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Italian Pages 144 Year 2020
MODERNITÀ E SOCIETÀ
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a cura di Roberto Cipriani
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Comitato scientifico:
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bauman zygmunt,
University of Leeds; cipriani roberto, Università degli Studi Roma Tre; cocozza antonio, Università degli Studi Roma Tre; cotesta vittorio, Università degli Studi Roma Tre; de nardis paolo, Sapienza – Università di Roma; faranda laura, Sapienza – Università di Roma; ferrara alessandro, Università degli Studi di Roma Tor Vergata; ferrarotti franco, Sapienza – Università di Roma; gamaleri gianpiero, Università degli Studi Roma Tre; jedlowski paolo, Università degli Studi di Milano; lombardi satriani luigi m., Sapienza – Università di Roma; mirabella michele, Università degli Studi di Bari; prandini riccardo, Università di Bologna; padiglione vincenzo, Sapienza – Università di Roma; rauty raffaele nicola m., Università degli Studi di Salerno; santoro marco, Università di Bologna; sassatelli roberta, Università degli Studi di Milano; squicciarino nicola, Università degli Studi di Firenze; teubner gunther, Goethe Universität, Frankfurt Am Main; touraine alain, École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) – Paris; turnaturi gabriella, Università di Bologna.
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Franco Ferrarotti
DALLA SOCIETÀ IRRETITA AL NUOVO UMANESIMO
ARMANDO EDITORE
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ISBN: 978-88-6992-709-6 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2019 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525
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Sommario
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Prefazione
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Capitolo primo
Da un secolo all’altro
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Capitolo secondo
Il calcolo scientifico: promesse e limiti
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Capitolo terzo
Due logiche a confronto
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Capitolo quarto
La sconfitta di Prometeo
43
Capitolo quinto
L’uomo: natura e storia
80
Capitolo sesto
La rivalutazione della conoscenza ordinaria
100
Capitolo settimo
La società irretita
128
Capitolo ottavo
Le condizioni per un nuovo umanesimo
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«Reminisco, ergo sum». «Homo sum: nihil humani a me alienum puto». (Ricordo, dunque sono. Sono un uomo: nulla di quanto è umano lo reputo a me estraneo).
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Prefazione
Dopo l’analisi critica delle ricadute, sociali e psicologiche individuali, dell’elettronica applicata su vasta scala, che si richiama a La perfezione del nulla (Roma-Bari, Laterza, 1997) e quindi a Un popolo di frenetici, informatissimi idioti (Chieti, Solfanelli, 2012), a Il viaggiatore sedentario (Bologna, EDB, 2018) e a Il pensiero involontario (Roma, Armando, 2019), si tenta qui di individuare le condizioni di un nuovo umanesimo secondo una duplice prospettiva, la quale implica il superamento delle cosiddette «due culture» e l’avvio di una cultura come esperienza esistenziale e collettiva, al di là dell’esempio, illustre e solitario, di personaggi eccezionali, quali Leonardo, Galileo e Leon Battista Alberti. Le condizioni per il nuovo umanesimo sono offerte e riassunte nel concetto di co-tradizione culturale, da intendersi non come eclettico sincretismo, bensì come incontro e sviluppo di fondamentali convergenze al di là di millenari privilegi e storicamente feroci intolleranze, in accordo con le indicazioni a suo tempo espresse in L’enigma di Alessandro (Roma, Donzelli, 2000) e La convivenza delle culture (Bari, Dedalo, 2003). Nel nuovo umanesimo del Terzo millennio nessuno potrà più dire: «Extra ecclesiam (meam) nulla salus». Sarà finalmente compreso che nessuno si salva da solo. Non si tratterà mai più di vivere, ma di convivere e vincere vorrà significare, 7
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in primo luogo, convincere. Un nuovo diritto si farà strada, al di là dei diritti fin qui acquisti e formalmente codificati. Qualunque essere in sembianze umane, che nasca e passi per una volta su questo nostro pianeta, sarà titolare e detentore di un inalienabile «diritto di umanità». Si passerà finalmente, e sperabilmente, dall’hominitas all’humanitas. Roma, 7 aprile 2019.
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F.F.
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Capitolo primo
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Da un secolo all’altro
Come cambiano il clima intellettuale e gli stili di pensiero prevalenti! E con quale straordinaria puntualità variano, in docile concomitanza, l’impostazione delle ricerche, la démarche euristica nel campo delle scienze sociali – un «campo» forse troppo slabbrato e dai confini troppo malcerti per fondare su di esso delimitazioni sicure. In un tempo non così lontano, negli anni dell’immediato dopoguerra, si era soliti pensare nei termini di una grande dicotomia. Si era, se mi è consentita una terminologia piuttosto barbarica, «strutturalisti» oppure «relazionisti». I primi trattavano i fenomeni sociali «come cose» – comme des choses, aveva sentenziato Émile Durkheim – mentre i secondi si barricavano all’interno dei gruppi primari, detti anche «a faccia a faccia», e qui si davano a disegnare quei raffinati arabeschi che presumevano di esprimere scientificamente i variegati «reticoli» dei rapporti interpersonali. La tensione fra le due impostazioni, che sembrò per un tratto drammatica, vedeva schierati da una parte Talcott Parsons, e con lui tutta, o quasi, la tradizione sistematica europea e, dall’altra, il pittoresco inventore della «sociometria», l’infaticabile viaggiatore con sombrero, Jacob L. Moreno, ma anche l’austero, distrattamente aristocratico 9
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medico e sociologo australiano, Elton G. Mayo, illustre teorizzatore delle «relazioni umane» nell’industria. Quell’epoca sembra oggi chiusa e quei dibattiti, già fervorosi e fin traboccanti di pathos, a rileggerne attentamente gli «atti», appaiono sbiaditi e polverosi. È una lezione piuttosto severa per coloro che si immaginano il progresso scientifico come una sorta di autostrada liscia, senza curve o interruzioni o inversioni a U, per non parlare di ritrattazioni e pentimenti, legata al criterio supremo della «autocorreggibilità interna» mentre, anche a una informazione sommaria, l’evoluzione delle scienze non tarda a manifestarsi per quello che è – un’impresa umana, soltanto umana; una storia costellata da contrastanti «scuole» e da gruppi contrapposti, una storia che è certamente di conquiste scientifiche, ma anche di lotta politica, di gelosie mortali, di congiure e di sangue. La tensione oggi ha mutato registro. Passa e si manifesta fra gruppi di analisti sociali che si richiamano alla quantità oppure a una impostazione, contraria e simmetrica, che si fonda sulla qualità. Non è una querelle di poco conto. Non si esaurisce infatti nell’ambito accademico poiché coinvolge importanti interessi economici e i loro rappresentanti. Per comprenderne la sostanza è necessario rifarsi alla prospettiva storica. Per centocinquant’anni il sociologo è vissuto in un suo limbo, umbratile e appartato. Ha fatto pazientemente anticamera. Si è cosparso in più occasioni il capo di cenere. Come colui che teme di vedersi accusato di frode in commercio, ha disperatamente imitato e fatto il verso agli scienziati della natura, alle scienze impropriamente dette «esatte»; ha tentato di elaborare una «fisica dei costumi»; ha temuto di venir colto in flagranza di reato per lesa rigorosità scientifica, di non saper efficacemente mostrare l’esattezza della sua «inferma scienza», com’ebbe a chiamarla un illustre erudito abruzzese-napoletano. Non riusciva a 10
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distinguere, con la dovuta chiarezza, fra scienze «dimostrative» e scienze «interpretative». Non è però un caso che l’istanza positivistica, pur nei suoi limiti storici e teorici, resti come il momento fondante delle scienze sociali in quanto scienze d’osservazione concettualmente orientate – osservazione dei dati e del comportamento esterno per giungere all’interpretazione della motivazione interna, al «senso» dell’agire umano in quanto agire di singoli individui oppure come agire ricorrente, cristallizzato nell’istituzione. Ma ecco che oggi sono le stesse scienze della natura, le scienze «esatte» che si vedono costrette ad autoproblematizzarsi, che si avvicinano sempre più, e in maniera del tutto imprevista, alle «scienze del vago» e che rinunciano – o cominciano penosamente a rinunciare – al concetto di «legge intemporale», necessaria e necessitante, universalmente valida, timeless and spaceless, in favore del concetto di «uniformità tendenziale» in senso probabilistico. Basti pensare alla seconda legge della termodinamica. L’irruzione della dimensione «tempo» ha fluidificato le «leggi» scientifiche, già ritenute immodificabili, date una volta per tutte. D’altro canto, le scienze sociali e la stessa sociologia si stanno muovendo e trasformando. I limiti del positivismo storico, quello comtiano, sono oggi tanto evidenti da riuscire innegabili. Del resto, sia il «fisicalismo» comtiano che il «cosalismo» durkheimiano avevano trovato per tempo critici agguerriti e all’occorrenza sottilmente spietati. Non solo nella cultura italiana, rimasta provincia di un veteroumanesimo in essenza anti-sociologico. Anche in Francia, dove la grande «covata» di Durkheim non aveva mai subito serie interruzioni. «In Francia – scriveva Simone Weil – […] esiste una scuola di sociologia grazie alla quale si possono studiare i miti, il folklore, le civiltà antiche e quelle delle popolazioni di colore senza trovare da nessuna parte alcuna 11
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traccia di spiritualità»1. E, più avanti, trattando dei Greci antichi, prosegue: «Vi sono rapporti indefinibili per mezzo dei numeri». E ciò veniva dai Greci sperimentato non come un’occasione di scacco o di angoscia, ma di gioia, poiché la nozione di equilibrio era la nozione fondamentale e l’ingiustizia in un uomo consisteva nel misconoscere i suoi limiti. Al di là del numero è possibile conoscere senza necessariamente misurare. È dunque possibile ipotizzare un incontro fra quantità e qualità a mezza strada? Non sembra, almeno per ora. Nelle scienze sociali l’impostazione quantitativa ha goduto, e gode tuttora, di un grande favore. È la caratteristica fondante della «mainstream sociology».Quando un dirigente d’azienda ha un reparto in agitazione, il sociologo quantitativo lo rassicura con le risposte ottenute dagli scioperanti circa le loro richieste; il tutto è elaborato mediante la somministrazione di un questionario con risposte precodificate; alla fine, il dirigente può leggere qualche tabellina pulita, con percentuali e incroci fatti a dovere; è un linguaggio secco, che capisce subito e lo tranquillizza, anche se poi le ragioni vere dell’agitazione dei dipendenti non sono state neppure sfiorate. Quando i soldati americani sul fronte del Pacifico, nella Seconda guerra mondiale, bloccati forse da complessi religiosi o psicologici, non sparavano, fu la ricerca di Samuel Stouffer e dei suoi collaboratori a placare l’angoscia degli Stati maggiori, con i diagrammi della monumentale indagine sull’American Soldier. I metodi quantitativi trattano le persone che fanno parte della situazione sociale da analizzare come i colonizzatori si comportano nei confronti 1 Cfr. Simone Weil, Sur la science, Paris, Gallimard, 1966, p. 177 : «[…] en France, où existe une école de sociologie grâce à la, quelle on peut étudier les mythes, le folklore, les civilisations antiques et celles des populations de couleur sans trouver nulle part aucune trace de spiritualité» ; p. 245 : « […] il y ait des rapports indéfinissables par les nombres».
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degli indigeni. Per non dire come i pubblici ministeri nei confronti degli indiziati o, peggio ancora, degli imputati. Non c’è da scandalizzarsi. Si comportano esattamente come qualsiasi professionista, vale a dire come colui che, dietro pagamento, rende un servizio a un cliente, il quale non ha alcuna possibilità di controllo, profano com’è, sul servizio stesso. In realtà, la ricerca sociale condotta con metodi strettamente quantitativi, tuttora in posizione dominante fra i cultori di sociologia, deve molto del suo successo a ragioni di natura extrascientifica: a) coincide e corrisponde allo stile di pensiero e alla mentalità tecnocratica prevalenti nella gestione delle imprese industriali e finanziarie; b) offre risultati illusoriamente certi, espressi con la cogente coerenza formale degli apparati numerici; c) non basandosi su una coscienza problematica autonoma, non pone questioni nella scelta dei temi di indagine; d) in questo senso, è disponibile a vendersi sul mercato al miglior acquirente. Non va dimenticato, inoltre, un suo vantaggio di natura tecnica: valendosi di strumenti e di apparati concettuali precostituiti, ossia elaborati indipendentemente dal tipo e dalle caratteristiche umane della ricerca, è in grado di condurre sondaggi di opinione di massa, che danno quantomeno l’illusione della completezza e di una certa capacità predittiva. La ricerca qualitativa ha invece storicamente privilegiato gli studi di comunità. A parte l’esperienza straordinaria della «Scuola di Chicago» negli anni Trenta, sono studi classici quelli di Helen e Robert Lynd (Middletown e Middletown in Transition) e di Arthur J. Vidich e Joseph Bensman (Smalltown in Mass Society). Contrariamente alle ricerche quantitativistiche, invece di far calare sull’oggetto di ricerca categorie, 13
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schemi e questionari pre-elaborati e usati intercambiabilmente, trascurando con ciò il contesto storico specifico, le ricerche qualitative tendono a far emergere dal basso, a diretto contatto con l’oggetto di ricerca [osservazione partecipante e quella che, nel mio Trattato di sociologia2, chiamo «ricerca di sfondo»], le «aree problematiche» e gli eventuali «concetti operativi». Questi non sono elaborati a tavolino, ma sono il frutto di una impostazione della ricerca che è essenzialmente induttiva e che non può partire se non sulla base di una «esplorazione preliminare», che consente di elaborare o comunque di saggiare e mettere a punto una serie di «concetti sensibilizzanti», come li definisce Herbert Blumer, i quali rendono possibile la costruzione di quelli che chiamo «concetti operativi» (perché si possono «operazionalizzare», vale a dire scomporre nelle loro componenti per essere messi in rapporto con variabili importanti ai fini della ricerca). Non è un caso che per la raccolta dei dati empirici mediante l’analisi qualitativa sia fondamentale la «storia di vita». Per questo tema mi permetto di rimandare alle mie ricerche sulle periferie metropolitane, dalle borgate di Roma alle favelas brasiliane, dalle poblaciones cilene, alle villamiserias argentine, alle barriadas del Perù e agli slums del Bronx di New York. Con riguardo all’impianto epistemologico, mi sono occupato in senso specifico nella trilogia Storia e storie di vita. La storia e il quotidiano e Il ricordo e la temporalità3. È chiaro che la lettura dei documenti biografici pone problemi più complessi di una pura elaborazione statistica basata su risposte precodificate. Per cominciare, la raccolta delle storie di vita presuppone un rapporto di fiducia 2
F.F., Trattato di sociologia, Torino, UTET, 1964. F.F., Storia e storie di vita, Roma-Bari, Laterza, 1981; La storia e il quotidiano, RomaBari, Laterza, 1986; Il ricordo e la temporalità, Roma-Bari, Laterza, 1987. 3
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fra intervistatore e intervistato. Nessuno racconterebbe i propri Erlebnisse, i suoi «vissuti», a un magnetofono o anche a un più, tecnicamente, raffinato registratore dell’ultima generazione. Ciò significa che la ricerca va concepita come con-ricerca e che ogni ricercatore, lungi dal potersi trincerare dietro un armamentario metodologico precostituito, è a sua volta un «ricercato». Il sociologo ricercatore sul campo non è un pubblico ministero che, dall’alto del suo scranno, giudica e manda, interrogando le persone, come se fossero degli indiziati, se non degli imputati. Il fatto viene spesso dimenticato o sottaciuto. Ma l’oggetto della ricerca sociologica non è un oggetto. È una persona. In altre parole, la ricerca qualitativa ci aiuta a comprendere che lo «scientismo», anche quello di ascendenza illuministica, è la caricatura della scienza, una caricatura così atroce da far dire a uno scrittore dell’intelligenza di Voltaire che le tracce di conchiglie, riscontrate in certe rocce alpine, erano dovute al passaggio dei pellegrini che tornavano dal viaggio in Terrasanta. Ci fa anche comprendere che è il rigore quantitativo acritico in quanto espunge la qualità. Il rigore scientifico, in senso proprio, storicamente consapevole, la richiama. È vero, però, che molti ricercatori qualitativi, messi di fronte a una massa imponente di materiale autobiografico, non sanno che farsene, lo usano all’ingrosso, al più come materiale illustrativo di ipotesi elaborate in precedenza, lo riducono ad appendice «romantica» della ricerca, a una «pennellata di colore». La questione della connessione fra ipotesi teorica e documento biografico empirico rimane aperta. Bisognerebbe invece procedere, con estrema attenzione analitica, alla lettura delle storie di vita allo scopo di enuclearne e farne emergere le «aree problematiche»; queste, espresse naturalmente più spesso in termini di percezione psicologica individuale, sono 15
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quindi da collegare con le determinanti del contesto storicoeconomico-culturale meta-individuale, in modo da rendere evidente l’intreccio dialettico – o di «reciprocità condizionante» – fra individuo, cultura e momento o fase storica, il che significa, avendo sott’occhio le storie di vita, cogliere il nesso dialettico fra testo, contesto e inter-testo. Rispetto alle ricerche quantitative, la differenza è qui fondamentale: nella ricerca quantitativa le categorie teoriche sono precostituite e scendono sul materiale empirico per riordinarlo secondo un disegno prestabilito al di fuori della ricerca nel suo farsi effettivo; nella ricerca qualitativa, il processo di categorizzazione parte dal basso; è meno aprioristicamente definito; più che condensare i risultati tende a indicare, problematicamente, le direzioni in cui occorre ancora scavare ed esplorare. In questo senso, la ricerca qualitativa è una ricerca tipicamente «aperta», che induce l’analista a praticare quella virtù dell’umiltà che già Bacone riteneva essenziale per qualsiasi scienziato. Credo di dovermi scusare con il lettore attento ed esigente – una specie purtroppo sempre più rara, se non in via di estinzione – per il tono di questo libro che potrà sembrargli troppo apodittico, se non spiccio e addirittura dogmatico, ma quanto scriverò temo che non vada molto al di là di alcuni principi di preferenza personali. Non posso negare che si tratta di osservazioni preliminari, essenzialmente ipotetiche, sul possibile avvento di una società irretita: una élite di specialisti governa discrezionalmente e amministra una massa di persone comuni, isolate l’una dall’altra, relativamente incompetenti e ignoranti, indifese, impotenti e frenetiche, dominate da una forte, pervasiva emotività a scapito del ragionamento. Una prima osservazione riguarda il clima sociale oggi prevalente. In effetti – lo abbiamo rilevato in apertura – mutano rapidamente e, almeno all’apparenza, facilmente lo spirito del 16
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tempo, l’atmosfera intellettuale, lo Zeitgeist, da una generazione all’altra, da un secolo all’altro. Cambiano, ma poi ritornano, a distanza di una, due generazioni. Marx sosteneva che i fatti storici si verificano, prima, come tragedia; poi, come farsa. Non necessariamente. La storia non è sinergicamente prevedibile. Alcune teorie fondamentali di Marx, come quella della miseria crescente, non si sono verificate nel modo e nella misura da lui previsti. All’alba del secolo ventesimo, in quella che, con singolare e inconsapevole ironia, alle soglie della Prima guerra mondiale, è passata sotto il nome di «Belle époque», risuonavano per ogni dove le fanfare del progresso. Un progresso dovuto alla scienza, alla drastica eliminazione di quelli che Marx e Engels avevano bollato, nel Manifesto, pubblicato a Bruxelles nel 1848, come «gli idiotismi della vita rurale», delle credenze tradizionali e della conoscenza ordinaria, legata alla saggezza sapienziale degli antichi padri analfabeti. In Italia lo stentoreo Giosuè Carducci scorgeva il progresso innovatore incarnarsi nella sbuffante locomotiva, «mostro di ferro» che si scatena per tutta la terra, mentre, per parte sua, il mite abate Giacomo Zanella, forse per non essere da meno, si rivolgeva alla ritorta conchiglia fossile che, «Sul chiuso quaderno di vati famosi, / dal musco materno / lontana riposi», per prorompere, anche lui, in un entusiastico finale: T’avanza, t’avanza divino straniero; conosci la stanza che i fati ti diero: se schiavi, se lacrime ancora rinserra, è giovin la terra. 17
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Si pensava, forse sulla falsariga dello sfortunato autore delle Metamorfosi, quel Publio Ovidio Nasone da Sulmona, morto esiliato a Tomis, sul Mar Nero, ad una nuova «saturnia aetas», in cui la famosa invocazione «A peste, a fame et bello, libera nos, Domine», non avrebbe più avuto senso. La scienza e la tecnica come scienza applicata – si opinava – stavano per investire e stabilmente migliorare le condizioni di vita del pianeta e dare senso all’esistenza degli umani. Non è andata così. Nessun dubbio che la scienza, soprattutto al termine dell’Ottocento e agli albori del Novecento, abbia goduto di una fase di acritico favore che il mio mentore e amico fraterno, Nicola Abbagnano, non esitava a definire il «romanticismo della scienza». Le critiche di Friedrich Nietzsche a proposito della scienza sono acerrime e solo in parte sembrano da ritenere. Stando al teorico dell’Oltreuomo, o Űbermensch, certamente influenzato dalle prediche sulla «Oversoul», o «Superanima», di Ralph W. Emerson, la scienza ha un valore relativo e non si ridurrebbe ad altro che a «un’ingannevole certezza per lenire l’angoscia delle masse pur essendo fredda e arida, tanto che nel mondo della scienza il dolore è qualcosa di inopportuno e incomprensibile»4. Delle istanze critiche di Simone Weil, che investono anche le figure umane degli scienziati e i loro personali principi di preferenza, spesso nascosti dietro una presunta neutralità morale, ho trattato ampiamente in altra sede5. La scienza si merita almeno una parte di queste severe riserve. Al lavoro degli stessi scienziati riusciranno utili, se contribuiranno a mantenere viva la consapevolezza che la scienza è un valore strumentale e non 4 F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, tr. it. S. Giametta e M. Montinari, Torino, Einaudi, 1981, p. 216. 5 Si veda il mio Atman – il respiro del bosco, Roma, Empiria, 2012, passim; ma anche Scienza e coscienza, Bologna, CED, 2016.
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finale, vale a dire, in altre parole, che nessuna confusione è ammissibile fra problemi tecnici, da risolversi seguendo attentamente le istruzioni per l’uso, e problemi umani in senso proprio, non tecnicamente né scientificamente solubili mediante l’applicazione di una formula, perché sono, più che problemi nel senso comune del termine, tensioni ricorrenti, esigenze interiori permanenti e a volte tormentose, come domande cui non è possibile dare risposte prefabbricate (il riconoscimento come persona, il bisogno di giustizia, la libertà, l’amore, la morte e il suo mistero, il senso della finitudine umana contro i deliri, prometeici o faustiani, di onnipotenza). Nessuno ha dimenticato la «preghiera dell’Acropoli» del prete défroqué, Ernest Renan, nei deliziosi Souvenirs d’enfance et de jeunesse. È più di una preghiera. È un atto di adorazione e nello stesso tempo un inno di trionfo. È la compiuta espressione del romanticismo della scienza, un ditirambo in onore e gloria della déesse raison, vissuta come esperienza mistica ad Atene, all’interno dell’Acropoli, in ginocchio davanti alla statua di Atena, Minerva, la dea dell’intelligenza e della saggezza. Non è un caso che l’autore di questa preghiera sia lo stesso autore del saggio su l’avenir de la science, così immedesimato e unitariamente identificato, come orante e scienziato, da non avvedersi della paradossale incongruenza di una preghiera alla ragione in termini mistici ed essenzialmente irrazionali. Ma l’esaltazione, a dir poco ditirambica, degli inizi del Novecento come secolo di un progresso straordinario, scientificamente fondato e socialmente acclamato, non è solo da attribuirsi all’italica retorica, portata alla svalutazione del calcolo razionale come occhiuta mentalità ragionieristica. C’è una lettera famosa al poeta considerato simbolo dell’America come continente nuovo e vitale, ancor più di Carl Sandburg, autore di un unico volume divenuto livre de chevet di intere 19
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generazioni, Foglie d’erba. La lettera di Mark Twain a Walt Whitman è stata per me una sorpresa bella, ma anche inquietante. Mark Twain non è solo, come molti critici ancora oggi lo spacciano, un umorista. È anche l’epico cantore del grande fiume Mississippi, l’autore dissacrante e divertito e, almeno a tratti, alquanto cinico di The Innocents Abroad e della quotidiana lotta per la sopravvivenza degli homeless, dei senzatetto, «barboni», costretti a fare ogni giorno l’invenzione «artistica», non potendo contare che sull’espediente come mezzo di sussistenza. Si veda specialmente lo splendido Roughing it, con certi personaggi che mi ricordano il Big Sur di Henry Miller per la canagliesca, compiaciuta, quasi sadica descrizione di vite allo sbando. Secondo Miller, nella Bassa California non è necessario lavorare per procurarsi da vivere. Basta andare in giro e rovistare nei cassonetti dei quartieri di lusso, dove la gente butta via roba ancora buona, cibi appetitosi. Scrive dunque Mark Twain: «Hai vissuto quelli che sono i settant’anni più importanti della storia dell’umanità, e i più ricchi in termini di benefici e progresso per le popolazioni. In questi settant’anni è stato fatto molto di più per ampliare il divario che separa l’uomo dagli altri animali di quanto sia stato fatto nei cinque secoli precedenti. A quali importanti scoperte hai assistito! […] Ma aspetta ancora un attimo, perché la più importante deve ancora venire. Aspetta trent’anni, e guarda allora la Terra! Vedrai meraviglie su meraviglie aggiungersi a quelle che hai visto nascere, e oltre a esse vedrai manifestarsi il loro formidabile risultato: finalmente l’Uomo nella sua piena statura! E in continua, visibile crescita sotto i tuoi occhi. Aspetta finché non vedrai comparire quella sagoma maestosa e non vedrai il lontano bagliore del sole sul suo stendardo; allora potrai andartene soddisfatto, sapendo di aver visto colui per cui è stata fatta la Terra, e che proclamerà che il grano umano vale 20
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più delle umane erbacce, e si adopererà per organizzare i valori umani su tale base». Il secolo ventesimo viene salutato ai suoi inizi come il secolo del progresso illimitato, fondato sulla scienza; il secolo del bonheur formalmente garantito a tutti nonché del droit à la paresse, o «diritto alla pigrizia», un’idea ripresa dal concetto classico di otium contro negotium, forse una singolare anticipazione del reddito di cittadinanza, elaborato molto dottamente dal genero di Karl Marx, l’attivista politico Paul Laforgue. Storici avveduti, come Eric Hobsbawm, hanno definito il secolo ventesimo come il «secolo breve». In realtà, per i sopravvissuti dalle due guerre mondiali, dai Lager e dai Gulag, il ventesimo secolo è tutt’altro che breve. Sarà il secolo dei genocidi e degli stermini di massa. In nome di ideologie globali aberranti, gli individui sono stati eliminati a milioni. Forse solo la «Scuola Austriaca» e i suoi tre maestri canonici (August von Hayek, Ludwig von Mises, Karl Popper) si schierano su una diversa sponda, non stancandosi di lamentare lo schiacciamento dell’individuo da parte delle strutture istituzionali dello Stato tirannico. Sembrano dimenticare che lo Stato-Nazione, sorto in Europa nel Settecento dopo la pace di Vestfalia, che poneva termine alle guerre di religione, nel 1648, in base al principio «cuius regio eius religio», era sorto come il monopolista della violenza legittima in difesa degli individui, allo scopo di far cessare le guerre locali alimentate da signorotti ambiziosi; in altre parole, per usare la formula di Thomas Hobbes, per far cessare il «bellum omnium contra omnes» e garantire il cittadino comune contro la paura, il metus, della morte violenta e assicurargli, nello stesso tempo, il pieno, tranquillo godimento delle sue legittime proprietà. La Scuola Austriaca vedeva con angoscia genuina che la razionalità aveva abbandonato l’individuo per diventare la 21
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caratteristica portante delle grandi strutture burocratiche impersonali, ma non riusciva a capire che i problemi dell’individuo, nella nuova società emergente, andavano al di là dei loro termini individuali. E cos’era dunque, per essa, la società? Essa altro non era che il risultato, del tutto inintenzionale, dei comportamenti individuali. Quindi, una fictio mentis, e niente più. Friedrich August von Hayek vedeva lo spettro e denunciava l’avvento di una nuova schiavitù (The Road to Serfdom). Ludwig von Mises scorgeva nell’atteggiamento anti-capitalistico di gran parte degli intellettuali l’inconfessata nostalgia per la pace dei monasteri medioevali. Karl Popper, infine, con la «società aperta», denunciava addirittura il totalitarismo in Platone, senza rendersi conto che il controllo totale dei cittadini era, semmai, solo possibile con l’elettronica applicata di oggi e che la sua «società aperta» era così aperta da rischiare di ridursi a «società vuota». Un certo riconoscimento va dato, pur tuttavia, a studiosi che ancora si adoperano per analizzare, capire, forse spiegare, i fatti sociali nel quadro di una società come «insiemità», nel significato dell’inglese togetherness, se pure in senso relativo. Non mancano, nella sociologia odierna, studiosi che vedono la società come prodotto di movimenti sociali e di débats, quali Alain Touraine e la sua scuola, oppure che distinguono, molto dottamente, fra comunicazioni espressive e comunicazioni strumentali, come risultato di «competenza verbale», talvolta senza avvedersi dell’imprevedibile incrociarsi delle due categorie comunicative. Per questo tema è da vedersi, in una prospettiva filosofica, tutta l’opera dell’epigono della «Scuola di Francoforte», Jürgen Habermas. Ma la grande idea di un progresso onniavvolgente e inarrestabile, quasi un divino o mitico o metastorico destino, appare 22
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ormai appannata. La distanza del clima intellettuale odierno dalla fede dello sfortunato Condorcet, il quale, mentre aspetta in carcere la carretta che lo porterà alla ghigliottina, verga le ultime pagine del suo Esquisse d’un tableau des progrès de l’esprit humain, non sembra neppure, attualmente, calcolabile. Ammirevole, straordinario Condorcet! Lo vedo sullo stesso piano di Agostino da Tagaste, vescovo di Ippona, che scrive le ultime righe del suo De civitate Dei mentre Genserico, a capo dei suoi Vandali, sta sfondando le porte della città. È ad ogni buon conto difficile non concordare in proposito con uno studioso italiano, Gennaro Sasso, quando scrive intorno al «tramonto di un mito»6. Non credo che si tratti semplicemente della conferma di una convinzione, piuttosto nota fra gli specialisti di storia economica, di Thorstein B. Veblen, vale a dire della «penalty of taking the lead». Veblen era convinto che i primi ad inventare e ad applicare certe innovazioni sono poi costretti a pagare un certo prezzo e talvolta, se non proprio ultimi, a trovarsi fra i ritardatari. In questo senso, è certamente fuori luogo piangere sulla crisi o sul tramonto dell’Occidente, per valerci del famoso titolo di Oswald Spengler, nel primo dopoguerra. Il modo di produzione capitalistico, vale a dire sorto sul calcolo razionale e sul differenziale fra costo di produzione e prezzo di vendita, legittimato non tanto dal profitto quanto da un’etica protestantica del lavoro metodico, secondo la celebre interpretazione di Max Weber, si è diffuso e sta affermandosi in tutto il mondo. In Cina ha sconfitto Confucio, in India ha ignorato le caste, ancora vive nel costume se non nella Costituzione. Il sistema capitalistico non è sistematico, come credo di avere dimostrato, 6 Per un quadro generale del tema, cfr. John Bury, Storia dell’idea di progresso, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1964.
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è proteiforme, adattabile a forme diverse e anche contrapposte di assetto sociale e politico; è mobile e dinamico7. Il prezzo da pagare, per l’Occidente europeo, è piuttosto salato. Dopo all’incirca venticinque secoli, dalla democrazia ateniese di Pericle, nel quinto secolo a.C., per la prima volta, storicamente, il destino dell’Europa non è più nelle mani degli Europei. Dipende dai rapporti fra Stati Uniti e Russia, in subordine – ma solo per ora – fra Stati Uniti e Cina e, più tardi, forse alla fine di questo secolo, fra India e Africa. L’incapacità degli Stati europei di fondare gli Stati Uniti d’Europa, con una costituzione europea e un preciso, autonomo potere politico europeo, e quindi andare al di là del concetto gaullista di una «Europe des patries» non fa che aggravare la «penalità», il prezzo da pagare, previsto da Veblen.
7 Ne
ho trattato in più sedi, ma specialmente in Il capitalismo, Roma, Newton Compton,
2005.
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Capitolo secondo
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Il calcolo scientifico: promesse e limiti
La scienza ha spiccato il suo volo. È una promessa radiosa. E non solo teorica, ma sul piano pratico, nella vita quotidiana. Le maggiori città europee cominciano a darsi una rete di fognature. I francesi potrebbero finalmente fare a meno dei loro profumi. L’acqua di Cologne non è più necessaria ai re di Francia per ridurne il lezzo entro gradi tollerabili. Ci si lava di più, se pur sempre con quella discrezione che non è mai venuta meno. Fa il suo ingresso il bidet, sollievo naturale di ragadi e emorroidi illustri. Si debellano malattie sociali a portata endemica, come il tifo e soprattutto la tubercolosi. Quest’ultima perde il fascino di male misterioso, il «mal sottile», con piccoli ripetuti colpi di tosse che squassano petti gentili, virginalmente fascinosi. Ad opere artistiche come la Bohème e la Montagna incantata vengono meno personaggichiave. Le «dame delle camelie» scompaiono dalla scena. Avanzano l’elioterapia, la ginnastica da camera, i bagni pubblici. Aumenta la longevità. Si afferma la produzione di massa. Stiamo uscendo dalla civiltà della penuria. La storia coincide con l’evoluzione del progresso. È difficile immaginare, oggi, quel clima e quel fervore di speranze. Non è per caso che Nicola Abbagnano scrive diffu25
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samente di una sorta di «romanticismo della scienza». Naturalmente Abbagnano, con cui ho collaborato per la «Storia delle scienze», in più volumi per i tipi della UTET, apprezzava la scienza, ma nello stesso tempo criticava le «leggi» scientifiche suppostamente intemporali e a validità universale. Scrive:
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La scienza, a differenza del senso comune, si domanda il perché; e cerca inoltre di fornire perché che siano, ad un tempo, controllabili nel dominio dei fatti e organizzabili dal punto di vista logico. È questa certo una concezione non nuova, che si può dire rimonti ad Aristotele che distingueva allo stesso modo la scienza dall’esperienza. […] Una dottrina religiosa è una spiegazione dei fatti o almeno di quelli che si ritiene abbiano maggiore influenza sul destino dell’uomo; tuttavia non è una scienza. Una teoria metafisica come quella di Hegel pretende di offrire i perché di tutti i fatti e in un certo senso li offre. Neppure essa tuttavia è una scienza nel senso moderno del termine. La caratteristica che meglio riesce ad individuare la scienza è quella che […] consiste nel sottoporre le sue pretese conoscitive alla sfida ripetuta dei dati dell’osservazione, ottenuti in condizioni accuratamente controllate1.
Ricordando le nostre discussioni in proposito, credo di poter dire che Abbagnano concordava sostanzialmente con la mia distinzione fra scienze dimostrative e scienze interpretative. Fra queste ultime, ovviamente, concentravo l’attenzione su storia e sociologia, distinguendole a loro volta in base alla loro impostazione, legata all’imputazione causale per la storia, e alla comparazione condizionale per la sociologia. 1 Cfr. N. Abbagnano, «La struttura della scienza», in Rivista di filosofia, vol. III, n. 2 – aprile 1962 (corsivo nel testo).
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Va notato, invece, che il pensiero sulla scienza di Simone Weil, a tratti acuto e addirittura geniale, non sempre raggiunge la limpidezza desiderabile. I punti da ritenere sono tuttavia numerosi. Simone Weil resta, nella cultura europea del Novecento, una figura straordinaria di pensatrice, ma anche, nello stesso tempo, di mistica laica, di ascendenza ebraica, irresistibilmente attratta dalla religione cattolica, ma mai in grado o comunque capace di entrare in una chiesa e di accedere ai sacramenti e, per questo aspetto, non molto dissimile dal suo conterraneo, Charles Péguy, fondatore e animatore dei famosi Cahiers de la Quinzaine. La polemica di Weil contro il metodologismo gratuito è acerrima e lascia il segno. La matematica, serva e regina a un tempo, è per i Greci, secondo Weil, una vera e propria «arte», vale a dire che per i Greci si trattava di rendere manifesta e «sensibile» una parentela fra lo spirito umano e l’universo. In altre parole, faire apparaître le monde comme «la cité de tous les êtres raisonnables». Et elle avait vraiment une matière dure, une matière qui existait, comme celle de tous les arts sans exception, au sens physique du mot; cette matière, c’était l’espace réellement donné, imposé comme une condition de fait à toutes les actions des hommes. Leur géométrie était une science de la nature; leur physique (je pense à la musique des pythagoriciens, et surtout à la mécanique d’Archimède et à son étude des corps flottants) était une géométrie où les hypothèses étaient présentées comme des postulats. Je crains qu’on ne se rapproche plutôt aujourd’hui de la conception des Babyloniens, c’est-à-dire qu’on ne fasse du jeu plutôt que de l’art. […] On fait beaucoup d’axiomatique, ce qui semble rapprocher des Grecs; mais ne choisit-on pas les axiomes dans une large mesure à volonté2. 2
Cfr. S. Weil, Sur la science, op. cit., p. 220.
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E ancora più incisivamente, contro l’odierna passione per la precisione numerica come verità definitiva, Weil scrive che «… dire que tout est nombre, au sens littéral, est une stupidité évidente»3. A Weil sembra chiaro e fuori discussione che non tutto il conoscibile è per ciò stesso misurabile. Già presso i Greci la quantofrenia è sospetta. Come più sopra abbiamo osservato, per i Greci era motivo di entusiasmo che si avessero rapporti e realtà quantitativamente indefinibili. A mio parere, dovevano allora sentirsi più vicini al pensiero puro. Nell’Europa occidentale, due secoli or sono, nasce la società industriale. Si è parlato e scritto di «rivoluzione industriale». Ma il termine «rivoluzione», come da ultimo Friedrich August von Hayek ammonisce nel libro a più mani, ma da lui ispirato e curato, Capitalism and the Historians4, andrebbe usato con cautela. È un fatto, comunque, che la società industriale nasce come creatura razionale, che sarà guidata e si fonderà sul calcolo scientifico. C’è un cordone ombelicale che tiene unite la scienza e la società industriale. Questo cordone non sarà mai tagliato. Nessun ostetrico ha mai osato tanto. La società industriale è, storicamente, la prima società che ha l’ambizione e la temerarietà di non richiamarsi, per la sua giustificazione, ad alcun valore tradizionale, biblico o di mero costume. Presume di poter esprimere da sé, dal proprio interno, per via strettamente immanente, i valori di cui avrà bisogno. All’origine questi valori si riassumono nel calcolo scientifico, ossia nella capacità di connettere positivamente risorse disponibili e mete ritenute desiderabili. La scienza è destinata a diventare un fattore direttamente produttivo. Ma è anche, fin dall’inizio, qualche cosa 3 4
Cfr. S. Weil, op. cit., p. 246. F. von Hayek, Capitalism and the Historians, Chicago, University of Chicago Press,
1951.
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di più. È una sorta di religione laica, con i suoi sacerdoti, i suoi specialisti, le sue cerimonie, i suoi «riti di passaggio». Auguste Comte, il paranoico inventore dell’ultima scienza, la sociologia, nella penombra del suo appartamento parigino al terzo piano del n. 10 di rue Monsieur-le-Prince, a due passi dall’Odéon, lo aveva previsto con la estrema lucidità dei folli di genio: la scienza, al di là dei capricci individuali e degli interessi settoriali, costituisce il fondamento del nuovo consenso sociale post-rivoluzionario. L’umanità non è fatta per abitare fra le macerie. Le rivoluzioni del 1848, che passano rumorose sotto le sue finestre, non lo interessano. Non si scompone. Sa esattamente che la stessa classe operaia rivoluzionaria avrà interesse a farsi inquadrare nel nuovo schema razionale guidato dagli imprenditori. Nel nome della scienza il loro interesse sarà comune. Il Novecento si apre come il secolo delle grandi promesse scientifiche. Sigmund Freud aspetta a pubblicare il manoscritto della Interpretazione dei sogni, già pronto nel cassetto dall’anno prima. Aspetta che scocchi il primo giorno del Novecento. Nascono, insieme con la psicoanalisi, la «dodecafonia» di Arnold Schönberg, con la scala naturale, o diatonica, di due toni e cinque semitoni, sostituita da dodici semitoni; il neo-positivismo logico, con il «Circolo di Vienna» di Rudolf Carnap; la «teoria della relatività» di Albert Einstein. Pochi anni dopo, nel febbraio 1909, esplode la meteora futurista di Filippo Tommaso Marinetti, da Parigi, con il Manifesto sul Figaro, a Londra, con il «vorticismo» e poi a Mosca, con Vladimir Majakovskij. Il capitalismo macina primati. Il mercato si amplia. La borghesia si fa le ossa e i partiti socialisti si organizzano. Nasce la nuova Europa all’insegna del progresso scientifico e della tecnica come scienza applicata. Il progresso si profila ineluttabile come una fatalità cronologica. Sembra 29
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che basti andare avanti per andare bene. Non c’è ancora nessuna Simone Weil ad ammonire che bisogna, almeno di tanto in tanto, guardare anche in alto. Le promesse della scienza non si sono completamente inverate sul piano storico. La scena di oggi, sociale, politica e morale, non potrebbe essere più lontana da quelle prospettive radiose. Il secolo che era cominciato con uno squillo di fanfara termina con un gemito. Il poeta, Thomas S. Eliot, dirà: non con un bang, ma con un whimper. Perché? Per quale ragione la storia, già concepita come la marcia trionfale della scienza in quanto destino ineluttabile, approda, alla fine del secolo ventesimo, alla dichiarazione di morte della storia stessa ad opera di un impiegato del Dipartimento di Stato Usa e solerte consulente industriale, Francis Fukuyama? Nessuno sembra rendersi conto che dichiarare la «fine della storia» è ancora, inevitabilmente, un atto storico. Per questo, di rigore, non sarebbe necessario un altro Hegel. È chiaro che dalla storia non si evade e che ogni «superamento» della storia ad altro non ammonta che ad una nuova, inedita fase storica, anche se è vero che le nostre odierne ambizioni appaiono limitate e che la funzione sociale dell’utopia di Ernst Bloch e la «coscienza possibile» di György Lukács si sono tradotte e ridotte a un modesto viaggio, debitamente realizzato in autocorriera, magari a Roma, con gli sconti previsti per il Giubileo e l’assoluzione plenaria, debitamente preceduta dalla benedizione papale Urbi et Orbi, previa ingestione di una discreta dose di monossido di carbonio. Le promesse del progresso scientifico non si sono avverate, in primo luogo, per una contraddizione interna. La scienza si vuole neutra, eticamente indifferente. Chiedere alla scienza dei valori-guida vuol dire abbaiare alla luna. La crisi della razionalità scientifica, da questo punto di vista, si presenta 30
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inevitabile. Certamente la scienza indica e implica un processo razionale, ma è una razionalità puramente interna, capace di controllare l’esattezza delle proprie operazioni, la loro funzionalità, non in rapporto a uno scopo esterno, bensì solo nei termini delle proprie procedure interne. In questo senso, la razionalità scientifica e la tecnica che ne deriva e che la realizza sul piano pratico della produzione e della vita quotidiana sono una perfezione priva di scopo – perfezione formale, razionalità procedurale, che taglia i ponti con i problemi specifici della convivenza umana, può fiorire in qualsiasi regime politico e sociale, può servire alla fissione controllata dell’atomo o alla costruzione delle piramidi. Per questa via, la razionalità scientifica abbandona la scienza delle origini; si fa scientismo; caricatura di se stessa; acritico dogmatismo che tradisce lo spirito scientifico. Con lo scientismo si verifica uno straordinario spostamento della razionalità. La ragione abbandona l’individuo per farsi prerogativa impersonale, e quindi insindacabile, delle grandi organizzazioni burocratiche, formalmente razionali e pertanto inattaccabili dall’interno, impervie, incapaci di autocorrezione. Nasce così la «geometrizzazione del mondo», che però già in Platone era presente, tenuto conto del suo motto: «Dio è sempre geometra» e anche dell’ammonimento all’ingresso della sua Accademia: «Non entri qui né faccia parte di questa Accademia chi non conosce la geometria». Trionfano come criterio scientifico esclusivo il controllo numerico, la precisione quantitativa, la vittoria del quantitativo sulla qualità, il rifiuto del mondo del pressappoco. Ma l’abbiamo già affermato: non tutto il conoscibile è misurabile. La società industriale tecnicamente progredita non accetta questo limite. Concepisce lo stesso «sacro» in termini di frequenza ai sacramenti, numero di genuflessioni eseguite e di comunioni ingerite, messe 31
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celebrate, processioni organizzate e condotte a termine in debita uniforme. Un effetto esteriorizzante e di estremo rigore quantitativo e formale domina a poco a poco tutta la società, penetra nei comportamenti e nelle reazioni anche intime degli individui, si offre alla valutazione quantitativa in termini di scambio mercantile. Si prepara la mercificazione universale. La stessa nozione di «sacro» viene debitamente derubricata dal suo status di essenza fascinans e numinosa a fenomeno residuale, reliquia di un passato per sempre tramontato destinata ad una eclissi perpetua, prerogativa dei supposti «secoli bui» della storia umana. Ma anche dal punto di vista scientifico formale, non è chi non veda le aporie di questa critica. La critica del sacro in termini scientifici è nello stesso tempo insufficiente e contraddittoria: insufficiente, perché riduce il problema del sacro solo alle sue dimensioni psicologiche confondendole con la categoria della «credulità»; contraddittoria, perché si propone di criticare un oggetto di cui nega per principio l’esistenza o l’importanza. In realtà, il sacro, come area sottratta per principio alla legge profana del mercato e al criterio utilitario che lo giustifica, costituisce la sola area o zona franca disponibile per gli individui in cui sentire e far crescere in se stessi sentimenti e convincimenti che si sottraggano al principio del do ut des, ossia relazioni umane che abbiano valore in sé e per sé, indipendentemente dal tornaconto o dai vantaggi quantitativamente apprezzabili cui possono dar luogo. In questa prospettiva, non solo per i credenti ma più ancora per i laici, il sacro costituisce una garanzia fondamentale per la costruzione di una comunità umana non subordinata al dominio degli interessi economici prevalenti – una comunità in cui non tutti i rapporti interpersonali siano utilitari e in cui si salvi il valore intrinseco delle relazioni umane. Nelle condizioni di questo inizio di un nuovo secolo, gli individui, privati più o meno consapevolmente 32
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della loro capacità di decisione autonoma razionale, legati come sono alla logica impersonale delle grandi organizzazioni che ormai coprono tutto il pianeta, si trovano nell’angosciosa situazione di sentirsi nelle mani di un potere che non conoscono e le cui decisioni debbono subire senza possibilità di esercitare su di esse una qualsiasi azione reciproca significativa. D’altro canto, il prevalere del criterio quantitativo come esclusivo criterio giustificativo dell’azione sociale comporta necessariamente l’accrescimento indefinito della produzione, e quindi il bisogno impellente di creare il consumo allo scopo di garantire il flusso produttivo e mantenere le ruote del mercato in movimento. La razionalità scientistica nella sua forma estrema non ha quindi alcuna garanzia rispetto al corto circuito che si determina fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Questo corto circuito è al fondo delle crisi congiunturali del sistema capitalistico e smentisce duramente la pia illusione che il benessere sia destinato a diffondersi a macchia d’olio e che quindi debba, presto o tardi, raggiungere automaticamente e beneficiare anche le frange estreme dell’emarginazione sociale e della povertà cronica. Quella che Oscar Lewis chiamava la «culture of poverty» si autoriproduce continuamente. In realtà, il progresso concepito e attuato sulla molla del tornaconto in senso capitalistico riposa sulla distruzione sistematica delle risorse naturali del pianeta, che gli scrittori dell’Ottocento non prendevano in considerazione perché le ritenevano per definizione inesauribili. Una sola eccezione è probabilmente rappresentata da John Stuart Mill. Nei suoi Principles of Political Economy prospetta ad un certo punto i vantaggi e, anche, la necessità di una «stationery economy», vale a dire di una economia stazionaria o stabile, non condannata ad aumentare indefinitamente il flusso produttivo, sottratta alla logica del «more and more». L’intenzione era buona, ma 33
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il contesto culturale generale non poteva accettarla così come, più tardi, non sono apparse accettabili le indicazioni del «Club di Roma», animato da Aurelio Peccei, circa la riduzione della produzione capitalistica con l’ovvia osservazione che, se l’eccesso di produzione e quindi di consumo andavano bloccati, ciò poteva piacere a quelli che avevano già consumato, ma non a coloro che al banchetto dell’opulenza non si erano mai, neppure occasionalmente, seduti. In questi termini e su questo modesto piano di pura convenienza, la questione è evidentemente insolubile. Essa in realtà scava ancora più a fondo. Ci rimanda a una caduta che si collega direttamente con l’avvento della società industriale e del suo carattere presuntuosamente scientifico: la caduta del senso del limite, di quello che per gli antichi era il senso dell’àpeiron, ossia dell’illimitato, che non andava mai sfidato né tanto meno superato, pena il castigo che colpisce Ulisse quando travalica le colonne d’Ercole o di Prometeo quando sfida il veto degli dèi o ancora di Eva e di Adamo quando disobbediscono al divieto del dio biblico di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza, per non parlare del volo di Icaro, spintosi coraggiosamente troppo vicino al sole tanto da liquefare la cera che gli reggeva le ali, costruitegli dal padre Dedalo, e farlo miseramente precipitare. A parte i limiti tecnico-produttivi del modo di produzione vigente, va inoltre considerato un limite di natura giuridica di straordinaria rilevanza. Il progresso tecnico-produttivo su scala mondiale è oggi guidato e deciso dalle società multinazionali. La giustificazione della loro azione è per lo più offerta in termini di tecnologia raffinata esportata in Paesi tecnicamente arretrati e quindi beneficiati, si suppone, dalle stesse società. Si calcola che queste società si aggirino sulle duecento unità e che abbiano oggi nelle loro mani il pianeta. Ma il criterioguida delle loro decisioni operative non è il benessere della 34
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comunità in cui investono o quello dell’umanità in generale e neppure, a ben guardare, quello dei loro azionisti individuali, per lo più polverizzati in modo da riuscire del tutto ineffettuali dal punto di vista del controllo efficace e tempestivo delle decisioni dei nuovi uomini di potere, «chief executive officers», cui vanno stipendi, prebende e conti spese. Il criterio-guida è la massimizzazione del profitto in senso contabile, concepito senza alcun riguardo alle condizioni ambientali, all’atteggiamento della manodopera subordinata o alla comunità le cui risorse sono trasformate e sfruttate a fini di lucro. Quando l’investimento non risulti più conveniente, le società multinazionali fanno rapidamente le valigie e danno luogo a vistosi casi di «sradicamento ambientale e umano». Ma non sta qui il limite più grave. È un limite di principio. Nel momento stesso in cui le società multinazionali svolgono compiti economici e sociali di primaria importanza, e hanno quindi un vero e proprio potere politico pubblico, dai codici civile e penale vigenti vengono ancora a tutti gli effetti considerate meri «domicili privati». Questo sbilancio fra funzione politicosociale effettiva e statuto giuridico crea vuoti di responsabilità e aree di discrezionalità decisionale del tutto incompatibili con la tradizione e i principi dell’ordinamento democratico. È tuttavia da registrare un limite, quanto meno socialmente, ancora più importante, cui abbiamo già accennato. Riguarda il corto circuito sovrapproduzione-sottoconsumo. Non basta più produrre dei prodotti. Nel Terzo millennio sarà sempre più necessario produrre dei «produttori di consumo». Questi non possono essere ricercati fra le popolazioni dei Paesi economicamente sottosviluppati, in cui il reddito è così basso da non consentire margini accettabili di sfruttamento. I produttori di consumo devono necessariamente appartenere ai Paesi sviluppati. Ma qui i bisogni primari sono già da tempo soddisfatti. 35
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Emerge allora l’esigenza di rendere necessario il superfluo, di «rottamare» i vecchi prodotti per fare spazio ai nuovi, di indurre nuovi bisogni non strettamente necessari attraverso campagne di raffinate tecniche psicagogiche e di manipolazione di massa attraverso la suggestione di messaggi pubblicitari che inducono giovanissime ragazze a fumare per darsi dignità brandendo la sigaretta accesa come arma impropria, bambini a usare il tablet e il telefonino, persone d’ogni età a mutar d’abbigliamento secondo il cangiare rapido della moda, inondando i telegiornali di défilés, spingere la vendita di computer, «word processor», «videotapes», cellulari sempre più «sofisticati» e multitasking come simboli di status e mezzi per provare l’appartenenza ai circoli sociali superiori e alle classi finanziariamente solvibili. È evidente che avere abbandonato l’idea greca dell’àpeiron ci ha ridotti, e ancor più ci ridurrà nel prossimo avvenire, a una situazione schiavile nei riguardi dei prodotti che in linea di principio dovrebbero essere al nostro servizio. Nello stesso tempo, fondamentali dimensioni dell’essere umano sono dalla scienza trascurate. Intorno ad esse la scienza non ha niente da dire: il bisogno di riconoscimento e di accettazione, l’amore, l’esigenza di giustizia, l’inevitabilità della morte. Nel Terzo millennio è probabile che si moltiplicheranno gli esperimenti di espianto e di trapianto di organi e che il corpo umano sarà sempre più considerato come una macchina. Ma la realtà della morte continuerà ad essere vista, dalla società industriale tecnicamente progredita, come un mero incidente tecnico e l’ingegneria genetica continuerà a fare i suoi esperimenti sia in vitro sia in corpore vivo5.
5 Cfr. a questo proposito il mio Vietato morire – miti e tabù del secolo XXI, Imola, La Mandragora, 2004.
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Capitolo terzo
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Due logiche a confronto
La manovra di manipolazione psicologica a carico degli individui, quali prototipi irriducibili e irripetibili, conoscerà probabilmente nuovi, inediti successi. La comunicazione elettronicamente assistita trasmetterà in tempo reale e elaborerà quantità immense di dati senza la critica delle fonti e senza alcuna preoccupazione circa la possibilità di assimilazione critica da parte degli individui. Il flusso di informazioni trascurerà i problemi della formazione e si ridurrà a deformazione: creerà i famosi idiots savants che, con l’ausilio di un data base, sapranno tutto di tutto senza aver un benché minimo sospetto critico su nulla1. È probabile che la logica della scrittura debba prendere atto, nel corso dei prossimi decenni, della propria sconfitta a vantaggio della logica dell’audiovisivo. Oltretutto, il libro ai giovani di oggi appare già come un manufatto arcaico, non può reggere la concorrenza della televisione, del computer, della lavagna luminosa, del «word processor», dello smartphone, della navigazione nel cyberspazio di «Internet», di tutto l’apparato multimediale e della sua irresistibile capacità di seduzione. Ma i grandi 1
Cfr. in proposito il mio Un popolo di frenetici, informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli,
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interessi consolidati, i nuovi signori dell’etere, che decidono i flussi comunicativi, e gli imperatori della terra, che l’avvolgono di satelliti e di impulsi elettronici e che la cablano come una mummia da far agire e reagire a piacimento, non possono contentarsi di indurre nuovi bisogni di consumo dall’esterno. Vogliono qualche cosa di più. Vogliono controllare i percorsi degli individui, colonizzarli interiormente, sgretolarne, a fini di un più efficace e duraturo sfruttamento, la personalità, attaccandone il nucleo di coerenza fondato sui ricordi personali, intimi, non trasferibili, sul vissuto del singolo. La logica della scrittura è una logica analitica, cartesiana, ha bisogno di silenzio e solitudine, esalta e premia il raziocinio, l’individuo nel suo foro interno, secondo l’ammonimento agostiniano «in te ipsum redi», oppure, ricordando Persio, con la sua regola: Tecum habita. È una logica analitica, fondata sulla memoria del precedente, che comprende ciò che legge sulla base dell’antefatto. La logica dell’audiovisivo non è analitica; colpisce l’individuo con la potenza fulminea dell’immagine sintetica; non ha bisogno né di passato né di avvenire; è tutta schiacciata sull’immediato, sull’hic et nunc, vive nel presente, vibra nell’istante, illude di poter dispensare, in luogo dell’individualità coerente, una personalità multipla, itinerante, mobile, priva d’un centro unificatore, nomade, disponibile. In apparenza, è una personalità più ricca. È l’homo sentiens, che vedo e teorizzo come il successore, ma anche il surrogato, dell’homo sapiens di ascendenza socratica2. Ma, rispetto all’umanità dell’uomo, è un arricchimento o un impoverimento? Possiamo ancora parlare di persone, di individui consapevoli di sé, o dobbiamo contentarci di meri simulacri, di 2
Cfr. il mio Homo sentiens, Napoli, Liguori, 1995.
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comparse, di esperti navigatori di Internet, drogati di immagini e ormai incapaci di comprendere la differenza fra il vedere e il toccare, fra l’essere spettatori, e anche attivi compartecipi ma sempre in base a un programma precostituito e al di qua dello schermo, e l’essere protagonisti, decidendo in prima persona, sperimentando direttamente, in base a quella totale libertà e indeterminazione che si esprime nell’involontarietà essenziale del pensiero individuale? Il libro, strumento principe della logica della scrittura, sta perdendo la partita. Le giovani generazioni si sono votate e legate alla logica dell’immagine. È piacevole, seducente, allegramente smemorata, trasognata, ilare. Produce individui perfettamente adatti alla società tecnicamente progredita, rapidi, scientificamente raffinati e interiormente barbari o vuoti. Un rappresentante delle culture e dei Paesi tecnicamente sottosviluppati, ancora legati al caldo delle antiche millenarie tradizioni del rapporto a faccia a faccia e della fisicità del corpo in tutta la sua portata, l’ha già detto: «Voi occidentali possedete una mentalità che vi fa costruire ottimamente gli aeroplani, ma non vi permette di capire gli esseri umani». Come a dire: siete tecnicamente avanzati e moralmente primitivi. Non siete più capaci di fare una carezza. La logica dell’audiovisivo esaspera l’emotività, mortifica il ragionamento, declassa la realtà reale ed esalta la realtà «virtuale». Qui bisogna intendersi: c’è una virtualità in ogni realtà sensibile, empiricamente controllabile. Vale a dire: ogni realtà è ciò che è, ma è anche ciò che potrebbe essere. Vibra in essa, anche nel più minuto briciolo di empiria, una potenzialità verso il non ancora esistente, che già Aristotele esprimeva con il termine teleologico «entelechìa», a denotare la tensione di ogni oggetto verso il non ancora esistente che è peraltro già in nuce contenuto nella sua empirica, circoscritta fatticità. 39
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Non è di questa virtualità, che poi in Tommaso d’Aquino si porrà come «atto» e «potenza», che qui si parla. Qui parliamo della «realtà virtuale» come realtà «simulata». Nessun dubbio che la camera di simulazione che si pone come una cabina di pilotaggio sia utile per i giovani piloti, anche se poi scopriranno che la turbolenza reale è un’altra cosa. Ma quando la realtà virtuale prende sistematicamente il posto dell’esperienza reale, in prima persona, non simulata ma di pelle, allora un rischio c’è. In altra sede ne ho discusso ampiamente: entra in crisi la fisicità dell’esperienza umana; la vita si disincarna; invece della vita vera, con il suo carico di incertezza e rischio, di successi e di fallimenti, abbiamo una sorta di viagra elettronico. La realtà virtuale può dar luogo a un viaggio virtuale, ossia ad un viaggiare stando fermi. In essa vi è un elemento fantasmatico. È una realtà che c’è e non c’è. Si pensi a chi simuli una gamba rotta e proceda con questa gamba ingessata, reggendosi a delle grucce canadesi. La realtà virtuale con la gamba rotta coincide allora con il prodotto di una simulazione. Ma se lo incontro per strada, gli cedo il passo. Per me è reale. Ma la simulazione tende al simulacro. Dov’è il confine fra realtà reale e realtà virtuale? L’individuo, reso multiplo grazie alla realtà virtuale, si trova, alla fine del processo, effettivamente arricchito o definitivamente sgretolato? Infine, se è vero che si parte per tornare, non si dà il rischio di partire come individui coerenti e consapevoli di sé e poi tornare come individui interiormente frantumati, ridotti a caricature di se stessi? Il Terzo millennio sta per concludere la sua seconda decade. Nietzsche si è sbagliato. Non l’Übermensch, ma l’Untermensch avanza. Gli antropoidi sono in marcia. Nessun ragionamento sarà ammesso. Nessuna emozione andrà perduta. La copula come digestivo. La comunione come ludica agape. Il 40
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coacervo come convivialità. Dove sono finiti gli esseri umani, semplicemente umani? Una ristretta élite di specialisti li manipola e quindi li comanda. Non hanno nome. Non hanno volto. Deus absconditus. Il gap cognitivo fra specialisti e cittadino comune, il quidam de populo, che costituisce comunque la maggioranza, è destinato a crescere. Prende piede il mito della «democrazia diretta», con il semplice clic della rete, senza alcun rapporto faccia a faccia. Non ci si rende conto che, lungi dal dare la parola a tutti, stiamo entrando nella società irretita, dominata da una minoranza occulta, politicamente e moralmente irresponsabile. Con questa osservazione non si intende criticare la scienza come tale. La scienza è un valore. Ma è un valore strumentale che non va scambiato con un valore finale. La scienza è sempre più specialistica. Cresce, correlativamente, la maggioranza degli ignoranti. La contrapposizione platonica fra dόxa e epistéme si approfondisce, diventa frattura. Si profila un rischio mortale per la sopravvivenza umana. Una élite ristretta di superuomini al comando di una massa di antropoidi. Il concetto si afferma come prodotto puramente intellettuale, ignora l’esperienza comune. Forse solo oggi, con l’elettronica applicata su scala planetaria, possiamo avere la misura dell’odierno cadere e rifrangersi di ordini e di idee che un tempo poterono ritenersi eterni solo perché erano pietrificati. Sia pure con difficoltà si comincia a muovere i primi passi verso una piena presa di coscienza della necessità di rivalutare la conoscenza ordinaria e la sua ignoranza relativa. Una consapevolezza, peraltro, che rifiuta qualsiasi intento edificante, che non brucia incenso alle vuote certezze ideologiche e che si sottrae, oltre che alla progettualità vagamente progressistica, al «totalitarismo» e all’«imperialismo» della logica. Con una 41
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modestia, che agli specialisti dell’attività intellettuale riesce sempre difficile, se non impossibile, malati come sono di infallibilismo, si osa qui proporre una «nuova arte di pensare» o, come potrebbe anche dirsi, più che un nuovo metodo, un nuovo approccio, un taglio diverso del discorso sociologico, da ridursi o da completarsi come «conoscenza partecipata». Si tratta della «conoscenza ordinaria», ossia della rivalutazione, ma anche della riscoperta dell’abitudinario, del quotidiano, della non banalità del banale, di ciò che non si vede – o non si vede più – perché è sotto gli occhi di tutti e lo si dà per scontato. La novità è dunque nella scoperta dell’usuale, del non-nuovo. Il prosaico, il routinier, ad un esame ravvicinato si fanno mistero e avventura. Ma per entrare nelle pieghe del vissuto quotidiano gli apparati teorico-concettuali della tradizione si presentano spuntati e, alla fine, inutili e fuorvianti. Di qui la critica delle categorie precostituite e degli schemi teorici che presuppongono la ricerca invece di crescere con essa, e per la quale hanno goduto di una certa notorietà, nella seconda metà del secolo scorso, Harold Garfinkel e in generale gli etnometodologi.
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Capitolo quarto
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La sconfitta di Prometeo
Le vittorie si pagano. Thorstein Veblen diceva che c’è una «penalty of taking the lead». L’Occidente è vittima della sua vittoria. Una grande vittoria è quasi sempre un grande pericolo. Nei primi anni del secolo scorso, Max Weber si interrogava, con un’ansia che spesso sfiorava l’angoscia, su come mai «solo in Occidente» (Nur in Okzident) si fosse realizzata e praticata su vasta scala la tenuta dei registri contabili e la partita doppia rispetto ai processi produttivi e distributivi dell’economia. Oggi questi fenomeni sono planetari, s’accoppiano a dittature comuniste, come in Cina a dispetto di Confucio, e in India, a dispetto del regime castale ancore vivo nel costume, se non nella Costituzione della Repubblica indiana. Il capitalismo è magmatico e proteiforme. Per questa ragione, non so se sia il caso di riprendere e ricantare le pagine sul Tramonto dell’Occidente pateticamente stese da Oswald Spengler dopo la Prima guerra mondiale. Un dato è certo: come ho già più sopra osservato, dopo venticinque secoli, dall’Atene di Pericle ad oggi, il destino dell’Europa non è più in mano agli Europei. Dipende dal rapporto fra Stati Uniti e Russia. In subordine, emergono nuovi soggetti di peso mondiale, Cina e India. L’Europa tornerà 43
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ad essere quella che è sempre stata: un’appendice della massa continentale asiatica. Forse la storia, ancora una volta, sta cambiando alloggio e sarà saggio prenderne buona nota. Procede intanto, con una hybris selvaggia, dalla Silicon Valley a Bangalore in India e nel distretto di Shanghai, l’innovazione tecnologica, soprattutto nel campo dell’audiovisivo. Si pone un problema: La ricchezza, la molteplicità e la varietà delle informazioni, cui giovani e giovanissimi, per non parlare degli adulti spesso rimbambiti, sono un fattore formativo o deformativo? In via preliminare, mi sembra importante liberare il campo dalla facile taccia di neo-luddismo. Nessuna intenzione di emulare l’operaio inglese che nell’Ottocento, in un calzificio, temendo la disoccupazione tecnologica, si sfoga distruggendo il macchinario. Già molti anni fa, nel 1962, nella mia prolusione al corso di sociologia da cattedratico a livello pieno, poi pubblicata sotto il titolo Macchina e uomo nella società industriale1, osservavo che la tecnica ci pone un problema che ha avuto e ha tuttora i suoi profeti di sventura. Siamo stati abituati da tutta una tradizione culturale a contrapporre umanesimo e tecnica, macchina e uomo, civiltà umanistica e civiltà meccanica. Siffatta contrapposizione non è del tutto gratuita ma non va presa alla lettera. In particolare, occorre non farsi prendere dalla sua retorica. L’umanesimo non è una poltrona. Ed è un fatto interessante che l’anti-macchinismo abbia trovato i suoi propagandisti più eloquenti in uomini che non hanno alcuna familiarità professionale con la macchina. Essa conserva ai loro occhi tutto il fascino di una realtà misteriosa e terribile2. Mi sembra 1
F.F., Macchina e uomo nella società industriale, Torino, ERI, 1962. Cfr., in proposito, il mio volume La sociologia come partecipazione ed altri saggi, Torino, 1961, specialmente cap. II, «L’illusione tecnocratica», pp. 32-47. 2
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che abbia ragione Emmanuel Mounier: «L’anti-macchinismo è meno una dottrina che una corrente affettiva e passionale»3. Del resto, all’interno dell’«anti-macchinismo» è dato distinguere tre situazioni umane diverse. In primo luogo, l’anti-macchinismo dei gruppi umani pre-tecnici o paleo-tecnici. C’è una lacerazione socio-psicologica di cui soffrono i gruppi sociali nello stadio di transizione dal mondo contadino alla società industriale altamente meccanizzata. È da considerare, in secondo luogo, l’anti-macchinismo che consiste nella pura e semplice distruzione fisica delle macchine. È il «Luddismo». L’anti-macchinismo in senso proprio, ossia come posizione almeno embrionalmente riflessa e consapevole, non appartiene al mondo operaio, si costituisce come mito borghese, carico di una profonda nostalgia per l’idealizzata civiltà contadina, pre-tecnica, e i suoi campi verdi, intatti e i suoi prati puliti4. Ma questo terzo tipo di anti-macchinismo si dirompe in due sottotipo che possiamo rispettivamente indicare come la mistica dell’artigianato e il rifiuto del mondo moderno. I mistici dell’artigianato non sono per principio anti-tecnici; essi accettano il progresso tecnico con riserva. Corrono ai ripari sul piano politico e del costume. Il loro rappresentante più coerente è Proudhon. La polemica fra Marx e Proudhon è a questo riguardo esemplare. Di fronte a Marx che, fidente nel dogma laico della dialettica, attende dall’urto frontale fra le due classi fonda3 La machine en accusation, in Vari Autori, Industrialisation et Technocratie, Parigi, A. Colin, 1949, p. 7. 4 Cfr., per una esemplificazione in proposito di rara bellezza, Adriano Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica, ora in Società, Stato, Comunità, Milano, ed. di Comunità, 1956. Ma il mito di una civiltà contadina illibata e idealizzata, è da trovarsi in P.P. Pasolini, non per caso figlio di un militare di carriera, con il lamento neo-arcadico sulla «scomparsa delle lucciole».
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mentali la soluzione della questione sociale, Proudhon appare assai consapevole dell’estrema varietà della marxiana «classe generale» che è il proletariato e che egli preferisce chiamare «popolo», non crede nello scatto dialettico automatico, che gli sembra più lacerante che positivo anche alla lunga scadenza, non si stanca di affermare la «pluralità di elementi irriducibili e antagonistici» che caratterizza essenzialmente sia il mondo fisico che quello morale, una pluralità che è in netta antitesi rispetto al monolitico monismo hegeliano-marxistico. È soprattutto nella Philosophie de la Misère che le preoccupazioni di Proudhon, a proposito del gigantismo industriale e della tecnica che da strumento si rovescia in fine ultimo, trovano espressione: È questa contraddizione essenziale delle nostre idee – egli scrive – che, realizzandosi per mezzo del lavoro ed esprimendosi nella società con una potenza gigantesca, dà ad ogni caso il senso inverso di quello che dovrebbe avere e conferisce alla società l’aspetto di una tappezzeria vista dal rovescio o di un animale a testa in giù. L’uomo per mezzo della divisione del lavoro, doveva innalzarsi a poco a poco alla scienza e alla libertà; in realtà, per mezzo della divisione del lavoro, per mezzo della macchina, si abbrutisce e si rende schiavo5.
Il rimedio indicato da Proudhon alle antinomie della società capitalistica, per la sua stessa candida linearità, costituisce un bersaglio «idealistico» persino troppo facile al sarcastico rigore di Marx6. Per Proudhon si tratta di trovare la «equazione generale» di tutte le contraddizioni economiche della società, una equa5 Cfr. P.-J. Proudhon, Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère, Parigi, ed. Piccard, 1846, p. 409. 6 Cfr. in particolare K. Marx, Misère de la philosophie, Parigi, Editiones Sociales, 1847.
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zione che, alla stregua di un archetipo platonico, sarà il nec plus ultra dello sviluppo umano e segnerà nel contempo la soluzione di tutti i problemi. Questa «equazione» Proudhon già l’intravede: Si deve trattare di una legge di «scambio», di una teoria di «mutualità» di un sistema di garanzie che risolvano le forme vecchie delle nostre società civili e commerciali e soddisfi a tutte le condizioni di efficacia, di progresso e di giustizia che sono state indicate dalla critica; una società non più soltanto convenzionale, ma reale; che trasformi la divisione parcellare in istrumento di scienza; che abolisca la schiavitù delle macchine e prevenga le crisi della loro apparizione; che faccia della concorrenza un beneficio, e del monopolio una assicurazione per tutti; che, mediante la potenza del suo principio, invece di chiedere credito al capitale e protezione allo Stato, sottometta al lavoro il capitale e lo Stato, ecc. …, una società, in una parola, che essendo nello stesso tempo organizzazione e transizione, sfugga al provvisorio, garantisca tutto e non impegni nulla.
Chiedo a questo punto venia al lettore attento e puntiglioso se attingo alla trattazione che in altra sede ho dedicato al complesso rapporto fra Marx e Proudhon. L’opera con cui Marx replica a Proudhon, «filosofo della miseria», autore dell’opera Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, porta il titolo polemico di Miseria della Filosofia e fu composta dal Marx tra il 1846-47. Con riguardo alla divisione del lavoro ed alle macchine, Marx esamina, servendosi di uno schema, le considerazioni di Proudhon. 1) Lato buono della divisione del lavoro: «Considerata nella sua essenza, la divisione del lavoro è il modo secondo il quale si realizza l’uguaglianza delle condizioni e delle intelligenze» (Proudhon). 47
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«La divisione del lavoro è divenuta per noi strumento di miseria» (Proudhon). Variante 2) Lato cattivo della divisione del lavoro: «Dividendosi il lavoro secondo la legge che gli è propria, e che è la condizione principale della sua fecondità, raggiunge la negazione dei suoi fini e si distrugge da sé» (Proudhon). 3) Problema da risolvere: «Trovare la ricomposizione che cancelli gli inconvenienti della divisione pur conservando i suoi effetti utili» (Proudhon). Ciò che in primo luogo Marx rimprovera a Proudhon è di aver fatto della divisione del lavoro una «legge eterna», una categoria astratta. Ma la storia, osserva Marx, non procede per categorie. Per attuare in Germania quella divisione del lavoro su grande scala che ha determinato la separazione della città dalla campagna è occorsa un’evoluzione secolare. Inoltre, a seconda delle diverse epoche in cui si è manifestata, la divisione del lavoro ha assunto una sua particolare fisionomia che «sarebbe difficile dedurre dalla sola parola “dividere”, dall’idea, dalla categoria». Proudhon aveva osservato come gli economisti si fossero soffermati piuttosto sulle conseguenze vantaggiose che su quelle negative della divisione del lavoro. Soltanto Say, secondo Proudhon, aveva riconosciuto che ciò che produce il bene nella divisione del lavoro è nello stesso tempo fonte del male. Marx ribatte che il problema, assai prima di Say, era stato posto da Adam Smith e in base a uno scritto di Lemontay il problema era stato messo in luce da Ferguson. Per Marx Proudhon si sarebbe limitato a stabilire un parallelo tra l’operaio tipografo del suo tempo e l’operaio del Medio Evo, tra il letterato del suo tempo e il letterato del Medio Evo. Prigioniero di uno schema esplicativo non scientifico, bensì 48
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cospiratorio, vede nella divisione del lavoro la causa logica della diminuzione del salario e insieme la fonte della depravazione dell’individuo. Marx incalza: La divisione del lavoro riduce l’operaio ad una funzione degradante, a questa funzione degradante corrisponde un’anima depravata, alla depravazione dell’anima corrisponde una riduzione sempre crescente del salario. E per provare che questa riduzione dei salari conviene ad un’anima depravante, il Sig. Proudhon dice, a sdebito di coscienza, che è la «coscienza universale che così vuole». E l’anima del Sig. Proudhon è contata nella «coscienza universale»?
Marx passa quindi ad analizzare la parte riguardante le macchine che Proudhon definisce come «Antitesi logica della divisione del lavoro». Venendo meno alle premesse, Proudhon trasforma arbitrariamente, secondo Marx, la macchina in opificio: Dopo avere immaginato l’opificio moderno, per far derivare dalla divisione del lavoro la miseria, il sig. Proudhon suppone la miseria generata dalla divisione del lavoro, per arrivare all’opificio e per poterlo rappresentare come negazione dialettica di questa miseria.
Marx osserva come il procedimento «dialettico» proudhoniano difetti in ogni punto e critica il fatto che Proudhon abbia deviato dalla sua originaria definizione categoriale di divisione del lavoro assumendo che «il mulino a braccia suppone una divisione del lavoro diversa dal mulino a vapore». Proudhon ha inteso cominciare con la divisione del lavoro in genere per poter giungere poi ad uno strumento scientifico di produzione qual è la macchina. Ma, osserva Marx, 49
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le macchine non sono una categoria economica alla stessa maniera che non potrebbe essere tale il bue che tira l’aratro. Le macchine non sono che una forza produttiva. L’opificio moderno che riposa sull’applicazione delle macchine è una categoria economica.
Di più: la divisione del lavoro che secondo Proudhon, è un prius, rispetto alle macchine, esiste in realtà soltanto nell’industria moderna, non ha inizio al principio del mondo. Marx critica a fondo la tesi di Proudhon secondo la quale l’opificio è nato dalla divisione del lavoro e il salariato dall’opificio. A tale scopo esamina una serie di dati che concorsero simultaneamente allo sviluppo dell’industria manifatturiera in senso proprio per dimostrare che la divisione del lavoro presuppone la riunione di lavoratori in un opificio: Non v’è neppure un singolo esempio – scrive Marx – né nel secolo XVI né nel XVII, che i diversi rami d’uno stesso mestiere siano stati usufruiti separatamente al punto che sarebbe bastato riunirli in un sol luogo per ottenere l’opificio completo. Ma, riuniti gli uomini e gli strumenti, la divisione del lavoro quale sussistenza sotto la forma delle corporazioni, si riproduceva, si rifletteva di necessità nell’interno dell’opificio.
Proudhon vede dunque le cose precisamente a rovescio. Altrettanto si dica della definizione proudhoniana di macchine come sintesi capace di ristabilire l’unità del lavoro parcellizzato. Marx accetta e fa sua la definizione di macchina che dà Gabbage nel Trattato di economia politica:
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Quando per la divisione del lavoro ogni operazione particolare è stata ridotta all’impiego d’un istrumento semplice, la riunione di tutti questi strumenti, messi in azione da un solo motore, costituisce la macchina.
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La concentrazione degli strumenti di lavoro verrebbe dunque ad essere, secondo Proudhon, la negazione della divisione del lavoro. Nella realtà si verifica esattamente il contrario: a misura che si sviluppa la concentrazione degli strumenti, si sviluppa al pari la divisione e viceversa. Ecco perché ogni grande invenzione nella meccanica è seguita da una più grande divisione del lavoro, e ogni aumento nella divisione del lavoro apporta, a sua volta, nuove invenzioni meccaniche.
Infatti, stando all’esperienza storica inglese si può osservare che i più significativi progressi nel campo della divisione del lavoro cominciarono appunto con l’avvento delle macchine: i primi tessitori e filatori erano per lo più contadini ed è stata proprio l’invenzione delle macchine a separare l’industria manifatturiera da quella agricola. «Il tessitore e il filatore riuniti testé in una sola famiglia, furono separati dalla macchina» e fu in virtù dell’applicazione delle macchine che la divisione del lavoro assunse proporzioni tali che la grande industria, una volta staccata dal suolo nazionale, venne a dipendere esclusivamente dal mercato mondiale e dagli scambi internazionali. Proudhon parla diffusamente di un «fine provvidenziale» o «filantropico» nell’invenzione e nella primitiva applicazione delle macchine. Marx gli risponde che tale fine filantropico è pura illusione; le macchine si affermarono allorché si vide che il mercato inglese aveva assunto uno sviluppo tale che il 51
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lavoro manuale non era più sufficiente. Del resto, le condizioni di fatto rendono sinistramente ironico ogni discorso intorno al «fine provvidenziale»:
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I fanciulli erano tenuti al lavoro a colpi di frusta, si faceva di loro un oggetto di traffico e intercedeva un contatto con gli orfanotrofi […] l’operaio vedeva tanto poco nell’applicazione delle macchine una specie di riabilitazione, di «restaurazione», come dice il sig. Proudhon, che nel secolo XVIII resistette per ben lungo tempo all’impero nascente dell’automa.
Con l’introduzione delle macchine si è accresciuta, nell’interno della società, la divisione del lavoro. Ciò ha semplificato il compito dell’operaio nell’opificio; il capitale è stato riunito e l’individuo è stato maggiormente frazionato. Proudhon si appoggia all’autorità di Adam Smith, ma bisogna considerare che Smith parla di un tempo in cui l’opificio automatico era soltanto nella fase nascente. Nella sua Filosofia delle manifatture, scritta allorché l’industria ha già subito notevoli evoluzioni, Ure documenta come, in un sistema che scompone un procedimento per ridurlo ai suoi princípi costitutivi sottoponendone tutte le parti all’operazione di una macchina automatica, queste parti stesse possono essere affidate ad una persona dotata di ordinarie capacità, dopo averla sottoposta ad una breve prova. È inoltre possibile trasferire l’operaio da una macchina all’altra qualora le circostanze lo richiedano. Conclude Marx, riferendosi al famoso esempio della fabbricazione degli spilli: Tali mutazioni sono in aperta opposizione con l’antico sistema che divide il lavoro e assegna ad un operaio il compito di formare la testa di uno spillo e ad un altro quello di acuminare le punte. 52
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Allorché Proudhon nota la differenza che intercorre tra il maniscalco di campagna e l’operaio del Creuzot a tutto vantaggio del primo, compie un’osservazione corretta. A questo punto però, introducendo la divisione del lavoro e contrapponendovi successivamente le macchine, egli, secondo Marx, «propone all’operaio di fare solo la dodicesima parte di uno spillo, ma successivamente tutte le dodici parti. L’operaio arriverebbe così alla scienza ed alla coscienza dello spillo». Proudhon non ha provato a sufficienza la sua nozione di «lavoro sintetico». Inoltre, ciò che Proudhon mette in evidenza ad ogni passo della sua opera è la differenza tra il mondo a lui contemporaneo e l’età Medievale, ma così Proudhon «non è andato al di là dell’ideale del piccolo borghese. E per realizzare questo ideale non immagina niente di meglio che riportarci all’operaio o, tutt’al più, al maestro artigiano del Medio Evo». Con l’affermare che basta avere una sola volta nella vita prodotto un capo d’opera per sentirsi veramente uomo, non fa altro che tornare indietro perché, «non è forse questo – si domanda Marx – nella sua forma e nella sostanza, il capo d’opera voluto dal corpo del mestiere nel Medio Evo?». Ciò che in sostanza Marx rimprovera a Proudhon è questo voler ritornare all’antico, questo voler arrestarsi alle apparenze senza vedere in esse alcun aspetto positivo in vista della formazione della società futura. Marx infatti afferma che «una classe oppressa è condizione vitale di ogni società fondata sull’antagonismo delle classi. La redenzione della classe oppressa implica necessariamente la creazione di una nuova società». Difficile non dirsi d’accordo. Ma lo stesso Marx dovrebbe riconoscere che non basta andare avanti per andare bene. Del resto, nei mirabili capitoli XII, XIII, XIV del Libro primo del Capitale, è proprio Marx a darci l’esempio di una analisi 53
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critica a proposito di una novità tecnica e delle sue ricadute sociali. Quando l’utensile non è più nelle mani del tornitore (o del fresatore), ma viene incorporato nel tornio che da macchina universale o polivalente diventa macchina automatica, non c’è più bisogno dell’operaio specializzato per calcolare la velocità di taglio in rapporto alla durezza del materiale; è invece possibile, e conveniente, per il capitalista impiegare donne e bambini, e l’operaio, dice testualmente Marx, diventa mercante di schiavi, vende moglie e figli. E lui se ne va all’osteria. Un ragionamento analogo vorrei elaborare per le ricadute sociali dei nuovi aggeggi elettronici, pur sapendo che le loro conseguenze investono tutta la società, offrono in apparenza una socialità più ampia e più ricca, come voci autorevoli, come quella di Papa Bergoglio, affermano quando proclamano Internet un «dono di Dio» (per i suoi fabbricanti certamente), mentre si tratta di una socialità fredda, per tutti e per nessuno, che nega il linguaggio del corpo e il rapporto umano autentico, faccia a faccia, e che al limite mette a repentaglio l’esistenza della stessa società umana, ridotta a mera congerie di messaggi irresponsabili, spesso offensivi, non potendo contare su una critica delle fonti e portando inevitabilmente alla confusione fra accesso e eccesso. Nelle condizioni odierne, il problema posto dalla tecnica, come fenomeno pervasivo e onnipresente, è arduo, per molti aspetti, inedito, né sembra sufficiente interrogarsi, ancora in modo aprioristico e sulla scorta di tradizionali concetti deduttivistici, sull’«essenza della tecnica», come di questo tema si occupavano Martin Heidegger, nel 1933, e negli stessi anni Ernst Jünger, lo storico guerriero delle Tempeste d’acciaio, ma anche autore di L’operaio e frequentatore assiduo, durante l’occupazione dei suoi colleghi nazisti, del Jardin des plantes di Parigi, mentre il fratello minore Friedrich Georg Jünger 54
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pubblicava negli anni Cinquanta un volumetto, The Failure of Technology («Il fallimento della tecnologia»), presso la Henry Regnery Publishing Company di Chicago, ripreso poi in Francia dagli studi di Jacques Ellul. Nella tormentata storia dell’umanità, che non solo non ha un libretto, ma che offre alla considerazione dell’analista momenti e fasi di regressioni paurose – basti pensare ai nazisti campi di sterminio scientificamente organizzati e ai gulag staliniani alla metà del secolo ventesimo, interpretato ingenuamente come l’erede naturale dei «lumi» e delle «conquiste» tecniche del Sette-Ottocento – l’ordine sociale non può mai essere dato per scontato. Ha qualche cosa di miracoloso. È certamente un risultato inaudito. E fragile. Solo gli irresponsabili possono agevolmente pensare alla «immaginazione al potere», a un mondo nuovo generato da una rumorosa, fors’anche generosa, protesta, che però non riesce a farsi razionale proposta. La rivoluzione più straordinaria sembra legarsi alla possibilità di tenere in piedi una coesione sociale in continuo pericolo, nella quale i ruoli, da tempo immemorabile acquisiti e quindi concepiti come eterni, in realtà si trasformano e traballano, ormai, mentre viene meno un legame che, se non da tutti, dalle grandi maggioranze sia sentito e vissuto come dovere, obbligazione etica al di là delle cangianti formulazioni giuridiche formali, costume collettivo, destino. In queste condizioni l’auto-perpetuazione dell’umanità è lungi dall’essere garantita. Torna l’interrogativo fondamentale di Georg Simmel: «Come è possibile la società?» (Wie ist die Gesellschaft möglich?). Credo che, oggi, potrebbe venire legittimamente parafrasato in questi termini: che cosa tiene insieme e dà senso al sociale? Che cosa determina una «insiemità» significativa, non casuale? Una compagine, non una congerie. 55
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Il mondo di oggi è sempre più smaterializzato e nello stesso tempo smemorato. È sembrato comodo – e certamente di fatto lo è – affidare la memoria al file del computer. Un numero sempre maggiore di persone, in tutte le classi e in ogni strato sociale, si sentono perdute senza Internet. Ma non siamo, come esseri umani, nulla in senso assoluto. Siamo solo ciò che siamo stati. Più precisamente: ciò che ricordiamo di essere stati. Nessuna macchina, per quanto «intelligente», può ricordare per noi. C’è una sostanza intima, vissuta, nel ricordo che per la macchina non ha senso e che, forse non per caso, la parola stessa «ricordo» ci richiama legandosi al cor-cordis, al cuore così come in certe lingue «imparare a memoria» si dice imparare pour coeur, oppure by heart. La tradizione stessa, con l’atrofia della memoria, diviene inevitabilmente obsoleta. Viene abbandonata, dimenticata, come qualche cosa di inutile, di non più aggiornato né aggiornabile. Errore mortale. Perché la tradizione non è necessariamente tradizionalista. Può essere rivoluzionaria perché contiene semi, valori, aspirazioni non ancora inverati sul piano pratico politico. Nello stesso tempo, la religione scade a religiosità puramente personale, perde la forza vincolante dell’istituzione. La coscienza etica – il kantiano cielo stellato su di me e la coscienza morale dentro di me – appare riservata a minoranze élitarie sempre più ristrette. Forse un legame può scorgersi nel mercato, almeno a considerare la frase, così spesso ripetuta dai commentatori autorevoli: «Aspettiamo la verifica del mercato». Il mercato è certamente legittimo come foro di negoziazioni e di contrattazioni. Ma altrettanto appare certamente incapace di creare valori finali, essendo solo interessato a 56
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valori strumentali e a transazioni mercantili. Resta in piedi la comunicazione, con i suoi mezzi tecnici, elettronicamente assistiti. Ma quale comunicazione? A chi? Per chi? Per che cosa? Il mortale errore delle società odierne tecnicamente progredite, si fa evidente. Internet e gli altri innumerevoli mezzi comunicativi celebrano e consacrano à jamais la confusione fra valori strumentali e valori finali. Comincia a farsi strada il presagio di un vero pericolo anche fra gli specialisti più seri della comunicazione. Non solo non c’è più comunione fra coloro che comunicano. Si comunica «a», non più «con», cioè a tutti e a nessuno. Non solo. Nel momento in cui si può tecnicamente comunicare tutto in tempo reale, su scala planetaria, non c’è più nulla da comunicare. È questa la nuova socialità cui una voce autorevole come quella di Papa Bergoglio si riferisce quando proclamava Internet come «un dono di Dio». A dir poco si tratta di un dono danaico. Oltretutto non per caso inventato per ragioni militari. Uno specialista serio di queste tecniche comunicative non nasconde le sue perplessità: Nella nostra percezione, fino a qualche anno fa, ogni medium serviva a soddisfare una precisa funzione: la tv serviva a vedere, la radio a sentire, il telefono a parlare e così via. Poi le cose hanno iniziato a cambiare, sotto la spinta di un fenomeno che è in primo luogo tecnologico, quello della digitalizzazione dei media, che ha fatto sì che i diversi contenuti potessero viaggiare con più facilità attraverso diverse piattaforme e media. A seguito di questo primo «impulso tecnologico», sono cambiati i modi di produrre contenuti mediali, i modi di distribuirli e, di conseguenza, anche il modo di consumarli da parte degli utenti. Il tradizionale lavoro dei broadcaster è in fase calante, l’arrivo dei top player della rete sta cambiando piattaforme, contenuti, modello di business. 57
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Se è vero che la tecnologia ha in qualche modo innescato questo cambiamento, è altrettanto vero che non dobbiamo darne una lettura ingenua: quello della convergenza mediale non è un fenomeno solo tecnologico, ma deve essere pensato in termini più complessi e «culturali». L’importanza dei media nella società contemporanea li rende, infatti, non solo semplici strumenti, ma veri e propri ambienti in cui prende forma la nostra esperienza di vita quotidiana, anche emotiva. Pensiamo a come funzionano i social network, a Twitter, alle innovazioni introdotte da Facebook per rendere il suo social sempre più simile a un diario che racconta la storia della vita di ciascun utente. È così che il cambiamento in corso riguarda non solo la tecnologia, ma anche la «cultura» nel senso più ampio e antropologico della parola: un patrimonio di conoscenze, di nuove convenzioni sociali e di inedite espressioni di socialità. Un solo esempio. Un tempo, le discussioni avvenivano fra persone fisiche, oggi invece moltissime persone preferiscono discutere con altre seguendo il flusso dei social media. Stiamo assistendo a un passaggio dalla società della comunicazione, dove tutto il sistema produttivo industriale era in capo agli editori, ad una società della conversazione, che avviene su piattaforme esterne, come Twitter e Facebook, non controllate dalla filiera editoriale. E, di conseguenza, stiamo passando da una forma di «democrazia delle offerte» (le proposte dei partiti che vengono dall’alto) a una «democrazia delle domande» (richieste che fatalmente vengono dal basso). Eravamo convinti che la tv generalista avesse definitivamente traslocato la politica dai territori della società «reale» allo spazio mediatico, assegnandosi la gestione della sfera pubblica attraverso i suoi format, i suoi linguaggi. Adesso, invece, i politici cercano una comunicazione più diretta. È la politica dell’auto-rappresentazione nell’era 58
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dello storytelling. I giornalisti della carta stampata diffondono sfiducia (sempre a parlare delle cose che non vanno, della cattiva politica), i talk show d’approfondimento sono infidi (gente che urla e insulta), i telegiornali offrono poco spazio. Molto meglio i posti dove è possibile fare narrazione e dove non c’è spazio alcuno per le contronarrazioni. In questo senso sta cambiando radicalmente il ruolo dell’informazione: alla tradizionale mediazione è preferibile la contiguità, più spiccia ed efficace. Ma è davvero così, il web ha soppiantato i tradizionali mezzi di comunicazione? La Brexit, l’elezione di Donald Trump e la vittoria dei No al referendum sono dipesi dai social?7.
È certamente un cambiamento, come ormai si usa dire, «epocale». Qualcuno lo vede come un’autentica «rivoluzione», che andrebbe governata. È stato osservato: La storia di questa branca del progresso tecnologico, con il suo futuro, è descritta da Macchine intelligenti di John E. Kelly III e Steve Hamm (Egea editore), un libro che spiega come macchine sempre più potenti riusciranno a cambiare profondamente la nostra società e addirittura ad amministrare una città. I presupposti di questa rivoluzione sono davanti ai nostri occhi: il mondo è attraversato da un’infrastruttura digitale che «sta crescendo approssimativamente del 40% ogni anno, ed entro il 2020 arriverà alle dimensioni di 44 zetabytes» (uno zetabyte equivale a un byte elevato alla settantesima). La storia di Watson è quindi l’ideale punto d’inizio del saggio: nato come esperimento interno alla Ibm per dimostrare le capacità 7
Cfr. Aldo Grasso, Sette, Supplemento Corriere della Sera, 30 XII 2016, p. 26.
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dell’azienda, il supercomputer potrà occuparsi nel futuro di molte mansioni, tra cui quelle mediche. Grazie all’analisi del Big Data – enormi archivi di informazioni che le macchine possono studiare trovando trend e soluzioni a problemi – e alle incredibili specifiche tecniche di queste macchine, l’orizzonte è tutto da esplorare. Il testo non vende retorica sull’innovazione – scrive nella sua prefazione all’edizione italiana il giornalista del Corriere della Sera Massimo Sideri, – non nega gli aspetti commessi del futuro dell’intelligenza artificiale e non indugia sulla propaganda ipertecnologica». Tenendosi lontani dal tecnoutopismo in voga, Kelly e Hamm tracciano bilanci e dipingono scenari, alcuni di questi ultimi non sono così luminosi. Perché ogni «sistema operativo per città» che potremmo costruire, ovvero ogni computer in grado di regolare i comportamenti sociali delle persone, porterà con sé un insieme di domande: come abdicare in favore delle macchine nel modo giusto? Come costruire macchine che siano giuste, non razziste e rispettose della nostra privacy, dei nostri diritti? E soprattutto, dobbiamo proprio lasciare fare tutto ai computer? Il cambiamento è già in atto: gli umani hanno trasferito nel digitale molte mansioni- e molti altri mestieri e specializzazioni verranno, causando nuove tensioni socio-politiche. Potremmo potenziare il nostro corpo e cervello con chip di ultima generazione; potremmo velocizzare e ottimizzare sempre più processi, costruendo città a misura d’uomo (e computer) in grado di adattarsi e cambiare a seconda dei casi8.
Il «come» ha vinto sul «perché». Il predominio dell’audiovisivo, con la sua caratteristica devozione al potere ipnotico 8 Cfr. Pietro Minto, «Tutto il potere ai computer? Una rivoluzione da governare», Corriere della Sera, 2 gennaio 2017, p. 28.
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dell’immagine sintetica ha perfezionato la sconfitta della carta stampata, del libro, della lettura tranquilla, in solitudine, tutta la cultura che un tempo mi permisi di definire «cultura del paralume», in sostanziale accordo con l’illustre giurista Mario Bretone che la chiamava «cultura della campana verde». La razionalità ha abbandonato l’individuo. Il cervello umano è una macchina lenta. E ci vogliono pur sempre all’incirca nove mesi per procreare un bambino. Per Hegel, il grande capomastro svevo, come lo chiama Ernst Cassirer, instancabile costruttore di sistemi filosofici, la lettura del giornale è la preghiera del mattino dell’uomo moderno. Oggi quella preghiera è stata dimenticata, o quasi. La carta stampata è in crisi. Al mattino si apre Internet, si leggono le notizie al computer. La rete è il nuovo verbo. Peccato che non goda di alcuna critica delle fonti. Non solo. Se consente a tutti l’accesso, non ha alcuna possibilità di regolare l’eventuale eccesso. Non mancano difensori ad oltranza della rete, del nuovo verbo, quasi che ne avesse bisogno. Ma la tentazione di saltare sul carro del vincitore è, a quanto pare, irresistibile. Rispetto alla rete, specialmente a proposito delle sue ricadute socio-psicologiche sui giovani e giovanissimi, ma anche sui giovani adulti, questi opportunisti dalla mano lesta e di bocca buona si preoccupano di costruirne o quanto meno ipotizzarne una sorta di «architettura». Si prende atto dell’obsolescenza della carta stampata, dell’agonia del libro e delle ormai ridotte tirature dei giornali. C’è da sperare che resti almeno la carta igienica. In effetti si afferma, con la tracotante sicurezza di chi si sente l’avvenire nelle ossa, che l’informazione va ormai pensata oltre il video, l’audio e la carta: nell’era della permeabilità e dell’interconnessione, ogni superficie è sempre più – almeno in potenza – uno schermo 61
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su cui vedere ed essere visti, leggere ed essere letti, ascoltare ed essere ascoltati. Gli schermi sono oggi luoghi di relazione, solo in parte utilizzati per una fruizione passiva di contenuti9.
L’acuto recensore del libro di Federico Badaloni, Architettura della comunicazione10, osserva:
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In rete, il tempo e lo spazio assumono un nuovo significato antropologico, la metafora del cammino lineare con le sue certezze lascia spazio agli imprevisti della navigazione nel mare della rete. Quando si vive in un ambiente in cui è consentito un singolo percorso fra le informazioni, come per esempio la struttura di un Tg o la prima pagina di un quotidiano, si è costretti ad accogliere un percorso lineare di informazione. In un ambiente dove i percorsi possibili sono infiniti, perché viviamo in un’architettura che chiamiamo «rete», è necessario fare i conti non soltanto con le opportunità pensate dai progettisti degli ambienti, ma anche con la capacità di scegliere. Anche in rete è l’arte del discernimento che permette di distinguere il bene dal male, il noto dall’ignoto, l’umano dal disumano. Per questo è utile chiedersi: come orientare le scelte in rete? Come disegnare ambienti di comunicazione che ci rendano più liberi? Il passaggio dalla linea alla rete ridefinisce anche le nostre comunità sociali e politiche. In un ambiente di rete, la fiducia si costruisce attraverso le connessioni. Tutto questo perché è cambiato l’ecosistema dell’informazione: la linea retta dell’informazione – precisa l’Autore – ha lasciato il posto al grafo, che si compone di nodi e di archi. Così 9 Cfr. Francesco Occhetta, «L’architettura della rete», La civiltà cattolica, n. 3996, 24 dicembre 2016, p. 604. 10 F. Badaloni, Architettura della comunicazione, Roma, ed. «Il mio libro selfpublishing», 2016.
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l’architettura del nostro reale ritorna a essere quel grafo che ha caratterizzato il sapere e le informazioni tramandati dai monasteri medievali, o il senso della facciata della cattedrale di Notre-Dame a Parigi, oppure, secoli prima, la composizione dell’Iliade e dell’Odissea. Il valore dell’informazione dipende sia dalla sua qualità sia dal contesto in cui si dà; si arricchisce di significato quando viene collegata ad altre. È la teoria del grafo in cui, oltre al nodo – un piccolo «pezzo» di informazione –, l’arco connette la relazione fra nodi, e il valore dell’informazione è la somma dei nodi e degli archi. Il fatto che Gutenberg abbia prodotto la linea retta dell’informazione è stata, secondo l’Autore, una grande parentesi11.
Nessuna sorpresa circa l’esaltazione di Internet, visto che la «galassia Gutenberg» è solo una «parentesi»: Internet, il grande sistema nervoso della nostra realtà, aiuta a «comunicare, comprendere, trasformare e creare». Oggetti come gli occhiali o le auto possono ricevere e ridistribuire informazioni, perché viviamo in un mondo «conversazionale», nel quale internet dà voce agli oggetti intorno a noi perché li connette fra loro. Si capisce il mondo attraverso la percezione delle cose di cui esso è fatto: «Più che un medio per se stesso, internet agisce come un creatore di media che ci abilita a comunicare, capire, trasformare e creare nuovi ambienti con cui abitare. Progettare questi ambienti informativi – spiega Badaloni nella terza parte del volume – significa considerarli come “ecosistemi”, cioè come ambienti particolari in cui ci sono un continuo scambio di energia, che è fatta di informazione, e un equilibrio, che è frutto del dinamismo stesso del 11
Francesco Occhetta, cit.
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sistema. Sono queste le due caratteristiche che consentono all’ambiente di essere resiliente e abitabile per gli uomini, perché permette loro di costruire relazioni con gli oggetti e con le persone che sono parte di esso. Capire come progettare in base a queste caratteristiche è fondamentale per pensare, narrare e vendere un prodotto. Qualsiasi evento sociale passa ormai attraverso la gestione della comunicazione in rete. Per questo il quotidiano The Washington Post ha di recente assunto 40 ingegneri che collaborino con i giornalisti. Ma c’è di più: la notizia giornalistica riacquista valore economico solo se è pensata da un’architettura dell’informazione che fa del contenuto una fonte di relazione con ambienti, reti e comunità di riferimento. In altre parole, «il valore economico del contenuto cresce in funzione della capacità di un’informazione di passare da persona a persona. […] La partita si gioca infatti non solo nel produrre contenuto, ma anche nel farlo comparire nel luogo e nella forma migliore rispetto al contesto, alle caratteristiche e ai bisogni di una determinata persona»12.
E più avanti: La proposta si fonda sull’antropologia personalista e sfida il positivismo di molti architetti dell’informazione e user experience design a confrontarsi per capire su quali valori in gioco si basi oggi l’informazione. La tenace difesa, da parte di Badaloni, di valori per il mondo della rete – fiducia, dono, condivisione, solidarietà – potrebbe in prima battuta accreditarlo come irenico. Al contrario, è proprio il realismo del tecnico a fare di lui anche un educatore pronto a fornire chiavi di lettura umane per rafforzare le competenze di progettazione e 12
Ibidem.
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la costruzione di ambienti informativi complessi, come siti, applicazioni, giochi, software in generale, o per progettare ambienti fisico-digitali, come aeroporti, stazioni, infrastrutture cittadine. Certo, il volume è denso: viene approfondito il modo in cui ricavare valore dagli archivi; come definire le tassonomie (le parole chiave che servono per archiviare e gestire i dati) e progettare al meglio le interazioni fra le persone e le informazioni13.
Non una parola sulla critica delle fonti. Neppure un cenno a quel profluvio di cosiddette informazioni che sembrano destinate a creare soltanto quel chiasso interiore che blocca la capacità di giudizio personale fino ad inaridire la vita interiore e il ritorno critico su di sé, tanto da far richiamare quel coraggioso ceterum censeo che Goethe rivolgeva al fido Eckermann: «Del resto, non ho alcun interesse per ciò che si limita ad informarmi». È forse degno di nota che i supertecnici della comunicazione di oggi, anche quando siano per avventura psicologicamente orientati verso i valori metatecnici per definizione non negoziabili e quindi non riducibili alle «istruzioni per l’uso», sembrino inevitabilmente sordi o comunque incapaci di avvertire il pericolo insito nell’effetto estraniante dell’eccesso di informazioni e ancor meno l’impossibilità, soprattutto per adolescenti e giovani adulti, di coltivare una propria vita interiore e costruirsi una personale tavola delle priorità esistenziali. Nulla di eccezionale in questo panorama né può a rigore sorprendere che le riserve circa il «progresso tecnico», troppo spesso portato a concepirsi come fatalità cronologica e in questo senso a far coincidere il diverso sempre e necessariamente con il nuovo, se non con il meglio, vengano per solito 13
Ibidem.
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dismesse come le stucchevoli e comunque inutili nostalgie del veteroumanista che non si rassegna. Tra i più culturalmente provveduti si fa anche notare che le stesse obiurgazioni e critiche erano espresse, due secoli or sono, da spiriti raffinati come Coleridge e Wordsworth, in Inghilterra contro la prima «rivoluzione industriale», mentre al contempo proponevano la creazione di una «national clerisy», élitaria associazione di amanti della natura e della salubrità dell’aria. La Regina Elisabetta I proibiva l’uso eccessivo di legna per le prime macchine a vapore, ad evitare la deforestazione. A breve scadenza quelle preoccupazioni apparvero preziosità tipiche di scrittori e poeti, «anime belle» certamente in buona fede, ma fuori dal tempo e incapaci di comprendere il «progresso». Alla lunga scadenza, però, la malinconia poetica si presenta oggi nella sua vera sostanza di previsione quasi profetica. Coleridge e Wordsworth si preoccupavano dell’esaurimento delle risorse naturali, della sovrappopolazione, dello smog, delle polveri sottili che minacciavano la sopravvivenza dell’umanità su questo pianeta. Una società inedita, ansiosa, egolatrica e disorientata è alle porte. Forse è, anzi, già cominciata, è già qui. Forse è già troppo tardi e la denuncia di questo edonismo tragico appare tanto accorata quanto tardiva. Ma che cos’è la vita interiore? Che cosa, con il progresso tecnico, abbiamo perduto o abbiamo guadagnato? Sembra evidente che il tema non riguardi solo il lavoro subordinato e neppure quello impiegatizio o intellettuale, dai «colletti bianchi» ai gruppi dirigenti in senso lato, governanti e influenzanti. È chiaro che non è solo il passaggio dalle tute blu al camice bianco, dall’operaio all’operatore. Le nuove condizioni sociali, legate in vario modo alle nuove tecnologie comunicative, in quanto si pongono come l’inedito fattore integrativo che tiene insieme quell’aggregato umano che si continua a chiamare «società», 66
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coinvolgono tutti gli strati sociali e le strutture istituzionali. Arrivano a investire il vissuto intimo degli individui con effetti, per gran parte, ancora da esplorare. È noto che, con la realtà «virtuale», viene smaterializzata l’esperienza e premiata l’acuità visiva, il potere ipnotico dell’immagine sintetica rispetto alla logica della parola, alla consecutio temporum e al principio di non contraddizione (nequit idem simul esse et non esse). La vita interiore, come capacità di ritorno critico su di sé e conversazione con se stessi, sta diventando una rarità. Tra le ragioni che non ci sono ancora chiare, di ordine teorico e psicologico-sociale, fin da ora è legittimo considerare quella, potente e onnipresente, della comunicazione elettronicamente assistita. Il suo effetto sugli individui, un effetto che al limite li può semplicemente azzerare, è duplice: de-concentrazione e estraniamento da se stessi. Il foro interiore è tutto occupato da stimoli esogeni e dal chiasso di informazioni da fuori, deformanti e de-concentranti. Per un esempio antitetico e a contrario, si pensi a Socrate quando, come accade, è invitato a cena – una di quelle cene protratte nella notte in cui tutti finiscono, ubriachi, sotto i triclini, e lui, Socrate, si alza e se ne va, tranquillo, a cercare aria buona e nuovi interlocutori. Una sera è invitato, con altri amici, da Agatone. Ma tarda ad arrivare e gli ospiti sono in ansia. Cosa gli sarà capitato? Come mai non arriva? Ma chi lo conosce bene non si turba. Dice: state tranquilli. È capitato più di una volta. Gli è venuta un’idea. Si è fermato, per strada, a riflettere. Che cos’è, dunque, la vita interiore? Non mi sembra il caso di scomodare l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis o di Gersone, da Vercelli, e neppure Santa Teresa d’Avila o San Giovanni della Croce, i guru indiani o i sufi del misticismo islamico, Meister Eckhart o Santa 67
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Teresa del Bambin Gesù con quella sua mirabile Histoire d’une âme. Non dipende dal cilicio o dal digiuno. Come più sopra osservato, la vita interiore è semplicemente il ritorno critico su di sé, un atto, non narcisistico, di auto-osservazione, quindi la rinuncia al mondo e alle sue pompe, per i credenti espressa nell’«abrenuntio» battesimale; per tutti, credenti e non credenti, la costruzione di una tavola di priorità personale, il fare a meno del superfluo e quindi la scelta concentrata dell’essenziale, che implica l’abbandono della cultura come divertimento, distrazione, evasione. Alcuni decenni or sono, credo nel 1980, in un convegno filosofico-letterario generosamente promosso da una ridente cittadina marchigiana, Fermo, riuscivo a dimostrare al noto giornalista-scrittore Umberto Eco che era caduto in contraddizione. L’uomo, con accattivante buonumore, ebbe a replicare: «Ehm bè? Sì, può darsi. Mi contraddico. E con ciò? Sono lieto di contraddirmi. Se, per esempio, io fossi nato ad Alessandria d’Egitto e non ad Alessandria, Piemonte, chi sa? Forse sarei diventato il bibliotecario della famosa biblioteca di Alessandria, forse prima che Erostato vi appiccasse il fuoco…». Con la sua concezione della cultura come divertito esercizio combinatorio o ars combinatoria rispetto alla casualità degli eventi, l’acuto giocoliere delle idee divertiva il suo pubblico e si collocava nella tradizione intellettuale italiana che vede e consacra il primato dell’emozione contro la ragione. L’intellettuale italiano, eterno spaghettante dello spirito, gioca con le idee, non le prende sul serio. Per questo può anche riuscire simpatico e avere successo. Ma nel gioco si nasconde il disprezzo per le idee: l’una vale l’altra. Quindi, nessuna ha veramente valore. Meglio riderci sopra, mémori del grande avo, Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico: 68
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Quant’è bella giovinezza Che si fugge tuttavia. Chi vuol esser lieto sia Del diman non v’è certezza.
Donde, riso, insicurezza, ma anche duplicità, auto-deprecazione drammatica. Primum vivere. Edonismo tragico. Manca il Super-Ego. Marshall McLuhan, il «profeta dell’elettricità», come amava definirsi – ma l’elettronica era già alle porte – riteneva che fino ad oggi abbiamo usato solo l’emisfero sinistro del cervello, quello cartesiano, razionale, rigorosamente logico in senso formale. È venuto il tempo, sosteneva a gran voce, di aprirsi all’emisfero destro, caldo, istintivo, materno. Ma da ultimo, quando insieme si teneva un seminario al Trinity College di Toronto, con l’attenta collaborazione di Abraham Rotstein, l’ormai vecchio McLuhan appariva preoccupato e non esitava a esprimere dubbi sulla TV, macchina diabolica, che forse avrebbe «svuotato» l’essere umano nel momento stesso in cui, come sua improbabile protesi, prometteva una ubiquità quasi divina. Si stava passando dall’«ordine del discorso», per valerci di un titolo piuttosto noto di Michel Foucault, al riconoscimento, se non al primato, delle emozioni, dalle esigenze, anche crudeli, del Super-Ego all’erratico brancolare degli hollow men, degli uomini vuoti, che un poeta, T.S. Eliot, avrebbe presagito ancor prima degli analisti sociali. La longevità, stando alla Bibbia, è una benedizione divina. Ma è noto che la virtù non ha il monopolio della verità ed è quindi lecito intrattenere in proposito qualche dubbio. La precocità, d’altro canto, non è priva di pericoli. Dire o scrivere troppo presto verità amare e pensieri controcorrente, anticipare scenari o esigenze di cui nessuno o pochi sembrano consapevoli espone 69
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a qualche delusione e a una certa quota di insuccesso e isolamento. A Giordano Bruno è andata anche peggio. Per stare ai tempi nostri, si pensi a Adriano Olivetti e alle sue previsioni circa le nefandezze della partitocrazia, nel campo politico, e le sciagure del capitalismo piratesco, nel campo industriale. Lo stesso poteva accadere a chi ardisse prevedere, una trentina d’anni fa, che «la tecnologia sta prendendo il comando sulla via dello sfacelo»14. Ma anche oggi, in realtà dagli anni Ottanta, chi si permettesse di evocare i pericoli per gli adolescenti, giovani adulti e adulti, connessi con l’uso generalizzato dei mezzi d’informazione elettronici, in particolare della «tavoletta» o del tablet, come amano dire i neo-provinciali dell’italica Beozia, andrebbe incontro a qualche accusa di oscurantismo, salvo poi a dover leggere, sia sui giornali che sugli stessi schermi della TV e di Internet, singolari palinodie, vere e proprie lacrime di coccodrillo, forse non troppo dissimili dalle finte lamentazioni di prèfiche a pagamento che un tempo seguivano i funerali di lusso15. Recano i giornali16 che la rivista specializzata Archives of Disease in Childhood ha pubblicato un articolo che lancia l’allerta sui bambini ossessionati dalla TV. Punta il dito sui conseguenti disturbi dell’apprendimento e fisici (l’obesità anzitutto). E auspica che anche il Paese di Sua Maestà elabori linee guida simili a quelle già redatte in Canada, Stati Uniti e Australia, che fissano restrizioni come per il consumo dell’alcol (a dire la verità, con scarsi risultati: un adolescente nordamericano spende otto ore di fronte a uno schermo, contro le sei di un britannico). Di qui l’allarme rosso per i più piccoli, 14 Previsione ripresa e ristampata nel mio La strage degli innocenti, pp. 85-94, Roma, Armando editore, 2011, pp. 85-94. 15 Si veda il mio Un popolo di frenetici, informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli, 2012. 16 Vedi Corriere della Sera, 10 ottobre 2012, p. 27.
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rilanciato dal Guardian, perché l’età più critica va da zero a tre anni, quando è indispensabile interagire con gli occhi di mamma e papà. Eppure, tablet e strumenti multimediali fanno parte del mondo di oggi. Impossibile non tenerne conto. A San Donato Milanese, nel nido scuola Eni frequentato da 168 bambini da tre mesi a sei anni, tutti i giorni vengono utilizzati grandi monitor, cornici elettroniche, iPad, tavolette grafiche, scanner e pc: quello digitale è uno dei cento linguaggi che stanno alla base del progetto pedagogico messo a punto da Reggio Children. E niente tivù: rende troppo passivi. «È inutile demonizzare gli strumenti, sono nel mondo e chi lo esplora non può non entrarne in contatto. È vero che sono potentissimi. Mi viene in mente un volo Canada-Italia: avevo accanto un piccolo di quattro anni che per tutto il tempo ha giocato con il tablet, vicino c’era la mamma che si prendeva cura della figlia più piccola, immagino sia stata la soluzione più comoda per far funzionare il viaggio. Ecco, mi preoccupa maggiormente un bambino lasciato solo per ore davanti al televisore», spiega Susanna Mantovani, psicologa e pedagogista, prorettore all’Università Milano-Bicocca, che ha contribuito a far nascere l’asilo Eni. Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei nuovi media, è coautore di Bambini e computer17 e Digital kids18. Anche lui smorza sui rischi di tablet e affini: Sotto l’anno non li farei mai usare. Ma fino ai tre anni, la loro attenzione è davvero limitata, si stufano in fretta. La curiosità va inquadrata nel comportamento esplorativo, identico di fronte a un giocattolo «povero». Trovo più passivizzante la Tv di un iPad, che invece è una via di mezzo tra qualcosa di 17 18
Paolo Ferri, Susanna Mantovani, Bambini e computer, Milano, Etas, 2006. Paolo Ferri, Susanna Mantovani, Digital Kids, Milano, Etas, 2008.
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animato: per un bimbo equivale a un gatto che all’improvviso fa miao, li sorprende. In definitiva, una «dieta mediale variata» fa bene. Purché vigilata da un adulto: mai lasciare i bimbi da soli con delle macchine.
Mentre l’audiovisivo elettronico celebra i suoi trionfi, naturalmente anche finanziari, con file chilometriche di aficionados che attendono ordinatamente il loro turno e dormono anche all’addiaccio per non perdere l’acquisto dell’ultimo ritrovato, il libro cede, la lettura diviene una pratica desueta. Non solo in Italia. Anche in Francia e in Germania dove da sempre poteva contare su uno «zoccolo duro» di lettori tradizionali. In Germania, nel 2012, il mercato dei libri è calato del 2 per cento. Una cifra trascurabile se paragonata al mercato italiano, dove nel 2011 c’è stato un calo del 3,7 per cento e nei primi otto mesi di quest’anno un crollo dell’8,7. Il fatturato nel 2011 è stato di 3,3 miliardi di euro, con una flessione del 4,6 per cento. Ma il male italiano non è solo congiunturale. I dati del rapporto sullo stato dell’editoria, presentati come ogni anno alla Buchmesse dall’Associazione Editori Italiani, denunciano impietosamente l’aggravarsi dell’impoverimento dell’Italia. Nel 2011 gli italiani da sei anni in su che leggevano un libro all’anno sono scesi dal 46,8 al 45,3 per cento, vale a dire di 723.000 unità. Più del 30 per cento di dirigenti, imprenditori, professionisti, perfino neo-laureati non ha letto un libro nell’arco degli ultimi dodici mesi. Il trionfo della logica dell’audiovisivo contro la logica della lettura sembra legarsi a caratteristiche strutturali di ordine tecnico. Il criterio direttivo delle società odierne, la molla del loro moto evolutivo, caduti i valori tradizionali, sembra in effetti ridursi al fattore tecnico. Ma la tecnologia è una perfezione 72
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priva di scopo. Scorgere in essa la forza decisiva per la guida dell’umanità significa confondere lamentevolmente un valore meramente strumentale con un valore finale. Per la loro natura intemporale, indifferente ai «valori di mercato», i valori finali appaiono scarsamente efficaci e storicamente irrilevanti. Vengono trascurati come acquisizioni scontate, se non inutili. In realtà, essi coinvolgono una razionalità sostanziale più ardua di quella tecnico-formale. Sono semi preziosi, che vanno gettati con cura nel terreno propizio. Hanno bisogno, per dare i loro frutti, di un’attesa paziente e vigile, rispettosa del silenzio, amica della solitudine. Ma proprio queste sono le condizioni negate dalle società tecnicamente progredite, iperproduttivistiche e cronofagiche. Sono le virtù di cui l’homo sentiens non sembra più capace o per le quali ha perso il gusto e non avverte più alcuna attrazione. C’è una censura implicita nella mera quantità delle informazioni. E c’è lo schiacciamento sul presente, la prevalenza dominante dell’immediato, la perdita della prospettiva e l’offuscarsi, il venir meno della memoria. L’antefatto si contrae. Il precedente storico, anche quello di rilievo, acquista la funzione pittoresca della scoperta archeologica frammentaria. Diventa folklore. Interessante, forse, curioso, ma privo di significato per l’effettivo vissuto. Ombra del passato remoto. Le trasmissioni televisive di storia, anche quando proclamano «la storia siamo noi», sembrano parlare di altra cosa, suonano antiche, residuali. Si è spezzato il legame fra memoria, esperienza e vissuto. Il pubblico si fa massa. È vero, però, che in un sistema culturale affogato nella comunicazione e bombardato da input della più diversa natura e provenienza, la comunicazione politica diretta – nella quale furono maestri i regimi totalitari di massa, i primi a sperimentare con grande capacità di evocazione 73
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simbolica i diversi linguaggi tecnologici della comunicazione – tende a perdere efficacia e centralità a vantaggio dell’influenza indiretta. Per influenza indiretta intendo quell’attività comunicativa che si affida a strategie indotte, in cui domina il codice della colloquialità, della quotidianità artefatta, della finta democraticità. Per molti aspetti potrà sembrare un progresso. Lasciar cadere il peso del passato storico, prossimo e remoto, potrà essere anche ritenuto ed esperito come una liberazione. Però: latet anguis in herba. Che la comunicazione politica si riduca ad un’operazione di cosmesi per cui le questioni etiche si pongano sullo stesso piano delle apparenze estetiche, la morale si scambi con il morale, la coerenza con la prepotente testardaggine, non dovrebbe granché meravigliare. Si dice che i bambini e gli adolescenti di oggi, perdutamente innamorati dello schermo e abilissimi nel cliccare Internet, siano più intelligenti, più informati di quelli di ieri. Può essere vero. Ma di quale intelligenza, di quali informazioni si tratta? Se non già oggi, quasi certamente domani, saremo probabilmente messi di fronte ad un popolo di informatissimi idioti, se è vera la definizione dell’idiota come di colui qui sait et ne comprend rien e che, come tale, incarna il tipo dell’idiot savant, la vittima supponente di una emotività dilagante a scapito del sobrio ragionamento. Ma non è solo questo. C’è lo schiacciamento sull’immediato. L’ignoranza dell’antefatto. Si arriva così a una situazione paradossale. Ma forse mai come in questo caso, pur con tutta la sua strana «spaesatezza» o dépaysement, il paradosso contiene una verità notevole. La rappresentanza democratica, dal punto di vista formale, e se ci si contenta della democrazia procedurale, è ineccepibile. Ma, grazie anche al «politichese» (e al tenore di vita consentito ai parlamentari dai loro emolumenti) la rappresentanza non è più rappresentativa. Quando la 74
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rappresentanza non è più rappresentativa, ossia manca della rappresentatività, scade inevitabilmente a rappresentazione, teatro, linguaggio esoterico, gesti, allusioni. È «il teatrino della politica». È la negazione del pensare ordinato e coerente, una sorta di caricaturale ripresa della commedia dell’arte, fatta di improvvisazioni e qui pro quo, ma è anche la fine, spesso prima che sia iniziata, della involontarietà del pensare non finalizzato, sovranamente libero. Il pensare diventa furbesco calcolare, complottare, progettare a breve scadenza in base alle convenienze immediate. Sembra accertato che la società della comunicazione e dell’informazione non informa e non comunica. Deforma e vanifica; prepara e provoca l’avvento di quella società che Mario Perniola e Jean Baudrillard hanno definito «la società dei simulacri», in cui adolescenti e giovani adulti non riescono più a distinguere la realtà reale dalla realtà virtuale, i videogiochi dai fenomeni effettivi. È venuta meno la realtà, la res, la cosa, la base dell’esperienza umana. Un mio vecchio libro (La storia e il quotidiano) è stato tradotto in inglese con un titolo che fa aggio sull’originale: The End of Conversation19, «La fine della conversazione». Si intuisce la replica: ma con le chat lines c’è più conversazione oggi che in ogni altra epoca storica. C’è più interscambio, più socialità. Ho già osservato più sopra che persino Papa Bergoglio ha detto che Internet è un dono di Dio (ai suoi fabbricanti certamente). Così sembra, ma è pura apparenza. La socialità elettronica è ampia, planetaria, ma è una socialità fredda. Manca il contatto diretto, personale; il dialogo de visu, a faccia a faccia. Ha eliminato il corpo. È in pericolo il «corpo 19
F.F., The End of Conversation, New York & London, Greenwood, 1988.
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del sociale», per valerci del titolo del libro di Claudio Tognonato20. Resta il sociale disincarnato. Ma è ancora «sociale»? Sostiene la replica: si comunica ovunque, da parte di tutti, in tempo reale. È vero. Ma, nel momento in cui si può tecnicamente comunicare tutto a tutti, non c’è più nulla da comunicare. La realtà virtuale è una base illusoria. La comunicazione elettronica ha tradito la sua stessa etimologia, che rimanda all’unione, alla comunione. Non si comunica più «con», ma «a». Una oralità senza destinatario: vox clamantis in deserto. Il dialogo si è ridotto al monologo. Non è solo la «folla solitaria», di cui scriveva David Riesman negli anni Cinquanta del secolo scorso. È una massa umana così auto-referenziale da rischiare di essere autistica. Essa trova nelle immagini preconfezionate che i mezzi elettronici le scrivono in faccia i nuovi idoli cui quotidianamente brucia energia e tempo di vita e dai quali psicologicamente dipende. Ci sono movimenti, chiamati col nome di alberghi di lusso, a 5 stelle. Propongono e praticano la democrazia diretta con la rete. Confondono dialogo interpersonale e sondaggio. Le domande sono dei Diktat di guru misteriosi, folta chioma a difesa: deus absconditus. È la parodia della democrazia. Non si tratta del messaggio o dell’immagine come tale, dell’immagine in sé e per sé. Piuttosto, la questione riguarda la sua genesi, il modo della sua formazione. Un conto è l’immagine che ciascuno, attraverso la parola scritta o ascoltata, si costruisce da sé; altra cosa è l’immagine già costruita, prefabbricata, per così dire, offerta ai teleutenti dell’audiovisivo e, anzi, più che offerta, imposta. Sull’immagine propria, elaborata da ciascun individuo in base alla parola, letta o ascoltata, sono ancora utili le riflessioni di Friedrich Nietzsche: 20 Claudio Tognonato, Il corpo del sociale: appunti per una sociologia esistenziale, Napoli, Liguori, 2006.
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… capisco il narratore epico e ricevo in mano un concetto dopo l’altro: ora mi aiuto con la fantasia, sintetizzo tutto e ho un’immagine. Così è raggiunto lo scopo: capisco l’immagine in quanto l’ho prodotta io stesso21.
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Altrettanto stimolanti, se pur in un mondo di pensiero diverso, riescono le considerazioni di Paul Claudel, poeta, diplomatico, uomo baciato dal successo mondano, ma anche autore di L’annonce fait à Marie, e fratello della grande Camille, scultrice, «schiavizzata» da Auguste Rodin, celebre autore di Le penseur: L’action de regarder est une conférence continuelle entre l’espèce extérieure que nous fixons et l’image intérieure que nous dessinons… Nous correspondons à l’image au dehors par une image personnelle raisonnée, critique, efficace, au fond de nous mêmes22.
È appena il caso di osservare che tutto questo cade con l’immagine o, anzi, con il torrente di immagini, perfettamente «prefabbricate» e offerte dall’audiovisivo oggi predominante alla folla di avide, inconsapevoli vittime. Poche anni or sono, il New York Times ha ricordato che l’universalmente osannato Steve Jobs, il fondatore di Apple e il profeta della velocità e della miniaturizzazione, in qualche luogo da me definito anche, con poco rispetto («de mortuis nisi bonum»), il profeta della putrefazione accelerata, era oltre tutto uno schiavista autoritario e ipersfruttatore per i suoi dipendenti. 21 Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi, vol. I, a cura di G. Campioni, Milano, Adelphi, 2004, p. 69; corsivo mio. 22 Cfr. Paul Claudel, Présence et prophétie, Fribourg en Suisse, éd. de la Librairie de l’Université, 1942, pp. 94-95.
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Nessuna meraviglia. Sessant’anni fa, quando ero fellow al «Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences», eravamo vicini di casa. Io abitavo a Palo Alto, nella Bay Area, a quaranta miglia da San Francisco, e Steve Jobs lavorava poco lontano, sulla collina di Los Altos. Sapevo che aveva la mentalità e il carattere tirannico del «padroncino». Ma la miniaturizzazione è andata avanti. I giapponesi, da quegli industriosi imitatori che sono sempre stati, oggi sopravanzano l’originale. Gli eroi omerici, stanchi e talvolta feriti dopo la pugna, invocavano Zeus di versare sulle loro palpebre il dolce dono di Morfeo, l’accogliente dio del sonno. Ora è la Sony che ci offre il casco detto Morfeo. Per i capi responsabili della multinazionale giapponese è una rivoluzione, non solo per l’intrattenimento. Assicurano che cambierà la testa della gente. È probabile. Se il casco Morfeo non ci farà cascare dal sonno, ci concederà in compenso esperienze inedite fino ai viaggi interstellari, a poco prezzo, con tariffe modiche, senza muoverci di casa. Infilato il casco della Sony in testa, standosene tranquillo spaparanzato sul sofà del salotto buono, o magari seduto alla finestra di casa, chiunque potrà entrare nel futuro. Si navigherà negli algidi abissi degli spazi siderali stando rigorosamente fermi, campioni del nomadismo sedentario. Sono i prodigi della realtà virtuale. Si potrebbero anche chiamare i miracoli o le illusioni, o ancora i giochi, con annessa frode, per le crescenti schiere degli aficionados dell’elettronica. Tutto è possibile, semplice, a portata di mano. Basta infilarsi un casco in testa e, almeno per qualche tempo, rinunciare al proprio cervello, cioè alla propria testa. La realtà virtuale è infinitamente più ricca e fantastica e finisce per vincere e battere la prosaica realtà reale. Si esalta la calda emotività contro il freddo raziocinio. Si spaccia la gratuita spontaneità infantile 78
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per autenticità creativa. Giusto dunque chiamare il nuovo ritrovato tecnologico Morfeo, dio del sonno. Attenzione, però: il sonno della ragione, come ci insegna l’esperienza storica (ma l’antefatto ormai conta poco) genera mostri. E quando infine la ragione si risveglia è sempre troppo tardi.
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Capitolo quinto
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L’uomo: natura e storia
È stata Marguérite Yourcenar, l’autrice famosa delle Memorie di Adriano, a intitolare un suo libro di saggi, Le Temps, ce grand sculpteur1, quasi che il tempo, con cura meticolosa e una certa crudele puntigliosità, si preoccupasse di scolpirci, giorno dopo giorno, fino ad assicurarci una immagine precisa, se non perfetta. Ma questa è ovviamente una illusione consolatoria. Non è il tempo. Siamo noi stessi a scolpirci e a scarnificarci. Si comincia a morire non appena si è nati. La morte è un processo lento; parte da lontano. Non è mai subitanea né improvvisa, anche quando colpisca, in apparenza, a tradimento. Si prepara per tempo. Ogni giorno un colpo di lima, forse nel senso del detto evangelico che «ad ogni giorno basta il suo dolore». Seneca l’ha intuito e detto in modo chiarissimo: «Vivere altro non è che ascoltarsi morire». Ma l’illusione è tenace. Pensiamo che il tempo sia un fiume in piena, che scende a valle e tutto travolge. Ruit hora. Ma siamo noi stessi il fiume, il tempo appare come un fuoco che divora e incenerisce. Ma siamo noi il fuoco che incendia e tutto incenerisce, restituendo infine la polvere alla polvere. 1
M. Yourcenar, Le Temps, ce grand sculpteur, Paris, Gallimard, 1983.
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L’uomo nasce nel tempo. E quindi la sua sostanza è filia temporis anche quando presuma di essere mater temporis. Sorge, inevitabile, la domanda: l’uomo ha natura oppure storia? La risposta di quanti considerano le società umane capaci di produrre da sé, per via rigorosamente immanente, i loro valori, la risposta è recisa e non sembra intrattenere dubbi. L’uomo non ha natura, come la pianta o la pietra. L’uomo ha storia. È un animale storico, che nella storia nasce e nella storia compie il suo destino. L’uomo ha storia e dalla storia non si evade, se non al prezzo dell’autoannullamento. È forse opportuno richiamare qui la posizione tenorilmente fatta valere da un pensatore di media levatura, ma appunto per questo rappresentativo della vulgata moderna e post-moderna, Jean-Paul Sartre. Come in altra sede ho osservato, Sartre è in proposito apodittico. L’uomo non è. L’uomo diviene. La sua «natura» non è un dato. È un processo, un movimento che oggi tende ad essere veloce, sempre più veloce, a precipitare nel suo vortice, mesmerizzato dal suo stesso fremito, catafratto in un ritmo sempre più precario, un ritmo che non è più l’ordine del movimento, ma il puro battito di un impulso frenetico. Ma se l’uomo è solo storia, e dalla storia non si evade, come giudicare la storia? Dov’è il criterio valutativo degli accadimenti? È ancora possibile parlare di «coscienza storica»? Come sfuggire al relativismo assoluto che porta necessariamente, se pure a scadenze non esattamente prevedibili, al nichilismo assoluto? Se non altro, perché, se tutto è relativo, la stessa verità del relativismo non può essere che relativa. L’uomo di fede si rivolge alla «rivelazione». Attende i responsi della sua chiesa. Si affida al magistero della gerarchia, secondo il duplice canone della chiesa docente e della chiesa discente. Crede nella dottrina ufficiale, non in base a ragioni «pubbliche», dimostrate, intersoggettivamente vincolanti, ma 81
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per un atto di sottomissione, di voluta «dipendenza accettata». Credo quia absurdum. D’altro canto, il fideismo implicito nelle ideologie globali dà luogo a religioni secolari improprie. La funzione di securizzazione psicologica della struttura ierocratica e del dogmatismo ideologico a favore del «vero credente» e del «militante di base» è fuori discussione, ma il tarlo della ragione non cessa dall’interrogarsi. L’uomo non evade dalla storia, ma la fa. Verum ipsum factum. L’uomo è nella storia come individuo agente, né totalmente libero né totalmente determinato. È un agente condizionato, vincolato a una situazione specifica. L’uomo fa la storia. È storia. In ogni momento, vive e viene vissuto. Vive come figlio di se stesso, delle sue iniziative, e nel contempo viene vissuto dalle circostanze. Compie un gesto che lo salva o lo perde. Ha di fronte a sé delle «possibilità». Deve scegliere. Anche il rifiuto di scegliere è una scelta. Ma in quanto artefice della sua storia, benché condizionato, c’è in lui un valore meta-storico che gli consente di giudicare la storia, di valutarla, di riviverla criticamente: l’uomo come fine, non come mero strumento. In questo senso, l’individuo è un valore: unico, irriducibile ad altro, irripetibile. Quando muore un individuo si piange perché scompare un prototipo che non tornerà. Prima non c’era; quindi nasce, c’è; poi, alla morte, scompare per sempre, non c’è più. Per tutta l’umanità è una perdita secca. Per questo è inutile domandare per chi suona la campana. Suona per te, per me, per tutti. Ogni morte è una perdita irreparabile e universale. Di fronte ad essa la scienza non ha niente da dire. L’individuo, oggi, è però in pericolo. La clonazione degli esseri umani è già tecnicamente possibile. La «personalità» della persona appare sempre più fragile. È venuta meno l’ombra di devozione e di silenzio che le consente di crescere, rafforzarsi, riconoscersi e legarsi al senso del suo destino. Il mondo 82
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tecnicamente progredito è sovraffollato e chiassoso. I grandi mezzi di comunicazione di massa informano e deformano nello stesso tempo. È in atto un processo, all’interno dei suoi termini forse inarrestabile, di standardizzazione. Nell’epoca in cui tutto si comunica potenzialmente a tutti in tempo reale c’è sempre meno da comunicare – meno di originale, imprevisto, non programmato, «autentico». Prevalgono nello stesso tempo l’emotività, la logica dell’armento, il comportamento di gruppi acefali, quello che fu già chiamato, con scarsa attenzione alla lampante contraddizione in terminis, l’uomo-massa. Tralascio in questa sede di considerare l’evoluzione umana nella prospettiva socio-biologica, inficiata come sembra dalla confusione mortale fra plurimillenaria mutazione genetica e mutamento sociale in senso storico-istituzionale. È importante invece considerare gli assunti dello storicismo nelle sue varie forme, da quelle temperate, non immuni da convinzioni fideistiche e provvidenzialistiche, come in Luigi Sturzo, alle versioni di storicismo assoluto, che approdano inevitabilmente e logicamente al relativismo come «politeismo dei valori» in fiera competizione fra loro e finalmente al nichilismo, piuttosto contraddittoriamente ancorato all’idealizzazione della Heimat e della Gemeinschaft, come valori archetipici prelogici sovrastanti. Data la vastità del tema, qui ci limitiamo a considerare lo storicismo del neo-idealismo post-hegeliano e della sua lunga, fortunata battaglia contro i diritti detti «naturali», a significare la loro caratteristica tendenzialmente metastorica, una battaglia culturale, con qualche risvolto o «ricaduta» di ordine politico alquanto preoccupante, in cui ancora in tempi recenti si sono distinti marxisti e soprattutto politologi e giuristi tardo-crociani, da Norberto Bobbio a Gustavo Zagrebelski. Nel mio vecchio libro – spero non troppo invecchiato (a suo tempo Umberto Galimberti mi aveva scritto che Karl Jaspers 83
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ne era entusiasta) – su Max Weber e il destino della ragione2, mi ero soffermato su questo nodo di problemi. Durante i freddi mesi invernali del 1951, nella saletta del primo piano al Quadrangle Club dell’Università di Chicago, fervevano le discussioni con Leo Strauss e Edward Shils sul rapporto fra fatti e valori. Intanto, per parte mia, facendo valere il condizionamento di ogni forma del pensare dalle circostanze oggettive, vale a dire dal contesto, notavo che era necessario parlare di giudizi di fatto e giudizi di valore e che quindi si trattava, in entrambi casi, di giudizi, vale a dire di constatazioni di situazioni e dati empiricamente circoscritti, per un verso, e di principi di preferenza, per l’altro. Non era possibile trattare, per esempio, della metodologia di Max Weber in abstracto, senza rischiare di ipostatizzare ontologicamente concetti e regole di lavoro, elaborati nel vivo procedere della ricerca. Nel capitolo secondo del mio Max Weber e il destino della ragione, c’è un chiaro riverbero di quelle discussioni. Mi sembrano da segnalare due interpretazioni del pensiero weberiano, che si collocano in posizione nettamente antitetica e che tuttavia rivelano entrambe un’incomprensione caratteristica. La prima interpretazione è di Leo Strauss, il quale dedica un lungo capitolo del suo libro Il diritto naturale e la storia all’analisi critica dell’impostazione weberiana. Strauss sostiene che, con il suo principio metodologico della Wertfreiheit, o della «libertà dai valori», Weber non solo non è riuscito a fondare e a garantire l’oggettività delle scienze sociali, ma ben al contrario ha potentemente contribuito a renderle insignificanti da un punto di vista umano e sociale, facendo perdere ad esse il senso dei problemi importanti, riducendole a posizioni erratiche di relativismo etico assoluto, polverizzando con ciò la loro 2
F.F., Max Weber e il destino della ragione, Roma-Bari, Laterza, 1964.
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funzione sociale positiva e inibendone lo stesso carattere conoscitivo e demistificatore mediante la loro pura e semplice strumentalizzazione al servizio del potente del giorno, sia egli un Hitler oppure un leader democraticamente eletto e orientato nelle sue decisioni (naturalmente, anche Adolf Hitler, dal punto di vista formale, a fine gennaio 1933 aveva le carte in regola). La seconda interpretazione la dobbiamo a Talcott Parsons, insigne teorico dello struttural-funzionalismo. Egli rimprovera a Weber di essersi accontentato di occasionali riflessioni metodologiche nel corso del vivo lavoro di ricerca invece di elaborare un compiuto sistema metodologico che avrebbe potuto validamente guidare la ricerca sociologica fornendo ad essa modelli euristici e ipotesi di lavoro specifiche. Del resto, è appunto questo il compito che Parsons si assegna per portare a compimento, come esplicitamente dichiara, con scarsa modestia o semplice inconsapevolezza, l’opera interrotta sia di Weber che di Pareto e di Durkheim. Ritengo che tanto Strauss che Parsons facciano torto a Weber. Il primo non sembra rendersi conto che il criterio della libertà dai valori o avalutatività, così fortemente fatto valere da Weber, gli serve storicamente come arma polemica contro quei colleghi universitari, come Heinrich von Treitschke, che usavano la cattedra per propagandare le loro convinzioni personali. Lungi dall’essere un alibi, il principio dell’avalutatività era per Weber un modo per condurre una dura, importante battaglia ideale contro l’asservimento della scienza sociale, e in particolare della sociologia, a dottrine ideologiche e a impostazioni dottrinarie che erano prive di una qualsiasi base scientifica in senso proprio. Per quanto riguarda la critica di Parsons, pur riconoscendo la finezza e, in più luoghi, l’innegabile acutezza della sua analisi, è necessario rilevare che essa denuncia un’incomprensione anche più radicale. Ciò che Parsons rimprovera 85
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a Weber è il merito storico di Weber: l’aver egli chiaramente rinunciato all’elaborazione di procedure metodologiche astratte, dissociate dalla ricerca concreta, che possono condurre a un formalismo sociologizzante costitutivamente incapace di comprendere i problemi della vita associata nella loro reale unicità, ossia in quanto storicamente determinati. La posizione di Weber sfugge a tali facili schematismi. L’oggettività di cui parla non è quella positivistica o naturalistica, come sembrano ritenere coloro che interpretano l’avalutatività, o la «libertà dai valori», come pura neutralità. E neppure può venir ridotta all’oggettività dello storicismo idealistico dogmatico, che risolve il reale, tutto il reale, senza residui nel pensato, ipostatizzato ontologicamente. L’oggettività sociologica, e in generale della scienza, si costituisce per l’uomo in rapporto al suo bisogno di entrare in rapporti significativi con il mondo e con gli altri uomini. È una oggettività per l’uomo, che si realizza non in un relativistico lasciarsi andare, ma al contrario nel prendere posizione, in piena consapevolezza, e nel controllare razionalmente (scientificamente) le proprie possibilità nella situazione determinata. Soprattutto a proposito della nozione di oggettività, non è mai da sottacere il fatto che tale lavoro di sistematizzazione logica nasce per Weber prima di tutto, come sempre, dal concreto, più che da una riflessione puramente speculativa e astratta. Notavo all’epoca, vale a dire nei tardi anni Cinquanta, che al pensiero di Leo Strauss, oggi per qualche aspetto tornato di moda in Europa e in Italia, mentre per anni era stato del tutto ignorato o polemicamente, e piuttosto sbrigativamente, demolito, era toccata la strana sorte di essere criticato senza essere stato compreso. Soprattutto la posizione neo-giusnaturalista straussiana aveva generalmente incontrato in Italia critiche severe. Si vedano, fra gli altri, Norberto Bobbio: 86
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Non chiaro nel disegno, un po’ farraginoso e rapsodico nell’esposizione […] sferra un duro attacco contro lo storicismo e contro la dottrina etica separante i valori dai fatti (che egli impersona in Max Weber) per propugnare il ritorno al diritto naturale classico al di fuori del quale non ci sarebbe che il correre a precipizio verso l’oscurantismo fanatico, il nichilismo3.
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E poi, al limite della sufficienza sprezzante, Guido Fassò: Confondere lo storicismo con un ingenuo relativismo etico empirico o è ignoranza dei termini del problema o altrimenti è un meschino mezzuccio polemico che ci si rifiuta di credere che possa essere usato da uno studioso quale lo Strauss4.
L’equazione giusnaturalismo-oscurantismo ha tuttora un certo corso, anche presso accreditati giuristi e costituzionalisti. Scrive Gustavo Zagrebelsky5, in la Repubblica: Nel campo della giustizia, la contrapposizione si traduce nella tensione tra diritto di natura e diritto positivo, cioè legislazione. La giustizia nella polis è di due specie – diceva già Aristotele –, quella naturale e quella legale; la giustizia naturale vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che sia riconosciuta o no. La giustizia legale, invece, è quella che riguarda ciò che, in origine, è indifferente e può variare secondo i luoghi e i tempi. La storia del “diritto naturale” è fatta di corsi e ricorsi. Per lunghi periodi può essere dato per morto. Nei decenni passati, quasi nessuno ci pensava più. Ma questo è un momento di rinascita: quando la legge fatta dagli N. Bobbio, Rivista di filosofia, 1954, p. 429. G. Fassò, Il Mulino, 1958, p. 239. 5 Vedi la Repubblica, 4 aprile 2007. 3 4
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uomini secondo le loro mutevoli convenzioni appare ingiusta, le si contrappone la legge obiettiva della natura, che nessuno può alterare. Così si fa da parte della Chiesa Cattolica, per opporsi ai cambiamenti in tema di unioni tra persone, eutanasia, sperimentazione scientifica, genetica, ecc.; e per ritornare all’antico, in tema di famiglia, contraccezione, aborto, ecc.
Il fervore polemico si giustifica forse in questo caso grazie alle posizioni fatte valere, in altra sede6, da Rocco Buttiglione, ligio, a quanto è dato di capire, alle nozioni più chiuse e dogmatiche circa la presunta «fissità» della natura umana. Scrive Buttiglione: Di diritto naturale di questi tempi si parla molto. Talvolta a proposito, più spesso a sproposito. Per capire partiamo da una definizione di S. Tommaso d’Aquino Lex est quaedam regula et mensura humanorum actuum quae servata societatem servat, corrupta corrumpit. Traduciamo: la legge (naturale) è una giusta regola a misura degli atti umani. Se la osserviamo la società fiorisce, se non la osserviamo la società va in rovina. Facciamo un esempio: se in una società tutti decidessero di non pagare le tasse quella società andrebbe in rovina. Facciamo un altro esempio: se in una società non ci fossero più famiglie, non nascerebbero più bambini. I pochi che nascessero non verrebbero educati e con buona probabilità diverrebbero dei delinquenti e la società si dissolverebbe. Corrisponde alla natura della società umana che le tasse debbano essere pagate e che la formazione delle famiglie venga facilitata. […] Dopo la prima guerra mondiale la rivoluzione comunista instaura la proprietà collettiva nell’Unione Sovietica. 6
Cfr. Formiche, n. 18, agosto-settembre 2007.
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In Austria invece si afferma un governo socialdemocratico che fa approvare una costituzione che non è socialista ma neppure liberal-capitalista. Questa costituzione registra un equilibrio di forza delle classi, in cui nessuna è in grado di far prevalere la sua idea di ‘natura’. È questo il clima culturale in cui matura l’opera di Hans Kelsen. Per Kelsen proprio l’equilibrio di forza fra le classi (il Gleichgewicht der Klassenkrafte teorizzato da Max Adler e da Otto Bauer) consente alla categoria della giuridicità di emanciparsi dalla soggezione rispetto alla base economica ed in generale all’idea di natura. Nasce così la teoria pura del diritto (Die reine Rechtslehre, titolo di un’opera famosa di Kelsen). Ci si potrebbe domandare se questa visione regga dopo il crollo del comunismo, e ci si potrebbe anche domandare se i giuristi che la maneggiano come se con Kelsen iniziasse la storia del pensiero giuridico siano sufficientemente consapevoli della sua radice storica. Contemporaneamente Carl Schmitt sviluppava una forma diversa, opposta e pur analoga, di arbitrarismo giuridico. In un mondo in cui non si riesce a trovare un accordo sulla natura delle cose il diritto non può essere interpretazione e mediazione che riconduce la diversità degli interessi ad una regola di bene comune. Il diritto può essere solo decisione (Entscheidung) che taglia dal corpo della società chi non consente qualificandolo come nemico. In conclusione: la grande stagione del diritto naturale nei secoli XVII e XVIII nasce proprio per mediare attraverso l’esercizio della ragione le guerre di religione fra cattolici e protestanti, nate dall’opposizione di leggi divine rivelate diverse o almeno interpretate in modo irriducibilmente diverso. Essa entra in crisi davanti ai totalitarismi moderni, che ripetono su scala ingrandita gli orrori delle guerre di religione sulla base di messianismi laicizzati ed atei. 89
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Rimane una domanda: come mai una parte così grande del pensiero laico contemporaneo ha smarrito l’idea di diritto naturale fino a regalare sommariamente il diritto naturale alla Chiesa Cattolica?
La risposta a questa domanda è da ricercarsi nel timore che il pensiero laico ha tradizionalmente intrattenuto circa la presunta staticità del diritto naturale, ancorato a una nozione dogmatica, data una volta per tutte, della natura umana. E tuttavia, fra una concezione fissa e retriva della natura e il relativismo dello storicismo assoluto, non in grado di distinguere fra legalità positiva e legittimità sostanziale, una terza concezione è possibile, quella che si richiama all’orizzonte storico, vale a dire a una fase particolare dello sviluppo umano e della consapevolezza sociale media ormai acquisita, legata a un particolare concetto antropologico di cultura. In altre parole, il diritto non sembra esaurirsi nella legislazione positiva. Esiste un senso di giustizia cui non sempre corrisponde la legge scritta. La dura, «geometrica» posizione hobbesiana, per cui nessuna legge scritta è ingiusta in base alla sequenza del dispotismo assoluto a Deo rex, a rege lex, non è sostenibile. D’altro canto, la concezione dogmatica di «natura umana», cui si rifà l’insegnamento della Chiesa Cattolica, non garantisce la capacità di evoluzione dinamica della presenza umana nel mondo. Piuttosto inaspettatamente, per merito di un contributo su riportato di Gustavo Zagrebelsky, si è riaperta la spinosa questione del rapporto fra diritto naturale e diritto positivo, ma in particolare in Zagrebelsky, della giustizia e della legge7. Ancora l’inchiostro, come si diceva una volta, non era asciutto che la discussione si arricchiva di un dotto intervento di Rocco 7 Cfr. Gustavo Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, Mulino, 2008; Id., Intorno alla legge, Torino, Einaudi, 2009.
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Buttiglione, anch’esso riportato più sopra. Ora che è tornato il silenzio, posso, se pure rozzamente, riformulare il problema nei suoi termini essenziali: supponendo che Zagrebelsky abbia ragione e che non esista né che possa esistere un diritto naturale – e tutta la cultura storicistica dominante in Italia almeno dagli inizi del Novecento è d’accordo con lui – è possibile o è lecito ridurre la legittimità alla legalità? Se ciò fosse ritenuto possibile e, anzi, lecito, non sarebbe gioco forza necessario concordare con Thomas Hobbes che «nessuna legge può essere ingiusta» e che la stessa democrazia va concepita e ridotta a pura procedura, tanto da ritenere che chi la vuole deve contentarsene? In altra sede8 ho avuto modo di osservare, con un certo grado di ilarità, che Antonio Labriola è stato l’unico professore e maestro riconosciuto dall’autodidatta non laureato Benedetto Croce, sembrandomi curioso che il marxista Labriola sia stato il mentore del giovane editore erudito napoletano, conservatore teorico della «religione della libertà», ma anche critico acerrimo delle scienze sociali, nel trattare delle quali usa il pettine di ferro, in particolare della sociologia, da lui considerata mezzo inferiore della vita intellettuale, «inferma scienza», al più capace di produrre non concetti, con valore propriamente cognitivo, ma solo pseudo-concetti, classificazioni tassonomiche, generalizzazioni indebite e spesso gratuite. Labriola assegna al giovane allievo una ricerca sulle origini storiche dei «diritti naturali». Croce si mette al lavoro e ovviamente non trova nulla. Di qui, l’idea che non si diano valori naturali meta-storici, che tutta l’esperienza umana non possa che essere storica. L’illustre giurista Zagrebelsky, come del resto gran parte della cultura italiana, dà prova di appartenere all’ortodossia crociana; riprende, anzi, quasi letteralmente, le formule 8 Si veda Nicola Siciliani de Cumis, a cura di, Antonio Labriola e la Sapienza, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2007, pp. 65-80.
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di quella lunga e fortunata battaglia contro il diritto naturale presentato come una dogmatica e a-storica finzione mentale. I tardo-crociani e le loro istanze critiche contro il diritto naturale avrebbero pienamente ragione se questo diritto fosse legato e in qualche modo für ewig giustificato da una concezione acritica e dogmatica di «natura umana», storicamente impervia e immodificabile come la natura della pianta o della pietra. Tale sembra essere, in effetti, la concezione dell’Aquinate, grande traduttore, tramite l’apporto della cultura araba, e riduttore, in termini teologici cristiani, di Aristotele. Nessun dubbio che il diritto naturale nella sua forma classica dipenda da una concezione teleologica dell’universo, che oggi si direbbe ampiamente demolita dalla scienza naturale. Ma quella concezione del diritto naturale, legata alla concezione dogmatica della natura umana, conserva tuttavia una parte essenziale del suo valore quando si intrattenga una concezione della natura umana più matura, storicamente provveduta, in grado di fronteggiare razionalmente situazioni specifiche in nome del bene comune, e quindi non tutta immersa e risolta nel puro fluire storico. Sarebbe infatti impossibile, una volta accettato il criterio di uno storicismo assoluto senza residui, salvarsi, non tanto dal weberiano «politeismo dei valori», quanto da un relativismo generalizzato, vittima di se stesso in quanto, se tutto è eticamente adiaforo e relativo, la verità stessa del relativismo sarebbe necessariamente relativa. Da questo punto di vista, il problema non è più quello del finalismo o della contingenza dell’universo, bensì il riconoscimento che il «diritto naturale» poggia e si incarna nelle situazioni storiche determinate richiamando con forza il «senso umano» della giustizia e del bene comune, quello «spirito delle leggi», di cui scriveva Montesquieu e senza del quale la legge scritta ovvero il diritto positivo o le leggi dello Stato, per quanto 92
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hobbesianamente precise ed esigenti, perderebbero inevitabilmente la loro vincolatività sostanziale. È appena il caso di osservare che, senza questa sintonia fondamentale, il distacco fra istituzioni formalmente codificate e cittadini è un esito inevitabile e apre una ferita nel corpo sociale, un autentico vulnus, che nessun intento meramente parenetico riuscirà a sanare. In altre parole, il diritto non si esaurisce nella legislazione positiva. Esiste un senso di giustizia – un diritto naturale – cui non sempre corrisponde la legge scritta. Che Adolf Hitler giunga legalmente (formalmente) al potere in Germania nel gennaio del 1933, non scusa i suoi crimini e non avalla alcuna sommaria equiparazione fra legalità e legittimità. È certamente comodo riposare sui dogmi, ma si sa che questi sono poltrone che inducono il sonno e che il sonno della ragione genera mostri. Credo che siano sufficienti i contributi, contrari e simmetrici, di Gustavo Zagrebelsky e di Rocco Buttiglione, più sopra citati per esteso, a far comprendere quanto l’interrogarsi sull’immagine dell’uomo di oggi riesca nello stesso tempo necessario e frustrante. A rileggere oggi l’Iliade – circa 800 anni prima di Cristo – e a riflettere sull’ira funesta di Achille, che si ritira, offeso a morte, sotto la famosa tenda a causa del re degli Achei, il potente Agamennone che, con un atto di sovrana prevaricazione, gli ha sottratto Briseide, la schiava preferita da Achille, si ha l’impressione che poco sia cambiato nei rapporti interpersonali e che le liti condominiali, le gelosie mortali, le offese di potenti capi-ufficio nei confronti dei loro subalterni, non siano sostanzialmente mutate nel corso dei secoli ( ma forse, oggi, Briseide potrebbe rifugiarsi presso la «Protezione della giovane» o ricorrere al «Ministero delle Pari opportunità»). È vero che usi e costumi hanno conosciuto e tuttora conoscono variazioni considerevoli. Il relativismo culturale, da Erodoto a Montesquieu e alla nutrita legione degli antropologi 93
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odierni, ha avuto i suoi studiosi. Ciò che sembra giusto al di qua del fiume viene considerato sommamente ingiusto al di là, agli occhi dei dirimpettai dell’altra sponda. Eppure, fino a tempi recenti, alcuni principi e alcuni fondamentali diritti, che forse impropriamente sono stati definiti «naturali», hanno mostrato una loro peculiare validità metastorica. In forme diverse, sono emersi in epoche storiche differenti. Come fiumi carsici o africani, dopo temporanee eclissi, più o meno lunghe, sono con forza riemersi e si sono riaffermati nella consapevolezza sociale media. È vero tuttavia che i fattori integrativi alla base della coesione sociale sono mutati e che forse siamo di fronte a una generazione orfana, a un mondo a-centrato più che decentrato o policentrico, che la stessa immagine dell’uomo viene appannandosi, quasi fosse sottoposta a un processo che gli anglofoni chiamerebbero self-effacement. Non mancano oggi analisti generosi e di bocca buona che contano sul web come l’occasione, se non lo strumento determinante, per dare luogo ad un nuovo tipo di comunità, per così dire, «digitale». Nessun dubbio che le chat lines, il facebook, le e-mail, i vari modi tecnici della comunicazione elettronica a grande distanza in tempo reale siano possibilità effettive, come già Marshall McLuhann riteneva a proposito della televisione; costituiscano, in altre parole, una protesi per l’uomo. È vero, come ho notato in Vietato morire9 che Internet emerge come un possibile fattore integrativo del sociale, una sorta di inedito legame che garantisce (ma fino a che punto?) la coesione dei gruppi umani. È vero, ed è empiricamente accertabile, che Internet sta sostituendosi al costume della società tradizionale, all’autorità dell’eterno ieri. È il nuovo, imprevisto e inedito fattore integrativo. 9 F.F.,
Vietato morire, Imola, La Mandragora, 2004.
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Cos’è che tiene insieme una società? Un tempo, la Rivelazione; più tardi, agli albori dell’epoca moderna, la coscienza elitaria di se stessa, da Kant a Croce, dall’imperativo morale categorico alla «religione della libertà». Oggi: la notizia. Due mesi di sciopero al New York Times mettono in ginocchio una metropoli come New York, ridotta, da un insieme significativo, a un coacervo privo di senso. Ma la notizia scritta e stampata, con tutto il suo «supporto cartaceo», come si dice, è già obsoleta. Internet è diretto dal singolo; il suo accesso è strettamente individuale. Stanno cadendo le regole estrinseche; non esiste più un ordine sociale dato, precostituito e coercitivo. Manca totalmente il controllo delle fonti. Il singolo è chiamato e pretende di farsi le sue regole, in termini di spontaneità come autenticità, e di viverle, per sé e per gli altri, cioè comunicarle. Ma come sarà possibile comunicare, significativamente, fra uomo e uomo, gruppo e gruppo, cultura e cultura? A quali condizioni è possibile e positiva la comunicazione inter-individuale e inter-culturale? È difficile pienamente comprendere, nella situazione spirituale odierna in cui si nota il diffondersi, privo di argini, di un senso angosciante di precarietà, il sentimento di auto-glorificazione, di «felicità» e di baldanzosa fiducia nei poteri della ragione liberatrice, che permeava tutta la società europea dal Settecento alla fine dell’Ottocento. È avvenuta una sorta di eterogenesi storica dei fini. Si è inverata, sul piano pratico, una straordinaria esemplificazione della dialettica servo-padrone così come viene delineata nella hegeliana Fenomenologia dello Spirito e la protesi tecnica, da serva, che era all’origine, si è fatta domina, si sviluppa in sovrana autonomia secondo sue esigenze interne. L’uomo odierno viene a trovarsi – nervoso, smarrito, perplesso – nelle mani di un potere che lo trascende e schiavizza. 95
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La riflessione filosofica, che l’esprit polytechnicien odierno ignora o semplicemente «salta» comunque senza troppi scrupoli, si domanda se il robot, l’automa non sia anche, almeno in parte, «mente». Ma in questo caso il filosofo incalza:
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non esiste un corpo umano che poi viene «ampliato»; è appunto questo che si sta dicendo: che è umano in quanto già da sempre ampliato, dove «ampliato» è di nuovo una espressione infelice che fa velo al pensiero genuino e che non facilita a porre la vera domanda: in base a quale tecnologia è sorta la nozione di «corpo umano» così come, per esempio, la intendiamo in Occidente da un certo tempo in qua? […] il corpo è sempre stato oggetto di caratteristiche manipolazioni materiali e ideali. Il Medioevo pensava il corpo come diretta eredità e propaggine di Adamo e pertanto incarnazione del peccato originale; quindi luogo di morbose intrusioni diaboliche, con particolare riferimento al corpo femminile. Nel Seicento il corpo era il luogo di influenze astrali e climatiche, di flussi e riflussi di misteriose sostanze. Nel Settecento era una macchina. Successivamente venne squartato dalla anatomia patologica; quindi ricondotto a sintomo isterico dell’inconscio; per finire con le sadiche fantasie immaginarie dei razzisti otto-novecenteschi. Insomma, il corpo è stato sempre tradotto in altro da ciò che di esso e con esso veniva direttamente esperito10.
Se l’uomo è un «prodotto» delle macchine come può averle lui stesso «prodotte»? Era la domanda che preoccupava e che ponevo con insistenza a suo tempo al profeta della televisione Marshall McLuhann, che salutava malgrado tutto una nuova era, una nuova umanità, in cui finalmente l’emisfero 10 Cfr. Carlo Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, p. 25; p. 35.
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celebrale destro – emotivo, caldo, materno – veniva a integrare e eventualmente sostituire l’emisfero sinistro della fredda razionalità analitica cartesiana. McLuhann è morto prima di potermi dare la risposta. Ma intanto si è venuta ingrossando una corrente di pensiero e di esperimenti biologico-medici che presume di potersi presentare come post-human. Indubbiamente, la rete esiste. Esiste il cyberspazio. Vi navigano in molti. Sono gli internauti. Non sono pochi ormai, fra giovani e giovanissimi, gli Internet-dipendenti. Nulla, tuttavia, può sostituire la presenza fisica, il toccare con la mano, l’esecuzione di musica dal vivo, la conversazione faccia a faccia. Il mondo virtuale può ben essere un mondo parallelo, riflettere la vita nel suo farsi. Ma non è la vita. Nasce l’umanoide. Non è lo sperato Übermensch, non è il super – né l’oltre-uomo. Più che un Übermensch si rischierà di doversi contentare di un Luftmensch, un «uomo d’aria» alla disperata ricerca di emozioni eccitanti che non si merita. In nome del progresso tecnico e dell’innovazione produttiva, si tende a dimenticare che la tecnica, di per sé, è una perfezione priva di scopo. Con le migliori intenzioni, ritenendo di arricchire e rafforzare la presenza umana nel mondo, si tende a replicarla, dimidiarla, forse, al limite, senza rendersene conto e concedendo ai tecnofili il beneficio del dubbio, a cancellarla. Le persone vengono, sensim sine sensu, «oggettualizzate», ridotte a «cose», da plasmare con martellanti messaggi pubblicitari, a cavie per esperimenti raffinati e dalle «ricadute» incerte. Le comunicazioni si infittiscono. Con l’elettronica applicata, i cellulari multiuso, le e-mail è possibile comunicare tutto a tutti in tutto il pianeta in tempo reale, ma non c’è più nulla da comunicare, nulla di significativo, che valga la pena di essere comunicato. L’informazione non forma, ma deforma. Crea rumore. Fagocita e frastorna. Aumentano il chiasso interiore, 97
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il senso di vago smarrimento, l’ansia immotivata, la depressione, l’insicurezza e la precarietà. In questo quadro, è forse logico attendersi l’emergere di un nuovo, storicamente inedito tipo umano11. Su scala planetaria, due logiche si contendono oggi la lealtà degli esseri umani: a) la logica della lettura, e della scrittura (è una logica cartesiana, analitica; esige condizioni che le società tecnicamente progredite stentano a preservare, vale a dire solitudine, silenzio, possibilità di concentrazione sulla pagina, ricreazione personale delle immagini e dei concetti dalle parole lette; capacità di saggiare la fondatezza logica del discorso, il nesso fra ipotesi e dimostrazione); b) la logica dell’audio-visivo (fondata sull’immagine che colpisce fulminea lo spettatore in modo sintetico, sollecitandone le reazioni emotive, seducente, dotata di un misterioso potere ipnotico, che fa prevalere il sentire sul ragionare). Questa seconda logica appare oggi vincente. È la caratteristica dominante dei mass media. Questi media non mediano, non aiutano la comprensione logica. Schiacciano tutto sull’immediato, su un presente eterno, annullano l’antefatto e il passato, riducono al minimo la possibilità di progettazione razionale, scandita nel tempo, per l’avvenire. Stiamo così passando – novità storica assoluta – dall’homo sapiens socratico e dal vir probus dicendi peritus ciceroniano all’homo sentiens e all’homo televisivus di oggi mentre si sta preparando, per il domani prossimo venturo, l’homo post-umano, forse ancor prima di aver raggiunto, sul piano storico, l’homo semplicemente humanus. Con involontario, forse inconsapevole, e quindi tragico, umorismo, tutto l’odierno armeggiare tecnico pseudo-innovativo viene presentato come difesa e, anzi, arricchimento della 11 Si vedano il mio Il silenzio della parola, Bari, Dedalo, 2002; la mia «Introduzione» a Heinrich Popitz, Verso la società artificiale, tr. it. Roma, Editori Riuniti, 1997.
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vita, specialmente di quella che vorremmo chiamare la «residenza del soggetto», vale a dire del corpo. È vero che già Socrate ne descriveva, e temeva, gli effetti negativi sul pensiero puro, tanto da scorgere nella morte l’agognata liberazione dal corpo e dalle sue imperfezioni e da definire la stessa filosofia, assai prima di Martin Heidegger, come «l’esercizio preparatorio alla morte», per non citare tutta la tradizione morale cristiana, dalla patristica alla «teologia della liberazione». Oggi, peraltro, gli analisti seri confermano che, presi in una sorta di schizofrenia di massa, si tende a percepire il corpo come altra cosa rispetto al soggetto che ne è, per così dire, il titolare. Studiosi singolarmente canori e presenti nella pubblicistica corrente, e tuttavia privi di senso critico e a cui, del resto, non sembra riuscire chiara la differenza fra mutazione genetica e mutamento storico, non esitano, con caratteristica irresponsabilità, a parlare del corpo come materia manipolabile e trasformabile ad libitum e a ridurlo a «paesaggio», esplorato e invaso dalle attuali tecniche di indagine e di penetrazione fin nei suoi più intimi recessi, quasi fosse uno spazio disumanizzato o una terra di nessuno, aperta a qualsiasi sperimentazione. Non diversamente dovevano comportarsi i medici nazisti nel corso dei loro apprezzati esperimenti «scientifici» sui prigionieri messi a loro disposizione nei campi di sterminio.
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Capitolo sesto
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La rivalutazione della conoscenza ordinaria
Non c’è solo il Socrate di Platone. Per fortuna c’è anche il Socrate di Senofonte, questo flâneur ante litteram, che esce per tempo la mattina presto a godersi gli esercizi dei giovani atleti al ginnasio, cacciato da casa dalla bisbetica Santippe, attacca bottone nell’agorà con il carpentiere, il ciabattino, il sacerdote, con chi gli capita a tiro, pronto ad andare al Pireo se lì, nell’agorà, fa troppo caldo, con le sue domande, sempre, insistente, tanto che Diogene Laerzio racconta che, spazientiti, gli Ateniesi lo picchiavano, lo tiravano per i capelli. Tutti sanno che, non potendone più, finiranno per mandarlo a morte. Il racconto di Diogene Laerzio, il gran pettegolo, non lascia dubbi in proposito. Scrive: Spesso nell’indagine [Socrate] il suo conversare assumeva un tono piuttosto veemente: allora i suoi interlocutori lo colpivano con pugni e gli strappavano i capelli; nella maggior parte dei casi era disprezzato e deriso, ma tutto sopportava con animo rassegnato. A tal punto che una volta, sopportando i calci che aveva ricevuti da un tale, a chi si meravigliava del suo atteggiamento paziente, rispose: «Se mi avesse preso a calci un asino, l’avrei forse condotto in giudizio?». Così tramanda Demetrio. 100
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A differenza della maggioranza dei filosofi, non ebbe bisogno di allontanarsi dalla sua città, eccetto che per obblighi militari. Per il resto della sua vita rimase sempre in patria, dispiegava il suo ardore di ricerca conversando con tutti e tutti conversando con lui: scopo delle sue conversazioni fu la conquista del vero, non che gli altri rinunziassero alla loro opinione. Si dice che Euripide gli abbia dato l’opera di Eraclito e ne abbia chiesto il suo parere e che Socrate abbia risposto: «Ciò che capii è eccellente: così pure, credo, quel che non capii, ma per giungere al fondo ci vuole un palombaro di Delo». […] Era capace di disprezzare anche coloro che lo schernivano. Era orgoglioso della semplicità del suo tenore di vita e non riscosse mai un compenso. Era solito dire che nel modo più dolce mangiava quando non sentiva il bisogno di companatico e nel modo più dolce bevevo quando non era in attesa di altra bevanda: bisognoso di pochissime cose, era vicinissimo agli dèi. Questo sarà possibile apprenderlo anche dai poeti comici, i quali senza accorgersene, mentre lo pongono in berlina, lo lodano. […] non accettò gli schiavi che Carmide gli aveva offerti perché ne ricavasse qualche rendita; secondo alcuni, disprezzò la bellezza di Alcibiade. Secondo anche quanto afferma Senofonte nel Simposio, lodava l’ozio come il possesso più bello. Diceva che uno solo è il bene, la scienza, e uno solo il male, l’ignoranza; ricchezza e nobiltà di natali non conferiscono dignità, piuttosto arrecano male. Avendogli detto un tale che Antistene era di madre tracia, replicò: «Pensavi tu che un uomo così nobile poteva essere generato da due genitori ateniesi?». Ordinò a Critone di riscattare Fedone che, caduto prigioniero, era stato costretto a stare in una casa di malaffare e lo fece filosofo. 101
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Inoltre già vecchio apprese a suonare la lira, dicendo che non era per nulla strano apprendere ciò che non si sa. Ancora, danzava regolarmente, ritenendo che un tale esercizio giovasse a mantenere sano il corpo: così riferisce anche Senofonte nel Simposio. Egli diceva che un demone gli prediceva il futuro; il saper obbedire non è poca cosa, ma si conquista a poco a poco; nulla sapeva eccetto che nulla sapeva. Diceva che quelli che compravano ad alto prezzo le primizie non avevano speranza di giungere alla maturità. Una volta gli fu chiesto quale fosse al virtù di un giovine ed egli rispose: «Non eccedere»1.
Il Socrate di Senofonte rivaluta la conoscenza ordinaria, forma i concetti dal basso, in comunione con l’esperienza quotidiana. Vedo qui una via d’uscita, una significativa ripresa di contatto con la storia che non ha libretto, cioè con la storia come «vita storica», secondo una sotterranea sequenza che trova i suoi interlocutori, del tutto inattesi, in Giambattista Vico e in Edmund Husserl. Occorre infatti chiarire che le critiche di Husserl contro la scienza, a differenza delle osservazioni di Martin Heidegger sull’Essenza della tecnica (1933), non negavano il valore – strumentale – della scienza. È stato correttamente osservato che il «mondo della vita» non è un prius senza storia e senza costituzione di senso, anche se precedente alle concettualizzazioni scientifiche. L’indagine genetico-trascendentale deve applicarsi anche a quello che è il luogo di incontro della soggettività col mondo, conferendo alla fenomenologia il valore di fondamento della scienza stessa; quel fondamento che altrove si cercava soltanto nella logica formale, o che si vanificava in qualche forma di relativismo. 1 Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, tr. it. a cura di Marcello Gigante, Milano, Mondadori, 2009, pp. 55-59.
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Quella di Husserl dunque non è antiscienza; e la stessa sua idea che lo studio delle funzioni trascendentali costitutive dei vissuti psichici possa essere condotto con il metodo descrittivo della fenomenologia, non nega significato a una indagine naturalistica, che scopra le leggi che governano la base fisicochimica di tali vissuti. In Husserl era ben presente quello che oggi è diventato il tema centrale dei dibattiti sul mente/corpo: la differenza (e per lui l’indipendenza) della descrizione degli stati mentali dalla loro spiegazione attraverso cause fisiche. Il che significava, per lui, che una psicologia «scientifica» per essere tale non deve essere confinata a una visione «meccanicistica» e riduzionista2.
Si torna alla domanda, in apparenza infantile e sprovveduta, del perditempo geniale di Atene. Mosso dalla consapevolezza di sapere di non sapere, dalla curiosità e dalla meraviglia, Socrate non si stanca di domandare: «Τί εστί?; Cos’è?». La domanda può alla lunga riuscire irritante, infantile. È la domanda del bambino. Ma, parafrasando un detto memorabile, si potrebbe dire: «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno della verità». La dόxa viene prima della epistéme. La teoria nasce dal basso. Altrimenti rischia di risolversi in concettuologia. Occorre il dialogo. La partecipazione dell’umano all’umano. La «conoscenza partecipata»3. In questa prospettiva sono più che mai attuali le istanze polemiche che Vico muove all’iper-intellettualismo del «signore Renato delle Carte». La critica di Vico nei confronti del razionalismo di Cartesio è radicale. A mio parere, forse a causa dell’interpretazione in 2 Cfr. Alessandro Pagnini, «Una “crisi” che non nega la scienza», Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2013, p. 26. 3 Cfr. Il mio titolo omonimo, Chieti, Solfanelli, 2017.
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senso filosofico-metafisico fatta pesare su Vico dall’erudito di Pescasseroli, l’istanza critica anti-razionalistica di Vico non è stata compresa in tutta la sua portata. Duole dover prendere atto che persino studiosi di vaglia e di grande statura, come Paolo Rossi, giungano a considerare l’atteggiamento «empiristico» di Vico, che amerei definire piuttosto come tentativo di elaborare eventualmente teorie partendo dal basso, cioè dall’esperienza comune così come si esprime nei miti, nelle leggende e anche in testi di legge relativi ai problemi e ai comportamenti quotidiani delle persone comuni, come un puro e semplice «strumento polemico», una sorta di tattica di comodo, per criticare Descartes. Ai fisici «architetti del mondo», ad una fisica che pretende di aver decifrato le leggi stesse che hanno presieduto alla costruzione dell’universo, Vico contrappone dunque il tema, tipicamente empiristico e baconiano, dello scienziato che avanza faticosamente, «a tentoni», in quel complicato labirinto che è la natura. Ma poi, nello stesso giro di frase, Paolo Rossi soggiunge: Vico aderisce tuttavia alla tematica dell’empirismo solo per usarla come strumento polemico contro il razionalismo cartesiano. L’atteggiamento che egli assume di fronte all’empirismo è significativo: la fede baconiana in una scienza capace di instaurare il dominio dell’uomo sul mondo gli appare altrettanto empia della pretesa razionalistica e cartesiana di aver decifrato le strutture della realtà: «coloro che molto posseggono desiderano solitamente cose ingenti e infinite; nel campo degli studi il Verulamio si comporta come, in politica, i sovrani dei maggiori imperi, i quali, avendo raggiunto la più alta potestà sul genere umano, hanno vanamente tentato di volgere le loro ingenti forse a far violenza alla natura […] 104
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In verità tutto ciò che all’uomo è dato di sapere è, come l’uomo stesso, finito e imperfetto». In nome della sua religiosità cattolica, Vico condannava dunque ogni atteggiamento empiamente «aggressivo» nei confronti della natura: in nome del suo anticartesianesimo aveva del pari rifiutato, come altrettanto empia, ogni forma di «platonismo» matematico4.
Nessun dubbio che la «ricostruzione» dell’impostazione della ricerca di Vico sia più articolata e attenta di quella offertaci nella Filosofia di Giambattista Vico da Benedetto Croce. Il tono di quest’ultimo è addirittura apodittico: «Ora, l’ispirazione del Vico era genuinamente ed esclusivamente teoretica […] altamente speculativo il suo metodo e disdegnoso dell’empirismo…». E poi, subito di seguito, e contraddittoriamente: «… la sua gnoseologia anelante al concreto, al certo…»5. E allora? Dov’è finito il Vico metafisico, deduttivistico, essenzialistico? Il Vico di cui si parla poche righe più sopra? Dovremo attendere all’incirca tre secoli per trovare la stessa critica radicale del razionalismo cartesiano in Edmund Husserl. Enzo Paci, nella lettera dell’ottobre 1962, riportata più avanti, aveva colto nella mia proposta di una «sociologia come partecipazione», una risonanza husserliana, che solo oggi trovo confermata, mentre all’epoca mi appariva come una strana anomalia. La vita delle idee è misteriosa. Non solo. Conosce sentieri, talvolta, improvvisamente interrotti, difficili grovigli, ramificazioni tortuose e meandriche che, almeno sulle prime, sembrano sfidare qualsiasi chiarimento analitico. Ma si danno anche colpi di fortuna, l’idea di 4 Cfr. Paolo Rossi, «Introduzione» a Giambattista Vico, La scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 17-18. 5 Cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1962, p. 80.
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collegare criticamente Vico e Husserl si è fatta strada in me quando ho avvertito una fondamentale consonanza nelle loro istanze critiche nei confronti del «signor Renato Delle Carte», come sempre Descartes viene chiamato da Vico. La metafora, che Vico vede sempre come strumento espressivo fondamentale nei primitivi, mi è sembrata corrispondere alla frase pre-logica della fenomenologia husserliana. È evidente, in Vico e Husserl, l’importanza riconosciuta a Cartesio. Husserl è esplicito: Se poco prima Galileo era giunto alla fondazione originaria della nuova scienza, fu Cartesio a concepire e ad avviare una realizzazione sistematica della nuova idea della filosofia universale nel senso di un razionalismo matematico, o meglio fisicalistico, di una filosofia come «matematica universale». Questa filosofia esercitò ben presto un influsso poderoso6.
Husserl non esita a proporsi di comprendere a fondo ciò che si nasconde nel pensiero di Cartesio: Un tentativo di esplicitazione dunque che distingue ciò di cui Cartesio stesso era cosciente e ciò che ai suoi occhi venne occultato da certe ovvietà, pertanto del tutto naturali, che si sovrapposero al suo pensiero. Non si tratta soltanto di residui della tradizione scolastica, di pregiudizi casuali del suo tempo, bensì di ovvietà millenarie, che possono in generale venir superate soltanto mediante un chiarimento e un’ulteriore elaborazione che porti alle sue estreme conseguenze ciò che si nasconde nel suo pensiero7. 6 Cfr. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di Enrico Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 102. 7 Cfr. E. Husserl, op. cit., pp. 103-104 (corsivo nell’originale).
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Per quanto riguarda Vico, è piuttosto incredibile che solo in uno scrittore e commediografo irlandese si possa trovare un’analisi del pensiero vichiano attendibile, attenta ai testi e singolarmente, tutto sommato, acuta: Giambattista Vico era un puritano partenopeo dotato di spirito pratico. Croce si compiace di considerarlo un mistico, fondamentalmente speculativo, «disdegnoso dell’empirismo»: interpretazione sorprendente, considerato che più di tre quinti della Scienza Nuova si occupano di ricerche empiriche. Croce contrappone Vico alla scuola materialistica riformistica di Ugo Grozio e lo assolve dalle preoccupazioni utilitaristiche di Hobbes, Spinoza, Locke, Bayle e Machiavelli. Tutti questi rilievi non possono essere accolti senza proteste. Vico definisce la Provvidenza «una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari che essi uomini si avevano proposti; dei quali fini ristretti fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra». Che cosa potrebbe essere definito più decisamente utilitaristico? Il modo in cui egli affronta l’origine e le funzioni della poesia, del linguaggio e del mito è, come si vedrà più avanti, estraneo, quanto più non si potrebbe immaginare, alla mistica. Ai nostri fini immediati, tuttavia, non ha molta importanza che si consideri Vico un mistico o un ricercatore scientifico, mentre non si può fare a meno di giudicarlo un innovatore. La sua suddivisione in tre età dello sviluppo della società umana: teocratica, eroica, umana (civile), con una corrispondente classificazione dei linguaggi: geroglifico (sacro), metaforico (poetico) e filosofico (capace di astrazioni e generalizzazioni), non era affatto nuova, anche se poté sembrare tale ai suoi contemporanei. Vico aveva desunto questa classificazione di comodo, 107
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tramite Erodoto, dagli Egizi, ma al contempo è impossibile negare l’originalità con la quale egli ne applicò ed elaborò le implicazioni8.
È forse vero che leggere e interpretare un filosofo equivale all’assalto della diligenza. Si prende quello che serve e neppure ci si domanda quale è la direzione di marcia del cocchiere. Benedetto Croce è uno scrittore di straordinaria efficacia. Spaccia nozioni approssimative con l’elegante sicurezza con cui si parla di verità acquisite e ormai fuori discussione. È quasi inevitabile che dalle pagine della Filosofia di Giambattista Vico si possa con tranquilla sicurezza ricavare l’idea che Vico fosse un pensatore napoletano puramente metafisico o filosofico in senso tradizionale ignorando come, al contrario, da frammenti mitologici e etimologie alquanto incerte, Vico potesse concludere, tutto sommato, che la verità coincide con la propria esperienza: Verum ipsum factum. Neppure spiriti portati più alla critica che alla lode sembrano in grado di resistere al tono di rassicurante, ragionato buonsenso napoletano della stupenda prosa crociana. Di fronte al quadro magistralmente delineato delle teorie estetiche, ma Mario Perniola farà altrettanto e anche meglio (si veda il suo volume sulle «teorie estetiche» pubblicato da Il Mulino), il poeta friulano che Alberto Moravia aveva dichiarato «poeta civile» ma di sinistra, evidentemente rendendosi conto che i poeti civili di regola celebrano l’esistente, non riesce a trattenere e neppure a contenere entro limiti decenti la sua ammirazione ed esplode: Comunque il saggio di Croce resta la più completa panoramica sull’Ottocento folcloristico europeo, come l’unica che 8
Cfr. Samul Beckett, Disiecta, tr. it., Milano, Egra, 1991, pp. 20-21.
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riduca una complessa e ribollente fenomenologia a una omologazione storiografica9.
Naturalmente, il poeta civile Pier Paolo Pasolini non va confuso con il poeta civile della Terza Italia, lo stentoreo Giosuè Carducci, da fiero repubblicano convertito alla monarchia grazie all’eterno femminino, vale a dire come devoto omaggio alla Regina Margherita di Savoia, in tutto fedele alla tradizione italica di un trasformismo dapprima inaugurato e praticato da Agostino Depretis, alla caduta della Destra storica nel 1876, ma poi costantemente proseguito come un pirandelliano «Così è, se vi pare», tipico di una classe dirigente in senso lato, governante e influenzante, eternamente in bilico e, ad ogni buon conto, incapace di fare i conti con problemi specifici di fatto, portata, si direbbe, irresistibilmente a proclami, per esempio, come quello, contraddittorio, «l’armistizio è stato firmato, la guerra continua», a tradurre le questioni etiche in esilarazioni estetiche, le decisioni da prendere in perorazioni paraletterarie, a inventare prontamente, da impenitenti azzeccagarbugli, la mossa del cavillo. La connessione che finalmente vedo fra Vico e Husserl può, con buone ragioni, venir considerata una sorta di acrobazia intellettuale, per la quale mi permetto di richiamare un garbato scambio polemico con Enzo Paci, che servirà, quanto meno, a dar conto della mia personale evoluzione. Scrivevo all’epoca da New York al direttore della rivista aut aut: New York, agosto 1962 Caro Paci, Non v’è dubbio che, se il cervello umano fosse un juke-box, pensare sarebbe più facile: basterebbe inserire la monetina e 9 Si veda P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1969, specialmente p. 148.
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premere il bottone, ossia scegliere nel «vasto repertorio» delle formule e delle teorie ormai tradizionalizzate, e il gioco sarebbe fatto. Pensare significherebbe dedicarsi ad una specie di fiera delle etichette. Fra quanti si sono interessati alla mia proposta per una sociologia come partecipazione, il tuo collaboratore E. Renzi si è finalmente sottratto alla tentazione di una ricostruzione estrinseca, puramente polemica o astrattamente formale, a un «collocamento». Le osservazioni che mi dedica nel suo «Sociologia e fenomenologia» (aut aut, n. 68, pp. 155-159) vanno con bella sicurezza al fondo del problema. Non ho mai inteso offrire semplicisticamente una «visione prospettica d’insieme», per usare le parole di Tullio Aymone, né, come scrive Dario Composta, io propongo solo una «metodologia generale», che sarebbe neo-liberale in campo economico e mouneriana e maritainiana in campo sociale – distinzioni assai scolastiche di cui lascio al mio recensore tutta la responsabilità. Il mio tentativo parte dalla constatazione della crisi della ricerca sociologica non orientata e da una concezione particolare di tale crisi. Nella letteratura sociologica corrente, da Lynd in poi, la crisi della ricerca non orientata è vista in primo luogo come crisi di strumenti metodologici adeguati. È una concezione, a mio giudizio, sostanzialmente insufficiente. La crisi metodologica è solo il riflesso di una crisi più profonda, che coinvolge il rapporto umano – sostanziale – fra il ricercatore e il suo mondo storico-sociale. Può essere che tale impostazione riesca di sapore husserliano, che addirittura talune mie frasi suonino letteralmente identiche a frasi e ad espressioni che si trovano nei manoscritti, ancora inediti, di Husserl. Sta di fatto che, in senso proprio, ossia al punto di vista del mio itinerario intellettuale, posso dire che l’influenza di Husserl mi è sostanzialmente estranea: forse per 110
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questo è tanto più interessante il punto di coincidenza che lega la mia sociologia alla fenomenologia husserliana, quasi come una conferma del carattere radicale della crisi odierna. Esso è dato infatti dalla comune consapevolezza che si pone oggi con assoluta priorità il problema della fondazione delle categorie, una fondazione che le metodologie correnti continuano a presupporre implicitamente senza avere il coraggio di affrontarla con rigorosa coerenza. Il tuo collaboratore ha visto bene tutto questo. Egli si rende perfettamente conto che io non intendo proporre semplicemente un nuovo approccio o una nuova scuola, se non addirittura, come taluno ha sospettato, un nuovo «fattore determinante» per la spiegazione dei fatti sociali. Emilio Renzi sa che il discorso va portato più a fondo, che esso richiama sostanzialmente in causa la critica kantiana alle tavole categoriali aristoteliche, quindi la critica hegeliana al criticismo timido di Kant e infine la stessa dissoluzione della mistica triade della dialettica automatica, e pertanto dogmatica e astratta a un tempo. Ciò significa riconoscere alcune aporìe fondamentali comuni sia al positivismo scientistico che allo storicismo assoluto e al marxismo quale si è venuto storicamente configurando. Ma è a questo punto che il tuo collaboratore tentenna e scrive, con evidente aria di perplessità: «Certo, la questione qui è complessa». Che sia complessa è pacifico. Altrettanto pacifico mi sembra che vada impostata e discussa nei suoi termini veri, di là da qualsiasi pur rispettabile timore reverenziale. Il Popper, vorrei notare subito, mi vale in questo caso solo per quel tanto che mi è indispensabile, ossia me ne servo come di un motivo polemico personalizzato, in quanto indica una posizione nettamente anti-storicistica, ma non ne sposo affatto la posizione che non si salva da un orientamento di fondo che è ancora essenzialmente scientistico. 111
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Con riguardo alla parte positiva della mia proposta, Emilio Renzi dà prova di una finezza incomparabilmente superiore a quella di altri commentatori. Egli riconosce che per me, dicendo «partecipazione», non si tratta di stabilire un rapporto genericamente etico o sociale o ad personam (che tra l’altro finirebbe logicamente per sottrarre all’analisi sociologica interi settori di conoscenza, quali per esempio quelli della sociologia economica e delle istituzioni sociali) quanto invece di rendere di fatto possibile la comprensione, di rispondere in altre parole ad una esigenza essenzialmente conoscitiva. Ma aggiunge poi che «la soluzione di Ferrarotti non esce dai limiti di un giusto ma non fondato ammonimento ad una vigile apertura». Devo chiarire che non ho soluzioni prefabbricate da proporre. Insisto anzi che occorre avere il coraggio intellettuale di vivere la crisi odierna fino in fondo. Ciò che mi sembra sfuggire a Emilio Renzi è la distinzione, per me fondamentale, fra problema tecnico, risolubile nella sequenza causa-effetto, su cui è basato tutto lo scientismo, e problema umano, ossia metatecnico, non solubile, e neppure, a rigore, comprensibile in termini puramente tecnici. Non è questo il luogo per un chiarimento esauriente di questo punto, ma non posso esimermi dall’osservare che il carattere intrinsecamente alienante della scienza moderna e le sue ripercussioni meccanicistiche su tutta la vita sociale derivano essenzialmente dalla sommaria equazione dei due ordini di problemi, umani e strumentali, che va ricercata nelle origini dell’illuminismo e della sua particolare ideologia del progresso come processo continuo, irreversibile, così sicuro da venir concepito come automatico, garantito da Dio come supremo ordinatore. Da questo punto di vista dovrebbe risultare inoltre chiarita la mia critica al marxismo filisteo, o pietrificato. In un senso solo apparentemente paradossale, la mia proposta è una proposta marxistica, 112
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appartiene a buon diritto al novero dei tentativi di ridare agli uomini la loro storia, di rimettere nelle loro mani le decisione del loro destino. Ma la mia proposta è marxistica nella misura in cui il marxismo, per ripetere cose che venivo scrivendo fin dal 1945, è essenzialmente un metodo, non un contenuto obiettivizzato e solidificato in dogma, un metodo che si realizza come la sintesi astratta (universale) fra la sua forma generale, o quadro teorico di riferimento, e i modi concreti in cui si attua, o specifiche ricerche empiriche. Il riferimento e la citazione di Sartre nel mio scritto hanno una funzione, più che altro, pedagogica. Mi servono per acclimatare culturalmente nel dibattito odierno le mie osservazioni. Non hanno alcun valore esemplare o di scuola. Durkheim, Simmel e Max Weber, da una parte, e la fenomenologia, dall’altra, sono per me più importanti di Sartre, le cui stupende confusioni e approssimazioni concettuali si redimono solo sul piano della suggestività letteraria. Con molta cordialità, il tuo Franco Ferrarotti
Con una gentilezza piuttosto disarmante, di cui oggi si è forse smarrito persino il ricordo, nell’ottobre 1962, Enzo Paci mi rispondeva come segue: Milano, ottobre 1962 Caro Ferrarotti, Renzi è assente da Milano. In questi mesi altri compiti non gli permettono di continuare i suoi studi. La mia risposta potrà forse essere seguita dalla sua – non appena possibile. Anch’io ho notato nel tuo libro analogie con atteggiamenti fenomenologici. Ma tu stesso dici che l’influenza di Husserl ti è sostanzialmente estranea. Questo spiega, forse, perché Renzi ha scritto che la tua soluzione «non esce dai limiti di un giusto 113
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ma non fondato ammonimento ad una vigile apertura». Proverò ora io a dire, per mio conto, che cosa si può intendere per «fondato». Fondare, in fenomenologia, vuol dire ricondurre ogni operazione al mondo precategoriale. Ci sono delle categorie logiche, fisiche, sociali, antropologiche. Con quali operazioni sono costituite? In senso generico potremmo considerare questa posizione come «operazionistica». La fenomenologia è una forma di operazionismo e Husserl, che ha combattuto il positivismo, dice, talvolta, che la fenomenologia è un vero positivismo. Dice anche che è idealismo, ma nel senso che raccoglie i problemi non risolti dall’idealismo, il quale, per Husserl, non ha mai impostato con chiarezza il problema del soggetto, in quanto Kant ha sostituito al soggetto concreto in carne ed ossa, con le sue funzioni di pensiero, psicologiche, corporee, materiali, un soggetto «mitologico» e non ha visto che c’è un mondo già da sempre dato prima delle categorie. Tutto questo è detto nella Crisi delle scienze europee. E il fatto che ogni soggetto è nel suo ambiente, nella natura, in rapporti determinati, condizionati – che pur gli permettono delle motivazioni – è chiarito molto bene nel secondo volume di Idee. Ora questo soggetto che ognuno di noi è – soggetto che è sempre nel mondo e in un complesso processo costitutivo, in rapporto e in lotta con gli altri – questo soggetto, dunque, è, con il mondo che ha in sé, l’operatore delle operazioni. Deve prendere coscienza del suo operare nel tempo e nella storia, secondo un telos, secondo un’intenzionalità che tende ad una società nella quale nessun uomo sia per l’altro oggetto, nella quale nessun uomo sia sfruttato dall’altro. Questa intenzionalità dei soggetti nel mondo è il continuo superarsi intersoggettivo della società e delle varie società verso una meta infinita che come tale può essere detta irreale o ideale. Ideale come idea limite, ma realizzabile in vari 114
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momenti concreti, in forme determinate del processo storico. Qui, ancora, appare l’idealismo – in un senso, come vedi, tutto speciale, e assai simile a quello con cui il termine viene usato non dalle filosofie, ma dal linguaggio comune. Nel senso filosofico Husserl non è un idealista e non lo è nella misura nella quale per lui la dimostrazione dell’esistenza del mondo è priva di senso, in quanto noi, i soggetti, siamo sempre nel mondo, operiamo in prima persona, siamo soggetti viventi nel tempo storico. Lo storicismo husserliano è precategoriale, temporalistico, intersoggettivo, oltre che dialettico, partecipativo e orientato. Per noi «orientato» vuol dire intenzionale e teleologico. Vuol dire anche «vissuto» dalla vivente intersoggettività – il che è come dire fondato e non dedotto da tecniche astratte, poiché le stesse tecniche devono essere fondate. Tu usi la parola «vivente», mi sembra, in modo analogo. Quando tu difendi una sociologia orientata, difendi una sociologia intenzionale. Husserl ha scritto molte pagine sulla sociologia. Questo non vuol dire che in questo campo, specificamente, io sia d’accordo con lui. Ma sono d’accordo sul fatto che ogni scienza deve essere orientata e intenzionale oltre che essere una tecnica. Se perde l’intenzionalità abbiamo la crisi che non è crisi di strumenti metodologici, o soltanto di essi, ma crisi dovuta alla perdita del telos e dell’orientamento, alla feticizzazione dei risultati delle operazioni. Quindi delle categorie, degli strumenti tecnici, del lavoro dello scienziato, lavoro che, se feticizzato, non solo perde il suo senso, il suo orientamento, ma si rivolta contro lo scienziato in quanto soggetto, in quanto uomo. Questa è la crisi. E questa crisi è dovuta all’obiettivazione delle operazioni, obiettivazione che va intesa come alienazione. Tu dovresti essere d’accordo. Non credo che tu critichi la tecnica ma solo la sua feticizzazione o la riduzione ad essa di ogni problema umano. Ma questa è 115
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proprio la critica di Husserl e, ancora una volta, quando tu parli del «carattere intrinsecamente alienante della scienza moderna», e io parlerei, come Husserl, di un uso alienante di essa, ti esprimi in termini simili a quelli della fenomenologia. Che tu sia arrivato a questa posizione senza influenze husserliane è quello che mi interessa. Ma forse potrebbe interessare te, a questo punto, confrontare le tue ricerche con i testi husserliani. Il tuo problema della partecipazione è il problema dell’ultima delle Meditazioni cartesiane di Husserl. Sartre critica la soluzione di Husserl – e la soluzione che io cerco, in fondo, non è né quella di Husserl, né quella di Merleau-Ponty, né quella di Sartre. Ma sembra difficile non passare attraverso questi testi. In particolare non credo che si possa parlare di «stupende confusioni» per Sartre. Se vuoi, si può dire che nella Critique ci sono delle prospettive non accettabili e che devono ulteriormente essere analizzate e studiate. Ma c’è tutta la parte costruttiva. Anche volendo criticarla, bisogna ammettere che non è facile farlo. E non credo che si potrebbe dire che il marxismo di Sartre è «pietrificato». Sartre stesso usa questa parola per criticare il dogmatismo. Ripeto: la critica fenomenologica riguarda lo stravolgimento della tecnica e non la tecnica. Riguarda l’alienazione umana che conduce all’alienazione delle scienze. E l’alienazione delle scienze, l’obiettivazione di cui parla Husserl, è, oggi, la scienza militarizzata, la scienza che ha perduto il senso dell’unità dell’uomo e il senso di totalizzazione in corso delle culture. Husserl pensava a qualcosa di simile in nome della verità inerente alla storia, in nome della razionalità e del senso profondo della scientificità. I suoi discepoli – ed uno di essi che Husserl accusava di «geniale mancanza di scientificità», l’ha spesso riaffermato – lo hanno abbandonato proprio per questo. 116
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La fenomenologia stessa è una scienza, ma una scienza tutta speciale, una scienza non pietrificata, rigorosa ma dinamica e umana, una scienza della storia, delle sue luci e delle sue ombre. Ovviamente non usa i metodi della matematica – o della biologia – ma il suo essere scienza è collegato al rapporto di ogni sapere con il fondamento precategoriale e con l’orientamento intenzionale. Oggi, in modo particolare, la scientificità della fenomenologia si può ritrovare al fondamento delle scienze umane e la fenomenologia vuol rendersi ragione sia delle loro tecniche, sia del loro orientamento. In questo senso, ancora, la fenomenologia è scienza dell’uomo e della storia, di una storia che è incarnata nel tempo e nella concretezza corporea del mondo. La fenomenologia è anche filosofia, ma anche questo è da intendersi in senso nuovo poiché mira a svelare, a rendere fenomeno, ciò che è nascosto in vari modi e, tra questi, dal modo di procedere sistematico e astratto. Per me è storia attiva in quanto lotta contro l’alienazione, la feticizzazione, la tecnicizzazione usata come sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come guerra. I termini alienazione, critica dell’occultamento e dell’ideologia intesa in senso negativo, la rivendicazione dei soggetti umani, la lotta contro lo sfruttamento, la direzione orientata, la dialettica, tutto questo, e altro, è molto vicino a Marx ed era inevitabile, perciò, che lo studio della fenomenologia e dei suoi paradossi, il continuarsi dei suoi problemi, nonché la sua autocritica, in poche parole, la fenomenologia in divenire, conducesse al marxismo, al marxismo in divenire. Che nella storia del marxismo ci siano state contraddizioni e alienazioni, sclerosi, pietrificazioni, e gravi difficoltà che le hanno rese possibili, tutto questo lo trovi analizzato in Sartre e anche in alcuni miei scritti. Ma resta il fatto che proprio nel marxismo 117
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ritrovo ora uno storicismo intenzionale, la rivendicazione dei soggetti umani e del loro operare (rimando al saggio Struttura e lavoro vivente, in questo stesso numero di aut aut), la lotta contro l’alienazione, l’autocritica, la consapevolezza di nuovi orizzonti, l’avvicinamento a culture diverse rivalutabili in senso universalmente umano, il senso delle varie vie che possono essere percorse, la presa di coscienza del male che conduce ad una rinnovata trasformazione del mondo. Sarebbe certo interessante vedere che cosa accadrebbe in un incontro della sociologia come partecipazione prima con la fenomenologia in divenire e poi con il marxismo in divenire, per esempio con i problemi del Capitale e della critica dell’aspetto categoriale dell’economia politica. Almeno su un punto siamo d’accordo, mi sembra: sul pericolo dell’alienazione. Oggi sembra evidente nel fatto che il cattivo uso della scienza, delle tecniche, di tutta la cultura, può condurre ad una guerra atomica, alla rivolta dei prodotti del lavoro tecnico scientifico e culturale, e del lavoro di ogni tipo, contro gli uomini che hanno lavorato per produrre questi prodotti. Nel che consiste, appunto, l’aspetto fondamentale dell’alienazione. Mi sembra che la sociologia e le altre scienze umane, se vogliono orientarsi, debbano combattere l’alienazione in se stessa e fuori di sé. Non posso qui indicare tutti i complessi problemi toccati dal tuo libro e le suggestioni che ne derivano. Ci sono, tra l’altro, questioni che devo studiare ancora e ci sono molti libri che non ho ancora letto. Io credo, comunque, che sia possibile proseguire, con calma e serenità, la nostra discussione. Con il più cordiale ringraziamento per la tua lettera, il tuo E.P.
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Fin dal 1961, quando il mio libro La sociologia come partecipazione era da pochi giorni uscito dalla casa editrice Taylor di Torino, Paci se ne era detto, contro ogni mia aspettativa, turbato ed entusiasta. Subito mi aveva invitato a casa sua, a Milano, e per una notte intera se ne era discusso. Al di là di ciò che io stesso pensavo, Paci mi induceva a comprendere le implicazioni della mia posizione: a) veniva criticata, nei suoi stessi fondamenti, la mainstream sociology, che sacrificava il vissuto alla precisione numerica; b) si dimostrava la natura astorica e, tutto sommato, inconsistente del «sistema generale» di Talcott Parsons, nello stesso momento in cui, in Italia (presso Il Mulino) Luciano Gallino e Gianfranco Poggi lo esaltavano come il sistema definitivo; c) si ponevano le basi per una sociologia critica, come scienza di osservazione e concettualmente orientata, ma non da concetti essenzialistici, bensì in base ad una concezione della ricerca sociale in cui il ricercatore era lui stesso da ricercare, ossia come con-ricerca. In questa prospettiva, cominciavo a scorgere il nesso, del tutto imprevedibile fra Vico e Husserl. Vico nega la possibilità di una ragione che giunga pienamente alla verità, Husserl introduce il concetto di ragione filosofica il cui télos è la certezza. Questa ha il suo fondamento in una temporalità vissuta e sempre di nuovo ritrovata la cui forma è la scelta umana che l’uomo fa di volta in volta, scelte che si attuano nelle strutture del vivere civile e cioè nel modus vivendi dell’uomo in quanto tale. Al plastico della creatività divina corrisponde la verità, al fare umano corrisponde la certezza. Se, come intelligibilità, la cosa è possesso divino, nella sua comprensibilità essa è possesso umano. Il conoscerla comporta infatti il «costituirla», attraverso le modalità del suo formarsi. 119
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In altre parole, come razionalità che si esplica in un voler essere razionale realizzazione che non è altro che interpretazione che l’uomo ha di se stesso, e cioè della sua umanità10. È questa l’assunzione fondamentale per cui la civiltà dell’uomo è nello stesso tempo storia della sua umanità e del suo conoscere. In altre parole: «La storia dell’uomo e la ratio del suo sapere coincidono»11. Umano creare è quindi umano ragionare, ove la ragione è realizzata e vissuta in termini di esistenza «umana», vale a dire di esistenza comune: realizzazione che ha un’origine e uno sviluppo determinabile dal punto di vista evolutivo12. È forse possibile sostenere che Vico, il quale ha tolto a prestito da Giordano Bruno intuizioni e formule fondamentali, senza peraltro mai citarlo, trattandosi di un eretico e condannato al rogo e alla «damnatio memoriae», scopre il senso della ragione umana nell’esperienza empirica logicamente sprovveduta e sprotetta e che appunto in questa comune base di partenza ha luogo l’incontro, inaspettato e profondo, con Edmund Husserl. Vico non è dunque troppo lontano dalle sponde ioniche e dal pathos dal quale originariamente nacque la fede nella ragione, tenendo presente che questa era nata nell’anima dei Greci, a tutela della più radicale delle angosce primitive: l’angoscia del tempo che fugge e tutto disperde, vanificando ogni sforzo umano di consistere e di valere. Così che una storia della ragione – almeno nell’ambito delle culture greca, latina e cristiana – potrebbe forse essere 10 E.W. Said, Beginning, Intention and Method, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1978, p. 353ff. 11 E. Paci, Ingens Sylva, saggio sulla filosofia di G.B. Vico, Milano, Mondadori, 1949, p. 70. 12 Cfr. il mio La conoscenza partecipata, Chieti, Solfanelli, 2017.
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pensata come la storia di una grandiosa arginatura della temporalità devastatrice di ogni civitas hominis, quella temporalità di cui Eraclito aveva sentito, con possente intuito metafisico, la vertigine cosmica13.
Ho già notato, in altra sede, come forse soltanto il grande erudito di Pescasseroli, assistito dal solerte Fausto Nicolini, cui va riconosciuto qualche dubbio in merito, poteva persuadersi a trovare in Vico il maestro d’un altissimo pensiero speculativo mentre il filologo e filosofo napoletano si interroga sempre e soltanto partendo da dati strettamente empirici. In primo luogo, la paura del tuono e del fulmine, da cui la religione. Gli umani divengono sedentari per via della difficoltà di portarsi dietro i propri morti o anche per i mesi d’attesa per i frutti della terra, quando, da cacciatori e pescatori, si danno all’attività agricola. Si direbbe che Giambattista Vico, questo napoletano tipicamente marginale, «esule in patria»14 e carico di familiari e di miseria, capisca tutto con il bassoventre, riuscendo a congiungere strutturalismo e storicismo. Zeus, padre e re di tutti gli dèi, è, secondo Vico, semplicemente parola onomatopeica che imita il sibilo del fulmine. Contro l’idea del «papa laico» Benedetto Croce – così definito con inconsapevole umorismo nero da Antonio Gramsci – Vico, lungi dall’essere un mistico, fondamentalmente speculativo, «disdegnoso dell’empirismo», mutua da Giordano Bruno, sottacendone il nome, l’impostazione della sua ricerca dal basso e quindi il superamento del dualismo platonico (anima e corpo) P. Prini, Esistenzialismo, Roma, Editrice Studium, 1959, p. 83. Cfr. G. Vico, Autobiografia, Torino, Einaudi, 1947: «[…] il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto» (p. 31). Il titolo originario dell’opera suonava: Vita di Giambattista Vico – scritta da sé medesimo (1725-28). In essa sbaglia, nella prima riga, l’anno della sua nascita, che è il 1668 e non il 1670. 13 14
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e cristiano (carne e spirito). Scopre, in una parola, la centralità del corpo e delle esperienze di fatto come base della certezza fino ad arrivare all’assioma che ne riassume tutta la filosofia: Verum ipsum factum. È a questo punto che forse è dato di avvicinare il pensiero di Vico, il suo partire da esperienze vitali elementari, a quello di Edmund Husserl e al suo «mondo della vita» o Lebenswelt. La possibilità di questo accostamento non si lega solo al desiderio di soddisfare una curiosità storica. La questione riguarda la possibilità di elaborare concetti dal basso e quindi dar corso a una conoscenza dialogica, partecipata, in cui ego e alter riconoscano, fino in fondo, la loro correlatività. Con la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale Edmund Husserl raggiunge l’ultima fase del suo sviluppo. Se il complesso tessuto della tematica in esso svolta permette una varietà d’interpretazioni, l’intero lavoro è pervaso dallo sforzo costante da parte di Husserl nell’avviare un radicale ripensamento del criterio fondamentale di ragione fenomenologica. Tale ripensamento è condizione indispensabile perché la «crisi» dell’uomo moderno possa essere superata. Tale crisi è prodotto dell’«ingenuità di quel razionalismo che viene in genere scambiato per razionalità filosofica», e nella quale «… sono impigliate tutte le scienze; e […] il titolo generale per designare questa ingenuità è l’oggettivismo, che si manifesta nei diversi tipi di naturalismo e di naturalizzazione dello spirito»15. Perché l’avvio verso tale ripensamento possa aver luogo è necessario il compito di una radikale Besinnung, attraverso la quale «la filosofia può di nuovo esercitare la sua funzione, funzione 15 E. Husserl, La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, Mondadori, 1961, p. 350, trad. E. Filippini.
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di realizzare se stessa, e perciò un’autentica umanità»16. La messa a giorno di tale funzione e di conseguenza il rivelarsi di un nuovo concetto di ragione può avvenire soltanto se la riflessione filosofica intraprenderà quella via che, al di là dell’«ingenuità», porta al superamento di una ragione oggettivizzata e oggettivante. L’oggettivismo e il naturalismo della ragione che l’ultimo Husserl combatte consiste in essenza in una ragione filosofica la cui remota origine è da rinvenire nel concetto di verità ab aeterno. Tale concetto di verità è a fondamento delle scienze naturali, la cui razionalità è soltanto relativa, dimentica com’è del soggetto operante, e la cui «posizione di fondamento si sottrae ad una reale razionalità»17. Quale quindi la rotta del ritorno che abbandoni l’ingenuità di ragione oggettivizzata e naturalizzata il cui metodo applicato alla comprensione del soggetto umano ha provocato la perdita del senso della sua umanità, quel senso che era una volta accettato sia dall’intelletto che dalla volontà? L’agostiniano «in te redi» – ma io penso anche al consiglio del giovane poeta da Volterra, Persio, morto a ventotto anni, quando scrive: «Tollat sua munera cerdo, tecum habita» – è invocato da Husserl come la sola via di recupero di una umanità che ha smarrito se stessa: «Soltanto se lo spirito, recede da un atteggiamento rivolto verso l’esterno, soltanto se ritorna a sé stesso e rimane presso di sé può dar ragione di se stesso»18. Dar ragione di se stessa vuol dire, in questo caso, porre in luce il significato di se stessa come ragione, e cioè come razionalità vissuta come coscienza razionale che emerge da un mondo-di-esperienza (Erfahrungswelt) – humus originario di una 16
Ibidem. Ibidem, p. 354. 18 Ibidem, p. 356. 17
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pre-datità già carica di significati umani – ed in cui il significato di se stessa non è che compito infinito. Questo cammino a ritroso abbandona un criterio di verità compiuta per scoprire una verità che è volontà di razionalità, auto-responsabilità e quindi, per essenza, una verità sempre in cammino la quale può affermarsi a ogni suo progredire soltanto come certezza. È nel concetto di certezza, e più particolarmente nel concetto di certezza cognitiva, che si articola il concetto di ragione umana non troppo lontano dal pensiero vichiano. Il compito della conoscenza, di ogni conoscenza, secondo Husserl, non è quello di raggiungere una verità di giudizio – adaequatio intellectus ad rem – ma, piuttosto, di ottenere una certezza fondata (begrundete Gewissheit). Questo principio non concerne la verificazione del giudizio ma piuttosto esso si riferisce alla struttura della coscienza cognitiva e cioè a quelle strutture attraverso le quali la soggettività necessariamente manifesta se stessa nella sua attività razionale. Nella prospettiva fenomenologica della conoscenza, ogni atto di «acquisizione» conoscitiva è, allo stesso tempo, un atto di volontà. Ciò vuol dire che il giudizio certo, come cellula costitutiva di ogni teoria e di ogni scienza, implica un ritorno genetico a quelle operazioni di coscienza fino al terreno ultimo della loro fondazione primaria, fondazione che è da identificarsi in ultima analisi con il ritorno all’oggetto della percezione dato nella infinita possibilità della sua percepibilità. Conoscenza è per Husserl tale solo se rigorosamente fondata – in altre parole, se è messo in luce il principio costitutivo del conoscere stesso. Il compito di ogni scienza può avere realmente ed originariamente un senso e può mantenerlo soltanto se gli scienziati elaborano in sé la capacità di 124
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risalire ed indagare il senso originario di tutte le loro strutture di senso e di tutti i loro metodi: il senso storico della fondazione originaria, e in particolare il senso di tutte le eredità di senso inavvertitamente o successivamente assunte19.
In Vico, tenace e coerente critico dell’iper-razionalismo del «Signor Renato Delle Carte», il recupero di una ragione rarefatta nell’astrattismo comporta il ritessere di un «fare» e quindi la storia di un volere che si è incarnato nelle forme di istituzioni. Civiltà è in questo caso l’interpretazione che l’uomo attesta della propria umanità, interpretazione che essenzialmente è relazione con se stesso e quindi con l’altro. La forma di questa interpretazione è esprimibile e quindi ricostituibile nel tempo. L’uomo può comprendere non solo ciò che fa, ma soprattutto ciò che del suo fare è visibile e quindi pubblicamente accertabile. Il certo è verità umana, cioè verità che si storicizza. In altre parole, è una verità definibile in rapporto al tempo del suo costituirsi nella partecipazione faccia a faccia dell’umano all’umano e del permanere nelle varie espressioni dell’umanità in un costante cammino. L’istituzione civile è la forma di un voler-essere-umano, che «assurge» a paradigma di intelligibilità nel senso che in essa ci viene di volta in volta riproposto il modo in cui l’uomo ha scelto di essere uomo, il che significa la trascendenza dell’uomo. Da qui, come è stato acutamente osservato, «la possibilità di una verità non esauribile nelle forme storiche del suo apparire perché fondativa dell’apparire stesso delle forme storiche i cui esso si concreta»20. Attraverso la comune denuncia di una verità more geometrico demonstrata, sia Vico che Husserl cercano di approdare a una libertà della ragione che è da raggiungere attraverso un 19 20
Ibid., p. 85. F. Bosio, Coscienza storica e problema dell’uomo, Roma, Armando, 1974, p. 23.
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radicale superamento della distinzione tra verità teoretica e verità empirica, fra dόxa e epistéme, fra teoria concettuologica, legata a un modello iper-uranico di ascendenza platonica, e concetto elaborato dal basso. Per entrambi si può parlare del primato di un fare umano costantemente alle prese con l’opacità della materia. Mentre per Vico ciò significa un itinerarium mentis attraverso il quale è possibile ri-costituire la socialità – le forme attraverso le quali l’uomo ha creato i modi di vivere la sua umanità, i comportamenti abituali e le strutture istituzionali – per Husserl la ragione filosofica è l’itinerario della genesi della coscienza che si avvia a comprendere il mondo come un prodotto di significati. Mentre per il primo abbiamo il cammino a ritroso della storia come storia civile attraverso le modificazioni della mente, per il secondo abbiamo il cammino a ritroso della storia della coscienza. In entrambi, la fondamentale presupposizione che la coscienza umana è nel suo fondamento e innanzitutto auto-coscienza. In entrambi, la ragione risale da un oggettivismo scientifico e prescientifico al soggetto conoscente come primordiale esperienza di sé e della propria umanità, nella quale, e soltanto nella quale, è da discernere «l’emergere della ragione» come «esprimersi della ragione da una sua intrinseca latenza»21. Momento che esprime il Logos nascente «quando cose, verità e valori sono per noi costituiti […] e che c’insegna, al di fuori di ogni dogmatismo, le vere condizioni dell’oggettività, che ci chiama al compito della conoscenza e dell’azione […] il che vuol dire il recupero di una coscienza della razionalità»22. L’emergere della ragione in Vico e l’emergere della coscienza razionale in Husserl rappresentano in entrambi l’impegno costantemente rinnovato G. Vico, Opere, op. cit., p. 19. M. Merleau-Ponty, The Primacy of Perception, Evanston, Northwestern University Press, 1964, p. 25. 21 22
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«di dare un fondamento razionale anche al mondo obliato e perduto della materialità e per l’altro di fondare la struttura razionale che lo sostiene anche nel suo oblio»23. La rivalutazione della conoscenza ordinaria, dei comportamenti abituali e delle credenze popolari diffuse è presente in Giambattista Vico e gioca un ruolo decisivo nella sua Scienza nuova. La novità è appunto da vedersi, a mio parere, in ciò che sfugge totalmente – un’incomprensione così radicale da riuscire commovente – a Benedetto Croce e alla sua Filosofia di Giambattista Vico. Lungi dal porsi come un pensatore incline alla elaborazione di concetti essenzialistici e di una vera e propria ontologia metafisica, lo studioso napoletano parte dal basso e dall’esperienza empirica nel suo senso più grezzo e immediato. Zeus, come più sopra osservato, non è altro che la parola onomatopeica che imita il sibilo del fulmine. La religione esprime la paura che incute il tuono negli umani. Il mito, il «racconto», la fabula è all’origine della «favella», dell’homo confabulans, vale a dire del discorso intersoggettivo che è alla base e rende stabile l’aggregarsi umano, dall’orda primitiva alla società civile, e conferma nello stesso tempo la grande scoperta della sedentarietà, dopo l’errare delle popolazioni nomadi, o della stanzialità, sia essa determinata dalla difficoltà di portarsi dietro i cadaveri dei congiunti, come sembra ritenere Lewis Mumford, oppure dalla necessità di attendere il maturare delle derrate agricole, come è incline a credere Heinrich Popitz24.
G. Vico, Opere, op. cit., p. 19. Cfr. H. Popitz, Verso una società artificiale, tr. it. con mia «Introduzione», Roma, Editori Riuniti, 1996. 23 24
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Capitolo settimo
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La società irretita
È molto probabile che tecnofili e tecnofobi siano destinati, già oggi e nel prossimo futuro, a scontrarsi. Si potrà anche ipotizzare l’idea che, con l’elettronica applicata su vasta scala e con la rete, sarà possibile dare finalmente la parola a coloro che non l’hanno mai avuta e, al limite, realizzare finalmente – un unicum storico – la democrazia diretta, resa a tutti accessibile con un semplice clic. Sarà facile replicare, da parte dei più storicamente provveduti, che almeno dal V secolo a.C., nell’Atene di Pericle, la democrazia presuppone necessariamente, come conditio sine qua non, il rapporto faccia a faccia, la discussione a viso aperto, il dialogo nel corso del quale gli interlocutori possono anche cambiare idea. Addirittura, nella Boulé di Pericle, i membri non potevano prendere appunti, dovevano parlare a braccio, per garantire la sorgiva schiettezza delle loro parole. Ma è anche possibile che nel prossimo avvenire un numero sempre più ristretto di specialisti in electronicis si aggreghi e formi una élite relativamente coesa in grado di esercitare un potere discrezionale su una maggioranza di incompetenti, costretti ad obbedire senza capire. Non sarà la democrazia diretta, ma, più semplicemente, la società irretita, di cui già 128
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oggi abbiamo premonizioni nei settori fondamentali della vita sociale. La definiscono società liquida, cablata, tecnicamente progredita e elettronicamente assistita. No. È solo una società – o quel che ne resta – irretita, sempre interconnessa, ansiogena, nevrotizzante e fragilissima. Si può comunicare tutto a tutti, in tempo reale, su scala planetaria. Ma non c’è più nulla da comunicare. Nulla di umanamente significativo, dal profondo, a faccia a faccia. Si comunica «a». Non si comunica più «con». È venuta meno la base comune: unione, comunione, comunicazione, comunità. L’intersoggettività, già data per scontata, è riemersa come problema: come può il soggetto uscire da se stesso senza desoggettivizzarsi? Che cosa tiene insieme e conferisce unità e sta alla base della costruzione del Sé? Se viene meno il principio di non contraddizione, sembra impossibile garantire la coerenza del soggetto e salvarlo dalla spontaneità indebitamente spacciata per autenticità. È un fatto che, con la comunicazione elettronica, veloce e smaterializzata, si è perso il contatto diretto, il linguaggio del corpo, il fatto e l’antefatto, il peso e la complessità dell’esperire umano1. Tutto è semplificato, alleggerito, velocizzato. Basta cliccare. Ma l’uomo numerico è preciso e svuotato nello stesso tempo. È rapido. Veloce. E nello stesso tempo stupido, perché non sa più indugiare, riflettere. Perpetuamente nomade o navigatore nell’oceano-pattumiera del web, ma sedentario. Vede tutto e non tocca niente. È frenetico e immobile nello stesso tempo, informato di tutto e concentrato su niente. Incurante dell’antefatto. Indifferente al principio di non contraddizione e alla consecutio temporum. È ancora 1 Cfr. il mio Il viaggiatore sedentario – Internet e la società irretita, Bologna, EDB, in corso di stampa.
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l’Homo sapiens d’ascendenza socratica? Oppure, semplicemente, sta diventando una Simia insipiens? Lungi dal vivere in una situazione di grandi cambiamenti sociali come comunemente si ritiene, si è al contrario, nella condizione odierna, vittime dell’eterno ritorno dell’identico, vale a dire ostaggi di una istessità inerte, prigionieri di una sameness, di una serialità che trasforma gli individui viventi in comparse vissute, meri replicanti, disperatamente condannati a una libertà di cui non possono fruire, negati all’agire indeterminato e all’involontarietà del pensare. Non del pensare per uno scopo prefissato, ma del pensare libero, anche gratuito, sovranamente inutile, almeno in apparenza. Non è solo in gioco, credo legittimo inferire, semplicemente un’evoluzione del concetto di individuo e della pratica sociale in cui agisce. Si tratta invece di un rovesciamento di prospettiva: l’individuo che si era supposto, fin dall’Illuminismo, realtà auto-sufficiente, padrona e forgiatrice del proprio destino, appare ora interiormente appiattito, vissuto da forze che non può controllare piuttosto che autonomamente vivente, non solo «unidimensionale» come sosteneva Herbert Marcuse, ma neppure reificato e razionalmente sfruttato, come ritiene l’ortodossia marxistica. Oggi, appare non più in grado di elaborare e possedere una visione globale del mondo e quindi di controllare e decidere i modi delle proprie esperienze. Contemporaneamente a Martin Heidegger, ma anni prima di Jean Paul Sartre e anche di Herbert Marcuse, Ernst Jünger esplora l’essenza tecnica e sembra comprenderne la logica per tempo, specialmente nel Der Arbeiter – una logica che non concede pause né spazi di indeterminazione, tendenzialmente globale e onniavvolgente. La logica della tecnica, che può accomodare tutto, ingoiare e adattarsi a tutto, non è tuttavia in grado di accettare ciò che per sua natura ami restare nel vago, deve 130
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respingere o in qualche modo espungere il mistero, la zona umbratile in cui si cela il puro potenziale, il non ancora pienamente sbocciato, l’inquietante imprevedibilità, che costituisce l’esperienza propriamente umana, tutto ciò che dall’«agire inerte» viene refoulé, rimosso, e pertanto il non perfettamente definibile in termini organizzativi. Per Ernst Jünger un mondo dominato dalla tecnica, che è poi fondamentalmente scienza applicata – ma su questo punto le divergenze d’opinione sono vivaci e numerose (si veda, fra gli altri, in Italia Antonio Zichichi e tutti i tecnofili che sono legione), è un mondo che non può sfuggire all’irrigidimento burocratico formale e che rischia pertanto non soltanto le secche e le aporìe che anni fa2 indicavo riassuntivamente con la formula del «mito organizzativistico», contro un autore, Philip Selznick, all’epoca piuttosto notorio, con il suo libro su The Organizational Weapon (L’arma dell’organizzazione), ma anche l’appiattimento interiore della «proletarizzazione dell’anima», angosciosamente prevista e temuta da Max Weber, un mondo di perfetti funzionari che, esaurita la funzione, sono letteralmente defunti, ma non lo sanno e continuano a fare le loro pratiche, andare puntualmente ogni mattina in ufficio. Non sanno, non si rendono conto, di essere morti che camminano. Sembra certo, ad ogni buon conto, che un mondo tecnicamente progredito, come si dice, ossia un mondo in cui gli imperativi e i ritmi della tecnica si siano imposti senza incontrare più ostacoli, sia un mondo «totalmente amministrato», senza residui o zone franche, privo di margini che concedano un certo spazio all’inventività individuale, al pensare involontario, all’otium creativo. D’altro canto, come in più luoghi ho osservato, la tecnica è certamente il frutto e corrisponde ai modi 2
Vedi il mio Il dilemma dei sindacati americani, Milano, Comunità, 1954.
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operativi di un progetto di sviluppo razionale perfettamente compiuto e in sé concluso. Come tale essa è però essenzialmente una perfezione priva di scopo al di fuori di se stessa, ed appare quindi capace di controllare solo la correttezza interna delle proprie operazioni. Non può quindi stupire, a rigore, che la tecnica non sia in grado di additare méte al processo sociale. È ripetitiva, contraddittoriamente dinamica e inerte. Eternizza il presente. La sua stasi conferma le posizioni sociali di vantaggio relativo. I suoi progressi sono solo la ripetizione, l’inerzia fatta storia, una ripetizione ossessiva e fin parossistica delle sue operazioni, il cui livello operativo essa non è costitutivamente capace di trascendere, poiché ogni trascendimento o freno o orientamento in termini metatecnici significherebbe per essa, necessariamente, blocco operativo, insuperabile scacco e arresto. Siamo esseri presi nelle maglie di una società contraddistinta e dominata dalla logica del pratico-inerte. La tecnica non è in grado di operare cambiamenti effettivi (strutturali e socio-psicologici), bensì di vivere al più l’esperienza, dolorosa e frustrante, di cambiamenti che sono in realtà solo transizioni dallo stesso allo stesso. Elìsa dalla razionalità tecnica sia la coscienza possibile che la funzione sociale dell’utopia, non dovrebbe meravigliare che l’individuo si senta prigioniero di schemi e di requisiti che non controlla, impersonali e ripetitivi, che gli incutono un vago, ma reale, terrore. L’individuo cerca allora scampo nella fuga, ma poiché non vi sono méte sociali largamente condivise, la sua non potrà essere che una fuga verso il nulla, in uno stato di angoscia in apparenza immotivata, che indefinitamente riproduce se stessa. L’individuo oscuramente sa che, in ogni istante, compie un atto, prende una decisione anche quando non decide – una decisione che lo può salvare oppure perdere mentre, nello stesso tempo, si 132
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sente irrimediabilmente defraudato del potere di decidere e condannato ad una libertà che è soltanto un «agire inerte», una passiva accettazione di quanto deciso da un potere che non si conosce, che nel mistero perfeziona la sua discrezionalità. Deus absconditus.
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Capitolo ottavo
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Le condizioni per un nuovo umanesimo
Dopo la sconfitta di Prometeo e il tragico volo di Icaro, siamo forse in grado di usare le macchine senza venirne usati e asserviti; possiamo scoprire e rivalutare la comune umanità degli esseri umani, individuare e approfondire le fondamentali convergenze fra la cultura filosofica e letteraria dell’umanesimo classico e la cultura scientifica? Dopo quella che in altra sede ho definito la «sbornia elettronica», sarà possibile recuperare il senso del limite, ricostruire le condizioni, sul piano storico, di un nuovo antropocentrismo non egolatrico, di una cultura che non vieti di capire e interloquire con gli altri, con le altre culture? Sarà possibile concepire l’uomo, qualunque essere nasca in sembianze umane e passi per una volta su questo pianeta, come detentore e titolare di un diritto inalienabile di umanità? Si tratta di domande che necessariamente si impongono. Ma la risposta non è né facile né semplice. La misura umana, quel senso del limite che per i nostri antichi padri, greci e latini, si esprimeva concisamente con formule proverbiali, come medén àgan e ne quid nimis, sembrano andati perduti. La bulimia, deconcentrata e dispersiva, dilaga. Ma, forse, è proprio di fronte all’invadenza, ormai onni-pervasiva, della macchina e della 134
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tecnologia basate sull’applicazione dell’elettronica su vasta scala, che si apre una scappatoia, imboccata da molti, una risposta che non si sa se definire illusoria o farisaica. Essa punta e chiama in causa l’uso. È accattivante, arieggia il buonsenso, sembra legarsi alla saggezza convenzionale: la macchina c’è, il progresso tecnico è innegabile, non è possibile tornare al bosco, la tecnologia e le comunicazioni elettroniche non sono, di per sé, né un bene né un male. Tutto dipende dall’uso, che può essere buono o cattivo. In proposito si è persino levata la voce autorevole di Papa Francesco, che ha definito Internet un dono di Dio – per le cinque società multinazionali produttrici di aggeggi elettronici senza dubbio – a raccomandare, come ricetta risolutiva, l’uso buono dei mezzi di comunicazione elettronicamente assistiti. Mi permetto di ritenere che la ricetta non funziona. Non è quella giusta. È un pio desiderio che rimanda tutto alle calende greche. Non si tratta dell’uso buono o cattivo. È lo stesso uso che costituisce un problema. È stato osservato, in base a dati che ritengo affidabili, che la «rivoluzione digitale» si allarga e dilaga a velocità impressionante. Non solo: coinvolge tutti i settori della vita sociale e intacca la stessa psiche individuale. C’è una interconnessione crescente a un tasso esponenziale che, si calcola, sarà superiore ai venti miliardi entro, al più tardi, fra un triennio. Il punto cruciale della produzione e della distribuzione dei prodotti è ormai costituito dal controllo dei dati dei potenziali clienti. Non è più necessario produrre il prodotto, occorre produrre il consumatore, conoscerne gusti e carattere, sedurlo e manipolarlo. Di fatto, le economie delle società tecnicamente progredite, in termini di occupazione risentono più dalla robotizzazione che dalla concorrenza dei Paesi emergenti e dalle migrazioni di grandi masse umane. Non solo: qualche studioso spregiudicato, non legato né 135
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subalterno ai grandi interessi costituiti, trova che ormai la rete sta svelando aspetti problematici: il giro d’affari della criminalità organizzata, che sfrutta le comunicazioni elettroniche, si calcola che tocchi ormai i 500 miliardi all’anno e colpisce soprattutto l’Europa, dove solo il dodici per cento delle imprese è in grado di criptare i dati e quindi proteggersi. Il digitale sta diventando un fattore cruciale con riguardo alla sicurezza e al potere legittimo degli Stati. Esso sta profondamente intaccando la possibilità di superare la crisi che affligge attualmente i regimi democratici. Con riguardo agli orientamenti psicologici degli individui, alla loro autoconsapevolezza e in generale alla vita interiore, che ovunque appare in via di inarrestabile deperimento, in altra sede mi sono occupato a fondo1. Che fare? Scartata la ricetta sull’uso buono o cattivo, visto che è lo stesso uso, così come oggi viene praticato, a costituire il problema, per quali vie è dato delineare, quanto meno in via ipotetica, un possibile nuovo umanesimo? Ci fu un tempo in cui ritenevo che bastasse, a questo scopo, dar corso a una interazione critica dei vari mezzi di comunicazione e, in generale, di informazione2. Ma l’elettronica applicata su vasta scala appare coinvolgente, onnipresente e così veloce da bruciare i margini di tempo necessari alla riflessione. Informa e deforma, comunica e deconcentra, diverte e perverte, produce quel chiasso interiore che prelude al vuoto psicologico e all’inconsapevolezza. Il cervello umano è ancora una macchina lenta3. 1 Si vedano, in particolare, il già citato Un popolo di frenetici informatissimi idioti, Chieti, Solfanelli, 2012, Il viaggiatore sedentario, Bologna, EDB, 2018, La parola e l’immagine, Chieti, Solfanelli, 2014. 2 Si veda il mio Mass media e società di massa, Roma-Bari, Laterza, 1992. 3 Si veda in proposito Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, Bologna, il Mulino, 2017.
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Occorre forse considerare ormai i mezzi comunicativi elettronici sullo stesso piano della droga e in generale degli stupefacenti. In effetti, creano dipendenza, attaccamento morboso, alienazione. Genitori che per tenere buoni i bambini mettono loro in mano il tablet e i videogiochi sono forse da considerarsi criminali in tempo di pace. Senza rendersene conto, distruggono l’individualità del bambino, la personalità della persona, il valore – unico, irripetibile, irriducibile ad altro – dell’individuo. Il primo ministro inglese, Tony Blair, aveva proibito i cellulari a scuola. Sembrava un primo passo. Positivo, ma insufficiente. Bisogna colpire alla radice, chiamare in causa le compagnie multinazionali, richiamarle alle loro responsabilità, che sono pubbliche, e quindi anche politiche, oltre che fiscali. È uno scandalo, e pesa come una vergogna su tutta la tradizione giuridica dell’Occidente, che le grandi multinazionali, con bilanci superiori a quelli di molti Stati, siano ancora semplicemente considerate «domicili privati». I giuristi dovrebbero battersi il petto e recitare, ogni giorno, un «mea culpa» collettivo. La società irretita appare come una società di massa. In realtà, è massificata, simile a un grande formicaio, in cui gli individui sono atomizzati, autoreferenziali, chiusi nel loro insignificante privato, alla ricerca spasmodica del successo. L’accesso alle comunicazioni elettroniche è aperto a tutti, ma solo individualmente. Non aggrega. Disgrega. Esalta l’autoreferenzialità. Promette la visibilità, la notorietà al prezzo dell’identità. Ma il successo non va rincorso. Può riuscire rovinoso. Ho conosciuto gente, anche fra i miei ex-collaboratori, che per il successo si vendeva l’anima. Non si rendeva conto che le onorificenze sono onoranze funebri. I riconoscimenti non sono strettamente necessari. Io credo che siano ancora massimamente utili, soprattutto per i giovani coraggiosi, con poco o 137
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niente da perdere, con grande passione di vivere, le tre regole auree dei nostri antichi padri della classicità greco-romana: 1. Medén agan; in latino: ne quid nimis. Nulla in eccesso. Senso della misura. Controllo degli appetiti. Agilità. 2. Festina lente: «Affrèttati lentamente». Rapidità, sì; ma non a spese della profondità. Fretta, anche, ma non superficialità. Velocità, ma non approssimazione. 3. Age quod agis: «Fa’ quello che fai». Concentrazione. Far tacere il chiasso interiore. Da dove nasce? Dalla maledetta sbornia elettronica, la nuova tossicodipendenza, la dipendenza da Internet, l’inaridirsi della vita interiore. In altre parole nasce dall’eccesso di informazioni, stimoli, emozioni. Silenzio e concentrazione perseverante. Fedeltà a se stessi, alla vocazione profonda, al progetto di vita, al costo della scelta. Scelta, e quindi rinuncia a tutto il resto. La cultura come progetto di vita. L’amico Stanford M. Lyman, professore di sociologia e antropologia alla New School di New York e poi all’Atlantic Florida University, non si contentava della formulazione, necessariamente piuttosto apodittica, delle «tre regole» e mi incalzava con precise domande. Stan Lyman: «Ma dimmi, Franco, com’è che hai cominciato? Cosa diresti a un giovane di oggi, a uno di quelli che appartengono al “popolo di frenetici, informatissimi idioti”, come tu, con scarse buone maniere, li hai definiti?» F.F. «Sei cattivo. Quello era un titolo malcompreso. Volevo solo dire… a un giovane di oggi direi di muoversi verso il non ancora conosciuto…» Lyman: «Sì, ma bisogna avere degli strumenti». F.F.: «D’accordo. Per esempio, ad un giovane di oggi, direi di studiare, e studiare bene, almeno una lingua straniera, meglio se ne studia due, o anche tre». 138
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Lyman: «Ma la scuola, così com’è oggi organizzata, aiuta poco». F.F.: «Non è solo la scuola. È tutta la società che segna il passo. È una società che m’è parso giusto definire “saturnina”…». Lyman: «In che senso?» F.F.: «Nel senso preciso che si tratta di una società che fa i figli e poi li divora, come il mitico Saturno. Li fa studiare, magari fino a diciott’anni, e poi li condanna al macero». Lyman: «Al macero?» F.F.: «Sì, al macero. Al precariato. Gli nega i mezzi di sussistenza e la possibilità pratica di vivere autonomamente, farsi una famiglia. Gli nega il posto di lavoro a tempo indeterminato». Lyman: «Ma questo è forse dovuto all’innovazione tecnica». F.F.: «Può darsi. Ma ciò che è certo è che non si può vivere di tre mesi in tre mesi. Con l’ansia del rinnovo che ci sarà o non ci sarà. In queste condizioni, non c’è la possibilità di farsi un progetto di vita. Ho scritto un libro su questa “strage degli innocenti”». Lyman: «Uno può scrivere un libro su qualsiasi cosa, sul destino d’un uomo o sulla corteccia di un albero. Ma cosa puoi dire a un giovane precario di oggi sulla base della tua esperienza?» F.F.: «Niente. Non oserei mai alzare il dito e impartire una lezione. Mi limiterei a dirgli: “Guardati dentro e riconosci te stesso. Hai una vita tra le tue mani. È tua. Solo tua. Vedi di non sprecarla, di non giungere a morte prima d’aver vissuto». Lyman: «Non è così semplice». F.F.: «Certo non è semplice. Bisogna scegliere». Lyman: «Ma la scelta è spesso dolorosa. Significa rinunciare a qualcosa di bello, anche di piacevole…». 139
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F.F.: «Ti racconto un aneddoto. Quando dovevo decidere se ripresentarmi candidato alla Camera dei Deputati, con prospettive ministeriali molto lusinghiere e un caro amico, Guglielmo Negri, all’epoca direttore dell’Ufficio Studi Legislativi di Montecitorio, mi sussurrava di non interrompere uno splendido cursus honorum, incontro Nicola Abbagnano. Mi vede soprappensiero e mi dice: “Che c’è?” Rispondo: “Che vuoi? Devo decidere se ripresentarmi come deputato uscente o se invece darmi in piena autonomia allo studio e alla ricerca”. Lui mi fa: “Scegli quello che ti piace”. E io: “Ma a me piacciono molte cose”. E lui, con la dolcezza e la comprensione di un fratello maggiore: “Scegli quella che ti piace di più”». Ai giovani di oggi direi solo questo. Ma una volta fatta la scelta, buttarci dentro la vita. La società irretita non se ne andrà, non scioglierà le sue reti automaticamente, come per un processo naturale. È necessaria la presa di coscienza dei singoli. Il nuovo umanesimo nascerà, se ha da nascere, premendo dal basso, rivalutando l’esperienza comune, ritrovando la razionale domanda socratica, l’autoconsapevolezza, la riflessione quieta, la capacità di scegliere, sapendo che la scelta significa rinuncia, concentrazione sul progetto di vita, sacrificio. Ciò che non costa vale poco, spesso quasi nulla. Un grande, «epocale», come oggi usa dirsi, cambiamento dell’idea e della pratica di umanità viene quotidianamente svolgendosi sotto i nostri occhi. Chi abbia avuto il privilegio di nascere e formarsi in una o più generazioni passate se ne rende conto. Occorre concedersi una pausa di seria riflessione collettiva, rinunciando alla febbrile rincorsa del «more and more», del «di più, sempre di più», che inevitabilmente sfocia nel corto circuito fra sovrapproduzione e sottoconsumo. Altrimenti? Niente. Il cambiamento e la rincorsa continueranno. Inutile farsi illusioni. Invece di passare dalla società irretita 140
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al nuovo umanesimo si profila il rischio, già oggi visibile e palpabile, di passare dall’homo sapiens socratico alla simia insipiens elettronica. L’umanesimo, come amava dire l’amico fraterno Cesare Pavese, non è una poltrona. Dobbiamo agli studi, severi e attenti, di Eugenio Garin la comprensione non dimidiata, bensì complessiva, integrale dell’umanesimo come esperienza culturale e civile globale, non limitata agli aspetti squisitamente filosofici o letterari, tale invece da approfondirne anche gli aspetti propriamente scientifici, sconfiggendo per tempo e dimostrando la vacuità dell’idea di «due culture», l’una umanistica e l’altra scientifica, un’idea elaborata da C. P. Snow e che trova in Galileo e in Leonardo da Vinci la sua totale, storicamente definitiva, sconfitta. In altra sede mi sono occupato della problematica serenità del grande individuo rinascimentale. Il personaggio che più compiutamente rappresenta questa «serenità», che in taluni casi mi sembra sfiorare, più che l’atarassìa stoica, la nonchalance di cui dà prova in più luoghi Lorenzo il Magnifico, credo che vada individuato in Leon Battista Alberti, uomo certamente di pensiero ma anche d’azione, filosofo e architetto, sereno ma anche consapevole delle contraddizioni della vita e certamente, in particolare nel trattato Della famiglia, capace di superare le sfortune della propria famiglia in una vena di autonomia e di saggezza pratica che ritroveremo, per quanto suoni paradossale, solo nell’Autobiografia di Benjamin Franklin. Sono da considerare, in questa prospettiva, soprattutto le Intercenali, in cui il potere autocratico dell’uomo viene riconosciuto in tutte le sue iniziative, tanto da farmi presagire in Alberti una concezione che da tempo vengo formulando con l’idea dell’individuo autotélico, cui non è sufficiente lo studio dei soli libri per non restare un homunculus e al quale è invece 141
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necessaria la prova dell’esperienza perché «noi siamo solo nella misura in cui agiamo». Qui il lettore attento potrà persino trovare una interessante premonizione di Hegel, là dove il grande capomastro svevo, infaticabile costruttore di sistemi, afferma che «l’uomo coincide con la sua produzione». L’umanesimo, integralmente concepito, riguarda e coinvolge tutta l’esperienza umana e il suo significato nel mondo. Homo sum – nihil humani a me alienum puto. La scienza ha determinato cambiamenti e miglioramenti nella vita umana inauditi, innegabili, spesso preziosi. Penso alle fognature urbane, alle reti idriche, elettriche, ai progressi contro malattie epidemiche, come la tubercolosi e il colera. Non si pensi solo allo spazio o alla luna. Si considerino i progressi nella medicina, come terapia e come prevenzione. Ma ciò che la scienza non può fare, pena il suo stesso autonegarsi, è di pretendere di esaurire, in sé e nel proprio ambito, tutto il senso della presenza umana nell’universo. La scienza è certamente un valore. Ma è un valore strumentale. I valori finali, la regola morale vanno al di là dell’empiria scientifica. Si pensi ai «ragazzi di via Panisperna», che a Roma lavoravano alla scomposizione e alla fissione controllata dell’atomo sotto la guida di Enrico Fermi e giustamente, dal punto di vista delle loro ricerche, si preoccupavano che i finanziamenti arrivassero puntuali, anche se venivano decisi dal regime fascista. Ai valori finali non basta l’efficienza tecnica. Fanno pesare un interrogativo fondamentale sugli eventuali risultati e il loro uso. Per chi? Per che cosa? Per l’uomo o contro l’uomo? Per i valori finali l’uomo è sempre un fine, mai un mero strumento, non importa per quale sublime causa o per quale disegno ideologico o ancora per quale fede trascendente4. 4
Cfr. in proposito il mio Scienza e coscienza, Bologna, EDB, 2014.
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Naturalmente, nessuna gratificante illusione è ammissibile. L’uomo è un progetto per l’uomo. Un progetto probabilmente destinato a non essere mai compiuto, la cui fine non sarà mai raggiunta. In ogni individuo c’è una moltitudine di individui. L’identità non è un dato da feticizzarsi e da giocarsi contro altre identità. L’identità è un processo. In altra sede mi sono soffermato su questo tema e ho parlato di «identità dialogica». Nel senso che l’identità è una realtà fluida in cui si incontrano e fondono somiglianze e differenze, la forza delle differenze e la conferma delle somiglianze. Il dialogo non ha nulla di idilliaco o di degnante accondiscendenza. È, letteralmente, un «trapassarsi», che presuppone, necessariamente, l’accettarsi come realtà differenti e somiglianti, in una situazione di convivenza indispensabile. Come abbiamo più sopra richiamato, riemerge qui il problema della intersoggettività, cui già accennavo fin da La sociologia come partecipazione5 e poi in Storia e storie di vita6. Come può il soggetto uscire da sé senza negarsi? Come si può partecipare, ossia farsi parte, senza mettere a repentaglio la propria unitarietà individuale? Si ripropone un problema antico: individuum – dividuum – condividuum. La soluzione neo-aristotelica del realismo ingenuo dell’Aquinate, che fondamentalmente si riassume nella formula dell’adaequatio intellectus ad rem e che pertanto riconosce alla realtà esterna, alla res extra-soggettiva, una priorità assoluta, non sembra accettabile così come non convince la soluzione offerta dal neo-idealismo di matrice hegeliana, nella sua forma crociana-gentiliana, anche se è vero che, di fronte al realismo ingenuo, adottato dalla filosofia neo-scolastica, 5 6
F.F., La sociologia come partecipazione, Torino, Taylor, 1961. F.F., Storia e storie di vita, Roma-Bari, Laterza, 1983.
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l’attualismo puro di Giovanni Gentile si pone come una via obbligata, che solo uno scrittore meno dotato di vigore teoretico, come Benedetto Croce, poteva invece dare per risolta con una suddivisione della «vita dello spirito» in compartimenti stagni, in tutto degni della gretta mentalità di un proprietario terriero. In questa prospettiva, il nuovo umanesimo richiede, in primo luogo, una rinuncia, importante e dolorosa, che riguarda in modo particolare, la cultura europea occidentale di ascendenza vetero-umanistica nella sua sostanza antropocentrica. È in gioco l’autoconsapevolezza dei conviventi e il fondamento di questa consapevolezza. È noto che la tradizione vetero-umanistica europea occidentale si fonda sui concetti di lógos e di epistéme, entrambi concepiti come dote esclusiva di una ristretta élite di sapienti, considerati depositari e incarnazioni del modello normativo kalòs kai agathòs, contro la grande maggioranza dei pollòi, destinati a servire non come esseri umani in senso pieno, ma, al più, come «piedi di uomo», secondo Platone, o come «macchine animate», a giudizio di Aristotele. Dal punto di vista positivo, il nuovo umanesimo dovrà elaborare e far valere un diritto di umanità, per cui, quale che sia il colore della pelle o la dotazione psico-genetica, qualunque essere in sembianza umana nasca e per una volta passi sul pianeta Terra, va accolto, rispettato e riconosciuto come essere umano pleno jure, membro a pieno titolo della famiglia umana in cammino verso la realizzazione, sul piano teorico e politicopratico, di una piena humana civilitas.
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