questa condotta contraria alla natura umana verso cui il re divenuto tiranno cercava di instradare gli uomini: E ancora: quali premi o minacce possono indurre un uomo ad amare ciò che odia e a odiare ciò che ama? Di questo genere sono anche le azioni che la natura umana aborre come peggiori di ogni male: che l’uomo testimoni contro se stesso, che si torturi, che uccida i suoi genitori, che non cerchi di evitare la morte e cose simili, a fare le quali nessuno può essere indotto da premi o da minacce. (TP, III, 8)

Spinoza insiste insomma sui limiti naturali dell’autorità, che egli ritiene essere nello stesso tempo i limiti naturali dell’obbedienza. La trasgressione tirannica verte sulla natura in generale ovvero sulla ragione, ed è perciò che, nella stessa pagina, Spinoza la qualifica come «delirio» e «pazzia». Da qui la sottile conclusione secondo cui lo Stato non è vincolato dalle sue leggi, dato che le leggi naturali alle quali esso è tenuto non dipendono dal diritto civile ma dal diritto naturale, altrimenti detto diritto di guerra, che si esercita nei due sensi: diritto assoluto di sovranità nei confronti dei sudditi (obbedienza alle leggi senza le quali la comunità si dissolverebbe), diritto senza contraddizione dei sudditi nei confronti della sovranità – nel momento in cui quest’ultimo trasgredisce i limiti dell’obbedienza e attenta alla comunità in quanto tale. Ed egli evoca esplicitamente il suicida per far comprendere che il rispetto di tali leggi naturali non costringe affatto il sovrano, almeno per quanto egli sia sovrano (poiché laddove egli comandasse una chimera, può fantasticare d’esser costretto dalla Natura):

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Federico II di Svevia, precursore nel XIII° secolo dell’assolutismo regio moderno, era detto immutator mundi, colui che poteva trasformare il mondo. 125 TP, VI, 4.

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La società civile è tenuta al loro rispetto [delle leggi di natura] per la stessa e sola ragione per la quale l’uomo, nello stato di natura – affinché sia padrone di sé, ossia non diventi nemico di se stesso – è tenuto a non uccidersi. (TP, IV, 5)

Il tiranno è dunque suicida, non tanto in quanto individuo ma in quanto sovrano che incarna lo Stato tutto intero (benché, da Nerone a Hitler, la sovrapposizione di individuo e ruolo, sia possibile). Inutile insistere sull’estraneità che assume, dopo il XX° secolo, questa credenza nel potere della contraddizione. Meglio domandarsi se tale credenza non è già due volte battuta in breccia: attraverso la teoria dell’individualità, il cui programma è quello di determinare ciò che un corpo e di conseguenza una mente possono sopportare «senza alcun cambiamento della sua forma»,126 una volta detto che «noi non sappiamo cosa può un corpo», seguendo la formula che Gilles Deleuze ha saputo porre in rilievo; 127 e attraverso il concetto di «fluttuazione dell’animo» (fluctatio animi), che sostituisce alla domanda «c’è contraddizione?» la domanda «fin dove può spingersi l’ambivalenza?».128 Cosa può un corpo? Fin dove può spingersi un’ambivalenza? Le risposte a queste domande non possono che essere empiriche, storiche, trasgredendo la convinzione che l’esperienza abbia già tutto mostrato.129 Occorre comunque andar più lontano. Spinoza ha considerato che «se gli uomini potessero essere privati del loro diritto, a tal punto che in futuro non possano più nulla senza la volontà di chi detiene il potere supremo, sarebbe certo lecito regnare impunemente nel modo più violento. Il che, io credo, non potrà mai venire in mente a nessuno».130 Ed egli ha avvertito che «Possiamo dunque concepire, senza che vi sia alcuna contraddizione con l’intelletto, che gli uomini credano, amino, odino, disprezzino e, in generale, siano trascinati da qualche affetto esclusivamente in virtù del diritto dello Stato».131 Si percepisce una reticenza e nello stesso tempo un coraggio davanti a una possibilità che la mente ha riluttanza ad ammettere senza avere una vera ragione per

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Eth, II, 13, lemm. 4-7 e sch. Cfr. cap.2. Eth, III, 2 sch. Cfr. G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione, op. cit., cap. XIV «Che cosa può un corpo?». 128 Eth, III, a partire dalla prop.17. 129 TP, I, 3. 130 TTP, XVII [1]. Sottolineature nostre. 131 TTP, XVII [2]; (G, III, 188). Sottolineature nostre. 127

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escluderla – Tuttavia il contenuto più profondo non è forse qui, ma nel testo seguente: Concedo che il giudizio possa essere influenzato in molti modi, alcuni quasi impensabili, cosicché, sebbene non ne subisca il dominio diretto, qualcuno penda dalla bocca di un altro a tal punto che si possa dire propriamente in suo potere. Ma qualunque cosa l’arte abbia potuto apparecchiare a tal proposito, non si è mai giunti a una situazione in cui gli uomini non sappiano, per esperienza, che ognuno ha giudizio da vendere e che quante sono le teste, tante sono le differenze di gusto. (TTP, XX [2], G?)

Questo giudizio, nessuno potrebbe sostenere seriamente che sia stato reso obsoleto dalla Storia. Esso mantiene non tanto un bagliore utopico nel disastro, quanto la fiducia in un’attitudine infinita e infinitamente sottile della vita a sottrarsi alla propria negazione, capacità quasi anonima, impersonale, involontaria nell’essere terrorizzato, di deviare nello stesso acconsentire, d’essere alla lettera, incorreggibile. È certo un paradosso, ma non una contraddizione, in questo pensatore che tanto ha meditato sulla drammatica insubordinazione dei popoli (Ebrei e soprattutto Romani), sull’incapacità a disciplinarsi e a compiere così un primo passo verso la libertà, d’avere alla fin dei conti scommesso su una irriducibile insubordinazione come ultima vitalità e libertà sotto il terrore.132 L’uomo è questa complessa natura sia disperatamente fragile sia dotato di una resistenza insperata, in cui lo spettro del comportamento politico va dalla compulsione panica e suicida di rimettere la propria sorte nelle mani di un uomo provvidenziale,133 all’irriducibile attaccamento ad una libertà di cui tuttavia si ha solo una

132 Ci uniamo pienamente alla conclusione d’Étienne Balibar in «Spinoza, l’anti-Orwell», op. cit., pp.55-57 («Il minimo incomprimibile», capacità di resistere logicamente legata all’individualità in quanto tale). 133 TP, X, 10: «E quelli che fuggono atterriti dal nemico, non si fermano di fronte a nessun timore, ma per evitare la spada nemica si precipitano in acqua o si gettano nel fuoco. Per quanto dunque una società civile sia stata fondata saggiamente e le sue leggi siano ottime, nei momenti di massima crisi dello Stato tutti sono in genere presi da terrore panico, e tutti approvano ciò che detta la paura del momento, senza considerare minimamente né le leggi né il futuro. Tutti allora si rivolgono a un uomo celebre per le sue vittorie, gli assegnano poteri eccezionali, prolungano (pessimo esempio) il suo comando e consegnano alla sua lealtà il bene di tutti; la qual cosa determinò la rovina dell’impero romano». Sotto i tratti di Augusto, di certo traspare Guglielmo d’Orange.

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rappresentazione illusoria (un bagliore di risveglio sotto il «sogno ad occhi aperti», uno squarcio attraverso le nubi, dovuto al semplice fatto che si esiste e che si esiste di conseguenza come natura particolare).

6. Terza chimera: cambiare i decreti (e la teoria della doppia mente del re). Il richiamo all’umanità dei re rivela un’altra contraddizione inerente all’idea monarchica: essa pretende di far coincidere la volontà individuale, monopolio delle passioni e dunque versatile, e la legge, che implica l’idea di costanza. Non vi è quindi bisogno di richiamare un discorso che giunga per giustificare la monarchia mistificando ciò che è comune ai mortali: la mistificazione s’inscrive in germe nella sua stessa logica. Prima di Locke, Spinoza dice che la monarchia assoluta non sarebbe da contare tra le forme politiche perché è in contraddizione con l’idea stessa di Stato134 La contraddizione si risolverebbe se la volontà del sovrano potesse essere costante, se l’attitudine regale alla decisione potesse separarsi dal rischio che le è inerente, il capriccio. Si sa che lo sviluppo della monarchia si è dato storicamente sotto questa condizione, che tuttavia non limitava affatto il diritto del sovrano: il potere era considerato assoluto ma tuttavia non arbitrario dato che il re restava assoggettato a obblighi cristiani; la volontà regale era nel medesimo tempo garante del costume o della «legge fondamentale», e giuridicamente illimitata; e la lotta dei re a favore del potere personale si è significativamente incentrata sulla questione del prestare giuramento, contestato in nome della sola responsabilità personale davanti a Dio.135 Per Spinoza qui non può trattarsi che di una mistificazione. Egli richiama la testimonianza della Storia: i Persiani, ad esempio, avevano un bel da onorare i loro re come Dei, essi tuttavia non accordava-

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«Dal che risulta evidente che la monarchia assoluta, che da alcuni è considerata come l’unico governo al mondo, è, in realtà, incompatibile con la società civile, e quindi non può per nulla essere una forma di governo civile». (J. Locke, Due trattati sul governo, tr.it. a cura di L. Pareyson, Torino, UTET, 2010, p.289) 135 Cfr. l’argomentazione di Bodin sulla questione dello spergiuro: egli giunge alla conclusione che lo spergiuro è assurdo dato che comporterebbe una diarchia e che l’obbligazione di mantenere una promessa ha un carattere puramente religioso. (J. Bodin, Six livres de la republique, Paris, Fayard, 1986,; tr. it. a cura di M. Isnardi Parente, Torino UTET, 1964, libro I, cap. VIII, pp. 362 e segg. )

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no loro il diritto di cambiare le leggi.136 La riesposizione dimostrativa dell’analisi della monarchia, al capitolo VII del Trattato politico, chiarisce senza ambiguità il proposito iniziale inerente al rapporto tra sovrano e leggi: I fondamenti dello Stato monarchico si debbono considerare come i decreti eterni (aeterna decreta) del monarca; se perciò un re comanda qualcosa che ripugna ai fondamenti dello Stato, i suoi ministri gli prestano obbedienza assoluta proprio quando rifiutano di eseguire i suoi mandati. Il che possiamo spiegar chiaramente con l’esempio di Ulisse […] (TP, VII, 1)

Il richiamo che «i re non sono dei» si ripete nel ragionamento che oppone la volontà inevitabilmente incostante di un uomo alla volontà di tipo effettivamente divino di cui il legislatore deve dar prova: aeterna decreta. Ed è perché la volontà regale deve divenire divina che viene ricusata al re ogni autorità assoluta. Ulisse, figura di re saggio, domanda lui stesso di essere legato all’albero della nave per non cedere al canto delle sirene. Di qui la distinzione capitale tra la monarchia assoluta («E in nessun luogo, che io sappia, si elegge un monarca assoluto», nullibi monarcha absolute eligitur) e l’obbedienza assoluta che non di meno è dovuta al sovrano. Come la volontà del re diverrebbe divina se non legando il re alla sua propria volontà in modo retto come un palo? Poiché «se dunque tutto dipendesse dall’incostante volontà di uno solo, non vi sarebbe nulla di costante». Così si può dire che tutto si fa ex solo Regis decreto, e che tuttavia il decreto è eterno. La proposizione finale riassume: «ogni diritto sia la volontà dichiarata del re, senza però concedere che sia diritto ogni volontà del re». Questo paragrafo VII, 1 del Trattato politico può essere considerato l’esatto pendant dello scolio II, 3 dell’Etica: l’avvertimento di non confondere la potenza di Dio con la potenza dei re, visto nell’ambito politico. È, in effetti, nello stesso contesto che il re-tiranno si fa passare per un Dio e che si sviluppa l’immagine volgare della potenza regale di Dio. Egli si raffigura in Dio nello stesso modo che i comuni mortali concepiscono Dio a partire da lui: come il potere di distruggere tutto, ossia di cambiare i decreti secondo la formula di Eth, I, 33, sch.2. La stessa problematica del miracolo, avanzata nel Trattato teologico politico, può essere apparentata, da questo punto di vista, a quella della tirannia, con la leggera differenza che l’ordine della Natura riflette la

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TP, VII, 1.

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natura divina, mentre l’autorità regale deriva dalla moltitudine per trasferimento: monarca e moltitudine sono alle prese come due differenti potenze, la trascendenza del potere divino dei re viene apparentata alla trascendenza di un Dio seduto su di un trono regale. La demistificazione dei sedicenti monarchi assoluti va dunque di pari passo con la rettifica del concetto di Dio: non potere di cambiare i decreti ma potere al contrario di attenervisi. E per questo il re deve essere solidamente legato… Non è utile rifare qui l’esposizione delle istituzioni della monarchia costituzionale che Spinoza propone di sostituire alla chimera dell’assolutismo regio. Si tratta di ristabilire un rapporto di immanenza tra la sovranità e la moltitudine, in luogo del lugubre faccia a faccia della paura reciproca. Spinoza riprende dunque il problema tale quale egli l’aveva posto nei quattro paragrafi introduttivi: fare in modo che la moltitudine sia condotta «come una sola mente». La cosa si realizzerà se il re, invece di imporre dall’esterno la sua volontà incostante alla moltitudine mantenendola in uno stato tendenzialmente informe, diviene realmente la mente dello Stato: l’Assemblea, la più ampia possibile, presenta al re le principali opinioni emerse dal dibattito su ogni problema, tra le quali tocca a lui decidere.137 Al posto di un trasferimento incondizionato, effettuato in un impeto di panico, ad un capo militare che condurrà senza dubbio alla guerra ma che non farà mai una ben netta differenza tra stato civile e stato di guerra, «una moltitudine trasferisce a un re soltanto ciò che non è del tutto in suo potere: il giudizio che dirime controversie e la celerità nel decidere».138 È a questo stadio che la vecchia metafora del «corpo politico» assume importanza e interesse. Trattata come un luogo comune nella parte generale,139essa assume in realtà un ruolo solo riguardo la monarchia, che si tratti del posto lasciato vacante dal monarca o dal

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Come scrive Étienne Balibar: «si può dire allora che, nel corpo politico, il re è il solo individuo che non ha alcuna ‘opinione’ propria, alcuna interiorità, che per se stesso non pensa nient’altro di ciò che pensa la moltitudine, ma senza il quale la moltitudine non penserebbe nulla di chiaro e di distinto e sarebbe incapace di salvarsi». (É. Balibar, Spinoza et la politique, op. cit., p.88) 138 TP, VII, 5. 139 Cfr. TP, III, 1, dove Spinoza definisce lo Stato (civitas) come imperii integrum corpus. Un’analoga espressione è impiegata in TP, III, 2 (totius imperii corpus et mens) e in TP, III, 5 (imperii corpus).

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quasi-monarca assassinato («agli Olandesi, per ottenere la libertà, fu sufficiente cacciare il conte e troncare la testa dello Stato», imperii corpus capite obstruncare)140 o che si tratti, al contrario, dell’instaurazione di una monarchia ben formata: In senso assoluto, il re va considerato come la mente della cittadinanza, e il consiglio come i sensi esterni della mente, ossia come il corpo della cittadinanza, tramite il quale la mente si forma un quadro della situazione e mette in atto quanto giudica essere per sé il meglio.141

Si noterà la sorprendente e quasi ironica contiguità delle parole absolute rex. Ma l’essenziale qui è: 1°) applicata alla monarchia, l’immagine del corpo comporta un terzo termine, il Consiglio, superando la tradizionale dualità del sovrano (testa-mente) che dà forma all’intera massa (corpo) conducendola; 2°) questo terzo termine contribuisce ad avvicinare così un poco alla concezione spinoziana (la mente come idea del corpo) un’immagine intesa all’inizio in un senso piuttosto aristotelico (l’anima forma del corpo). È chiaro che il re è la mente dello Stato, ma che ruolo attribuire al Consiglio nell’analogia? Il suo compito di selezione e di trasmissione dell’informazione evoca gli organi sensoriali («sensi esterni della mente»). Ma Spinoza corregge presto l’immagine identificando il Consiglio con il corpo stesso dello Stato. Questa identificazione è decisiva, dato che la relazione metaforica di corpo e mente è ormai interna al sistema istituzionale. Le due immagini, in effetti, non dicono la stessa cosa: nel primo caso, la relazione è esteriore, come se il re si rapportasse dal di fuori a una situazione distinta da sé. Nel secondo caso, la Civitas diviene soggetto e interiorizza la relazione tra il re e la popolazione: la mente prende conoscenza del proprio corpo («Civitatis corpus, per quod mens Civitatis statum concipit […]»). Non appare più incongruo parafrasare così l’assioma 4 della II parte dell’Etica: il re sente che un certo corpo è affetto in molti modi. A tale condizione, egli è certo la mente dello Stato, nel senso in cui Spinoza dice peraltro che la mente è l’idea del corpo. Senza la mediazione

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TP, IX, 14. Come nel TTP, XVIII [10], Spinoza fa allusione al periodo detto senza Stathouder, deciso dagli stati generali delle Provincie-Unite sotto l’impulso degli Stati di Olanda, in seguito al colpo di stato di Guglielmo II nel 1650, il cui fine era l’istaurazione di una monarchia assoluta. 141 TP, VI, 19. trad. di P. Cristofolini, Pisa, ETS, 1999.

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del Consiglio, al contrario, il re non avrebbe che un rapporto cieco alla situazione, la mente si rapporterebbe al corpo come a qualcosa di estraneo. Il re ha dunque un secondo corpo che si distingue dal suo corpo di carne, ma questo non è più un corpo mistico, nel senso di una trasfigurazione permanente del corpo carnale; e per tale ragione non si può dire che il re incarna lo Stato. Il suo secondo corpo non è altro che la popolazione unita politicamente, che egli percepisce in modo interno, per così dire cenestesico, attraverso l’intermediazione del Consiglio. Spinoza costruisce insomma la teoria delle due menti del re – idea del suo corpo, idea del corpo politico. Quindi, la chimera dell’assolutismo regio, o il vertiginoso faccia a faccia a cui dà luogo il trasferimento assoluto di potenza, corrisponde implicitamente all’immagine di una mente che non sente più il proprio corpo, o che lo percepisce solo come un’aggressione esterna.142 La mente cerca follemente un corpo a cui potersi attribuire, ed essa tende a forgiarsene uno, immaginario, attraverso il fragile espediente di una testa mal attaccata, che può cadere. Resta allora un corpo senza testa, e che ne richiede una e non può pretendere, in realtà questa volta, se non quella che gli corrisponde: un nuovo tiranno. In verità, questo scarto o questa opacità tra corpo e mente non significa niente in termini spinoziani se non l’approssimarsi della morte per l’uno e per l’altro: un individuo politico in via di dissoluzione. C’è una doppia finzione: quella di uno stato civile che non è altro che «desolazione», quella di un sovrano che in verità è un tiranno. Da una parte, la ricaduta nella vecchia accezione dualista dell’immagine significa che l’individuo politico non è veramente formato, che le sue parti tendono ad unirsi ma sotto una legge continuamente mutevole che s’impone dal di fuori. D’altra parte, l’idea di un corpo che sopravvive senza testa non si oppone al concetto spinoziano di mente come idea corporis, a meno che non si confonda testa e mente: il corpo si è libe-

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Contrariamente alla concezione di Hobbes, per la quale la moltitudine diviene popolo per il suo trasferimento incondizionato di sovranità al re, e s’identifica quindi totalmente con lui al punto che è assurdo dire che il regno si è ribellato contro il re: si tratta sempre della moltitudine (T. Hobbes, De cive, tr. it. a cura di T. Magri, Roma, Editori Riuniti, 1979, cap. XII, 8, pag. 188). Ma precisamente, per Spinoza, l’identificazione non si compie mai come trasferimento incondizionato che non può dar luogo ad altro che un faccia a faccia persistente e sempre più drammatico di una testa (tiranno) mal congiunta al corpo (la moltitudine).

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rato della propria testa, ma la mente – o la memoria, sotto la forma dei costumi – resta. Il corpo mantiene dunque la sua forma, per cui esso tende a secernere presto un’altra testa, identica alla precedente, dopo ogni decapitazione. Tuttavia la spirale radicalizza il tiranno: la mente si trasforma progressivamente, diventa amnesica, allo stesso tempo il corpo tende a decomporsi (e tale è la storia penosa della decadenza del popolo ebreo, fino alla completa dissoluzione del suo Stato).143

7. Quarta chimera: morte del re e successione (TP, VII, 25) Il re è un uomo: per natura egli non può regnare da solo, e la sua volontà è mutevole. In terzo luogo egli è mortale. Ora, la sostenibilità della forma politica monarchica richiede le perfezioni divine corrispondenti: onniscienza e onnipotenza, immutabilità, eternità. Di qui l’importanza del Consiglio (o Assemblea), potenza consultativa ed esecutiva da un lato, garante della legislazione dall’altro.144 Ma bisogna anche risolvere il problema della continuità del regime, oggetto dello stupefacente TP, VII, 25. L’inizio di questo testo – «si deve sempre mantenere immutata (una, eademque servari) la forma dello stato (Imperii facies)»145 assomiglia molto alla frase della lettera a Schuller sul «volto di tutto l’Universo (facies totius universi) che, pur variando in infiniti modi, rimane tuttavia sempre lo stesso». Qui il cambiamento infinito è da una parte la successione dei re, ogni regno apportando la propria variazione, d’altra parte la summa mutatio et consequenter periculosissima che la successione costituiva (costituisce). Perché questa esitazione? Perché la lettura di questo paragrafo dà le vertigini. Non è possibile evitare – in un primo momento – di provare il sentimento di una flagrante contraddizione tra l’inizio e la fine: Già dall’art.13 del precedente capitolo risulta ciò che poi si è sostenuto: il successore del re dovrà essere, di diritto, il maggiore dei figli, oppure, in assenza di figli, il parente più prossimo. Ma questo è evidente anche per la ragione seguente: l’atto con cui la moltitudine elegge il monarca deve

143

Cfr. supra, Introduzione. TP, VI, 17. 145 Utilizziamo anche qui la traduzione di Cristofolini, più adeguata alle osservazioni dell’Autore. Nota della traduttrice. 144

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essere, per così dire, eterno; in caso contrario il potere sovrano tornerebbe di frequente alla moltitudine. La continua rotazione delle cose sarebbe così massima e perciò pericolosissima. […] morto dunque il re, muore anche, in qualche modo, la società civile, e si ritorna nello stato di natura. Di conseguenza, il potere sovrano torna naturalmente alla moltitudine, che perciò ha la possibilità di creare nuove leggi e di abrogare le vecchie. È chiaro dunque che nessuno può per diritto succedere al re, se non colui che la moltitudine vuole come successore […]. (TP, VII, 25)

Il problema è parallelo a quello della volontà: così come i decreti devono essere eterni, allo stesso modo «l’atto con cui la moltitudine elegge il monarca deve essere, per così dire, eterno». Come superare la contraddizione tra un regime in cui la mortalità di un uomo deve conformarsi alla perennità necessaria delle istituzioni? Spinoza sembra inizialmente condividere l’opinione di Hobbes sulla monarchia elettiva: il potere ritorna alla moltitudine alla morte di ciascun re.146 La monarchia elettiva è, se non una democrazia reale, non di meno un regime di democrazia intermittente, proprio come la Repubblica romana era una monarchia intermittente (istituzione della dittatura).147 La monarchia sembra così concentrare tutti i rischi di sovversione: aristocrazia occulta, tirannide delirante e ora diarchia. Correggiamo anzi questa approssimazione: il «tornare naturalmente alla moltitudine» è equivoco, e la democrazia è una forma specifica che non emerge spontaneamente anche se essa ha potuto esistere in modo effimero nell’ipotesi di un patto primitivo. La minaccia è semplicemente quella di un ritorno allo stato di natura, come finisce per dire Spinoza: lo Stato non è dissolto ma passa attraverso una sorta di ri-formazione perpetua che potrebbe assai facilmente deviare verso una trasformazione di regime (da qui l’espressione mutatio summa et consequenter periculosissima). La monarchia elettiva più che un regime deforme è un regime che deve riformarsi senza tregua, che non finisce di costituire la sua forma e che non esce mai veramente dall’età costituente. Questa fragilità specifica, legata alla mortalità del sovrano, è un problema che non incontrano né l’aristocrazia, a condizione che sappia mantenere aperti i suoi ranghi,148né la democrazia, a meno che – come

146 147 148

Cfr. T. Hobbes, Leviatano, op. cit., cap. XIX, pp. 161 e segg. Hobbes accosta, d’altra parte, il re elettivo al dittatore romano: ibid., p. 161. TP, VIII, 11-13.

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dice Hobbes – non sparisca il popolo stesso. La posizione di Spinoza è nondimeno delicata: egli non può che pronunciarsi a favore della soluzione ereditaria, ed è tuttavia proprio qui uno degli attributi principali dell’assolutismo regale. Pure sente il bisogno di demarcarsi subito dal campo monarchico, e in particolare da Hobbes («Alcuni sostengono che il re […]»): ereditarietà, in effetti, non può significare a piacimento, a meno di slegare Ulisse nel momento più soave del canto delle sirene. Come la soluzione ereditaria si sottrae alle ideologie dell’autocrazia? Di nuovo Spinoza ragiona sul filo del rasoio e il suo ragionamento, come spesso accade, contiene degli elementi illusori. Il primo è l’apparenza di incoerenza globale del proposito. Ma ve ne è un secondo: l’evocazione del problema dell’eredità. «Perché ciò si possa capire meglio, si osservi che i figli sono eredi dei genitori non per diritto naturale, bensì per diritto civile». Stando all’inizio del paragrafo, si prevede che Spinoza ci dica che lo stesso vale per la successione regale. Eppure no: «ma il caso del re è del tutto diverso […]». E tuttavia sì: «il potere armato del re, ossia il suo diritto, è in realtà la volontà della stessa moltitudine […]». Qual è il senso di questo testo, senza dubbio il più barocco che Spinoza abbia mai scritto? La sua chiarezza non impedisce che sia attraversato da una frattura che fa vacillare l’intero edificio della monarchia ottimizzata. Spinoza non ritorna, di contro, sulla soluzione ereditaria; l’aveva già avanzata lungo il capitolo VI.149 Egli ritiene solo che il diritto di successione debba essere limitato, che non si possa lasciar fare al re qualsiasi scelta. Si ritrova implicitamente il problema del tradimento, o del rischio di un secondo trasferimento della sovranità già trasferita. Per questo riappare lo spettro della tirannia: «uomini forniti di ragione non cedono mai il loro diritto a tal punto da cessare di essere uomini, e venir considerati come greggi di pecore». Si comincia allora a capire meglio. È per la stessa ragione che il diritto di successione regale non dipende dal diritto di ereditarietà ordinaria e che allo stesso tempo appartiene eminentemente alla moltitudine: lo Stato – come avrebbe detto il Re Sole – è il re, il diritto stesso è la sua volontà; esso è dunque sospeso alla morte del re. Se nel caso dell’eredità privata la volontà sopravvive al defunto grazie alla potenza dello Stato che è «eterna», tale potenza muore malgrado tutto «in qualche modo» (quodammodo), con la morte del re, cosa che – se si vuole evitare la contraddizione – deve condurre

149

TP, VI, 23; TP, VI, 20; TP, VI, 37 e TP, VI, 38.

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a concludere che la potenza in verità eterna, nello Stato monarchico, risiede nella moltitudine. Il re ha la potenza decisionale ma vi è una e una sola decisione che non tocca a lui prendere: quella che concerne la sua successione, la cui regola è stabilita in precedenza e che fa parte delle clausole dell’elezione eterna. La monarchia deve essere ereditaria, ma il diritto di successione appartiene alla moltitudine per una ragione del tutto logica: nello stesso modo in cui la perennità di una volontà umana poggia su una potenza incorruttibile che è quella dello Stato, la volontà regale, che non esce affatto divinizzata dalla sua confusione con la volontà dello Stato, ma che di contro trasmette a questo la sua umanità, deve a sua volta poggiare su di una potenza capace di eternizzarla – quella della moltitudine. Anche la stabilità del regime monarchico passa paradossalmente attraverso il rischio supremo: rasentare periodicamente lo stato di natura. Si direbbe che la monarchia, quali siano gli sforzi speculativi di Spinoza, resta a dispetto di tutto un’essenza politica contradditoria, una chimera. Si chiederà cosa è divenuta l’Assemblea. Spinoza non ne fa parola, probabilmente per una ragione precisa: richiamarla qui sarebbe ammettere la diarchia, la condivisione della sovranità. Ora, l’inizio del paragrafo anticipa che la sovranità, conformemente al concetto ereditato da Bodin e da Hobbes, non potrebbe essere che indivisibile. Non si esce dunque dall’alternativa: o la soluzione hobbesiana di trasferimento assoluto, che non ha di assoluto che il nome e promette la schiavitù, una vita disumana ridotta alle funzioni animali; oppure la precarietà di un regime discontinuo che la moltitudine proroga solo se lo vuole. Questo perché, senza essere condivisa, la sovranità del re non diviene assoluta (principale criterio bodiniano) – o non si avvicina ad un reale assolutismo che, per Spinoza, non può che essere democratico150 – se non attraverso l‘unione, creatrice di un sentire, che il re forma con il suo Consiglio allargato e praticamente democratico. Supremo rischio? È ben vero tuttavia che l’Assemblea sopravvive al Re: «Il consiglio si occuperà anche dell’educazione dei figli del re e della loro tutela, nel caso il re sia morto lasciando un successore infante o minorenne. Perché nel frattempo il consiglio non sia privo di monarca, si dovrà scegliere il più anziano dei nobili del regno, che prenderà il posto del re, fino a quando il successore legittimo

150

TP, XI, 1 (la democrazia come omnino absolutum imperium).

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non sia pervenuto all’età in cui possa sostenere il peso dello Stato».151 Si conferma in questo modo: 1° che il potere ritorna proprio alla moltitudine, organizzata tuttavia nel modo più stabile possibile (assemblea di eletti dal popolo, anziani, secondo un principio di uguaglianza delle famiglie); 2° che l’assemblea funziona solo all’interno di una struttura duale di cui l’altra casella, lasciata vuota, deve essere riempita (elezione da parte dell’assemblea di un reggente tra gli stessi membri anziani della famiglia del re); 3° che l’essenziale è evitare la versione politica della chimera dell’infans adultus, quella del «re bambino».152 È probabile che l‘Assemblea manterrà le istituzioni; ma essendo essa sola sovrana nell’intervallo di vacanza della sovranità, niente, assolutamente niente, le impedisce di tentare una trasformazione di regime. Sembra dunque che siamo giustificati a parlare di

151

TP, VI, 20 (sottolineature nostre). Ricordiamo che la nobiltà, nella costituzione costruita da Spinoza, si limita alla famiglia del re (per evitare i rischi di Fronda o di deriva aristocratica): cfr. su questo TP, VI, 13. Questo presuppone – come dirà del resto Spinoza alla fine del capitolo VII – una «moltitudine libera», ancora informe politicamente: non è tanto questione di far decadere antiche famiglie quanto di nobilitarne solo una (come non pensare malgrado tutto al modo in cui Luigi XIV mise in riga la nobiltà, dopo essersi risolto ad esercitare il potere?). 152 TP, VI, 5 (e anche TP, VIII, 3): «Si aggiunga che un re – se infante, malato, gravato da vecchiezza – è un re a titolo precario». Cfr. supra, «Introduzione» e «Secondo studio» (le nostre note a proposito di Velasquez), come anche la nota su Luigi XIV bambino (p.25, nota n°88). Si noterà che facendo dell’assemblea il soggetto responsabile dell’educazione e, all’occorrenza, il tutore del delfino, Spinoza rovescia completamente l’osservazione di Hobbes nel capitolo XIX del Leviatano (op. cit., p.160; Tricaud, traduttore dell’edizione francese del Leviathan – Paris, Sirey, 1971 – precisa che la sfasatura delle date esclude che il nome ricorrente di «protettore» si possa riferire a Cromwell): «non c’è grande Stato della cui sovranità sia detentrice una grande assemblea, il quale, quanto alle consultazioni sulla pace e sulla guerra, nonché al fare le leggi, non sia nella stessa condizione che se il governo appartenesse a un bambino. […] E, come un bambino, per preservare la propria persona e la propria autorità, ha bisogno di un tutore o di un protettore, così (nei grandi Stati), anche le assemblee sovrane, in situazioni di grande pericolo e travaglio, hanno bisogno di custodes libertatis, cioè di dittatori o protettori della loro autorità; i quali sono come dei monarchi temporanei cui affidano l’intero esercizio del loro potere per un tempo determinato – essendone spogliate (al termine di quel tempo) più sovente di quanto non lo siano i re minorenni dai loro protettori, reggenti o tutori di qualsiasi altro genere». Tuttavia vedremo che Spinoza non rifiuta totalmente quest’analisi di Hobbes, benché la sua sensibilità democratica lo conduca ad affrontare il problema con tutt’altro sguardo.

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democrazia intermittente, anche se abbiamo esitato a farlo sopra in quanto l’Assemblea resta un’organizzazione; eppure l’esitazione è ben legittimata dato che la sola Assemblea non ha alcuna legittimità istituzionale a esercitare la sovranità, quest’ultima ricompare una volta nominato il reggente. In teoria, e all’occorrenza in pratica, si tratta di un ritorno alla moltitudine o allo stato di natura. La monarchia è questo regime condannato ad attraversare regolarmente l’Acheronte, e non possiamo essere sorpresi di ritrovare in politica, anche se sotto una forma un po’ differente, il legame stabilito nell’Etica tra morte e trasformazione. Spinoza supera l’alternativa tra monarchia assoluta e monarchia elettiva, che sono per lui due chimere, ma incappa in una contraddizione irriducibile che è quella del regime che egli cerca di razionalizzare e che dà al suo ragionamento un’apparenza contradditoria: tanto il doppio problema dell’uomo solo e versatile poteva essere risolto con l’istituzione dell’Assemblea, quanto Spinoza va a cozzare immediatamente contro una discontinuità a cui la chimera dell’assolutismo e altre finzioni ancora tentano di porre rimedio, per via onirica.153 Da qui il proposito finale sulla monarchia, che rovescia completamente l’ordinaria visione del re pastore, padre o protettore del suo popolo: Chiudiamo pertanto dicendo che la moltitudine può conservare sotto un monarca una libertà sufficientemente ampia, purché si riesca a delimitare la potenza del re con la sola potenza della moltitudine, e a conservare la prima con il solo ausilio della seconda. Questa è appunto l’unica regola da me seguita nel delineare i fondamenti dello Stato monarchico. (TP, VII, 31)

153

Per esempio con la finzione dell’immortalità del re o della migrazione del corpo politico da un corpo naturale ad un altro, o con quelle della Corona (in merito alla quale il re morente e il nuovo re non sono che uno), della Dinastia (per la quale la regalità si trasmette per lignaggio e non per incoronazione, sopprimendo così l’interregno) e della Dignità (a proposito della quale si sviluppa particolarmente l’immagine mitologica della Fenice, molto viva presso i re del XVII° secolo). È in funzione di una persona ficta che assumono un senso le formule famose: «Il re non muore mai» (invocata da Bodin, Bossuet, ecc.) oppure «Il re è morto! Viva il re! » (cfr. E. Kantorowicz, The king’s two bodies, tr. it. di G. Rizzoni, I due corpi del re, Einaudi, Torino, 1989, capp. 1 e 7).

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8. Quinta chimera: ritorno sull’apoteosi e verità teocratica Come osserva Alexandre Matheron, poiché il problema della monarchia concerne la persona stessa, umana, del re, sarebbe soluzione logica, per quanto fittizia, rimettere la sovranità ad una divinità.154 Sia che il re si lasci considerare come un Dio, sia che il re sia egli stesso Dio (teocrazia). Le due opzioni hanno la loro attualità ai tempi di Spinoza: «Non importa, voi siete dio, anche se voi morirete la vostra autorità non muore» esclama Bossuet;155 e le rivendicazioni del gomarismo, tendenza del calvinismo che esalta un’interpretazione stretta del dogma della predestinazione, e di cui il sinodo di Dordrecht nel 1619 aveva segnato il trionfo, sono affini ad un progetto teocratico. Nei due casi, il legame è d’ordine ideologico: trovare la via dell’obbedienza. Nei due casi inoltre, la potenza di Dio si trova confusa con quella di un monarca assoluto. Ma la teocrazia presenta un’originalità: non solo il potere vi è sempre esercitato da reggenti (a cominciare da Mosè, il suo fondatore), così che l’enorme mistificazione dell’uomo-dio non è necessaria, ma soprattutto si trova il modo di eternizzare una volontà iniziale senza cozzare contro la discontinuità essenziale della monarchia né correre il pericolo di una deriva tirannica (essendo la sola premessa che l’iniziatore sia un monarca assoluto illuminato). Ben inteso, questo regime teocratico riposa interamente sulla credenza finalistica in un dialogo tra Dio e gli uomini. Non di meno esso è in qualche modo la verità della monarchia – questa forma di sovranità non può essere detenuta che da Dio – e nello stesso tempo una domanda posta alla democrazia. Poiché Spinoza non insiste invano sull’infantilismo degli Ebrei, libres esclaves, secondo la nativa condizione degli uomini, e per sovrappiù ultra-sensibili all’idea della loro singolare elezione.156 Ora la sola lucida ragione che gli uomini possono avere di trasferire la loro sovranità ad un re, è di non saper risolvere da soli le loro controversie.157 Per l’appunto, nel trasferimento a Dio, dia-

154

A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., p.447. J. B. Bossuet, «Sermon sur le devoir des rois», 1662, in J.B. Bossuet, Sermons et oraisons funèbres, Paris, Le Seuil, 1997, p.162. 156 Cfr. supra, cap. VI. 157 TP, VII, 5. È qui che Spinoza si avvicina in certo modo ad Hobbes (cfr. supra, p.41, n. 152). Con due sfumature: su questo punto non parla d’infantilismo; e ciò che per il pensatore inglese, è materia per un giudizio definitivo sulla democrazia, per Spinoza è al contrario lo sprone che forza a pensare. 155

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gnosticavamo già un chiaro riconoscimento del medesimo ordine: ci si rimette ad un adulto, all’occorrenza Mosè nel suo rapporto con Dio, e più generalmente al soccorso esterno di Dio (che, tenuto conto della definizione spinoziana, può anche applicarsi alle cure date dagli adulti ad un neonato). E restavamo su questa aporia: l’educazione mosaica, la sola apparentemente possibile, non è un vicolo cieco? Non impedisce ogni processo di liberazione reale? Che cos’è questa confusione ebraica di habitus e libertà? Un’illusione da schiavo, oppure la svolta verso la liberazione finita male per il fatale errore di Mosè? Concludere sulla monarchia vuol dire fare come Spinoza alla fine del capitolo VII del Trattato politico: ritornare alla questione della «moltitudine libera».158 Ma occorre prima ricapitolare. Abbiamo visto l’assolutismo regale, chimera politica per eccellenza, ossessionata cinque volte dalla trasformazione: tendenza all’aristocrazia dissimulata, tendenza al sogno trasformista; tendenza alla versatilità della volontà, tendenza alla morte periodica, tendenza all’apoteosi. La prognosi su questa forma politica che non è una e che pure trionfa in Europa, è complessa: Spinoza ne annuncia il crepuscolo nel quale scorge anche il crepuscolo di ogni Stato.

9. Che cos’è una moltitudine libera? Guerra e civilizzazione Il Trattato politico, come ogni testo di filosofia con pretese politiche, alla fine ha senso solo a titolo di intervento. Passiamo veloci sull’evidente: qui Spinoza, ancora meno – se è possibile – che nel Trattato teologico-politico, non si rivolge alle masse. Queste ultime, lottando per la loro stessa oppressione con il dare il proprio favore ai partigiani dell’interpretazione più rigorosa del dogma della predestinazione, avevano già incoraggiato l’esecuzione del Gran pensionario Oldenbarneveldt nel 1619; ora hanno da poco linciato il Gran pensionario De Witt, mettendo tutte le loro forze al servizio dell’intolleranza. Sappiamo d’altra parte che la Repubblica era di fatto un’aristocrazia (dominata dalla classe commerciante dei reggitori a cui era dovuto lo stupefacente sviluppo economico dell’Olanda), ma che tale forma era poco garantita da istituzioni equivoche (polo militar-clericale monarchico dello Stathouder, rivendicato dalla dinastia d’Orange; polo par-

158

TP, VII, 26; TP, VII, 30 e TP, VII, 31.

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lamentare rappresentato dalla carica di Gran Pensionario, e dominato dai Reggenti).159 Sappiamo infine che Spinoza ha tendenza a privilegiare una alternativa fondamentale tra la tendenza popolare o democratica, di essenza pacifista, tollerante e civilizzata, e la tendenza tirannica, di natura bellicista, devota e barbara, incarnata dalla monarchia divenuta assoluta (è certo un suo merito aver in qualche modo descritto anticipandola, nella sua analisi del regime monarchico, tutta l’evoluzione del regno di Luigi XIV, dopo l’autorità effettiva di Mazarino e la potenza di sedizione delle grandi famiglie aristocratiche sotto il regno apparente di un re bambino, fino all’ultimo atto devoto e guerriero che gettava il paese ella miseria). Così, il popolo è contemporaneamente vulgus e moltitudo: massa d’ignoranti angosciati e creduloni, ma nondimeno fonte immanente di ogni sovranità, e per questo fonte del senso. Non si può contare su di esso; non si può però rinunciare ad esso. C’è qui un’evidente ambivalenza se si dimentica ancora una volta l’immagine rettificata dell’infanzia: la questione è quella della civilizzazione, e Spinoza lega con ogni evidenza quest’ultima al divenire della moltitudine. Lungo tutto il Trattato politico, in effetti, il concetto di moltitudine è tormentato dalla differenza libero/schiavo, che riceve la sua piena consistenza dall’opposizione barbari/culti, barbari/civiles. 160 Ora, la civilizzazione non ha che un nome: democrazia. Le aristocrazie non sono che un effetto della Storia di cui la fisica delle passioni spiega la genesi (reticenza degli uomini ad accordare la cittadinanza a chi non ha, come loro, contribuito a rischio della propria vita alla formazione del loro stato) e la loro degenerazione in monarchie assolute (riduzione della nobiltà, con il passare del tempo, ad un piccolo numero di clan che si dilaniano).161 La prudenza non è mai l’ultima parola di Spinoza riguardo al popolo, ma solo una costatazione realistica che uno spinozista conseguente non ha alcuna ragione di vergognarsi a dichiarare: «il volgo incute terrore se non è vinto dalla paura (terret vulgus, nisi metuat)».162Ma si dimentica sempre la conclusione del testo, dopo che Spinoza ha ricordato che il pentimento, l’umiltà e il rispetto, che in se stessi sono tristezze e rendono l’uomo infelice, erano tuttavia predicati dai Profeti:

159 160 161 162

Cfr. Introduzione. TP, I, 7 ; TP, X, 4. TP, VIII, 12. Eth IV, 54 sch.

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«In verità quelli che sono soggetti a questi affetti possono essere guidati più facilmente di altri a vivere, finalmente, sotto la guida della ragione, cioè ad essere liberi e a godere della vita dei beati». Si dimentica questo punto di vista sull’educazione, che era quello di Mosè. È vero che Spinoza era nello stesso tempo attento a non cadere nel ‘sogno ad occhi aperti’: «abbiamo dimostrato inoltre che la ragione può molto nel reprimere e nel moderare gli affetti, ma abbiamo anche visto che la ragione insegna un cammino molto difficoltoso. Tanto che sogna l’età dell’oro dei poeti, ossia una favola chi è persuaso di poter indurre la massa, o chi amministra la cosa pubblica, a vivere secondo il solo precetto della ragione».163 La civilizzazione non è dunque la moltitudine divenuta comunità dei saggi. Ma è la moltitudine elevata alla concordia, detta anche vera pace, i cui membri, continuando ad esser sottomessi alle loro passioni, sono non di meno dominati da passioni gioiose. E questa è la differenza tra i due tipi di moltitudine. Per trattare il problema cominciamo con il rileggere interamente questo testo decisivo di cui abbiamo già parlato più volte: Una società civile i cui sudditi, atterriti dalla paura, non prendono le armi, si deve dire senza guerra piuttosto che in pace. La pace infatti non è assenza (privatio) di guerra, ma è virtù che sgorga dalla fortezza dell’animo (animi fortitudo). E l’obbedienza (per l’articolo 19 del cap. II) è la costante volontà di fare ciò che deve essere fatto per decreto comune della società. In modo più pertinente si può chiamare deserto, non società civile, quella società la cui pace dipende dall’inerzia dei sudditi, condotti al modo di un gregge, affinché imparino solo a servire. Quando dunque diciamo che è ottimo quello Stato in cui gli uomini trascorrono la loro vita in concordia, per vita io intendo la vita dell’uomo, la quale è definita non tanto dalla circolazione del sangue e da altre cose comuni a tutti gli animali, quanto soprattutto dalla ragione, la vera virtù e la vita della mente. Si osservi che per Stato da istituire secondo il fine suddetto, io intendo lo Stato istituito da una moltitudine libera, non quello che si acquisisce per diritto di guerra assoggettando una moltitudine. Una moltitudine libera, infatti, è guidata più dalla speranza che dalla paura, una moltitudine schiava più dalla paura che dalla speranza. La prima ha di mira la vita (vitam colere) e si ingegna a vivere per sé; la seconda cerca solo di evitare la morte ed è costretta ad appartenere al vincitore. Per questo diciamo che quest’ultima

163

TP, I, 5. La prima frase ricorda le ultime parole dell’Etica: «Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt».

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è serva, mentre la prima è libera. Pertanto, il fine di uno Stato che qualcuno ha acquisito per diritto di guerra è il dominio e aver servi in luogo di sudditi. E sebbene non vi sia una differenza essenziale tra lo Stato istituito da una libera moltitudine e quello acquisito per diritto di guerra, il fine, come già si è mostrato, e inoltre i mezzi con i quali l’uno o l’altro debbono restare in vita, sono sensibilmente diversi. (TP, V, 4-6)

Il problema generale è di comprendere ciò che significa, per Spinoza, intervenire in politica: a che serve, nella pratica, tutto questo sforzo di ottimizzazione di ciascuna forma politica, monarchica, aristocratica, democratica? Cerchiamo di enumerare i presupposti del problema. 1° Spinoza mantiene la sua preferenza per la democrazia: regime umano per eccellenza (il solo a non avere alcun altro fine se non la concordia), e secondo lui il più razionale, non solo perché la soluzione di un problema ha meno possibilità di sfuggire ad un’assemblea numerosa che a un piccolo numero di persone, oppure ad uno solo, ma anche perché la sovranità è in tale regime «la più assoluta». 2° Tuttavia egli non ripone alcuna speranza nella rivoluzione, il cui fine è certo di levarsi contro il tiranno, ma che resta presa ineluttabilmente nella spirale della tirannia, contribuendo senza volere alla sua deriva barbara. 3° Conformemente al suo andamento generale che consiste nel trattare ogni cosa come naturale, dunque come individuantesi secondo una forma ed un conatus, Spinoza s’impegna a costruire, non una costituzione ideale di stile platonico, ma una costituzione ottimale per ogni tipo di regime, altrimenti detta una forma veridica, capace di conservarsi, e che possa essere distrutta solamente da cause esterne. 4° Tuttavia il riformismo del Trattato politico è aporetico: il destinatario del Trattato teologico-politico era la minoranza delle menti illuminate (prefazione) e alla fine qualunque sovrano posto davanti all’alternativa tra uno Stato tollerante “dunque stabile” e uno Stato intollerante, minato da una perpetua guerra civile (ultimo capitolo); invece il Trattato politico, a giudicare dai rari passaggi che evocano le condizione di una messa in pratica, non si rivolge ormai più ai sovrani né ai popoli in generale – ma alle sole «moltitudini libere», come noi sottolineavamo nell’introduzione. L’analisi della monarchia si chiude su questa precisazione, che torna ancora una volta a dissuadere da ogni tentativo rivoluzionario, e offre l’esempio degli Aragonesi liberati dagli Arabi e privi di alcuna memoria politica capace d’intralciare la libera formazione di uno 263

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Stato.164 Gli Olandesi non hanno pensato di riformare lo Stato, loro hanno messo fine alla Contea mantenendone delle tracce nel sistema deforme della Repubblica.165 5° Le «moltitudini libere» corrispondono a dei casi di nascita o, a rigore, di rinascita politica: la loro caratteristica è di non aver ancor costume politico. Sono popoli bambini (il cui grado d’ignoranza o di credulità collettiva è evidentemente variabile). 6° Infine, Spinoza espone uno schema generale di decadenza dello Stato, dalla democrazia primitiva fino alla barbarie monarchica finale. Qual è il senso del Trattato politico? Apparentemente la sola risposta è di lasciare fare al tempo che, per il gioco delle circostanze o delle cause esterne, dissolve poco a poco gli Stati fino a indebolirli al punto da essere annessi ad altri stati. Al di là dell’ottimismo riformista o del pessimismo fatalista, c’è un’altra via? Da un parte, in effetti, il gesto riformista è preso in un circolo («qui ho ideato uno stato monarchico istituito da una moltitudine libera, la sola che può trarre utili indicazioni da quanto io ho scritto»166). D’altra parte, il pessimismo generale tende ad una descrizione fisica di un universo politico analogo a quello dei corpi: ogni morte è trasformazione, sia che lo stesso popolo cambi di regime (Spinoza ne evoca la possibilità all’inizio del capitolo VI ma non cessa d’altra parte di escluderla), sia che esso si lasci assorbire da un insieme più grande, per invasione e annessione.167 Vi è tuttavia una differenza con i corpi individuali. In politica, l’integrazione di una comunità come tale è sempre problematica: se il suo rapporto individuante è una legislazione di Stato, l’alternativa è tra la dissoluzione pura e semplice nell’insieme più grande (assimilazione degli individui) e la minaccia di uno Stato nello Stato. Nei casi d’oppressione, oppure di annessione o di colonizzazione, la seconda possibilità prevarrà. Abbiamo visto che Spinoza offre l’esempio dei Giudei e dei Cinesi,

164

TP, VII, 26 e TP, VII, 30. TP, IX, 14: reformando, deformi. 166 TP, VII, 26. 167 Cfr. l’osservazione di Pierre-François Moreau, a proposito di «ciò che accade quando un popolo perde la sua identità statuale, per dispersione o per conquista»: «È significativo che mai nessuno in età classica pose la questione. Si tratta del diritto di conquista, non dell’identità dei vinti. Ora Spinoza s’interessa principalmente a questo problema d’identità che fa parte dei punti ciechi della teoria del patto». (P. – F. Moreau, L’expérience et l’eternité, op. cit., pp.461-462) 165

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e della conservazione dei loro specifici riti. Pensiamo anche all’esperienza famigliare marrana di un’altra religione sotto la religione apparente, e all’eventualità di un nuovo Stato ebreo evocata nel Trattato teologico-politico.168 Dal punto di vista della stabilità dello Stato ma anche della concordia la soluzione sta nel rimettere il jus circa sacra ad uno Stato che praticherà l’astensione in materia religiosa, e che permetterà quindi alle religioni di convivere invece che accerchiarsi pericolosamente: capacità di uno Stato tollerante d’integrare sotto il suo proprio rapporto i rapporti di differenti comunità in tal modo che queste si adattino senza giungere a dissolversi (Stato-asilo e non più imperiale: qui è tutta l’opposizione tra la Spagna e le Provincie Unite).169 A che serve il Trattato Politico? Le sole occasioni storiche, per Spinoza, paiono legate a delle nascite politiche, alla conquista dell’indipendenza: da questo punto di vista, i movimenti della decadenza sono compensati nella Storia dai processi di assorbimento e di secessione. Tuttavia, non si danno occasioni per il presente. Alla fine noi non vediamo che un indizio: la coincidenza del presunto stadio ultimo della decadenza – monarchia e invasione (se non annessione)170 – e della nuova situazione dell’Olanda al momento in cui Spinoza redige il Trattato politico. Per comprendere cosa ciò suggerisce, dobbiamo tornare alla domanda iniziale: cos’è una moltitudine libera?

168

TTP, III [12]. Cfr. anche la lettera 18 (XXXIII) di Oldenburg a Spinoza: «È qui sulla bocca di tutti la voce che gli Israeliti, dopo più di duemila anni di diaspora, torneranno in patria. Pochi qui lo credono, ma molti lo desiderano. Comunica al tuo amico che cosa hai sentito dire e cosa pensi al riguardo». 169 TTP, XIX. Cfr. il problema francese del giansenismo e soprattutto del calvinismo. 170 Impantanata, tanto in senso figurato che in senso proprio (l’apertura delle dighe infatti interrompe l’avanzata delle truppe francesi), la questione è risolta solo un anno dopo la morte di Spinoza, con la pace di Nimega.

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8. COS’È UNA MOLTITUDINE LIBERA? GUERRA E CIVILIZZAZIONE 1. Il popolo che non teme la morte (elogio degli antichi Ebrei) Ripartiamo dal popolo ebreo, a costo di contestare le interpretazioni che attualmente prevalgono. Il regime teocratico è davvero, come vuole Alexander Matheron, un regime confinato nella barbarie e nella tristezza? Abbiamo sottolineato l’enigmatica trasformazione dell’obbedienza in libertà, suggerita dal Trattato teologico. Questa idea è lungi dall’essere allusiva e secondaria. Spinoza nota che Mosè gioca sulla paura, ma ancor di più sulla speranza: egli conta su un comportamento sponte, «spontaneo», «di buon grado», «volontario», «per proprio consenso» degli Ebrei.171 Questo proposito è preceduto da un primo abbozzo di teoria politica generale tratta dall’analisi del regime giudeo: Spinoza vi oppone la democrazia, laddove – egli dice – non ha più senso parlare di obbedienza dato che le leggi sono l’oggetto di un comune consenso, alla monarchia assoluta che implicava che ognuno «pendesse dalle labbra di chi comandava». Davanti a questa alternativa, il regime ebreo appare inclassificabile: esso sembra partecipare a entrambe le categorie. Ma andiamo oltre. Dare il primato alla speranza sulla paura non rileva una preferenza da educatore spinozista, ma un fiuto, un’intuizione tutta mosaica: da una parte, gli Ebrei non si lasciano condurre dalla sola intimidazione, a causa della loro insubordinazione (che qui appare sotto la sua luce paradossalmente positiva: libertà ultima dello schiavo o del soggetto terrorizzato, abbiamo detto); d’altra parte, occorre che in caso di guerra gli ebrei diano prova di virtus, che non si battano solo per paura del supplizio. È solo da questo punto di vista che la religione assume un senso, poiché ispira al popolo una passione gioiosa, un amore dedito sia alla patria che a Dio. Così, gli Ebrei divengono capaci di «preferire il martirio piuttosto che un potere straniero». 172 Tale amore per la patria ha un rovescio o una contropartita: un ugual odio verso lo straniero. Che questo divenga a sua volta un motivo è certo; resta non di meno che l’amore è predominante e che senza una devozione positiva l’o-

171

TTP, V [10]; (G, III, 61). Cfr. supra, alla fine dello studio precedente, la nota su Terenzio. 172 TTP, V [10] e TP, VXII [23].

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dio non avrebbe ragione d’essere. Per gli Ebrei, l’odio dello straniero deriva strutturalmente dal tipo d’amore che essi provano, legato alla credenza nella loro singolare elezione. È sempre questa «natura» acquisita tramite leggi e costumi a definire un comportamento affermativo di fronte al rischio bellico: piuttosto la morte che la sottomissione. È questa una condotta suicida? È significativo che tale questione, che risale a Platone (Apologia di Socrate), non comporti alcun problema per Spinoza che la interpreta come una vittoria sulla paura della morte. Bisogna ammettere che gli Ebrei, abituati alle superstizioni degli Egizi, «di rude ingegno e sfiniti da una misera schiavitù» (a nostra conoscenza Spinoza li chiama «infantili» ma mai «barbari») danno prova in questo frangente di un progresso insigne. Spinoza vede nella Storia un solo popolo paragonabile agli Ebrei: i Macedoni, che tennero testa ad Alessandro, «troppo saggi» per credere alla sua divinità. La loro resistenza mostra che «gli uomini, a meno che non siano del tutto barbari, non sopportano di essere ingannati così apertamente e di divenire, da sudditi, servi inutili a se stessi». (segue allora, per contrasto, la frase sulla dottrina monarchica del diritto divino, citata più sopra).173 Essere utile a se-stessi: questa definizione, che s’oppone alla schiavitù, è applicata a sua volta al caso ebreo. Insistendo sulla loro bravura (virtus) in combattimento, Spinoza rende omaggio per due volte a ciò che egli chiama libertas militum concivium, «libertà di soldati concittadini».174 La specificità di un tale esercito, fondato sul servizio militare e non sul reclutamento dei mercenari, è, da una parte, di non combattere che per la libertà dello Stato e per la gloria di Dio, non per la gloria dei capi;175 d’altra parte, di fare solamente «la guerra per la pace e la difesa della libertà» (bellum propter pacem et ad tuendam libertatem).176 In generale, gli Ebrei non avevano fatto ricorso a un capo se non in tempo di guerra: dopo Giosuè, nominato da Mosè, l’esercito non ebbe più un capo permanente, cosa che ispira a Spinoza il confronto vertiginoso dello statuto della confederazione che univa le tribù senza capo supremo durante il periodo dei Giudici con l’attuale confederazione delle Province Unite.177

173 174 175 176 177

TTP, XVII [18] (confronto con gli ebrei) e TTP XVII [6] (risveglio dei Macedoni). TTP, XVII [18]; (G, III, 199). Ibidem. TTP, XVII [22]; (G, III, 200). TTP, XVII [14].

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Il Trattato politico moltiplicherà a posteriori le allerte contro il pericolo militar-monarchico concretizzato nella restaurazione dello Stathouder e nel nuovo statuto di capitano generale e ammiraglio generale a vita ottenuto dal principe d’Orange in seguito all’invasione francese; egli sottolineerà anche il pericolo di un’armata di mestiere. Non è più allora al glorioso popolo ebreo che Spinoza comparerà gli Olandesi, ma al popolo romano, che ne è l’antitesi e che mai seppe formare il proprio Stato: anch’esso insubordinato come l’ebreo, ma non capace come quest’ultimo di apprendere la disciplina che rende i popoli liberi.178 Dall’epoca etrusca in cui esso non era formato

178

La rovina della Repubblica romana è dovuta all’ambiguità del regime: il conflitto tra aristocrazia senatoriale e monarchia latente dei capi militari, poi lo strappo tirannico dopo l’instaurazione del Principato (tre imperatori nel solo anno 69, ecc.). Spinoza ribalta la tesi di Polibio che vedeva la superiorità della costituzione romana in un’abile mescolanza delle tre forme politiche canoniche e credeva che l’equilibrio ottenuto da una selezione di ciò che di migliore ha ciascuna delle tre forme avesse permesso ai Romani di sfuggire fino ad un certo punto al ciclo fatale dei regimi (cfr. Polibio, Storie, tr. it di M.Mari, a cura di D.Musti, Milano, BUR, 2001, VI, cap.3). Ecco ciò che pensa Spinoza della presunta armonia della costituzione mista: «A Roma anche i tribuni della plebe erano perpetui, ma in verità senza la forza sufficiente per fermare la potenza di qualche Scipione. Inoltre, dovevano rimettere al senato la decisione su ciò che pareva loro salutare e il senato spesso li aggirava, brigando perché la plebe favorisse maggiormente il tribuno che meno faceva paura. Si aggiunga che il prevalere dei tribuni sui patrizi era difeso dal favore della plebe, e tutte le volte che i tribuni convocavano la plebe sembrava che iniziasse una sedizione piuttosto che un comizio». (TP, X, 3) Il capitolo XVIII [9] del Trattato teologico-politico propone un sunto ardito – in appena una decina di righe – di tutta la storia romana. Spinoza adotta l’abituale partizione in tre periodi, ma la sua maniera di definirli è originale: 1) una monarchia precaria che non perviene a creare le abitudini o i costumi che la stabilizzerebbero (tre dei sei re muoiono assassinati), depauperata dei caratteri dell’assolutismo dato che il diritto di elezione appartiene al popolo. 2) una rivoluzione molto più facile di quella di Bruto celebrata da Machiavelli e le cui circostanze corrispondono a quelle che il Trattato politico definisce come destinate a provocare una sollevazione popolare (lo stupro di Lucrezia da parte di Sesto), ma che sfocia in un’Aristocrazia (più tiranni in luogo di uno solo, schernisce Spinoza), periodo in cui il popolo si mantiene con espedienti, guerra all’esterno e miseria all’interno; 3) infine una monarchia, dissimulata sotto un altro nome (principato, impero). In breve, dall’ultimo Tarquinio ad Augusto, non si è fatto che cambiare nome al regime, proprio come in Inghilterra, il nuovo re Cromwell si è battezzato «Lord Protettore». Potremmo aggiungere che la forma monarchica si è vieppiù affermata in quanto il potere è

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che da «uomini sediziosi e dissoluti» a quella di Augusto in cui essi restano abbastanza «barbari» da accettare il rito dell’apoteosi, non si vede traccia di un processo civilizzatore (vedremo più avanti quale rettifica conviene tuttavia apportare a questo giudizio).179 Essere utili a se stessi: oltre l’istituzione del servizio militare, c’è la divisione uguale della terra che, nel cuore degli Ebrei, sostituisce al desiderio di diserzione, la ratio utilitatis quae omnium humanorum robur et vita est, altrimenti detta «la considerazione dell’utile, che è la forza e la vita di tutte le azioni umane».180 E, se è vero che la disciplina mosaica è fondata su una mescolanza di paura e di speranza, la prevalenza della speranza è confermata dall’evocazione a tre riprese della gioia degli Ebrei, laetitia, nel compimento della loro vita rituale di cui le feste facevano parte.181 Non vi è dunque niente di stupefacente nel fatto che Spinoza possa parlare a proposito di una libertas humani imperii. «libertà di uno Stato umano» 182 che merita di essere avvicinata alla «vita umana» propria della «moltitudine libera» del Trattato politico. La libertà degli Ebrei è certamente indipendenza dagli stranieri, ma questa indipendenza non è che la conseguenza o la proprietà della forma che essi hanno saputo, grazie a Mosè, dare alle loro leggi e ai loro costumi, e che hanno fatto di loro degli esseri rivolti verso la vita piuttosto che verso la morte. Non possiamo dunque sottoscrivere il giudizio di Alexandre Matheron sulla teocrazia, che ci pare contraddire la valutazione spinoziana di tale regime e fondarsi su una deduzione arbitraria: «una Teocrazia, senza dubbio, permetterebbe di evitare la decadenza; ma essa vi perverrebbe solo impedendo ogni sviluppo della civilizzazione: organizzerebbe così

diventato assoluto (ereditario). Spinoza fa dunque lui stesso un parallelismo tra l’assolutismo contemporaneo e l’assolutismo augusteo. 179 TTP, XVIII [9] (periodo primitivo) e TTP, XVII [6] (età augustea). Una nota di P. – F. Moreau lo sottolinea in Spinoza. L’experience et l’éternité, op. cit., p. 439, n.3. 180 TTP, XVII [25]; (G, III, 201). 181 TTP, XVII [25]; (G, III, 202). 182 TTP, XVII [18]; (G, III, 201). Per concordare con la traduzione di Charles Appuhn, «liberté d’un État humain», qui letta come genitivo dall’Autore, abbandoniamo la traduzione di Omero Proietti che risulta assai diversa, «l’indipendenza da ogni potere umano», e ricorriamo a quella di Antonio Droetto e Emilia Giancotti Boscherini (B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino, 1980, p.430). Nota della traduttrice.

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bene la barbarie da renderla insuperabile».183 In effetti Spinoza ha visto senza alcun dubbio nel popolo ebreo dotato di istituzioni mosaiche un modello di moltitudine libera, di progressiva elevazione di un popolo infante dallo stato di barbarie iniziale (libertà dello schiavo liberato) a quello della civilizzazione. E non si devono rovesciare le carte in tavola dimenticando che Spinoza ha giudicato tale regime così lodevole da meritare che si sollevasse la questione della sua imitazione.184 Di certo la teocrazia è un regime che ora ci appare insieme buffo e scandaloso: sembra un insieme di superstizione e di totalitarismo. Ma “come Spinoza” noi dobbiamo accostarvici per quanto sia possibile senza passione, gettando su di esso lo sguardo freddo della comprensione. Beninteso, la teocrazia è una convenzione, ma il problema è più ampio: è il problema dell’educazione collettiva, o del passaggio alla civilizzazione, ossia ad una vita sociale umana. A buon diritto, l’idea di una educazione collettiva oggigiorno ci fa orrore. Ma giustamente il giudizio finale di Spinoza è: imitabile, sed non imitandum. Pragmaticamente, Spinoza non critica mai il carattere fittizio della teocrazia: egli dice solamente che essa non può convenire che a un piccolo popolo chiuso in se stesso, e non a uomini per cui è vitale «commerciare con gli altri».185 Restiamo dunque su questa aporia, unita alla perorazione “alla fine storicamente impotente” del capitolo XX in favore della libertà di pensiero e di espressione. È qui l’ultima parola di Spinoza?

2. Lotta e libertà nel Trattato politico (TP, § VII, 22) Si commenta raramente, o piuttosto non si commenta affatto lo stupefacente paragrafo VII, 22 del Trattato politico.186Probabilmente perché vi si stabilisce un rapporto alquanto disturbante tra guerra e

183

A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., p.461. questo giudizio è ripreso da Étienne Balibar, che non vede, a sua volta, che barbarie e tristezza nello stato ebreo (E. Balibar, Spinoza et la politique, op. cit., p.59). 184 TTP, XVII [30] e TTP, XVIII [1]. 185 TTP, XVIII [1]. Senza dubbio il concistoro calvinista ha pretese teocratiche (cfr. A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, op. cit., p. 461); ma ci pare che le osservazioni di Spinoza abbiano una portata ben più ampia. 186 Ad eccezione di L. Mugnier-Pollet, La philosophie politique de Spinoza, op. cit., pp.184-185, la cui analisi è comunque ben lungi dall’accordare a questo testo l’interesse che merita.

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libertà. Il testo non cessa di ricordare che lo stato civile ha per obiettivo la pace e che la peculiarità della mistificazione regale è di dissociare pace e libertà promuovendo un simulacro della pace prossimo allo stato di natura (deserto degli uomini terrorizzati). Nell’analisi del regime monarchico, Spinoza attribuisce la più grande importanza alla congiura militare, e per questo egli raccomanda la coscrizione, l’esercito dei volontari, così come l’elezione dei capi solo in tempo di guerra e per un mandato di un anno non rinnovabile.187 Non solo egli riprende in sostanza le disposizioni prese da Mosè, ma il suo proposito va ben oltre il quadro dell’instaurazione di una monarchia costituzionale, dato che vi riappare, come d’altronde a proposito della teocrazia giudea, l’opposizione del polo democratico pacifico e libero (non fare guerra se non in vista della pace) e del polo militar-monarchico (non avere altro interesse che la guerra), dove si ritrova la funesta oscillazione della sovranità batava. Ora Spinoza aggiunge la seguente digressione: Abbiamo sostenuto che all’esercito non si deve accordare nessun stipendio. Giacché la libertà è l’unico stipendio e il più alto. Nello stato di natura, infatti, per il solo amore della libertà ciascuno vuole ad ogni costo difendere se stesso, né si aspetta altro premio per la sua bellica virtù, se non di essere padrone di sé. Nella condizione civile, l’insieme dei cittadini va riguardato come se fosse un solo uomo in stato di natura. Perciò, mentre i cittadini tutti insieme si battono per difendere la loro condizione civile, ciascuno in realtà pensa a sé stesso, si dedica a sé stesso. I consiglieri, i giudici, i pretori e così via, si dedicano invece più agli altri che a sé stessi: è quindi giusto assegnar loro una ricompensa per tale dedizione. Si aggiunga che in guerra non c’è incitamento alla vittoria più grande e più onesto che prefigurare la propria libertà. Ma se solo una parte dei cittadini fosse arruolata nell’esercito (per cui sarebbe necessario pagare ad essi lo stipendio), il re anteporrebbe questi soldati agli altri cittadini (come abbiamo mostrato nell’art.12 di questo capitolo). Preferirebbe dunque uomini che conoscono le sole arti della guerra e che in pace, per il troppo ozio, marciscono nel lusso, e che infine, dissipato il patrimonio domestico, hanno in testa soltanto rapine, discordie civili e guerre. Uno Stato monarchico di questo tipo – lo si può dire con certezza – è in realtà uno stato di guerra, dove i soli soldati godono della libertà, mentre tutti gli altri sono divenuti dei servi.

Un’ipotesi guiderà il nostro commento: è nella lotta per l’indipendenza che la moltitudine si ricollega con il senso e il gusto della libertà?

187

TP, VI, 10.

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Questo testo è il solo del Trattato politico che tratta il corpo politico come un individuo senza sottoporre l’immagine ad una restrizione.188 È solo un caso o è il segno che la lotta è la prova stessa dell’individuazione politica? Al seguito di Machiavelli, Spinoza è sensibile all’idea di una decadenza legata ad una pace prolungata: la pace libera dalla paura, donde il passaggio dalla barbarie alla civilizzazione e all’umanità, dopo cui l’oziosità ha la meglio sull’azione e la concorrenza delle apparenze sull’emulazione virtuosa, e gli uomini ripiombano nella schiavitù.189 Ma, restando la pace un obiettivo assoluto per lui, a differenza del pensatore fiorentino, egli cerca il modo di incrementare un’attività pacifica del volgo e lo trova, tenuto conto della passione universale per il denaro, in una stimolazione politica dell’attività capitalistica.190 Ma il paragrafo VII, 22 invita a reinterpretare il ciclo: è il solo succedersi della pace alla guerra che porta a compimento il passaggio alla civilizzazione e all’umanità? Non occorre piuttosto pensare che la pace si genera nella lotta e nella conquista dell’indipendenza? La pace implica l’instaurazione libera di uno Stato e non la schiavitù di una moltitudine dominata da un’altra. Farla finita con la paura richiede di averla saputa dominare affrontando la morte per qualcosa di più che il semplice mantenimento delle funzioni biologiche, di esserci liberati dalla paura di morire per il prevalere di un desiderio di tipo gioioso – in questo caso la libertà. Questa è la vera differenza con il mitico modello del contratto: invece che da uomini posti davanti alla scelta del minore dei mali (acconsentire alla rinuncia di gran parte del proprio diritto naturale per paura della solitudine accresciuta da quella del supremo supplizio), la genesi dello Stato è del tutto differente laddove procede da una lotta per l’indipendenza di cui lo sprone non è la paura ma necessariamente la speranza. Perché necessariamente la speranza? Non vien voglia di obbiettare che la differenza è sottile e che i popoli sottomessi si sollevano solo

188

Le altre occorrenze sono integrate dall’avverbio veluti: TP, III, 2; TP, III, 5 e TP, VI, 1. 189 TP, X,4. Sul doppio ciclo machiavelliano cfr. M. Senellart, Machiavélisme et raison d’Ètat, Paris, PUF, 1989, p.44, che cita un passaggio di Istorie fiorentine: «Perché la virtú partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina […]». (in N. Machiavelli, «Istorie fiorentine» in Breviario, a cura di G. Brusa Zappellini, Rusconi, Milano, 1996, p.55) 190 TP, X, 6.

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per paura di un’oppressione ancor più grande? Tale schema è falso, poiché sollevare il giogo dell’oppressore richiede di attraversare la prova della morte. Quest’ultima è assente nel racconto del tutto irenico del patto originario: non lotta bensì convenzione; non un affrontarsi né un separarsi, bensì un mutuo riconoscersi di simili che si rafforzano l’uno con l’altro in seno ad una Natura certamente ostile, ma non a dir il vero dominatrice. Gli uomini non debbono combattere per contrattare. Il modello della pace derivata dalla guerra era già presente nel Trattato teologico-politico: nella fuga dall’Egitto e anche per certi versi nella Rivoluzione romana del 509. La differenza è che, nel Trattato politico, tale modello subordina a sé quello del contratto, come prova l’esempio aragonese: in primo luogo recidere il giogo, solo in seguito scegliere una forma di Stato. Dato che, per Spinoza, non si parte dallo stato di natura: vi si ritorna. Un tale schema presuppone evidentemente che l’identità collettiva preesista in qualche maniera già in seno allo Stato oppressore: questo perché ogni liberazione è il rovescio di una conquista e ogni moltitudine libera si presuppone in precedenza schiava, seppur forse libera in origine. Il rifiuto dell’assimilazione da una parte e dall’altra mantiene una sorta di Stato latente nello Stato, in ciò consiste ogni colonia (al di là della finalità fondamentale della pace e della conservazione di sé, questa è la ragione per cui le guerre di conquista sono da condannare, così come i matrimoni tra sovrani che convolgono una pluralità di Stati). Ritorniamo al paragrafo VII, 22 del Trattato politico: tutto avviene come se l’unione non si compisse mai al meglio se non nella lotta, ed è il caso di dire che i cittadini si battono come un solo uomo. Ma è lo slancio della conservazione collettiva del sé, e non la disciplina, che ne è la ragione: la disciplina sembra piuttosto a questo riguardo, l’effetto del desiderio all’opera nella lotta collettiva, lo stato civile ritornato al centro delle preoccupazioni degli uomini. Forse che il conatus collettivo si forgia o si ri-forgia nella prova di un faccia a faccia con la morte, in guisa del processo descritto nel prologo del Trattato dell’emendazione dell’intelletto? In effetti vi si riconosce il vocabolario del conatus (quantum potest). Inoltre, questo testo riecheggia il motivo finale dell’Etica: la beatitudine è la virtù stessa e non la sua ricompensa. Qui è proprio in questione una ricompensa immanente della virtù (virtutis praemium), a favore, è vero, di un certo slittamento di senso: dal coraggio del soldato alla beatitudine del saggio ne passa! La virtù e la libertà sono qui quelle a cui la moltitudine può aspirare: vivere di speranza piuttosto 273

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che di paura, coltivare la vita senza temere la morte.191 La moltitudine si educa attraverso la lotta per l’indipendenza, che si tratti di conquistarla o di mantenerla, e la Lotta, educatrice immanente, si sostituisce nel Trattato politico all’educatore mitico o per lo meno eccezionale che era Mosè. Nello stesso tempo, il modello non può più essere teocratico ma democratico – una democrazia almeno derivata dalla guerra come una convenzione spontanea, che precede il patto esplicitato.192 Sorpresa: c’è qui di certo un’idea romana. Dire che «all’esercito non si deve accordare nessun stipendio. Giacché la libertà è l’unico stipendio e il più alto» non significa solamente che la libertà è il risultato della guerra o il suo fine, piuttosto il risultato si deve intendere come un prodotto immanente, nel senso della prassi aristotelica. Il «prefigurare la propria libertà» evocato nel testo invita a una tale interpretazione e di conseguenza a un avvicinamento stretto con l’ultima proposizione dell’Etica. Senza dubbio l’espressione è suscettibile di due letture, una debole, l’altra forte. Lettura debole: l’immagine prefigurata della libertà è il motivo positivo che dà agli uomini il coraggio di battersi e di affrontare la morte (dato che il solo effetto della paura invita piuttosto a sottomettersi o a fuggire alla cieca: due condotte ugualmente suicide). Lettura forte: l’immagine della libertà non è mai così presente alla mente degli uomini come nella resistenza o nella difesa. È qui che il corpo politico emerge o resuscita come tale. Non possiamo allora immaginare che, nel contesto nederlandese delle lotte intestine sia sociali che religiose, Spinoza abbia fatto assegnamento in ultima istanza su di un nuovo vincolo della comunità nederlandese con se stessa favorito dalla nuova lotta per l’indipendenza di fronte all’invasore francese? Non è possibile pensare che la lotta collettiva fosse l’ultimo fattore capace di sovvertire la restaurazione oran-

191

Questo stile di vita è non di meno il più propizio allo sviluppo della ragione. Cfr. Eth IV, app. capp. XXV e XXXI. 192 Si potrebbe essere tentati di obiettare che, nel caso degli Ebrei, è l’educazione attraverso la speranza che dispone al coraggio guerriero e non l’inverso. Tuttavia: 1°) guerra e educazione di fatto sono contemporanee e l’ipotesi di una loro complementarietà non pare irragionevole; 2°) è il fondo di ribellione degli Ebrei che spinge Mosè ad educare il suo popolo attraverso la speranza piuttosto che con la paura (il suo successo come educatore è legato alla sua intuizione delle tendenze collettive). Tale insubordinazione, ricordiamolo, non è naturale (TTP, XVII, [26]); dunque, essa rivela o istituzioni «deformi» a cui corrisponde un habitus ovvero un habitus schiavile, tenendo conto dell’irriducibile resistenza dell’esistenza individuale come tale.

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gista suscitando un nuovo habitus democratico? Sappiamo che queste guerre sono per i potenti l’occasione di distrarre il corpo sociale dalle divisioni che lo attraversano, ravvivando la passione nazionale. Ma questa non figurerebbe qui come un’obiezione, in quanto è evidente che Spinoza oppone costantemente due tipi di guerra: la guerra per la gloria, espediente suicida dell’assolutismo regale che tiene in scacco la moltitudine ricorrendo a mercenari o che dirige la «superstizione» degli uomini «perché combattano per la propria servitù come se fosse la propria salvezza»;193 la guerra per lo stato civile o per la libertà, ove ogni cittadino-soldato, nella stessa lotta, apprende o riapprende a «dedicarsi a sé stesso». La guerra d’indipendenza o di resistenza è un processo che per la sua stessa logica scalza le basi della dominazione e del servaggio: anche nel caso di una moltitudine già formata – la tirannia non essendo propriamente una forma – noi dobbiamo supporre che essa non respinga l’invasore senza riappropriarsi almeno tendenzialmente della propria sovranità. Poco importa se il tiranno conserva alla fin fine il suo potere: la vittoria ottenuta non è la sua ed egli deve ormai venire a patti con la nuova esperienza dei suoi sudditi. Questa guerra, non certo quella coloniale, può esser detta civilizzatrice (con un termine, in effetti, leggermente anacronistico). Forse ora abbiamo la formula teorica dell’amnesia collettiva positiva di cui ponevamo il problema nell’introduzione: la guerra – non di conquista o di colonizzazione, ma d’indipendenza o di difesa di tale indipendenza, che ricrea delle condizioni esattamente inverse di quelle in cui la salvezza dello Stato, affidata a un generale, equivale a un trasferimento di sovranità verso la tirannia. La ricompensa immanente della guerra, o della virtù guerriera, è indubbiamente la libertà, ma teniamo conto dell’equivoco: che cos’è questa libertà se non lo stato civile stesso in atto, laddove gli uomini non sono mai così uniti come nel supremo pericolo (la nazione a rischio), dato che la virtù consiste in atti pubblici? La libertà acquisita nella lotta è insieme indipendenza nazionale ed esperienza della cittadinanza. Questo esito conduce forse a una valutazione più complessa del rapporto di Spinoza con la civiltà romana. Infatti questa virtus bellica di cui la ricompensa immanente è la libertà, non proviene da Roma, attraverso Machiavelli? Spinoza non ha affatto stima, l’abbiamo detto, per questo popolo che non ha mai saputo dotarsi d’istituzioni capaci di far regnare altro se non la guerra sia interna che esterna, o una fin-

193

TTP, Pref. [7].

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ta pace, pax romana, ossia quella concordia rivendicata da Augusto come una delle virtù del principe.194 Tuttavia, nella sua concezione della guerra e della pace, della virtù guerriera e dello statuto dei capi, nella sua stessa diffidenza nei confronti del nuovo, lo si sente assai vicino alla posizione di un Catone il Vecchio nel conflitto che lo oppone a Scipione l’Africano. Catone è colui che conduce la lotta contro il prestigio crescente di un generale che moltiplica le vittorie militari e che egli percepisce come una minaccia per le istituzioni della Repubblica. In prima istanza, Scipione non crede un solo istante alla possibilità che il voto dei comizi dia all’esercito un capo talentuoso, mentre di contro Catone risponde che, se il talento di dirigere l’esercito non si incontra nel primo venuto, resta però che una campagna militare è sempre un compito collettivo e che le regole e la disciplina hanno importanza quanto il valore personale (viene qui da pensare alla finzione del regno di uno solo, secondo Spinoza). In secondo luogo, Catone s’oppone alla guerra per la guerra, egli non scorge la salvezza di Roma nell’espansione e nella conquista, e a volte s’esprime perfino in favore della libertà dei popoli (lo stesso motivo che troviamo in Spinoza). In terzo luogo, Catone preconizza il ritorno all’antica austerità dei costumi, alla figura del cittadino-soldato virtuoso e anonimo in cui egli vede l’origine della superiorità romana (un conservatorismo che troviamo anche in Spinoza, ma senza nostalgia, volto a una fondazione che non ha ancora avuto luogo, ma che forse presuppone una virtù attinta dalla lotta).195 Tuttavia, Catone ha un bel da indignarsi, Spinoza ricorda del conflitto solo la famosa insolenza di Scipione nei confronti dei tribuni:196 Scipione rappresenta la tendenza a lungo termine vittoriosa. Si noterà, e non si tratta di un caso, che il capo militare di cui Spinoza loda la virtù è Annibale.197 Catone sogna una Repubblica la cui realtà egli stesso proietta nel passato, ma che per Spinoza, a giudicare dal quadro desolante che egli traccia dell’intera storia romana, non è mai esistita. Spinoza non è così distante dall’essere il Catone d’Olanda, ma a differenza di Catone egli fa affidamento sulle forze più progressive, ed è forse per questo che, in luogo di una

194 Cfr. P. Martin, L’idée de royauté a Rome, t. 2, op. cit., p. 458 (Appien parla di «concordia attraverso la monarchia» ecc.). 195 Cfr. P. Grimal, Le siècle des Scipions, Paris, Aubier, 1975, pp.201-213. 196 TP, X, 3, citato in n.178. 197 TP, V, 3.

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vittoria di Pirro, la sua puntuale sconfitta segna la fine dell’assolutismo regio e l’affermazione dei «regimi popolari».198 Ponevamo all’inizio il problema della natura del «conservatorismo» così speciale di Spinoza. A conti fatti, non c’è quasi alcun rapporto tra il conservatorismo catoniano, memoria trasognata e senza oggetto, e la sua ripresa spinoziana – conservatorismo costituente, del tutto votato all’inedito. In effetti non è ciò che esiste attualmente che può conservarsi: non più la Repubblica romana, una volta nel preteso equilibrio della sua costituzione mista, nemmeno al suo presente la Repubblica delle Provincie Unite nelle sue istituzioni bipolari. Non si tratta di conservare ciò che esiste, ma di fare esistere ciò che si conserva. La rivoluzione è senza forza, se non rovinosa, perché è come una «conseguenza senza premesse»: una trasformazione solo in sogno. Conservare, di contro, ha come primo senso l’assunzione di un dato, detto efficacemente: di cause che si cancellano solo in sogno. Ora, si tratta di ripartire dal profondo della causa in generale, per trasmutarla o renderla «adeguata» con il favore di condizioni storiche propizie: congiungersi con lo sforzo di conservazione collettiva, con il punto di vista della costituzione. Per questo conservare ha necessariamente un secondo senso, per quanto sorprendente esso sia: creare.

198

TP, VI, 4.

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INDICE DEI NOMI Agostino, 167 Aillaud G., 145 Alessandro Magno, 231, 235, 267 Alpers S., 153 Appien, 276 Appuhn C., 96, 154, 185, 240, 269 Ariès P., 118, 121 Aristotele, 96, 130, 140, 141 Augusto, 231, 234, 235, 236, 241, 247, 268, 269, 276 Babel I., 191 Bacone F., 31, 32, 41, Baglivi G., 126 Balibar É., 240, 241, 247, 250, 270 Bayle P., 220, 221 Beaussant P., 234, 235, 236 Bodin J., 248, 256, 258. Boileau N., 235 Borch G. T., 122 Borges J.L., 29, Boss G., 69, 70, 81, 82 Bossuet J.B., 75, 141, 258, 259 Bove L., 141, 168, 174, 175 Boyle R., 30 Bruno G., 75, Brunschvicg L., 30, 84, Bruto, 268 Calderon de la Barca P., 217 Camerer T., 228 Carlo II d’Inghilterra, 229 Carroll L., 137 Casearius, 173, 190 Cassirer E., 107 Catone il Vecchio, 41, 276 Cecov A. P., 144

Cervantés M. de, 35 Cesare G., 229 Cristo, 30, 56, 73, 75, 152, 160, 177, 220, 222, Colerus J., 44, 136, 173, 177, 179, 195, 229, 230, Cornette J., 234 Cromwell O., 36, 37, 241, 257, 268, Delbos V., 84, 92, 94, Deleuze G., 131, 192, 193, 246, Descartes R., 32, 75, 77, 113, 124, 125, 126, 134, 135, 136, 138, 150, 151, 171, 194, 199, 201, 203, 204, 208, 209, 210, 213, 214, 218, 219, 222, 224, 228. Erasmo, 120, 121, 129, 192, Erdmann J. E., 228 Ernout A., 55 Federico II Hohenstaufen, 245 Fénelon, 75, 171, 220, 221, Fischer K., 228 Foucault M., 31, Foucher de Careil L.-A., 222 Francesco di Sales (San), 141 Friedmann G., 222, 227 Giacomo (San), 159 Giancotti E., 237, 269, Gilson É., 116, 150, 207 Giovanni (San), 73, 75, Giovenale, 131 Godeau A., 233 Gongora L. de, 35

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Grimal P., 130, 276, Guattari F., 17, 192, 193 Guérinot A., 35 Gueroult M., 114, 224, 227, Guglielmo II d’Orange-Nassau, 251 Guglielmo III d’Orange Nassau, 247 Guyonnet de Vertron, 235 Hegel G. W. F., 226, 228 Herder J. G., 228 Hitler A., 246 Hobbes T., 37, 50, 119, 128. 158, 189. 207, 237, 243, 245, 252, 254, 255, 256, 257, 259 Huan G., 228 Hubert C., 222 Hudde, 224, 225, 226, 227 Huygens C., 184 Jacopin P., 121 James, W., 186 Jeanneret M., 216 Jolibert B., 125, 128 Jordaens J., 153 Kant I., 219 Kantorowicz E., 258 Koyré A., 32, 95, 96, 103, 107, 122 Lacour-Gayet G., 233 Lagrée J., 121 Lamy F., 221, 222 Le Brun C., 234, 235 Lebrun F., 127, 217 Leibniz G.W., 32, 127, 148, 150, 207, 217, 220, 221, 222, 223, 227 Lett D., 119 Locke J., 113, 119, 248

Lope de Vega F., 35, 217 Lucas, 44, 134, 136, 173, 177, 179, 195, 230 Lucrezio, 130, 131, 146, 162 Luigi XIV, 229, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 257, 261 Lully J. – B., 235 Lutaud O., 41 Macherey P., 14, 42, 113, 132, 135, 136, 141, 168, 173, 174, 185, 188, 194, 205, 225, 226, 230 Machiavelli N., 37, 238, 241, 243, 268, 272, 275, Malebranche N., 127, 141, 151, 194, 217, 220, 221, 222, Marin L., 241 Martin P. M., 235, 276 Masaniello, 44 Matheron A., 160, 237, 241, 242, 259, 266, 270, Mazarino, 261 Meillet A., 55 Meinsma K. O., 184 Mercurio Trismegisto, 125 Mersenne M., 208, 210 Metsu G., 112, 123, 124, 152, 153 Michelangelo, 130 Mignard P., 231 Mignini F., 62, 72, 82, 218 Molenauer J. M., 123 Montaigne M. (de), 119, 216 Montalvan J. P. de, 35 Moreau P. – F., 83, 84, 92, 94, 95, 96, 151, 173, 176, 264, 269, Mosè, 21, 40, 45, 48, 154, 156, 157, 158, 185, 187, 188, 190, 259, 260, 262, 266, 267, 269, 271, 274 Mugnier-Pollet L., 229, 270, Naudé G., 241, 286

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Negri A., 30, 31, Néraudau J. – P., 233, 235, 236 Nerone, 242, 246 Nietzsche F., 145 Oldenbarneveldt J. (van), 260 Oldenburgh H., 30, 62, 146, 215, 222, 265 Ottone, 240 Ovidio, 129, 130, 176, 234, 236, 243 Palatina (principessa), 234 Parker J. H., 35 Pascal B., 141, 151, 217, 218 Paolo (san), 73, 117, 120, 129, Pautrat B., 143 Pfersmann O., 95 Polibio, 268 Préposiet J., 237 Quitana F. de, 35 Racine J., 217, 231 Ramond C., 141, 142, Ravà A., 184 Rembrandt van Rijn H., 123, 124, 128, 217 Rodis-Lewis G., 208 Ronsard P., 215, 216 Rousseau J. – J., 186 Rousset B.,96, 106 Rubens P. P., 217 Santiago H., 29 Schama S., 123, 124, 127, 139, 143, 150, 160, 161, 173, 184, 188

Schrader C., 139 Schuhl P. –M., 122 Scipione l’Africano, 241, 268, 276 Senellart M., 241, 272 Sigwart C., 32 Silla, 229, 241 Steen J., 188 Stouppe J. – B., 229 Swift J., 137, 138, Tacito, 240 Tarquinio il Superbo, 268 Terenzio, 190, 266 Tommaso d’Aquino (san), 116, 117,118,121, 141, 150, 164, 198, 199, 207, 210 Tschirnhaus E. W. (von), 186, 187, 210, 223, Van Beverwijck, 184 Van den Enden F., 123, 233 Van der Spyck (famiglia), 173, 229 Van Dyck A., 152 Velasquez D., 122, 123, 257 Vermeer J., 145, 153 Vernière P., 233 Vygotskij L. S., 186, 188 Wenzel A., 107 Windelband W., 228 Witt J. de, 20, 35, 44, 53, 222, 260 Wittich, 222 Wolfson H. A., 37, 204, 224 Zulawski, 228 Zumthor P., 128, 173

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