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Italian Pages 171 Year 2018
Noelle De Smet
IN CLASSE COME AL FRONTE Un nuovo sentiero nell'impossibile dell'insegnare Quodlibet Studio
Prima edizione: settembre 2008 Prima ristampa: novembre 2018 © 2008 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mo1.zi, 23 - 62100 Macerata www .quodlibet.it Stampa a cura di POE Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (TN) ISBN 978-88-7462-229-o
I e-ISBN 978-88-229-1443-9
Edizione originale: Au front des classes, &litions Talus d'approche, Soignies 2005. Traduzione di Donatella Zazzi.
Volume realizzato dal Liceo Scientifico Paritario Enrico Fermi di Milano in occasione del cinquantesimo dalla fondazione, con la collaborazione dell'Istituto freudiano per la Clinica, la Terapia e la Scienza.
Indice
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Presentazione Donata Roma
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Prefazione. Dal fronte delle classi di Noelle De Smet al fronte del Fermi Giuseppe D'Arrigo
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Introduzione. La Piazza del Campo di ... Cien. In classe, come in trincea Virginio Baio
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Prefazione all'edizione francese Philippe Meirieu
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Fare tracce! o ciò che le parole ci dicono di te Odette e Michel Neumeyer
In classe come al fronte 39
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Quando c'è vita è il panico I primi cinque minuti Anche noi abbiamo dei grattacieli Caleidoscopio Aprire le porte del sapere: il rischio delle rotture È leggendo ... che si diventa lettori Mia madre non capirà Riunione di mamme in lavanderia Perché faccio quello che faccio
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INDICE
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Fare delle leggi, fare la Legge Obbedisci e taci? Diamine, ascoltami una buona volta .. .! Erik o delle parole per dirlo Per delle parole e delle posizioni Dieci ministri e un tirocinio Storie vissute in riunioni di genitori Dalle scale ai ministeri Il piede! Mi congratulo con Osama Bin Laden Cos'è «milieu»? Piantarsi
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Perché possano dire «Anch'io» (di Irène Laborde)
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Piccola fabbrica di storia(e) Tenere (attraverso) i muri (S)legare le lingue
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Appendice Anissa Maestro-desiderio
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111 119
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Postfazione Al fronte, le mani vuote, piene di ... Virginio Baio
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Intervista a Antonio Di Ciaccia Raccolta da Donata Roma e Alberto Visini
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Bibliografia
Presentazione di Donata Roma"'
Ecco un gioiello! Lo abbiamo trovato e vogliamo offrirlo per farlo conoscere a tutti coloro che operano nel campo dell'insegnamento. In occasione dei suoi 50 anni, il Liceo Enrico Fermi di Milano ha scelto di pubblicare questo libro di Noelle De Smet, In classe, come al fronte, edito in Belgio nel 2005 e già strumento di lavoro anche in Francia e Spagna. Un gioiello, dicevamo. Gioiello singolare perché Noelle De Smet, di fronte alle condizioni sempre più impossibili dell'insegnamento, sa ogni volta far leva sulla dimensione soggettiva degli alunni. Noelle si ispira alla pedagogia istituzionale di Fernand Oury, all'orientamento psicoanalitico di Jacques Lacan e di JacquesAlain Miller, della pratica-a-diversi dell'Antenna 110 di Bruxelles, senza tralasciare il suo contributo determinante e pionieristico che da decenni realizza alla Confederazione degli insegnanti, in Belgio. La pedagogia di Noelle è ogni volta inventiva, sobria e allo stesso tempo sorprendente. Sorprendente, non solo per gli effetti, ma per il suo punto di partenza: Noelle fa leva su ciò che è più singolare nell'alunno, sul suo sintomo. La pubblicazione in italiano di questo libro ha un'origine legata al problema della trasmissione. Nessuno infatti insegna qualcosa a qualcuno. Soltanto che, forse, questo qualcosa che qualcuno inventa può "dare delle idee" a qualcun altro che se ne può sostenere, può essere per lui un buon incontro. ~ Psicoanalista, membro della Scuola Italiana di Psicoanalisi, docente incaricato dell'Istituto freudiano. Lavora dal 1993 nell'équipc del Liceo Fermi.
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DONATA ROMA
Si può dire, ora, che c'è stato un buon incontro per Noelle De Smet che, nel 1983, si interessa alla pratica-a-diversi per organizzare, attraverso Virginio Baio, dei seminari e delle sessioni di formazione degli insegnanti. Nel 1991, Adele Marcelli, lei stessa interessata a questa nuova pratica, invita Virginio Baio a Offida per una serie di seminari con gli insegnanti e i genitori. Questi incontri sfociano nell'edizione di un libro "parlato", Genitori alla scuola del desiderio. Nel 1992, alcuni colleghi del Liceo Fermi di Milano si interessano a loro volta alla pratica-a-diversi e se ne ispirano per orientare il loro insegnamento. In breve, poco a poco l'esperienza singolare della pratica-adiversi si è diffusa anche presso insegnanti, genitori ed educatori, che hanno potuto trovare delle indicazioni operative in questo viottolo aperto da un analista lacaniano, Antonio Di Ciaccia. Viottolo dal dettaglio singolare che consiste nel farsi partner, sostenuti dalla psicoanalisi applicata, di chiunque di noi operi nei vari campi e nelle varie discipline (scuola, insegnanti, educatori, genitori, istituzioni cliniche, assistenti sociali, avvocati, ecc.). Nel nostro caso, scommettiamo sulle riunioni dell'équipe degli insegnanti e degli operatori per calcolare "da quale posizione di sapere" rispondere alle impasses. Per operare soli, sì, ma non da soli. A partire dal 1998 Adele Marcelli, invitata dal preside del Fermi, tiene una serie di corsi di formazione al liceo. Da allora partecipa ai lavori dell'équipe del liceo. Nel 2007, l'Antenna del Campo freudiano di Pisa inaugura, con la conferenza di Noelle De Smet L'arte impossibile dell'insegnare, il Laboratorio SOS-Insegnanti. In quell'occasione c'è stato finalmente l'incontro con Noelle di cui il Fermi stava traducendo il libro. Questo libro vuole essere il primo di una serie. Esso comprende, oltre l'edizione belga del 2005, una presentazione di Giuseppe D'Arrigo, preside del Fermi, una prefazione di Virginio Baio all'edizione italiana, due nuovi testi di Noelle De Smet e un'intervista a Antonio Di Ciaccia di Alberto Visini e mia. Va segnalata la difficoltà di una traduzione da un testo ricco di metafore, particolarità linguistiche ed espressioni gergali dell'età dei ragazzi e della cultura belga.
PRESENTAZIONE
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Si ringraziano particolarmente Michele Longo, gestore del Liceo Fermi e Antonio Di Ciaccia presidente dell'Istituto freudiano per aver consentito e condiviso l'attuazione di questo progetto editoriale. Si ringraziano inoltre tutti coloro che hanno contribuito a questa edizione italiana, in particolare le Editions Talus d'approche e Michel Bourdain da Soignies in Belgio che hanno concesso il diritto di pubblicazione in Italia e Donatella Zazzi per la cura e l'attenzione dedicata alla traduzione. Insegnanti, presidi, segretari, bidelli, amministratori, educatori, psicologi scopriranno, ce lo auguriamo, di poter inventare un viottolo singolare nel legame pedagogico.
Prefazione Dal fronte delle classi di Noelle De Smet al fronte del Fermi di Giuseppe D'Arrigo"'
- È un periodo in cui sono abbattuto. Non vorrei essere sbattuto di qua e di là. Non voglio trattamenti speciali. Non voglio stare a casa, voglio andare a scuola come tutti. - Sono deluso. Non c'è disciplina nella classe. Non riesco a seguire le lezioni. Devo sopportare cose che non vorrei sopportare. - Sono in difficoltà, la mattina sto male non riesco ad alzarmi. - Non riesco a stare in classe, ma sono disponibile a lavorare con i docenti per le lezioni e le verifiche. - Alle elementari, alle medie, in prima superiore studiavo sei ore tutti i giorni. Non imparavo nulla. Ero considerato un fannullone. - Riesco a stare in classe quando il professore spiega, ma non sopporto le pause quando non si fa nulla e c'è confusione. - Non posso rimanere ignorante, ma se sto in classe faccio casino e non imparo nulla. Il progetto educativo del Fermi ha come obiettivo fare del liceo una scuola dove ognuno possa trovare il proprio posto per mettersi al lavoro con il proprio tratto di particolarità. Genitori e studenti arrivano al Fermi durante tutto l'anno scolastico e chiedono asilo e tutela; nelle scuole dove sono, dicono, non c'è più aria, per loro, da respirare. Oggi i giovani ricevono un fortissimo richiamo nella direzione dell'apparire e del consumare che toglie valore e senso alla formazione, alla cultura e al lavoro scolastico. Il godimento srego" Preside del Liceo Scientifico E. Fermi di Milano.
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GIUSEPPE O' ARRIGO
lato, nella grande scuola della società del consumismo, schiaccia ogni progetto desiderante. L'esclusione e l'autoesclusione scolastica derivano direttamente da questa perdita di valore. Non c'è nella scuola alcun oggetto che brilli al punto da sentirne la mancanza, da valer la pena di battersi per conquistarlo, alcun oggetto che faccia intravedere e prometta prestigio e visibilità. Rimane una possibilità di eccellenza scolastica, ma è scarsamente riconosciuta nella società della telecelebrità e, allo stesso tempo, è faticosamente acquisibile. La scuola è in grande difficoltà; troppa difficoltà. Insegnare è diventato più che difficile, oltre che faticoso, a volte impossibile. Si è aperto un vero e proprio fronte sulla scuola. Sulla stampa si legge: di poca severità, di abusi e maltrattamenti, di bullismo, di mal di scuola, di suicidi, di abbandono e di statistiche europee in cui si stabiliscono graduatorie di ignoranza. La tentazione è una separazione netta tra un compito educativo di cui si dovrebbero fare carico i soli genitori e una trasmissione di saperi di cui si occuperebbero, condizioni permettendo, gli insegnanti. Di fatto non c'è insegnamento senza lavoro educativo. I genitori lasciati soli non possono che trovarsi in difficoltà sempre più grandi mancando di un terzo elemento fondamentale, una scuola che educhi. I testi di Noelle De Smet sono delle luminose testimonianze che ci danno delle idee, ci rendono più forti, più chiaroveggenti e ci danno la spinta e la forza di rifiutare il determinismo schiacciante dell'esclusione scolastica. Tutto questo ha prodotto la scelta di questa impresa editoriale fatta dall'équipe del Liceo Fermi che con l'Istituto freudiano propone in Italia la traduzione di Au front des classes con il titolo In classe come al fronte. C'è «un fronte» da aprire nella scuola per trovare la strada per trattare l'impossibile, per non indietreggiare davanti alla classe, ma per sostenere la classe che sta al fronte per trovare una sua modalità, ciascuno singolarmente, per rispondere alle impasses. Si può uscire dall'impossibile attraverso il lavorare insieme, insegnanti, preside, segretari, bidelli, amministratori, psicoanalisti.
PREFAZIONE
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L'impossibile non sta nel fatto che venga riconosciuto un colpevole - un ragazzo che è violento, una classe intrattabile, genitori che non collaborano ... -, ma si tratta di un impossibile strutturale: educare. L'insegnante non deve capire la particolarità del soggetto, che è l'elemento essenziale, ma può dare ad essa un posto. La particolarità non è un difetto, ma è una formazione strutturale del soggetto: ci sono venti ragazzi, ci sono venti particolarità. La particolarità non va educata, né conosciuta e soprattutto non va giudicata, va riconosciuta. Quindi mettersi al lavoro per estrarre la logica di un agire che nella sua unicità, dell'insegnante e delle classi, non è riproducibile in fotocopia. Nella misura in cui l'insegnamento ha sempre più a che fare con l'impossibilità dell'educare- ed è questo che la contemporaneità sembra richiedere - i saperi della pedagogia universitaria interpellati dagli insegnanti in difficoltà danno risposte che nella pratica del lavoro con le classi non sempre servono. E non servendo sempre non fanno altro che rientrare in quel «saper sbrogliarsela» che ha a che fare con l'unicità non trasmissibile. Unicità, si diceva, dell'insegnante e delle classi. Allora quello che ci resta da fare è metterci al lavoro, inventare a nostra volta, scommettere sulle difficoltà, saper includere nell'atto dell'insegnare la dimensione soggettiva dello studente. Da una parte, quindi, i saperi universitari che, non servendo sempre, svelano i limiti di una oggettivazione che fa scarto della dimensione soggettiva; dall'altro i rischi di un abbandono alle suadenze del narrare che può lasciare le testimonianze nella singolarità intrasmissibile. Senza il «voltarsi indietro», senza messa in logica, le classi, gli allievi e la stessa Noelle sarebbero rimasti in una contingenza ricca di situazioni problematiche, a volte estreme, di affetti e di scioglimenti risolventi. Mettersi al lavoro per cercare la logica implica un'inclusione, da una posizione di non sapere già, della dimensione del soggetto. Mettersi al lavoro da una posizione che non solo prende atto di un non-sapere; ma che in questo non- sapere sul soggetto trova il punto su cui il lavoro fa leva, è il progetto che l'équipe del Fermi da oltre dieci anni mette in atto.
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GIUSEPPE O' ARRIGO
Da cinquantanni gli insegnanti del Fermi hanno lavorato in senso contrario all'esclusione scolastica accogliendo studenti privati di una scuola che sapesse metterli al lavoro con la particolarità della loro soggettività. Il contatto con la psicoanalisi lacaniana è stato l'avvio di un volgersi indietro per estrarre, insieme, la logica del nostro lavoro e in questo le testimonianze di Noelle De Smet, che qui mettiamo a disposizione di tutti, sono gemme rischiaranti.
Introduzione La Piazza del Campo di ... Cien. In classe, come in trincea di Virginio Baio"'
Noelle De Smet è una insegnante belga. Insegnante che «si fa msegnare». L'indomani della festa per la conclusione del suo lavoro, si concede una meritata vacanza. Vacanza, perché per lei non c'è pensione che tenga! Continua infatti a lavorare alla Confederazione Generale degli insegnanti della quale è da poco diventata presidente. Vacanza meritata alla scoperta della Toscana. Di Siena, più precisamente. Noelle, a Siena, ci arriva risalendo la Val d'Orcia, percorrendo quella strada sterrata, scandita dalla serie di cipressi, dal colore verde-scuro, che intagliano, alla maniera di Fontana, l'orizzonte, lungo la strada che mira al cuore della piazza del Campo, di Siena.
Un piccolo libro rosso
Risalire il cammino che Noelle ha veramente fatto, da decenni, è quello che cercherò di fare per rispondere all'enigma della sua presenza, di una insegnante, nel campo della psicoanalisi applicata. Risalire la strada che la porta, percorrendo molteplici tornanti, al Campo freudiano. Come è arrivata Noelle a frequentare il Campo freudiano? Da dove viene? Come è riuscita a includere nella formazione degli insegnanti la dimensione soggettiva degli alunni a tal punto da essere inclusa come uno fra i principi che orientano la stessa Confedera"' Psicoanalista, membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, docente dell'Istituto freudiano, responsabile dcli' Antenna di Pisa del Campo freudiano.
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VIRGINIO BAIO
zione? Come è arrivata a lavorare nei Laboratori di Cien del Campo freudiano? Non solo. Come capire che Noelle De Smet sia sempre più invitata agli Incontri europei Cien1, Pipol2, del Campo freudiano? Perché sempre più spesso è invitata a fare delle conferenze, a partecipare a giornate di studio in cui si parla di psicoanalisi, di psicoanalisi applicata? Perché i suoi lavori sono pubblicati su Cien, su la Revue de l'École de la Cause freudienne? Da dove è partita, da quali Val D'Orcia è risalita, quali incontri ha fatto per sbucare nella piazza del Campo freudiano? Come è arrivata a testimoniare di un discorso che si sta rivelando innovativo nel campo dell'insegnamento e che, lei non lo sapeva, converge con la particolarità dell'interesse del discorso psicoanalitico? In fondo, chi ha incontrato chi? Cosa ci fa una maestra tra gli psicoanalisti? Questa breve allusione alla poetica strada che porta su su fino alla piazza unica al mondo, alla piazza del Campo di Siena, mi serve per introdurre questa edizione italiana del libro di Noelle, Au front des classes. Questo libro, questo piccolo libro dalla copertina rossa nell'edizione francese (il «secondo libro rosso, dopo quello di Mao», così è stato presentato quel 15 ottobre 2005, a Bruxelles-Saint Josse), sta andando a ruba nelle scuole e nelle università belghe, francesi, italiane ... A dire il vero, questo libro non l'ha pubblicato Noelle De Smet. E non l'ha pensato lei. I testi non li ha scelti lei. Non l'ha composto lei. Noelle, un giorno, si era fatta sfuggire, sì, di avere l'intenzione di scrivere un libro, ma non sul suo lavoro di insegnante. Vuole scrivere un altro libro ... È vero che Noelle aveva pubblicato decine e decine di articoli, lavori, conferenze, testi di suoi interventi a convegni, sessioni di formazione, ecc ... 1 Il Centro Interdisciplinare di Studi sul bambino (Cien) viene creato da JacqucsAlain Miller a Buenos Aires, nel luglio 1996, per aprire una possibilità d'interrogazione e d'intervento della psicoanalisi nel campo sociale. Esso mira ad «aprire il
campo dell'investigazione all'interscambio, al dialogo e al dibattito degli psicoanali-
sti con altri discorsi che hanno incidenza sul bambino ... ,. 2 Programma Internazionale di Psicoanalisi Applicata di Orientamento Lacaniano (Pipol) fa parte del Campo freudiano.
INTRODUZIONE
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Da qui il calcolo dei colleghi:« Tutte queste decine di scritti di Noelle, come metterli in rilievo?» «Ma non aveva parlato di fare un libro ... ?, che non ha mai tempo di iniziare a scrivere ... ?». Concludono allora: «Ma il libro è già scritto: tutti i lavori su «Échec à l'échec», e poi su «Traces de changements», basta che ne scegliamo alcuni, li mettiamo insieme, ed ecco il libro è fatto!». È così che è stato pubblicato il libro di Noelle! Cioè il libro-regalo dei colleghi della Confederazione Generale degli Insegnanti (Cgé). I colleghi avevano interpretato che Noelle voleva testimoniare della sua esperienza, cioè di quanto lei aveva imparato per aver scelto di lavorare con i «resti» che affollano la scuola professionale. «Tu hai sempre sognato di scrivere un libro, ma non hai mai avuto tempo di scriverlo: eccolo!» Questo libro è stato l'ultimo dei regali che la Confederazione le ha fatto, pubblicandovi commenti e testimonianze di quanti NoelIe stessa aveva associato o invitato per le formazioni della Cgé. Noelle è sorpresa perché non sapeva che i colleghi avrebbero composto e prodotto il libro. Ma soprattutto lei non sapeva che il vero libro Io aveva già iniziato a scrivere da quando aveva fatto una scelta, quella di formarsi alla «Scuola Normale» per non essere «normale». Il piccolo libro rosso è quell'asterisco che rinvia al libro scritto, con pazienza e sobrietà, il momento in cui aveva deciso di incarnare la funzione di «maestra - alunna alla scuola» di ciò che non va, di ciò che si mette di traverso all'insegnamento. In breve, una maestra che, senza cedere in niente alla sua professione, ha fatto dell'insegnamento, dei no gridati in mille modi dalle allieve, dei soggetti felici, facendo cioè quel détour, quella deviazione che Jacques Lacan chiama soggetto, il par/essere (parletre), l'essere che parla e che fa della parola il suo tratto specifico, ciò che lo contraddistingue. Il libro di Noelle testimonia del cambiamento di rotta che lei ha saputo introdurre nella «Pedagogia Istituzionale», della pedagogia tout court.
Leggere e scrivere A 13 anni è responsabile di un giornalino, di una équipe, e il professore di francese, accortosi della sua passione per la lettura
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e scrittura, nella lista dei libri per la classe prescrive dei libri apposta per lei. Iscritta alla «École Normale», nella sezione francese e storia, si sente inchiodata a delle regole: su come deve comportarsi, su come deve parlare, su come stare in cattedra; di non scendere tra gli allievi, di non sorridere. Normalità era sinonimo di sottomissione. Invece di insegnare, va in Svizzera, in un istituto belga per ragazzi abbandonati, come educatrice, e lavora a rimpiazzare la cuoca, la donna della biancheria, la donna delle pulizie. Anche quella è una formazione. Altro che scuola normale! Non ha da trasmettere alcun sapere prefissato, ma da stare, giorno e notte, con ragazzi difficili e far in modo che i ragazzi mangino, si lavino, non urlino. Allo stesso tempo è sorpresa perché nessuno si preoccupa che questi bambini imparino a leggere, scrivere, a far di conto.
Primo tornante: una scuola professionale Tre anni dopo, Noelle rientra in Belgio e va ad insegnare nella scuola dove aveva frequentato le medie. Due cose le interessano: la prima, che le alunne scoprano il gusto per la lettura e la scrittura; e che né le alunne né lei stessa . . s1 annomo.
E quelle che restano sui bordi? Ogni trimestre, alle riunioni si dice che tale ragazzo o ragazza non è fatto per questo o quell'insegnamento, allora li si «ri-orienta» nel professionale, senza però parlarne con loro. In pratica, quando si parla di «ri-orientamento», si tratta di segregazione. Peggio: sono quasi sempre lo stesso tipo di ragazzi che vengono ri-orientati: i ragazzi delle famiglie socialmente e finanziariamente poco favoriti. Per questo, Noelle decide inoltre di lavorare, il fine settimana, con adulti poco scolarizzati, minatori, metallurgici, belgi, immigrati: questi, se sono fieri del loro lavoro, soffrono però per la loro ignoranza. Hanno sete di sapere anche per i loro figli, la maggior parte dei quali sono già nel professionale.
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Da urlare. Decide di insegnare nel professionale: le condizioni impossibili per potere insegnare nel professionale sono tali da urlare! Perché era un luogo dove si accumulava la spazzatura. Spesso punto di arrivo di una serie di échec. L'immagine che le ragazze hanno di loro stesse non è bella. La sezione professionale, nella quale ha lavorato durante i primi anni (le «familiari», sezione soltanto per ragazze nella quale, si diceva, che vi si formavano delle buone casalinghe), è considerata l'ultima delle ultime: se ne vergognano. Spesso per queste ragazze, gli insegnanti sono nemici, nemici delle loro famiglie, dei loro genitori senza lavoro. Inoltre, per loro andare a scuola è mettersi in conflitto con i propri genitori: «Se imparo, sarò diversa dai miei genitori, amici, vicini: mi ameranno ancora?». Accumulano così rancori, vergogna, odio. Con le conseguenze e gli effetti che in classe regna la violenza verbale, la violenza fisica tale da impedire agli insegnanti di rendere possibili le lezioni. Gli insegnanti sono divisi tra l'attenzione da dare ai ragazzi e l'obbligo di seguire il programma scolastico. Inoltre, ogni insegnante ha la sua storia, il suo proprio desiderio, il suo modo di vedere, di pensare, di dire, di tacere, di lavorare ... Le poche soddisfazioni. «Dovete domarle ... , dovete limitare le vostre esigenze perché con quelle lì non ci si può far granché .. . Fatele fare qualcosa così si occupano così stiamo tranquilli ... », questo dicono gli insegnanti di queste ragazze, facendo intervenire l'affettività, il ricatto, la seduzione fino al punto del disprezzo: «Con dei culi senza gambe, non potrai far di loro che una persona con una gamba!» Sentito sulla bocca di un preside! «Perché ti danni l'anima per niente!?» Inventare a partire da un «altro discorso». Noelle intende l'insegnare come un'arte. E per uscire da impasses, difficoltà di ogni tipo, cercare di fare buoni incontri, fare una formazione continua, lavorando intensamente, avendo una «posizione». Cioè si tratta di stare accanto ad ogni allieva, di stare alla sua porta, aspettando che l'allieva stessa la apra, senza forzarla. Si tratta di
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cogliere le parole che le alunne dicono, anche le più sconvenienti, servirsene come trampolino per imparare, non come occasioni per punire o giudicare. Questo «altro discorso» aiuta Noelle ad agire, pensare, essere altrimenti ... Non per essere l'amica, ma per fare da «segretaria che prende nota, che fa da garante del lavoro e di una sicurezza». Per far sì che «sia possibile». Per questo, Noelle può contare sul movimento della Pedagogia Istituzionale, che non consiste né in tecniche, né in un metodo, ma soprattutto in una etica. Etica che si appoggia su tre piedi: la pedagogia (trovare dei metodi attivi dove gli allievi sono attori dei loro apprendimenti); la sociologia (prendere il gruppo della classe come partner attore); la psicoanalisi (sapere che l'inconscio è presente in classe) e perciò non fermarsi al fenomeno. Ma sapere che c'è un desiderio o non c'è desiderio in gioco.
Secondo tornante: la Confederazione Generale degli Insegnanti Dell'insegnante si dice di tutto: è sempre visto come una persona sola che deve cavarsela da sola di fronte alla classe. Alcuni però hanno saputo fare di una pratica impossibile, di sofferenze, di impasses un incontro e una visione politica del loro lavoro, una volontà di non restare soli. Hanno concluso che era necessario mettersi insieme. Così è nata la Cgé composta da centinaia di insegnanti che, in occasione di scioperi, rivendicava non solo un salario corretto, ma una formazione continua fino allora inesistente. Era il 1970. Jacques Liesenborghs, con altri insegnanti fra i quali alcuni del tempo della sua scuola, fonda in quell'anno il Movimento pedagogico, che raggruppava gli insegnanti dei vari livelli, dalle scuole materne all'insegnamento superiore, e di tutte le discipline, per interrogare l'insieme dei percorsi di apprendimento. E rifiutava la qualifica di «handicap-socio-culturale» nei confronti dei giovani immigrati, opponendosi alle ingiunzioni di pratiche selettive e di segregazione.
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La Cgé, strutturata in diverse équipe, funziona quasi da 40 anni: le unisce affrontare la realtà, i problemi, in un clima di ascolto e di ricerca, che sfocia in creazioni concrete ed utili come gli «Incontri Pedagogici d'Estate», il Centro di documentazione, la presa di posizione nella stampa, le pubblicazioni. Infatti da 35 anni, insegnanti di differenti generazioni e formazioni si riuniscono, cercano, scrivono, danno spazio ad altre pratiche, interrogano persone esterne, favoriscono la pluridisciplinarietà, valorizzano gli incontri preziosi. Questo libro di Noelle De Smet è appunto il risultato della decisione di questi gruppi che hanno voluto raccogliere qualche articolo di una scrittura che dura da una ventina d'anni.
Terzo tornante: la Pedagogia Istituzionale Orientandosi sulla Pedagogia Istituzionale proposta da Fernand Oury, la Cgé è ancora più attenta ad evitare le relazioni duali che portano ai conflitti introducendo una funzione simbolica, di un terzo. La Pedagogia scommette sul prendere in carico la responsabilità delle ragazze nel saper socializzare, nel come servirsi dell'uso collettivo dei muri della classe, della disposizione dei banchi in classe, ... Ma soprattutto fa leva sulla assunzione e ripartizione delle responsabilità delle quali ogni ragazza ha da render conto al Consiglio di classe. Il Consiglio di classe, che ha luogo settimanalmente, chiave di volta della classe, la cui funzione è di assicurare che ognuno sia sostenuto e rispettato nel suo dire, sostenuto a prendere il posto che gli conviene (spesso dopo tanti rifiuti, dimissioni e deviazioni), ad essere responsabile, senza lasciar passare niente, a non regolare i conti direttamente tra allieve. Una tale pratica con le allieve consente all'insegnante di non dover essere colei dalla quale ci si aspetta tutto, ma la stessa insegnante può appoggiarsi sul dispositivo del Consiglio di classe creato con le allieve. L'esperienza dice che una tale pratica permette che sorga un desiderio. Noelle spesso si sente «raccoglitrice di polvere» ogni qualvolta
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va a frugare nei cestini della spazzatura le parole scritte su pagine strappate, e si sente come la spigolatrice quando va in cerca delle frasi incise sui banchi della classe. Anche se le ragazze più terribili fanno di tutto per sabotare il Consiglio, Noelle, anche se sfinita, è contenta. Lei ne fa il suo metodo: «Non avevo nessun'altra soluzione che quella di lavorare sempre con quello che faceva problema, piuttosto di ignorarlo oppure di eliminarlo eliminando la ragazza.» L'etica e la pratica della Pedagogia Istituzionale poteva fare della classe una tessitura complessa.
Lettere da leggere
Si tratta di «imparare a leggere le impasses come lettere che queste ragazze vi inviano», scrive Noelle, riferendosi ad un mio intervento. Invece di dire agli insegnanti quello che dovevano fare, avevo chiesto agli insegnanti di portare negli incontri di formazione una situazione difficile. Infatti all'insegnante che raccontava, ancora in collera, che una ragazza si era ribellata per il rimprovero subito sputando sulla sua borsa Vuitton: «Questa ragazza le ha scritto una lettera! Lei è fortunata!» le dissi. In seguito, era diventato un piccolo divertimento, tra insegnanti, verificare chi avesse ricevuto più lettere ... A poco a poco la riunione degli insegnanti si struttura a partire da quello che non va in classe per prender il tempo che occorre per «comprendere» e traversare l'opacità inclusa nelle impasses. È esemplare e paradigmatico il lavoro di Noelle con Anissa e le sedie, con il nomignolo che Anissa si dà, quello di Génie, le parole di Maria, il metrò, il gusto per il rasta, il reggae, il coltello, il quartiere3•
Ma allora funziona! I colleghi domandano a Noelle: «Se si fa tutto questo, le ragazze studiano? Cambiano il loro comportamento? Sono meno violente?» 3
Cfr. A11issa (infra).
INTRODUZIONE
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«Certo che no!, dice Noelle. Non è un automatismo, ma passo passo. Cambia qualcosa, ma non subito, non sempre, non con tutti, non tutti allo stesso tempo». Noelle pone a se stessa e ai colleghi la domanda su cosa le fa lavorare, cosa le fa restare alla porta delle allieve? Lei risponde che è il desiderio di dire loro di «sì», ai più fragili. Ma soprattutto di dire di «sì» al «no» che le più violente dicono all'insegnante. Traspare in Noelle la preoccupazione di spartire il sapere, che il sapere può giovare ai ragazzi ad essere più inventivi, a diventare più autori della loro parola, a «mettersi in piedi». Noelle, infine, scopre che vale la pena di non restare sola con l'impossibile dell'insegnare. Ancora poco più che ventenne si associa ad altri insegnanti, ad altri che sono in posizione di ricerca, di imparare, che possono arricchirla ed apportarle delle idee; si mette all'ascolto delle famiglie, del quartiere, proprio perché non sa come fare ... per imparare! «Convinta di essere una eterna scolara!»
Quarto tornante: impasses che fanno riunire Noelle De Smet sente parlare per la prima volta di Jacques Lacan ad una riunione di formazione alla quale mi aveva invitato insieme ad uno psicoanalista belga, Jean-Marie Gauthier. Allora lavoravo in una istituzione per bambini autistici e psicotici, l'«Antenne 110» alla periferia di Bruxelles, fondata nel 1974 da Antonio di Ciaccia, psicoanalista lacaniano, e che nel 1992 Jacques-Alain Miller chiamerà pratique-à-plusieurs, e in una associazione di immigrati italiani, il Casi, Centro d'azione sociale italiano - università operaia. Era il 1983. Noelle aveva intravisto, negli strumenti concettuali di cui ci servivamo all' Antenne 11 O, un possibile filo rosso nuovo per lei, cioè che quelle ipotesi della psicoanalisi secondo l'orientamento di Jacques Lacan potessero essere operative, potessero aprire delle porte e dare delle idee grazie alle quali il campo educativo, il campo e il discorso scolastico potesse essere rifondato. Rifondato a partire dal fare un posto alla duplice dimensione del «soggetto» e della dimensione del «desiderio».
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Ero stato ben attento a sottolineare che il quadro dell'insegnamento di Lacan era in funzione della pratica, della operatività. Da quel momento inizia una collaborazione ed un lavoro che trasforma i seminari, le giornate di studio in altrettanti incontri clinici. Il lavoro consiste nell'estrarre le nervature, la logica in gioco in quello che non va nella classe, alla luce dell'insegnamento di Jacques Lacan. Noelle mirava soprattutto a garantire una regolarità, una «serialità» a questa formazione fino a propormi di intervenire agli Incontri Pedagogici d'Estate. L'entusiasmo suscitati da questi incontri attraverso i quali i partecipanti verificavano l'operatività dell'orientamento lacaniano, e che stanno diventando ormai incontri clinici, sono l'effetto della trasmissione di una esperienza e di un insegnamento che viene da una pratica quotidiana nella clinica con il bambino autistico e psicotico in istituzione. Nel 1987, una giornata pedagogica si conclude con la pubblicazione di un progetto educativo basato sulle ipotesi di Lacan. Durante questi incontri con gli insegnanti si utilizzano alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi, come la priorità della dimensione del soggetto, l'impasse del rapporto duale, favorire la funzione del terzo, il senso deciso da colui che risponde, la parola che si presta più per il malinteso che per intenderci, la parola è difesa e allo stesso tempo la parola è godimento ...
Quinto tornante: la pratica-a-diversi
Noelle, sempre più desiderosa di conoscere la pratica dell' Antenne 1104, legge Préliminaire, la rivista che pubblica i lavori della équipe e partecipa alla giornata di studio organizzata per i quindici anni dell'istituzione. A questa Giornata di studio, il 19 maggio 1990, sono invitate le istituzioni che da tempo hanno scelto l'orientamento clinico di Jacques Lacan, il Courtil di Leers-Nord (Belgio) e il Ctr-Nonette 4 Per un lavoro più articolato sulla pratica dell'Antenne 110, si rinvia a A. Di Giaccia, Una pratica al rovescio, in AA.W., Autismo e psicosi infantile. Clinica in Istituzione, Boria, Roma 2006; cfr. anche M. Egge, La cura del bambino autistico, Astrolabio, Roma 2006.
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di Clermont Ferrand (Francia), la Demi-lune di Bordeaux, per render loro conto di quanto e di come i bambini autistici e psicotici hanno risposto alla ipotesi sulla quale si fonda !'Antenne 110: che anche questi bambini sono nel linguaggio! Noelle, sorpresa ed entusiasta, all'indomani della giornata, scrive un testo, in prima pagina di «Échec à l'échec» (n. 73) che verrà pubblicato con il titolo Les fruits de la passion. Dopo questa giornata, prende avvio la pubblicazione di una serie di articoli su «Échec à l'échec» scritti da Noelle De Smet e da me su questioni attinenti alla pratica nell'insegnament5. Dalla pratica-a-diversi, la strada piano piano porta alla piazza del Campo di Cien. Come?
Sesto tornante: Cien
Cien è un luogo in cui si associano professionisti di diverse discipline, attraverso il dispositivo fondamentale che è il «laboratorio», un piccolo gruppo cioè strutturato attorno ad un tema riguardante il bambino o l'adolescente. Esso fa parte del Campo freudiano, creato da Jacques Lacan, nel febbraio 1979, che è «a disposizione di quanti, nel mondo, si dedicano all'insegnamento di Lacan e che tentano di proseguire con lui, nei loro paesi, nelle loro lingue, nelle loro culture». Nel 1998 Monique Kusnierek ed io, quali responsabili di Cien in Belgio, invitammo Noelle De Smet a tenere una conferenza sulla sua esperienza pluriennale nel contesto dell'insegnamento in scuole professionali. Per «l'urgenza di dialogare tra esperienze le più varie delle riflessioni pratiche, e di riunire coloro che, a partire da discipline differenti, mirano allo stesso obiettivo: che i diritti del bambino in difficoltà o nello smarrimento non siano ridotti ad un formalismo astratto, e che ci sia una chance effetti5 Noellc De Smet, Virginio Baio, Se pla11ter, «Échec à l'échec», 157, settembre 2002; Du "]e te J'ai déjà dit dix fois" vers l'obéissance à loi du désir, ivi, 132, gennaio 1999; Pour déchiffrer la classe, ivi, 129, settembre 1998; Les clandestins qui circulent dans nos classes, iv~ 119, mar.lo 1997; L M. Lloreda, Des désirs plein le cadre, ivi, 153, gennaio 2002.
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va per un soggetto di trovare un interlocutore conveniente alla sua sofferenza» 6. Poco tempo dopo, Noelle stessa, insieme ad una collega insegnante, Claire Piette, dà inizio ad un Laboratorio, che chiamerà «Maitre-désir» che riunisce regolarmente una quindicina di colleghi. Alcuni lavori di questo laboratorio vengono pubblicati, a Parigi, nella rivista Terre du Cien7 •
Settimo tornante. «L'arte impossibile dell'insegnare» L'incontro con la pratica-a-diversi e con Cien, ha per Noelle De Smet varie conseguenze. Una prima. Ispirare il nuovo nome del giornale della Cgé, che si chiamava «Échec à l'échec», con «Traces de changéments». Una seconda. Una più grande prudenza nell'invitare formatori che osavano «interrogare» la posizione inconscia degli insegnanti. Una terza. La più importante: in occasione della Giornata di Studio del 15 ottobre 2005, il presidente della Cgé, Benoit Jadin e un sociologo, Jacques Cornet, un pilastro della Cgé, nell'illustrare i principi che orientano la pratica degli insegnanti, metteva come indispensabile la «dimensione del fare un posto alla posizione dell'allievo come soggetto». Oltre a «fare un posto al soggetto», «permettere a ciascuno di prendere il suo posto, tutto il suo posto, nient' altro che il suo posto», «coltivare il desiderio dell'allievo», «riconoscere il soggetto». Questo discorso, questi significanti nuovi il presidente li attribuisce al lavoro di formazione compiuto da Noelle, che non ha smesso di far passare con grande passione nella Cgé quello che imparava dall'Antenne 110 e da Cien. Una quarta. La trasformazione della formazione degli insegnanti in formazione clinica, nell'accogliere ogni studente, uno per uno, Judith Millcr, Orientation du Cie11, «Menta!», 3, gennaio 1997, p. 150. Noelle Dc Smct, Se planter, «Terre du Cicn», 13, marzo 2004, pp. 16-17; Du silence des salives aux Cbants Tatoués, «Terre du Cicn», 21, maggio 2007, pp. 1113; Les fruits de la passion, «Préliminaire», 11, 1999, pp. 155-160; Allez boire un petit café..• , la préside11te est là, «Préliminairc», 12, 2000, pp. 109-112; Ce que GéniE veut dire, «la Cause frcudicnne», 64, Navarin, 2006, pp. 53-56. 6
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nel riconoscerlo soggettivamente, senza per questo interrogarlo sulla sua posizione soggettiva. Una quinta. Sviluppare la pubblicazione su «Échec à l'échec», su «Traces de changements», su «Préliminaire», su «Terre du Cien», su «la revue de la Cause freudienne» della esperienza di insegnamento di Noelle orientata dalle ipotesi della psicoanalisi lacaniana. Una sesta. Noelle viene invitata a parlare della sua pratica agli incontri Cien, Pipol a Parigi, a Bordeaux, a Strasbourg e a Nancy. Qual è il segreto? Quel 15 ottobre del 2005, alla Giornata di studio per festeggiare Noelle De Smet, la sala era gremita di insegnanti, professori, formatori, pedagoghi ed ex-allievi. Restava ancora un'ultima domanda che si poteva porre a Noelle. «Qual è il segreto di tutto questo?» le domanda un giovane insegnante. Imbarazzo di Noelle, che esita, prende tempo, diventa rossa, infine se ne esce con un timido: «Non lo so!» Forse il segreto è sotto gli occhi di tutti: sono i suoi incontri8 • Incontri con esperti, incontri con i colleghi, soprattutto con le migliaia di allievi.
Lo dice lei stessa: Se guardo molto indietro nei miei viottoli, rivedo gli stretti legami, fin da quando ero bambina, nelle case di accoglienza, con tanti bambini italiani. Allora avevo undici anni e sono venuti a prendere questi bambini italiani, amici miei, per portarli nelle loro famiglie dove o un padre, o un cugino o uno zio era rimasto prigioniero della miniera di carbone in fiamme di Marcinellle. Questo ha sicuramente contribuito a rendermi attenta a tutte le persone obbligate a cambiare paese per lavorare in condizioni difficili.
Cresciuta tra quaderni a quadretti e a righe, tra fogli assorbenti e calamai (i suoi avevano un piccolo negozio di cartoleria e un atteggiamento particolare con i bambini-clienti), cioè in una atmo8 Philippe Meirieu, pedagogo, Odette et Michcl Neumayer del Gruppo Francese di Educazione Nuova, Irène Laborde della Pedagogia Istituzionale, Gilbcrt Mangcl, Virginio Baio, psicoanalista lacaniano.
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sfera di scuola, fin dagli inizi si è ispirata a Célestin Freinet, Fernand Oury della Pedagogia Istituzionale, Jamusz Korczak, Paolo Freire, Henri Wallon, a Don Milani della Lettera ad una professoressa. In un tempo d'avant-coup, Noelle De Smet ha una posizione fondamentale quanto alla funzione di insegnante, quanto al sapere, quanto all'essere in classe, e nell'ambiente delle allieve, persino in casa loro, in lavanderia: resta sempre sulla soglia del soggetto. Attenta e sensibile a chiunque degli alunni resti sul bordo della strada, alla moltitudine delle Anisse che urlano, gridano, si oppongono, dicono di no nei modi più violenti, al sapere scolastico. La risposta di Noelle è sempre nuova, ogni volta calcolata su misura, non standard, disegnando viottoli inediti. Questo «inedito» sorprende il lettore di Au front des classes ed è grazie alle chiavi di lettura di Lacan che si possono cogliere le venature, ciò che fa il filo logico che sottende questa pratica singolare. Singolare e coraggiosa. Che la porta persino a non indietreggiare, ad andare in uno dei quartieri più difficili della capitale belga, a farsi partner in lavanderia di una madre e del figlio che maltratta la cartella di scuola! A sostenere la sua classe ad ammutinarsi perché non c'è una sedia decente per ciascuna allieva. In un tempo di après-coup, la pratica di Noelle si fa chiara, leggibile, logica e si può cogliere perché abbia degli effetti sorprendenti. Effetti non tanto legati alla suggestione, ma al saper operare seguendo i tornanti della struttura del legame sociale, tornanti che si coniugano allo stesso tempo alla contingenza, al caso, alla condizione singolare di ogni soggetto. Forse la risposta si può leggere nel détour, nel «passo a lato» che Noelle stessa fa, in tanti anni nei quali, da sola, ha creato essa stessa un sentiero, ha aperto una «via» non imitabile, non ripetibile, ma che può dare delle idee ad altri, può orientare altri.
Conclusione Noelle De Smet dice apertamente che nell'arte dell'insegnare ... è importante saper perdere, perdere le certezze, perdere il suo sapere, sapendo "non sapere" ... che con le parole di qualcuno, con la testimonian-
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za come quella dell'Antenna 11 O, con delle letture, con degli incontri come quelli di Pipol che ho potuto fare miei e farmene una forza mentre fino ad allora lo vivevo spesso come una grande debolezza, in un mondo della scuola in cui conviene piuttosto sapere ...
E conclude ... per non dimenticare che insegnare è sì un'arte impossibile, soprattutto quando non ci si include la dimensione del soggetto! ... Lasciarmi sorprendere, convinta che è soltanto de-completata che posso essere maitre. Un maestro non completo, un di-maitre perché si dimetta la follia delle certezze ... Non ne saprò mai niente poiché è il nostro nonsaputo che è il nostro maitre ...
Prefazione all'edizione francese di Philippe Meirieu
Un'ossessione invade oggi il dibattito educativo in Francia come in Belgio: quella delle basi, dei fondamenti, degli elementi imprescindibili ... Non si sa veramente bene come ciò abbia avuto inizio, né quando i nostri contemporanei si siano messi a sfilare nelle strade e sugli schermi ripetendo: «Mancano di basi ... I nostri ragazzi mancano di basi ... ». Ma questo fatto è presente. Ci si ricorda persino che in Francia un ministro dell'Educazione nel 1984 dietro il terzo pilastro di Notre-Dame ebbe un'illuminazione: aveva scoperto che i bambini dovevano andare a scuola per imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Un secolo dopo Jules Ferry, finalmente il miracolo era evidente e lascoperta fece grande scalpore! Certo, non aveva aggiunto che i bambini dovevano anche imparare a parlare! Forse perché, per lui, gli allievi dovevano rimanere degli infanti, degli esseri privi di parola ... in attesa della loro maggiore età, quando sarebbero diventati, finalmente, grazie a un misterioso fenomeno di transustanziazione, dei veri cittadini illuminati, capaci di esprimersi nel pubblico dibattito! E, da allora, noi siamo sempre in cerca delle basi! Poiché si teme - così sembra - che ci sfuggano i Francesi i quali oggi preferiscono «il basamento». Effettivamente, l'immagine è più promettente: è sul basamento che viene posta la statua. È su una muratura solida che si può collocare l'opera. E coloro che non dispongono di basamento possono sempre aspettare ... o cercar di consolidare una pietra dopo l'altra il cumulo di residui che hanno ereditato! Tutto questo deriva da una «pedagogia dei preliminari» che è l'esatto contrario di quanto ci insegna precisamente la storia della
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pedagogia. Così, bisognerebbe aspettare di saper nuotare per avere il diritto di andare in piscina. Aspettare di saper leggere per poter aprire dei libri. Aspettare di saper scrivere, perfettamente e senza errori, per scarabocchiare la propria prima lettera d'amore. Aspettare di saper far l'amore per far l'amore. Più precisamente, la «pedagogia dei preliminari» pone sempre «i saperi» come una condizione indispensabile che sta a monte della «cultura». Come se l'uomo delle caverne avesse dovuto sostenere un esame prima di poter cimentarsi a fare qualche graffito sulle pareti di Lascaux. Come se si fosse pretesa la conoscenza perfetta della versificazione classica per assistere alle rappresentazioni del Misantropo ... La «pedagogia dei preliminari» trova sempre dei pretesti per rinviare il momento del confronto con la cultura: «manca di basi; è necessario che innanzi tutto consolidi le sue acquisizioni; manca il tempo ed è meglio concentrarsi sui fondamenti ... » Cattivo calcolo: la «pedagogia dei preliminari», in realtà, taglia i ponti che pretende di costruire. Impedisce ai ragazzi di cogliere la vita che rumoreggia dietro le conoscenze fossilizzate che la Scuola insegna. Fabbrica morte con ciò che è vivo ... mentre bisognerebbe, con tutta evidenza, fare il contrario: restituire il progetto culturale che ha dato vita ai saperi. Rifare del sapere un vero strumento di emancipazione. È per questo che Noelle ha lavorato e militato in tutti questi anni. È ciò che, per fedeltà al suo impegno, noi dobbiamo continuare a far capire.
Fare tracce! O ciò che le parole ci dicono di te di Odette e Michel Neumayer
Ci sono degli incontri che si producono come se il terreno vi fosse stato a lungo preparato prima. Il nostro incontro con te, Noelle, è di questo tipo. L'amore delle parole, la ricerca sui laboratori di scrittura, la voglia di far vivere a tutti e a tutte dei reali momenti di creazione ci hanno riuniti. D'un tratto, ci siamo trovati di fronte alla parola d'ordine «Tutti capaci» dell'Éducation Nouvelle. «Tutti capaci»: né verità stabilita, né incantesimo magico, ma scommessa filosofica che vincola innanzi tutto chi insegna o forma prima di rivolgersi a chi apprende. Una affermazione tale da esigere che noi si esca dalle nostre prigioni mentali e implica il rifiuto di ciò che talvolta con fatalismo si definisce gli «handicap sociali e culturali». Attraverso noi, due paesi vicini e due movimenti pedagogici affini si sono compresi e hanno deciso di compiere il cammino insieme: Cgé e Gfen 1• I nomi, tra gli altri, di Célestin Freinet, Fernand Oury, Ovide Decroly, Henri Wallon ci hanno iscritto in una storia e in un patrimonio che costituiscono una ricchezza da condividere e da far fruttare per la loro attualità. Disegnano per noi un orizzonte di responsabilità che impegna l'avvenire. In breve, la nostra amicizia si è fondata su una certa idea di ciò che i rapporti tra gli esseri umani devono essere. A rischio di mettere in imbarazzo la tua modestia - tu ci perdonerai - abbiamo cercato di leggere tra le righe dei tuoi articoli. Per anni, ti sei sottoposta al paziente lavoro di formalizzazione, alimentando in modo regolare la rivista «Échec à l'échec», poi «Traces». E la fedeltà paga! Scrivere cambia evidentemente il rap-
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«Groupe Français d'Éducation Nouvelle».
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ODETTE E MICHEL NEUMAYER
porto con la professione e con gli altri. Le scelte da te fatte hanno dato nuovi destinatari al tuo lavoro d'insegnamento e di formazione: colleghi, istituzioni, attori sociali. I tuoi articoli possono essere letti come le sequenze di una vita costruita su un principio: l'opinione altrui. Ritieni a giusto titolo che tra il corso da fare e le condizioni di lavoro che vanno realizzate per permettere il suo compimento non c'è da tentennare: affinché una vera situazione di apprendimento e di trasformazione di sé si stabilisca, bisogna essere estremamente attenti alle reazioni e agli atteggiamenti degli altri, essere «in ascolto delle parole». Ti preoccupi dunque degli atteggiamenti con cui «i ragazzi o le ragazze» arrivano alla tua lezione. Annunci la tua fiducia in un essere umano che deve dare a se stesso delle prove della sua intelligenza, della sua capacità di comunicare e di cooperare. Sai quanti sentimenti di paura e di vergogna costituiscono dei freni agli apprendimenti. Il mutismo doloroso o i comportamenti aggressivi quante prove subite nascondono? Sai vedere sotto le apparenze le manifestazioni delle astuzie della vita. Allora, aiuti a mettere delle parole sui dubbi, sui rifiuti, sugli scacchi reali o immaginari. Per te, l'esperienza delle origini e dell'ambiente familiare è una forza per cominciare. Ciò che senti ti permette di fare delle ipotesi. Sai accostarti a una parola che viene detta per condurre tutti più lontano. Consideri le diverse forze in campo, fai emergere un punto di vista poi un altro. Non hai paura di restituire tali e quali le parole sentite tra i tuoi allievi o tirocinanti, senza ammorbidirle, senza cercare di addolcire il carattere tranchant del verbo. E poiché non esiti ad ammettere e a riferire la parola dell'altro, tu - ciò facendo - riconosci la sua intelligenza. Accettando le loro parole, susciti la loro fiducia e, da qui, la loro emancipazione. Ma sai anche che l'ascolto e la parola non sono sufficienti ... Non dimentichi mai il tuo ruolo di pedagogista: ogni situazione ti è propizia per esercitarlo, per elevare ciò che può esserlo. Non c'è rigidità nei tuoi progetti. Rigore, immaginazione e volontà sono necessari per meglio sorprendere il tuo pubblico. Tu credi alla virtù dell'ambito istituito. Affronti le cose senza paura di sudare sette camicie. Pedagogicamente parlando, tu sei dunque interventista con discrezio-
FARE TRACCE! O CIÒ CHE LE PAROLE Cl DICONO DI TE
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ne e sempre perseverante. Proponi ai giovani e agli adulti modi alternativi di pensare e di agire, e qui, la scrittura ha sempre un posto di rilievo, soprattutto quando è condivisa. La tua parola guida, nel solco di altri pedagogisti di altri paesi e talvolta di altre epoche (Anton Séminovitch Makarenko, Janus Korczak, Paolo Freire, per non citare che loro) noi l'adottiamo senza esitare: «Lavorerò perché le alunne ritrovino la loro dignità» o anche «Introduco negli apprendimenti ciò che può fare coscienza fiera» . La tua maniera, modesta, di teorizzare è quella di lasciarci liberi di trarre lezione da ciò che riferisci. Ci inviti a cercare la teoria della tua pedagogia sotto i tuoi racconti, i tuoi aneddoti. Non siamo del tutto impreparati: la rivista che ti ospita in ognuno dei suoi numeri ci dà molti strumenti e di ciò la ringraziamo. Carnoux en Provence, Primavera 2005
Noelle De Smet
In classe come al fronte
Quando c'è vita è il panico
- Malika viene talvolta ad abbracciarmi nel bel mezzo di una lezione. - E tu la lasci fare? È anormale, questa ragazza. - Concetta e Saida vogliono sempre stare insieme. - Tu devi separarle, se no non lavorano. - Dica, signora, è vero che ci manderanno tutti via da qui a causa della disoccupazione? -Non si parla di questo. Ora c'è lezione. - Com'è che talvolta si hanno dei foruncoli? -Non è il momento di occuparsi di questo. - Mi vuol per favore scrivere «Io ti amo» sulla mano, così saprò scriverlo senza errori per il mio amichetto? - Faresti meglio a preparare i dettati. Hai preso solo 1/10. - Si prova per la festa? -Ah no ... Questa festa, comincio ad averne abbastanza. Non mette che disordine. Del resto, non si dovrebbero più farne. -Andrà alla manifestazione contro le armi? - Non voglio che si parli di questo nella mia classe. - Perché non iniziamo a fare delle inchieste con lei? L'anno scorso lo facevamo. Era meglio che rimanere tutto il giorno seduta. - Con me si lavora. Nella vita non bisogna sempre pensare a uscire e a divertirsi.
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IN CLASSE COME AL FRONTE
Tutti i giorni spuntano nelle classi luci, movimenti, i suoni della vita ... Così, senza preavviso. E tutti i giorni, senza esserne veramente coscienti, si cancella, si schiva, si spegne. - Perché? - Perché si è qui per imparare ... bisogna andare avanti nelle materie - E se arrivasse un ispettore? - E che direbbero i colleghi? - Del resto, se tu li lasci dire le loro opinioni, si rischia immediatamente lo scontro. Non sanno ascoltarsi. Se tu li ascolti troppo, ti montano in testa e credono che tutto sia loro permesso. - Chi è che fa la legge qui? - Nella vita non si fa ciò che si vuole. Si deve prepararli alla vita ... Dietro queste reticenze si nascondono sicuramente regole e valori che sono propri dell'istituzione, interiorizzati o contestati da attori e spettatori più o meno presenti. «Si deve prepararli alla vita», ma è là, la vita, mutevole, nei giovani e negli adulti. È là, nella storia di ciascuno, in quella che risale alle nascite e in quella che si fa al momento. È là, negli alti e bassi di un gruppo classe, nei desideri e nei limiti, nella pelle, nelle teste, nei progetti, nei conflitti e nelle domande. In ogni momento, la vita cerca di scorrere, in ogni momento è imprigionata, negli spazi troppo rigidi, nei tempi troppo ritagliati, di cinquanta in cinquanta minuti, di materia in materia, recintata. Forse fa troppa paura, con il suo disordine e il suo rumore, con i suoi movimenti e i suoi imprevisti? Forse abbiamo imparato troppo poco (o troppo bene) a trattarla? Come trattare la vita presente nelle classi? È il genere di domanda, al tempo stesso precisa e fluida, che potrebbe essere posta in un istituto magistrale o in un seminario di pedagogia. Il genere di domanda che sembra non rilevante e che tuttavia ha il suo peso ... Anche poco rassicurante. Si porta dietro il peso del1' istituzione, la paura delle divergenze e dei conflitti. Chi dice
QUANDO
e'!; VITA
i; IL PANICO
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«scuola» o «vita nella scuola», «educazione», «apprendimento», solleva delle logiche e dei progetti di società così diversi ... Che cos'è questa vita nelle classi? Ah sì, è vero ... innanzi tutto ascoltarla, vederla, sentirla ... già tutto un programma. Che cos'è questa vita? scivola nelle vostre lezioni un po' non si sa come e le scuote come può ... le ragazze prendono i loro banchi per dei tam-tam i ragazzi disegnano dei nudi dappertutto le ragazze vogliono una «pausa-caffé», punto di incontri prof-allievi, più caffè durante gli intervalli gridano «libertà» sulle scale i ragazzi non vogliono sempre scrivere le ragazze vogliono intervenire sul fatto di rimandare Maria vogliono che le si ascolti i ragazzi vogliono tutti guadagnare dei soldi le ragazze vogliono scrivere delle storie vogliono fare un consiglio di classe allievi-prof vorrebbero ridipingere i muri e perché noi non impariamo il latino e e perché noi non abbiamo un prof di arabo e di italiano i ragazzi rubano, fanno confusione e ne hanno piene le scatole ci domandano che cosa pensiamo di loro le ragazze vogliono andare a vedere dei disoccupati fanno sciopero quando fa freddo adorano danzare, cantare i ragazzi vorrebbero parlare molto Ognuno potrebbe certo allungare la lista dicendo «Come volete che si faccia lezione in mezzo a tutto ciò?». Oppure chiedendosi: «Che cosa vogliono dire tutti questi atti e queste aspettative? Come prendere tanta vita sul serio?» Edito in «Échcc à l'échcc», n. 23, febbraio 1984.
I primi cinque minuti
Sembra che i primi cinque minuti siano «decisivi per imporre la propria autorità». Da quindici anni, all'inizio di ogni anno scolastico, un piccolo brivido, qualche domanda a questo proposito ... lo non penso d'aver trovato da allora il tono, l'espressione, la posizione standard che dovrebbero imporre la mia autorità. Tanto peggio? Tanto meglio? Ogni anno, mi sorprendo a ritrovarmi semplicemente in attesa ... un po' come si riceve il sole sulla pelle, d'estate. Noi siamo qui, le allieve ed io, con i nostri vissuti, le nostre paure, i nostri ricordi, i nostri entusiasmi di fronte al nuovo, con le nostre immagini di vacanze, di strada, di scuola, di giovani, di adulti ... tutto un tessuto vivente da non lacerare. Delle relazioni esistono o già si annodano nel gruppo, tra il gruppo e me. Loro cercano delle persone, assai poco delle funzioni ... Ciò mi va bene! Si interpellano, mi interpellano. lo ascolto, guardo. In questi primi momenti, la qualità della mia presenza rispetto alle inquietudini, alle parole, ai silenzi mi sembra importante. Una domanda qui, un sorriso là in fondo, una risposta personale ad Assia che mi domanda come va, un bacio o meglio dieci perché libra nell'aria una certa gioia nel ritrovarsi (anche se ... uffa, la scuola!) un'attesa di fronte alle compagne che si ritrovano, si parlano e che io non farò tacere di colpo ... In poche parole! Che ci si senta almeno un po' a proprio agio! La mia autorità è riconosciuta? Non lo so! Mi verrà un'altra domanda: con Touria cui piace ridere, Djamila che ha l'aria timida, Maria che vuole lavorare e Elena, che parlano di Riesi, Pascale che è molto aggressiva, Myriam che ripete l'anno, Brigitte che ne ha abbastanza della scuola, Rosa cui piace annoiarsi qui con le compagne tanto quanto da sola a casa sua, Fatima che si domanda se l'hanno vista e tutte le altre ... Di che cosa
I PRIMI CINQUE MINUTI
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diventeremo autori insieme quest'anno? Perché pare che possa essere ciò l'autorità ... Diventare autori! Le nostre ricerche commctano ... Edito in «Échcc à l'échcc», n. 26, settembre 1984.
Anche noi abbiamo dei grattacieli
Affrontare il Terzo Mondo in classi professionali, a Molenbeek1 ... lo non osavo troppo. Le famiglie della maggioranza delle mie allieve ne provengono. E io, con il mio sguardo di europea? Il materiale pedagogico esistente non mi soddisfa: troppo difficile, troppo visto in un'ottica di coscientizzazione dei paesi industrializzati, dei più privilegiati. Le mie allieve non sono privilegiate ... Bisognava parlarne? Abbiamo già tanto da fare con il sottosviluppo locale: la disoccupazione, il degrado del quartiere, le condizioni abitative, i problemi della salute, l'analfabetismo, ecc. Ma appunto ... il meccanismo è lo stesso! Far capire questi meccanismi alle allieve? È più grande di loro! Eppure, visceralmente, sanno. Chiedono di parlarne! Non di parlare del «Terzo Mondo»: non conoscono questo termine. Quando dicono ciò che vogliono affrontare nello Studio dell'Ambiente, parlano dei poveri e dei paesi poveri. Per loro «povero» è come una bella parola. «È di loro che bisogna parlare» È anche una parola carica di senso. Alcune, solo a fatica hanno il coraggio di usarla, per la paura di venire equiparate (il giorno in cui si è detto loro: «Il Marocco è un paese povero», hanno risposto: «È disgustoso dire questo, anche noi abbiamo dei grattacieli!») sapendo che con questa etichetta, si rischia di essere rifiutate. Per loro, «povero» è qualcosa di vicino e lontano al tempo stesso. Lontano, quando una trasmissione della Radio Televisione belga presenta un reportage sull'Etiopia oppure quando vedono delle foto di bambini troppo poco nutriti, dei bambini neri ... Allora i poveri sono i neri e «non sono poi così magri!» Vicino, quando Rosa ha il corag1 Uno dei 19 comuni della cosiddetta Grande Bruxelles, composto quasi esclusivamente da immigrati arabi (n. d. c.).
ANCHE NOI ABBIAMO DEI GRATTACIELI
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gio di dire: «Mio papà ha raccontato che quando era giovane in Sicilia, era povero». Vicino, quando qualcuna indica col dito due nuove allieve che escono dal Petit Chateau: «Sono povere, guardate i loro vestiti, sono delle contadine». Vicino, quando Anissa di ritorno dalle vacanze dice di aver visto dei poveri in Marocco e Nanna le dice rapidamente parlando in marocchino: «Non dir questo, i belgi ci prenderanno in giro». Vicino, quando Nathalie parla delle persone povere della sua strada, del Cpas2, dell'elettricità che viene a volte tagliata nella sua casa. Di fronte alla parola «povero», oscillano tra i residui di vergogna e di paura da una parte e un riflesso caritativo dall'altra: bisogna dar loro del denaro. Poveri = essere rifiutati e/o assistiti. Ci sono momenti in cui farebbe loro piacere vedere delle situazioni di miseria, con un gusto del sensazionale: più terribile è, meglio è... È quasi lo sguardo di chi ama avere impressioni forti da film dell'orrore. In altri momenti, è la fuga: «Se parlassimo invece dei ricchi? Potremmo guardare delle parti di Dallas. È meno triste. Sognare è meglio». Ascoltando le loro riflessioni, vedendo le loro reazioni, mi chiedo sempre qual è l'aspetto essenziale da affrontare. Per il momento, tre obiettivi mi sembrano utili: interrogare il loro sguardo sulla povertà, porsi la questione del perché, sottolineare ciò che va nel senso di una dignità. Conoscono bene lo sguardo che su di loro e sul loro quartiere posano quelli che definiscono i borghesi. Conoscono l'amalgama presto fatto: povero- sporco - arretrato - parassita - da aiutare. Hanno la tendenza a rivolgere lo stesso sguardo sui paesi del Terzo Mondo. lo cerco di trovare dei racconti che riferiscano la realizzazione di progetti nel tale o talaltro paese. Invito delle persone che ne provengono. Con queste è possibile fare dei collegamenti con la realtà di qui: come ci si organizza nei quartieri popolari per avere un alloggio migliore, perché tutti sappiano leggere. Lo sguardo cambia. I poveri 2 «Centre Publique d' Aide Sociale» (Centro Pubblico di Aiuto Sociale). Sono presenti in ognuno dei 19 comuni di Bruxelles. Le persone che non hanno uno stipendio, che non hanno delle entrate, percepiscono un aiuto alimentare, medico dal Cpas. A volte gli insegnanti dicono «non siamo un Cpas, qui» quando pensano che si domandi loro di fare dell'assistenza a scuola. È anche per dire «non sono qui per dare attenzione a ciascuno» (n. d. c.).
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non sono più gli sfortunati da assistere, gli esseri scheletrici su cui piangere, quelli che si vergognano della loro situazione, ma persone che lottano. Il perché della povertà? Secondo me, cercar di rispondere a questa domanda significa cercare di far capire come si compiono delle scelte economiche e politiche. Non è semplice. Racconti, schemi, disegni ci permettono di osservare dei rapporti di forza, delle forme di sfruttamento e la resistenza degli sfruttati. Prendendo questa strada spero di far percepire che la povertà non è una sfortuna, una fatalità o una storia personale di cui gli individui sono colpevoli come credono molte delle mie allieve. Quando la dimensione collettiva comincia ad essere percepita, le lingue si sciolgono. Le allieve si mettono a parlare a lungo del Marocco, del Pakistan, come liberate dal peso della vergogna. Descrivono realtà che conoscono nella loro famiglia o altrove. Parlano anche della politica, di chi ha ruoli dirigenti in questi paesi del Terzo Mondo e si interessano anche alla storia, per esempio a quella della colonizzazione. Di fronte alla percezione delle disuguaglianze tra «paesi ricchi e paesi poveri», le allieve vogliono sempre fare qualche cosa. Analizzare ciò che accade non basta. Vogliono avere un impatto sulla realtà. Quale impatto possono avere alla loro età, cioè a quattordici-quindici anni? Spesso ci manca il tempo (forse anche l'immaginazione e la pazienza) per costruire dei progetti concreti che non siano in contraddizione con la riflessione compiuta. Ad esempio, informarsi sui prodotti presenti nei negozi del mondo, partecipare alle vendite, o seguire un certo progetto elaborato nel Terzo Mondo e cercare il modo di sostenerlo. I media, forti di immagini e di slogan, spingono verso risposte rapide. Nonostante tutto un approccio analitico fatto da me, le allieve continuano a voler «donare qualche cosa». Risposte come queste mi fanno sentire a disagio, ma non posso frenarle. Questo è successo in particolare quando la Radio Televisione belga ha fatto vedere la fame in Etiopia. Le allieve erano sconvolte dalle immagini. In questa classe avevano appena guadagnato venticinquemila franchi vendendo degli oggetti artigianali che avevano fabbricato.
ANCHE NOI ABBIAMO DEI GRATTACIELI
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Molte di loro volevano donarne una parte per l'Etiopia. Si è sviluppata una grossa discussione. Innanzi tutto sul fatto di donare o no. Poi a proposito del «a chi donare». Poiché volevano in ogni caso dare una parte di ciò che possedevano in comune, mi sono limitata a indicare loro due maniere di presentare le cose: da una parte lo stile del reportage choc, con il numero di conto corrente postale in cima, dall'altra dei racconti di giovani che illustravano la maniera in cui partecipavano alle campagne di alfabetizzazione in Nicaragua. Dopo questa breve informazione, ognuna di loro ha scelto dove versare una parte di ciò che aveva guadagnato. Se lo sono spiegato così: «Per l'Etiopia perché là stanno morendo»; «Per il Nicaragua, perché se sanno leggere, non si lasceranno più imbrogliare». Edito in «Échcc à l'échcc», n. 66, novembre 1989.
Caleidoscopio
Oggi, attività di espressione e di comunicazione. Uno degli esercizi chiede: «Avete appena vinto al Lotto, che cosa farete di questi soldi»? Radia risponde: «Pagare i mie pouf». Radia marocchina- pouf... immagini del suo salotto. Da tenerne conto per iniziare sul tema delle case: qui, là ... da loro, da noi. Fare dell'intercultura. Solo che pouf, è una parola di Bruxelles. Pagare i pouf - pagare i suoi debiti. Radia è di Bruxelles. Marocchina, giovane, ragazza, figlia di un manovale e compagna di Rosa, di Beatrice o di altre, abitante di un certo quartiere e allieva in una scuola professionale. Parla di clips, di video, di graffitari nella metropolitana, di quicks, di hamburger con la salsa andalusa, di Mélody, di Madonna, di Elton John, di Ok e di Podium, di hit-parade, di Lambada. Le sue compagne di classe parlano delle stesse cose. Quattro belghe, tre italiane, sei marocchine, una «nera» ... quattordici-quindici anni, in r professionale. «Siamo uguali». Sempre questa frase che mi disturba, ma cosa farne di quella cultura? Dell'appiattimento sotto i rulli giganteschi della cultura di massa? Ignorarla? Guardarla con sufficienza? Entrarci con loro per vederla? Non sapevo bene cosa farne, quando hanno voluto mettere quella cassetta. Ascoltare. È in portoghese. Quando l'hanno saputo, Yvette si è risvegliata. Ha detto alle altre che conosceva il portoghese. Stupore. Yvette è nera. No, non siamo tutte uguali! Quella differenza aveva già sollevato qualche ondata sarcastica e fatto deporre qualche cliché: per molte allieve (e anche per qualche insegnante) tutti i neri sono originari dello Zaire e parlano francese. Oppure sono americani. Quel giorno, si è scoper-
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to che Yvette era di origine angolana. Di solito in imbarazzo per gli sguardi insistenti sui suoi capelli, sulla sua bocca, sulla sua pelle, Yvette è a disagio. Quel giorno parla con sicurezza e viene ascoltata. Descrive dei luoghi d'infanzia e le altre scoprono qualcosa di diverso dalla «noce di cocco». Si guardano i paesi dell'Africa sulla carta geografica. Vengono fatte delle domande: «In quali paesi ci sono dei neri? L'Angola è lontana dal Marocco? Dalla Sicilia? Dal Belgio? Perché tu parli portoghese?». All'improvviso si fa il conto di tutte le lingue della classe e si precisa: «No, non italiano, ma siciliano ... No, non arabo, ma rif (berbero) e belga ... Sì! Si parla belga: i francesi e i canadesi non parlano come noi». E, dopo, leggeremo come la Fanta si è mescolata alla Lambada, come una musica originaria del Brasile e della Bolivia si è trasformata per essere consumata da noi. Se non avessi ricevuto da Rosa le parole della Lambada, un pezzo di Podium strappato che doveva essere assolutamente fotocopiato, avrei potuto far leggere «un testo scritto bene sui cani da slitta, affinché imparino qualche cosa» (consiglio della mia collega), o chieder loro, com'è stato già fatto: «Domani, ognuna di voi, porti un oggetto del suo paese». (Mi chiedo che cosa avrei portato io ... e loro, se m'avessero portato un walkman!) Si sarebbe fatta un'ora di francese e di intercultura, ma un po' troppo da museo. Per Yvette e per le altre, il «suo paese» è qui ... ed è qui che si muove un caleidoscopio in cui si toccano, a volte con vivacità, a volte con più leggerezza i colori delle radici, le immagini dei luoghi e i movimenti del tempo, formando figure che variano secondo le posizioni. Anissa è stata la prima un giorno ad attaccare i miei bricolages interculturali. Diceva: «Non siamo dei couscousdjellabahs». Reazione questa a diverse richieste ben intenzionate ripetute di anno in anno di «abiti tipici e piatti tipici e foto del tuo paese ... »; «Insomma basta ... e allora dobbiamo preparare sempre per loro del tè alla menta. Io bevo la Fanta». (Anche se, in altri momenti dice «nènè» con gli occhi colmi di affetto per qualcuno degli odori e dei gesti colti tra i suoi). Anissa esprimeva a modo suo la paura di essere rinchiusa nell'immagine immo-
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bile oppure nella riduzione dei «qui, là, da loro, da noi» Spesso la deviazione è utile. L'ingresso nel loro ambiente anche. Possono venirne delle sorprese. Da Radia e dai suoi pouf a Yvette e a una lingua, agli sguardi nuovi di Beatrice e di Rosa, passando attraverso la Lambada. Il loro ambiente è complesso. Fanno pensare al Top 50, all'ultimo episodio di Santa Barbara, T echnotronique e il cantante Bros ... la «loro» cultura in forma televisiva. Ricordano inoltre le radici delle loro famiglie e come, a partire da queste, hanno saputo reinventarle ritagliandovi un posto in questo nuovo contesto ... in una cultura nuova, complessa e «arrangiata». Ma la loro cultura è anche un modo di vedere, un modo di agire, un modo di dire, quando si percepisce con maggiore o minore consapevolezza a quale punto del paesaggio socio-economico ci si colloca. Parlano di case marcescenti, di «strade che sono molto sporche qui», di piccolo-borghesi in Chevignon, del lavoro dei loro genitori, degli orari difficili, del loro lavoro a casa, della scuola che fa scrivere troppo. E parlano di «uscire, per favore, uscire». Ci era stato proposto del «teatro per adolescenti». Loro hanno avuto voglia di andare a vedere. Con qualche timore, tuttavia: «Il teatro, è per i vecchi, i borghesi e le scuole; parole complicate per persone che non hanno altro da fare e costa caro». C'è in più qualche rappresentazione trasmessa per televisione: «Il teatro, è comico, si svolge sulla scena, con delle persone vere, reali, non è come al cinema e loro si preparano prima». È ciò che le attirava, ma l'essenziale era uscire. Per loro, lasciare il quartiere è un evento e va festeggiato. La festa è mangiare. Sono uscite cariche di provviste d'ogni tipo. Hanno parlato del «nostro viaggio». Eppure eravamo nel comune vicino. Una di loro credeva di essere a Liegi. Eravamo ancora in Belgio? Qual è il loro rapporto con lo spazio? Con una produzione culturale che non conoscono? Sul posto, erano molto scontrose rispetto agli allievi di un'altra scuola, abbastanza sicuri di sé, ben vestiti, che si davano delle arie, e che parlavano usando dei paroloni, guardandoci come delle bestie. Loro hanno visto questo spettacolo, deluse di essere in una saletta veramente piccola, senza balconata e sipario rosso. Fanno
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delle domande rispetto alla «storia», al pianoforte, che secondo loro può suonare solo Mozart e «questo è per gli intellettuali». Sono un po' perse in questo silenzio, attente quando il linguaggio diventa familiare, affascinate dalle luci, pronte a staccarsi dalla scena per veder funzionare la messa a punto degli spot, dicendosi in conclusione: «Recitano bene la loro parte, ma non capiamo bene le parole». Dopo lo spettacolo, dibattito. Loro non dicono niente. Gli altri giovani parlano. «Ma che cosa dicono?» Si va al bar. Le mie allieve ce l'hanno con questi altri giovani. Una delle animatrici del teatro si unisce a loro. Le lingue si sciolgono. L'animatrice sottolinea la pertinenza delle loro domande. «Perché l'attrice cadeva? Perché l'attore usciva? Fa guadagnare questo mestiere? Come fanno per non farsi male cadendo? Tutto ciò che dicono è come se fosse vero ... » Sono più rassicurate. Parlano di ritornare. Eravamo in piena intercultura. Le differenze erano sociali. Come fare dell'intercultura a partire da queste differenze? Come valorizzare il loro approccio senza dover copiare l'altro? Come comprendere anche l'altro? Come farle passare da un «non è per noi» a un «è anche per noi». Qualche volta è forse più semplice pensare «marocchine, italiane, turche» e farne scaturire le caratteristiche delle culture d'origine piuttosto che entrare nei rapporti tra cultura popolare e cultura «elevata», dominante a scuola e in altri settori. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 68, giugno 1990.
Aprire le porte del sapere: il rischio delle rotture
«Non siamo delle intellettuali» mi ha detto qualcuna delle mie allieve della 1 secondaria, quando ho voluto immergerle in un lavoro insolito per loro: leggere un testo difficile che spiegava il contenuto di un concorso. Piccola scossa interna di fronte alla loro affermazione e risposta rapida da parte mia: «Ma sì!» Stupore nei loro occhi e poi ... «Ma siamo marocchine!» lo non ho ribattuto. Il lavoro è andato avanti in una sorta di lotta tra loro, il testo e me. Ne sono uscite abbastanza fiere d'aver saputo decifrare questo testo ma, vedendole andar via, immagini, parole, domande mi hanno attraversato la mente. È vero, le loro famiglie non sono famiglie di intellettuali, ma loro, loro iniziano degli studi secondari, dunque potrebbero esserlo ... Che abbiano paura di entrare in un altro mondo e di perdere il proprio? Tuttavia, la promozione sociale va abbastanza bene ... la scuola potrebbe portarle in un posto diverso da quello dei loro genitori (e i genitori ci tengono), ma come? Quale sarà il prezzo? Quale sguardo rivolgeranno ai loro genitori? E su se stesse? Come attrezzarle? Che fare dei loro strumenti? Quali saperi, quali valori costruire? Come non negare i loro? Nella loro reazione, «non siamo delle intellettuali», mi era quasi sembrato di veder spuntare una paura di lasciare i luoghi conosciuti, come un rifiuto di quest'altro mondo e una leggera aria di delusione «in ogni caso, non fa per noi». Ma in alcune c'era anche una sfida, un desiderio di riuscire, la voglia di provare che «anche noi, sappiamo», ma in modo così, così timoroso. Il figlio di un ambiente cosiddetto sfavorito, porta il peso della trasgressione rappresentata dal fatto di superare sul piano delle conoscenze intellettuali il sapere di suo padre o di sua madre. Gli psicologi clinici ma anche gli psicoanalisti conoscono bene la A
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forza dei meccanismi di scacco inconsci che possono mettersi in moto per limitare il peso di queste trasgressioni. Il mezzo migliore per evitare una tale evoluzione passa attraverso una identificazione-staffetta con un maestro su cui ci sia un investimento positivo, che apra le porte del sapere. Trovare qualcosa con cui partire dalla vita delle allieve e al tempo stesso guidarle verso le rotture necessarie per accedere a un certo sapere ... Ritorno al concorso. Era un concorso di testi proposto dal Centre socioculturel des immigrés di Bruxelles: «Parole per vivere la città insieme». Ci mettiamo a farlo? «Non ne saremo capaci, avremo l'aria di idiote». Capisco, ma non ascolto. Ci lanciamo in ogni sorta di lavori per metterci nell'atmosfera e arricchire i contenuti che le allieve portano, ma non nominano facilmente. Leggevamo ad esempio ciò che dicono altre donne: testi che raccontano come attingano a diverse culture per ciò che riguarda l'alimentazione. Le lingue si sciolgono. Le une e le altre si parlano delle musiche, delle feste, dei luoghi, degli abiti, degli scontri. Degli scontri ... perché «vivere la città insieme» non è qualcosa che possa essere descritto con una tonalità angelica, rosa e disincarnata. Degli scontri. Ne esplode uno in classe a partire da non so quale fatto apparentemente anodino, segnato da colpi, da ciuffi di capelli strappati e da «sporca belga, sporca marocchina». Ci fermiamo. Guardiamo che cosa è successo. Data l'intensità dell'accaduto, ci sono voluti tre giorni per chiarire, per prendere le distanze e interrogarsi sul senso di questi insulti vivamente sofferti. «Parole per vivere la città insieme», c'eravamo in pieno! Parole, ce n'erano molte, ma che cosa farne? Abbiamo riflettuto sul perché questo tipo di insulti veniva in mente. Abbiamo anche giocato: scrittura effervescente attorno alla parola «mescolanza» scelta dalle allieve, occhiate sul manifesto del concorso (le linee, le parole, i colori), ritmo delle parole trovate contando le sillabe, battendo sui banchi ... Si sono cominciate a scrivere delle frasi. Diventavano forti, belle, cadenzate, in ogni caso non banali. Dei gruppi volevano restare in classe durante l'intervallo, a mezzogiorno per fare «più poesie». Nasceva un desiderio: avremmo vinto quel concorso.
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Nel mezzo di tante attività, un giorno, non so perché (stanchezza? disorientamento? fuga?) alcune di loro lanciano: «Qui siamo in una scuola di deboli, è per questo che raccontiamo soltanto le nostre storie». Ah, bene! Faccio la domanda: «Che cos'è una scuola forte?» Risposta testuale: «È quando si scrive molto in un raccoglitore, pieno di cose che non si capiscono, di parole bizzarre, di analisi di frasi, con le parti costitutive, le coniugazioni col passato prossimo e cose di questo tipo. Nelle scuole dei ricchi, è questo che fanno, signora!» Nuove domande per me: che io le stia privando degli strumenti che dovrebbero gestire? Eppure studiano le coniugazioni dalla 3A elementare, ma che cosa si è fissato dentro di loro? Mi fanno dubitare del lavoro in corso. Ci immergiamo comunque di nuovo nelle poesie e nei racconti. Ecco che si preoccupano dell'ortografia, «Perché i testi siano veramente ben fatti, perché nessuno si prenda gioco di noi» Alcune preferiscono continuare a cercare delle immagini, dei suoni, delle rime e dei ritmi per i loro testi, altre sono rassicurate nel trovare qualche esercizio sistematico. E qui, mi rendo conto una volta di più dello scarto esistente tra gli obblighi della scuola e ciò che accade veramente, tra ciò che si crede acquisito e ciò che lo è veramente. Così, ad esempio, quando si segnano i punti alla fine delle frasi (ma come sapere quando finisce una frase?), delle allieve erano convinte che bastava mettere dei punti all'inizio di ogni riga, perché si dice: «punto a capo!» Altre, con cui avevamo esaminato la costruzione delle frasi interrogative, ma che avevano certo un po' dimenticato, a una domanda di controllo, fatta scivolare tra le altre attività, «Come è costruita la frase?», «È costruita gentilmente ... seriamente». Attraverso i meandri delle invenzioni e degli apprendimenti, la classe produce alla fine cinque testi lunghi, belli. Il lavoro è stato fatto sempre collettivamente, in piccoli gruppi, nel gruppo grande. Ogni vissuto, ogni trovata sono stati ascoltati, discussi, presi in considerazione. Qualche volta c'è stato persino bisogno di recuperare nel cestino della spazzatura pezzi di carta buttati via in fretta, perché giudicati nulli un po' troppo presto. La mia frase, la tua frase, la loro ortografia. Tutto l'insieme è stato costruito e migliorato sul filo delle parole. E ... hanno vinto il
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concorso. Ci hanno creduto solo il giorno della proclamazione dei risultati, un sabato pomeriggio in mezzo a circa altre duecento ragazze. È stata l'euforia e Leila, con un bicchiere di coca-cola in mano, mi è venuta a dire, in mezzo alla folla, con un sorriso appena accennato: «E per fortuna non abbiamo solo snocciolato delle coniugazioni!» Come inserire in un progetto di apprendimento un intero popolo che pensa ancora che ciò sia riservato agli altri e che in ogni caso, se si vogliono raggiungere questi altri, debba necessariamente essere noioso, incomprensibile e soprattutto lontano dalla vita. Questa idea è già ben interiorizzata a dodici anni. Articolo scritto con Natalic Rasson, edito in «Échcc à l'échcc», n. 82, dicembre 1991.
È leggendo ... che si diventa lettori
«Non sono motivati. È per questo che non vanno bene. Se fossero motivati ... ma niente li interessa. Sono qui perché bisogna esserci. Siamo dei parcheggiatori, noi qui ... ». Con nelle orecchie queste frasi della sala dei professori, vado in classe. Vi si sta dispiegando una grande attività. Delle riviste circolano tra i banchi. Sguardi attenti spulciano non so quale articolo o viso di idolo sacro. Uno o l'altro walkman cerca di restare collegato. Per ascoltare che cosa? Dei graffiti vengono tracciati sull'orlo del banco o di un pezzo di carta. Si chiacchiera di Jump street, di Félix, di New Kids on the Block. Vengono scambiate delle foto. Preziose. Mi vengono rivolte delle domande: «Ha visto il film ieri? Quando si esce? Quanto costano le creme di bellezza? Che cosa fa bene alla pelle? Perché le 4A fanno un negozio a scuola? Non c'è informatica oggi? Mi sta bene un foulard? Sa che Hassna dipinge?». Spesso interventi del tipo «Bene, ora c'è lezione. Non si parla di tutto questo. Mettete via tutte le vostre storie, oppure io le ritiro ... » cercano di riportare l'ordine. Il fermento a poco a poco si spegne (i volti anche). Dopo dieci minuti di ricerca sul nome comune, l'una o l'altra delle riviste ricompare, nascosta a metà sotto un raccoglitore oppure no. Un pezzo di mela viene sgranocchiata dietro la spalliera di una sedia, dei semi da sgranocchiare circolano attorno a una borsa (e per di più mangiano in classe!). lo intervengo ogni cinque minuti per cercare di riportare all'argomento della lezione, oppure faccio uscire chi disturba, o minaccio ... «Se continui a prendere il tuo walkman, sarà uno zero in condotta», oppure continuo con i più docili e non bado al tramestio degli altri, o infine mi domando che cosa ci possa essere di tanto interessante
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in tutto ciò che portano ( «Non hanno mai il loro materiale, ma ciò che disturba la lezione, quello, ce l'hanno»). Ma in ogni caso, io ho una «materia da svolgere», un programma da seguire. Non restano ormai che quindici minuti all'intervallo. Presto, un esercizio per tenerle occupate. E io lo valuterò. Così rimarranno tranquille. Ma che cosa avranno imparato? «Questo non è un problema tuo». Dopotutto, è vero. Io sono ufficialmente attiva. Loro devono solo seguire. «Oppure, se vuoi la tranquillità, tieni occupate le loro mani. Fagli ritagliare dei nomi comuni, poi li incollano su un foglio, e la tua ora è passata». Non ho suggerito di ritagliare dei nomi comuni. In ogni caso, non li riconoscono ancora e poi «a che cosa servono i nomi comuni?». Elif è ancora lì con le sue riviste e le mostra alle altre. «Flair», «Jeune Jolie», «Coiffure et Beauté»,«Gael» ... vecchie riviste del marzo scorso, strappate qua e là, ma che conservano la loro attrattiva. Mi metto tra loro e sfoglio anch'io. L'occhio mi cade su una pagina: «Finché ci saranno delle ragazze, tanto vale che si veda». È vero, dopotutto. È questo che le interessa. Propongo una attività: ognuna prenda almeno due pagine di rivista, e sottolinei da cinque a dieci parole per pagina, che dicano come essere una ragazza. Tutte si immergono in una lettura attenta e silenziosa. In capo a quindici minuti, si classificano i brani trovati a seconda delle rubriche già individuate: abiti, coiffure, maquillage, seni, inserzioni di ragazzi, ecc. Viene scritto un testo che mette insieme tutto. Alla fine della lettura di questo testo, che permette una certa distanza, Patricia esclama: «Ma io non sono d'accordo! Ci sono soltanto le bionde e i seni da pin-up!». Altre approvano. Ah, bene. «Che cosa vuol dire allora essere una ragazza?» Delle parole cominciano a comparire sulla lavagna. E l'ora è già finita. «Peccato, si sta così bene, oggi, signora»; «Naturalmente, finché possono divertirsi, va tutto bene!». La lezione successiva, porto ogni sorta di libri e di riviste che parlano di ragazze e di donne con parole e foto. Si pone la domanda dell'altro giorno: «Che cos'è essere una ragazza?». Loro leggono. Prendono appunti. Fanno delle domande su parole difficili. Esclamano: «Oh! Una ragazza che parla a un micro-
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fono. E quella là, che racconta che diventerà avvocato ... È una turca». A due a due, scrivono un testo che raccoglie le loro osservazioni. Lo si paragona ai primi testi. Si arriva a confrontare i generi di riviste. Si parla dei prezzi, degli autori. Chi fa quella data rivista? Perché? Zorica: «Ma ce n'è che ci imbrogliano». Non ho ancora fatto né grammatica, né ortografia. Che cosa farò come interrogazione per assegnare dei voti da mettere sulla pagella? Si è letto, scritto, riflettuto, confrontato e uno sguardo critico comincia a emergere. Anche una specie di sollievo: «Ah, ecco, non dobbiamo essere come le ragazze di "Jeune et Jolie"». lo non vedo più né walkman né chips. «Ma tu chiami questa una lezione di francese?». Bisognerebbe comunque fare dell'ortografia. Fanno degli errori persino con le parole che ricopiano. Anche i miei colleghi lo dicono. Preparo un lavoro di ortografia per martedì. Quel giorno, Nathalie arriva con un abbozzo intitolato «Essere una ragazza naturale con le nostre pensate». È una specie di bozza di una pagina di rivista con disegni e testi presentati in colonne. Lei la fa vedere alle altre. Chiedo se anche le altre ragazze avrebbero voglia di preparare una pagina del genere; in un'ora le idee circolano. Anch'io. Ventitré argomenti si allineano, che potrebbero essere il contenuto di un «giornale per ragazze». Ci siamo! Eccomi quasi imbarcata in chi sa quale impresa! Per le mie allieve è già un fatto acquisito. Ancor prima di precisare un po' quale contenuto metterci, parlano già di prezzo, di potenziale pubblico, di copertina, di foto ... non ho veramente l'impressione di custodire un parcheggio! Che si fa oggi? La domanda viene posta sin da quando arrivo nel cortile della ricreazione. Si parla già della lezione sulle scale (ma bisogna salire in silenzio). «E come facciamo per gli errori? Ma se è scritto male, i ragazzi ci prenderanno in giro. E come faremo per stampare? lo voglio parlare del rap nella rivista. Potremo scrivere a macchina da sole gli articoli?». Sono là con un programma per l'anno intero! Si preoccupano anche dell'ortografia. lo avevo vagamente previsto di vedere:
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1. il nome comune 2. gli aggettivi qualificativi 3. gli accordi dell'aggettivo qualificativo con il nome 4. il verbo 5. il soggetto e il verbo 6. gli accordi del verbo con il soggetto e poi di dedicarmi ad altri momenti della lettura, della scrittura. Loro hanno già sviluppato, in meno di un mese, tutta un'attività che non mi aspettavo. Non così presto. Imparare facendo. Facendo veramente. Non solo con delle forbici che tagliano delle parole, ma con un cervello che interroga e confronta, con una identità che reagisce, con un corpo che cresce e dei desideri che scorrono ovunque. Ora ho un lavoro da prof da fare: mettere in campo i momenti, i piani di lavoro, gli strumenti che permetteranno di imparare facendo questa rivista. Non faccio più lezione. Edito in «Échcc à l'échcc", n. 84, febbraio 1992.
Mia madre non capirà
Vengono inserite ogni anno nei calendari scolastici in rilievo o in sordina. Se ne parla ... tra l'altro quando «sono difficili in classe». Se ne parla. Ci si pensa. Nelle sale dei prof, ci si crede un po', molto o non troppo. Vengono comunque organizzate: le riunioni con i genitori. Fissare le date e l'orario (ma non è mai il momento giusto!), pensare all'ultimo minuto oppure molto prima al luogo della riunione e al modo di gestirla. Prevedere o meno delle bibite, secondo le mode del momento: convivialità o ... «no, ci abbiamo già provato». Meglio ritornare all'aspetto serio della questione: ogni professore si metterà dietro un tavolo (con un piccolo cartellino per indicare il suo nome) e i genitori passeranno dall'uno all'altro. È soprattutto il «come» a occupare il tempo. Porta con sé delle immagini impresse nella memoria. Riunione dei genitori dei «nostri genitori»: «Non si facevano tante storie; un'ora di ricevimento era fissata a ciascuno e si era pregati di essere puntuali. Nonostante tutto, talvolta si faceva la fila, perché alcuni raccontavano la loro vita». Riunioni di genitori nella scuola di mio figlio. Dieci minuti per ogni genitore, perché ci sono molti allievi, e ciò fa andar veloci. Riunioni dell'anno scorso o di cinque anni fa: «Sai bene come funziona ... Non si preoccupano di venire. E tuttavia hanno il tempo: le madri sono a casa, i padri sono disoccupati e quando vai da loro alle dieci di mattina, sono ancora in pigiama. Oppure gli allievi non consegnano l'invito spedito per lettera. Ma dovrebbero comunque preoccuparsi di non essere ancora stati avvisati di una riunione» «lo, l'anno scorso, ne ho incontrati molti. Se non venivano, non consegnavo la pagella all'allievo» - «Sì, ma certi fanno venire il
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loro fratello, la loro sorella, il loro cugino quando non è una persona qualsiasi presa per strada». Rispetto alla punta visibile dell'iceberg, i commenti possono continuare senza fine, ma rispetto alla parte sommersa ... ? Alcune domande, dell'uno o dell'altro, cercano di approfondire un po' di più la questione: «Fare delle riunioni di genitori, perché?» E per che cosa? Le risposte variano. Spesso ruotano, rapide, attorno a una specie di evidenza: «Abbiamo bisogno di vedere i genitori per informarli di tutto ciò che i loro figli fanno a scuola. Saranno informati, ne sapranno delle belle. E che si prendano un po' le loro responsabilità. Che facciano loro un po' di paura ai loro figli ... Io, il mio ... » «Bisogna in ogni modo che vedano le pagelle e che siano avvisati in anticipo se la loro figlia rischia di essere bocciata». Ci si aspetta dunque una conferma per dei modi di fare e di pensare? Altre risposte parlano d' «informare», di illustrare loro il sistema scolastico, la scuola del loro figlio, le lezioni che vengono svolte. E approfittare per dir loro tutto ciò che deve essere fatto a casa. Un'impressione domina: la scuola dirà, dirà, dirà, illustrerà, informerà, giustificherà. I genitori ascolteranno e capiranno. Il «per che cosa» appare solo poco. Ciò che ne pensano, ciò che ne vivono gli altri interessati - allievi e genitori - non è preso poi tanto in considerazione. Solo alcuni osano, vogliono andare oltre e approfondiscono un po' gli interrogativi. Che cosa può rappresentare una scuola per dei genitori che non l'hanno frequentata o molto poco. Come si sentono quando ascoltano ciò che vien loro detto in dieci minuti, in un'ora o due? Se non vengono, è per indifferenza o per indicare qualche cosa attraverso la loro assenza? E che cosa? Come vivono il fatto di essere là, con il loro figlio di tredici, quattordici o diciassette anni che, da molto tempo, serve da traduttore e diviene l'interlocutore privilegiato dell'insegnante, anche se in realtà questi genitori comprendono la lingua sufficientemente bene per poter essere loro stessi degli interlocutori. Come sono percepiti dai loro figli? Come degli spettatori? Dei collaboratori? Degli esecutori? Degli allocchi? Le loro inquietudini di genitori, le loro preoccupazioni, le loro domande, dove saranno ascoltate? ( «Non siamo un Cpas qui») E gli allievi? Se non consegnano le lettere di
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invito o se intercettano quelle che arrivano per posta, lo fanno per restare i padroni della situazione? È per dar fastidio ai prof? È per nascondere le loro difficoltà? Di fronte a queste domande, alcuni si dicono che in queste riunioni, con o senza caffè, l'essenziale è certo tener conto di ciò che conta. Quale attenzione è rivolta ai genitori? Quale agli allievi? Come ognuno può sentirsi riconosciuto? È possibile ristabilire una fiducia e una dignità, spesso perdute da molto tempo, da qualche parte tra le 17 e le 19, un giovedì sera? E come interpretare le assenze? Un piccolo gruppo di insegnanti, che si fanno portatori di queste preoccupazioni, comunica i propri dubbi ai colleghi: «Prima di occuparsi del come, che fare per saperne di più?» Una piccola proposta si fa strada: ascoltare gli allievi. lo passo tra le classi. «Ascoltate bene la signora», dice il professore presente. La «signora» non ha molto da dire. Solo una domanda: «Quando si dice riunione di genitori, di cosa pensate si tratti?» Prima un po' di silenzio, inframmezzato da cose del tipo «Ma che cosa vuole da noi? Che cosa bisogna dirle? Cosa ne faranno di quello che dico? E ho qualche cosa da dire a questo proposito, io?» Seguono dei tentativi timidi o un fiume di provocazioni e domande. «Le riunioni dei genitori, sono fatte per dire delle cazzate». Delle «cazzate» è scritto a grandi lettere sulla lavagna. «Sì, delle cazzate: che si parla arabo in classe, che si dicono delle parolacce?»; «Sono i prof che vogliono vedere i genitori per parlare male di noi. Ma perché dicono solo il male di noi? E perché non dicono a noi ciò che pensano di noi?» Idea conservata per dopo ... Le parole che ritornano più spesso e in tutte le classi sono le parole vergogna e paura ... «Paura di ciò che il prof dirà di me, paura di ciò che mio padre penserà di me, paura che mi si tenga a casa se non lavoro abbastanza a scuola». E «vergogna di ciò che faccio male, vergogna perché mia madre ha dei tatuaggi sul viso e tutti crederanno che è una donna arretrata, vergogna perché mio padre lavora e mia madre non parla abbastanza il francese ... lei non capirà nulla. Sempre a inghiottire vergogna». Queste frasi vengono fuori solo pian piano, con un certo disagio, provato soprattutto dalle più grandi che stanno zitte e talvolta reagiscono con aggressività, dicen-
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do che loro sono abbastanza grandi per sbrogliarsela da sole con la scuola. «Ma perché i prof vogliono vedere i nostri genitori?» lancia Salouah, di tredici anni. A questo «perché», lasciato un po' in sospeso, altre rispondono ancora: «Per parlare male di noi». Io posso solo dire ciò che credo: «Perché sono importanti». Sorrisi, dubitativi o soddisfatti? Sguardi interlocutori. Da quando in qua i genitori - e soprattutto i miei - sarebbero importanti a scuola? Alcune si accomodano meglio sulla sedia e si mettono a intervenire diversamente: «Ma se è per questo, allora si potrebbe fare diversamente» dice Nadia, «una festa, ad esempio, dove dir bene di noi. O parlare con loro un po' di tutto, così, soltanto ... » - «Io vorrei che lei dicesse a mio padre di lasciarmi andare alla ludoteca. Gli dica anche che vorremmo scegliere il nostro mestiere. Non solo il cucito». Con tutte queste parole nelle orecchie, quelle delle allieve (e forse, attraverso di loro, quelle dei genitori), quelle degli insegnanti, quali proposte costruire che tengano conto delle preoccupazioni e degli interessi diversi o vicini, che permettano di valorizzare ognuno senza negare i limiti istituzionali e/o personali? Qualche scelta si delinea nella riunione degli insegnanti. La sala dei prof può essere resa più accogliente di quella di ginnastica. Sarà proposta come luogo di riunione da un'insegnante di «economia domestica» con molte idee per sistemare lo spazio ( «dei tavoli piccoli, non un gran cerchio, perché intimorisce troppo»). Proporrà alle allieve di fare dei dolci. Per la prima volta sarà chiesto che i genitori siano presenti senza i loro figli, in modo da mostrare tra l'altro che contano in quanto genitori, che non devono dipendere sempre dai più giovani, i quali diventano padroni della situazione un po' troppo presto. Verrà lasciato un momento di parola agli insegnanti per spiegare con disegni e parole in quali sezioni si trovano i loro figli. Un altro momento per dire qualcosa sui nuovi strumenti che possono forse aiutare a vivere la scuola diversamente. La metà del tempo sarà riservata ai genitori, per ascoltare ciò che hanno da dire, sia insieme, sia informalmente e, più personalmente, tra i dolci e il caffè. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 87, settembre 1992.
Riunione di mamme in lavanderia
Un martedì in lavanderia, alle 17. Rachid, sette-otto anni, la cartella sulle spalle, certamente di ritorno dalla scuola, dà dei calci alle macchine, sputa dentro le asciugatrici, scuote la centrifuga, tira i capelli a una bambina (sua sorella?), pizzica il braccio di sua madre, che è divisa- lei - tra lui, la figlioletta, un neonato e due grandi ceste di biancheria da asciugare. lo aspetto su una panca che una lavatrice si liberi e sto a guardare, chiedendomi se non finirò per l' «aiutare un po'», di fronte a tutti i versi di Rachid, che, finita la scuola, vorrebbe forse trovarsi altrove. La madre esasperata finisce col gridare al ragazzo: «Vai un po' a sederti accanto alla signora là in fondo». La «signora» si fa da parte. Non è lui ad arrivare. È la sorellina. Mi mostra un braccialetto, mi parla del «suo» bebé, mi chiede di rimettere un nastro tra i suoi riccioli. In tutto questo tempo, Rachid picchia la testa sulla porta, sulla vetrina, sui muri guardandoci con la coda dell'occhio, sua sorella e me. La piccola continua a chiacchierare e io la oriento verso la voluminosa cartella del fratello grande e verso un'automobilina che le ha regalato. All'inizio, lei si lamenta: «È cattivo, mi picchia» - «Ma sa scrivere il tuo nome?» (io, i nomi ... vedo sempre che i ragazzi ci tengono!). La piccola mi guarda stupita, poi guarda suo fratello. Lui, in piedi all'altra estremità della panca, scende, viene verso di noi per urlare «sì» e «lei, lei non va nemmeno a scuola». La bambina mi dice che ha dei libri nella sua cartella. Rachid si avvicina, strascicando i piedi. Da lontano, la mamma mi dice: «È nella scuola speciale», come per mettermi sull'avviso (di che cosa?). Nel frattempo, riempio presto una lavatrice libera e il ragazzo mi segue, con la testa bassa e una smorfia sulle labbra. Gli
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chiedo di aiutarmi. Cosa che fa. Quando la lavatrice è chiusa e gira, io mi siedo di nuovo sulla panca, sul bordo, per lasciargli dello spazio dove potrebbe venire. Lui non si picchia più la testa dappertutto. È la cartella ora a prendere i calci. Cammina all'indietro e sbatte questa cartella contro la porta, la vetrina, i muri, le schiene delle donne. Gli chiedo se la sua cartella non è troppo pesante, e se non vuole deporla. Penso che non ha sentito, perché continua il suo giochetto, ma, dopo cinque minuti, viene a picchiarla vicino a me, poi corre a ridare i calci ovunque, bambini compresi, che si mettono a piangere. Chiedo alla sorellina, che segue con gli occhi il fratello più grande, se sa che cosa c'è nella cartella, con una voce abbastanza forte perché Rachid mi senta. Lui si precipita, afferra la cartella dalle mani della bambina, che aveva solo teso una mano per aprirla, la mette brutalmente sulle mie ginocchia, la apre e ne tira fuori due grandi raccoglitori. Li mette sulla panca, già più dolcemente e si inginocchia davanti. Comincia a girare le pagine e a spiegarmi. La sorellina fa delle domande. Anch'io. Sono stupefatta dalla chiarezza con cui Rachid mi spiega ogni sorta di esercizi per riconoscere le parti del corpo, lo schema corporeo, il calcolo e la scrittura. Pagina dopo pagina, spiega. La sorellina ammira. La mamma osserva da lontano. Chiedo a Rachid se ha già mostrato tutto questo a sua madre. No. Chiamiamo la mamma. «Non sono che disegni ... » «Non è vero», dice Rachid. «Si confrontano dei disegni» (ha pronunciato questa parola!) La mamma si siede, un po' curiosa.Rachide io, riprendiamo le pagine dall'inizio. Spiega a sua madre, in francese e in marocchino. La mamma l'ascolta, poi mi dice: «È questo saper leggere?» Rachid volta veloce le pagine e mostra a sua madre delle parole e delle lettere. Quelle del suo nome. La fa leggere, tenendole il dito sotto le lettere di Ra-chi-d. La mamma sorride, poi mi dice: «È buona la scuola speciale?» Cosa dire in poche parole? Spiego un po' il percorso visto nel raccoglitore. Rachid aggiunge: «Si impara a leggere e non si è dei matti, e abbiamo visitato una fattoria, e abbiamo ... abbiamo ... ».
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«Saprà scrivere?» mi chiede la mamma. È possibile che, anche senza saper leggere, noti sulle pagine la scrittura irregolare, esitante, molto grande di suo figlio. Forse ha già visto delle altre scritture? Non lo so. Rachid non dice niente. Abbassa la testa e fa la sua smorfia come all'inizio. Forse questo è un problema per lui (avevo visto una frase scritta su una delle pagine: «Fai uno sforzo per scrivere meglio!») Fargli scrivere qualche cosa qui, ora, per farlo vedere ... ma cosa, che non lo metta in trappola? E cosa, che parli alla madre? Ho visto rapidamente le lettere che ha già imparato. Gli chiedo come si dice «mamma» in marocchino (non ha ancora imparato l'«an» di maman in francese). Volevo chiedergli con prudenza di scrivere la parola ma lui, senza aspettare, si è messo a scrivere in minuscole e in maiuscole «Ima» sulla vetrina appannata. Una volta, due volte, lentamente ... poi velocemente e ovunque su quella vetrina che è assai grande. La mamma rideva. Lui, in piedi, correva per tutta la lunghezza della panca, messa davanti alla vetrina, come davanti a una lavagna. Scriveva, poi contemplava la sua opera e anche l'effetto che faceva nella lavanderia. La sorellina ha cominciato a imitare le lettere. Altre tre mamme sono venute a vedere il raccoglitore, la vetrina. Avevano tutte delle cose da dire anche della scuola. Erano le 18.30. La mia lavatrice si era fermata. Le asciugatrici giravano. La mamma di Rachid aveva finito di far asciugare la sua biancheria. Lui metteva via i suoi raccoglitori. Avrei voluto dirgli pian piano che Rachid vuol dire «guida», ma una mamma mi stava parlando di suo figlio espulso. Rachid se ne stava andando. Ci si è appena scambiati un bacio. Mi sono resa conto che avevo dimenticato di mettere del sapone nella mia lavatrice! Ricominciare a farla andare con del sapone? M ... Sono ancora piena di lavoro per questa sera. La mamma, il cui figlio è stato espulso, si siede. Lei ha tempo: tre lavatrici in funzione. Ricomincerò la mia. Che fare con questo ragazzo? In che scuola deve andare? I giovani che ... le giovani che ... Sono le 20.15 quando lascio la lavanderia. In una mano pesa il sacco di biancheria finalmente lavata! Nell'altra si rannicchia questo piccolo pane caldo impastato con Rachid, sua sorella e
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sua mamma, nella terza si affollano delle domande: perché questo ragazzo è nella scuola speciale? Perché i genitori non possono fare più domande? Non possono essere più ascoltati? Nelle loro parole? Non sarebbe decisamente meglio passare del tempo in certe lavanderie piuttosto che organizzare riunioni, i cui discorsi, senza sapone, non lavano le macchie profonde? Edito in «Échcc à l'échcc», n. 93, giugno 1993.
Perché faccio quello che faccio
«Le toilette sono sempre sporche e bisogna ogni volta andare a chiedere la carta igienica in segreteria» diceva Annalisa, umiliata. Allora, quando la scuola affida loro come «competenza trasversale» da acquisire: «lo rispetto i luoghi», loro ridono, si arrabbiano, chiedono: «Ma il preside non potrebbe occuparsi di mettere a posto le toilette?» Con la loro rabbia e le loro domande, ho preparato un percorso. Costruire l'organigramma della scuola (bisogna imparare a leggere e a fare degli schemi, in francese). Identificare le persone cui rivolgersi per ottenere un cambiamento. Fare riferimento al Conseil de la classe1 per decidere le modalità di comunicazione con le persone identificate (preside, insegnante, economo}: scegliere se si preferisce un incontro diretto subito oppure se si comincia con una lettera. Se la classe sceglie l'incontro, prepararlo facendo un elenco di ciò che si vorrà dire, fare degli esercizi per imparare a rivolgersi, in diversi, all'autorità; anticipare anche: prevedere che cosa dire e che cosa fare se il preside non ascoltasse la rimostranza, se dicesse che quello non 1 Il Conseil de la classe è una riunione regolare, ritualiz.zata dove gli allievi hanno la possibilità di portare domande, critiche, proposte. Siccome, non è un funzionamento facile all'inizio c'è un professore che è presidente, ma dopo tre settimane o un mese è un allievo che diventa presidente. Ci sono delle leggi per il Consiglio e sono fatte a misura di quella classe, in base alle difficoltà si istituiscono nuove leggi. I Consigli per il movimento della Pedagogia Istituzionale sono la chiave di volta di qualunque tipo di istituzione che viene inventata dalla classe sulla misura dei bisogni stessi e dei desideri della classe stessa. «Questa è una cosa molto importante per me. Nel corso degli anni mi sono resa conto che non potevo mettere gli allievi in una condizione di desiderio di apprendere se anch'io non mi trovavo nella stessa condizione di desiderio di apprendere e anche di apprendere la loro grammatica, il loro vissuto che era molto importante per loro. È per questo che dico che mi metto alla scuola di ... » (Noelle De Smet, dalla Conferenza L'arte impossibile dell'insegnare tenuta il 22 settembre 2007 presso l'Hotel La Pace di Pisa) (n. d. c.).
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è un problema degli allievi; organizzarsi forse con le altre classi. Se la classe sceglie di scrivere una lettera, elaborare la lettera, pensare dei contenuti precisi, scegliere le formule di inizio e di fine. L'atto di parola da sviluppare per l'orale e lo scritto sarà: «chiedere a qualcuno di fare qualche cosa». E in diverse situazioni di richieste, di rivendicazioni prese dalla vita del gruppo, dalla stampa, da un romanzo, osservare le posizioni sociali dei protagonisti, le procedure messe in campo per chiedere, i risultati ottenuti e la lingua utilizzata individualmente o collettivamente.
Se, all'inizio dell'anno scolastico, sarà a partire da questo fatto che lavorerò, è perché desidero attivare negli allievi la coscienza di una posizione sociale, a scuola e altrove: loro paragonano assai giustamente le loro toilette a quelle dei professori, sottolineando che loro non sono che degli allievi. Sanno che non hanno alcun potere istituito. Sanno che la loro scuola non è « bella come quelle dei ricchi». Inoltre, si sentono addosso il loro «quartiere marcio», la loro famiglia in cui più nessuno ha un lavoro e i numerosi fallimenti che hanno già vissuto. Oppure sognano, tramite i feuilleton. In generale subiscono, sporcano, rovinano (comprese le toilette). Il modo in cui si organizzeranno per ottenere una trasformazione di queste toilette può risvegliare in loro una coscienza: è possibile prendere in mano se stessi; funziona come funzionano i rapporti tra gli strati della gerarchia sociale; per ottenere bisogna agire, parlare, scrivere in questo modo, ecc.! Avrei potuto non partire dal loro punto di vista e assumere la decisione di «correggere», accompagnando ciò con la solita solfa: «Ma siete voi che sporcate le toilette, siete voi che srotolate la carta igienica; e quindi è stata tolta! Siete voi che buttate gli assorbenti da qualunque parte, che perdete tanto tempo davanti agli specchi che si è finito per toglierli. E se per di più scrivete sulle porte che il preside è un omosessuale, non potete pensare che lui le farà ridipingere per i vostri begli occhi!». Avrei anche potuto ascoltare il loro punto di vista ed essere gentile, salvatrice, risolvendo io stessa la questione: «Ne parlerò al preside». lo avrei fatto bella figura, ma loro sarebbero rimasti a lamen-
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tarsi, passivi e dipendenti da un altro «assistenzialismo» ancora. Non farò dunque né della morale né dell'assistenza. Non farò solo una pedagogia attiva del «francese sul serio». Lavorerò perché le alunne ritrovino la loro dignità. Organizzando gli allievi che si mettono in una posizione già cosciente e critica nei confronti dei loro stessi problemi, anche se, all'inizio, lo fanno in modo un po' anarchico. Attraverso i testi che leggeremo o le persone che potremo invitare per parlare di altre rivendicazioni, allargherò l'orizzonte ad altre forme di oppressione di classe, di popoli. Lo sciopero alla Volkswagen o le grida che vengono da Haiti diventeranno così tanto più vicini. La solidarietà tra gli allievi e questi altri potrà nascere e crescere, nella comune ricerca di una dignità da esigere. C'è, tra gli altri, Paolo Freire che ormai da lungo tempo ha nutrito le mie riflessioni pedagogiche. Egli alfabetizzava a partire dalle parole fondamentali per le persone. È proprio questo il motivo per cui prevedo nel mio lavoro di insegnante un lento e lungo ascolto degli allievi e delle loro famiglie. A partire dal loro vissuto, tento di sviluppare il massimo di saperi possibili, utilizzabili immediatamente e trasferibili altrove, sia per quanto riguarda il controllo collettivo di una situazione che per quanto riguarda il controllo della lingua e del pensiero in queste situazioni. È il mio modo di essere insegnante di francese e di educare alla libertà attraverso questa disciplina. Una libertà che non è più allora solo un vago concetto astratto non praticato, una libertà che non è regalata, ma che si conquista e di cui si paga il prezzo. Tra le parole chiave spesso presenti in classe, la parola «vergogna» ha un grande posto. Ci si «vergogna sempre» di qualche cosa. La vergogna perché «mio padre è arretrato, perché mia madre è tatuata, perché i miei vestiti li ho presi al mercato mentre se li acquistassi da Mélanie sarebbero più belli» ( «ma io le ho proibito di andare in città, dice sua madre, perché non voglio che veda ciò che non le potrei comprare») la vergogna quando qualcuno ci dice «sì, ma da voi ... ». Vincere la battaglia delle toilette può essere un passo verso
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una coscienza fiera, solo un piccolo passo che può portarne con sé degli altri. Un'altra cosa va anche fatta: ogni volta che ne ho l'occasione, introduco nell'apprendimento ciò che può dar loro una coscienza fiera. I riferimenti alla calligrafia, alla letteratura, ai mosaici arabi e alla musica nate nelle classi oppresse, alla storia dell'immigrazione, della classe operaia, sono altrettanti percorsi presi per far crescere la fierezza delle radici e vedersi iscritti in una storia complessa e ricca. «Sapere tanto quanto nelle scuole dei borghesi» preoccupa anche gli allievi. Che si tratti dell'informatica, del latino, della letteratura, dell'arte, della politica, bisogna far di tutto perché queste materie non siano riservate al privilegio di coloro che mantengono così il loro rango, mentre gli altri, quelli con cui io lavoro, potrebbero uscire appena dalla scuola e prepararsi presto a un mestiere (che esiste?). Affinché a scuola, i giovani provenienti dagli strati sociali più sfavoriti possano osare imparare senza perdere se stessi, ritengo sia necessario che conservino i valori trasmessi dai padri manovali disoccupati e dalle madri casalinghe. I valori, le visioni del mondo, le preoccupazioni e gli interrogativi. Entrare così in contatto, direttamente o attraverso delle letture, con dei fratelli maggiori usciti dallo stesso ambiente, ma divenuti intellettuali. Faccio tutto ciò con l'intenzione di rafforzare la coscienza di classe piuttosto che di lasciarla perdere facendoli «uscire di là», «elevandoli» a partire dal solo punto di vista dominante. Questa volta sono le toilette. Un'altra volta sarà il denaro, sempre richiesto a scuola, le riviste per i giovani, la pagella, i fatti importanti del quartiere, i voti al consiglio, ecc. con la prospettiva sempre aperta del corso che io devo garantire: il francese. Poiché la pedagogia non è mai neutra, io so che la mia pratica sarà quella che è in funzione di una scelta: preparare i giovani a occupare il loro posto nella società, o prepararli a trasformarla trasformando già la cosa più piccola e più vicina. Far loro assimilare l'ideologia dominante o renderli critici e autonomi di fronte ad essa. Questa scelta avviene tutti i giorni; talvolta a proposito di dettagli. Tutti i giorni c'è un conflitto, per la disposizione dei banchi in classe, per frasi dette o scritte: «Obbedisci più spesso, stai zitto in classe, non divertirti, non occuparti degli altri, sii educa-
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to», un conflitto su scelte di contenuto e sui modi di appropriarsene, sul fatto di lasciar entrare a scuola il vissuto delle classi sociali oppresse invece di negarlo, di giudicarlo o di addomesticarlo, sul modo di vedere e di coinvolgere i genitori ... La mia scelta di un'educazione liberatrice delle classi oppresse si inserisce certo in una storia collettiva: questa scelta può farsi strada solo perché io sviluppo con altri, e non soltanto con degli insegnanti, l'analisi critica dei progetti d'educazione e delle implicazioni che contengono rispetto alla società. Tutto ciò, restando al tempo stesso cosciente della mia posizione sociale e il più vicina possibile alle azioni e al punto di vista degli oppressi. E devo portare avanti un lavoro di liberazione con dei giovani che sono oppressi almeno quattro volte. Come figli di operai, come figli di immigrati, come allievi, come allievi del professionale (quando è nota la gerarchizzazione degli orientamenti) e, per una parte, come ragazze. Quando metto in moto dei Conseils d'élèves, dei dispositivi che permettano agli oppressi di prendere la parola, quando organizzo la lezione di francese partendo dagli interessi dei miei allievi, quando cerco di attrezzarli nel migliore dei modi, io faccio anche qualcosa che non è solo pedagogia. Faccio politica, nel senso forte del termine, quello che contiene l'idea di un progetto di società visto nella sua globalità, e all'interno dei conflitti tra le classi, i popoli, i sessi, le generazioni. È prendendo parte a questo conflitto, sul piano personale e collettivo, che l'educazione si definisce. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 103, dicembre 1994.
Fare delle leggi, fare la Legge
Fare delle leggi, in generale, si sa cos'è. (Sebbene ... ! Se si conoscono le parole, non ci si occupa forse abbastanza dei giochi e delle loro implicazioni}. Nelle trame della storia, rispetto ai rapporti tra nazioni, in un paese, una regione, un comune, una scuola, una classe, eletti o utenti progettano, propongono, redigono, sopprimono, aggiungono, emendano delle leggi, dei decreti, dei regolamenti, dei codici di vita. Questione di doveri e di diritti. Anche di sanzioni. Questione di non farsi le leggi da soli, rischiando una barbarie selvaggia. Questione talvolta di una burocrazia pignola e formalista a oltranza, che dimentica (volontariamente o no} la visione di fondo rimanendo inchiodata agli ordini, all'ordine. Le leggi, si rispettano oppure no, ma in ogni caso si vigila affinché ci siano. Le leggi riflettono delle scelte: sociali, culturali, economiche, politiche, ecologiche, pedagogiche. Le leggi rivelano le ideologie e le logiche in atto, nutrono le polemiche, velano o svelano gli interessi di posti e di classi, sottolineano i rapporti di forza. Lasciano a ciascuno delle possibilità, di trasgressione, di protesta, persino di disobbedienza civile se una costruzione di democrazia e di soggetti è in pericolo. Fare e disfare delle leggi dunque! Fare la Legge appartiene a un altro ordine. «All'inizio era il verbo ... !» La parola, la caratteristica dell'essere umano, questo parletre. E attraverso ciò, l'esistenza, il distacco, per mezzo delle parole che simboleggiano, mettono a distanza, rappresentano. Non sono dunque gettato nudo dentro un godimento nudo, come un animale che goda solo e senza parole, senza la dimensione del linguaggio fra soggetti. lo nomino, tu nomini. E la parola posiziona. E la posizione fa parola. Il padre, il figlio, la madre,
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l'amante ... l'insegnante, il bambino di ... , figlio di ... , figlia di ... non una mia cosa, nemmeno un mio allievo. Non c'è fusione come nei primi giorni di vita. Non si può ricostituire quella indifferenziazione. È perduta. Fare la Legge, significa istituire la differenza. Detto ciò, risulta evidente che io non sono tutto, che non so tutto, né di me, né dell'altro, che tutto non è possibile. Fare la Legge, significa dunque sapersi incompleto, decompletato dal taglio (non c'è fusione), decompletato dai percorsi dell'altro. Fare la Legge significa mettere in campo dei punti di localizzazione, di riferimento: luoghi per ... , luoghi di ... , tempi opportuni per dire, fare qualche cosa, ruoli, statuti per sapere chi parla, a chi e da dove ... altrettanti limiti individuati che permettono di passare dal «tutto-è-possibile-qui-e-ora-per me» a dei «io posso, io voglio» da inserirsi nella realtà operativa. lo accetto il limite e io fisso, noi fissiamo dei limiti in classe o altrove. Fare la Legge non significa brandire la legge del ministro, del padrone, del preside, del professore ... Si tratta qui della legge del padre simbolico, quella che dà accesso al linguaggio (è il padre che scioglie la fusione dei primi giorni tra madre e bambino, è il padre che stabilisce il «no» all'incontro completo). Fare la Legge significa impedirsi di nuocere, impedirsi di proiettare sull'altro degli appetiti perduti, mescolati da qualche parte al compito stabilito. Infine, fare la Legge è praticare !'interdetto strutturale, !'interdetto dell'incesto ( cioè prendere l'altro come oggetto di godimento, cosa che si può fare in modo diverso e altrove rispetto al sessuale). Questo è il limite, non specificamente in un'ottica morale, ma in un'ottica vitale per l'umanità: se non ci si stacca da un rapporto, da una posizione fusionale, non si crea più nulla. L'interdetto non coincide con il senso facile del censore che cancella gli atti, !'interdetto è il "no" alla fusione, il "no" al ritrovamento del godimento perduto. L'interdizione è l'inter-dire, è appunto ciò che «si dice fra». E, in una classe, !'interdetto si unisce a una sanzione, a un "no"2, perché l'insegnante, implicato nella sua funzione, non può permettere che i disturbatori paralizzino il gruppo. Domanda: chi è nella posizione di dire "no" all'inse2
A dire sempre sì, si perde il proprio no ... «me» (Sol, Clown di Montréal).
FARE DELLE I.F.GGI, FARE LA LEGGE
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gnante, nel caso di un certo conflitto tra lui e gli allievi o agli insegnanti che sono importuni nei gruppi. .. ? Fare la Legge vale infatti per ogni essere umano e ognuno ha bisogno di sapere e di percepire che ciascuno vi è sottoposto, qualunque sia la sua funzione. Fare delle leggi e fare la Legge ... Differenziare. Dirsi anche che tra i due aspetti è possibile che passi da qualche parte un filo, e che l'uno permette forse l'altro. Alla fine ... o all'inizio. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 119, marzo 1997.
Obbedisci e taci?
«Obbedisci più spesso e taci un po' di più». Frase letta più volte in pagelle di allievi. Frase che mi sciocca profondamente. Perché? Perché evoca in me immagini antiche e attuali di bambini e di giovani che sono alla mercé degli adulti: essi devono fare ciò che l'adulto vuole, come lo vuole, quando lo vuole. Non c'è alcuna preoccupazione in questi adulti rispetto alle potenzialità o ai desideri propri di questi giovani, né al loro modo di funzionare. Essi devono evidentemente sottomettersi e basta. È proprio ciò che vogliono gli insegnanti che scrivono queste frasi? Io non ne so niente. Posso soltanto cercare di spiegare un po' alla luce di ciò che ho avuto la possibilità di vivere, sentire e vedere. Un insegnante, come ognuno, ha ereditato dai suoi o dalla scuola una certa concezione della società e la traduce nel suo lavoro di insegnante. Può verificare, ad esempio, che ognuno occupa un posto nella società e vi deve restare, rispettando le caratteristiche legate alla sua posizione: i grandi in alto, i piccoli in basso; quelli che stanno in basso devono prendere come modello, ascoltare, seguire coloro che stanno in alto. Secondo le circostanze, i grandi e i piccoli possono chiamarsi genitori-bambini, insegnanti-allievi, intellettuali-lavoratori manuali, direttore-impiegati, ministri-cittadini, autoctoni-immigrati, Nord-Sud. Cioè è chiaro e preciso. Dunque, a scuola, gli allievi devono obbedire. In quest'ottica, d'ordine politico, esigere l'obbedienza significa far entrare gli allievi in questa concezione del mondo e soprattutto evitare che non emergano desideri o pensieri diversi. Come per gli Indiani, un buon allievo è un allievo morto. Sì, morto, perché il suo pensiero, i suoi desideri, la sua parola svaniscono spente dall'insegnante, sotto il ricatto minaccioso dei «se
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tu non fai ciò che ti dico, avrai zero o una punizione o ... ». Spiegazione possibile della frase scritta sulla pagella. Ma no, non esistono più insegnanti che vedono veramente le cose in questo modo. Semplicemente, vogliono poter fare il loro lavoro, è tutto. Hanno preparato la loro lezione, una bella lezione proprio chiara, con ricerche degli allievi e tutto. Allora l'allievo che non entra in questo ordine, che non obbedisce, non lo possono ammettere: osa contrastare il loro bel lavoro. È offensivo. Qui è certo una concezione della pedagogia ad essere in gioco: io do il meglio, e loro devono dunque prenderlo. Un buon allievo è un allievo che prende immediatamente e il buon professore non si interrogherà sulla sua lezione, perché è buona. Un'altra spiegazione possibile della frase scritta in pagella. Non è solo questione di poter fare il proprio lavoro, è anche una questione di sopravvivenza: «Tu ti rendi conto, se lascio fare ad Arme, finirà col dirigere tutta la classe ... e che cosa ci faccio io là dentro? E per di più, con tutto ciò che provoca, ritarda tutto e io non potrò finire il mio programma». Esistono delle grandi paure legittime: se l'allievo non mi obbedisce, io non avrò più autorità né su di lui, né sulla classe, che figura farei coi miei colleghi? Non saprò più qual è il mio posto. Risposta: essi devono tutti obbedire, altrimenti ... Risposta e minaccia dovute alla paura per sé e alla solitudine di chi, a sua volta, non è garantito da qualcuno. Un buon allievo è quello che non mette l'insegnante in pericolo. Altra spiegazione per la frase della pagella. Esistono certo anche altre spiegazioni come, ad esempio, il rapporto che ognuno, in prima persona, ha avuto con l'autorità, nell'infanzia o nell'adolescenza. Nella pagella le valutazioni non tengono conto che sommariamente della storia dell'alunno. Atti, parole, minacce per far obbedire si ripetono automaticamente come una consuetudine radicata. Le motivazioni profonde non vengono dette tra insegnanti o tra insegnanti e allievi. Del resto sono riconosciute e coscienti? Attraversata da questo problema dell'obbedienza, io mi interrogo. Perché non ho scritto questa frase sulla pagella: «Taci e obbedisci»? E tuttavia mi è capitato spesso di essere nella logica del «ioavevo-preparato-così-bene-la-mia-lezione» oppure del «ho- paura-
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che-prendano-il-mio-posto». Mi è capitato anche di dirmi «no, io non voglio formare delle pecore docili, sotto la minaccia degli zero» oppure di fermarmi di fronte a frasi come «Un bambino obbediente, facile, è il sogno di ogni educatore. Ma non si pensa mai a quell'uomo fiacco e vile che rischia di diventare» 1• «Che fortuna per coloro che governano che gli uomini non pensino» 2• E tuttavia, nel complesso, anche a me piace che le mie lezioni si svolgano bene ... e allora che cosa ne faccio dell'obbedienza? I «tu devi fare ciò che ti dico» non li ho mai voluti, non ci ho mai creduto. I «fallo per farmi piacere», ancora meno. Nel corso degli anni, ho visto delinearsi dei percorsi solo quando lavoravo su queste due domande: - Che cosa può smuovere gli allievi? - Che cosa ne faccio dei rifiuti, delle opposizioni, delle disobbedienze? Questi due interrogativi mi richiedono, tra l'altro, di ascoltare molto gli allievi (e i lavori di approccio possono essere lunghi). Ciò che io posso portare come sequenza di apprendimento parte quindi spesso dai loro interessi, dalle loro emozioni o persino dalle loro smorfie, riviste da me, che ho come compito quello di suscitare la voglia di imparare e di crescere ... il mio contributo diventa mediazione tra loro e me. Costituiamo quindi ormai tre poli e, in questo caso, lavoriamo - loro e io - attorno a qualcosa che ci diventa comune. Non si tratta più in questo caso di obbedienza, ma piuttosto di adesione, non a me, ma a quel sapere che incominciano a gustare. Talvolta l'adesione a un sapere è tanto forte che non c'è più interesse per altri ambiti da esplorare, e qui 1 Janusj Korczak, scrittore cd educatore polacco. «È il 6 agosto 1942 che Korczak entra nella leggenda, all'inizio della liquidazione del ghetto di Varsavia da parte dei nazisti. Quel giorno, le SS lo obbligano a riunire i 200 orfani, di cui si occupa, per portarli a Treblinka. Rifiutando di salvare la propria vita - come gli sarebbe stato possibile- Korczak accompagnerà i bambini sino alla morte. Uomo fuori dal comune, Korc-.1.ak non è soltanto un martire. Fu un grande educatore che tradusse nelle sue opere la pedagogia moderna e pose le basi di un'educazione fondata, sulla fiducia, l'autonomia e il rispetto dei diritti di ciascuno.» In Bctty Jcan Lifton, Le Roi des enfants, Robcrt Laffont, 1991. L'autore ha consacrato 1O anni ad analizzare gli scritti inediti di Korczak per consegnarci questa prima grande biografia. Da leggere. 2 A. Hitler.
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è possibile disobbedire. Come in quella classe che voleva fare solo improvvisazioni. Avevamo deciso di farne le prime due ore del mercoledì mattina, e poi di fare lettura o scrittura. Ecco che un mercoledì, quando ricordo che il tempo delle improvvisazioni è trascorso, Kahina sale su una sedia e mi grida: «Senta, non l'abbiamo sgridata, e noi continuiamo».
Conoscendo Kathina, me l'aspettavo proprio un intervento del genere. Assai velocemente mi passarono per la testa i «Taci» che gli insegnanti le dicevano spesso ... Qui lei faceva altrettanto. Che fossero i personaggi che lei interpretava (un padre, una strega) a darle quasi la forza di un capo? Voleva continuare a fare ciò che la valorizzava invece dello scritto in cui faceva fatica? Voleva prendere un po' del mio posto? All'inizio un po' inchiodata là dov'ero e rapidamente attraversata da questo genere di domande, ho poi utilizzato ciò che avevo sotto mano. Sono salita su una sedia accanto a lei e le ho detto sorridendo: «Piacere, signore, lei è il marito di Fatima. Interpreta bene questo ruolo. L'ho ben compresa. Il mio ruolo invece è quello di ricordarle le nostre decisioni del Conseil: due ore di improvvisazioni e poi altro». La sorpresa ha suscitato il riso di Kahina e della classe; l'ultima frase ha ricordato i limiti. La classe si è rimessa in ordine per l'attività successiva, in cui ognuna è passata con qualche sorpresa e comunque con qualche smorfia di scontento. Avrei potuto far uscire Khatina, per mancanza di educazione, come si fa di solito. O punirla ... o dirlo a suo padre ... o aspettare che tutto passasse senza dir nulla e annotarlo nel quaderno del comportamento da consegnare al Consiglio di classe degli insegnanti. Ho preferito cercare di entrare nella «sua grammatica»: fare anch'io dell'improvvisazione, prenderla sul serio nel suo ruolo di uomo sicuro di sé e farle comprendere che avevo capito. Per fortuna ho potuto prendere rapidamente le distanze (non succede sempre) e far riferimento al nostro Conseil de coopération. Mi sembra che dovevo fermare Kathina per tenere il mio posto al tempo stesso di responsabile della lezione e di garante delle decisioni del gruppo, decisioni basate soprattutto sul rispetto delle persone, sulla gestione del tempo e dello spazio. Se non l'avessi fatto, sarebbe stato come se le costruzioni collettive non tenessero e potessero
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farsi spazzar via da non so quale vento. Ma non bisognava farlo sul tono dello scontro. In quel momento mi sembrava di dover essere attenta anche a Kathina: come avrebbe potuto valorizzarsi anche altrove? Come avrebbe potuto assumere qualche tratto da adulta? Che fare con il suo vissuto dell'autorità? Garantire dei limiti per lei e per le altre, senza spegnerla. Ho messo questo punto all'ordine del giorno al Conseil de coopération, senza centrarlo su Kathina, ma con la domanda: «Come mai talvolta non manteniamo le nostre decisioni collettive?» Sono state date diverse risposte e soprattutto sul «ci si diverte tanto con le improvvisazioni». È seguita una discussione su altre cose da imparare e un interrogarsi a proposito dell' «apprendere» (divertente e cos'altro?) Ho osservato anche che Kathina si assumeva delle responsabilità che le davano una identità da adulta. Sostenerla perché le conduca a buon fine vorrà dire permetterle di assumere qualche cosa del suo statuto di adulta. Ho percepito un pezzo del suo vissuto sull'autorità quando l'ho vista con suo padre. Era un'altra: timida, con il capo chino, silenziosa. Se invece parlava lo faceva a voce assai bassa, in modo spezzettato. Passandomi accanto, velocemente mi aveva fatto arrivare un: «gli parli bene di me, per favore». In seguito, in occasione di altre conversazioni con lei, ho capito che accettava l'autorità di suo padre. Ma non accettava dei prof che credevano d'essere suo padre dandole degli ordini, o che la prendevano in giro (è così che lei lo percepiva) dicendo ad esempio: «tuo padre è certo disoccupato, e allora ha tutto il tempo di venire a trovarci a scuola». Lungo tutto l'anno, ho dovuto porre nuovamente dei limiti a Kathina. Senza di ciò, prendeva il sopravvento su tutti e li metteva a sua disposizione. Noi costruiamo dei limiti al Conseil, limiti per tutti e quindi rassicuranti: nessuno sarà schiacciato da nessuno. Sulle disobbedienze d'ogni tipo che comunque si verificavano, se ne parlava sia al Conseil sia in privato. Io non avevo che una domanda: «Perché?», semplicemente per tentare di mettere delle parole sugli agiti. Spesso imparavo più così che se avessi semplicemente punito e basta. Imparavo come continuare. Quest'unico modo che mi appartiene per trattare il rapporto di obbe-
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dienza (delle mediazioni, delle garanzie, delle decisioni comuni divenute leggi per tutti, delle possibilità di rinvio, una parola su ... ) è in effetti un esercizio arduo, quotidiano, poiché, come ognuno, anch'io sono tentata dal sogno che essi mi obbediscano subito e sempre. Ma in questo caso, che cosa avrebbero appreso e che cosa avrebbero fatto di se stessi? È certo per questo che sono incapace di scrivere sulla pagella «Obbedisci e taci»: perché preferisco, all'ammaestramento, le liberazioni! Edito in «Échcc à l'échcc», n. 132, gennaio 1999.
Diamine, ascoltami una buona volta ... !
«Troppe chiacchiere. Taci durante la lezione. Fai una domanda se non capisci. Il Conseil, un tempo per una parola degli allievi. Favorire la partecipazione. Ma cosa si permettono di dire ... per chi si prendono, questi allievi?» Frasi come queste dette, scritte, tra coerenza e contraddizione. Nei tentativi di costruzione di parola, capita allora di essere talvolta incerti, fra i sensi proibiti, i muri, le impasses, i trampolini e i ponti. Questi allievi un giorno hanno detto. Hanno detto che gli insegnanti li insultavano. Hanno detto che anche loro insultavano gli insegnanti. Prima lo si dice gridando, poi parlando. In questa classe si è quindi trattato di vedere che cosa fare di questo fatto portato al Conseil: gli insulti degli insegnanti e degli allievi. Che fare di questo fatto e come fare attenzione alle persone? Per quattro mesi, è stato elaborato un lavoro, prima nella classe a partire dal Conseil, poi con altre classi attraverso un Conseil des délégués des élèves. In conclusione, un testo accompagnato da una lettera-domanda agli insegnanti, i cui aspetti essenziali potrebbero essere così riassunti: «Delle parole ci fanno male, rispettateci per favore, siamo delle persone». E anche un testo rivolto agli allievi a proposito degli effetti possibili degli insulti agli insegnanti, effetti sui sentimenti, sugli animi, sulla relazione. Il tutto fu consegnato agli uni e agli altri. Una parola dunque elaborata a partire da un vissuto-ferita. Quando questo testo e la lettera che l'accompagnava è stato ricevuto, la reazione della maggioranza degli insegnanti è stata immediata: «Che si guardino innanzi tutto dal farci la lezione... per chi si prendono!». E, indirettamente, rivolgendosi agli insegnanti che avevano semplicemente accompagnato questi allievi affinché si potessero organiz-
DIAMINE, ASCOI.TAMI UNA BUONA VOI.TA ... !
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zare in un progetto invece di gettarsi in uno scontro, frasi apparentemente preconcette, scaturite forse da timori e sordità: «Ciò significa colpirci alle spalle. Perché non ci hanno preavvisato di questo lavoro? Da quando gli allievi hanno elaborato questo testo, credono di avere dei diritti. Per di più, ciò non ha risolto il lavoro in classe». Questo fatto mi ha lasciato con degli interrogativi di fronte a ciò che si definisce parola e di fronte a tutto quello che viene detto e fatto in suo nome. Quali parole possono avere lo statuto di parola autentica? Certe più di altre? Perché? La cosa dipende da chi parla a chi, quando, perché e come? In questo caso, si tratta d'altro che di parola: lo statuto di parola riconosciuto dipende dalla posizione (gerarchica o altro) di coloro che parlano ... Che non si venga a farci credere alla possibilità di una parola ascoltata a tutto campo nel rispetto. I rapporti di potere giocano in ogni caso. Ma che cos'è una parola? In forma di piccole risposte, alcuni punti di riferimento: - la parola, una caratteristica dell'essere umano, questo «par/etre» - secondo la bella parola inventata da J. Lacan- e quindi il suo riconoscimento come autore; - la parola come possibilità di nominare il mondo, una nominaz1one; - la parola come distanza tra ciò che ci mette al lavoro e la sua formulazione: in un certo senso, un margine e uno scarto per abitare i sentimenti, le emozioni ... per evocarli, per calmarli; - e questa frase forte di Alain Bosquet: « Un dire, prima di rivestirsi di parole, ha da soggiornare come in un mammifero con le doglie; acquista così il diritto di avere un senso, d'avere un suono, d'avere un'anima». Il «senso» può comportare la significazione, ma anche la direzione: una parola si rivolge a qualcuno e quella che non trova a chi indirizzarsi diventa grido e/o passaggio all'atto. Nella storia di questa classe, si trattava proprio di una parola. Una parola che ha tentato di dirsi al di là del grido, ma è sembrato che non contasse per coloro che avrebbero dovuto riceverla. È la parola collettiva che ha disturbato? Come insegnanti, che fare per svelare
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ciò che fa parola e che conta per quelli che la esprimono e la rivolgono, qualunque sia al limite la forma usata? E persino prima di ciò, che fare perché ognuno osi immaginare che la parola di un allievo sia realmente riconosciuta e possa esistere? La questione resta aperta su importanti aspetti degli atteggiamenti esteriori ed interiori, e anche su delle parti di statuto: che cosa impedisce, a noi insegnanti, di ricevere veramente la parola degli allievi che ci è rivolta? Che cosa costituisce, forse, insicurezza per noi? Questioni di ordine personale? D'ordine relazionale? D'ordine istituzionale? Da approfondire. La storia sottolinea un altro versante della parola: l'indirizzo e l'ascolto. In certi testi, è spesso questione di parola la quale ... di parola che ... di tempo di parola per ... ma raramente è questione di ciò che si fa di questa parola, sia di quella degli allievi che di quella degli insegnanti, del resto. Un po' come se si desse la parola in un certo momento preciso, tra l'altro, per calmare delle agitazioni inaspettate o meno controllabili, senza che vi sia un momento previsto o come se il fatto di aver dato la parola mettesse in linea con decreti, direttive o persino con la coscienza, coloro che la danno, in modo parsimonioso. Ma, dopo la parola, che cosa succede? lo sono colpita dal numero di parole che non si preoccupano di cercare a chi indirizzarsi, sia tra gli allievi che tra gli insegnanti; ciò fa scaturire delle parole che si infrangono contro muri di lamentele, che si ripetono nell'insoddisfazione quotidiana, ma che non divengono motori di azione o di progetto. Non trovare a chi indirizzarsi è divenuto forse tanto abituale, che allora si dice, si dice, in una diarrea di parole, ma al di là dell'evacuazione (certo anche necessaria!} non si dice nulla, o troppo poco. E se allora una persona o un gruppo centra più o meno coscientemente il bersaglio, ecco che la campanella è bloccata e che la porta è chiusa: l'altro è là, ma non ha sentito niente. Se i testi si mettessero a parlare sia di ascolto che di parola, allora forse la parola potrebbe elevarsi al rango di un vero riconoscimento di coloro che la possiedono. E poi ascoltare è anche discorrere ... dare la possibilità di trasformare una parola in causa, causa di messa in moto, di attiva-
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zione, di desiderio. Un piccolo lavoro sull'ascolto degli insegnanti, perfino una formazione all'ascolto, all'interno della relazione pedagogica, un interrogarsi a proposito di ciò che si può fare di una parola gettata lì o elaborata, individuale o collettiva, sarebbe un investimento prezioso. Ma in effetti, noi ne facciamo già qualcosa di queste parole, quando canalizziamo, calmiamo, facciamo tacere, raddrizziamo, interpretiamo, freniamo, arrangiamo, blocchiamo o aiutiamo a organizzare ... ma certo senza sapere abbastanza ciò che facciamo esattamente. Allora, bisogna mettersi naturalmente in movimento per instaurare dei momenti di parola e per far sì che questa parola possa svolgere il suo ruolo, ma soprattutto mettersi in movimento per instaurare un nuovo modo di trattare la parola a scuola. Può essere questione di ascolto, di silenzio davanti alla sorpresa delle parole dell'altro, ma anche questione di risposta: che cosa si dice a questi allievi, o a questi colleghi che ci rivolgono una parola, sia questa dura o morbida? Come ci prendiamo il tempo e la cura di dire? È risaputo che le parole volano e che gli scritti restano. Esperienza vissuta o sentita. Le parole non volano, marchiano col ferro e talvolta per sempre, oppure sì, volano, possono far volar via, rubare 1••• la dignità dell'altro. La parola sentita, riconosciuta, scambiata come supporto e apporto di dignità umana: è un intero programma per i nostri luoghi di parola. Ma su uno sfondo di silenzio. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 138, dicembre 1999.
1 In francese voler può significare sia volare che rubare, gioco di parole intraducibile in italiano (n. d. c.).
Erik o delle parole per dirlo
Il 1 ° settembre ho ricevuto una comunicazione scritta della scuola, che indica due ore di lezione in una classe di 1 Accueil in un luogo diverso rispetto a quello in cui lavoro di solito. Prima di andare in questa classe, decido di telefonare al preside e al professore titolare 1 (di cui ho saputo per caso il nome) durante il week-end ... la questione è quella di sapere un po' che cosa dovrò fare in questa classe e quale utenza c'è. Senza questa telefonata, non ne avrei saputo nulla: gli allievi ed io, solo dei nomi messi in elenco e pacchi lasciati nei locali! Tutti sono sistemati, niente di più. Vengo dunque a sapere che devo fare «sostegno di francese», come supplenza a un altro insegnante di francese, e che la classe è costituita solo da ragazzi, tra cui un certo Erik, un russo di quindici anni che parla russo e inglese. A
L'8 settembre, alle 8.30 sono in cortile e cerco di trovare quelli della 1 B, che si ritiene dovrebbero raccogliersi lì. In classe, in tutto il lavoro di queste due ore, e cioè giochi, disegni e testi sui nomi e sui gusti di ognuno, noto la grande difficoltà di concentrazione (da cinque a dieci minuti di fila, va già bene), l'inquietudine su ciò che sto facendo, perché c'è già un insegnante di francese «È perché siamo deboli!» e fra o durante le attività, ogni sorta di mimiche, di gesti, di parole che ruotano attorno a Erik, con il quale gli altri non sanno parlare perché non comprende nulla di A
1 Il «professore titolare» è quello tra i dodici che intervengono in una classe secondaria e che è responsabile della classe. Cioè quando c'è un problema tra un insegnante e gli alunni, è da questo che si va all'inizio. Per gli alunni è una persona di riferimento, percepita spesso come importante e a volte come un avvocato. È una funzione non pagata. È la persona che fa le pagellle, che dirige le riunioni dei professori di una stessa classe, convoca i genitori se c'è bisogno (n. d. c.).
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francese. Parlo un po' inglese con lui. Gli altri o si divertono oppure sembra che gliene (me ne) vogliano perché ha la mia attenzione o ne approfittano per sistemare qualche conto tra loro. Negli ultimi dieci minuti di queste due ore, partono dei pugni in faccia. Erik ne ha avuto abbastanza delle manovre che ha percepito attorno a lui negli sguardi e nei gesti degli altri ... qualcosa che ha a che fare con la presa in giro o forse con minacce di scontro. Erik colpisce il suo vicino Yacine che risponde e gli altri si mettono in mezzo. Porto Erik, diventato bianco, nel locale accanto, ufficio della sorvegliante educatrice, perché vi si possa calmare, spiegarsi in inglese e ... torno dagli altri. Sono piuttosto silenziosi, come stupefatti da quanto è appena accaduto, perché, dicono, talvolta aiutano Erik, perché gli capita anche di fare dei «gesti sconci». Prima che suoni la campanella per l'intervallo, ho appena il tempo di comunicare loro che se ne discuterà e che potranno spiegare ciò che accade, sottolineando il fatto che «ciò dev'essere veramente difficile per loro» (senza ancora valutare che cosa). Se ne vanno con l'aria rassicurata e sorpresa: «Lei non ha gridato, non ci ha punito ... » Bene. Ma li rivedo solo tra una settimana. Per tutta la settimana, sono in un altro luogo, senza contatti informali o formali con i colleghi, gli allievi, il prefetto2 di questo luogo. Questa classe, incontrata una prima volta per due ore, già mi assilla e mi pone degli interrogativi: come vive Erik questo arrivo in Belgio, in una classe di ragazzi più giovani, senza momenti di apprendimento di un minimo di francese per entrare perlomeno in contatto con gli altri? E i suoi compagni come vivono la difficile comunicazione con Erik? Come vivono il fatto di essere in 1 B, nella classe in cui vanno quelli che sono stati bocciati alle elementari? Non hanno qualche cosa da mostrare a Erik, agli insegnanti o a se stessi? Qualcuno ha fatto in modo che venissero dette delle parole a proposito di questi vissuti che turbano un A
2 Cambia la sua funzione a seconda che operi nelle scuole di contesto cattolico o ufficiali, nelle scuole Ufficiali (dello stato o dei comuni) è il direttore. Nelle scuole cattoliche si dice «prefetto di disciplina» o «prefetto di educazione». È un aiuto al direttore. È una persona che di solito si occupa più degli alunni, mentre il direttore viene come ultimo ricorso per gli alunni e si occupa piuttosto dei professori e della amministrazione (n. d. c.).
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inizio d'anno basato su un fallimento? Forse le reazioni degli uni e degli altri gridano che no, che non sono dei pacchi? Quale lezione preparare per la volta successiva? In ogni caso mi è impossibile arrivare là con una lezione, facendo come se non fosse successo niente, passando tutto sotto silenzio. Immaginare il poco che posso con il poco di elementi che ho sotto mano. È deciso: telefono al prefetto di disciplina che trovo dopo tre giorni di tentativi. Chiedo notizie di Erik e della classe. Ah, dei colleghi avevano già diffuso, un po' scandalizzati, la voce che c'era stata una gran confusione, sottolineando il racconto con dei «ma dove stiamo andando?» (Ebbene sì! Dove esattamente e con chi? E perché?!) E dei «bisogna frenarli!» Quanto al prefetto (anziano insegnante di lingue germaniche) aveva ascoltato Erik in inglese, aveva fatto un po' una predica a tre allievi della classe, senza esagerare. Uff ... Non avevo alcuna voglia di colpevolizzare chicchessia. Propongo allora al prefetto di venire con me in classe nella prossima ora di lezione. Dirò agli allievi che, come promesso, «discuteremo perché è difficile» e subito dopo, il prefetto e io, inizieremo una conversazione in olandese. Poi chiederemo agli allievi che cosa è difficile, che cosa vogliono dire. Ho un po' paura che all'ultimo minuto il prefetto non sia disponibile o che agli allievi la nostra conversazione arrivi come un giudizio del tipo: «vedete cos'è quando non si comprende nulla e voi, piccoli cattivi, guardate che cosa avete fatto al vostro compagno». Dovrò vigilare. Il 15 settembre, fortunatamente, il prefetto è là e noi facciamo quanto previsto. Gli allievi ci ascoltano e ci guardano con sorpresa e attenzione. Noi proseguiamo la nostra conversazione in olandese con molti gesti e mimica, parlando dei ragazzi, del prefetto e della classe. Dopo sette o otto minuti, ci fermiamo. All'improvviso, un allievo interviene: «è come per Erik». lo non ho troppa voglia che si arrivi direttamente a questo punto e proseguo chiedendo che cosa vogliono dire. Uno di loro ha individuato la parola jongens (ragazzi) e la parola accueil che il prefetto non aveva tradotto. Ne ha concluso che avevamo parlato di loro. Un altro ha tradotto uno dei nostri gesti con « bisognerà tenerli ben a freno» ... ma in realtà noi con questo gesto dicevamo «bisognerà trovare il modo di lavorare duro con loro». Ascoltando questa
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traduzione, alcuni di loro si sono rassicurati. Ho chiesto ancora che cosa era difficile e, a questo punto, hanno cominciato a parlare di se stessi. «Non avevamo le parole per chiedervi che cosa dicevate. Non sapevamo di che cosa parlavate. Se riguardava noi. Abbiamo pensato delle cose diverse sui vostri gesti. Non è divertente. Sentivamo la voglia di addormentarci o di irritarci. Fortunatamente non è durato molto tempo». E hanno ripetuto: «è come con Erik», ma questa volta precisando che era difficile anche per loro: «non sappiamo che cosa dirgli, non sappiamo mai spiegarci con lui, dice Nassir, non abbiamo le sue parole». E un'ipotesi mi attraversò la mente; non abbiamo le parole di Erik, non abbiamo nemmeno le parole della scuola. Ho proseguito con un «è difficile essere in r Accueil?» Dapprima, silenzio. Poi, una parola di Ismael: «mi dispiace» Quindi spiega che rimpiange di non aver lavorato a sufficienza prima, alle scuole elementari. Gli altri stanno zitti. Chiedo che cosa sanno della 1 Accueil, che cosa è stato loro detto. Ri-silenzio. Poi viene pronunciata una parola, gettata là da Antonio: «la vergogna»;« mio fratello mi ha detto che sono il primo in famiglia che viene bocciato. Allora la vergogna è ancora più forte ... tutta la famiglia. Però mi ha detto che per una volta passi, non è grave.» Yacine racconta molto vivacemente: «c'era una pedana, era davanti a tutti, sono stati detti i nomi al microfono, lo scorso giugno. Non ho passato la 6A. Ero il solo della classe. È stata la vergogna e ora quelli della 1 A impareranno più di noi». Altri non dicono niente, ma approvano Yacine e abbastanza presto, forse come per sfuggire a questo disagio insopportabile, lliriane dice: «a quanto sembra, possiamo recuperare». Il prefetto ed io spieghiamo l'obiettivo della r Accueil e ciò che potrà essere fatto in seguito, sia con loro nella classe che nella struttura del sistema. Mi sembra importante che sia stato possibile dare delle parole a tutto questo vissuto. Il prefetto lascia la classe. Continuiamo con un'altra ora di lezione. Do loro sei foto, sulle quali lo stesso personaggio fa dei gesti diversi con le mani. Chiedo loro di fare il gesto di ogni foto e di accompagnarlo con una frase. C'è stato un momento di sosta più lungo su una foto in cui il personaggio allunga la mano, con il palmo rivolto verso A
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l'alto e le punte delle dita riunite sul pollice. «Mamma mia, che vita!», dice Nassir. Ha certamente dei compagni italiani che fanno spesso quel gesto. Per Sai:d è «ho la strizza ... » La maggior parte vi ha messo lo stesso senso e lo dicono con «hai paura, eh! Te la farai nei pantaloni. Mi sento a terra. Ho fifa» Sai:d dice: «ha un nome tutto ciò, delle parole diverse, ma non so più che cosa». Si parla di sinonimi e introduco un po' il concetto di differenti «livelli della lingua» legati al contesto e agli interlocutori. Antonio traduce ciò che ha capito: «con il preside, si dice "ho paura" ad esempio, perché bisogna essere educati!» Ma aggiunge: «non saprà se si ha una gran paura ... ho la strizza, è più forte di me». Arriva più in là di quanto dicano i manuali scolastici sulla lingua familiare, corrente, popolare, castigata, ricercata ... Ci mettono là dentro il contenuto affettivo. Non ne dirò più niente. Chiedo se conoscono delle altre parole ancora, pronunciate o sentite per esprimere la paura. Speravo certo di far venir fuori delle parole come timore, spavento, angoscia ecc. perché anche loro le conoscessero. «Si piscia addosso» è l'espressione che aggiungono alla lista, spiegandomi che si dice così per dire «molta paura». La mia storia di gesti e di parole, io l'avevo pensata per l'inizio di una lezione di francese: linguaggi diversificati ecc. e anche come ripresa indiretta di interpretazioni possibili (riferimento a Erik e al nostro mini-sketch). Mi hanno portato anche oltre: i sinonimi, i differenti livelli della lingua, più presto di quanto avessi pensato. Inoltre soffermandomi su delle espressioni di paura, avrebbero certo colto inconsciamente, nel mucchio, un altro vissuto da loro conosciuto che avrebbe potuto andare ad aggiungersi a quello che avevano esplicitamente nominato: la vergogna. Non ho purtroppo potuto in quel momento sentire Erik in inglese e parlargli. Dopo queste quattro ore, mi chiedo come questi giovani potranno mettersi nella posizione di imparare, avendo «la vergogna e la paura» (tra le altre cose) e mi chiedo anche come noi, gli insegnanti, possiamo prendere in considerazione la loro storia quando ci precipitiamo negli apprendimenti. Questi vissuti sono infatti spesso ignorati, persino respinti, perché «se bisogna cominciare a occuparsi di tutto ciò!» ... Cosa che qui
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vuol dire «trattenerli» o «impartire loro una materia». Ma quali strumenti avranno senso? In poche parole, gran lavoro per le prossime lezioni. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 138, dicembre 1999.
Per delle parole e delle posizioni
Era una classe di r veramente dura. Vi dovevo insegnare francese. Quelle allieve non avevano niente a che fare con lo scritto. Il loro solo interesse: parlare. E soprattutto, lanciare delle parole qua e là. Nessuna delle loro compagne le ascoltava. Si rivolgevano a me. Ciascuna in uno sguardo verso di me, ma senza legami tra loro. Per lo meno non attraverso quella parola, gridata da chi gridava più forte. Molto presto, avevano preso d'assalto i muri dell'aula per collocarvi dei grandi poster di cantanti e, tra gli altri, di rapper. L'oggetto più pregiato era il walkman ... sulle orecchie, sotto i baschetti, sotto i foulard. Mi capitava di vedere all'improvviso dei dondolamenti ritmici sottolineare il lavoro di lettura o un altro lavoro dell'una o dell'altra. Era evidentemente altrove. Nel rap. Ma anche nell'espressione delle loro parole, con alcune si era nel rap. E queste si mettevano di fronte alle altre con l'aria di saperne di più, anche con l'aria da maschi, manifestando un po' di disprezzo per le fanatiche delle Spice Girls, «queste ragazze che non ci capiscono un fico secco». Poiché avevo letto qualche scritto su questa parte di cultura urbana, nata nei quartieri degli esclusi, poiché avevo ascoltato la parola scarna dei suoi esponenti, mi sono detta che l'interesse delle mie allieve per il rap non era un caso. E là si immergevano, anche nello scritto, quando mi portavano le parole di alcuni pezzi di rap o dei commenti sui loro autori ... Il tutto, a colpi di pezzi strappati da una o dall'altra rivista molto commerciale, custoditi nelle tasche come un tesoro. Tener conto, allo stesso tempo di ciò che si chiama «legame sociale» e della mia disciplina mi sembrava urgente, senza ancora saper bene ciò che l'uno e l'altra potevano ricoprire. Come fare per non giocare il ruolo di chi recupera o fa
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il demagogo? Come fare per mantenere anche una rotta d'istruzione? In questa fase, erano le allieve che mi istruivano, portandomi i loro «classici». Mi è venuta allora l'idea d'invitare un vero rapper perché con la sua età, il suo linguaggio e la sua creazione, sarebbe stato un insegnante di quelle parole migliore di me. Starflam, è il nome del gruppo in cui il rapper lavorava. Un anagramma di malfrats (malviventi). Malfrats linguistiques (Malviventi linguistici) era il loro primo nome. Al Conseil avevamo posto le basi di questo incontro: chi lo avrebbe accolto all'entrata, chi avrebbe aperto la porta quando entrava, chi gli avrebbe parlato per prima, chi l'avrebbe fotografato ... Che cosa gli si sarebbe chiesto, venne solo più tardi nell'organizzazione! Quando Thomas è entrato in classe, è sceso un momento di silenzio. Poi hanno incominciato a sommergerlo di domande. All'inizio sul look: «Sei un vero rapper? Eppure tu non hai l'aria da teppista!» È toccato quindi a Thomas mettersi a spiegare cosa voleva fare facendo del rap. Tra le altre cose, lottare contro la violenza. «Ma non è questo ciò che le persone dicono ... Dicono che tutto ciò, i tags, il rap, il break ... sono dei teppisti violenti a farlo». Thomas ha iniziato a parlare un po' della cultura Hip-Hop. Molto presto le allieve gli hanno chiesto di cantare qualche cosa anche senza gli schratches dei piatti. Cosa che ha fatto. Ne è seguita una quantità di domande sulle parole: «Come fai per trovare queste parole, per trovare delle parole che dicano la verità? Come fai per metterle insieme e fame delle canzoni?» Questione di ritmi, di forza delle parole, anche di vissuti. «E tu parli anche di tua madre nelle tue canzoni ... Non è solo sulla polizia allora il rap?» Si arriva a parlare dei pezzi commerciali e degli altri. Thomas usa anche l'espressione «canzone impegnata». Le fans del rap sono al settimo cielo. Il clan Spice Girls cambia campo ... «perché allora queste, sono delle parole più stupide». Dei tilt sono scattati, ma mi sembra che una sorta di legittimazione da parte mia si sia fatta strada. Dopo questo giorno ( «il più bello della mai vita», diceva Dounia), altri possibili si sono come risvegliati. Al Conseil, molto prima della venuta di Thomas, avevano deciso di fare una rivista, ma non volevano in realtà scrivere
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granché. Cercavano ciò che potevano ricopiare da altre parti e, addirittura, mi domandavano di fotocopiare. Il giorno dopo in cui sono arrivata io con un testo per la rivista che parlava delle loro prodezze al netball, e dal giorno con Thomas, si sono messe a organizzarsi per scrivere e a chiedermi ogni sorta di cose: se era veramente la parola giusta per dire questo, come si conoscevano tutte queste parole, come si faceva perché venissero fuori delle vere frasi, come si scriveva quella certa parola e perché. Eppure avevano fatto parecchi anni d'analisi di frasi, di vocabolario, di coniugazione ... E anch'io avevo tentato di fare delle lezioni di questo genere, ma probabilmente non era che della «pedagogia del pugno di ferro» in cui forse si scriveva, ma perché ciò si fa a scuola, nient'altro. Noi avanziamo ora con altri inchiostri. La grammatica e anche le etimologie hanno cominciato a interessarle, ma bisognava che inventassi degli approcci diversi da quelli tradizionali. Bisognava che partissi da parole fondamentali per loro o necessarie per la rivista. Una di loro mi ha persino detto: «lo, bisogna che studi una pagina di dizionario al giorno, altrimenti resterò stupida, mediocre». Allora, abbiamo guardato tutto ciò che si può trovare in un dizionario e riflettuto a proposito di «Come apprendere e memorizzare delle nuove parole?» Mi hanno persino chiesto come avevo fatto io per arrivare a conoscere tante parole. Ed è stato un momento emozionante. Mi sono sorpresa a parlare di un cammino di parole a partire dall'infanzia e, con mia grande sorpresa, c'era una qualità di ascolto che io non avevo mai conosciuto con studenti di quest'età, sottolineata da: «Anch'io vorrei questo ... » - «No, io, io vorrei fare così... Leggere, fare degli elenchi di parole, fare la borghese e usarle». C'è stato anche un dibattito, pieno al tempo stesso di ansia e di speranza. Ne ho conservato questo dialogo: «Ma noi, i disastrati, parliamo così (ed è venuto fuori ogni tipo di ingiurie e di espressioni le une più salaci delle altre), allora se parliamo in un altro modo, ci prendono per delle troie» «Hai visto che non si scrive così nella rivista, dici delle fesserie» - (Silenzio perplesso). - «Ma non faccio solo riviste, io». - «E d'altronde, non arriveremo a ricordare tutte queste altre parole». - « ... Ma sì, ascolta». E Dounia fa tutta una tirata per spiegare un libro che aveva
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letto, capito e le «grandi parole» che ora talvolta usava. Ci fu uno scoppio di risa. Dounia si irritò poi sorrise e ribatté: «È come si vuole». Al termine di due anni di lavoro con queste allieve, decido di fare un piccolo «bilancio dei saperi» che loro preparano prima in silenzio, per iscritto, con il sottofondo di musica classica (apprezzata!). Hanno poi comunicato oralmente il loro scritto. Hanno soprattutto ricordato i seguenti apprendimenti: «lo ora so fare il presidente di un Conseil, fare un ordine del giorno, discutere con gli altri, scrivere una lettera al preside e ai professori per difendersi. Ho imparato a scrivere una rivista che tutti comprendono e trovano ben fatta». Potrei essere delusa: non hanno detto che in matematica, in scienze, in francese, avevano appreso questo, quello ... Forse, perché la domanda era: «Cosa hai imparato d'importante in questi due anni?» e perché sono io a porla. Posso avere il coraggio di dire a me stessa che hanno cominciato a imparare la possibile forza delle parole, compreso lo scritto? Forse qualche cosa di questo strumento, che è servito loro, tra l'altro, a prendere un posto e ad ascoltarsi, anche se ne padroneggiano appena un po' il codice e le sfumature? Ecco che due di loro chiedono di concludere questo momento, l'ultimo tra noi, con «una fine in bellezza». Cantano il seguente brano rap: Era armato dal 4/9/00 E pronto a spezzarsi Me la rido della polizia Me la rido della giustizia Che ti tratta da teppista Finito il tempo degli oppressori Passa la mano agli oppressi Ardente davanti Il conto alla rovescia è scattato Finito il tempo degli oppressori Passa la mano agli oppressi I cattivi ragazzi ti faranno saltare La maggioranza delle nostre forze armate Composte da tarati
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Sono state scelte da chi dirige la società Eh, società, non dimenticare di citare «La banda dei complici». Le due ultime frasi sono state improvvisate sul posto e sottolineano il nome che questi allievi hanno dato alla loro classe e alla loro rivista. Mi sembra che sia stato costruito in questa classe esplosiva un certo legame sociale. Si è marcato attraverso il rap, forma d'espressione scelta da loro, parola vicina a quelle che loro sapevano senza sapere della loro posizione nella società e anche nella scuola. Hanno fatto di tutto per spossessarci dei nostri saperi precostituiti; tentando di mettermi al loro ascolto, penso di aver provato a entrare nel loro insegnamento. È anche una forma di legame sociale. Io lascio il mio posto e prendo quello che le allieve mi danno: divenire con loro l'esperta delle parole per dire se stesse, per difendersi, per leggere, per apprendere. Sono voluta andare dalla loro parte. Andandoci, è là che, a tentoni, ho cercato di dare il gusto di imparare, quello della costruzione degli apprendimenti, che sono stati elaborati attraverso i miei metodi, ideati sul posto in modo artigianale, ma anche attraverso dei desideri che si risvegliavano e dei quali non avrei mai potuto misurare precisamente né il perché, né perché allora, né perché quelli. «Apprendere, è investire del desiderio su un oggetto d'apprendimento» diceva Freud ripreso da M. Develay. Io non credo, per esempio, che queste allieve abbiano scelto la grammatica come oggetto di sapere privilegiato. Ma le parole, sì. Non più urlate, sputate, ridotte come all'inizio dell'anno, ma apprese in modo diverso. È un passo. Dicendomi «rap», loro mi dicevano anchecosì mi sembrava - un'altra cosa, del tipo «ci stia accanto per capirci" e poi, "ci aiuti a diventare padrone delle parole». Le mie allieve, delle maestre di parole! Tutto un programma! Ho fatto sì che socializzassero o le ho istruite? Io non ho una risposta definitiva. Custodisco solo come viatico delle parole di Bernard Charlot, pronunciate in occasione della sua conferenza
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nel maggio scorso, su invito del Cgé: «Spesso quando ci si dice che bisogna innanzi tutto farli socializzare, bisogna intendere civilizzare ... Si ricevono dei barbari che vengono d'altri paesi (e aggiungo da altre storie, altre classi sociali) e che non sono pronti a ricevere i nostri insegnamenti. Si comincia allora col fare altre cose ... Ciò si chiama il prescolare. In questo caso, si rischia di non cominciare mai con gli apprendimenti, si rischia di restare nelle strutture marginali». È tra l'altro per questo che io diminuisco i miei scrupoli, quando introduco all'interno delle lezioni delle parti di saperi venuti da altrove, diversi dai grandi soggetti classici riconosciuti nella mia disciplina e per me. È tutta un'altra cosa che far dire delle regole di grammatica su un ritmo di rap per farle imparare. Se io dovessi fare un rapido bilancio di ciò che ai miei occhi le allieve de «La Banda dei complici» hanno appreso, nel senso in cui ne parla anche B. Charlot ( «Apprendere, è mettere in movimento un'attività intellettuale»), mi sembra di poter affermare che hanno appreso: - a differire le loro domande attraverso l'esistenza di un Conseil fatto apposta, a tempo e luogo fissati: se vogliono che qualche cosa della loro richiesta si concretizzi, bisogna che continuino a pensarci, cosa che non è usuale nel sì fugace di queste giovani; - a organizzare la loro mente con dei riferimenti e delle classifi. . . caz10m, per esemp10; - a collegare delle parole attraverso cui possano esprimere le pieghe del loro pensiero e dunque a cominciare una concettualizzazione attorno, per esempio, al senso di «per, in realtà, di conseguenza, ma, o» ... fino al momento in cui acquisiranno le parole che nominano questi tipi di legami del pensiero; - ad appropriarsi dei codici linguistici che permetteranno alle loro parole di diventare udibili, leggibili e dunque a interessarsi al loro funzionamento; - a rendersi conto del potere che si può acquisire con le parole; - a percepire diversi usi della lingua e i loro legami con le posizioni sociali; - ad andare dal particolare al più generale cercando la parola che sarà adatta per raccogliere x situazioni raccontate; - a negoziare, cosa che richiede un grande lavoro del pensiero e
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dell'uso della lingua, al fine di vedere chiaro in ciò che si vuole, d'entrare in ciò che l'altro vuole e di cercare il modo di legare i due aspetti. Vorrei permettermi, per concludere, di far mie altre parole ancora di B. Charlot: «È una sciocchezza dire io istruisco, io insegno, io non sono là per socializzare, educare perché o questa istruzione è portatrice di senso per i giovani e, se essa apporta del senso, per forza lo cambia (lo educa e lo socializza), oppure questa istruzione non è portatrice di senso e se l'istruzione non è portatrice di senso, non è nemmeno un'istruzione». In ogni modo, sullo sfondo delle analisi epistemologiche, pedagogiche, sociologiche, psicologiche, culturali, economiche, politiche, per me, istruire i giovani e gli adulti degli ambienti cosiddetti popolari, significa essere più vicina possibile alle loro preoccupazioni, manifestazioni e lotte, più aperta possibile ai loro saperi dominanti, clandestini e misconosciuti, per elevarli con loro al rango di conoscenza, di dignità e di riconoscimento. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 139, gennaio 2000.
Dieci ministri e un tirocinio
«Faccia attenzione a ciò che dirà perché io sono il ministro della Giustizia», dice Nawal senza ridere a un professore sconcertato. No, no, lei non provocava. Informava solamente. «Noi, siamo una classe di debili»: diceva questa prima cosa per parlare di loro. Le aggressioni verbali e il disordine permanente dell'aula e del materiale personale era cosa abituale. Si trovava del tutto normale giocare a palla in classe, tirare fuori gli attrezzi del trucco o delle merendine. J' faisc' quej' veux (Faccio-quello-che-voglio), era la loro parola d'ordine. All'inizio di certe lezioni alcune si tappavano ostentatamente le orecchie. L'atmosfera! Far circolare la parola, il desiderio d'apprendere ... fare emergere la legge! Al Conseil, alcune s'interessavano, altre trovavano ciò fantastico perché «non si lavora», e continuavano allegramente le loro conversazioni private, lanciavano nel bel mezzo delle domande strambe e rifiutavano le leggi minimali ... «Sono solo delle storie da leccapiedi» Fino al giorno in cui a una di queste apparenti turiste è venuta voglia di sistemare l'aula «perché non sia più una classe di handics». Traduzione di «classe degli handicaps» in risposta alla mia domanda: «Bene, è la nostra classe, con una finestra che non si apre, un quadro che sta per cadere sui nostri piedi, un armadio che non si chiude a chiave, dell'acqua che cola su un muro con i nostri cartelloni quando piove forte». Era vero. lo ho gridato tutta la mia collera contenuta, rinforzata dalla loro, dicendo che era in-am-mis-si-bile e, durante il seguito del Conseil, ci si era messi a vedere quando, chi, come sarebbe andato a cercare il preside per mostrargli tutto ciò. È venuto al Conseil successivo. Ha annotato tutto. In una settimana, ogni cosa fu rimessa perfettamente a posto e io sentivo un ritornello «Se non fossimo state là, non sarebbe accaduto nulla qui». Ma nelle loro faccende c'era sempre un gran casino.
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Mi è venuta la voglia di portare una pianta per inaugurare il fatto che non era più una classe d'handics. Loro l'hanno curata con amore e con tanta acqua che ne è morta, la poverina. La piccola Nadia mi ha preso da parte, credendo di dovermi consolare, per dirmi: «Non sprechi più i suoi soldi, ne compreremo un'altra». Al Conseil, Nadia propone di fare una cassa di classe per «comprare delle cose per noi e fare delle feste». Un fiume di proposte di ogni tipo di festa, e di ogni sorta di oggetti da mettere in questa classe fluisce nelle lezioni dei giorni successivi. Ok. Immaginavo il discorso. Diventerà piuttosto una casa di giovani che una classe! Cosa dico al prossimo Conseil? Avrei potuto fare dei discorsi sul ruolo della scuola, la necessaria riuscita, la prossima pagella. Avrei potuto affinare tutto un sistema di punizioni perché finalmente, si potesse fare francese senza più divagare. In un certo periodo, ho fatto tutto ciò. Alcuni rimproveri e ritorni all'ordine allora si verificavano, ma brevi, e bisognava sempre ricominciare da capo. Ho dunque continuato così a fare bene o male francese, con qualche richiamo ali' ordine per assicurare un minimo vitale di lavoro, ma non avevo ancora trovato un reale approccio. In un Conseil di novembre, domando di mettere ali' ordine del giorno il punto «francese». La mia domanda fu gentilmente rifiutata perché c'era qualcosa di più urgente: guadagnare denaro per la cassa di classe. «Faremo dei pop-com e li venderemo durante l'intervallo», propone Noura (una di quelle che si tappano le orecchie quando un prof le parla). Ingenuamente, io mi dicevo che si sarebbe discusso là per organizzare tutto ciò. Ma ecco che Noura prende vicino a sé un grande sacco e ne tira fuori un macchina per fare il pop-com, olio, zucchero, sale, buste di plastica. Non credo ai miei occhi. La mia prima reazione avrebbe potuto essere (mi sono morsa la lingua!) che non si metteva così la gente di fronte al fatto compiuto, che bisognava prendersi il tempo, ripartire le responsabilità ... Avrei potuto rimandare. Ma davanti a una tale determinazione, al fatto che avevano pensato di portare tutto ciò da casa, sull'autobus, ecc., ho detto: «D'accordo, bisogna che entro due ore sia tutto fatto e che sia tutto pronto per l'intervallo di questa mattina». Metà-felici, metà-inquiete per-
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ché questa velocità, comunque, non se l'aspettavano (un flash m'era passato per la testa, l'allieva che un giorno m'aveva detto: «Manca del ritmo nelle scuole!»), hanno preso tutta l'organizzazione in mano. Le une facevano dei cartelloni che dovevano essere collocati prima dell'intervallo, le altre calcolavano i prezzi, altre preparavano i pop-com, altre li mettevano nelle buste di plastica, due avevano lasciato la classe. Ahi. Avuta l'informazione da altre, erano andate in quarta (la classe che tiene il negozio della scuola, per chiedere di non aprire oggi). C'era l'odore dell'olio, dello zucchero e del fumo in buona parte della scuola. È allora che ci si chiede cosa sarebbe successo se fosse arrivato un ispettore! Ma, quanto alle allieve, questo non le avrebbe assolutamente smosse. «Quell'allocca della De Smet si è fatta incastrare ancora una volta ... a ascoltare sempre le allieve ... ». Me l'avrebbero detto, è sicuro. E il francese in tutto ciò? It was the questioni In ogni caso, a me, non piace ingozzarle di francese (anche molto attivo) come delle oche, di malavoglia. Pop-corniamo, dopo si vedrà. All'intervallo, tutto era pronto e dunque io sono andata con loro nel cortile. Come erano fiere dietro il loro tavolo, come le altre allieve trovavano bella questa idea! «E come avete fatto? E perché? E allora?». La più grande eccitazione brillava nei gesti e negli occhi della «classe di de bili». Dopo questo intervallo avevo ancora lezione con loro e mi domandavo che cosa sarebbe accaduto in classe. Si valuta, si contano i soldi, si sottolinea che gli utili non sono veramente enormi, ma che è stata una cosa allegra e che si ricomincerebbe perché «Lei ha detto che il Conseil è fatto per decidere ... Noi, l'abbiamo fatto». Io domando loro: «E per il francese, che cosa scriviamo nel registro di classe?» Ecco che senza troppo esitare, le leader, con il contributo delle altre, mi dicono: «Lettura, perché ho letto la ricetta a casa e io l'ho imparata a memoria. No, parlare, perché abbiamo anche parlato bene alle allieve di quarta affinché chiudessero il loro negozio. No, scrivere, perché abbiamo scritto cartelloni e abbiamo fatto a lei delle domande sull'ortografia». Mi dicevano tutto ciò seriamente, ma anche col sorriso per la bella trovata.
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Non si trattava né di socializzazione né di apprendimento di concetti, ma solo di una sensibilizzazione che affiorava nell'una e nell'altra. Questa era la mia speranza. O la mia giustificazione. L'indomani, per la prima volta in vita mia, non preparo nulla di preciso per la lezione. Ho in testa solamente le prime battute di una lezione di francese, dei metodi molto elaborati e il mio desiderio di far nascere in loro il gusto. Comincia con forza sulle scale: «Spostati, tu non hai ordini da darmi, tu non sei il capo qua». Tracce di litigio per non so quale motivo. Lascio cadere. Si mettono al posto. Tilt. Avvio un lavoro per il quale avevo preparato tutto un lungo procedimento con una collega. Si trattava di un atto di comunicazione 1: «Dire a qualcuno di fare qualche cosa» 2• Chiamo un'allieva, le passo alcune indicazioni all'orecchio e in due facciamo due brevi sketches «per domandare qualcosa a qualcuno», l'uno sul tono e le parole di «vattene via», l'altro nel genere «signorina, per piacere, avrebbe la cortesia di». Ilarità generale. Con molte risate, le allieve hanno cominciato a fare i loro commenti su «i modi di dire» e hanno chiesto di poter fare altri sketches per i quali ho dato loro un cartoncino, precisando i ruoli, un luogo e un soggetto. Mentre loro eseguivano sotto l'occhio attento delle altre, io annotavo tutte le loro frasi. L'indomani sono ritornata con il tutto battuto a macchina. «Ah, abbiamo detto tutto questo?» - «Sì, e queste si chiamano frasi esortative» - «Allora io ho detto delle frasi esortative?» mi dice Leyla sbalordita - «Ah, bene, non sapevamo di saperlo». Ho aperto loro una piccola parentesi su Molière, «il Borghese gentiluomo», la prosa senza conoscerla. Hanno chiesto di portarlo. Allora è cominciata l'analisi delle frasi prodotte. L'analisi che è sfociata in una ricca tabella (i modi, i tempi, i pronomi, le 1 Scelta per il francese come seconda lingua, ma valido anche per il francese come lingua madre di lavorare la lingua a partire da atti di comunicazione piuttosto che a partire da regole grammaticali, ortografiche, sintattiche, lessicali e altre. 2 È uno dei capitoli del libro Grammaire utile du français di E. Bérard e C. Lavenne (Didier Hatier, 1991 ), dove ci sono molti interventi miei e della mia collega. Di buon livello dunque!
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interiezioni, i verbi, i nomi utilizzati). In seguito vengono i contesti, in cui si dice piuttosto questo, piuttosto quello e noi ci siamo immerse nella lettura di ricette, di corsi di ginnastica, di pubblicità, di scherzi contenenti frasi esortative. Le allieve guardavano attentamente se i testi avevano fatto come loro o se c'erano questa volta altri modi di scrivere. Il lavoro è proseguito e in occasione delle produzioni scritte richieste, è emerso il bisogno di rivedere l'ortografia del congiuntivo e dell'imperativo presente. Questi due modi sono stati dunque studiati. Al Conseil successivo, l'intraprendente Nadia, pagliaccio amato dalla classe, mi dice che io non devo dimenticare di mettere «francese» all'ordine del giorno del Conseil e tira fuori un grosso evidenziatore comprato con i soldi della cassa di classe. Rimango estasiata. Lei mostra allora a tutte una scatola di materiale comune con inventario: «Preghiera di rimettere dentro quando si prende» e aggiunge «è una frase esortativa, signora, con un nome all'inizio». Davanti al mio stupore muto, aggiunge: «Vede che sono forte, eh!» Da notare che questo materiale è rimasto intatto, per due anni, in questa classe. Nadia è stata nominata «responsabile del materiale comune» e ha deciso di fare un regolamento rispetto a quando si può prendere, a ciò che bisogna chiederle, ecc. Siamo passati dall'eccitazione all'incitamento. Col passare dei giorni, si creano delle responsabilità via via più elaborate, anche delle regole tra l'altro per sostenere il lavoro delle responsabili. In gennaio due interventi vivaci al Conseil. Uno è per proporre che si trovi un altro nome per «responsabile e responsabilità» perché «i professori dicono sempre: tu devi prendere le tue responsabilità e non è la stessa cosa altrimenti crederanno che sia giusto spazzare e pulire la lavagna». lo propongo «i mestieri» ma Latifa, di solito riservata, propone «no, i ministeri! Noi siamo i ministri». L'altro intervento viene da parte di Nawal per dire che «ne ho fin sopra i capelli, ci sono troppe leggi qui. .. »: è una reazione all'intervento della presidente rispetto ai suoi tentativi di parola selvaggia: «Tu non hai la parola, è la legge del Conseil domandarla». Si lascia un po' cadere. Nawal brontola e Leila trova che bisogna ridare i nomi di ogni responsabilità e che tutte devono dire quale lavoro bisogna fare in ogni ministero. Abbiamo dun-
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que un ministro delle Relazioni pubbliche, un ministro delle Finanze, un ministro del Progresso, un ministro della Lingua francese, un ministro della Cultura, un ministro degli Interni, un ministro degli Archivi e della Storia e un ministro della Giustizia. A me hanno detto che dovevo essere solo il Primo Ministro, ma di non darmi tante arie per questo! Il Conseil è chiuso. Durante la lezione di francese propongo di lavorare due a due sui compiti di due ministri, utilizzando una forma a scelta di frasi esortative. Ogni gruppo deve scegliere delle forme diverse. Sanno dove andare a trovare l'elenco nel loro raccoglitore. Per me si trattava di prendere due piccioni con una fava e tra le altre cose di verificare ciò che esse riutilizzavano dei loro apprendimenti. Loro soppesano, scelgono: «lo farò tac tac, degli ordini all'imperativo». - «Noi, useremo il bisogna che». - «Noi diremo: "Desideriamo che lei ... ", è più gentile». Do dei lucidi perché ci scrivano il frutto del loro lavoro. Nella lezione seguente guardiamo il lavoro di ogni gruppo alla lavagna luminosa. Ognuna può ancora dare un parere sullo sfondo, fare delle aggiunte, sfumare. Hanno utilizzato bene ciò che hanno imparato. I lucidi sono corretti e fotocopiati. Ogni ministro utilizza questo documento per il suo compito e gli serve di riferimento quando, al Conseil, si valutano i ministeri. Nawal, che brontolava per le troppe leggi, si è proposta come ministro della Giustizia. Doveva fare un inventario di tutte le leggi della scuola e della classe, annotare chi le aveva fatte, perché e cosa accadeva se uno le trasgrediva. È nel1' impeto della sua nuova funzione, del resto, che ha tenuto ad avvertire di ciò il primo professore che seguiva il Conseil. È necessario spiegare come si è costruito qui il legame tra socializzazione e apprendimento? Preferisco non dirne più niente, ma restare nelle risate di questa classe riprendendo la frase di B. Charlot: «Essere insegnante, è dover prendere delle decisioni durante tutta la giornata senza aver potuto riflettere abbastanza prima e subire le conseguenze dopo». Edito in «Échcc à l'échcc», n. 140, marzo 2000.
Storie vissute in riunioni di genitori
Esistono delle «riunioni di genitori» che non sono né annunciate né scritte nel registro di classe e tuttavia ... «Mio figlio, che è alla scuola materna, non sa ancora allacciarsi i lacci. La maestra ha detto che occorrevano delle scarpe senza lacci, ma io ho appena comprato queste. Deve prima usarle». - "Allora, gli insegni ad allacciare i lacci. Sono i genitori che devono educare; noi, siamo qui per istruire" lei mi ha detto». «Pensa forse che non siamo delle buone madri, se non abbiamo ancora insegnato al bambino ad allacciarsi i lacci. Ma io, non capisco. Se lei dice che sono i genitori a dover educare, perché si immischiano nella mia famiglia quando vengo a scuola? Mi fa delle domande sul sonno del bambino, sulle ore di lV, su ciò che gli do da mangiare ... E mi dà i suoi consigli. È la scuola che deve dirmi tutto ciò? Ma che cosa posso fare ancora, io, allora? E dopo, diranno che i genitori non si occupano bene dei loro bambini. lo mi domando che cosa vogliono da noi alla fine. Non va bene in famiglia? Dobbiamo far tutto come loro?». Tre mamme parlano di Rachid, sette anni, che sua mamma ha già sgridato cinque volte. È là con degli altri bambini, appena uscito da scuola, con la sua cartella. Tira dei calci sulle borse della biancheria ancora piene o già vuote, le rovescia nell'acqua che cola attorno a una macchina che perde, ci salta dentro, mette la testa in una asciugatrice ferma, picchia sopra, salta ancora nel1' acqua che è colata ovunque e spruzza tutti. «È alla scuola speciale», dice sua madre, come per scusarsi. «Rachid non va, è alla scuola speciale». Le tre mamme lo guardano fare. Lui, il viso fermo, con una smorfia, la testa incassata nella giacca a vento.
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Una delle madri si rivolge a me: «È buona, la scuola speciale?» Le altre due madri si avvicinano. «Non è buona, non imparano nulla, dice la madre di Rachid. Perché è alla scuola speciale?» Rachid si è finalmente seduto. Ma in un angolo, una guancia appoggiata alla sua cartella e guarda le madri con la coda dell'occhio. Poi si mette ad aprire lentamente la sua cartella, osservando un po' sua madre. Tira fuori un raccoglitore e lo mette sulle ginocchia. Seduta sulla panca tra le mamme e Rachid, mi rivolgo a lui: «È questo il tuo lavoro?» Senza una parola, fa di sì con la testa abbassata. «Tu hai lavorato molto, allora?» Alza un po' la testa e apre il raccoglitore. Chino, mi spiega ogni pagina. Le mamme conversano nella loro lingua e sembrano non occuparsi più di Rachid. Lui continua a lungo a spiegarmi chiaramente quello che ha fatto e per imparare che cosa. «Lo hai mostrato a tua mamma?» No. Ci voltiamo dall'altra parte con il raccoglitore e continuiamo a sfogliare. Una delle donne dice alla madre di Rachid: «Guarda, tuo figlio sa scrivere». La madre lo guarda: «Sai scrivere, tu?» Lui si alza con un balzo e comincia a tracciare delle parole sul vapore condensato della vetrina tra cui la parola Ima (mamma). Mi rendo conto che la madre non sa leggere. Leggiamo le parole ad alta voce. Tutto a un tratto, Rachid è radioso. Sua madre sorride ... anche se con l'aria di non crederci troppo. Poi se ne parla fra le tre mamme: «Perché è alla scuola speciale?» - «Tu, vai a scuola?» - «No, mi vergogno. Che cosa mi diranno? Sempre dei problemi. Rachid difficile, tutto questo». - «Guardi nel raccoglitore?» - «Posso?». E ognuna parla anche del suo bambino, della scuola, di «maestre testarde come degli asini, perché non ti ascoltano mai, eh!» La mia biancheria era asciutta. Stavo per andarmene. La madre si rivolge a me: «È buona la scuola speciale? A chi posso domandare che non ci vada?». Il papà di Miloud, 8 anni, ha l'aria preoccupata. Alla mia domanda: «E Miloud, va bene?», brontola: «Miloud non lavora bene a scuola e in più ha dato fuoco a dei cassonetti dell'immondizia, proprio davanti alla drogheria ... Allora la polizia, sempre
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la polizia. Eppure, sono stato a scuola. La signora mi dice che è il migliore nel nuoto e nella corsa». Mi ha anche detto: «Vada a vederlo correre. È per una gara tra tutte le scuole del comune. Miloud sicuramente vincerà». Il papà scherza: «Ma via, che cosa mi dice, questa donna? Non è con questo che imparerà, eh! Eppure gli do tutto ciò di cui ha bisogno. Mi chiede delle Nike. Sono care. C'è bisogno veramente di scarpe così costose? lo, alla sua età, non avevo scarpe per niente e lavoravo già nei mercati. È facile oggi per i bambini, ma perché non lavorano a scuola? Sempre a giocare o a fare lo sport o delle stupidaggini. lo, quando porta una brutta pagella, lo picchio, così capirà. A scuola dicono: «Non picchi, signore. Qui non si fa questo». Allora lui, Miloud, fa il superbo. Io, non so. Parlo con i miei amici, al caffè. Non sanno nemmeno loro. A scuola, sanno, ma come fanno per insegnare a Miloud? Io, non lo so. Vedo che a volte scrive delle parole a casa. Finito, finito alla svelta. Quando gli dico: «Lavora ancora» mi risponde: «È vero che le insegnanti non fanno che raccontare storie di piccoli conigli? ... E l'armistizio, non me ne frega niente, vado dai compagni». «Sempre i compagni, nella strada. Non va bene, qui. Ma dove deve andare? È vero che le maestre parlano di piccoli conigli? Ma perché?» «Guarda il foglio. Dicono: "Classi verdi, tre giorni e pagamento la prossima settimana". Ma io, ho paura. In terza materna, sono ancora troppo piccoli per dormire lontano. La mia, non sarebbe capace. Perché non l'hanno detto prima. Perché non spiegano tutto. Vedi, c'è una foto e una cartina, ma io non so dov'è. È lontano? Penso che la terrò a casa. La madre di Nadia, dice come me. Vada a scuola "per domandare" cosa mi dice mia figlia. No, tu sai, loro non hanno tempo, le signore, quando si va così, con la piccola. E io ho paura, se mi dicono: "Lei può pagare in tre volte". Pensano sempre che è il denaro. La madre di Nadia dice: "Vai a parlare con la donna come noi". Non so che cosa farò. Ne parlo a mio marito. lo la tengo a casa. È meglio». È lei quella che le mamme chiamano «la signora come noi e dei bambini «l'amica della mamma». Lei è del quartiere quasi da sempre. È Mariem. Da poco lavora nella scuola del quartiere
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come mediatrice nell'«avvicinamento alle famiglie». Si domanda spesso cosa fare delle proposte delle maestre e delle mamme. Per le classi verdi in questione una maestra ha brontolato perché molti genitori non hanno ancora detto sì né pagato: «Questo mi rivolta, ha detto la maestra, facciamo ciò per il bene del bambino ... È questo che devono vedere i genitori, ma loro no, preferiscono tenere il bambino in questo quartiere, a non far nulla. Pensano al bene del loro figlio? Siccome non ci sono molti iscritti, cambieremo: lasceremo la scelta tra un giorno per tutti e tre giorni per quelli che potranno ... Ma so che loro sceglieranno la cosa più facile, un giorno». Mariem si domandava perché, quando si parla dei genitori, soprattutto di quelli che sono i più difficili da coinvolgere, la scuola dice sempre «loro», come se fossero un gregge ... Per le altre cose, le mamme vengono a parlare a Mariem del riscaldamento in una classe di bambini piccoli, di un tappeto troppo sottile ... «Hanno freddo, tornano con dei raffreddori». O delle chiusure che mancano sui water. Della vasca di sabbia che è anche sporca. «Non si cambia mai questa sabbia, si prenderà delle malattie; l'ho detto al mio bambino di non giocare là dentro». E la mediatrice spiega: «Le mamme fanno attenzione a tutti questi dettagli, questo conta per loro e questo vedono. Io, credo che se si vogliono fare delle grandi cose pedagogiche, bisogna prima curare i dettagli. È attraverso ciò che i genitori sono coinvolti. Ma io non so a chi posso far capire ciò». Mariem ha captato altre cose. Dei bambini litigano nel cortile e una maestra ha gridato forte: «Siete come dei cani». Una mamma ha sentito e gliene ha parlato. «Perché dicono questo ai nostri bambini?» Mariem le ha risposto: «Lei ha il diritto di dire che ciò non le piace». Una maestra ha sentito queste parole e ha dato in seguito un consiglio a Mariem: «Tu, non avresti dovuto dir questo». «Ma allora - si domanda Mariem - come si farà questo avvicinamento? lo, provo. Per esempio, ho ascoltato una mamma che aveva dei problemi assai grossi e anche suo figlio. Si è cominciato tutto un lavoro, si è anche riflettuto alla riunione di Coordinamento. La mamma cominciava ad andare meglio. Ma ecco che un giorno, incontra la maestra di suo figlio nel cortile. La madre ci andava con fiducia, ma la maestra è subito andata in collera»: «Io non riesco a fare nulla con Ali». Non smette mai di muover-
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si. Questo deve cambiare. Io mi domando come suo figlio sia stato promosso l'anno scorso, non è neppure capace di studiare». «La mamma mi ha detto che non sapeva dove mettersi. Gli altri bambini, genitori e maestri, che erano nel cortile, hanno sentito queste parole. La mamma si è sentita umiliata. Io capisco le maestre - continua Mariem - è difficile con molti bambini, ma, lo stesso, se potessero parlare in modo diverso ai genitori ... Mi domando se non possa esistere un momento in cui gli insegnanti si pongano la questione del perché. Perché i genitori fanno o dicono questo o quello. Non s'interrogano spesso sulle ragioni dei genitori. Giudicano ed è tutto». Tutti questi momenti mi tornano in mente. «Loro» non vengono alle riunioni di genitori, ma fanno delle piccole riunioni. È possibile, augurabile, che gli insegnanti passeggino talvolta tra i negozi, sulle piazze, nelle strade del quartiere della scuola ... solo per stare un po' nei luoghi familiari ai genitori, per capire un po', per trarne dei saperi che possano servire a porsi in modo diverso? «Loro» vogliono avvicinarsi alle famiglie perché sono favorevoli alla presenza di una mediatrice e alcuni trovano anche che questo cambia qualche cosa nella scuola. Ma perché, in realtà, avvicinarsi alle famiglie? Per che cosa? Per chi? È diventata la mia domanda. Certo, le risposte di ciascuno possono differire o convergere. Lascerei che i miei timori siano espressi con le parole di qualcun altro: Ho parecchie domande da fare sul discorso che si riasswne nel dire che bisogna agire con le famiglie. Bisognerebbe vedere se non sia piuttosto «su» o «al posto di». È ciò che si osserva anche riguardo all'accompagnamento scolastico. Queste azioni in direzione delle famiglie, con, su ... dipendono dalla «democratizzazione dell'accesso al sapere», sono delle condizioni che non è possibile aggirare per fare in modo che i bambini accedano al sapere o che riescano meglio nei loro percorsi scolastici? Io ne dubito un po' e non concordo con alcuni studiosi i quali ritengono che, se si migliorassero le relazioni scuola-famiglia, si risolverebbe il problema del fallimento scolastico. Credo che sia un'illusione e ci si possa chiedere se questa volontà di agire con le famiglie
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non dipenda da qualcos'altro, che non è necessariamente criticabile, che è forse qualche cosa di simile al mantenimento di un legame che non è sociale, ma di cui ci si potrebbe domandare se non dipenda da una gestione delle «classi pericolose» del nostro fine secolo? La questione è posta ed è importante sottolineare che oggi si parla molto di questa relazione, si parla anche di educazione alla genitorialità. Ciò non avviene senza che si pongano degli interrogativi al ricercatore, anche al cittadino, sul senso di queste azioni e io non credo che oggi vi si possa vedere solo il nodo della riduzione delle disuguaglianze scolastiche» (Daniel Thin 1). Edito in «Échcc à l'échcc», n. 147, marzo 2001.
1 Daniel Thin è professore incaricato di sociologia all'Università di Lione 2 e autore di Quarliers popu/aires: I'éco/e et /es famil/es, PUL, 1998. Il brano è tratto da un articolo apparso su «Dialogue», n° 96-97, nel dossier Pratiques de savoir en banlieues.
Dalle scale ai ministeri
Quel giorno, sulle scale, salendo per andare in classe, volavano basse delle ingiurie d'ogni genere: «Chiudi il becco» - «Non rompere le scatole» - «Scansati, cicciona» - «Togliti di mezzo» - «Scansa il tuo lardo ... » Noi saliamo per una lezione di francese. Avevo previsto un lavoro sulle letture, ma mi sembrava di percepire che la concentrazione non ci sarebbe stata. Come allo judo, preferisco accompagnare i colpi piuttosto che scontrarmi di fronte ... Che cosa potrei farci con le amabili ingiunzioni lanciate da tutte le parti di questa «fila» che si snoda su tre piani. Un lampo mi attraversa la mente: delle sequenze su delle «frasi esortative» elaborate a lungo con una coilega. Al momento di entrare in classe, prego le due allieve più prolisse deile scale di restare fuori, per un gioco. Alle altre in classe, grido sul tono dell'araldo-col-tamburo: «Fate passare la giustizia di Dioooo!!!», frase che io prendevo da non so più quale film e che m'era venuta a proposito di tutte queIIe domande lanciate là di «lasciar passare» neila fila, per essere davanti aII'altra. Silenzio sconcertato. «È uno scherzo il suo gioco? Lei le punirà?» No, faremo francese. Propongo che si chieda alle due allieve rimaste fuori di «recitare», suila base di storie diverse, cinque modi diversi di dire «Fate passare», che scrivo alla lavagna. Lo spettacolo di piccole improvvisazioni comincia. È molto esilarante. Le proposte vanno da «vuol farmi passare, per favore» a «muoviti, troia», passando per «dare la precedenza» letto su una rotonda, «la consiglio di lasciarci passare», «attenzione, lasciateci passare», «scusate». Le commedianti avevano rapidamente dato vita ai personaggi: prof/allieva, due giovani, poliziotto/autista, operai addetti ai traslochi/passanti. Alla richiesta di sapere che cosa in
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realtà tutte queste persone volevano far capire con queste parole, arrivarono delle risposte: «Vogliono dare degli ordini, esprimono una legge, un consiglio, dicono tutte che bisogna fare qualcosa». Scrivo alla lavagna: «Dire a qualcuno di fare qualcosa». La richiesta pressante di «fare ancora del teatro» mi spinge a continuare basandomi sulla memoria del lavoro fatto con la collega 1• Interpretare a due a due le scene seguenti, per esempio:
Il taglio dei capelli - Ne hai abbastanza di avere i capelli lunghi, esiti ma ti piacerebbe tagliarli molto corti. - Preferisci i capelli lunghi, consigli al tuo amico(a) di tenerli come sono. La brutta pagella - Hai appena consegnato a tua madre o a tuo padre la pagella. Non è una buona pagella. - Sei uno dei genitori, fai delle raccomandazioni a tuo figlio affinché la prossima pagella sia migliore. In totale ci sono quindici piccole scene di cui cinque immaginate dalle allieve. Nel corso di queste improvvisazioni, ho annotato tutto ciò che le allieve dicevano, riprendendo tutte le strutture spontanee, senza selezione. Le ho dattilografate e gliele ho restituite nella lezione successiva, con l'indicazione di immaginare una classificazione di queste frasi tenendo conto della loro struttura. Bisogna tagliarli. Devi solo fare una mèche Resta a casa e vai in camera tua. Devi solo cambiare il tuo look. Aspetta! Tu prova fino al punto che lui dica sì. 1 Thérèse Diez, autrice di articoli in «Échec à l'échcc», e insegnante di francese in una scuola professionale.
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Cambia, prendi qualcos'altro. Lasciami vedere. Su, dacci dentro! Devi solo chiedere il parere di tuo marito. Bisogna lasciarli lunghi. Prenda la prima a sinistra, poi la seconda a destra. Bisogna che tu ti faccia una mèche. Devi studiare in camera tua e non puoi uscire. Fare questo genere di lavoro non è ovvio soprattutto negli ambienti in cui assumere la lingua come oggetto di studio non è veramente scontato. Ma in questo caso, le allieve, divertite dalla lettura di quello che avevano detto, ne hanno fatto come un gioco. Allorché vennero fatti i raggruppamenti, la questione difficile e interessante fu quella di «dare dei titoli alle colonne», titoli che fossero criteri di classificazione2• Alcuni esempi di trovate: delle frasi con il «bisogna», con «tu» e «lei», degli ordini. Allorché domandai quale differenza e rassomiglianza le allieve vedevano tra «andrai in camera tua» e «dacci dentro», qualcuno trovò che erano due ordini ma che in un caso, era «un verbo senza tu né niente ma non all'infinito». Le allieve conoscevano solo poco la nomenclatura dei modi di coniugazione e non usavano l'imperativo. Sarà solo più tardi, quando emergeranno forse domande e desideri di sapere (è la mia speranza) che ci fermeremo a nominare le parole e le strutture in termini grammaticali. In questo momento, per le allieve si vive solamente una scoperta stupefacente: si può dire una stessa cosa in modi diversi ... «Ciò dipende da chi parla a chi». In realtà, si è anche nei registri linguistici senza ancora dirlo. Dalla lingua orale, la più utilizzata dalle allieve, passiamo alla lingua scritta. Porto testi brevi d'ogni genere. Devono innanzi tutto separare quelli che «chiedono di fare qualcosa» da quelli che non lo fanno. Tra le descrizioni, gli inizi di racconti, le spie2 Un altro giorno, a lato, avevamo fatto un lavoro a proposito delle scarpe (Nikc ccc.) in base a una pagina di « T cst-achats», per cogliere meglio la nozione di criteri, un'idea trovata nel libro A l'école de l'interculturel, N. Rasson e N. Dc Smct, Evo, Bruxelles, 1993
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gazioni trovano la modalità d'uso di un complesso hi-fi, una ricetta di cucina, una pubblicità, indicazioni per un corso di ginnastica, ecc. In seguito, nei testi e frasi esortative, si tratta di reperire delle strutture simili a quelle che loro hanno utilizzato o diverse dalla lingua orale. Trovano per esempio: «Vorrei che tu venissi da me», o «prenderà una padella che non attacchi», diverse da «Vieni da me» o «prendi una padella che non attacchi». «Ma allora, quanti modi ci sono di chiedere di fare qualcosa?» - «Bisogna ricordare a memoria tutti questi modi?" - "Ce ne freghiamo ... uno, è abbastanza per farsi capire». Inizia una piccola discussione imprevista a proposito del «conoscere una lingua» e «c'è bisogno di tutto ciò?» Mi dicevo che, facendo delle normali lezioni sull'imperativo, il congiuntivo, ecc., questo genere di discussione non emerge. Non potevo limitarmi a tutte queste produzioni e osservazioni. Proporre semplicemente la costruzione di un cartellone che riprendesse le diverse modalità sintattiche e riportasse anche la terminologia degli strumenti usati sarebbe stato poco o male accolto. In seguito alla discussione precedente, avviamo una svolta importante che, negli ambienti popolari più che altrove, può costituire veramente una rottura: l'osservazione di una lingua, l'elaborazione della sua grammatica con la sua terminologia propria, le prese di distanza, le generalizzazioni, soprattutto se ci si dice che si conosce questa lingua perché la si parla ... Fu come un gioco in risposta alla curiosità espressa nella domanda: «Ma quanti modi ci sono?» Una sfida: andiamo a vedere «quanti» ... Faremo l'elenco dei «come» ... Dei «perché», già un po' affrontati, se ne parlerà ancora in seguito. Noi abbiamo allora elencato tutte le diverse strutture di cui disponiamo. Da notare la difficoltà spesso presente in questo tipo di lezione: confusione tra contenuto e struttura. Delle allieve pensano che bisogna badare a «ciò che parla della stessa cosa». Ma a questo punto noi eravamo già un po' rodate. Ed ecco, si entrava senza troppe difficoltà in ciò che le allieve chiamavano sia «francese-per-le-scuole-forti-piene-di-cose-chetu-non-ca pisci», sia «francese scocciante!» Ho voluto sottolinea-
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re, senza enfasi, che si era in quello che loro chiamavano francese forte. Non ho per prima cosa avuto il tempo di completare la mia frase che qualcuna ha detto: «È strano, per una volta io capisco». Ho aggiunto che avremmo messo dei nomi su tutto ciò come sulle bottigliette di profumo 3 • Su mia richiesta, dei sottogruppi hanno cominciato a costruire dei cartelloni su lucidi. Li abbiamo confrontati con l'aiuto della lavagna luminosa. Ciò che era conosciuto o riconosciuto (nei termini di «come si chiama questo») fu nominato. Quanto a ciò che non lo era, glielo dicevo io. (Era veramente in quest'ordine di cose ... avevano voglia di togliere dei veli! La terminologia che ignoravano: congiuntivo, condizionale, frase infinitiva, interiezione, ecc.) In seguito, sulla base di situazioni e personaggi dati, le allieve dovevano redigere le frasi adatte al contesto. Furono loro proposte delle situazioni problematiche rispetto alle quali dovevano immaginare ordini, consigli, auguri, ingiunzioni. - Al tuo compagno piacerebbe collezionare francobolli senza spendere. Scrivigli ciò che gli consigli. - La portinaia di un immobile esige che la porta d'entrata sia chiusa con due giri di chiave dopo le 22. Costruisci un cartello che lei possa appendere sul muro. - La bidella ne ha abbastanza del fatto che si scriva sui banchi. Componi l'avviso che scriverebbe sulla lavagna. Ho dato loro anche dei fumetti, disegnati dalla collega che ho già citato, situazioni per le quali dovevano trovare e scrivere aiuti, consigli, prima spontaneamente, poi con l'obbligo4 di variare tre volte il tipo di struttura utilizzato, infine con quello di doverlo completare secondo le indicazioni date. Poiché le allieve erano allora messe a confronto con difficoltà d'ortografia e di forme rispetto all'uso dell'imperativo, del congiuntivo, dei verbi dovere e volere, e anche dell'infinito, abbiamo fatto con decisione una serie di esercizi su questi modi, abbiamo 3 Allusione ad un precedente laboratorio di scrittura, fatto grazie a 25 bottiglie di profumo vuote. 4 E nello scritto «la costrizione libera ... », tratto dai laboratori di scrittura fatti con Odette e Miche! Neumeyer, del Gfcn Provence.
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imparato le loro coniugazioni ma sempre nei nostri contesti di frasi e testi esortativi (Il termine ora era stato dato). E come per chiudere il cerchio, ci siamo ancora immerse in produzioni teatrali che ora venivano recitate con brio, senza i tentennamenti dell'inizio. Nel corso delle altre lezioni, ci furono le cose più comiche, fuori dell'usuale «chiudi il becco», mentre qualcuna riprende: «No, si dice: "Voglio che tu chiuda il becco ... al congiuntivo, eh, signora?!"» - «Ma non è comunque più gentile!» (come se questo fosse l'obiettivo di tutto il nostro lavoro!) Nuova discussione e risultato: - «Tieni chiuso il becco», è quando si è tra compagni e si vuole fare in fretta. Parliamo così, noi giovani! - Sì! Ma non sei obbligata a insultare ... puoi anche gridare «Ascoltami». - È comunque meglio di «Voglio che tu chiuda il becco». A proposito del congiuntivo, ho avuto voglia di esagerare un po' e mi sono lanciata nel «ieri, se non avessimo avuto niente da dire, sarebbe stato necessario che chiudessimo il becco!» o in altri termini: «sarebbe stato necessario che ascoltassimo meglio ciò che aveva da dirci Letizia». Beffarda, Dounia lancia: «E ce ne sono altre così? Come diceva: chiudessimo? Ascoltassimo ... Questo lo racconto ai compagni! E scoreggiassimo, esiste? È per prendere in giro un po' di troie, di borghesi, quando si parla così?» Ed esplosero dei «chi se ne fotte, chi se ne fosse fottuto ... ma come si dice?» Dopo la consultazione del Bescherelle, questa volta con piacere, noi abbiamo appreso che fottersene non esisteva al congiuntivo imperfetto. Dopo aver detto loro che, scherzi a parte, ciò esiste seriamente e non per fottersi di ... , ho dovuto promettere che avrei portato loro il «Buon Uso» del Grevisse (poiché avevo parlato di questo grosso libro di un grammatico che aveva raccolto tutto) e dei testi in cui l'uso del congiuntivo imperfetto emergeva nelle storie. Vedere queste allieve definite deboli, non motivate, ecc., immerse nel «Buon uso» mi faceva veramente sorridere! E, data la difficoltà di memorizzare la parola «congiuntivo», ho azzardato una piccola discussione a proposito di soggetto, soggettivo, congiuntivo. Con mia grande sorpresa, furo-
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no interessate. Questi sono dei momenti di formazione in «Francese lingua 2», costruiti da Luc CollèsS, che hanno rafforzato le mie intuizioni e permesso dei percorsi di lavoro a partire da atti di comunicazione6. Mi sembra del resto che questa modalità andrebbe bene anche per allievi che abbiano il francese come lingua materna. Tra le allieve (e anche dentro di me) il ricordo di questa lezione è rimasto vivo. A tal punto che, due mesi dopo, siamo ritornate su queste frasi esortative in occasione del nostro andamento di classe in Pedagogia Istituzionale, quando abbiamo deciso, al Conseil, che da quel momento in poi i responsabili si sarebbero rivolti ai ministri. In realtà, in questa classe le responsabilità erano fortemente assunte: diverse le mettevano in atto con molte trovate. Sempre al Conseil, vennero proposti dei nuovi ministeri, ma alcune allieve non sapevano bene come attuare il loro, a scapito di tutti. Era dunque una situazione al tempo stesso assai ricca e anche problematica, perché lo sconfinamento in tutte le lezioni non si arrestava. Sempre in occasione di un Conseil, abbiamo dunque deciso che gruppi di due allieve avrebbero descritto, ognuno, i compiti di un ministero che non fosse il loro. «Ordini, consigli, o augurio?», chiese Noura, la furbacchiona. Nella lezione successiva di francese, non potendoci mettere d'accordo su «consigli, ordini, augurio» abbiamo ripreso i nostri cartelloni. Per fare più velocemente, un'allieva ha proposto di attribuire una lettera a ogni struttura: A, B, C, D ... e per quanto riguarda le varianti all'interno di ogni tipo di struttura, Al, A2, A3. Sapevamo tra noi che si sarebbe trattato di imperativi o di frasi con « bisogna o ... » e di 5 Luc Collès è presidente della Section Romanes all'Università Cattolica di Lovanio, responsabile del dipartimento di Francese, lingua straniera e insegnante all'Ud. Arricchiti grazie alla sua formazione, siamo stati in diversi a elaborare delle sequen7.1! di lavoro la cui ottica è vicina a questa. Purtroppo, non sono mai state pubblicate. La preside di una scuola professionale aveva persino organizzato gli orari dei suoi insegnanti di francese, in modo che potessero dedicarsi a questo lavoro. E quindi, «quando c'è una volontà, c'è sempre un cammino» (proverbio arabo). 6 Il libro di E. Bérard e C. La venne, Grammaire utile du francais, D. Harier, 1991, costruito sulla base di atti di comunicazione, è a questo proposito prezioso.
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scrivere in modo «dolce o duro» come diceva Nadia! Il momento di messa in comune e di discussione delle proposte fu memorabile ... Memorabile anche questa missione, questo potere-ma-nontroppo che tutta la classe affidava ai ministri responsabili, con tutte le sfumature della lingua. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 151, ottobre 2001.
Il piede!
Passarsi la parola per sputare dei noccioli di ciliege e stare a vedere chi avrebbe colpito la lavagna. Sfuggire alla sorveglianza e andare in due a sporgersi sopra la balaustra del terzo piano ... da lì versare dolcemente il contenuto di una bottiglia d'acqua e vedere che cosa fa quando scende. Era stranamente eccitante! Ma perché!? Dopo, avrei potuto certo darmi alcune spiegazioni razionali e/o cosiddette adulte, ma sul momento!!! Un certo godimento, senza alcun pensiero per eventuali vittime e un certo senso segreto sconosciuto a noi stessi. O parecchi sensi, addirittura. Passata da lungo tempo dalla parte della responsabilità, della ftmzione di «maestra», camminando sui sentieri della Pedagogia Istituzionale (tra gli altri), questa storia d'inconscio, come un piede del tripode Pedagogia Istituzionale, m'interpella. «Imparare a leggere le situazioni calde», tale era il titolo che noi ci eravamo dati per iniziare nella nostra scuola secondaria un lavoro con uno psicoanalista ad orientamento lacaniano. A proposito dei pomodori lanciati alla lavagna, degli sputi sulla borsa Delvaux di una collega, di estintori vuotati nei corridoi, ecc., avevamo imparato a «inscrivere in un campo», cioè a non guardare solamente attraverso la fessura stretta dei pomodori, della lavagna, dello sputo, della borsa, dell'estintore ma a guardare attorno spiegando le circostanze, il contesto, il funzionamento della scuola, dei tratti di storie. Il tutto, tra l'altro, al fine di affinare le nostre reazioni, d'inventare delle deviazioni per le nostre impasses. Avevamo alla fine rilevato che questi atti erano certo altrettante «lettere» senza parole, indirizzate agli insegnanti, alla scuola, alla società tutta intera. Rispondervi direttamente con le ricerche di colpevoli immediati e con delle punizioni «per fare capi-
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re», tale era il nostro funzionamento abituale. Con questo psicoanalista, abbiamo rivolto la nostra attenzione piuttosto agli «sportelli» che gli allievi avrebbero potuto utilizzare, alle invenzioni istituzionali da mettere in atto affinché le «lettere» trovassero un indirizzo. Lo psicoanalista in questione non ci ha veramente parlato dell'inconscio, ma ci ha aiutato a indietreggiare, a spostarci per vedere meglio. Non così facile d'altronde: i nostri narcisismi (fare questo a me!), la nostra integrità, le nostre identità professionali ne subiscono un colpo. In ogni caso, ci si è messi a guardare in altro modo. Tanto gli allievi che noi stessi. Alcuni anni più tardi, in una classe di 18 allievi in prima secondaria, io praticavo la Pedagogia Istituzionale a forza di polso (e di convincimenti) in mezzo a barbarie di ogni genere che vi imperversavano. Nonostante le piccole istituzioni pazientemente costruite, nonostante le possibilità di avere a chi rivolgersi (ma gli allievi non ne avevano ancora misurato tutte le possibilità), tre flaconi di bianchetto aperti volano contro la lavagna durante la mia lezione (quarta ora di francese di seguito un mercoledì mattina). Sorpresa, choc. Piccolo spavento per me che mi trovavo nel mezzo delle traiettorie. Mi giro e vedo un misto di visi ridenti, atterriti o chinati. Veloce scocca un «non l'abbiamo fatto apposta!» Scoppio a ridere (riso nervoso e allegro anche per il «non fatto apposta»). E poi, sto zitta. Al breve silenzio sconcertato della classe fa seguito un brusio, fatto di «non sono stato io. Non è grave. È per divertirsi. Non era diretto a lei», che mi ha permesso di capire e di riflettere velocemente 1. Mi restavano dieci minuti prima della fine dell'ora. Ho semplicemente detto: «Io mi domando che cosa avreste voglia di cancellare». Cinque allieve si sono precipitate per pulire i danni. Rientriamo tutte in noi con questa domanda e ci siamo scambiate dei gentili saluti! Venerdì: Conseil. L' «io mi domando ... » era circolato nelle teste. Dentro di me: «Che io prenda troppo spazio? Che loro 1 Forse ci si dovrebbe formare anche per le urgenze! Ma mi rendo comunque conto che ci si può servire del nutrimento di un punto di vista ottenuto attraverso la Pedagogia Istituzionale oppure attraverso il lavoro con lo psicoanalista anche nell'urgen1.a, attingervi.
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volessero cancellarmi? Che si annoiassero? Che volevano dire con - "è per divertirsi?"» E loro, parlano dell'orario mal fatto, della loro percezione di certi rapporti prof/allieve, dei loro muri ai quali tengono: - «Quattro ore di francese di seguito, è veramente troppo». - «Ci sono dei professori che ci annullano». - «Non abbiamo comunque rovinato i nostri muri, giusto un po' la carta geografica del mondo, ma il bianchetto è sfrecciato sul mare non sul Marocco! Ci metteremo un po' di blu sopra». - «Non ci piace scrivere in tutte le lezioni». - «Si è sentita presa di mira?» - «Quello che va bene, è che lei non abbia chiamato il preside» - «Al Conseil dei professori, scrivono ogni sorta di cose su di noi per i dossier e le pagelle. È scritto. Non cancellano mai, e noi, noi non possiamo scrivere nulla su di loro ... ti dicono "cancella questo" (quando K aveva scritto sul muro "a morte la signora Y, la lesbicona") » Ho chiesto che cosa avremmo fatto a questo punto. Sono state prese delle decisioni: - a proposito di una domanda di cambiamento d'orario e, se non lo si fosse ottenuto, la costruzione di una griglia di lavoro variato per le quattro ore del mercoledì; - a proposito dell'impiego del bianchetto; - a proposito di un incontro col preside su frasi scritte dai professori sulle allieve; - a proposito di un laboratorio di scrittura su «cancellare, scrivere, lasciar scritto» che già le entusiasmava; - a proposito di un dibattito sul «negare». C'era del lavoro, per almeno un mese! Nelle lezioni di francese. Il simbolo «cancellare» del bianchetto m'era venuto in mente nell'urgenza e sembra che ci fossero veramente molte cose sotto! Edito in «Échcc à l'échcc», n. 152, dicembre 2001.
Mi congratulo con Osama Bin Laden
In questa classe di SA - 6A elementare, esiste uno spazio di parola: il O:mseil. E un altro spazio che permette di scrivere, di iscriversi e di nutrire il Conseil, tre cartelloni che si riempiono nel corso dei giorni: «Io mi congratulo, io critico, io propongo». Una collega e io lavoriamo in questa scuola seguendo i Conseil. In uno di questi momenti collettivi di formazione delle maestre, ne abbiamo previsto un altro: «Che cosa di nuovo». La maestra della suddetta SA -6A racconta: «Un'allieva d'origine pakistana ha scritto sul cartellone: "lo mi congratulo con Osama Bin Laden". Lei ha firmato e due compagne, loro di origine marocchina, hanno cofirmato». Choc per la maestra ... Grande choc anche per la sua collega del momento che «non ci ha dormito». «Ho reagito male», dice la maestra. Hanno degli effetti nell'équipe d'insegnanti riunite là per un lavoro a proposito del vissuto dei Conseil nelle classi. Domanda: «Che fare con ciò?». La maestra coinvolta ha ricordato alle allieve che gli scritti sui cartelloni devono riguardare la vita della classe. Ma pezzi d'interrogativi aleggiano: questa scritta esprime certo un senso per la/le firmataria/e, che noi ignoriamo. Facciamo alcune ipotesi: forse hanno voluto mettere da qualche parte ciò che frulla loro in testa e poiché c'è là una possibilità ... Lanciano forse un appello indiretto ai loro pari e agli adulti della scuola: «Voi, che pensate?» Vogliono forse prender posizione di fronte a questi fatti che sconvolgono oppure, hanno voluto manifestare una appartenenza attraverso un'attualità fortemente mediatizzata. Hanno voluto forse provocare (chi? che cosa?). In ogni modo, qui c'è senza dubbio un messaggio. Noi abbiamo ricordato, allora, alcune (troppo) brevi piste per possibili risposte, in questo spazio previsto per lavorare sui Conseil e non sugli avveni-
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menti dell'l 1 settembre e sulle loro conseguenze. Cominciare col distinguere i momenti. Cioè, il Conseil per tutta l'organizzazione della classe e dei suoi progetti, e una possibilità di altri momenti per lavorare su una questione di attualità (in un corso introduttivo per esempio). Forse ci sarebbe stato il modo di suggerire alle tre allieve di trasformare la loro frase in proposta: «lo propongo che si parli d'Osama Bin Laden». Ma gli insegnanti sono coscienti del fatto che l'argomento è delicato e complesso, che un lavoro come questo richiederebbe loro innanzi tutto di informarsi attentamente. E quale posizione potrebbero, vorrebbero prendere? L'insegnante ha detto alle sue allieve: «In ogni modo, io sono contro i terroristi». Si è detto nel gruppo, che c'è un modo di condurre diversi tipi di letture degli avvenimenti, che l'insegnante può esprimere la sua posizione, ma soprattutto non presentarla come la verità incontestabile». Abbiamo continuato il nostro lavoro sulle leggi. Pensieri e interrogativi hanno continuato a circolare dentro di me, nei giorni successivi: attenersi alla vita della classe, che cosa vuol dire esattamente? Penso che questa vita di classe sia fatta della mescolanza dei vissuti degli uni e degli altri, bambini e adulti? E questi vissuti di giovani, spesso scombussolati dalle piogge di informazioni e di impressioni che piombano loro addosso (e in questo caso di sguardi diffidenti anche sulla loro comunità percepita forse come pericolosa), sono pregati di restare fuori dalla porta? Se c'è bisogno in questi allievi, e forse nella loro famiglia, di affermare un'attrazione per un personaggio divenuto vedette, demonizzato dagli uni e adulato dagli altri, quali possono essere i diversi motivi consci o inconsci che vi si nascondono? Che cosa sarebbe successo se qualcuno avesse scritto: «Io mi congratulo con Georges W. Bush?» Da cosa può venire la paura negli insegnanti di lavorare a partire da questo genere di apporto vivo di allievi, anche se, a priori, danno fastidio (farlo per positivizzare? Non per professionalizzare). Da dove viene la quasi certezza degli insegnanti che il lavoro su questo genere di argomento, non è possibile farlo perché sarebbe «fare politica a scuola», mentre c'è poca coscienza del fatto che cancellare con la gomma que-
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sto tema o prendere una posizione rapida è anche un modo di fare politica a scuola? Perché la frase scritta dall'allieva crea tanta emozione negli insegnanti? In quale spazio trattare questa questione per noi stessi come responsabili della formazione dei ragazzi? La provocazione è necessariamente da respingere, da condannare mentre, l'etimologia della parola lo dice, è per (pro) un appello, una voce (vocare). E che cosa facciamo dei terrorismi espressi in parole e dell'assunzione di potere dei più forti (per statuto, ad esempio) sui più deboli (nell'istruzione, ad esempio) che possono anche uccidere ... a piccoli spari. Qui, vedo spuntare tra l'altro delle pratiche di Pedagogia Istituzionale che li possono frenare. Noi c'eravamo pienamente occupati a lavorare gli spazi di parola in classe. Ed ecco che sperimentiamo con forza che, quando c'è uno spazio, i ragazzi lo prendono (che occasione!). Non sempre come noi prevediamo (per fortuna). C'è un rischio per le nostre certezze, rischio di vita inattesa che entra in classe, rischio di disordine e di scosse ... Ma anche la possibilità che, nell'assenza di spazio di parola, dimorino insospettati. Una tale assenza, a un altro capo della trincea, urlava stranamente nei corridoi e sui marciapiedi. Cinque allieve di una 4A professionale vagano nei corridoi. Una piange rumorosamente, l'altra minaccia una rivolta, le altre ascoltano e commentano. Ne conosco due di vista. Le altre, no. La più agitata si rivolge a me, senza nemmeno conoscermi: «Mi dica, signora, che vuol dire in francese oyooo?» (detto con un tono che io conoscevo). Io provo: «Bene, qualcosa come Ouili ... ouili, come si dice in marocchino». Avevo anche nell'orecchio dei « Ouili, ouili dis» 1, come lo dicono gli abitanti di Bruxelles! Fortunata, mi fa un grande: «Vwaaalà ... lei ha capito!» - «Ma perché mi domandi questo?» - «Bene io, ho detto oyooo al Signor X. e lui mi ha messo una S sul diario. Eppure, io non ho detto niente di male, eh!» Non so naturalmente dopo quale frase dell'insegnante né con quale tono e con quale volume ha lanciato il suo «oyoooo», forse irritante! L'allieva piangente rincara: 1 «Ouille, ouilles dis»: è una esclamazione un po' scandalizzata «ma dai non è possibile, non è vero, non è accettabile ciò che tu mi racconti ... » (n. d. c.).
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«A me ha messo una I, ma io non ho fatto nulla». Altre grida con improvvisi «è schifoso qui, sono sempre loro che hanno ragione, ma la vedranno bene ... » In generale, con questa minaccia, ciò che può venir dopo è un vetro rotto o uno sputo o degli insulti, detti, scritti sui muri o lanci di qualsiasi cosa oppure forme di boicottaggio o tutto un altro movimento senza parole che si conclude con rimproveri e sanzioni fino alla prossima volta! Chiedo loro se, in più d'una, non possono parlare con l'insegnante. Per spiegarsi, capire, mettersi d'accordo. «Su, non dica fesserie, non ci ascolterà. Sono sempre loro i più forti ... Noi i piccoli imbecilli, non abbiamo niente da dire. Loro, perché sono dei prof fanno i furbi». - «Non c'è un rappresentante nella vostra classe?» - «Ma no. In tutte le altre scuole, hanno già votato, ma non qui». - «E il Consiglio dei Delegati non si riunisce più allora?» - «E questo, che cos'è?». Spiego la sua esistenza l'anno scorso, i professori che venivano a turno, ciò che vi si faceva: le lamentele, le proposte ... Loro cadono dalle nuvole, ma si raddolciscono e si interessano. Siamo passate sul marciapiede della scuola. Dei piccoli punti di strategia vengono elaborati: innanzi tutto, cercare chi sono i professori di turno (io do loro un nome), poi come fare, che dire. «Allora si potrà parlare? Lei ci ascolterà ? È vero, facciamo delle cazzate, ma siamo giovani e ci rompiamo le scatole e quei grandi prof credono di saper tutto». Piccoli terrorismi a livello scolastico con piccole armi ultratruccate nei due campi. Per salvarsi la pelle come si può? Là, sul marciapiede, davanti agli sguardi che acquistavano delle scintille d'interesse, davanti a piccoli «grazie, chiederemo le elezioni», davanti a ciò che diventava inizio di desiderio e di pensiero, mi dicevo che l'istituzione, qui, di un Conseil di classe, del Consiglio dei Delegati e di altri sportelli da inventare permetterebbe sicuramente ai diversi attori di avanzare e di apprendere. Con chi potrebbero congratularsi? Edito in «Échcc à l'échcc», n. 153, gennaio 2002.
Cos'è «Milieu»? 1
«È un corso in cui si ritagliano delle immagini nei libri e s'incollano sui pannelli. Si vanno anche a vedere i lampadari del Comune. Me l'ha detto mia sorella». «Signora, non ha dei libri sull'Italia, sul Marocco, sulla Turchia?» - «Per fare che cosa?» - «Per fotocopiare». - «Perché?» «Perché dobbiamo fare un discorso sul nostro paese». - «Per quale corso?» - «Ambiente». Scettica, do ciò che trovo e l'indirizzo della biblioteca comunale. Quindici giorni dopo, vedo dei pannelli nella classe. Ci sono tutti i cliché e i monumenti conosciuti, in un collage di foto ritagliate dalle fotocopie, di dépliant turistici o di immagini di pub con tanto di cammelli Carnei e paste Panzani. Più tardi. «Signora, dove si trovano delle foto della famiglia reale belga?» - «Per fare che cosa?» - «Per conoscere meglio il Belgio». - «Ha una foto di Diana? Lei, mi piace molto». E la compagna prosegue ... «lo me ne frego. Che vadano all'inferno!». E l'altra compagna: «Ma tu non saprai fare l'albero». «Quale albero?» - «Bene, quella cosa con dei rami e su cui s'incollano delle foto». Ancora più tardi: «Siamo andate in Comune. Abbiamo visto il grande lampadario. Abbiamo contato le lampadine. Abbiamo ricevuto l'elenco di tutti i padroni»(sic)2 «Che fate di questo elenco?» «Lo incolliamo sul quaderno». 1 Milieu può avere più significati: mezzo (in me7..zo), centro (al cemtro della tavola), metà (verso la metà del secolo), ambiente (adattarsi all'ambiente) (n. d. c.). 2 Qui significa: borgomastro e vice borgomastro
cos't «MILIEU»?
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L'anno dopo, sono incaricata di questo corso «Studio dell'Ambiente», in r Accueil. Sin dall'inizio un'allieva mi domanda: «Che cos'è "milieu"?» - « Chi è "milieu"?» Rilancio alla classe. Alcune risposte: - Bene? Non lo sai? È quando si è al centro. - Ho sentito questo alle scuole elementari. È una cosa per i bambini piccoli. Era in una storia con dei bambini che andavano à milieu e anche con degli stivali di milieu 3• Buona o cattiva idea, io riprendo sul «quando si è al centro». A gruppi di tre, le allieve devono presentare ciò che viene loro in mente quando dicono «si è in mezzo». Possono scegliere un modo di presentazione: disegno, sketch, schema, carte geografiche e unire una o due domande che il gruppo si pone facendo e vedendo le produzioni. Un piccolo campione di questo lavoro: - Quello che rassomiglia a un tracciato di carta geografica del Belgio. In mezzo, un cerchio per Molenbeeck e dentro, tre croci sormontate da «siamo noi au milieu» 4 • Domanda: «Molenbeeck è Bruxelles?» - Tre famiglie disegnate come una treccia di cipolle e in ognuna, un personaggio delineato con caratteri più grossi rossi. «Siamo noi in mezzo alla famiglia». Domande: «Si è in mezzo quando non c'è la stessa cosa da ogni lato? 5 Si può dire che i genitori sono in mezzo ai nonni e noi? Ma quando i nonni o i genitori sono morti?» - Una strada costeggiata da case grigie con fessure. Tre personaggi in mezzo alla strada. Domanda: «Perché c'è chi dice che siamo dei monelli di strada? È vero che le strade sono luride qui a causa dei marocchini?» - Uno sketch in famiglia: grande discussione a proposito di «andare da una compagna». La madre lo vuole, il padre no. Una zia e uno zio intervengono ... «E noi, siamo in mezzo». Domande: «Perché non possiamo fare come i Belgi, noi? Perché i nostri genitori non capiscono niente?» 3 Da intendersi à mii/es -lieues, deriva dal francese lieue che vuol dire «a una grande distan1.a» (n. d. c.). 4 Significa: a mille leghe e gli stivali delle sette leghe di un orco. 5 Ter.ro di una famiglia di 7 persone, quinto di una famiglia di 9, e primo di una famiglia di 3.
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- Uno sketch a scuola: discussione tra un papà e un professore a proposito di un viaggio scolastico. Il professore spiega l'importanza di andarci. Il padre dice che un viaggio non insegna niente. «E noi, si è in mezzo». Domanda: «Non si possono obbligare i genitori dicendo che i viaggi fanno parte del corso e che, altrimenti, si prende zero?» - Ancora dei tipi di carte geografiche (le allieve non conoscono la forma dei paesi). A sinistra, in una, è scritto «Turchia»; a destra, nell'altra, è scritto «Belgio». In mezzo, un personaggio. Ai suoi piedi, una pioggia di lacrime con una piccola frase: «Per mia nonna che pensa a noi laggiù». Domanda: «Perché dobbiamo avere la testa tra due paesi?» - Un foglio A4 piegato in due. A destra, la forma di un listello graduato a 10 centimetri e un tratto rosso a 5 centimetri. Domanda: «In mezzo c'è matematica?» Il tipo di ingresso in questo corso è certo discutibile, ma almeno, capisco ciò che passa nelle teste, percepisco con forza che situarsi nel tempo e nello spazio (uno degli obiettivi iscritti nel programma del corso) non è così semplice e poi, c'era lì di che costruire a partire dalle percezioni e rappresentazioni. Abbiamo fatto un elenco sulla base di ciò che era stato prodotto scegliendo le parole giudicate importanti. Risultato: «Belgio, Bruxelles, Molenbeek, Turchia, famiglia, monelli di strada, marocchini = strade luride, padre, madre/prof, scuola, come i belgi, due paesi, matematica». La questione che assilla e che tutte riprendono con forza, proteste, insulti e minacce ai «figli di puttana che osano dire ciò» è «è vero che qui le strade sono luride a causa dei marocchini?» Mi sembrava che, metterci in situazione d'apprendimento, fosse cominciare da lì: prendere distanza, uscire dall'emozionale e dal magma mettendosi a ricercare. Molenbeek, dov'è in rapporto a Bruxelles, al Belgio? 6 Chi abita nella «vecchia Molenbeek» ?7 E prima, com'era? Sulla base di un percorso nelle strade, 6 L'avevo sentito in occasione di altre uscite in un comune vicino: «Siamo ancora a Bruxelles, qui?» e a 30 km da Bruxelles: «Siamo ancora in Belgio?».
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d'interviste a vecchi abitanti, di antiche foto, di nomi di vie, di osservazioni di statistiche, le allieve hanno imparato che l'alloggio nelle case minuscole dei vicoli era misero, che i contadini poveri venuti dalle Fiandre8 abitavano in queste case, che delle lotte erano state condotte per dei cambiamenti, che era pieno di officine lungo il canale, che molti italiani avevano abitato là prima di loro. Una specie di sollievo è sceso nella classe: «Le strade luride, non siamo noi allora ... » E sono cresciute, nello stesso tempo, sia la voglia di sapere di più che la rabbia: «Perché è qui che siamo e non nei grattacieli 9 ? Perché tutti i marocchini sono a Mole? Perché non siamo restati in Turchia?» 10
Io mi sono detta che i primi passi in questa presa di distanza potevano proseguire, ma anche che le conoscenze non erano sufficienti. Avere almeno un po' di presa sull'ambiente, divenire protagonisti nella storia di questo quartiere sarebbe stato anche un modo di apprendere. Con il corpo e con lo spirito. Abbiamo lavorato con la maison de quartier Bonnevie, che era vicina alla scuola, abbiamo organizzato delle azioni nella strada per lottare contro la sporcizia, abbiamo imparato con gli abitanti il lavoro per il restauro delle case, abbiamo partecipato alla pittura dei muri e all'inaugurazione di un parco finalmente dignitoso. Dopo venti anni di battaglia condotta sempre con gli abitanti fra cui molti bambini, abbiamo visto, in questa occasione, la storia di questa lotta11 attraverso foto, disegni, plastici, testi di giovani e di adulti che le allieve riconoscevano. Abbiamo anche lavorato con la mostra «La mémoire retissée» 12• Andando nei viali, mi colpivano 7 Chiamato ora il «Molenbeck storico» dal borgomastro ... Un'allieva che un'insegnante aveva trattato da isterica e conoscendo dunque questa parola mi aveva domandato perché lo chiamano il Molenbeek isterico? 8 ••• stupore dei Fiamminghi..., le mie allieve non ricordano che Vlaams Block è il partito di estrema destra fiammingo. 9 Per molti, la promozione è abitare in un building moderno di «quelli fatti solo per i belgi, che hanno appena uno o due bambini e un cane». 10 In questo genere di momenti, ciò fa muovere, urlare ... e si dice che non sono motivati?! 11 Col la Stib {Devastazione dovuta alla costruzione della metropolitana), con il Comune. 12 Organizzata tra l'altro da Anna Morelli, professoressa di Storia all'Università Libera di Bruxelles.
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i «è come me, mio padre, mia madre ... » e, sempre nell'idea dei protagonisti, ho loro detto che sarebbe stato veramente bello se avessero completato questa mostra. Si è cercato come fare. Hanno interrogato i loro genitori e raccolto dei racconti sull'arrivo dei padri in Belgio, su ciò che avevano costruito (la metropolitana, per esempio), sui primi contatti con la scuola da parte delle madri. Alcune hanno portato delle foto. Sono stati scritti dei testi attorno a «memoria» e a «ritessitura» partendo dal senso primo di tessiture. Si è inviato il tutto agli organizzatori della mostra. Hanno risposto ... «Una professoressa d'Università ci ha scritto, però ... !». «Certo, aggiungo io, ma che viene dall'immigrazione italiana.» «Ah sì!? Ed è diventata prof d'Università?! D'accordo, ma questo per noi marocchini, non succederà mai ... ». Paf.
Io propongo loro di incontrare una scrittrice marocchina. Si leggono dei brani da uno dei suoi libri. Lei viene in classe. Il silenzio di queste turbolente, quando Leila Houari è entrata nella classe, era emozionante e poi, volevano tutte una fotocopia della piccola foto della copertina del libro! Certo, tutto questo cammino trasformava i disagi e le vergogne in rabbie, poi in atti, poi in orgoglio. Alla fine, siamo tornate alla parola milieu; «Ora io ho capito», dice una allieva. Per fissare il tutto, abbiamo costruito degli elenchi e dei cartelloni che rispondevano alla domanda «che cos'è fare uno studio del milieu?» sulla base di ciò che avevamo fatto per molti mesi. Noi abbiamo avuto bisogno di costruire anche delle rappresentazioni del tempo 13 • Quanto allo spazio, abbiamo guardato molte carte geografiche ed è stato grande il piacere di collocare ... a partire dai tragitti dei nostri piccoli viaggiatori, risalendo ai viaggi «tra i due paesi». Detto tutto ciò, non credo assolutamente all'interesse di frasi graziose come« parleremo del tuo paese», che del resto spesso li tengono a distanza e li rinviano alla sola estraneità 14 • «Il loro 13 Per questi giovani, prima di oggi si va dalla preistoria a 10 anni prima della loro nascita, ma senza idee sulle distanze ... Come prova, davanti a una foto di tram trainati da cavalli, io dico: «Mio padre conosceva questo». Dopo, di fronte a una domanda sulla preistoria, molto seriamente: «Suo padre, ha conosciuto anche questo?» 14 Altri percorsi da inventare con gli immigrati appena arrivati, che ne sono ancora p1em.
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paese», è innanzi tutto il loro luogo di vita attuale, nella città in cui sono nati. Collocarsi qui in modo diverso che non in quello delle colpe, delle umiliazioni e dei calci. Qui e nella storia di questo qui. E da questo punto, investigare i che cosa, i perché, i chi e i come, i da dove e i verso dove. Una convinzione in ogni caso vibra su queste corde tese: quando si è in basso, si può imparare anche lottando insieme per cambiare la realtà. Senza questa possibilità di battersi almeno un po' si resta nella vergogna e nell'annientamento, anche se si riesce in latino e greco ... A condizione di giungere inoltre, passando attraverso lacrime amare o la rivolta, a poter analizzare, nominare, costruire dei concetti. Imparare allora, significa allargare, consolidare, trasformare, liberare. Per me, è un risveglio, ed è qualcosa di straordinario. Edito in «Échcc à l'échcc», n. 158, novembre 2004.
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«Il sapere, un buco con qualcosa intorno». Questa espressione potrebbe far sorridere o far fare delle smorfie. Se è questo essere insegnante ... Quand'anche! Eppure ... A immergermi nel fatto di considerare ogni allievo uno per uno in questi gruppi di allievi messi a confronto con gli apprendimenti, io ripenso a Karima e ai nostri circuiti e meandri. Meno rumorosi e più complessi del circuito di Francorchamps 1• Karima, la peste della scuola, etichettata come delinquente poiché «non ha visto che questo» con «i suoi tre-fratelli-in-prigione e i suoi-genitori-dimissionari-che-non-si-vedono-mai». Karima praticava il racket nei confronti degli altri, si piazzava tutto il tempo nei corridoi dei piccoli delle materne, appiccava il fuoco nei cestini della spazzatura, svuotava l'estintore, sabotava le lezioni, lanciava delle cartucce d'inchiostro sulla gonna di una prof e il correttore sul soffitto. Andava abbastanza bene in francese, quando se ne occupava, ma solo per finire per prima e per burlarsi degli altri ritardatari. Sabotava anche il Conseil. Io cercavo di darle dei limiti come potevo tentando di interessarla a questo, a quello perché potesse restare nel gruppo, ma lei cercava di superare il confine, di evitare ogni limitazione. Un giorno, fu il giorno dell' «anch'io». Lei guardava gelosamente quelle che, assumendosi ufficialmente delle responsabilità al ConseiJ, ottenevano subito dei privilegi e delle parti di potere e potevano parlarne, cosa che dava loro una grande importanza ai suoi occhi. Impossibile sabotarle tutte. Il ConseiJ le sosteneva. 1
Circuito dove si corre ogni anno una gara di Formula uno (n. d. c.).
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Lei mise un punto all'ordine del giorno: «Anch'io». Mistero di queste parole chiarito quando disse che anche lei voleva una responsabilità. Provocatrice, disse: «Ci sono solo delle cose scolastiche in questa classe, io voglio una pianta». Le altre ridono. Io fermo tutto per prendere la sua domanda molto sul serio: - Come potresti fare? -Ah, posso? Bene, porto una pianta. Nessuno si oppone. La segretaria scrive sull'elenco delle responsabilità affisse in classe: Karima, responsabile della pianta. L'indomani, la pianta è là, davanti a tutti. Karima aveva trascinato l'educatore incaricato di sorvegliare il cortile dicendogli: «Venga ad aprirmi la classe ... Sì, sì, io devo assolutamente andare a portare questa pianta (alle 7.30 del mattino!) del resto, venga a vedere c'è scritto: Karima, responsabile della pianta». Questa responsabilità è ben più variegata di quanto non appaia: trovare un posto per la pianta, trovare un recipiente per l'acqua, poter andare a cercare l'acqua fuori della classe, annaffiare la pianta, togliere ciò che è secco e gettarlo, aspettare le gemme per parlarne al Conseil, vedere cosa si fa della pianta durante le vacanze ... Per le vacanze brevi, contattare la donna delle pulizie che l'avrebbe annaffiata; per quelle lunghe, portare la pianta a casa, curarla, riportarla. E poi ogni settimana, rendere conto al Conseil e ricevere i pareri degli altri, tipo «È bella, tu la curi bene ma non si sente parlare che di questa pianta qui ... Non c'è che lei, eh!», detto con un sorriso da una compagna. Tra Karima, le altre (spesso da lei maltrattate) e me nasceva attorno a questa pianta una complicità sorridente e tenera; sorprendente, con questa ragazza così dura che in più, molto maligna, mi diceva: «E soprattutto non mi venga a seccare dicendo che io sono cambiata!» - «E lei rompe di meno le scatole alla gente? E lavora meglio?» mi domanda una collega alla quale avevo segnalato che questa pianta, il suo posto, il fatto di essere annaffiata appartenevano a Karima. Ma no, non veramente ... Variabile. D'altronde io non cercavo subito dei progressi nel lavoro. Ho voluto semplicemente dire di sì a questa pianta e attraverso ciò dire di sì a Karima, avendo il presentimento che fi si giocava qualcosa di importante.
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Nel suo deserto di «no», una piccola pianta mi ricordava che c'era un soggetto al lavoro (non strettamente scolastico). Speravo anche che Karima trovasse del desiderio per altre cose ancora e, peraltro, io continuavo ad inventare. Un giorno preparo un laboratorio di scrittura intitolato «Io entro in un libro». Affinché ognuno, io compresa, potesse dire e scrivere qualcosa delle sue rappresentazioni, immagini, ricordi, timori, slanci di fronte a dei libri ancor prima di leggerne, ho raccolto con una collega una serie di disegni di libri personificati collocati in contesti insoliti. Per fortuna, trovo un libro a forma di annaffiatoio. Il giorno fissato, espongo tutti i disegni sui tavoli e le allieve scelgono il disegno col quale vogliono dire, scrivere. Karima con aria distratta, sceglie il libro a forma di annaffiatoio e mi domanda se può andare a mettersi da sola in un angolo della classe. Io non la sento (per la prima volta dopo cinque mesi). Le passo accanto e do un'occhiata. Aveva scritto un lungo testo sui libri che annaffiano le teste. Questo testo è stato letto alla classe come tutti gli altri e applaudito, poi scelto per essere messo nell'opuscolo collettivo. In questa occasione, Karima domanda: «Riguardiamo l'ortografia? Perché quelli che lo leggeranno, non mi devono prendere per una debile». Stava annaffiando la sua pianta alla fine della giornata, mentre io raccoglievo dei pezzi rimasti di lavoro, volontariamente sola per essere una presenza discreta accanto all'annaffiatura: ecco che sento Karima parlarmi, lei che spesso gridava «non bisogna mai parlare a un professore, altrimenti si crede grande nei tuoi confronti». Mi dice che le piace moltissimo leggere, che legge molto, ma che non bisognava dirlo. Le ho chiesto se lo aveva detto alla sua pianta. Risposta: «Ma ora è la nostra pianta, signora. È per la classe». Quindici giorni dopo, chiede dei libri alla responsabile della biblioteca. Provo a rileggere questa storia ... Mi sembra che Karima abbia trovato un complemento d'essere in un oggetto che ha localizzato nell'Altro: il Conseil. Il Conseil dove «ognuno» può portare la sua domanda di una pianta o di altra cosa. E questo oggetto, tanto il Conseil quanto la pianta, rende Karima desiderante, in ogni caso, più desiderante di quanto desse a vedere. Lei e le altre mi hanno insegnato ad attendere, a vegliare, a inventare, a risve-
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gliare, a inscrivere ... Tenere questa posizione, per esempio con i bambini dei quartieri popolari, le cui parole, i «no», le esplosioni, i desideri sono spesso considerati come se fossero a sproposito, tappati, domati, significa darsi un sapere a partire dal quale ogni insegnante può inventare, secondo il suo stile, a partire da ogni soggetto, colpire all'interno piuttosto che all'esterno. E facendo ciò, ci diventa possibile non assolutizzare né i saperi né le etichette incollate sui soggetti di tale categoria sociale, né assolutizzare questa funzione di maestro-onni-sciente. E sfuggire così a un ruolo a cui noi tendiamo inconsciamente: fabbricanti di bambini disturbati e venditori di armi. In fin dei conti, che cosa potrebbe essere all'origine di questa rivoluzione che ha permesso il sorgere, in Karima, di una posizione di desiderio, di desiderio di sapere, del gusto per la lettura, per il sapere? - Primo: si potrebbe dire che nella classe Karima dice no a tutto, si mette di traverso a tutto: prende la sua posizione decisa contro tutto e tutti. Lei incarna un «no» assoluto. - Secondo: l'insegnante, di fronte a questo «no» assoluto, le lascia un posto: risponde «sì» a questo «no» «dandole dei limiti». - Terzo: al minimo segno di Karima come soggetto («Anch'io»), l'insegnante fa un posto a Karima, facendo un posto alla sua pianta: facendo così della pianta una «metafora del soggetto», di ciò che concentra e rappresenta il desiderio, il gusto e il lavoro di questa ragazza. - Quarto: la violenza non solo sembra sparire, ma lascia posto, al contrario, a un'allieva che prende l'iniziativa, che è là in anticipo, che prende la parola nel Conseil, che si attiene alle regole del legame sociale della classe: ciò fa emergere in lei un desiderio deciso! C'è un soggetto che è al posto di comando: un soggetto che dice «sì»! - Quinto: trovando un posto, attenzioni, «annaffiature» premurose, è lei che trova un posto come soggetto, e consente di essere oggetto di attenzioni. - Sesto: gli insegnanti sono sorpresi da questa «nascita di una posizione desiderante». Karima è capace di sorprendere «quelli che sanno»!
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- Settimo: l'insegnante non cade nella trappola di essere interessata dal fatto che Karima si dedichi all'apprendimento. Si attiene al percorso logico di passare attraverso i tempi, le scelte, le domande di Karima. - Ottavo: è Karima stessa che domanda di scrivere - laddove l'insegnante si è attenuta attentamente al significante che fa parte dei valori di Karima, l'annaffiatoio- divenendo creatrice di metafore: «I libri che annaffiano le teste». - Nono: c'è un'inversione della domanda: l'insegnante non deve chieder di correggere gli errori, ma è Karima stessa che domanda che l'Altro intervenga per correggere i suoi errori. - Decimo: quale sorpresa per l'insegnante, grazie a queste grandi deviazioni, scoprire che, sotto l'orrore della violenza di questi «no», c'era ben nascosto un «io adoro leggere»! E infine, se l'insegnante si appoggia sul «sapere esposto» della psicoanalisi secondo l'orientamento di Jacques Lacan e di Jacques-Alain Miller, e vi trova il suo filo d'Arianna, è comunque lei stessa che si autorizza a includersi nella posizione terribile di Karima, a scommettere su di lei, a farsi sua partner, dicendole «sì» dicendo sì alla sua pianta, seguendo passo passo il consenso che Karima le dava verificando se lei poteva contare sulla sua insegnante, se poteva contare sul «desiderio dell'insegnante» e non sulla sua «domanda che lei impari». Si potrebbe dire che l'insegnante nel suo gioco desiderante con Karima ha saputo, con discrezione, far entrare nel «gioco del desiderio» sia il «soggetto» che la sua «soddisfazione». Un soggetto che nel suo gioco ha abbandonato la sua posizione difensiva per andare all'attacco, per trovare della gioia nel giocare col desiderio dell'Altro, qui incarnato dalla sua insegnante. Edito in « Traccs», n. 163, Dicembre 2003.
Perché possano dire: «Anch'io»
Non c'è la verità, non ci sono che delle storie ]im Harrison
Degli esperti continuano a costruire insieme la Pedagogia Istituzionale testimoniando la loro pratica di giorno in giorno nelle monografie. Questi testi permettono a tutti quelli che si cimentano nella pratica della Pedagogia Istituzionale di provare instancabilmente a comprendere ciò che è in gioco nella classe e di elaborare senza sosta i loro strumenti I testi di Noelle De Smet sono di questo tipo: dei luminosi racconti che ci rischiarano, ci lasciano più forti, più chiaroveggenti e ci danno la spinta e la forza di rifiutare il determinismo schiacciante dell'esclusione scolastica. La storia di Karima che Noelle racconta, per esempio, quella di un'allieva in rivolta, che moltiplica i passaggi all'atto trasgressivi rispetto alla regola scolastica, ci parla del desiderio bloccato, imbavagliato al quale l'esperto della Pedagogia Istituzionale non vuole in alcun caso adattarsi. La Pedagogia Istituzionale, pedagogia del desiderio, si dice! Per Karima, la formidabile energia di questo desiderio è messa al servizio del rovesciamento dell'ordine della scuola piuttosto che degli apprendimenti, finché la classe di francese, poiché è istituzionale, permetta all'adolescente di dire che lei vuole essere di questa classe. Sopravviene allora questo «anch' io», espressione penetrante di una decisione, che Noelle spera, prevede e aspetta pazientemente che sorga e si esprime quando il desiderio si risveglia e fa uscire Karima da un rifiuto radicale. Il racconto affascina, ma non sorprende. Perché la classe tutta intera, da quando s'istituzionalizza, è tappezzata da un tessuto
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invisibile che contiene senza proibire e anche tutto il contrario: una rete adatta a captare il desiderio. L'organizzazione istituzionale della classe non ha la funzione di fare accettare l'ordine o di farlo regnare, ma di permettere, di autorizzare. Allora l'inatteso può accadere perché lo spostamento e l'affrancamento diventano possibili soprattutto rispetto all'etichettare devastante di cui sono vittime troppo spesso gli allievi rifiutanti e rifiutati, come Karima, indicata come «delinquente». Invece di domandarsi: «Ma che cosa devo fare di questo/a allievo/a?», l'esperto della Pedagogia Istituzionale cerca il dispositivo mediatore- in alcuni casi in presa diretta con l'allievo problematico, ma in direzione del gruppo-classe nel suo insieme che costituisca un'apertura verso il possibile emergere del desiderio di apprendere e di vivere, non nella solitudine dello scoraggiamento o della rivolta, ma con i propri pari. S'interroga sull'istituzione, suscettibile di fare accadere l' «anch'io» dalla parte degli allievi in rottura, affinché entrino negli apprendimenti e siano parti pregnanti del gruppo. Le istituzioni della classe, infatti, sono altrettanti dispositivi desiderabili che, pazientemente con il gruppo, l'insegnante stabilisce man mano che si rivelano le difficoltà della vita nella classe, sia che queste si verifichino nell'ordine dell'apprendimento che in quello del vivere-insieme. Le istituzioni della classe, trappole del desiderio, si dice anche! Nella classe istituzionale viene così poco a poco tessuta una rete sempre più solida che permette al tempo stesso il passaggio, gli spostamenti e la sicurezza di ciascuno e che permette di tener(si) insieme per lavorare. I progetti cooperativi, le tecniche di lavoro individuali o di gruppo, le decisioni concernenti la classe, le regole comuni, le responsabilità, sono i nodi di un tessuto umano e sociale che permette al gruppo-classe d'essere un luogo di apprendimento e di vita, solido, rassicurante e desiderabile, che invita ciascuno a esserci. Il Conseil, spazio-tempo nodale e primordiale di questo tessuto vivente, permette di far esistere e di far vivere l'insieme. Le monografie degli esperti della Pedagogia Istituzionale mostrano che questa rete permette spesso una pesca (o un ripe-
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scaggio) che potrebbe sembrare miracolosa solo se l'importanza, la densità e la solidità della rete di scambi, che rappresentano le differenti istituzioni, non sono state colte nella loro giusta misura. È a questa rete che un giorno, come per Karima, «ciò» si aggancia e che certi ragazzi escono dal rifiuto. Nella classe di Noelle, per questa adolescente in rivolta, è l'istituzione «responsabilità» che ha giocato il ruolo di aggancio. Non la responsabilità distribuita ai volontari dall'insegnante, ma quelle che si assumono davanti a tutti, quelle che impegnano e di cui si rende conto davanti al gruppo nel corso del Conseil. Le responsabilità, istituzione essenziale, come il Conseil, si dice addirittura! Io ricorderò questo testo come un aiuto prezioso per i momenti di dubbio o di scoraggiamento. Perché il momento in cui al Conseil, Karima domanda di essere responsabile delle piante, quando non ci sono piante nella classe, seguito dalla risposta «come potresti fare» di Noelle che sa la fragilità del desiderio e la necessaria e paziente prudenza rispetto a quello che si schiude e si dice, allora là in quel momento, assume significato per me al di là del razionale. Questa storia di vita, di acqua, di natura mi sembra emblematica della pratica della Pedagogia Istituzionale che resta un rifiuto dell'impotenza e che concretizza il «c'è sempre qualcosa da tentare» di quelli che restano risolutamente «sul fronte delle classi». Essa riflette soprattutto fedelmente Noelle De Smet, la sua tenacia, la sua intransigente dolcezza, il suo sorriso, la sua determinazione, il suo coraggio modesto, in breve, la sua così bella umanità. Irène Laborde, aprile 2005
Piccola fabbrica di storia(e)
Classe 1A A (primo anno della Secondaria). Ho con loro sette ore di Francese - cinque ufficiali e due ore di «sostegno», opzione presa dalla scuola vista l'incerta padronanza del francese di queste allieve- e sono titolare della classe. Fin dall'inizio dell'anno noi passiamo del tempo nell'organizzazione della classe secondo l'orientamento della Pedagogia Istituzionale 1• Ciò di cui le allieve si occupano di più sono le responsabilità. Queste sono inventate sulla base dei bisogni, e dichiarate al Conseil. È qui che le allieve ne rendono anche conto, che la classe può valutare il loro compito e si operano i cambiamenti di responsabilità. Ci sono responsabilità che riguardano i muri, l'organizzazione dei posti, la chiave della classe, le informazioni agli assenti, l'elenco delle presenze, uno scaffale per sistemare i raccoglitori, il materiale comune, la distribuzione e la riconsegna di documenti e i lavori. Tutte responsabilità che sono state elaborate, realizzate, discusse nel corso dei primi due mesi e che fanno quadro, segnano, scandiscono fortemente questa classe, all'inizio abbastanza «selvaggia», nei modi di entrare in relazione con gli altri e con gli apprendimenti, di occupare il terreno, di prendere ciò che capita. Queste responsabilità sono prese talmente sul serio che in occasione di un Conseil fu proposto, da un lato, di cercarne una per ognuna, dall'altro di non chiamarle più responsabilità, ma ministeri e le responsabili, ministri. Il cambiamento di parola e la presa di coscienza che fosse possibile investire anche in altri 1 Per maggiori informazioni a proposito di pratiche, etica, tecniche in Pedagogia Istituzionale si vedano i numeri 152 e 153 di «Échcc à l'échcc».
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settori, oltre che nella organizzazione materiale della classe, ci hanno condotto a istituire dei ministri della Cultura, del Lavoro e del Progresso, delle Relazioni Estere, dell'Ambiente, della Giustizia. Serena e Candy, le più timide di tutte le altre, non avevano un ministero. Erano già state responsabili della distribuzione dei documenti e delle informazioni agli assenti, ma volevano passare a qualcos'altro. Al Consei~ Noura prende un po' in giro Serena perché vuole conservare tutto della classe: le locandine che sono scadute, i piani quindicinali dei posti, i papillon che sono serviti per le presentazioni dell'inizio dell'anno, le decisioni del Conseil affisse momentaneamente, ecc. Tant'è che riempie l'interno di un ufficio non occupato. Per una parte della classe si può buttar via tutto ciò. Per un'altra è bene conservarlo perché successivamente si può ricordare. «È comunque la storia della classe!» si difende un po' Serena, che di solito è molto riservata. Tira fuori di nuovo qualche locandina dall'ufficio che ha abusivamente occupato e tutte vogliono rivedere ciò che avevano scritto in settembre. Molte commentano: «Io direi ancora questo» oppure «ora, io scriverei un'altra cosa». Assumo la parola di Serena «è la nostra storia, quella della classe e di ognuno che ne fa parte» e introduco la parola «archivi», domandando se loro l'hanno già sentita. Certe sì. La Ministra della Giustizia, che si è data come compito, tra gli altri, quello di raccogliere tutte le regole che esistono nella scuola, di cercare chi le ha fatte, chi ne è il capo, chi può cambiarle, ecc., interviene: «Che cos'è il regolamento, corrisponde a degli archivi?» Io sottolineo l'interesse della domanda, propongo di riportarla altrove e rilancio: «E allora, questa storia della classe?» - «Bene, se lei ama tanto custodire, che si faccia ministro dei Ricordi» lancia Noura. - «Ed esiste questo ministero dei Ricordi? (guarda girata verso di me)» - « Non ho mai sentito questo titolo, ma si può inventarlo per noi». - «No, ministro della Storia della classe» dice Serena, la cui testa non era più chinata. - «Ministro della Storia della classe e degli Archivi» dice la sua compagna Candy. «Ministro della Storia e degli Archivi», è il nome proposto da
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Fatima. Fu accolto con entusiasmo dalle interessate. Sono due, Serena e Candy, a volere questo ministero. Lo eserciteranno in due e sono nominate quel giorno al Conseil. Con loro grande felicità. Le altre hanno l'aria contenta e fanno già delle proposte: «Si potrebbero mettere anche delle foto negli archivi». In seguito questa parola «archivi» ha preso un posto importante. Tanto che quando io annotavo delle cose che loro mi dicevano e che non volevo dimenticare, l'una o l'altra mi domandava se era per i miei «archivi». Le ministre acquisivano man mano sempre più spazio, sollevavano non poche questioni che le allieve ponevano nel pieno di una lezione o a margine. Ho proposto loro di mettere questo punto, i ministeri, all'ordine del giorno di un successivo Conseil. Vi si disse: «Non abbiamo abbastanza tempo per far bene il nostro ministero, per fare delle ricerche, per avanzare delle proposte, per porre delle domande. Al Conseil questo non va perché qui si viene a dire ciò che il ministro ha fatto, ciò che propone, domanda e gli altri esprimono il loro parere. Ma bisogna prima lavorare. Si può lavorare per i ministeri nel corso di francese?» Io stento a crederci. Queste allieve non erano tra quelle che lavoravano di più nelle lezioni e al Conseil e avrebbero veramente lanciato qualsiasi proposta. Si sarebbe potuto dire: «Bof, la loro proposta è per non fare francese!» Io non ne so niente e in realtà questo mi è indifferente. Ho voluto prendere la domanda molto seriamente. L'ho annotata nei «miei archivi», come loro dicevano, e ho detto che ci avrei riflettuto e che avrei dato una risposta nel successivo Conseil. Nel Conseil seguente, ho dunque fatto una proposta: poiché ci sono tre ore di francese di seguito il mercoledì mattina, si potrebbe prendere un'ora per i ministeri, ma io ne resto responsabile con chi vuole, perché si veda ciò che si apprende di francese con questo spazio. Quel giorno sono stati istituiti i «mercoledì dei ministeri» e due «ministri del Francese», Farida e io. Per questi mercoledì dei ministeri c'erano sia le allieve che facevano una proposta di lavoro, sia io che ne preparavo per loro, sia altri che ne facevano. Tant'è che era talvolta diventato un punto dell'ordine del giorno dei Conseil. Le ministre della Storia e degli Archivi hanno cercato il senso della parola «archivi» nel diziona-
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rio e constatato che si trattava di custodire l'antico. «Ma a partire da quando ciò diventa antico? Ieri va bene, eh!?» - «Come custodire» si domandano le due ministre. E decidono di tenere un raccoglitore che conterrà, in ordine cronologico, delle tracce della vita della classe. Quali tracce? Sono loro che decidono, ma chiedono anche pareri agli altri e alle altre, capita loro di dire «Tieni, è per la storia ... ». Abbastanza regolarmente altre allieve domandano di vedere il raccoglitore preziosamente custodito da Serena. Sfogliano, leggono con piacere e commentano: «Voi dovreste aggiungere questo, no il commercio di anticaglie era dopo l'undicesimo Conseil! Ah, bene, abbiamo già fatto l'undicesimo Conseil!?» Con queste allieve, che vivono tutto il tempo nell'immediato e che buttano via allegramente il passato, avevo l'impressione che la creazione di questo ministero desse importanza al tempo, ai legami tra i fatti, e che, curiosamente, la lettura dei momenti passati portasse delle idee di novità o delle disposizioni per il futuro ... Il raccoglitore venne costruito nel corso delle settimane. Emergono dei posizionamenti, a proposito degli obiettivi e delle domande sul «fare la storia». E ben presto per far crescere i loro materiali, queste due ministre danno degli ordini: prendere delle foto di questo, di quello, che ognuna scriva le proprie impressioni a proposito della classe, scrivere in dettaglio i compiti di ogni ministro ... E tutto ciò si fa. «Ma dunque per fare la storia, si possono mettere solo i testi scritti e le foto?» dice Candy. Propongo loro di informarsi a proposito del «come si fa la storia». Chiedono al Conseil se la questione interessa e se qualcuno può aiutarle a trovare delle risposte. Sì, la questione interessa e vengono fatte diverse proposte: andare a domandare alle maestre della sesta (in riferimento a un vago ricordo della linea del tempo), di lavorare «con questo» con la Signora M. nel corso di Studio del1'Ambiente, cercare nel libro della Maison de Quartier Bonnevie, come hanno fatto. Quell'anno, capitava che si inaugurasse infine, dopo vent'anni di lotta, un campo di giochi prima occupato abusivamente, adattato con mezzi di fortuna nel corso degli anni e infine eleva-
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to alla dignità di vero parco, con la collaborazione degli abitanti, dei bambini, dei giovani e degli adulti della zona. Un'allieva aveva portato un manifesto che annunciava la sua inaugurazione. Quindi, visita a una mostra, presenza all'inaugurazione, lettura del fascicolo che delineava «la storia». La parola era detta. Dei tilt sono scattati quel giorno: «Allora la storia non parla soltanto di re, ma anche della storia della gente e persino dei bambini. Allora la storia è anche quando si è conquistato qualcosa e lo si scrive nei libri?» E allora bisogna domandare alla loro professoressa di Studio dell'Ambiente se aveva dei libri di storia con dei bambini e dei giovani. Da un lato, eravamo interessate a studiare periodi storici più lunghi, e con un nuovo interesse per il passato (tutto ridotto nell'espressione «carabattole da 14-18, per vecchi», per indicare, senza saperlo, la prima guerra mondiale), ma anche il dopo, il presente, le interessava: ecco che volevano fare una mostra della storia della classe. Ecco che Serena e Candy si domandavano se non si poteva fare un fascicolo della storia della classe, come avevano fatto per il parco di Bonnevie. Eravamo in maggio. Non siamo arrivate a fare questo fascicolo, ma il raccoglitore esisteva, ricco di giorni e di settimane. E quattro allieve (le due ministre della Storia, le due ministre delle Relazioni estere) sono andate a mostrarlo nella 6A elementare delle due scuole da cui provenivano, poi hanno riportato le reazioni dei «piccoli» in classe. Quanto alle ministre del Francese, ecco degli estratti di ciò che hanno raccolto per il ministero della Storia e degli Archivi della classe: organizzazione cronologica di un raccoglitore con composizione di titoli che indichino il contenuto di diversi momenti (uso di frasi nominali), formulazione scritta di questioni preparatorie a un'inchiesta tra le allieve a proposito dei loro ministeri (frasi interrogative), lettura del fascicolo a proposito della storia del parco Bonnevie, apprendimento di ventitré parole nuove, scrittura di una lettera ai professori di 6A elementare, costruzione di tavole che permettano di rendere conto del lavoro dei ministeri, con titoli/criteri per ogni colonna. Edito in « Traccs», n. 166, giugno 2004.
Tenere (attraverso) i muri
Luoghi, limiti, legge, linguaggio. Queste sono le quattro L della Pedagogia Istituzionale. Portatrice di molto di più del solo Conseil per fare democrazia. Nel cavo delle quattro L messe a forma di crogiolo può nascere, scaturide del desiderio. Certo, a condizione di annodarlo con cura. Molti allievi agitati in permanenza, senza punti di riferimento né ancoraggi, al di fuori di se stessi, mi hanno insegnato a costruire questi annodamenti, nel luogo della scuola, in cui può essere fissata con maggiore intensità l'iscrizione di ognuno: la classe. In una classe di r A, nella secondaria, all'inizio dell'anno, tre enormi poster di vedette - idoli sono stati appesi con le puntine ai muri. Quando arrivo quel giorno per la mia lezione di francese, una grande ribellione scuote la classe: «Un idiota di prof ha tolto i nostri poster e ha detto che è il regolamento: niente poster in classe». Avevo già istituito il Conseil, ma non aveva ancora veramente giocato il suo ruolo e gli allievi lo prendevano sul serio solo a metà. In mezzo ai «scuola di merda ... qui non si può neanche mettere nulla sui muri ... », ho potuto ricordare che era possibile parlare di questo tema al Conseil. «Al Conseil» cioè, in un momento preciso, regolare, ritualizzato, con questa disposizione della classe e questo abbozzo: «dovere di non nuocere» e «diritto di essere ascoltato». È dunque veramente un luogo e un altro luogo rispetto al luogo della lezione, anche se il tutto si svolge nello stesso locale. «Eh bene, d'accordo ... andiamo a vedere ciò che si vedrà in questo Conseil! » E la lezione inizia, piuttosto calma. «Il Conseil dei poster». Sotto queste parole scritte sulla lavagna da un'allieva, è indicato subito il solo punto messo all'ordì-
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ne del giorno. Alla domanda ritualmente posta per ogni punto dell'ordine del giorno di un Conseil: «Chi ha qualcosa da dire?» Esplode qui un putiferio di urla! Va da: «Chi ha fatto questo regolamento di merda?» a «La vedranno ... gli romperemo le scatole!» passando per «E perché i prof loro sì che possono mettere le loro cose sul muro?» e «Faccia qualcosa lei che è la titolare, se no a che cosa serve, lei?» Tranquillizzare ma senza annientare, soprattutto. Rimetto dei limiti ricordando le nostre due leggi del Conseil, l'interesse della segreteria-murale per «vedere dove si è» e della segreteria-quaderno «per non perdere la vostra importante parola». L'agitazione si calma un po' e io propongo un tempo di silenzio corrispondente a una mezza-clessidra per raccogliere nella mente ciò che ciascuno vuol dire e fare, poi ricordo la richiesta di parola che giuro di dare a ognuno a suo turno. Hanno sempre così tanta paura che la loro parola non sia detta e intesa che devo rassicurare con forza. Le proposte vertono innanzi tutto vivamente sul regolamento. Viene fatta la richiesta di andare a vedere ciò che si dice rispetto a dei poster sul muro. Constatazione: il regolamento non dice nulla! Altro putiferio. «Ma allora che cosa racconta la Signora X?» Eccomi imbarazzata. Non lasciare indebolire la collega. Non lasciare indebolire le allieve. Propongo di dire ciò che so: l'anno scorso degli allievi avevano affisso dei poster in classe e vi aggiungevano regolarmente peni, peli, e seni. Molte scene attorno a questi poster avevano impedito il normale svolgimento delle lezioni: gli allievi si spostavano per andare ad abbracciare il loro idolo, altri litigavano a colpi di strappi e di furti di questi poster. Risultato, alcuni insegnanti si sono lamentati e hanno deciso a quel punto che da quel momento in poi i poster sarebbero stati proibiti. «Chi fa il regolamento? Perché questo non è scritto? Perché noi non possiamo: non abbiamo strappato niente, non abbiamo sporcato, né rubato!» Domando chi avesse delle proposte per aiutare a trovare delle risposte a queste questioni interessanti. «Incontrare il preside per parlarne», lancia una allieva. Altre approvano, alcune sono incredule: «Non vorrà ascoltare nulla ... noi non siamo dei prof». Ma sì... «se vede che noi controlliamo il regolamento, sarà contento!» Una prima responsabilità è presa
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in questa classe ed è veramente un avvenimento; tre allieve si istituiscono come «sorveglianti del regolamento» e vogliono preparare un incontro con il preside! Al Conseil seguente, non è più l'agitazione sfrenata, ma un'eccitazione «per riuscire». A far che cosa? «A poter mettere i nostri poster!» Le «sorveglianti del regolamento» spiegano ciò che andranno a dire: proporre di mettere dei poster su una parte dei muri e di scrivere nel regolamento che i poster sono autorizzati se ci sono delle sorveglianti. E se non vuole? Diremo che siamo le sorveglianti del regolamento nella classe. E se non vi crede? Diremo che ne parleremo al Conseil con la titolare. Ecco che il Conseil è investito di un potere e che la titolare gli serve! Tutto ciò per dei poster? Ebbene, sì! Intuivo qui una sorta di pre-testo e di inizio di testo, un inizio d'iscrizione in questo luogo investito come «nostro». Mi sembrava che una appropriazione organizzata del luogo potesse essere un passo su un cammino di appropriazione di saperi. In fatto di «testo», le «sorveglianti del regolamento» sono tornate in classe molto orgogliose di aver ottenuto innanzi tutto un incontro, in seguito l'affissione dei poster su una parte dei muri e per prova. Per l'iscrizione nel regolamento, si vedrà con l'uso. La soddisfazione è ancora mitigata: felicità e diffidenza. «Sì, è questo e alla minima difficoltà, li vogliono togliere ... e chi lo va a dire a tutti i prof?» In seguito spuntano desideri e invenzioni: «Si deve solo fare un piano dei muri. Si devono solo fare dei bei muri!» Domando chi qui si chiama «Onaka» 1 E il tilt cade2, con mia sorpresa ... , ma è certo sulla base dell'esperienza fatta: «Occorrono delle responsabili». Sul filo della discussione sul sì o no a queste responsabili e al loro lavoro, una decisione è presa: 1 Onaka è una parola compasta da «on-a-qu'à» (si deve). Per questo l'autrice domanda chi sia questo «si deve», on-n'a-qu'à (n. d. c.). 2 Le tilt tombe: si mescolano qui due espressioni, l'euro cade (come quando la caduta della moneta nella macchinetta fa si che si riceva della cioccolata o altro) e questo fa tilt quando si vince alle slot macbines. È per dire: hanno del tutto capito! (n. d c.).
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due responsabili dei muri. S'impegnano a fare un piano del loro lavoro. Una volta adottato il piano, è a loro che si dovrà domandare dove si può affiggere che cosa e sono loro che aggiorneranno ciò che può, deve essere aggiunto, tolto. «E i prof, dovranno domandare anche loro?» Tutti sono d'accordo di sì. Per non dover andar troppo per le lunghe, le responsabili domandano se possono fare questo piano durante la mia lezione di francese. lo accetto, per un'ora in cui varierò i lavori. Vi vedo un'occasione di presa di distanza dal reale, di rappresentazione dello spazio e di ricerca di parole per nominare i diversi oggetti da affiggere. Piccoli accessi all'astrazione? Bella sorpresa per me, il piano viene fatto in funzione di un elenco di tutto ciò che sarà da affiggere, viene elaborato rapidamente secondo il parere richiesto alle altre. Le allieve prendono delle misure, poi valutano gli spazi facendo delle scelte di proporzioni: suggerisco che tentino di tradurne le percentuali con il prof di matematica. Quando arrivano col loro piano al Conseil, la mia sorpresa è aumentata: il 10% della superficie dei muri è riservata ai poster delle vedette adorate! Nessuno fiata. Tutti aspettano il seguito. L'altro 90% viene ripartito in lavori delle allieve (in generale sono molto orgogliose dei loro disegni ma sarà forse l' occasione di affiggere anche altre cose), elenco delle responsabili nella classe, lista delle decisioni prese al Conseil, calendario dei lavori a casa (date le recriminazioni sui prof che danno tutti dei lavori per lo stesso giorno), angolo attualità, carte del mondo, informazioni dei prof, belle frasi e un posto vuoto per qualcosa che non si è pensato. Il piano è adottato, ma arrivano anche delle domande: - Come si fa per i litigi sui poster (i tuoi o i miei)? - Che si fa se qualcuno rovina dei manifesti. Il preside dopo non lo vorrà più? - E tutti i prof saranno d'accordo? Si cerca come fare. Una nuova responsabilità è istituita: le porta-parola, «quelle che portano la parola del Conseil a tutti quelli che entrano in classe e non sanno» (sic). Loro informeranno i professori. In seguito è decisa una modalità per la successione dei poster: questa sarà tirata a sorte. Qualcuno propone di
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scrivere le leggi dei muri su un manifesto. Si decide che chi rovina paga un pegno che sarà deciso al Conseil. E infine, si ricorda che se si vuole cambiare qualche cosa, la si propone al Conseil. Per tutto l'anno, sono state le leggi dei muri e la responsabilità «muri» ad essere le più investite. Nessun manifesto è mai stato rovinato. Le diverse modalità di occupazione dello spazio e i necessari aggiustamenti sono stati sempre discussi. D'altronde, ciò che si affiggeva rendeva ben conto della vita di questa classe e le allieve si sono poco a poco messe a leggere sui muri: «Ah sì, sono io la segretaria del prossimo Conseil ... ah sì, è per il tal giorno questo lavoro ... ah sì, è il tale giorno il prossimo Conseil». I muri sono diventati oggetto di piacere, memoria e oggetto di orgoglio ma anche limite simbolico di tutto ciò che si svolgeva. In questa classe difficile, diverse tempeste, trasgressioni e comportamenti selvaggi ci hanno ancora inondato nel quotidiano sempre da ridisegnare, ma noi abbiamo veramente vissuto in modo tangibile che l'occupazione dei muri e quello che se ne diceva, a ogni Conseil, permetteva degli ancoraggi, fissava le une e le altre. Questo vissuto e il posto che gli è dato possono condurre a dei punti di teorizzazione utili. Mi conviene utilizzare quelli che un'altra esperta in pedagogia istituzionale ha elaborato: «Alterati, indicizzati dal linguaggio, i luoghi e gli oggetti diventano stazioni, pannelli indicatori, semafori rossi o ancoraggi ... Gli spostamenti diventano percorsi. Insieme a una significazione, assumono un senso, sono vettorizzati. In più, certi luoghi, certi percorsi sembrano privilegiati, e spesso senza ragione apparente. E in questo quadro, in relazione con il resto che "l'anima degli oggetti" si situa, che gli oggetti acquisiscono un'esistenza sociale ... »3 E io aggiungerei: «Che dei soggetti sorgono!» Edito in«Traccs», n. 167, ottobre 2004.
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Réné Lafitte, Une journée dans une classe coopérative.
(S)legare le lingue
In una classe di 1 Accueil concentrazione di tutti i tipi di percorsi scolastici e altri. E diciannove allievi! All'inizio mi saltava agli occhi il gran contrasto: il numero di lingue parlate e scritte (o no), la scolarità elementare dalla 4A alla 6A, o la mancanza completa della scolarità anteriore, le età scaglionate da dodici a sedici anni. Ho prima cercato, in questo gruppo, un punto comune, come un diritto alla somiglianza, un terreno di identità comune ... Mi basavo sulle linee fondamentali del sociologo José Bengoa per il quale fare educazione popolare significa lavorare (con, per) l'identità, la partecipazione, gli apprendimenti, il cambiamento sociale. Sulla base dei metodi emancipativi di Paolo Freire, per il quale anche l'alfabetizzazione si attua, tra l'altro, con parole fondamentali per le persone, io ho scelto la parola «quartiere». Da una parte perché il vissuto che ne arrivava in classe era forte e, d'altra parte, perché due fatti si erano evidenziati: - una domanda pressante di un'allieva: «Come trovare una casa in questo quartiere di merda?» - un invito della Maison de Quartier: partecipare alla pittura di disegni sui muri che circondano un terreno abusivamente occupato da giovani e bambini per farne un campo di giochi. Sono partita da qui piuttosto che da un oggetto di apprendimento astratto. Mi sono anche trovata un'alleata: una collega professoressa di disegno. Tra noi due, avevamo quattordici ore in questa classe (francese, disegno, studio dell'ambiente). Una serie di fotografie di case, di vie, di negozi, di piazze, prese nel quartiere e altrove (altri quartieri, altri paesi) sono dispiegate tutto intorno alla classe. Un grande foglio è fissato al muro. Questo sarà il nostro affresco. Si tratta di andare a scriverA
(S)LECARE LE LINGUE
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ci le parole che capitano, nelle differenti lingue (arabo, siciliano, italiano, berbero, francese). Quelle che non scrivono ancora dettano alle altre. Poi, vengono costituiti quattro sotto-gruppi. Sono composti da un'allieva che padroneggia il francese orale, da un'allieva che non lo conosce, da un'interprete nella sua lingua, da un capo-équipe, da una segretaria. Questi sotto-gruppi ricevono le medesime foto. Devono classificarle. Lo scopo è quello di far emergere delle rappresentazioni, di segnalare delle situazioni conosciute o no, di nominarle, di manipolare ciò che è familiare e ciò che è diverso, di scrivere per fissare, di paragonare, di categorizzare. Sulla base dell'affresco iniziale e delle categorie stabilite attraverso questa classificazione, ogni gruppo compone per un altro gruppo due domande per le quali le altre dovranno cercare delle risposte. Ci sono otto domande: - Che cosa volete dipingere sui muri del piazzale? - Perché ci sono delle vie sporche e delle vie pulite? - Perché non possiamo andare ad abitare nelle grandi case? (grattacieli, alloggi sociali) - Si può trovare una casa per Catena? - È vero che Molenbeek è sporco da quando molti marocchini ci abitano? E prima, com'era qui? - Perché le case sono grigie ed i tetti non sono piatti? - Cos'è una casa di quartiere? - Perché si domanda a noi di dipingere i muri del piazzale? Ricompongo allora i gruppi in funzione delle scelte fatte dalle allieve, delle questioni sulle quali vogliono lavorare e in funzione dei livelli e dei compiti: almeno un'allieva che non parla francese, un'interprete, una segretaria che ha per missione di annotare ciò che è difficile in francese nel gruppo e un capo-équipe. Il compito è assegnato: stabilire un quadro che contenga un elenco di ciò che si può fare, di chi o di che cosa si ha bisogno, chi porta qualcosa o a chi si domanda di portare che cosa. Il tutto come risposta e ricerca sulle otto domande scelte (due per gruppo). Per quanto concerne le note a proposito del «difficile in francese», le segretarie hanno segnalato come esempio: - Ci sono quelle che non conoscono le lettere, allora non sanno leggere.
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- Scrivere una parola, va bene, ma scrivere una frase è dura: dopo non so più leggere quello che ho scritto come lo sentivo. - Si chiede una riunione di francese. Questa prima tappa è servita a parlare dei luoghi in francese. lo volevo che noi ne fossimo tutte coscienti, le allieve e io, al fine di sostenere l'eterogeneità insieme. E questo a partire da un argomento vivo e unificante piuttosto che con dei testi individuali di materie (tutti inadatti!) di cui sarei stata la sola lettrice e testimone. Bizzarra questa richiesta di «riunione» e tuttavia le allieve appoggiano la proposta di uno dei gruppi. Insediamo dunque la prima «riunione di francese» in gran pompa. Le allieve vi fanno delle proposte: lavorare in piccoli gruppi che fanno delle cose differenti, insegnare a leggere alle allieve analfabete (due allieve si propongono), fare delle riunioni ogni quindici giorni per vedere ogni volta ciò che si deve fare, scrivere ciò che si sa fare, fare qualche cosa perché non ci si vergogni sempre (di essere debiti), mescolare il francese con il disegno e Io studio dell'ambiente ecc. A mano a mano in base a discussioni, traduzioni, chiarimenti, domande, spiegazioni, vengono prese delle decisioni in termini di azioni concrete: - Le due allieve analfabete lavoreranno alternativamente con una delle due allieve che si sono proposte, sotto la mia supervisione e «con le parole loro e della classe». - Le allieve lettrici cercheranno delle risposte alle domande di partenza in libri illustrati, come Molenbeek nelle cartoline antiche, un libro sul legame clima-habitat, il giornale della Maison de Quartier che spieghi l'azione «muri da dipingere». Saranno loro a scegliere ciò che mostreranno alle altre e scriveranno piccoli testi su quello che hanno compreso (testi che potranno essere pubblicati nel giornale di quartiere se lo vogliono). - Due allieve prepareranno delle domande da porre ad un membro permanente dell' Union des Locataires che verrà in classe. Per ogni attività di scrittura-lettura, tutte quelle che sanno scrivere annotano su un manifesto le difficoltà incontrate. In ogni modo si utilizzerà il dizionario «Eureka» dopo aver lavorato sul
(S)LF.GARF. LF. LINGUE
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modo del suo uso. Si costruiranno anche delle case di suoni che serviranno tanto a quelle che imparano a leggere quanto a quelle che hanno imparato, ma che padroneggiano poco la lingua. - Il mercoledì si faranno dei laboratori disegno/francese in presenza mia e della mia collega, professoressa di disegno. Ciò, per elaborare al tempo stesso i progetti dei disegni sui muri, per nominare ciò che si fa e conservarne le tracce in un «carnet d'artisti», e per mimare o recitare scene di classe e di strada che potranno ispirare disegni e testi. Mi sembrava importante far prendere coscienza della necessità di un codice comune per scrivere e decifrare la lingua, facendo così seguito a «io non so rileggere ciò che ho scritto come lo sentivo», e anche a «ma se si scrive come si pensa va bene?». Ci siamo dunque immerse in un atelier Queneau, abbiamo lavorato con membri del Gfen 1, rivisitato però per questa classe. Innanzi tutto, si lascia la classe. Si va «sempre in giro» a gruppi di due per quarantacinque minuti e se ne riportano delle parole sentite e/o viste e anche ogni altra traccia che si vuole conservare (per esempio, su un foglio posato su muri, asperità, lastre al suolo, si passa a matita grassa e si riporta la traccia). Al ritorno, i gruppi di due scrivono e illustrano una «storia di strada» per la quale attingono tra le parole raccolte. Si leggono in seguito le storie (talvolta di due righe, talvolta in arabo scritto da un'allieva che padroneggia questa lingua scritta e che può così valorizzarla). L'indomani, raccolgo tutte le storie battute a macchina e scritte tali e quali, cioè spesso molto foneticamente, e vi mescolo un testo di Queneau scritto piuttosto foneticamente anch'esso (cosa da non vergognarsene se anche un autore conosciuto come lui si permette di farlo). Si osserva, infatti, come Queneau «scrivecomeparla» e come fanno le allieve. Per alcuni dei testi delle allieve si applicano le modalità di Queneau e le modalità delle allieve. Dopo aver osservato le produzioni, si sottolinea che c'è una difficoltà a leggere, che ognuna non trascrive un certo suono ugua1 Groupe Français d'Éducation nouvelle, via Odette e Michel Neumeyer. Attualmente, una descrizione di questo atelier si trova nel loro magnifico libro Animer un atelier d'écriture. Faire de l'écriture un bien partagé, Esf. Didattica del francese, 2003.
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IN CLASSE COME AL FRONTE
le alla stessa maniera di un'altra, che ciò cambia in ogni momento (per esempio, il modo di scrivere il suono «è»). Si nota anche che alcuni passaggi sono molto belli da leggere perché «è come nella vita». Da qui, commenti e scoperte a proposito di vivere, parlare, scrivere, perché, come ... Ma una questione: come mettersi d'accordo perché, per esempio, si scrive il suono «è» nello stesso modo, sia per chaise (sedia) che per mère (madre)? Mostro dei libri di grammatica, ortografia, l'alfabeto fonetico e racconto dei brani di storia a proposito della scrittura, dell'origine e della fissazione della lingua francese e anche del francese in Marocco. Per certe allieve risuona un campanello formidabile: «Se è per questo l'ortografia, allora è super!» L'idea di codice, di storia e di calligrafia è colta. Ho l'impressione che si sia costruito un senso per un seguito di apprendimenti, senza cadere nella sottolineatura di tutte le mancanze, ma appoggiandoci su ciò che è là. Per cominciare ...
Edito in « T raccs», n. 168, dicembre 2004.
Appendice
Anissa 1
Anissa ha 14 anni. In classe, grida, morde, picchia, ti fucila con lo sguardo e la voce, strappa i cartelloni appesi in classe, li sfregia, li riempie di sputi, maltratta le compagne. «Pericolosa» per gli insegnanti, dicono che infanga e disonora la classe: «Non bisogna assolutamente fargliene passare una. Dobbiamo domarla! Mostrarle che non abbiamo nessuna paura!» lo, però, avevo paura di lei! Non sapevo mai come avrebbe reagito alle mie proposte di lavoro, agli sguardi, agli atti, alle parole degli uni e degli altri. Sentendola fragile, contro le insistenze e le pressioni dei colleghi che premevano per dirmi come dovevo fare, non potevo fare altrimenti che andare verso di lei. Con molto tatto. E dolcezza.
Un nemico, in classe Quel giorno Maria aveva preso la sedia di Anissa e aveva messo in disordine tutto il suo materiale. Anissa allora scoppia in una collera terribile, inchioda Maria con le spalle al muro, la graffia in volto e ... estrae un coltello. Maria allora si mette a piangere senza dir parola. lo stavo nei paraggi. Mi avvicino e, con calma, ma con voce ferma, le dico: «Génie, questa sedia è tua e di nessun altro», poi con una voce più sommessa, «ma il coltello, di chi è?» 1 Conferen7.a "L'arte impossibile dell'insegnare" tenuta il 22 settembre 2007 presso l'Hotel La Pace di Pisa. L'Antenna di Pisa del Campo freudiano inaugura con questa conferen1.a il laboratorio SOS - Insegnanti, progetto di Virginio Baio assieme a Silvia Bernardini e Silvia 8o1.Zi, allieve dell'Istituto freudiano per la Clinica, la Terapia e la Scien1.a (n. d. c.).
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IN CLASSE COME AL FRONTE
Anissa si gira di scatto e dice con forza: «Di mio fratello!». Rimette il coltello in tasca e ride visibilmente soddisfatta vomitando addosso a Maria: «Puttana, non sai fare altro che piangere, tu!»
Una classe partner Rivolta alla classe, ho chiesto a tutte di verificare se ogni sedia era in condizioni per poterci sedere. La classe diventava così soggetto, anch'essa interlocutrice e non giudice o arbitro. Maria, ancora in lacrime, si lamenta e dice che ne ha piene le tasche della sua sedia, perché i chiodi che fuoriescono, le strappano le calze o i pantaloni. Interrompo bruscamente la lezione e, con voce forte e decisa, incomincio a imprecare perché non è possibile che non ci sia una, dico una, sedia conveniente per ogni ragazza. Una allieva propone allora di mettere questo punto all'ordine del giorno del Consiglio della classe: «riparare la classe». Nell'attesa, propongo per i 10 minuti che restano del corso, di andare due a due, a cercare negli altri locali sedie convenienti e non utilizzate. La sera stessa, c'era una «vera» sedia per ogni allieva della classe e questo mi sembrava vitale per il lavoro dell'indomani. Malgrado la mia paura e la mia tentazione di affrontare direttamente l'alterco tra Maria e Anissa, questa deviazione per le sedie mi sembrava aver avuto senso, ma tuttavia non volevo lasciare tutto questo in sospeso.
Riparare le sedie seguendo però una traccia Maria piangeva facilmente, è vero. Si mostrava fragile. Aveva spesso l'aria triste. Un giorno mi aveva raccontato che da piccola aveva vissuto per due anni in Belgio, poi per altri due anni in Sicilia, poi era rientrata in Belgio e non sapeva più leggere. Non sapeva, non sapeva più leggere. Se ne vergognava. Aveva facilmente paura degli altri. Proprio per questo, senza dubbio, aveva bisogno di una «buona sedia».
APPENDICE. ANISSA
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Alla fine della giornata, la classe si svuota. Anissa scompare rapidamente. Maria invece è ancora lì che si attarda a raccogliere lentamente le sue cose. Le domando se ha male alla guancia, se vuole che le metta un po' di pomata. Sì. Con la crema e con le dita sulla guancia, si mette a snocciolare una serie di parole e fra le altre «non è colpa mia se piango facilmente ... e mi prendono sempre in giro!» Maria se ne va più serena. Non sembra neppure arrabbiata con Anissa. Ma mi dice: «Lei le dica che non è colpa mia se piango» come se fosse più importante dei graffi e del coltello. Mi interessa prendere tutto questo seriamente, sedie, graffi, coltello, le parole di Maria ... per essere alla scuola di ciascuna.
Con la banda nella metro Preoccupata per i graffi, il coltello e anche per la minaccia che incombeva su Anissa di una esclusione definitiva, mi metto alla sua ricerca. Sono le cinque della sera. Sapevo che prendeva la metro e restava spesso ad attardarsi nei corridoi della stazione vicino alla scuola. Ci vado. La vedo tutta in fermento, circondata da cinque ragazzotti, palestrati e guappi che lei imita! Non sono certo a mio agio! Mi avvicino in punta di piedi. «Scusa se ti disturbo. È da un po' che ti cerco perché ho qualcosa di importante da dirti». Anissa lascia i compagni e mi tira in disparte come se stessimo per combinare un affare. Le domando: «Sai cosa vuol dire Génie»? Beh, è il nome che io voglio ... Ma è molto di più di questo! Le spiego, che i geni sono delle persone che sanno e che fanno delle cose straordinarie. Anissa stenta a crederci: «Ah sì? Mi piace questo nome!» Lei si addolcisce. Un tenero luccichìo appare allora nei suoi occhi. Questo sguardo, questo sorriso e questo tatto nei miei confronti non glielo avevo ancora visto. Le domando se posso dirle qualcosa che sarebbe rimasto «tra noi». Si avvicina e mi porge l'orecchio. «Si tratta di Maria. Piange spesso. Ha un problema grosso, anzi, penso persino grave».
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IN Cl.ASSE COME AL FRONTE
Risposta: «Dov'è l'Italia? È lontano?» E poi, in fretta: «Anch'io ho un mio "tra noi", ma non ora, non ho tempo, devo rientrare altrimenti mio padre mi picchia». - Dove abiti? - Chicago. - Se vuoi, una volta ci vengo ... per il tuo «tra noi». - Vieni a Chicago? Tu!? Ma tutti hanno paura di venirci. Laggiù sono tutti delinquenti. E non hai paura che ti rubino la borsetta? Ma ti faranno un occhio blu ... Ma tu, tu hai già gli occhi blu! Mi piacerebbe tanto aver degli occhi blu. L'indomani Anissa aveva ripreso la sua maschera dura, ma aveva velocemente infilato nel mio astuccio un foglietto di carta con su scritto il suo indirizzo: «Anissa-Génie, via ... » Grazie a lei stavo andando a scuola del quartiere, ghetto malfamato di Bruxelles.
In piena segregazione Quando sono andata da lei, Anissa, accogliendomi sulla soglia, la prima cosa che mi ha detto è: «Non avrei mai creduto che lei sarebbe venuta». Mi stava dando del Lei! 2 Mi ha fatto poi salire, mi ha presentato sua madre, sua sorella, con una delicatezza mai vista prima a scuola. Subito mi ha mostrato le foto che tappezzavano i muri della stanza: tutte foto di un giovanotto. «È mio fratello. È stato ucciso in un parco». Sua madre racconta, come può, cosa è successo, fra le lacrime. Sottovoce, Anissa mi dice: «Questo è il mio "tra noi". E devo sempre aver con me il suo coltello per difendermi». Tutti infamiglia parlano con tristezza di Chicago, della polizia che non ha fatto il suo dovere, dell'abitazione sociale che non va, del Marocco ... Era importante per me essere a scuola della famiglia. 2 In questa scuola, quando i ragazzi più difficili danno del tu agli insegnanti è per dire, come l'ha detto una delle allieve, un «voi non siete niente e certamente non più di mc». Nel pieno della rissa e dei bracci di ferro, i «tu» sono come altrettanti sputi (d'altronde ci sono veri sputi). Stranamente, qui, è un «lei» che manifesta una più grande prossimità ... rispettosa (n. d. c.).
APPENDICE. ANISSA
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Nelle trincee In classe, attorniata dalle sue foto di Rasta e della parola GéniE (lei aveva aggiunto una grande E!), Anissa ha iniziato a comportarsi con un po' più di calma. Ho proposto un lavoro sui rasta e più in là, un altro sull'Italia. Lei ci si è molto interessata, ha letto delle riviste non facili a proposito di Bob Marley. Ci sono stati ancora altri momenti violenti. Un educatore ha persino chiesto per lei l'esclusione di una settimana per racket nei confronti di bambini piccoli, proprio durante gli esami ... Non volevo che questa esclusione l'annientasse definitivamente e demolisse gli inizi di un nuovo cammino. Mi son battuta e son riuscita ad ottenere l'accordo dei colleghi e dei compiti per gli esami. Ho dato appuntamento, ogni giorno, dalle 16 alle 18 ad Anissa e alla sua complice nel racket. Esse ricevevano le materie dell'indomani e facevano gli esami del giorno. Sono state promosse. Dopo aver visto i risultati, Anissa m'ha detto «Abbiamo fatto la guerra»! Una guerra che non è terminata ... Durante le vacanze lei e la sua compagna hanno dovuto preparare, per riparare il racket, una attività per i bambini dell'asilo. Anissa ha raccontato loro una storia con i buoni e i cattivi geni. Lei ha concluso l'attività felicissima e ha detto che avrebbe voluto «fare la professoressa» ... Come se anche lei avesse voluto seguire una traccia. Lei senza dubbio non sa che nel voler occupare il posto di professore, anche lei vuol scendere nelle trincee. Lei ha colto un'altra versione di prof, non quella del sapere, ma quella di un seguire alla traccia e di una presenza al fronte. Il suo proprio fronte, non si trovava forse sulla linea di una guerra di amore? Forse partendo da quello che agli inizi lei aveva preso tra le sue mani, in modo tagliente e frontale, l'amore di suo fratello?
Maestro-desiderio
Controllare tutto, prevedere tutto, anticipare tutto, dominare tutto compresa la mia certezza che è così che la cosa dev'essere e lavorare per riuscirci (ma cos'è questo esattamente? Avere 5/10?) Controllare tutto, anticipare tutto, dominare tutto, prevedere tutto, comprese le reazioni che avranno X o Y, ciò che penseranno, faranno, sbaglieranno? Controllare tutto, prevedere tutto, dominare tutto, anticipare tutto compreso ciò che penseranno di me, mi diranno, mi faranno. Ma perché questo bisogno, questa voglia, questo modo d'essere e di fare? È per rassicurarmi, per dirmi che sono una buona insegnante, se penso a tutto e prevedo tutto? È perché ho paura d'avere il casino in classe? È perché ho paura dello sguardo su di me: sguardo degli allievi, sguardo dei colleghi, sguardo dell'autorità, sguardo di coloro che ritengo modelli adeguati? Oppure la voglia di dominare scaturisce forse anche da motivi che risalgono a ben più lontano, motivi impressi in me come altrettanti segni appena decifrati, perché spesso inconsci. Se cerco di leggere, mi ricordo innanzi tutto di altri campi di indagine: l'onnipotenza come momento d'infanzia; il bambino ci crede. Me ne sono rimaste certamente delle tracce. Il dominio come atteggiamento vicino a certi atteggiamenti scientifici: la quasi certezza che tutto si possa osservare, tutto si possa analizzare, tutto si possa spiegare razionalmente mentre altrove un altro dominatore esiste e agisce spesso a mia insaputa: volevo lasciarli fare questi allievi o questi adulti in formazione e tuttavia intervengo ... Qualcosa mi spinge, venuto da dove?
MAESTRO-DF.SIDERIO
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Qualcosa dell'ordine dell'inconscio che potrei interrogare se volessi. È la voglia di esistere, di impormi? È ancora la paura? Questa volta la paura di perdere un lato della mia identità di maestra, insegnante, formatrice ... Per un po' di tempo, per paura di assumere questo ruolo, aspettavo, ascoltavo. Timidamente a rischio di cancellarmi. Poi ho creduto di dover fare come avevo visto fare: cercare di dominare al massimo. Dominare per essere nell'ordine della scuola e delle attese. lo, che sono disordinata e bohème per natura o per cultura, ho creduto che là, a scuola, bisognava che io tenessi in ordine ogni cosa, ma perché e agli ordini di chi? Ancora scettica e non sentendo ciò come il vero motore per me ... E poi mi sono resa conto che ciò che consideravo come un handicap poteva essere invece una fortuna: essere in attesa, pronta ad essere sorpresa, anche se un po' tremante perché ciò che muove l'altro è imprevedibile. Essere in attesa attiva. Mettere in campo dei tempi, dei luoghi in cui raccogliere le acque che scorrono. Strutturarle. Ma all'interno di questi luoghi e di questi tempi, non prevedere troppo il tenore di queste acque. Lasciarmi sorprendere, lasciarmi prendere decidendendo che soltanto incompleta posso essere insegnante. Una maestra incompleta, una «mezza-maestra» affinché la follia delle certezze si faccia da parte e ognuno possa mettere nei suoi spazi di apprendimento ciò che lo fa diventare - lui - maestro. Questo io non lo so. lo non ne saprò mai nulla, perché è il nostro «sapere non sapere» ad essere il nostro maestro. Posso stare all'ascolto di ogni sorta di significante che solleticherà gli uni e gli altri, posso mettere in campo con loro degli strumenti per il desiderio, ma è tutto. E a parte ciò, non cedere sul mio desiderio. Io non posso fare nient'altro. Il resto è nelle mani di ogni altro, a sua insaputa. Gennaio 2008
Postfazione Al fronte, le mani vuote, piene di ... di Virginio Baio
In lavanderia, un piccolo Rachid, dalla cartella strapazzata, «bussa alla porta», perché gli si apra come soggetto. Che bussi per questo, non lo sa bene nemmeno lui, non sa con che cosa parla. Tuttavia bussa ... le lavatrici, la sua cartella, sua sorella. Lontano, un'insegnante fa il bucato. In lavanderia, non è insegnante. Testimone, sceglie di farsi destinataria e partner di mamme di bambini, di un Rachid sconosciuto, dei suoi scoppi. Evidentemente, la cartella del ragazzetto, il suo raccoglitore non sono oro per lui. L'insegnante della lavanderia li metterà nella vetrina dell'Altro, li farà conoscere (alla mamma, per esempio), ne farà una metafora preziosa di Rachid, una parte di se stesso. Gioca sull'equivoco che metterà Rachid al lavoro: «Non è troppo pesante la tua cartella?» Pesantezza di ordine fisico? Pesantezza di ordine morale? Di un tesoro nascosto? Rachid è sorpreso. L'insegnante non procede in linea retta: la strada che prende per parlare a Rachid e perché questi la scelga come partner di un momento, fa delle deviazioni, ha dei tornanti, che passano per la sorella, per la mamma e ... sorpresa: è Rachid che risponde!
Un lapsus, segno di un desiderio In lavanderia, per lavare la sua biancheria, quest'insegnante dimentica di mettere del sapone nella lavatrice. Talvolta, le classi girano a secco, senza sapone. A secco della dimensione del desiderio dell'insegnante e della dimensione del soggetto bambino. E talvolta, come nel caso di questa insegnante, attenta alle condi-
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zioni dell'insegnamento, c'è il sapone che lava e dà corpo, profumo, delicatezza all'abito del bambino. Cosa sappiamo? Noi sappiamo e al tempo stesso non sappiamo, si dice l'insegnante. Per sapere sceglie di munirsi anche di quel sapere particolare, che è il «sapere non sapere» in anticipo «sul» bambino. Non dimentica che, preliminarmente, deve «saper inventare delle condizioni» per far posto al soggetto che è nel bambino, per condurlo dal suo essere «fuori circuito» verso un lungo circuito all'interno del quale possa prendere, sorprendere e lasciar(si) sorprendere. Questa insegnante ha saputo e sa, senza saperlo, costruire nuovi campi (classi, consigli, équipe) che si fondono e si orientano. Ma ha saputo e sa fondere questi campi orientati a partire dalle impasses. Questa insegnante tenta di farlo a più riprese. È anche diventata la sua battaglia. Per condurla nella resistenza, si colloca tra la legge della scuola - trasmettere un sapere - e la legge della deviazione obbligatoria che «ogni soggetto nel bambino» impone all'insegnante. Così si costruisce la resistenza di questa insegnante: sovvertire la legge del pedagogico ( «io devo assolutamente trasmettere tale sapere») con la legge del desiderio, la legge della dimensione del soggetto.
Fare di un'aggressione un buon incontro Per far nascere un «sì» al sapere, una reale adesione del soggetto che impara, l'insegnante non può che tentare di entrare nella lingua degli allievi, quella che si esprime in parole, ma anche in gesti, in passaggi all'atto. Prende dunque sul serio tutto ciò che accade. «Prendere sul serio», per questa insegnante, non è accontentarsi di tradurre la cosa in parole, ma andare verso il soggetto che si esprime e lasciarsene marcare. Il bianchetto è lanciato nella classe. È un vero disastro, la classe è tutta sporca. L'insegnante potrebbe accontentarsi di domandare chi l'ha lanciato, fermandosi allora alla sola traduzione del gesto in parole. Avvia invece un cammino che ha degli effetti ulteriori. In modo sorprendente, li spiazza con questa domanda: «Mi chiedo che cosa vorreste cancellare ... ». È un modo di andare
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verso gli allievi che rilancia e permette al loro desiderio di fluire, piuttosto che di scivolar via ... Di prendere forma. Questo «andare verso» tiene conto del bianchetto, lo mette al centro del dialogo come una lettera che le è indirizzata e attraverso la quale è lei stessa a porsi una questione. L'insegnante non interpreta. Ma si presenta divisa, messa al lavoro da questo bianchetto che per un momento la interroga. È sotto esame. È lei stessa stupita dalla portata della sua domanda quando due giorni dopo gli allievi, che hanno colto bene sia la domanda che la parola «cancellare» (di cui sanno qualche cosa), si sono messi al lavoro: arrivano con l'analisi critica di un orario, con delle rivendicazioni e delle proposte. Quando l'insegnante vi si accosta anche ridendo a proposito di «Ah, il bianchetto, non l'abbiamo fatto apposta», lascia ancora aleggiare l'equivoco e sorprende. In fondo si accosta direttamente il più possibile, ma andando di lato. Salva così il soggetto invece di annientarlo come colpevole, che deve pagare. Lo mette al lavoro. «Vogliamo cancellare quello che i prof scrivono su di noi», dicono gli allievi. L'insegnante sa che il sapere può essere oro, ma anche un'arma e un potere. L'altro, che si arroga il sapere su di loro, gli allievi non lo sopportano. L'insegnante lo sa e non si lascia catturare. Il braccio di ferro sul sapere talvolta nasconde un altro braccio di ferro ... Sorprendente anche, certo rivelatore, che parlino di se stessi col «noi», questi allievi. Infatti sono diventati un soggetto-classe1. Questo può avvenire a partire dal trattamento del «uno per uno», cioè da un modo di utilizzare per ognuno il metro unico che gli conviene (tutt'altra cosa dalle valutazioni uguali per tutti che escludono la particolarità di ciascuno). «Uno per uno», questo trattamento ha un effetto di campo, di tutta una classe che si sente presa come soggetto, a tal punto che emerge un noi. «Mi hanno insegnato ad attendere», dice questa insegnante. Si tratta dell'attesa attiva di una sentinella, di un inventore. L'insegnante è distrattamente attento: non solamente distrattamente 1 Espressione che si ispira a un concetto di J.-A. Miller, Apercus du Congres de l'AMP à Buenos Aires, luglio 2000, École de la Cause Freudienne, Paris 2001, pp. 57-76.
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attento al sapere da trasmettere, ma attentamente distratto rispetto al fatto che una tale trasmissione è impossibile senza l'inclusione della dimensione soggettiva del soggetto.
AvanUlre indietreggiando
E all'improvviso, delle Karima senza limite nei loro «Facciociò-che-voglio» arrivano con dei «Posso?», agganciabili a dei luoghi mediani come il Conseil. Invece di lasciar vivere la scuola come luogo di godimento sulle spalle dell'altro (come allievo o come prof), l'insegnante cerca di mettere al lavoro ogni soggetto con sue modalità proprie. Karima ci si (ri)trova, esce da una modalità sintomatica di godimento, di fare un gran casino nella classe, si mette ai comandi con il suo desiderio ben nascosto: una passione per i libri. La più bella autostrada pedagogica imboccata da questa insegnante è un'autostrada con curve, meandri e numerosi tornanti. O meglio un piccolo sentiero. Un viottolo. Ogni volta nuovo, da inventare a partire da ogni allievo. La sua pedagogia è basata su una mancanza. Assume le mancanze, i resti, i «no» di ognuno per dire «sì» al soggetto nell'allievo. Allo stesso tempo non sa il seguito e gli effetti di questo «sì». L'insegnante si attiene alle offerte logiche attraverso le quali passa Karima. Ciò ha come effetto che, attraverso tutta la sua azione inventiva, è Karima stessa a dire: «No, non tutto è possibile, qui e ora». Nella sua continua ricerca da dilettante, artigianale, l'insegnante sa che per essere innalzato alla dignità di un'autentica autorità, deve occuparsi del motore del soggetto (motore ingolfato, motore inceppato, motore senza benzina ... ). Soffiare su questo piccolo fuoco spesso ben nascosto sotto le macerie dei terremoti, è l'atto nel quale l'insegnante è impegnato.
Sapere, saper-fare e ... saperci fare
Mi sembra che, al di là del sapere che un insegnante possiede,
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al di là di un saper-fare trasmissibile, universale, che vale per tutti, questa insegnante testimoni attraverso la sua azione, la sua pratica, i suoi scritti, un altro «sapere», quello che J. Lacan chiama un «saperci fare» e che J. A. Miller ha trattato2• Si tratta di un sapere particolare, non trasmissibile, di un sapersela sbrogliare che è proprio di questa insegnante. Allora perché parlarne? Forse per estrarne la logica, il filo rosso che attraversa una testimonianza come questa. E, per ognuno di noi, significa mettersi al lavoro: inventare a nostra volta; sapere, se si vuole, scommettere sulle impasses, sull'inclusione nell'atto di insegnare della dimensione soggettiva, della dimensione pulsionale, cioè di soddisfazione, di godimento; andare dritti allo scopo attraverso le deviazioni e i circuiti 3; imparare ad essere attentamente distratti ... 4 Credere fermamente, con l'insegnante che qui scrive, che si possano elevare le impasses, i «no», le barricate dell'allievo alla dignità di una parola ... Per Freud ci sono tre professioni impossibili: governare, educare, psicoanalizzare. Alle quali Lacan aggiunge quella di «far desiderare»5. Anche se insegnare è impossibile, questa insegnante non cede mai: senza sosta contrasta questo impossibile con l'invenzione, con la presa in conto dei soggetti, facendo dell'impasse una leva per rimettere in movimento un desiderio. Affinché il «maestro», più che un maestro-sapere sia prima di tutto, come scrive, un «maestro-desiderio». Questo desiderio è la piccola deviazione che sovverte il discorso dell'insegnante. Con effetti di alunni inventivi, entusiasti e che si rilanciano nella corsa della vita ... Al fronte, le mani vuote, piene di ... desiderio. Impossibile, perché? Perché l'insegnante, che lo voglia o no, opera anche a partire da come se la cava per «essere uomo», «essere padre», 2 J.-A. Millcr e Eric Laurcnt, L'Orientation lacanienne, "L'Autre qui n'existe pas et ses comité d'étique" (1996-1997), inedito. Insegnamento pronunciato nel quadro del Départcmcnt dc Psychanalysc dc Paris VIII, corso dcll'11 giugno 1997. 3 J.-A. Millcr, Introduzione all'erotica del tempo, «La Psicoanalisi,., n° 37, 2005, pp. 15-46. 4 Espressione impiegata alla Antenne 11 Odi Gcnval, nel lavoro clinico con i bambini. 5 J. Lacan, II seminario. XVII. II rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2001.
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«essere madre», da come se la cava con la questione di essere donna! Questa insegnante dà la prova che è possibile tracciare ed aprire, ogni volta per la prima volta, un nuovo sentiero, una «nuova» via nella foresta dell'impossibile dell'insegnare. Maggio2005
Intervista a Antonio Di Ciaccia Raccolta da Donata Roma e Alberto Visini
Domanda: come orientare una pratica a partire dal soggetto in un'istituzione scolastica? Risposta: Personalmente penso che la base da cui bisogna partire è in che modo lo studente - ma la stessa cosa si potrà dire del docente - possa sentirsi riconosciuto come soggetto. È questo, direi, il lavoro fondamentale di ogni istituzione. Certo, ogni istituzione si inserisce in un discorso sociale. Ora, il discorso sociale, il discorso normale - quello che nel nostro gergo chiamiamo il discorso del Maitre o del Padrone - ha come obiettivo che le cose funzionino. Sotto la linea guida del discorso del Padrone le cose funzionano sempre, in ogni istituzione, di qualunque tipo essa sia, che sia quella familiare, scolastica e addirittura statale. Il problema non è dunque che le cose funzionino per l'istituzione, ma che esse funzionino per il soggetto. In altre parole che funzionino in modo tale che l'istituzione sia in linea con le esigenze proprie dell'essere umano in quanto tale. Un'istituzione può funzionare e tuttavia contemporaneamente schiacciare le esigenze più intime delle persone che la compongono. Perché funzionino in modo corrispondente a tali esigenze occorre quindi che il discorso del Padrone, in altri termini il discorso della società, sia orientato, sia permeabile, in modo tale da dare un posto, una posizione a ogni soggetto affinché egli possa essere riconosciuto nella sua particolarità, nella sua unicità, nella sua singolarità. È più fondamentale per l'essere umano sentirsi riconosciuto che sentirsi amato. Nell'amore infatti c'è quasi sempre almeno - un ritorno narcisistico su colui che ama. Questo ritorno nell'atto del riconoscimento è assente, o almeno
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dovrebbe esserlo. Nell'amore insomma si ama l'altra persona nella misura in cui ella si identifica con quello che ci si attende da lei. Basta che questa persona si discosti dall'identificazione proposta e subito l'amore nei suoi confronti viene meno, arrivando a volte a una chiara opposizione, rifiuto o rigetto. Nell'atto del riconoscimento invece si accoglie l'altra persona così com'è, non ci si attende da lei nessuna risposta che sia conforme ai desiderata altrui. Per dirla in altri termini io ti riconosco come soggetto desiderante, anche se non so che cosa tu desideri, e non solo lascio in sospeso questo non sapere, ma non lo occludo con il mio supposto sapere. Chi sa riconoscere l'altro, sa mettere a tacere la richiesta d'amore. Questo aspetto è molto importante. È un punto fondamentale soprattutto per gli adolescenti: per essi essere riconosciuti è molto più importante che il sentirsi dire di essere amati. Gli adolescenti sanno benissimo che un vero amore non può non comportare il riconoscimento. Lo dicono del resto molto chiaramente, soprattutto quando si riferiscono a quell'istituzione che chiamiamo famiglia: "mia madre, mio padre dicono di amarmi, ma quando non sono conforme a quello che si aspettano di me, mi colpevolizzano". Evidentemente tutto ciò richiede dal punto di vista dei genitori un saper accettare una perdita narcisistica proprio per il fatto che i figli non necessariamente rispondono alle loro richieste. Soprattutto per il fatto che i genitori considerano che le loro richieste siano fatte ai figli solo pensando al loro bene. E non si rendono conto che ciò che ricercano non è tanto il bene del figlio ma il proprio bene che a loro avviso si realizza se il figlio risponde ai loro desiderata. D.: riportiamo la problematica all'istituzione scolastica. Questo scenario è valido anche in questo caso? R.: Sicuramente. Vorrei però porre l'accento su un versante molte volte trascurato: quello degli insegnanti. Spesso, in un'istituzione scolastica il docente stesso non si sente riconosciuto nel suo lavoro, nella sua ricerca, nella sua professionalità. Non parlo unicamente delle tensioni che avvengono tra persone che lavorano insieme o nei confronti dell'autorità in loco. Ma è un dato di fatto che attualmente la professione di insegnante ha perso tutto
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un valore ambientale e sociale che un tempo aveva. In altri termini, quella che noi chiamiamo l'evaporazione del Nome-delPadre, con tutti gli aspetti che essa comporta - diminuzione del valore dell'autorità, mancanza di rispetto reciproco, perdita di certi ideali-, ha inferto una grande ferita alla professione dell'insegnante. L'insegnante che cerca di fare correttamente il suo lavoro non è sostenuto nel suo ruolo e nella sua funzione dagli allievi - e questo è relativamente comprensibile-, ma a volte neppure dalla famiglia degli allievi e dal mondo sociale in genere. Per questo è necessario effettuare con gli insegnanti un lavoro - lavoro d'équipe, lavoro d'insieme, lavoro con gli altri colleghi - che non sia finalizzato a restaurare gli ideali del Nome-del-Padre, ma a inventare altre categorie e altri punti di riferimento. Per far questo è necessario che gli insegnanti stessi si sentano riconosciuti. Riconosciuti nel loro ruolo, nella loro funzione, certo, ma anche e soprattutto nelle difficoltà rispetto al loro lavoro. Non intendo affatto, in questo modo, proporre delle tavole rotonde o riunioni istituzionali che generalmente lasciano il tempo che trovano. Intendo dire che è importante istituire un luogo di parola che permetta una riflessione critica sulle problematiche affrontate. Vorrei precisare la mia posizione rispetto a tali luoghi di parola: non sono luoghi terapeutici propriamente detti, ma sono luoghi in cui si prende a cuore la problematica di ogni allievo, uno per uno, tentando di dare una risposta consona alla struttura del1' inconscio. Da qui per gli insegnanti è possibile, e auspicabile, mettersi nella posizione di riconoscere la posizione particolare dello studente, dell'adolescente e di riconoscerlo nelle sue difficoltà, non già per accettarle sic simpliciter, ma per dialettizzarle, per fare in modo che ci sia un movimento da desiderio a desiderio che circoli non solo tra i componenti dell'équipe insegnante, ma con gli allievi e tra gli allievi. D.: perché è impossibile insegnare? Perché è impossibile educare? R.: Lacan riprende da Freud una frase sui tre mestieri impossibili che per lui sono il governare, l'insegnare e il curare. Freud sostituisce il curare con lo psicoanalizzare. Tuttavia, a mio pare-
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re, la frase di Freud è ateorica, non ha se non la profondità - profondità abissale a dire il vero - di un detto popolare tedesco. Lacan riprende la frase di Freud, ma le conferisce uno statuto teorico. Egli ne parla in modo preciso e approfondito nel Seminario XVII a cui diede come titolo Il rovescio della Psicoanalisi, edito in italiano da Einaudi, e in Radiofonia, anch'essa edita in italiano da Einaudi. Lacan però, ai tre impossibili freudiani, ne aggiunge un altro che riguarda il desiderio, compito a cui si dedica direi così - l'isterica. Da qui Lacan formula che a questi quattro impossibili corrispondono quattro discorsi: il Discorso del Maitre o del Padrone, il Discorso dell'Università, il Discorso dell'Isterica e il Discorso dell'Analista. Apro una breve parentesi: scrivo isterica al femminile e non al maschile non a caso. Non si tratta affatto di un deprezzamento della posizione femminile, ma si tratta del contrario. Se si legge con attenzione il Seminario XVII si potrà scoprire che per parlare del desiderio bisogna far appello, uomo o donna che sia, a qualcosa della femminilità in sé, proprio nella medesima modalità in cui Socrate, per parlare dell'amore, prestò la sua voce a Diotima, la quale forse è - come nota Lacan nel Seminario VIII dal titolo Il transfert, appena pubblicato da Einaudi - la donna che è in lui. In altre parole, non si può parlare di certe cose, come l'amore, il transfert e il desiderio se non partendo da una posizione femminile. Chiusa la parentesi. A questi quattro impossibili corrispondono quattro Discorsi: è la modalità dell'essere umano di far fronte al fatto che la parola e il godimento non vanno insieme, non si amalgamano, rimangono ognuno distanti l'uno dall'altro. I quattro discorsi sono i modi che l'umano mette in opera per operare un certo tipo di accordo. Per quanto riguarda l'insegnamento questo vuol dire che l'insegnamento non è un dato automatico che passa dall'insegnante all'insegnato. L'insegnato lo è sì, nella vita, ma egli si insegna, in un certo senso da solo. L'insegnante è lì per fare in modo che l'allievo trovi modo di sapersi insegnare da solo. L'insegnante deve trovare lo spunto perché l'insegnamento sia un'invenzione, una creazione dell'allievo stesso. In altri termini l'insegnamento non proviene dall'Altro, ma ognuno si insegna da solo attraverso gli stimoli che gli provengono dall'Altro. In altre parole ancora, ai fini della formazione pedagogica sarà efficace quel-
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l'insegnamento in cui il docente fa passare la sua carica desiderante sulla materia che egli tenta di far passare. È un'esperienza di chiunque si senta insegnato, di sentirsi insegnato quando l'insegnante riesce a fa passare qualcosa del suo desiderio rispetto a ciò che insegna. L'investimento libidico da parte dell'insegnante è assolutamente fondamentale per l'insegnamento. D.: in questo modo il desiderio viene posto sulla materia, ma non deve essere posto sulla classe? sugli studenti? R.: La mia esperienza mi permette di dire che se l'insegnante è preso dalla materia, se è preso dal gusto di far passare qualcosa del suo insegnamento, egli permette più facilmente all'allievo un'identificazione rispetto a quei significanti che egli vorrebbe trasmettere ma che in realà lo rappresentano. Sono scettico riguardo al valore operativo di porre il carico libidico sugli allievi. Anzi, vi vedo più di un inconveniente. Certo, ci può essere un investimento libidico su tutta la classe, sul fatto del lavoro che comporta portare avanti una classe, ma non considero affatto utile che l'insegnante investa con un carico libidico gli allievi, soprattutto quando si tratta di adolescenti. Bisogna evitare che gli adolescenti entrino in un conflitto immaginario tra di loro, col risultato che qualcuno crede di essere più amato o più riconosciuto rispetto agli altri compagni. Certo, questo aspetto è impossibile da evitare negli allievi, poiché basta che circolino dei significanti affinché si verifichino degli effetti di attrazione e di repulsione, di supposte preferenze e non preferenze. Tuttavia, sebbene si tratti di un aspetto che sorge automaticamente, non è affatto il caso di lasciarsi prendere la mano in questo gioco. Si tratta invece di portare tutta la classe a fare in modo che venga attirata a una prospettiva rispetto al lavoro che vi si svolge, pur nelle diverse particolarità degli allievi a cui occorre dare il giusto posto e la voce giusta. D.: Quindi anche ricostruire una logica dell'atto dell'insegnamento e della sua efficacia è nella complessità di questa non linearità?
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R.: Esattamente. Ripeto, ciò che permette che in questi meandri si arrivi più facilmente al punto giusto è la carica desiderante dell'insegnante a partire dalla materia che si cerca di far passare nell'insegnamento. È chiaro che questa carica desiderante deve riguardare sempre "un'altra cosa" da acquisire e da conquistare. D.: Così anche rispetto agli insegnanti, il meccanismo del riconoscimento passa attraverso il desiderio di un sapere "altro" e non attraverso l'allievo? R.: Esattamente. D.: Perché è importante e come far girare in una istituzione scolastica i quattro Discorsi di Lacan? R.: Lacan considera che il legame sociale è costituito dal fatto di mettere in moto questi tre impossibili più il quarto di cui abbiamo detto. Far funzionare i quattro Discorsi in primo luogo vuol dire che ogni Discorso non si prende per l'unico capace di far fronte a questo impossibile che lega insieme la parola e il godimento. Come ricorda Lacan in un intervento avvenuto negli anni '70 a Milano, il Discorso del Padrone stesso diventa più agile, più mobile, e quindi più operativo rispetto alle esigenze delle varie soggettività, se viene messo in funzione con gli altri tre Discorsi. Per portare un esempio concreto, non basta che l'istituzione scolastica promuova la disciplina affinché tutto funzioni, occorre anche che la disciplina stessa sia in funzione della materia da insegnare, ma occorre inoltre che intervenga la dimensione del desiderio e in ultima istanza quella della soddisfazione che si ricava per il fatto che "sapere", nell'essere umano, è nell'ordine del godimento. Ma direi che è molto importante, soprattutto in un'istituzione come il Liceo Fermi che accoglie studenti che hanno trovato certe difficoltà in altri luoghi di studio, accogliere la loro parola che proviene da un disagio e da una sofferenza. Saper accogliere questa parola è capitale. Lacan ci ha insegnato che anche l'insofferenza, il grido di rivolta stesso, è da prendere all'interno del discorso, sebbene occorra dargli il giusto posto. Tocca quindi alle
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istanze istituzionali sa per far funzionare la parola in modo da poter essere presi in conto all'interno dei Discorsi, in modo tale che possa verificarsi una certa rivoluzione nella parola stessa. È chiaro che se un'istituzione si bloccasse sul Discorso dell'Isterica, non potrebbe funzionare tre giorni di fila, come se funzionasse unicamente sul Discorso del Padrone, ebbene non ci sarebbe altro che un Padrone a cui obbedire e se ci fosse soltanto il Discorso Universitario non ci sarebbe che una burocrazia senza desiderio che crede di poter così aprire e chiudere i cancelli del sapere. D.: Perché negli ultimi anni è sempre più difficile per gli insegnanti insegnare? Perché c'è un discorso sociale che non sostiene? R.: Come dicevo, io penso che la difficoltà è data da quello che Lacan chiama l'evaporazione del Nome-del-Padre che comporta una messa in questione anche della posizione classica del Discorso del Padrone. È chiaro che se non si hanno come strumenti operativi i Discorsi e non si sa esattamente più come operare c'è un aumento automatico del Discorso dell'Isterica nel senso di un grido di sofferenza, un grido di ribellione a cui non si sa rispondere, e non si è più all'altezza di rispondere proprio perché l'evaporazione del Nome-del-Padre non dà più gli strumenti affinché gli adulti - genitori o insegnanti - sappiano rispondere correttamente dalla loro particolare posizione. Il dare a ognuno il proprio posto è correlativo con la circolazione dei quattro Discorsi. L'evaporazione del Nome-del-Padre gli insegnanti l'hanno sentita in un modo drammatico perché sono venuti a mancare quei punti di riferimento su cui appoggiarsi. Tuttavia, invece di piangere sul bene perduto, è arrivato il tempo di utilizzare ciò che la psicoanalisi ci insegna per inventare altre forme che funzionino come punti di riferimento stabili dal punto di vista della struttura. Quando Lacan parla del sinthomo, com'egli ci dice nel Seminario XXIII che porta esattamente questo nome, con l'antica grafia del nome sintomo, ci indica una strada nuova, inedita, che ha già dato, a livello della psicoanalisi applicata al disagio e al sintomo, i suoi risultati.
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