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Italian Pages 364 [372] Year 2013
Quodlibet I " Daniel Heller-Roazen Il tatto interno Archeologia di una sensazione
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Daniel Heller-Roazen
insegna Letteratura comparata
all’Università di Princeton. Con Quodlibet ha pubblicato Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (2007), Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni (2010).
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https://archive.org/details/iltattointernoar0000hell
Quaderni Quodlibet 42
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Daniel Heller-Roazen
Il tatto interno Archeologia di una sensazione
Traduzione di Giuseppe Lucchesini
Quodlibet
Titolo originale The Inner Touch Archacology ofaSensation Prima edizione: Zone Books, New York 2007 © 2007 Daniel Heller-Roazen
© 2013 Quodlibet via S. Maria della Porta, 43 62100 Macerata
ISBN 978-88-7462-461-4
Hoi Stoikoi rende ten koinen aisthésin entos haphén prosa-
goreuousi, kath°hen kai hemon auton antilambanometha. Per gli Stoici il senso comune è una specie di tatto interno, grazie al quale noi riusciamo a cogliere noi stessi. Aétius, Placita, IV, vu, 7
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Capitolo primo Murriana
Una prefazione all’opera, in cui Hegel e Murr, il gatto scrittore di E.T.A. Hoffmann, esaminano i rapporti fra sensazione e coscienza
È notte, ma un gatto veglia ancora e, a volergli credere, non è mai stato tanto vigile quanto ora. Solo nel buio, il principale — se non l’unico — nar-
ratore delle Considerazioni filosofiche del gatto Murr si sente sopraffatto dalla più possente fra le percezioni: il «sentimento di esistere» (Geftible des Daseins), com’egli ben la definisce all’inizio dello scritto in cui raccoglie gli eventi della sua vita e i suoi pensieri. «Nella vita c’è qualcosa di così bello», esclama il gatto, «così magnifico, così sublime!». Egli ricorda l’eroe dell’Egmont goethiano, che cerca di rievocare la «dolce intimità con l’esistenza» mentre si prepara, in un «doloroso attimo», a congedarsi dalla vita. Ma il gatto, a differenza del personaggio tragico, è vivo e vegeto, e pienamente immerso in «quella consuetudine dolce», nel momento in cui la nomina, e sembra decisamente incapace di lasciarsela indietro, anzi, non
riesce neppure ad immaginarselo. Tutto intorno a lui, il gatto avverte «questa forza spirituale, l’ignota potenza, o come altrimenti si voglia definire il
principio che ci regge e che», aggiunge, «senza il mio benestare mi fece dono della suddetta». La sua sensibilità lo ha elevato fino alla «sublime visione delle cose» che solo raramente, o mai, è stata raggiunta dai poeti. Mosso dalla forza del suo sentire e dall’agilità delle sue quattro zampe, egli s’è destramente «elevato» — o piuttosto, come si corregge, s'è «arrampicato» — in alto, sui tetti della città in cui vive, il posto migliore per osservar-
la nel suo notturno splendore. La sua prosa tradisce il tono inconfondibile dell’animale felice di trovarsi nel luogo ove le sue naturali abilità l'hanno condotto: «Sopra di me si inarca l’ampia volta del cielo stellato, la luna pie-
na già diffonde la luce dei suoi raggi e tutt’attorno è una splendida, argentea distesa di tetti e di torri»!. Cosa prova Murr, mentre se ne sta appollaiato di notte al di sopra della città? Nonostante le sue iniziali allusioni al famoso sfogo dell’«eroe di quella tragedia olandese», il gatto sembra poco propenso ad ammettere che
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un essere umano possa pienamente cogliere la forza dei suoi sentimenti esistenziali. In tutta evidenza, Murr nutre dubbi quanto alle capacità dei bipe-
di in generale, e non accetta affatto come autoevidente il diritto degli umani a dominare sugli altri animali con i quali condividono la terra. «Ma è cosa talmente grande», si chiede Murr, non senza sdegno, «l’andarsene ritti su due piedi, tanto che la razza chiamata uomo possa pretendere il dominio su di noi che invece con più sicuro equilibrio marciamo su quattro gambe?». Il gatto, comunque, non è un ingenuo, e sa perfettamente come gli esseri umani abbiano giustificato la loro superiorità a dispetto delle loro membra relativamente deboli. «Ma io lo so bene», continua infatti Murr, «gli uomini suppongono sia di grande importanza quel qualcosa che dovrebbe risiedere nella loro testa e ch’essi chiamano ragione». Murr, però, resta scettico: «Non riesco a farmi un’idea precisa di quello che essi intendano con ciò», commenta, «ma da quel che posso capire da certi discorsi del mio padrone e protettore, è certo che se per ragione si intende la facoltà di agire coscientemente e di non fare stupidaggini, io non vorrei mai far cambio con un uomo»?.
Murr non dà segni di nutrire molti dubbi sull’esistenza di quel qualcosa «che dovrebbe risiedere» nella testa degli umani, e che essi «chiamano ragione». Sulla base della propria esperienza, egli sembra assolutamente in grado di riconoscere gli indizi rivelatori del suo principale organo, la coscienza. E tuttavia il gatto suggerisce che tale assai lodata facoltà possa
essere meno importante di quanto molti abbiano preteso, e che, in ogni caso, la sua presenza nell’ambito del pensiero e dell’azione umani non sia un fatto di natura, bensì d’abitudine. «Anzitutto credo», spiega il gatto,
«che alla coscienza basti abituarsi» (daft man sich das Bewuftsein nur
angewbbnt). La situazione è ben diversa da ciò che è comune a tutti gli animali, umani e inumani, e che il gatto sperimenta come una gioia in sé: la vita. «Alla vita si viene e per la vita si passa», dichiara Murr, in termini programmatici, «e senza nemmeno sapere come. Per lo meno, a me è succes-
so così, e ho capito pure che nessun uomo sulla terra sa per esperienza il come e il quando della sua nascita; sa solo qualcosa per tradizione, il che lascia sempre molte perplessità»3. Per il gatto parlante, dunque, la coscienza è una cosa di modesto valore, un ente derivato, tutt’al più. Ma è difficile determinare esattamente dove
Murr stesso si collochi rispetto alla facoltà ch’egli ha spesso osservato in coloro che lo circondano. Ritiene la sua presenza fra gli umani qualcosa di utile, ancorché inessenziale? Oppure qualcosa di non necessario? O dele-
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terio? Ci si potrebbe domandare se Murr abbia mai preso in considerazione la possibilità di entrarne in possesso. È certamente plausibile che ai suoi occhi, come a quelli di molti fra i suoi lettori, la coscienza si situi al di là della provincia propria della natura artimale. Tuttavia, si potrebbe anche supporre che il gatto giudichi la facoltà della ragione come accessibile alla razza felina. Forse egli ci assicurerebbe che, se lo desiderassero o fosse loro richiesto, tutti gli animali saprebbero coltivare la coscienza, con efficacia almeno pari a quella mostrata dagli esseri umani. In materia, questa sembra ad esempio anche la posizione del personaggio di Kafka, Rotpeter, il quale in Una relazione per un’Accademia spiega dettagliatamente come egli
sa passato, in cattività e grazie all’addestramento, dalla condizione di scimmia a quella di uomo: «E imparai, signori miei. Oh, s'impara quando si deve imparare; s'impara quando si vuol trovare una via d’uscita; s'impara disperatamente» (Und ich lernte, meine Herren. Ach, man lernt, wenn man
muf; man lernt, wenn man einen Ausweg will; man lernt riicksichtslos)4. In ogni caso, il gatto avrebbe probabilmente ritenuto accademico il problema. Il narratore felino creato da Hoffmann non ha mai conosciuto gli stenti patiti in cattività dalla scimmia kafkiana, alla disperata ricerca di una
qualsiasi «via d’uscita», né sembra che il gatto si senta spinto ad acquisire le abitudini dell’animale razionale; né pare abbia tentato di «abituarsi», per
una qualche sua ragione, alla coscienza. Ogni indizio dimostra che Murr è felice di abbandonarsi pienamente alla sensazione di vita, e alla sua «consuetudine dolce». Il gatto stesso, comunque, non rivendica troppi sentimenti, e, forse in
ragione della sua diffidenza nei riguardi della coscienza, rifiuta di paragonarli nel dettaglio a quelli degli esseri umani. Ma le sensazioni di Murr forse hanno a che fare con le percezioni umane ben più di quanto egli esplicitamente ammetta, e non è impossibile che esse gli consentano persino di accedere a quella regione dell’essere più d’una volta ricercata da coloro che marciano «ritti su due piedi». È rimarchevole come le condizioni in cui il gatto sente «nella vita qualcosa di così bello, così magnifico, così sublime»
siano esattamente quelle in base alle quali uno dei suoi più illustri contemporanei, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, definì una volta i princìpi da
cui deve prendere le mosse la filosofia della natura e dello spirito. Quindici anni prima della pubblicazione di Considerazioni filosofiche del gatto Murr, Hegel tentò di descrivere la «semplicità senza divisione» che, soste-
neva, precede ed abilita ogni attività complessa dello «spirito soggettivo». E lo fece illustrando uno stato che egli stesso qualificò come essenzial-
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mente «terrificante» (furchtbar), ma che sembra tuttavia prossimo a quello così gioiosamente accolto dal gatto. Nelle sue lezioni a Jena del 18051806, Hegel spiegava che, in origine, il «puro Sé» non è altro che «una vacua notte», del tutto «in-cosciente, cioè privo di essere, come un ogget-
to presentato alla rappresentazione». E nel suo saggio Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, il giovane filosofo affidava alla medesima immagine il compito di illustrare qualcosa di ancor più fondamentale, che si potrebbe ben considerare il principio dei princìpi. «L’assoluto», scrive Hegel in quel seminale lavoro, «è la notte, e la luce è più gio-
vane della notte [...] il nulla è il primo, dal quale è emerso ogni essere ed ogni molteplicità del finito»!. Le riflessioni del gatto di Hoffmann possono forse apparire più chiare alla luce di questa «vacua notte». Non è difficile vedere come, appollaiato sulle torri e i tetti della sua città, Murr affronti un principio che potrebbe definirsi «assoluto», una forza indistinta ed insuperabile alla quale egli — come ogni altra cosa vivente — si considera affidato «senza aver nemmeno acconsentito a riceverla», e che egli chiama, facendo apparentemente mostra di natveté filosofica, con un nome antico e familiare: «vita». Non che la creatura felina sia giunta a conoscere ciò che Hegel aveva descritto come ex defi
nitione «in-cosciente, cioè privo di essere, come un oggetto presentato alla rappresentazione». Di notte, almeno, Murr non sa niente; nell’apparente assenza di rappresentazione e di cogitazione, la notte oscura del gatto rima-
ne, per definizione, del tutto «in-cosciente». Non è mediante l’organo della ragione — «che dovrebbe risiedere nella [...] testa» degli uomini — che il gatto percepisce «il principio che ci regge», bensì tramite una facoltà irriducibilmente animale, ovvero la sensazione, 0, per usare il termine di Murr, il «sentimento». Sembra che egli non abbia bisogno d’altro: si potrebbe dire
che per il gatto, come per Faust, «il sentire è tutto»7 (Gefàbl ist alles). Perché è percependo che si sente consegnato alla più semplice e alla più universale dimensione di tutte le cose: l’esistenza (Dasern). Chi è il gatto Murr, e come dobbiamo intendere il «sentimento di esistere» col quale egli apre il testamento cui consegna i suoi pensieri e le sue
azioni? Indubbiamente, non è impossibile leggere le «opinioni» del riflessivo felino come espressione di una fantasia decisamente umana, come l’antropomorfica creazione di un’animale serenità, libera dagli strati di coscien-
za e autocoscienza certo fin troppo familiari al colto pubblico del libro di Hoffmann. Ed è proprio questo che Meister Abraham, il benevolo mecenate di Murr, sembra suggerire, con le parole con cui introduce il gatto,
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verso l’inizio del libro. Presentando al suo amico Kreisler «il gatto che ho chiamato Murr», Abraham dichiara senza ambiguità: «È il più riservato, il più cortese, insomma il più divertente animale mai espresso dalla sua
schiatta; gli manca soltanto un’istruziohe superiore» (dem es nur noch an der hohèren Bildung feblt)®. In tal senso, il gatto può essere, piuttosto che un animale di straordinarie capacità, un essere umano privo delle facoltà mentali superiori, Ovvero un animale che, nei termini tecnici giurisprudenziali evocati da Abraham,
non è legalmente soggetto soltanto a se stesso, bomo sui juris?. Ma non è difficile vedere come il gatto di Hoffmann sia soltanto un veicolo per il più avanzato dei personaggi letterari, l’autore, tanto che si potrebbe dire che la
prima sezione delle Considerazioni filosofiche del gatto Murr offra al lettore un ritratto dell’artista da micio. Non soltanto, infatti, vi si dice che Murr è particolarmente suscettibile a «quella dolce réverie, quelle sognanti riflessioni, quegli stati di stuporosità sonnambulica» generalmente considerati tratti distintivi degli attimi in cui si riceve la visita delle «idee di
genio»!°. Quando lo incontriamo per la prima volta, il gatto ha già scritto parecchi libri di diverso genere, i più importanti dei quali egli enumera in ordine di composizione, «affinché il mondo non abbia un giorno a disputarsi», spiega, «sull’ordine cronologico delle mie opere immortali»: un romanzo (Pensiero e presentimento, ossia Gatto e Cane), un trattato poli-
tico (Sulle trappole per topi e il loro influsso sul carattere e la forza d’azione del gatto) e una tragedia (Il re dei topi Kawdallor)"!. Male attività letterarie del gatto non si fermano qui, poiché Murr è anche autore delle pagine che ne registrano le sue numerose «opinioni». A dir la verità, E.T.A. Hoffmann, «editore» delle Considerazioni filosofiche del gatto Murr, nella prefazione al volume informa il lettore del fatto che nel suo
insieme il libro è solo in parte una creazione del suo apparentemente felino protagonista. L’editore ammette che il gatto ha effettivamente scritto le pagine in cui parla a proprio nome. Tuttavia, apprendiamo, Murr non ha nulla a
che fare con le pagine — mescolate a quelle delle memorie — dedicate alla vita del musicista pazzo Kreisler, le cui «eccentriche, strenate e giocose» appari-
zioni nel libro avrebbero ispirato, quasi vent'anni dopo, le fantasie per pianoforte del grande Opus 16 di Schumann, la Kreisleriana!?. «Attente ricer-
che ed indagini» indussero l’editore a concludere che i passaggi sul musicista derivassero da un libro a stampa — presumibilmente custodito nella casa di Murr e del suo padrone — «contenente la biografia del Kapellmeister Kreisler». Scrivendo, l’autore felino talvolta ne aveva forse distrattamente ed
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innocentemente strappato le pagine, «in parte per rimpolpare le sue, in parte per funger da intermezzo»; in seguito, egli deve averle inavvertitamente incluse telisuo manoscritto!3. Con qualche imbarazzo, l’autore riferisce che queste «interpolazioni estranee» (fremde Einschiebsel) vennero notate troppo tardi, nel corso della stampa del volume, per poter esser cancellate. Si poté solo segnalarle nel corpo del testo con abbreviazioni editoriali (PC. per
«Pagine Corrotte», M.C. per «Murr Continua»), in modo che il lettore non le prendesse per qualcosa di diverso da quel che effettivamente erano. (Di qui il titolo completo del lavoro pubblicato, testimonianza della probità del suo editore: Considerazioni filosofiche del gatto Murr, con una frammentaria biografia del Kapellmeister Johannes Kreisler, contenuta in fogli casualmente interpolati). Chi potrebbe dire, comunque, cosa scrisse realmente il gatto? È difficile evitare l’impressione che l’editore possa aver sottovalutato il suo autore, poiché la «biografia» di Kreisler, apparentemente a sé stante, si trasforma in un racconto sul suo buon amico, Meister Abraham, e inevitabilmente finisce anche per aver al proprio centro «il più riservato, il più cortese, insomma il più divertente animale mai espresso dalla sua schiatta». È difficile sottrarsi al sospetto che la duplicità dell’opera conservi qualcosa dell’astuzia felina. Alla fin fine, le opinioni del gatto e il racconto sul musicista potrebbero ben essere due aspetti di un’unica creazione; potrebbero, per così dire, essere due movimenti di una sola Murriana. A un tempo gatto e artista, interpolatore e autore, Murr, chiunque o qualunque cosa fosse, resta il testimone di un’esperienza che quanti marciano 1144,
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Capitolo nono Historia animalium
Ove si leggono una o due note sulla definizione dell’umana natura ani-
male, da Aristotele a Simplicio
La fede nella naturale distinzione dell’uomo fra le creature viventi è una convinzione molto radicata, e le sue origini si possono far risalire, senza grosse difficoltà, all’inizio della riflessione scientifica e filosofica nel mondo classico. Tuttavia, l’idea che l’uomo non sia un animale diverso dagli altri è almeno altrettanto antica, e potrebbe persino esser più vetusta. Basti ricordare il
contesto in cui Aristotele propose la sua celebre definizione dell’uomo come «animale razionale» (0, più precisamente, «il vivente che ha la favella», z00n logon echon, che, nel passaggio dalla terminologia filosofica greca a quella latina, assunse in seguito la sua forma classica nell'espressione animal rationale). Con il tempo, questo detto giunse a diventar canonico, ed oggi la forza complessiva della sua influenza sulla storia delle ricerche in merito alla natura della vita animale può sembrare quasi incalcolabile. Quando Aristotele formulò
la sua tesi, comunque, indubbiamente egli entrò in aperto contrasto con le opinioni avanzate da un gran numero dei suoi predecessori presocratici, che non accettavano questa divisione fra l’uomo e gli altri animali. Se vogliamo prestar fede ai sunti che delle loro idee ci offrono la Metafisica e il De anima, non solo Omero, ma anche Empedocle, Parmenide e Democrito non offrivano alcuna
descrizione sistematica delle differenti capacità possedute dagli esseri viventi. Quando si giungeva a discutere delle varie facoltà dell’anima animale, i primi pensatori non distinguevano perciò con chiarezza tra sensazione e percezione (aisthesis) da una parte, e ragione ed intelligenza (ros et phronesis)!. Aristotele racconta come Anassagora, in particolare, insegnasse che l’intelletto (nous) è la causa dell’ordine e del bene, e che inoltre esso è identico all’anima (psyché). Tutti gli animali, poteva allora sostenere il pensatore presocratico, possiedono la medesima facoltà intellettiva (phronesis). Naturalmente, Anassagora, come pure gli altri dopo di lui, ben sapeva che le forme di tale capacità
possono essere diversificate, fra gli esseri viventi; commentando criticamente le sue tesi, Aristotele ammetteva che il suo predecessore non avrebbe mai
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negato che la facoltà del pensiero non si potesse attribuire «allo stesso modo» (bomoiòs) a tutti i viventi. Con tutta probabilità, Anassagora aveva semplicemente asserito che tali differenze non erano relative ad una diversa natura, ma ad un diverso grado. Come scrisse Aristotele, la capacità stessa poteva in ogni caso essere unica, comune a tutti gli animali, «grandi e piccoli, superiori e interiori» (kai megalois kai mikrois, kai timiois kai atimoterois)?. Stabilendo un preciso confine tra esseri umani e inumani, la classica definizione dell’uomo come «animale razionale» chiaramente mirava, fra le altre cose, a far svanire questa dimensione indifferenziata dell’intera vita animale. Ha forse raggiunto perfettamente il suo scopo. La verità è però che, nella storia del pensiero, l’ipotesi di una distinzione tra uomo ed animale è stata seguita, e non solo preceduta, dalla sua assenza; e, anche quando la natura umana e quella animale sono state più nettamente distinte, è sempre ricomparsa una regione entro la quale esse non potevano dirsi separate. La ragione di questo fatto è cogente, e la si può individuare nell’operazione logica che sta alla base della definizione di ciò che si potrebbe chiamare — con un’espressione un po? farraginosa — «natura animale umana». Poiché, fra le altre cose, l’uomo stesso è un animale, il procedimento che consente di determinare la sua appropriata qualità deve separare l’uomo non soltanto dagli altri esseri viventi, ma anche da se stesso. Anche mentre lo allontana dagli animali che lo circondano, l’atto di definizione deve in altre parole distinguerlo dal non-uomo che è dentro di lui, separando in lui l’elemento che partecipa dell’umana natura dall'elemento che condivide una natura comune a tutti gli animali3. Sì consideri ad esempio la definizione dell’uomo come «animale razionale». Da quell’essere vivente, senziente e parlante che è l’uomo si astrae una qualità che può appropriatamente esser chiamata «umana»: il possesso della
ragione (comunque si possa poi detinire tale facoltà). Per quanto possa sembrar conclusiva, quest’operazione produce invariabilmente un resto, che non può essere esclusivamente attribuito né agli esseri umani né agli esseri inu-
mani. Si tratta, molto semplicemente, di quanto rimane negli esseri umani una volta che se ne sia estratto quanto è specificamente umano: per esempio tutto ciò che resta nell’uomo dopo la (o prima della) vita razionale, tutto ciò che in lui sipotrebbe asserire non debba la propria esistenza all’attività del pen-
siero. E un elemento che persiste nella natura umana, senza del tutto coincidere con essa. Non si può affermare, per definizione, ch’esso sia — a rigor di
termini — umano, giacché è distinto dall’attività che viene ritenuta appropriata all’umano. Tuttavia, nella misura in cui è possibile rilevarlo negli esseri umani, non è nemmeno esatto chiamarlo inumano. Lo si può solo definire come
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l’aspetto inumano dell’umanità, 0, viceversa, l’aspetto umano dell’inumanità, ma tali appellativi sono inutilmente complicati, e occultano un fatto ben più elementare. L’«elemento restante» testimonia di una dimensione dell’essere vivente in cui la distinzione tra umano e inumano non ha semplicemente pertinenza: una regione comune, per definizione, all’intera vita animale. Nella lingua della filosofia classica, il nome di questa regione condivisa è «sensazione» (aisthesis). Si può in larga parte interpretare lo sviluppo della teoria dell’anima — dai Presocratici a Platone, fino ad Aristotele — come la storia della concezione della aisthesis. I primi pensatori greci facevano uso di una terminologia differente, ma dai resoconti contenuti in fonti posteriori, sembra che molti di loro convenissero sulla necessità di ascrivere una singola facoltà a tutti gli animali. Per alcuni, si trattava dell’intelligenza. Aezio riferisce che Parmenide, Empedocle e Democrito credevano tutti che il principio
del «pensiero» (r04s) fosse indistinguibile da quello dell’anima (psyché), e dunque attribuivano una capacità intellettiva a tutti gli esseri animati4. Dio-
gene Laerzio attribuisce una dottrina analoga a Diogene di Apollonia: questi sosteneva che ogni animale, per il fatto stesso di essere vivo, è dotato di pensiero, oltre che di sensazione!. Ci sono tracce di questa posizione anche nei
dialoghi platonici. In un passaggio delle Leggi, ad esempio, si suggerisce che la sussistenza di tutti i viventi sia congiuntamente garantita dall’intellezione
(nous) e dalla percezione (aisthesis)S; altre opere, come il Timeo, la Repubblica e il Politico vedono Socrate ed i suoi interlocutori discutere sulla possibilità che gli animali possano esser non meno razionali degli uomini (un famoso caso è il cane di cui si narra nella Repubblica, le cui capacità di riconoscimen-
to si dice ne facciano un «amico dell’apprendere»7 di natura prossima a quella che caratterizza il filosofo). Nel Teeteto, comunque, Socrate sembra fare
un ulteriore passo avanti. Analizzando le rispettive capacità degli uomini (antbropoi) e delle bestie (theria), egli sostiene che «vi sono sensazioni che uomini e bestie hanno [aisthanesthai] da natura subito appena nati, e sono tut-
te quelle affezioni [pathemata] che giungono fino all’anima, attraverso il corpo; ma quel che l’anima, riflettendoci su, riesce a scoprire intorno a codeste affezioni [analogismata], relativamente all’essere loro e alla loro utilità, tutto
ciò a gran stento si raggiunge, e col tempo e dopo molta esperienza e istruzione, da quei pochi che pur lo raggiungono»?. Molti studiosi hanno interpretato quest’affermazione come un anticipo della decisione filosofica che presto Aristotele avrebbe preso a propo-
sito degli esseri viventi: attribuire agli animali la sensazione (aisthesis), negando però loro la ragione (logos), il raziocinio (logismos), il pensiero
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(dianoia), l’intelletto (2045) e l'opinione (doxa)!°. Questa tesi ebbe immense conseguenze, tanto che lo Stagirita, in alcuni passi, dava quasi l’impres-
sione di ritrarsi di fronte alle limitazioni che quella imponeva. Sebbene esempi d’apparente esitazione siano stati rilevati nell’ Etica Nicomachea, è nelle opere zoologiche che si leggono i casi più noti!!. Non a caso in quel monumento del vegetarianismo antico che è il breve trattato De abstinen-
tia ab esu animalium [Sull’astinenza dal cibo animale], Porfirio poté trarre numerosi esempi dall’aristotelica Historia animalium, anche se il discepolo di Plotino aveva a lungo polemizzato contro le dominanti dottrine della scuola peripatetica. Apparentemente, Aristotele stesso, nei Libri vII e vii della Historia, aveva fornito numerose illustrazioni di ciò ch’egli considerava il coraggio, il buon umore, l’abilità tecnica, e persino l’intelligen-
za (phronesis) degli animali!*. Basti ricordare le analisi ch’egli dedica alla costruzione del nido da parte della rondine, al fatto che la gru voli ad alta quota per ottenere un’esatta e comprensiva panoramica della regione sottostante, all’ingegnosità con cui il cuculo provvede ai suoi piccoli, lucidamente consapevole di una deplorevole ma inevitabile circostanza: esso è un codardo, e non può sperar di assicurare alla sua prole un durevole rifugio!3. Considerati isolatamente, tali esempi possono determinare un fraintendimento. Essi vanno infatti intesi, come ha scritto Richard Sorabji, «nel contesto delle programmatiche precisazioni con cui si aprono questi libri [...] punteggiati da ulteriori avvertimenti: è solo apparentemente (hosper
analogisamenoi) che i delfini calcolano la profondità del respiro che è loro necessario prendere prima di immergersi»'4. Tutte le volte che, nelle sue opere strettamente filosofiche, Aristotele prende in esame la questione delle capacità relative degli animali umani ed inumani, le sue conclusioni lasciano ben poco spazio al dubbio. Una scala naturae, egli insegna, unisce tutte le cose animate in un singolo contunuum di crescente differenziazione e di progressiva complessità, ed in esso ciascuna facoltà più elevata contiene, come sue prime condizioni, quelle ad essa inferiori. La scala ini-
zia con la facoltà unicamente nutritiva delle piante (threptikon), e culmina con la facoltà contemplativa (theoretike dynamis) dell’uomo. Quest'ultima, commenta il filosofo in un celebre passo del De anima, è una capacità
tanto diversa che sembra appartenere a «un genere diverso di anima, separabile, come l’eterno dal corruttibile»!5. Fra i due estremi del nutrimento e del pensiero sta il dominio comune della vita animale: la percezione. A volte, Aristotele la descrive come se consistesse di parecchie facoltà, che
comprendono l’immaginazione (phantasia), la tendenza (orexis), il dolore
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(lype), il piacere (bedone), il desiderio (epitbymia) e la sensazione (aisthesis)!6. Altre volte, propone un’analisi più economica, e suggerisce che tut-
te queste attività possano essere sussunte sotto le facoltà gemelle appetitiva e sensitiva'!7. Infine, in passi di estrema concisione, egli può ridurle tutte alla facoltà primaria, la cui sola presenza basta a distinguere gli animali dalle piante: «La vita [...] appartiene ai viventi in virtù [del] principio [nutritivo], mentre l’animale è tale principalmente per la sensazione. E infatti
degli esseri che non si muovono né cambiano luogo, ma che possiedono la sensazione, noi diciamo che sono animali, e non soltanto che vivono»!8. L’affermazione potrebbe sembrare rigorosa, ma la restrizione della vita animale alla sfera della sensazione significa ben poco, visto che gli esatti contorni della aisthesis aristotelica non vengono ben precisati. La facoltà, nella sua accezione antica, non va confusa con la passiva ricezione dei dati sensoriali, che molti moderni pensatori avrebbero in seguito scambiato con l'omonima capacità. Un’anima percipiente, come la intendeva Aristotele, è in grado di apprendere non soltanto le qualità percettive dei cinque sensi, ma anche le proprietà comuni sensibili quali la forma e il numero, che sono legate — in quanto modificazioni del movimento — alla percezione del tempo. Per lui, inoltre, l’attività sensitiva è per definizione anche un’atti-
vità di giudizio: essa «discerne» (krinein) ciascuna qualità sensibile nell’ambito del proprio spettro, e discrimina tra qualità sensibili di tipo differente, distinguendo ad esempio le proprietà della vista da quelle del gusto. Un'ulteriore circostanza avvicina sorprendentemente i senzienti animali
del sistema peripatetico agli esseri autocoscienti del pensiero moderno. Poiché ogni senso, nella dottrina peripatetica, è «in sé» ricettivo non soltanto della qualità sensibile, bensì anche della propria apprensione di que-
sta, se ne deve concludere che gli animali, nel percepire (aisthanesthai), «congiuntamente percepiscano» (syraisthanesthai) di percepire: gli animali, per definizione, sentono di sentire (e sentono anche di non sentire). Su tale questione, a dire il vero, l’autore del De anima era laconico. Il trattato sull’anima non specifica la natura del «noi» ch’è soggetto di «percepiamo di vedere e di udire». Resta dunque inevitabilmente una doman-
da: cosa indica il «noi»? Noi animali come gli altri? O diversi? Aristotele non afferma espressamente che la percezione dell’atto di percezione deb-
ba essere attribuita a tutti gli esseri viventi senzienti. Non lo nega mai, però, e in nessun luogo suggerisce — se non per mezzo dell’evocazione di questo «noi» senziente — che la distinzione fra l’uomo e gli altri animali
debba garantire una qualche rilevanza a questo punto. In linea di princi-
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pio, non si può escludere una lacuna nell’argomentazione, e tuttavia è difficile immaginare perché, nella parte conclusiva della sua analisi del principio per cui «noi diciamo che [gli animali] sono animali, e non soltanto che vivono», il filosofo si sia improvvisamente limitato, senza commentare il fatto, allo studio dell’animale bipede, con esclusione di tutti gli altri. La tradizione del commentario classico induce a credere che, per un motivo o per l’altro, Aristotele e i suoi primi esegeti non abbiano approfondito la questione. Significativamente, è solo nelle ultime esposizioni antiche del De anima che cominciano ad apparire discussioni sulla questione se la percezione della percezione costituisca una facoltà propria dell’anima uma-
na o, invece, della semplice anima animale. Questi dibattiti devono essere intesi come segnali della crescente influenza esercitata dalla dottrina neoplatonica sull’interpretazione di Aristotele. Plotino aveva compiuto una distin-
zione formale tra sensazione (aisthesis), come relazione ad un’esteriorità, e «consapevolezza» (letteralmente, «sensazione congiunta», syraisthesis), come relazione interna dell’essere senziente con se stesso. Nella rv Enneade egli aveva perciò scritto: «Abbiamo la coscienza di noi stessi, ma non la per-
cezione, relativa sempre a qualcosa di diverso» (bemeis hemon synaisthanometha doteon, aisthesin de aci heterou ousan ov deteon)!9. Indicazioni di tale insegnamento sono chiaramente individuabili nell'esposizione del De ani ma tradizionalmente attribuita al neoplatonico cristiano del vi secolo Filopono, ma forse opera di Stefano, un docente di Alessandria e di Bisanzio, d’epoca successiva. Prendendo in esame il problema del senso per mezzo del quale «percepiamo di vedere e di udire», questo commentatore contesta le posizioni del filosofo, come pure quelle del suo commentatore di Afrodisia, e si premura di spiegare che sarebbe un errore attribuire all’anima irrazionale la percezione della percezione.
In sé, questa tesi non era un’assoluta novità, in quel tempo. Come lo stesso commentatore fa osservare, Plutarco d’Atene, maestro — al principio del v secolo — di Siriano e di Proclo, aveva già sostenuto che «conoscere le attività dei sensi è la funzione dell’anima razionale»?9. Nel suo commentario, comun-
que, Filopono (o lo Pseudo-Filopono) prende le distanze anche da Plutarco,
il quale aveva concluso che la percezione della percezione era in realtà opera dell’«opinione» (dox4)?!. «I chiosatori più recenti», scrive il brillante esegeta,
«non tremano al cospetto del cipiglio di Alessandro, né prestano ascolto a Plutarco, ma, mettendo da parte lo stesso Aristotele, hanno escogitato una
nuova interpretazione: sostengono che pertenga alla parte riflessiva (tou prosektikou merous) dell’anima razionale cogliere le attività dei sensi»?2, Anche
HISTORIA
ANIMALIUM
Te)
commentatori successivi poterono «metter da parte» l'insegnamento del trattato aristotelico, pur non evocando tale netta terminologia. Apparentemente, però, fecero coscientemente questa scelta, sicché, quando insistevano sulla necessità di limitare agli esseri umani la percezione della percezione, spesso la rimarcavano lasciando ben intendere, sebbene con delicatezza, com’essi sapessero che il loro punto di vista non era condiviso dai primi aristotelici. Simplicio, che apparteneva all’ultima generazione dei commentatori antichi,
nella sua esposizione del De anima, spiegava dunque che «il fatto di percepire che percepiamo mi sembra [moi dokei] proprio soltanto dell’uomo»?3. Tuttavia, come ha osservato Ilsetraut Hadot, l’intrusione del pronome di prima persona nella voce — altrimenti neutrale — dell’esegesi, è significativa in sé. Fa capire che, su questa materia, «Simplicio qui parla solo a titolo personale»?4. La storia della ricezione classica del De anima dimostra come, a partire dalla Tarda Antichità, molti desiderassero attribuire alla ragione degli uomini una facoltà che Aristotele e i suoi primi discepoli avevano assegnato ai poteri percettivi della natura animale, senza distinzioni. Almeno su questo punto, la posterità non seguì Aristotele e Alessandro, ma Filopono e Simpli-
cio, e noi non siamo che i successori di quei successori della prima età cristiana. Il principio che così inequivocabilmente era stato fissato dal primo commentatore, e che suona «tutto ciò che avverte sensazioni [...] ha anche una congiunta percezione del proprio percepire»?5, oggi vanta ben pochi segua-
ci. Molto più familiare è la posizione, espressa per la prima volta — in certo qual modo, con timore — dal pensatore del vi secolo, con la quale si attribui-
sce soltanto agli esseri umani il sentimento di sentire. Questa circostanza concerne la vita postuma della nozione creata da Aristotele e dai suoi discepoli, ma ci rivela molto di più. Essa testimonia di una trasformazione del concet-
to di natura animale che non è meno decisiva per essersi sviluppata nel corso dei secoli, e in fasi difficili da datare con assoluta precisione. La percezione della percezione fu forse la più brillante tra le facoltà sensitive individuate dai filosofi classici, e consegnate, col declino dell’ Antichità, alle mutevoli successive vicende delle relazioni fra gli esseri umani. Non fu la sola: altre capacità
svolsero un loro ruolo, nella transizione che col tempo condusse il possessore della ragione ad avocare a sé gli elementi di una natura che precedentemente era stata concepita come condivisa. E come fu possibile separare in più d’un modo l’animale pensante dagli animali che lo circondavano, così fu in più d’una singola regione che la sua mera vita senziente poté ricongiungersi alla storia condivisa da tutti gli animali, «grandi e piccoli, superiori e inferiori».
Capitolo decimo Appropriatezza
Un lungo capitolo, contenente un’importante nozione, nonché gli insegnamenti di Crisippo in merito ad una piccola cozza, e a un ancor più
piccolo granchio
«Senza Crisippo», molti solevano dire nell’Antichità, «non sarebbe esistita la Stoa»!. Si può certamente ritenere giusto questo detto classico. Ufficialmente, come è noto, il pensatore del 11 secolo a.C. non fu il fondatore della scuola filosofica che, così chiamata dal termine greco indicante il suo
caratteristico portico, fu in seguito conosciuta come Stoa. Tale onore fu assegnato a Zenone di Cizio, che fu il maestro del maestro di Crisippo, Cleante. Ma fu riferendosi al terzo fondatore dello stoicismo classico che
«1 più» si dice credessero che, «se gli dèi avessero avuto bisogno della dialettica, non altra dialettica che quella di Crisippo avrebbero adottata»?. Si potrebbe dire che fu lui a definire più precisamente i tre rami del sistema stoico: logica, fisica ed etica. Stando a tutti i resoconti, egli fu anche il più prolifico fra gli antichi pensatori. Nel capitolo delle Vite dei filosofi dedicato a Crisippo, Diogene Laerzio osserva che il terzo grande stoico fu «laborioso quant’altri mai, come risulta dall’elenco dei suoi scritti: questi infatti superano il numero di settecentocinque»?. È dunque una deplore-
vole circostanza della tradizione classica che non ne sia sopravvissuto nemmeno uno. Per sapere qualcosa sul loro contenuto, non resta dunque che rivolgersi a quei più tardi autori greci e latini che, per ragioni più o meno polemiche, scelsero di citarli, o di parafrasarne delle parti. A quanto pare, il filosofo stoico era affascinato dai molluschi e dai cro-
stacei, e in particolare da due poco noti generi di questi phyla, la pinna (pinne) e il pinnotere (pinnoteres o pinnophylax). Secondo Plutarco, questi due animali hanno «prosciugato la maggior parte dell’inchiostro di Crisippo»; con più d’un tocco d’acrimonia, e probabilmente con una buona dose di esagerazione, osserva inoltre che lo stoico aveva chiaramente deci-
so di riservar loro «un posto di rilievo in ogni suo libro, sia di fisica che di etica»4. Si dovrebbe però precisare che Crisippo non fu il primo a menzionare le due piccole creature. Prima di lui, Aristotele aveva, sia pur di
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passaggio, parlato di entrambi i generi nella classica trattazione dei frutti di mare nel Libro v della Historia animaliumS. Per un motivo o per l’altro, comunque, ai posteri sono piaciuti più i molluschi stoici che quelli peripatetici. Col tempo, Cicerone, Filone e Ateneo — oltre a Plutarco — giunsero tutti, in diversi contesti, a discutere il racconto di Crisippo sui
due animali. Esistono tuttavia indicazioni che spingono a pensare che, nell’Antichità, la pinna e il pinnotere non fossero esattamente familiari per i non addetti ai lavori, visto che parecchi degli autori classici che si trovarono a parlarne si assunsero il considerevole onere di spiegare — non foss’altro che ai loro lettori non specializzati — cosa precisamente fossero quelle due bestiole. I moderni studiosi del pensiero classico possono rivolgersi, per avere chiarimenti in materia, ad un’autorevole guida all’antica fauna marina, A Glossary of Greek Fishes, pubblicato nel 1947 da D’Arcy Wentworth Thompson. L’indispensabile compendio contiene un’ampia voce sulla pinna, accompagnata da un’illustrazione zoologica, e descrive il mollusco come «un frutto di mare bivalve, comune nel Mediterraneo, ma raro a latitudini settentrionali quali quella britannica». «Com'è noto, l’animale», apprendiamo, «produce un dyssus, ovvero un ciuffo di fibre setose, simile a quello della comune cozza, ma molto più lungo e fitto. Si tratta del pinninothrix mallos di cui parla Costantino vi Profirogenito nel De thematibus (1, 12); è la lana penna, o lana pesce, dei pescatori dell’Italia meridionale. Veniva filato e tessuto per produrre una costosa stoffa simile alla seta: quest'attività prospera ancora, a Taranto e a Cagliari. Dopo una breve
panoramica dei diversi prodotti tessili che potevano (e possono) esser ricavati dal byssus, nella pagina seguente, l’autore torna a parlare dell’animale, come pure della sua famosa sentinella: «La pinna si sviluppa verticalmente sul fango, ancorata dal suo byss4s, ed è anche conosciuta per il piccolo granchio che funge da suo guardiano, cioèil pinnoteres o pinnophylax. Più
avanti, il Glossary dedica una voce apposita alle due creature, in cui si dice che esse sono soltanto il duplice nome di un unico animale: «il cosiddetto “custode della pinna”, un piccolo granchio che vive nella conchiglia della pinna, e funge da guardiano»”. Le antiche fonti sono meno dettagliate, ma, se si trascurano alcune differenze terminologiche e tassonomiche, sono ampiamente convergenti. Il Libro
i dei Deipnosophistai contiene la più accurata analisi della teoria stoica in merito alla pinna e al suo custode. Crisippo di Soli, spiega Ateneo, afferma:
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La pinna [pinne] e il pinnotere [pinnoteres] collaborano fra loro, e da soli non possono sopravvivere. La pinna è una conchiglia [ostreon estin]), il pinnotere un piccolo granchio [Rarkinos mikros]. La pinna aprendo le sue valve se ne sta immobile ospitando i pesciolini che vi fanno ingresso. Ad un certo punto, però, il pinnotere, quando entra
qualche pesce, glielo segnala con un morso, e questa per tutta risposta si chiude. In tal modo [la pinna e il pinnotere] possono cibarsi insieme della preda”.
Questo insegnamento si può dire converga con le descrizioni offerte da Cicerone e da Plutarco (anche se questi aggiunge che la sentinella è collocata non all’interno, bensì all’esterno della pinna: «ponendosi dinnanzi, monta la guardia a questa ‘conchiglia»*. La fine della collaborazione è in ogni caso la medesima, e, almeno per la pinna e il pinnotere, si tratta di una fine innegabilmente felice. «Così due animaletti diversissimi cercano il cibo
in comune» (szc dissimillimis bestiolis communiter cibus quaeritur), osserva Cicerone, e, nei termini — in qualche modo meno pacifici — ammessi da Plutarco, «e così mangiano la preda che è rimasta intrappolata»9. La storia di questa conchiglia era davvero interessante, e, come gli antichi vedevano chiaramente, sollevava domande alle quali non era facile tro-
vare una risposta. Convinto di ciò che altrove aveva definito «le contraddizioni degli Stoici», Plutarco, ad esempio, non riusciva ad accettarla. Nel
suo ampio dialogo sull’intelligenza degli animali, noto alla tradizione latina come De sollertia animalium, egli naturalmente non trascurava di menzionare la dottrina stoica, ma non lasciava dubbi sul fatto che la distinzione accordata a queste due creature marine su tutte le altre non aveva solide
basi scientifiche. È difficile non cogliere la voce dell’autore nelle parole di Fedimo, l’eloquente personaggio che nel dialogo svolge il ruolo di portavoce del pesce: «Crisippo non deve avere di certo conosciuto il “custode della spugna” [spongoteran]», spiega seccamente, «perché altrimenti non l’avrebbe tralasciato»!°. Cicerone, invece, che pure sembra aver accettato
l’analisi stoica, la giudica in sé ancora incompleta. Un’altra rilevante questione rimaneva insoluta. Infatti — si domandava —, come avvenne che l’im-
probabile coppia potesse giungere ad incontrarsi? «In questo fenomeno c’è da chiedersi se [queste bestiole] si siano unite per un patto reciproco o se sia stata la natura a unirle fin dalla nascita»!!.
C'era anche una questione di principio, che coinvolgeva la famosa descrizione crisippea delle due creature complici nella loro caccia al pesce. Come si potrebbe spiegare, nella terminologia della scuola stoica, l'apparente intelligenza dei due animali, e la loro socialità? Come A.A. Long ha fatto osserva-
re, «nessuno più degli Stoici ha sottolineato più energicamente che la razio-
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nalità è #/ fattore determinante della vita umana, quello che distingue nettamente gli uomini da tutti gli altri animali»!?. I pensatori della Stoa ritenevano che gli dèi e gli esseri umani fossero per natura logoi. Tutte le altre cose, inanimate come animate, erano per loro irreparabilmente 4/oga, deprivati del divino elemento della parola, presente nelle più elevate opere dell’uomo. «Il modo in cui posso esserti più utile», scrive Seneca, illustrando a Lucilio le dottrine della sua scuola, «è mostrandoti il tuo bene, separandoti dalle mute bestie e mettendoti affianco a dio»!3. Cicerone sosteneva il medesimo principio, quando aveva affermato che «in qualsiasi investigazione sul dovere, si deve tenere presente quanto la natura dell’uomo sia superiore a quella degli animali domestici e di tutte le altre bestie»!4. Mentre nei dialoghi platonici si esprimono molte diverse opinioni in merito all’intelligenza animale, e laddove il corpus aristotelico, nel suo insieme, sembra fornire più di un resoconto tale da suggerire la presenza di pensiero e di astuzia fra i viventi, per gli Stoici non può esservi dubbio alcuno: relativamente alla ragione, essi sostengono che un abisso divida gli animali parlanti da tutti quelli che li circondano!!. Crisippo e la sua scuola attribuivano costantemente due sole facoltà agli ani-
mali inumani: l’impulso (borme) e la sensazione (aisthesis, 0, in taluni casi, ciò che per loro era una sua varietà minore, la phantasia, una facoltà di «rappre-
sentazione» priva della funzione di assenso [synkatatbesis, adsensio] ch’essi credevano caratterizzasse la sensazione, o percezione, intesa nel pieno senso
della parola)!£. Anche perché negavano, con una decisione senza precedenti, che gli animali disponessero di ragione, gli Stoici attribuivano alla natura animale una capacità che nessuno prima di loro aveva identificato come tale, e i cui limiti — nella vita dei viventi — non possono esser facilmente tracciati: si
tratta di ciò che i filosofi classici della Stoa chiamavano oikeiosis. Questo concetto può annoverarsi fra le più rilevanti ed influenti creazioni della filosofia antica, e nella scuola di Crisippo svolse un ruolo la cui importan-
za è difficile sopravvalutare. Questo fatto non è sfuggito ai moderni storici del pensiero classico. Max Pohlenz ebbe una volta a definire tale nozio-
ne come «il punto di partenza e, per così dire, la solida base dell’etica stoica», e S.G. Pembroke sostenne che la sua importanza era ben più gran-
de di quella di qualsiasi particolare branca dell’antico sistema: «Se non ci fosse stata la oikesosis», scrisse semplicemente ed incisivamente, «non ci sarebbe stata la Stoa»!7. Come ha osservato Gisela Striker, nei lavori
moderni sul pensiero classico, «questo termine di solito non viene tradotto, ma traslitterato; non perché sia intraducibile, ma perché ogni traduzio-
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ne sembrerebbe intollerabilmente goffa»!*. Grazie a una manciata di studi filologici, comunque, se ne può oggi ricostruire con considerevole precisione la genesi e il significato. Oikeiosis è un sostantivo verbale, strettamente connesso all’aggettivo otketos, che a sua volta deriva dal termine greco per «casa»: 07kos, il medesimo elemento lessicale che ancora sopravvive nella prima parte della parola «economia», e la cui radice indoeuropea è stata a lungo ritenuta alla base tanto del latino vicus, «villaggio», quanto del caratteristico suffisso dei toponimi inglesi, -wsck!9. In lingua greca, l’aggettivo oikeios designava la qualità di ciò che appartiene «al medesimo nucleo familiare», e significava,
per estensione, «ciò che appartiene al (o è membro del) nucleo familiare, o oikia, in questione»?9. Potrebbe essere contrapposto, in questo senso, al vocabolo col quale si indicava comunemente «ciò che appartiene a qualcun altro, o ci è, in senso più ampio, estraneo»: allotrios?!. L'opposizione fra le due espressioni ha giocato un ruolo importante nel pensiero classico gre-
co. Ad esempio, gli studiosi hanno osservato che, nel Libro I della Repubblica (343 c), Trasimaco parla di «bene oiketos» (oikeion agathon), in contrapposizione al «bene allotrios» (allotrion agathon), come del «bene che ci appartiene più intimamente, poiché è radicato nella nostra stessa natura,
ed è così opposto al bene che non lo è»??. L'aggettivo oikezos era strettamente correlato al verbo oikeioun, che si legge già in Erodoto, e si rileva anche in Tucidide, dove si ritiene significasse «rivendicare come proprio”,
ovvero “rivendicare come appartenente a se stessi”»?3. Lo stesso verbo
appare spesso in opere del v e del rv secolo, con un senso chiaramente transitivo. Accompagnato da un complemento (tina oppure ti), indica l’atto con cui «si rivendica la proprietà» e «ci si appropria», se si tratta di cose;
quando invece si tratta di persone, il verbo sta per «guadagnare qualcuno alla propria parte»?4. Tali operazioni hanno poco a che fare con il termine filosofico coniato dai pensatori della Stoa. La loro ozkesosis «non è mai usata nel senso attivo
dell’appropriazione», poiché deriva dalla forma medio-passiva (oiReiousthai) del verbo oikeioò, forma che non regge l’accusativo, ma il dativo o una pro-
posizione (tini oppure pros tina), e che designa il processo mediante il quale una cosa «diviene adatta» a — e «in rapporto» con — un’altra?5. Herwig Gòrgemanns ha richiamato l’attenzione sul fatto che nelle opere stoiche il verbo, nonostante la sua forma passiva, non sia mai accompagnato, come di
consueto, da un complemento d’agente o di causa efficiente (non lo si trova
cioè mai legato alla costruzione bypo tinos, «da chi», o a quella tini, «da
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cosa»)?5. Il motivo di tale circostanza può essere semplicemente enunciato, e tocca l’essenza di questa nozione stoica. In quest’atto col quale si entra «in rapporto», il «qualcuno» o «qualcosa» col quale si diviene familiari ben difficilmente può distinguersi dal soggetto in quanto tale, poiché la oikeiosis della Stoa designa il processo mediante il quale un essere vivente giunge ad essere appropriato alla propria stessa natura. Di qui, la sorprendente forma riflessiva così spesso usata dagli Stoici: oikeiousthai pros heauton. L'espressione è stata tradotta in molti modi, fra cui le più comuni sono «esser ben ordinato verso se stessi», e la sentimentale, ma grammaticalmente corretta, «diventar cari a se stessi»?7. Il senso letterale dell’espressione è molto chiaro, anche se è difficile renderlo con eleganza. La formula stoica designa il movimento mediante il quale «si entra in rapporto con se stessi», cioè il processo tramite il quale un essere vivente giunge ad essere appropriato a se stesso. Così intesa, quest’espressione appartiene all’insieme di quelle forme grammaticali che seguirono la
scia del precetto delfico «conosci te stesso» (gnothi seazton), fiorendo nel periodo greco classico: da quella di Antifonte, «dominare se stessi» (bau-
ton kratein), a quelle di Senofonte, «prendersi cura di sé» (epimeleisthai hauton) e «schiavizzare se stessi» (andrapodizesthai beauton), da quella di Democrito, «vergognarsi di se stessi» (beauton aischynesthai, oppure aideisthai), a quella di Gorgia, «tradire se stessi» (prodidonai heauton), fino, e soprattutto, a quella formula sofoclea ed euripidea, «essere amici di se stessi» (beauton philein), che doveva svolgere — nella forma leggermente riveduta di philautia — un ruolo tanto importante nel Libro vini dell’Etica Nicomachea di Aristotele?8. Nel Libro vu delle Vite, analizzando lo Stoicismo, Diogene Laerzio offre la seguente sintesi della teoria della oikeiosis: Essi dicono che il primo impulso dell’essere vivente è quello della conservazione e che gli è stato dispensato dalla natura sin dall’inizio [oikeiouses auto tes physeos ap” arches]. Crisippo infatti nel primo libro Dei fini sostiene che la prima proprietà [proton oîkeion] di ogni essere vivente è la sua stessa costituzione [systasis] e la coscienza di essa [letteralmente, la sua «co-percezione», synaisthesis]}:?. Non si può logicamente ammettere né che la natura renda a se stesso estraneo l’essere vivente [letteralmente, «esproprii», allotriosai] (altrimenti non l'avrebbe creato) né che lo abbia estraneo [allo-
triosai] né che non l’abbia come creatura propria [systesamenéen auto vikeios pros heauto]. Bisogna dunque dire che la natura che l’ha costruito lo concilia a se stesso come creatura propria; per questo respinge da esso ciò che può danneggiarlo ed accoglie tutto quello che si confà alla sua costituzione [ta oikeia]3®.
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Il biografo non lascia qui dubbi quanto all’importante ruolo svolto dall’appropriatezza nella descrizione stoica della natura animale. Per i pensatori della Stoa, la oikeiosis non costituisce nulla di meno che il principio di quel «primo impulso» comune a tutti gli esseri viventi, e senza il quale nessun essere vivente potrebbe durare: l’auto-conservazione. Come Crisippo
dovette spiegare, gli animali tengono lontano da loro «ciò che può danneggiarli», e permettono di avvicinarsi a «tutto quello che si confà alla
[loro] costituzione», perché «sin dall’inizio» (ap’ archés) si trovano assegnati a se stessi, perché sono «conciliati a se stessi», e perché, in un senso
che lo stesso Diogene non precisa, possiedono una «coscienza» (synaisthesis) della loro innata «costituzione» (systasis). Il Libro 11 del De finibus di Cicerone contiene apparentemente uno schizzo della medesima dottrina, trasposto, insieme agli insegnamenti di tutte le scuole antiche, dalla prima lingua della filosofia classica, alla seconda. Catone, portavoce della Stoa nell’opera, spiega: Io.approvo la sentenza di coloro, i quali danno principio a questa disciplina da questo, che è certo il vero fondamentale principio: l’animale, non appena nasce, si concilia con se stesso, affida a sé la conservazione dell’essere suo, alle cose atte a conservarlo si
fa sollecito, e sfugge la sua distruzione, e le cose che la sua distruzione minacciano [simulatque natum sit animal (hinc enim est ordiendum), ipsum sibi conciliari et commendari ad se conservandum et ad suum statum eaque quae conservantia sunt eius status diligenda, alienari autem ab interitu tisque rebus, quae interitum videantur afferre]. E che sia indubitatamente così, lo si prova da ciò, che il nascente fanciullo, prima
d’aver sentito o piacere o dolore, appetisce le cose a sé salutari, e disdegna le contrarie. Il che non farebbe, se dell’essere suo non fosse ansioso, e la distruzione non temesse. Giacché non potrebbe appetire cosa alcuna, ove non avesse senso del suo essere [72557
sensum haberent sui), e di quello e di giovar quello non fosse naturalmente desideroso. Da qui si deve intender dedotta la sentenza che ogni essere animante predilige sé3.
Mentre Diogene aveva parlato di un processo mediante il quale la natura rende tutti gli esseri viventi «conciliati a se stessi», il personaggio cice-
roniano evoca un movimento tramite il quale l’animale «si concilia con se stesso, affida a sé la conservazione dell’essere suo» (ipsum sibi conciliari et commendari ad se conservandum). I termini evidentemente risultano diversi nella traduzione, ma la dottrina rimane unitaria, e perciò qualcuno ha
ipotizzato che la sintesi latina fluisse «dalla medesima fonte dalla quale deriva anche il passo di Diogene Laerzio», cioè, molto probabilmente, «l’o-
pera di Crisippo citata da Diogene»3?. Questi passi costituiscono due inestimabili testimonianze di un principio che notoriamente gli Stoici definirono, per distinguerlo dalle norme tradi-
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zionalmente dette per natura» (kata physin), come «ciò che è primo per natura» (ta prota kata physin): quella fondamentale legge che demanda ad ogni
animale, «sin dall’inizio» (ap? archés) e «non appena nasce» (simulatque natum), di continuare a vivere conservando se stesso33. Il principio si applica tanto agli animali razionali quanto a quelli irrazionali, e secondo gli Stoici la sua forza, che si manifesta più chiaramente nella prima giovinezza, si estende all’intera vita di ogni bestia. I pensatori della Stoa insegnavano che l’essere vivente necessariamente si accosta alle cose che lo circondano come a cose che potrebbero aiutarlo o danneggiarlo, scoprendo il mondo in cui vive grazie al proprio tendere verso quanto potrebbe sostenerlo, ritraendosi al contempo da quanto potrebbe distruggerlo. In altre parole, il suo rapporto con ciò che non è se stesso non può esser separato dal suo rapporto con il principio della propria conservazione; in ogni istante, la sua percezione del mondo che lo circonda resta determinata dalla sua indispensabile «consapevolezza» (synaisthesis, sensus) della propria «costituzione» (systasis, constitutio). Qual è la natura di tale «consapevolezza»? I moderni studiosi hanno raramente esitato nell’identificarla con forme di rappresentazione ed autorappresentazione giunte a definizione solo molto tempo dopo la fine del periodo classico, nel corso di dibattiti che spesso avevano poco o nulla a che fare con qualsiasi natura diversa da quella dell’essere pensante. La parafrasi offerta dalla Striker dell’argomentazione contenuta nel libro vi delle Vite è in questo senso significativa: «Non è ragionevole supporre che la natura, dopo aver creato un animale, non l’abbia dotato di mezzi d’autoconservazione; essa deve dunque averlo reso ben disposto verso se stesso, il che implica che l’animale disponga tanto di una coscienza della propria
costituzione, quanto di un istinto [che gli consenta di distinguere] fra quanto è per lui benefico oppure dannoso»34. Accantonando la questione della pertinenza del concetto di «creazione» per un’analisi del pensiero classico, ci si può ben domandare: è legittimo attribuire agli Stoici la tesi
per cui tutti possiedano una «coscienza», oltre all’istinto? Questo termine moderno, a dire il vero, compare regolarmente nelle traduzioni contemporanee degli autori antichi, sicché l’uso che ne fa la studiosa citata, per quanto discutibile, non può esser certo ritenuto eccezionale35. Taluni vanno perfino oltre: nella classica traduzione del De finibus scritta da Harris Rackham, si può trovare un Catone che spiega, con una straordinaria
espressione, che gli animali non potrebbero evitare quanto è nocivo e ricercare quanto è giovevole unless they possessed self-consciousness [se non possedessero un’autocoscienza]3%.
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È talora difficile comprendere esattamente cosa gli studiosi moderni intendano con i termini «coscienza» e «autocoscienza». Se però intendono una capacità di pensiero o di ragione — come un lettore che abbia familiarità con la terminologia filosofica potrebbe ben dedurre —, certamente, almeno su questo punto, il loro punto di vista differisce in modo fondamentale da quello degli antichi ch’essi ambiscono commentare. Che la stoica oîkesosis sia irriducibile alla ragione, è cosa al di là di ogni dubbio: se così non fosse, infatti, essa non potrebbe esser per definizione comune ad ogni «essere vivente», come 1 pensatori della Stoa — secondo tutte le testimonianze — non cessarono mai di ripetere37. Non ci sono indizi, inoltre, che la si debba intendere come un fatto d’impulso, in qualsiasi senso comune di questo termine. Semmai, l’appropriatezza dell’animale a se stesso si avvicina di più, come ha suggerito Pembroke, al fondamentale «progetto» (epi-
bole) della scuola antica: un «impulso che ne precede un altro» (borméen pro hormes), che precede e condiziona tutti gli specifici atti di autoconservazione38. La questione rimane comunque di modesta importanza, giacché concerne un punto risolto molto tempo fa, ed in termini inequivocabili, dagli Stoici e dai loro primi commentatori. I filosofi dell’ Antichità avevano un
nome per la facoltà mediante la quale tutti gli animali apprendono la propria natura, e questo nome non era «impulso», bensì quello evocato dallo stoico ciceroniano: «non potrebbe appetire cosa alcuna», spiega Catone
parlando dell’animale, «ove non avesse serso del suo essere [rst sensum baberent sui]». In tutta apparenza, l’uso del termine risultava ortodosso tanto al tempo di Cicerone quanto molto dopo. Basti ricordare la detini-
zione plutarchea di oikeiosis come «la sensazione di ciò che è proprio, e la sua percezione» (he gar oikeiosis aisthesis eoike tou viReiou kai antilepsis einai)39, Porfirio sottolineava il medesimo punto quando, nel Libro 11 del De abstinentia, si soffermò a spiegare come il concetto fosse inteso dai «discepoli di Zenone»: «Di ogni appropriazione», scriveva, «è principio la sensazione» (oikeiosis pases... arche to aisthanesthai)t9. La lettera 121 di Seneca a Lucilio presenta di questo punto un’analisi di capitale importanza. «Ci chiedevamo», scrive Seneca riferendosi ad una
discussione protrattasi per qualche tempo, «se tutti gli animali avessero coscienza della loro costituzione» (an esset omnibus animalibus constitutionis suae sensus). La risposta del filosofo a questa domanda è inequivocabilmente affermativa. «Che sia così», spiega Seneca, «lo dimostra il fatto
che i loro movimenti sono appropriati e spediti come se le membra fosse-
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ro esercitate; tutti hanno una grande agilità fisica». Proprio come l’artigiano sa in quale modo usare i suoi strumenti, e il ritrattista sa distinguere fra i colori ch’egli ha disposto di fronte a sé, per cui passa rapidamente e agevolmente, con le mani e con lo sguardo, dalla cera al cavalletto, così ani male eccelle nelle sue arti naturali, e, «con la stessa rapidità», esercita le sue abilità innate4'. Tra gli esseri umani, a dire il vero, tale facilità può esser frutto di allenamento, mentre fra gli animali discende dalla natura. Il principio è però identico: «Nessuno fatica a muovere le membra, nessuno è incerto nell’usare le proprie capacità» (Nemo aegre molitur artus suos, nemo in usu sui haesitat). È sempre così: gli animali vengono al mondo con tutte le loro «cognizioni» (scientia), e invariabilmente, scrive Seneca, «nascono ammaestrati» (instituta nascuntur)t?. Si può tuttavia qui sollevare un’obiezione, e Seneca è pronto a citarla. L’agilità degli esseri viventi potrebbe non esser altro che l’espressione del timo-
re di subire danni: «Gli animali muovono le loro membra nel modo giusto», si potrebbe sostenere, «perché se le muovessero diversamente sentirebbero dolore». Se fosse così, però, sarebbe ben difficile che imovimenti degli animali fossero agili. Imovimenti dettati dalla necessità sono per natura «cauti»
(tarda); solo quelli spontanei sono fluidi. Seneca, comunque, adduce un’ulteriore prova a dimostrazione del fatto che nessun animale agisce esclusivamente per paura del dolore. L'esperienza insegna infatti che gli animali «tendono a movimenti naturali, anche se sono impediti dal dolore»43. Pensiamo ai bambini piccoli sollecitati a stare in piedi: «cade e ogni volta si rialza piangendo finché attraverso la sofferenza arriva a compiere i movimenti natura-
li». Oppure, osserviamo gli animali «dal dorso rigido». Può accadere che una tartaruga si trovi ad essere involontariamente ed infelicemente rovesciata.
Essa farà quasi di tutto — fa notare Seneca — per sfuggire a tale miserabile condizione: si contorcerà, allungherà le zampe fin dove arrivano, si inclinerà, per
quanto possibile, da una parte: proverà qualunque cosa, per rimettersi come deve stare. «La tartaruga», sostiene il filosofo, «non soffre se è supina, tuttavia smania [quieta est] e vuole riprendere la sua posizione naturale, e non smette di tentare e di agitarsi finché non si rimette dritta»44. Il fenomeno, per come lo scrittore latino lo vede, si riassume in un singolo fatto: «Tutti gli animali hanno [...] senso della loro costituzione»4!. Questo era un principio fondamentale del sistema stoico, e, nella sua lettera a Lucilio, Seneca si assicura di non esser frainteso. Egli dunque prende in esame la replica che la sua asserzione determinerebbe. «Costituzione» (constitutio), come i suoi avversari ben sapevano, è un termine tecnico dei
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pensatori della Stoa, ed è cioè l'equivalente latino dell’espressione greca systasis, che nello Stoicismo classico designa «l’elemento fondamentale dell’anima nell’atteggiamento che assume nei confronti del corpo» (principale
animi quodam modo se habens erga corpus)t9. «Come può un neonato», il filosofo immagina quelli replichino, «capire un concetto così complesso e sottile, che voi stessi riuscite a spiegare a stento? Bisognerebbe che tutti gli animali nascessero maestri di dialettica per comprendere questa definizione oscura a gran parte delle persone istruite»47. Seneca ammette che l’obiezione potrebbe essere giusta, se egli avesse davvero sostenuto che bambini
e animali «comprendono [intellegunt] la definizione di costituzione» — ma non l’ha fatto. «Il neonato», spiega dettagliatamente, «non conosce l’essenza della sua costituzione, ma conosce la sua costituzione» (infars ille quid sit constitutio non novit, constitutionem suam novit). Il verbo «conosce» (novit), in questi casi, non deve ingannare: quando è applicato a tutti gli animali, razionali come irrazionali, l’espressione è in realtà un modo sintetico per dire «percepisce». L'animale non sa in cosa consista esser se stesso, ma
la sua ignoranza non pone limiti alla capacità di sensazione: l’animale non sa in cosa consista essere un animale, e tuttavia percepisce se stesso come tale (quid sit animal nescit, animal esse se sentit)à*. Si trattava semplicemente di una riformulazione della classica tesi stoica— antica quanto il perduto trattato crisippeo Dei fini —, la tesi per cui tutti gli esseri viventi divengono appropriati a se stessi per mezzo della sensazione: vale a dire, nelle parole di Seneca, che «l’animale per prima cosa si
adatta a sé» (Primum sibi ipsum conciliatur anima))9. Tale «conciliazione» o «adattamento» di sé a se stessi, come chiarisce Seneca, non ha il rango di un evento; è piuttosto un movimento che deve essere continuamente effettuato nel corso dell’intera vita animale. Si tratta dell’attenzione dimostrata verso se stessi da parte di se stessi, alla cui coltivazione — com'è univeralmente noto — si sarebbero volti anche Epitteto e Marco Aurelio, colleghi
stoici di Seneca, nelle loro esplorazioni della «cura di sé» (beautou epimeleisthai)5°. Seneca, da parte sua, non esita ad evocare questa pratica, in una lettera dedicata alle relazioni di ogni animale — razionale e irrazionale — con se stesso. Né si dimostra riluttante a parlare a nome di tutti gli animali, par-
lando di sé: «Aspiro al piacere», scrive Seneca; «per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Fuggo il dolore; per chi? Per me; quindi mi curo di me stesso. Se faccio tutto questo per curarmi di me stesso, la cura di me stes-
so viene prima di tutto» (Si omnia propter curam mei facio, ante omnia est mei cura)!!.
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INTERNO
La conclusione cui questo ragionamento ineluttabilmente conduce dev'essere ascoltata nella sua piena forza, poiché implica un’evidente con-
seguenza, che però non è sempre stata percepita come tale — senza dubbio perché per natura estranca a molte cose che si presentano in termini di «cultura del sé» —: e cioè che la cura in questione «viene prima» di quella cosa che è il sé. Le affermazioni di Seneca su questo argomento debbono esser prese alla lettera. È di grande significato che il filosofo latino non abbia mai sostenuto in nessun luogo che l’animale semplicemente percepisca se stesso; se l’avesse fatto, se ne sarebbe ben potuto dedurre che la prima fra tutte le cose sensibili fosse il sé. La tesi che egli costantemente avanza è l’unica proposizione che tutte le testimonianze concorrono nell’attribuire a Crisippo: l’essere vivente, egli ripete, percepisce prima di ogni altra cosa la propria «costituzione». Se si adatta a se stesso col prendersi cura di sé, ciò dipende soltanto dalla sua sensazione primaria, che non si riferisce a se stesso ma alla propria natura. La distinzione potrebbe sembrare sottile, ma è in realtà della massima importanza, come ben sapevano i pensatori dell’ Antichità. Un testo d’incerto autore, contenuto nel De anima liber cum mantissa attribuito ad Alessandro di Afrodisia, illustra con la più grande chiarezza questo punto. Il passaggio chiave consiste di due frasi, la prima delle quali attribuisce
una dottrina ad alcuni stoici, ma non a tutti («senza unanimità di consensi»): la convinzione, cioè, che «quel che l’animale sente come più proprio
[to proton oikeion] è nient'altro che se stesso». La seconda frase prosegue: «Altri invece, nella convinzione di dare su ciò una definizione più elegan-
te e anche più precisa, dicono che noi fin dal momento della nascita immediatamente ci appropriamo del nostro essere e di ciò che lo preserva» (pha-
sin pros ten systasin kai teresin cikeiosthai euthys genomenous hemas ten hemon auton)?.
ra
Il contrasto fra le due affermazioni non potrebbe essere più chiaro, fissando la formulazione di alcune imprecisioni contro il principio ripetutamente accolto da Seneca e dai maestri della scuola stoica53. La «definizione più elegante e anche più precisa» ipotizza, nel cuore di ogni essere vivente, una differenza senza la quale questi non potrebbe giungere ad esser se stesso: la differenza fra il sé e la propria costituzione, quella «specificità dell’uomo» cui l’animale, ponendosi in relazione con il mondo che
lo circonda, giunge per natura ad essere appropriato. Non il sé, ma ciò cui il sé percepisce di esser attribuito, e cui deve sempre adattare se stesso, la
«costituzione» è quell’elemento interno all’animale, col quale esso non
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coincide del tutto, e al quale, fin dalla nascita, esso continua a «conciliarsi» e ad «affidarsi». È ciò di cui ogni essere vivente, per essere e preservarsi, deve «aver cura»; ciò che ciascun essere — razionale o no — incessantemente percepisce e mai conosce. Lo si potrebbe individuare nella condizione naturale che la tartaruga rovesciata tenta in tutti i modi di riguadagnare. I suoi nomi sono però numerosi, tanti, almeno, quante sono le creature terrestri e marine. È ciò che, pur essendo interno all’animale, non è l’animale stesso, sicché, non essendo tale, consente ad esso di giunger ad essere «tin dall’inizio». Sentinella-crostacco in continuo movimento fra l’esterno e l’interno della mobile conchiglia del sé, esso è il piccolo granchio che tien d’occhio la conchiglia e che di tanto in tanto la morde leggermente, per avvertire il mollusco che sono arrivati dei pesciolini.
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Capitolo undicesimo Elementi di etica Un trattato dello stoico Ierocle, in cuî'questi cerca di provare al di là di ogni dubbio che «gli animali percepiscono costantemente se stessi»
Verso la fine del 1901, Ludwig Borchardt, archeologo e contrabbandiere, acquistò un papiro al Cairo. Aveva un’altezza di trenta centimetri e,
strettamente arrotolato, poteva misurare tre volte tanto nel senso della lun-
ghezza. Quando lo comprò, dissero a Borchardt che il manoscritto proveniva dai «resti di una vecchia casa di El-Ashmunein», l’antico sito di Hermopolis Magna, la leggendaria capitale dell'Alto Egitto!. Naturalmente, egli non poteva verificare questa informazione, ma ai suoi occhi esperti dovette essere subito evidente che quel sottile volumen era di notevole antichità, qualunque ne fosse la provenienza. Un fatto, poi, era certo: il papiro — marrone, e, «in alcuni punti, marrone scuro» — era interamente coperto di lettere greche, anche se queste non erano tutte egualmente leggibili, e sebbene gli strati esterni del rotolo fossero danneggiati, talora irreparabilmente. Borchardt portò subito con sé l’antico oggetto a Berlino,
dove lo affidò in custodia ai paleografi dei musei di Stato. Non era allora trascorso molto tempo da quando si era iniziato a decifrare e a trascrivere accuratamente i papiri egiziani. Si venne dunque a scoprire che «Pberol inv. 9789», come da allora il rotolo venne chiamato, conteneva non una, ma due opere di grande importanza, vergate in scritture simili e con uguali abbre-
viazioni, sebbene chiaramente redatte da mani diverse. Una volta srotola-
to, in Prussia, il papiro esibì una struttura inequivocabile: si poteva infatti vedere come il testo del recto iniziasse nel punto preciso dove, sull’altro lato, finiva il testo del verso, e terminasse a sua volta, con perfetta simmetria, dove il testo del verso iniziava?.
L’opera trascritta sul recto del papiro rappresenta la terza sezione del commentario di Didimo alle Filippiche di Demostene. Fu pubblicata nel 1904 come primo volume dei Berliner Klassikertexte, i cui tomi continuarono ad uscire fino al 19393. L’edizione dell’opera trascritta sul verso giunse più tardi, forse perché lo studioso cui era stata assegnata, Hans von
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Arnim, stava allora già preparando un lavoro di grandi proporzioni: i tre volumi che costituirono la prima moderna collezione accademica di tutti gli antichi testi riferibili alle dottrine della Stoa, gli Stocorum veterum frag-
menta, pubblicati a Leipzig nel 19034. Quando il verso del papiro finalmente apparve, nel 1906, fu pubblicato come quarto volume dei Berliner Klassikertexte5. Esso rivelò al mondo l’unica opera sopravvissuta di un tardo discepolo di Crisippo, che era stato escluso, a causa del ritardo col quale la sua opera era stata conosciuta e pubblicata, dalla compendiosa collezione di fonti stoiche pubblicate negli anni immediatamente precedenti: uno Terocle che molto probabilmente visse nella seconda metà del 11 secolo d.C., contemporaneo di Epitteto e Marco Aurelio. Von Arnim lo iden-
tificò in quello «Terocle Stoico, uomo di grande virtù e serietà» (Hierocles Stoicus, vir sanctus et gravis) di cui Aulo Gellio dice fosse stato criticato da un platonico del n secolo, Gaio Calveno Tauro®. Altri studiosi hanno appoggiato l’identificazione, sostenendo fosse anche l’omonimo autore dei Philosophoumena menzionati nell’enciclopedia bizantina Sonda, nonché la fonte anonima di quindici frammenti stoici che si trovano in Stobeo7. Il papiro stesso, comunque, non diceva niente sulla vita dell’autore. La chiara scritta corsiva della prima colonna si limita a designarlo come Ierocle, mentre del suo lavoro offre un singolo lapidario titolo: Elementi di etica
(ethik[€] stoicheiosis)®. Sarebbe un errore, comunque, aspettarsi di trovare in quell’antica opera una diffusa descrizione di quel sublime agente morale, l’uomo. Questo
Elementa moralia si apre con un’asserzione che non lascia dubbi sul suo soggetto centrale, che non è un soggetto umano. I termini usati da Terocle sono quelli dei maestri della Stoa, e sono perfettamente individuabili dall’incipit del testo fino al punto, nella nona colonna, in cui il papiro dan-
neggiato diventa prima scuro e poi illeggibile: «Il miglior principio per gli clementi dell’etica», scrive il filosofo, «ritengo sia il discorso intorno a “ciò che è primariamente proprio” dell’animale, to proton oikeion toi z06i]»>9. Con immutata fedeltà agli insegnamenti stoici, egli in seguito definisce
l’«animale», distinguendolo da «non-animale», per il possesso di due facoltà: la «percezione» (aisthesis) e l’«impulso» (bormé). «Di questi», continua Ierocle, «l'impulso non ci è necessario, per il momento, ma un
breve discorso sulla percezione sembra in ogni modo opportuno». Questo perché la aisthesis costituisce l’unica capacità per mezzo della quale l’animale, adattandosi a se stesso, giunga ad essere appropriato alla sua natu-
ra. Un
«discorso
intorno
a “ciò che è primariamente
proprio”
ELEMENTI
DI ETICA
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dell’animale» deve perciò assumere la forma di un «discorso sulla percezione»; secondo Ierocle, un filosofo che desideri offrire una rigorosa espo-
sizione dei princìpi dell’etica non può che partire da una descrizione della natura della percezione animale. La percezione «contribuisce alla conoscenza di “ciò che è primariamente proprio” », scrive Ierocle, «ed è
appunto questo discorso che abbiamo detto costituire il miglior principio per gli elementi di etica»!9. Il lettore però comprende presto che un elementare manuale di etica deve cominciare non tanto dalla percezione, nel significato comune del termine, quanto dall’«auto-percezione», la facoltà in virtà della quale l’animale percepisce ciò che è propriamente suo. Le espressioni che l’antico filosofo usa per designare questa capacità sono parecchie, tante quanti sono i termini stoi-
ci per indicare l’atto percettivo. Esse sono per lo più costruite aggiungendo un pronome riflessivo ai verbi (o ai verbi sostantivati) di sensazione usati dai pensatori della Stoa: heautou aisthanesthai, heautou synaisthesis ed heautou antilepsis sono tutte variazioni di un unico tema!!. Non si può comunque
dubitare del posto centrale che questo fenomeno ha nell’opera: di diverse colonne, parecchie delle quali sono molto difficili da leggere, più di cinque — come ha osservato Brad Inwood - sono dedicate alla percezione che l’animale ha di se stesso!?. Questo dipende da una proposizione centrale, nella filosofia della Stoa, una proposizione mai più pienamente espressa che negli Elementi di Ierocle. Si tratta della tesi per cui la percezione implica l’auto-
percezione, giacché ogni sensazione di oggetti esterni implica per definizione il simultaneo percepire l’animale senziente stesso!3. Terocle presenta questo fatto come universale, tra gli esseri viventi, e
sostiene che la sua necessarietà può essere conclusivamente dimostrata. «Generalmente infatti», egli spiega, «la percezione di una cosa esterna non si compie senza la percezione di sé»!4. Si consideri, ad esempio, la percezione del bianco e del dolce: «Infatti, insieme alla percezione del bianco, per esempio, abbiamo percezione di noi stessi imbiancati, e con quella del dolce, di noi stessi addolciti, e con quella del caldo, di noi stessi scaldati, e analogamente negli altri casi»!/. S.G. Pembroke ha osservato che questo
ragionamento rovescia una classica argomentazione scettica!‘. I filosofi della scuola cirenaica avevano, come è noto, sostenuto che la percezione
delle qualità esterne sensibili non poteva esser considerata una solida prova delle cose esterne stesse. Dalla sensazione del bianco e del dolce, per
esempio, tutto ciò che può evincersi con certezza è che l’essere senziente abbia sperimentato tali sensazioni!7. Non si può asserire che qualcosa sia
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— come avrebbe scritto Montaigne — «percettibile dall’esterno» (par le dehors). L’unica cosa che potrebbe esser percepita sarebbe quella che «ci toccasse per mezzo di un tatto interno» (qui nous touchoit par l’interne attouchement)?*. Ierocle, da parte sua, dimostra uno scarso interesse per il problema epistemologico al quale l’argomentazione scettica intendeva offrire una risposta. Non sembra infatti dubitare che le percezioni indichino qualità corrispondenti, e al di là delle capacità percettive dell’animale senziente. Se ricorda come la sensazione del bianco e del dolce implichi che una facoltà sensitiva sia essa stessa imbiancata e addolcita, Ierocle non lo fa allo scopo di contestare la possibilità della percezione (nel senso comune del termine), come facevano i pensatori cirenaici, bensì per dimostrare che in tutte le sensazioni l’animale percepisce simultaneamente se stesso, sempre, simultaneamente «toccato» — per usare le parole di Montaigne — da ciò che è «percettibile dall’esterno», e «per mezzo di un tatto interno». Di qui il sillogismo con cui Terocle conclude la sua discussione del problema, e che lo stoico, da parte sua, ritiene «bello e inconfutabile» (kalen kai anantilekton): se si ammette che l’animale percepisca qualcosa di esterno a sé fin dal momento della nascita, e se si comprende che «con la percezione di qualcosa d’altro è naturalmente congiunta [sumpephbyken] quella di sé», si deve accettare di conseguenza che «gli animali devono avere percezione di sé sin dall’inizio»!9. Si potrebbe parzialmente accettare questa catena deduttiva, e tuttavia sollevare contro di essa un’obiezione di un certo peso: ci si potrebbe infatti domandare se nella vita degli esseri senzienti non esistano momenti in cui la percezione cessa. Nella quarta e nella quinta colonna dei suoi Elementi, Ierocle analizza diffusamente questo problema. Con la tecnica retorica e logica di chi è stato educato ad esporre argomentazioni, l’autore non cerca di scartare l’idea di una cessazione delle'sepsazioni, ma ne compie un breve esame, per poi rigettarla incontrovertibilmente. Prendendo in considerazione la possibilità che vi sia «un momento in cui l’animale è completamente
privo della percezione di sé», Ierocle ritiene verosimile (pithanos) l’ipotesi che questo momento possa essere il sonno: lo stato del dormiente, dopo tutto, non sembrerebbe altro che la condizione in cui l’animale si ritrae nella più impassibile insensibilità. Ma non è così. «Vediamo tuttavia», afferma Terocle, «che persino allora — in modo non molto facile da seguire per i più — l’animale ha in effetti percezione di sé»?9. Basta uno sguardo a dei corpi dormienti, per provare questo assunto?!. Se, mentre dormiamo d’inverno, una coperta scivola via da parte del nostro
ELEMENTI
DI ETICA
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corpo, «ci tiriamo su le coperte e ripariamo le parti inftreddolite», e lo facciamo anche durante il più profondo dei sonni. Se ci siamo feriti durante la veglia, quando dormiamo evitiamo di sottoporre ad indebite pressioni le aree ferite del nostro corpo, «proprio come se usassimo, per così dire, l’attenzione della veglia». Se abbiamo preso un appuntamento ilogiorno prima, e dobbiamo ala quandoè ancora scuro, «ci svegliamo al giungere dell’ora stabilita». Le predisposizioni degli uomini da svegli, inoltre, sono
chiaramente visibili persino nello stato del dormiente: l’ubriacone dorme con la bottiglia in mano, l’avaro col suo borsellino, ed Eracle, secondo i poeti tragici, «con la sua clava»?*. Tutto ciò è vero non soltanto «per noi», continua Ierocle, ma «anche per gli altri animali»?3. Ma il tempo stringe,
ed il filosoto non offre altri esempi. Quelli menzionati — osserva, esibendo un certo compiacimento per la sua argomentazione — bastano a costituire «una prova molto attendibile del fatto che abbiamo percezione di noi stessi persino nel sonno»?4. Poiché il sonno sarebbe l’unico «momento in cui l’animale è completamente privo della percezione di sé», e visto che il son-
no, come varie circostanze dimostrano, non è questo momento, Terocle ne conclude che non ve ne possa essere alcuno. Come struttura logica, tale prova è inusuale?5, ma la sua funzione in quest'opera stoica è chiara: serve ad illustrare la proposizione fondamentale degli Elementi, che stabilisce
come fin dalla nascita gli esseri viventi percepiscano ininterrottamente se stessi. A tali dimostrazioni formali, Ierocle aggiunge un buon numero di pro-
ve tratte dalla storia naturale degli animali. I suoi esempi suggeriscono ripetutamente, con classica tecnica stoica, che l’auto-percezione costituisce
un’apprensione, più che di un particolare «sé» — psicologico 0 somatico che sia —, di una natura appropriata all’essere vivente, alla quale esso deve incessantemente adattarsi. Le illustrazioni tratte dal mondo animale cominciano
fin dal principio degli Elementi, quando lo stoico si prepara a dimostrare l’errore fondamentale di quanti credono che la facoltà sensitiva sia stata data «per la percezione delle cose esterne e non anche per la percezione di sé»29, «Si deve dunque comprendere», scrive Ierocle, «che, in primo luogo, gli ani-
mali hanno percezione delle loro specifiche parti»?7. Qui il tardo stoico riaffermava un principio che Seneca aveva una volta insegnato a Lucilio: gli animali «devono avere coscienza di quell’elemento attraverso il quale percepiscono anche le altre cose» (Necesse est enim id sentiant per quod alia
quoque sentiunt)?*. Ma Ierocle illustra la sua tesi più a fondo di quanto avesse fatto il suo predecessore latino. Le creature dell’aria, osserva, perce-
IL TATTO
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piscono l’appropriatezza al volo caratteristica delle proprie ali, mentre la creatura terrestre avverte, delle «proprie parti, sia il fatto che le ha, sia per quale uso le ha». Anche in questo, gli esseri umani non costituiscono un’eccezione alla regola degli animali: «noi stessi percepiamo 1 nostri occhi e le nostre orecchie e tutto il resto». Dopo tutto, quando vogliamo vedere, ci volgiamo a ciò che attira la nostra attenzione — come tutti gli altri animali — non con le orecchie, ma con gli occhi. Quando decidiamo di camminare, sentiamo di farlo non con le mani, ma con le gambe, mentre — osserva ancora il filosofo — quando desideriamo prendere o dare, immediatamente percepiamo di doverlo fare con le mani, e non con le gambe??. Come «seconda prova», Ierocle cita la percezione, che ogni animale chiaramente possiede, della forza relativa delle proprie membra, nel combattimento e nella difesa. Von Arnim, che non aveva molta simpatia per l’autore degli Elementi, riteneva che questa fosse una mera specificazione della prima prova addotta dal tardo stoico, e che mirasse a dimostrare che gli animali percepiscono l’appropriatezza delle proprie membra ai compiti ad esse congrui3°. La seconda prova, però, come nota Inwood, «implica una nuova importante circostanza», poiché rende evidente che «tale comportamento presuppone la percezione di altri [individui]», oltre all’auto-percezione3!. Ogni animale, osserva Ierocle, è predisposto verso un certo tipo di arma. Il trattato presenta un’ampia, se non esaustiva, analisi del tema. «Alcuni animali, infatti, sono come fortificati dagli zoccoli, altri dai denti, altri dalle zanne, altri dagli aculei, altri dal veleno ed usano queste armi per difesa nella lotta con altri animali». Si prenda ad esempio il tipo di aspide
che Ierocle e i suoi contemporanei chiamavano ptiade (piuados), un rettile «non indegno di segnalazione». «A tal punto infatti questa bestia supera in pericolosità le altre di uguale nome e specie», commenta Ierocle, «che, senza mordere, lanciando il veleno come uf dardo contro qualunque animale
voglia», «qualora sia irritato contro qualche animale, sputando il veleno anche da lontano, non ha bisogno di dar dentro con un morso»3?. In tutti questi casi, la «sensazione di sé» dello stoico è ben più consistente di un’isolata percezione di se stessi. Nella misura in cui le creature del bestiario ellenistico colgono la propria natura rispetto a quella degli animali che le
circondano, percepiscono se stesse nel percepire nature aliene alla propria, e nell’apprenderle, percepiscono se stesse in rapporto a ciò che non sono.
L’autore degli Elementi fornisce anche un terzo tipo di prova, a dimostrazione della dottrina stoica per cui tutti i viventi percepiscono se stessi. Gli animali per natura avvertono — ci vien detto — ciò rispetto al quale sono deboli:
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DI ETICA TOI
percepiscono le proprie vulnerabilità, poiché altrimenti non riuscirebbero certo a sopravvivere. Il loro comportamento, del resto, non lascia dubbi. Perché il toro, quando è attaccato, si volge con le corna verso chi lo minaccia, se non per difendere il corpo, ch’egli percepisce come altrimenti indifeso? Si consideri la tartaruga: «quando ha percezione di qualche attacco, mette al riparo la testa e le zampe nella sua parte testacea,», che è dura, e quindi «meno attaccabile». Anche la lumaca, osserva Ierocle, «fa più o meno la stessa cosa, allorché ha la percezione di un pericolo». L’orso «sembra non ignorare la vulnerabi-
lità della testa: per cui, percosso da bastoni o da altre cose che possono ferire questa parte, pone sopra di èssa le zampe perché incassino la forza dei colpi». Si prenda invece il rospo: quando viene incalzato al punto di dover saltare attraverso un pozzo, per salvarsi, questo animale percepisce con infallibile precisione quando il salto è troppo grande per lui. «Non è superato nel balzo da nessun altro di quelli delle stesse dimensioni», e nessuno di essi ha una
percezione più accurata dell’estensione di un intervallo spaziale dato. Quando però il rospo «non ha fiducia nella propria capacità di saltare dall’altra parte, si getta sul fondo», ma, prima di saltare, si gonfia, e ritrae zampe e testa, per diminuire il danno ch’essa avverte di dover inevitabilmente subire33. Il cervo potrebbe essere il più sorprendente membro di questo gruppo. A voler credere a Ierocle, esso percepirebbe non soltanto ciò che natural-
mente gli manca, ma anche quanto, nel proprio corpo, ecceda la giusta misura. «Concediamo pure», scrive lo stoico, «che ci sia sproporzione [anisos echein] fra le zampe e le corna»34. «Le corna», osserva Ierocle, «[possono
essere] straordinariamente grandi, e meravigliose a vedersi», mentre le zampe sono scattanti, ma sottili. Il cervo avverte tutto questo e, secondo il filosofo, non cessa di sentirlo. «Esso confida [pisteei] nelle sue zampe, e se deve raggiungere un’elevatissima velocità, o spiccare un grande balzo, non dispe-
ra di loro [apegnoken auton]». Delle [proprie] corna, per contro, l’animale «ha una scarsa opinione [kategnoken]»: sono bizzarramente ampie, e «pro-
prio per questa ragione sono scomode sia per la vita in genere sia soprattutto, quando risulti urgente fuggire». Di qui la pratica che l’animale invariabilmente adotta al fine di moderare la loro voluminosità. «Così, consapevole
della crescita sproporzionata delle corna, [il cervo], quando giunge presso dirupi o qualche roccia sporgente, caricando da lontano, fa sbattere le corna», e, aggiunge il filosofo, «non con forza moderata, ma con tutta la sua
energia, fino a che ha troncato via le parti eccedenti»3!. Gli aspetti fiabeschi di questa dimostrazione sono indubbi, e imoderni studiosi non hanno mancato di rilevarli più di una volta, con diversi gardi di
TO2
IL TATTO
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severità critica35. Commentando specificamente la mancanza di fiducia del cervo nelle sue corna, i più recenti editori degli Elementi hanno osservato che «chiunque leggesse questo passo fuori dal suo contesto, sarebbe indotto a crederlo tratto da una popolaresca collezione di mirabilia, piuttosto che da un trattato di etica»37. Ma il catalogo ierocleo di animali caratterizzati dalla percezione delle proprie debolezze ha una collocazione adeguata, poiché è profondamente filosofico nei suoi intenti, e rivela nel concetto d’auto-percezione una dimensione fin troppo spesso trascurata. Le creature che affollano le colonne di questo papiro egiziano sono accomunate dalla loro ininterrotta percezione, tanto del mondo circostante quanto di sé, ed è soltanto questa sensazione che consente loro di accedere a quella «prima cosa che appartiene» a ciascuno, alla quale esse sono destinate fin dalla nascita. Ma non si fraintenda: le loro incessanti auto-percezioni non concernono alcun «10», in qualunque significato si voglia intendere questo termine. Nel sonno e nella veglia, gli animali degli Elementa moralia di Ierocle percepiscono le proprie parti, le proprie membra, le proprie armi, e tutti i diversi mezzi che la natura ha loro assegnato. Ma questa non è che una frazione di quanto percepiscono. Toccati «da fuori e da dentro», essi percepiscono anche ciò che non possiedono, e le loro facoltà sensitive li rinviano ripetutamente ad una costituzione che non appartiene loro in minor misura perché non possono del tutto con essa coincidere: una sproporzione interna alle loro giuste proporzioni, un’improprietà in ciò che v'è in loro di più proprio, senza il quale non sarebbero in grado di adattarsi a se stessi, e senza il quale ogni cura di sé sarebbe inevitabilmente
inutile. Ecco perché la loro diffidenza nelle proprie capacità non è meno naturale della parallela fiducia in esse, ed ecco perché, con la lucidità di animali che ininterrottamente si percepiscono, essi «non sono inconsapevoli»
del fatto che, per preservare se stessi, debbono a volte rimuovere le proprie «parti eccedenti», «non con forza moderata, ma con tutta la [loro] energia». Anche questo appartiene alla vita dell’aniràale, per cui la vita è percepire, e percepire la non-coincidenza che determina il sé; anche questo è un elemento dell’etica.
Capitolo dodicesimo Il cane da caccia e la lepre
Il più breve capitolo del libro
Sesto Empirico, nelle sue Pyrrboniae bypotyposes [Schizzi pirroniani], riferisce che «Crisippo [...] particolarmente si batte in difesa degli animali irragionevoli»!, fra cui, secondo tutte le testimonianze, il cane. A voler credere a Sesto, che non nasconde la sua ostilità verso il capo dei suoi «principali avversari», gli Stoici, Crisippo insegnava che, quando un cane che sta inseguendo una lepre si imbatte in un trivio, non esita: «Annusate due vie per le quali non passò la fiera», riassume Sesto, «infila, senz'altro, la terza,
senza nemmeno annusare le tracce»?. La sequenza può apparire abbastanza naturale. Sesto però riferisce che, per il grande logico dell’Antichità, la circostanza costituiva un’incontrovertibile prova dell’intima familiarità
canina con quella forma di deduzione proposizionale che lo stesso Crisippo aveva avuto la buona ventura di identificare con precisione per primo: il quinto sillogismo disgiuntivo complesso3. «Afferma, infatti, l’antico filosofo», spiega ancora Sesto, «che esso cane si comporta come se facesse
[dunamei] questo ragionamento: “la fiera è passata o per di qua, o per di
là, o per quell’altra parte. Per di qua no, per di là no, dunque per quell’altra parte” »4.
Esistono delle buone ragioni per dubitare della veridicità della testimonianza di Sesto. Sebbene sia congruente con la sintesi della dottrina crisippea contenuta nell’opera di un altro tardo avversario degli Stoici, Plutarco (le cui osservazioni in materia vennero a loro volta incorporate nel Libro
ri del De abstinentia di Porfirio), è ben difficile conciliarla con le testimonianze che possono trovarsi in altre due fonti classiche, il De natura
animalium di Eliano e il De animalibus di Filone. Quando citano la questione del cane che riflette, questi due autori non menzionano il trivio, e suggeriscono inequivocabilmente che Crisippo abbia parlato non di tre, ma
di due strade, separate da un fosso, dentro il quale la lepre avrebbe potuto agevolmente saltare. Nel dialogo di Filone sulla natura animale, che si rife-
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risce due volte all'argomento, Alessandro racconta che, non riuscendo il cane a trovare «nessuna traccia», né a destra né a sinistra, «senza ulteriormente fiutare, saltò nel fossato e continuò veloce il suo inseguimento».
Questa erudita contestazione ha indotto almeno una moderna autorità sulla scuola stoica, Max Pohlenz, a schierarsi con Filone ed Eliano, e a respingere la realtà storica del favoleggiato trivio7. Bene o male, però, la tradizione letteraria sembra essersi in larga misura allineata con gli avversari della Stoa. Discutendo Crisippo nella sua Apologie de Raimond Sebond,
Montaigne ricorda come il grande stoico, «quantunque in tutto il resto fosse sdegnoso come nessun altro filosofo nel giudicare la condizione degli animali», avesse dimostrato notevole simpatia per «i movimenti del cane che» si era imbattuto 3. Agostino offre immediatamente una risposta alla sua stessa domanda: «Ma forse temi che nel corso di questo dialogo stai subendo una illusione», si domanda. E risponde: ma «se tu non esistessi, non potresti assolutamente subire illusioni»4. Dalla possibilità stessa dell’errore, dunque, si può desumere la certezza di essere: così il filosofo dimostra l’esistenza del suo interlocutore. È un’illustrazione esemplare di un principio ripetutamente formulato da Agostino: si fallor, sum, «se m’inganno, sono»S. Evodio, da parte sua, sembra persuaso. La prova non è però che l’inizio di una più lunga deduzione, che cerca di definire non uno, ma tre termini. Dopo l’esistenza, il primo è la vita: «Dunque poiché è evidente che esisti», continua il filosofo, «e non ti sarebbe evidente se non vivessi, è evidente anche
che vivi». Qui Agostino sembra fare ina, pausa. «Comprendi allora che queste due sono verità certissime?». Evodio, come sempre, concorda: «Lo comprendo [intelligo] perfettamente». È una buona risposta, poiché fornisce ad Agostino un termine che va al di là della mera vita, mentre la vita
(vivere) si era già collocata al di là dell’esistenza (esse): pensare, comprendere (intelligere).
A questo punto, Agostino ed Evodio hanno fissato gli elementi fondamentali di una dottrina complessiva. Insieme, queste «tre nozioni: essere,
vivere e pensare [esse, vivere, intelligere]»> costituiscono i livelli di un unico ordine, gerarchico e stratificato, in cui ciascun termine più in alto implica quello o quelli sotto di sé. Primo sulla scala della creazione è lo stato di
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«cose» quali le pietre o il cadavere, che esistono, ma non vivono né pensano. Vi è poi la condizione dell’animale (pecus), che vive e quindi anche esiste, sebbene non si possa dire che pensi. Infine, al livello più alto, vi sono i simili di Agostino e di Evodio, i quali pensano, e dunque necessariamente anche esistono e vivono7. «Stiamo affermando dunque», osserva in conclusione Agostino, «che delle tre nozioni due mancano al cadavere, una alla bestia, nessuna all’uomo»8. Per il filosofo e il suo amico, chiaramente ne consegue che «delle tre è superiore [praestantius] quella che l’uomo possiede assieme alle altre due, cioè il pensare, perché implica in chi la possiede l’essere e il vivere»9. Né Agostino né Evodio dànno segno di voler prendere in esame la natura della più alta fra tutte le attività senza una preliminare discussione del potere che a questa sembra immediatamente inferiore, vale a dire la vita. Senza soffermarsi ad esaminare il senso della più semplice ed universale dimensione di tutte le cose, l’«essere», essi procedono ad analizzare le facoltà che formano le capacità costitutive di tutti gli esseri animati. Si tratta, naturalmente, dei sensi. In appena una pagina, Agostino ed Evodio richiamano i termini di una dottrina della percezione che era probabilmente canonica intorno al 1v secolo dell’era cristiana. Secondo questo insegnamento, a cia-
scuno dei cinque sensi corrisponde un organo specifico, come pure un oggetto appropriato, colto nel mondo degli «oggetti sensibili» (corporalia) in cui l’animale vive. Come la vista coglie quella qualità visibile che è il
«colore» per mezzo degli occhi, così il senso dell’udito svolge, per mezzo delle orecchie, il compito di afferrare quell’oggetto udibile che è il «suono» (s0r24s), allo stesso modo, anche il senso dell’olfatto (ol/factus) percepisce l’«odore» (odor), la facoltà gustativa accoglie il «gusto» (s4por), e intine il tatto abbraccia il «molle e il duro, il levigato e il ruvido e simili»!°. Secondo la definizione che ne danno Agostino ed Evodio, le capacità
percettive dell’animale sono ancor più estese. Il maestro ricorda che esiste anche un senso per cui gli esseri viventi percepiscono «le figure sensibili, grandi e piccole, quadrate e rotonde e simili». È una facoltà che non può esser ridotta a nessuno dei cinque sensi, poiché può essere esercitata da tutti loro — tanto dalla vista, esemplifica il filosofo, per chiarire il concetto,
quanto dal tatto!!. L'animale ha inoltre una percezione di questo preciso fatto: può in qualche modo «discriminare la competenza propria di ciascun [senso] e quale oggetto comune hanno tutti o alcuni di essi», distinguendo
fra qualità sensibili specifiche e condivise'?. Quest’apprensione non può esser dovuta ad una particolare forma di sensazione: nella misura in cui
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implica il confronto delle facoltà sensibili prese individualmente, essa deve operare ad un livello che è al di sopra, o oltre, ciascuna di loro. Esiste inoltre un’altra capacità percettiva. Anch’essa è comune alle cinque forme della sensazione, e dunque non coincide con nessuna di esse: si tratta della facoltà che «non percepisce soltanto gli oggetti che ha ricevuto dai cinque sensi esterni, ma anche i sensi stessi»'3. Agostino propone ad Evodio - che sembra dapprima non cogliere tale dimensione della percezione — un ovvio esempio, tratto dal dominio della vista: «Non puoi negare, penso, che altro è il colore e altro vedere il colore e altro ancora, quando il colore non è presente, avere il senso per cui si possa vedere se fosse
presente» (aliud colorem esse et aliud colorem videre et item aliud, etiam cum color non subest, habere sensum quo videri posset si subesset)"4. È una percezione dell’esistenza della facoltà percettiva che persiste sia in presenza che in assenza di qualità sensibili. AI lettore familiare con il vocabolario concettuale della psicologia antica, risulta evidente che Agostino allude con queste parole a una capacità sensitiva definita in termini classici da Aristotele e dai suoi antichi esegeti: il «senso comune» (koine aisthesis), per mezzo del quale l’animale percepisce le qualità sensibili condivise, la congiunzione e la disgiunzione di tratti percettivi, e infine l’occorrenza stessa delle proprie abilità sensibili.
Sarebbe un grave errore, comunque, dedurne che il De libero arbitrio si limiti a riesporre una dottrina aristotelica fissata molto tempo prima. Il dialogo agostiniano, infatti, fonde la «facoltà condivisa» propria della scuola peripatetica con una facoltà animale evidenziata dal movimento stoico: la capacità, per mezzo della quale ciascun animale, come insegnavano Cri-
sippo e i suoi discepoli, percepisce la propria costituzione come ciò cui esso è fin dalla nascita adeguato. Nel De libero arbitrio, Agostino fa della facoltà di percezione proposta
dagli aristotelici e del principio di sensazione animale definito dagli Stoici, due aspetti di un’unica facoltà comune a tutti gli esseri animati. La facoltà che «non percepisce soltanto gli oggetti che ha ricevuto dai cinque sensi esterni, ma [anche] i sensi stessi», apprendiamo, è in realtà la capacità che insieme consente ad ogni essere vivente di sopravvivere e di sostentarsi.
«La bestia non si modificherebbe sensibilmente o appetendo un oggetto o fuggendolo», spiega Agostino, «se non percepisse di percepire, non per avere scienza che è soltanto della ragione, ma per modificarsi, e questo cer-
tamente non lo percepisce con qualcuno dei cinque sensi»'5. Le espressioni con le quali Agostino riformula le attività del senso comune altro non
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sono che quelle con cui egli richiama i termini stoici ortodossi, sviluppati al fine di dimostrare che ogni animale percepisce se stesso prima di qualunque altra cosa. Afferma Agostino: «Sarebbe infatti assolutamente
impossibile alla bestia aprire gli occhi e modificare la vista osservando l’oggetto che istintivamente vuol vedere se precedentemente non percepisse di non vederlo perché o tiene gli occhi chiusi o non modificati dall’oggetto in parola». L'animale riesce ad accostarsi a ciò cui egli è per natura adatto, e al tempo stesso ad evitare ciò che potrebbe nuocergli, non soltanto perché pecepisce tali oggetti, ma anche perché percepisce quando lo fa e quando non lo fa. «Se poi percepisce di non vedere mentre non vede, è necessario anche che percepisca di vedere mentre vede, giacché non col medesimo stimolo modifica la vista se vede e la modifica se non vede. Indica così di percepire l’uno e l’altro» (Si autem sentit se non videre dum non videt, necesse est etiam sentiat se videre dum videt; quia cum eo appetitu non movet oculum videns, quo movet non videns, et indicat se utrumque sentire)". Agostino dà a questa facoltà percettiva primaria un unico nome, che sarebbe arrivato attraverso il Medioevo, fino all’Età Moderna. A quanto pare, poi, egli la battezza senza far trapelare l’ombra di un dubbio. Parlando della più elevata facoltà sensitiva comune a tutte le anime dei viventi, il filosofo dichiara al suo amico Evodio: «Conosco tale facoltà qualunque sia e non esito a chiamarla senso interiore» (agrosco istuc quidquid est, et eum
interiorem sensum appellare non dubito). Difficile non speculare sulla provenienza del termine introdotto da Agostino con tanta sicurezza!È. È stato detto che l’espressione sembra «un sinonimo del “senso comune”» di Aristotele, ma è evidente che in Aristotele non è rilevabile tale locuzione!9. Tuttavia, l’idea che il «senso comune» possa essere un senso «interno» è conciliabile, su basi testuali, con la dottrina peripatetica. Dopo tutto, non era stato il filosofo, nel De somno
et vigilia, a legare la «facoltà principale» al senso del tatto? E non era stato sempre lui, in un enigmatico passo del De anima, a suggerire che «l’organo del tatto è interno»?°? La più immediata fonte del testo latino, comunque, era stata probabilmente il lessico stoico, dal quale Agostino
tendeva così spesso ad attingere. Non basta semplicemente osservare come gli Stoici sostenessero che la percezione degli «oggetti esterni» non può esser conseguita senza un’auto-percezione, che si potrebbe ben considerare, per contrasto, «interna»?!. Si deve infatti anche ricordare la definizione
che si dice fosse stata data dai discepoli di Crisippo per «senso comune»: «una specie di tatto interno, grazie al quale noi riusciamo a cogliere noi
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stessi» (entos baphen... kath? ben kai; bemon auton antilambanometha)??. Tali ipotesi, tuttavia, per quanto filologicamente ammissibili, non sottraggono originalità all’invenzione — tanto terminologica quanto concettuale —
di Agostino. La facoltà ch’egli designa come «senso interiore» risponde ad una necessità, tanto più ineludibile per esser stata presentata — forse per la
prima volta — in termini inestricabilmente aristotelici e stoici. Secondo Agostino, è per mezzo del «senso interiore» che gli animali inevitabilmente «sentono che vivono» (sentiunt vivere), ed è sempre per mezzo suo che, per dirla più semplicemente, tutta la «vita», fino in fondo, «[è] cosciente di sé» (et se ipsam haec vita sentiat)?3. Tali formule devono esser prese alla lettera. Il senso interno consente ad ogni animale di «percepire» la vita che conduce, ma questa capacità non può fare di più. Come facoltà percettiva, tale percezione rimane dunque per natura distinta da quell’esercizio della ragione che Agostino fu tra i primi a definire e ad esaltare: la «coscienza [o “consapevolezza”, o “scienza”] di
vivere» (scientia vitae). Nel Libro I del De libero arbitrio, Agostino pone grande attenzione nell’assicurarsi che il suo interlocutore non fraintenda l’abisso che separa le due attività, una delle quali concerne la vita in quanto tale,
mentre l’altra implica la vita qualificata della comprensione. «E puoi distinguere», chiede il filosofo al suo amico, «che altro è vivere [vivere] ed altro essere coscienti di vivere [alind nosse se vivere]?». Evodio sembra ammet-
tere la distinzione, ma espone ancora un dubbio. «So che non si è coscienti di vivere se non si vive», risponde Evodio, «ma non so se ogni vivente è
cosciente di vivere» (Scio quidem neminem se nosse vivere, nisi viventem; sed utrum omnis vivens noverit se vivere, ignoro)?4. È una evidente richiesta di ulteriori chiarimenti. Il filosofo intende perciò dimostrare indubita-
bilmente che solo gli esseri umani possiedono non la mera sensazione, ma anche la consapevolezza (scientia) di quella cosa che è la loro vita.
«Tu ora ritieni opinabile che le bestie son prive di ragione; vorrei proprio che ne avessi scienza [scires]». La tesi può esser facilmente dimostrata. Basta
considerare un singolo fatto: solo l’animale parlante, fra tutti i viventi, sottomette gli animali che lo circondano, cosicché essi divengano «per una cer-
ta sensitività e addestramento, strumento del suo volere». Giacché l’animale umano è chiaramente «superato da molte bestie per forza o altre energie fisiche», e poiché, pur essendo in possesso delle medesime facoltà comuni a tutti, l’uomo tuttavia riesce a dominare tutti gli altri animali, ciò deve avve-
nire in ragione di una facoltà che egli soltanto possa rivendicare. Secondo Agostino, deve trattarsi di qualcosa che «non è né un nulla né una piccola
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TRS
cosa». È ciò che conferisce al genere umano quella forza per cui, dichiara
orgogliosamente il pensatore, «siamo superiori» (eis meliores simus). «Qual
è il potere per cui l’uomo è superiore, sicché nessuna bestia può dominarlo ed egli molte ne domina?», si domanda, con uno svolazzo retorico. «È quella che comunemente si chiama ragione o anche intelligenza [ratio, vel intellegentia]?». È una definizione di ragione che raramente è stata eguagliata, dal punto di vista della franchezza. L’”*. È una tesi provocatoria, giacché non può che implicare che la scienza, un qualche tipo di «percezione» (perceptum), possa esser della medesima natura dell’apprensione sensitiva.
L’integrità della «consapevolezza di vivere», comunque, può essere messa in dubbio su basi di maggior momento. Almeno una volta, Agostino lascia intendere che l’opposizione fra vita e scienza possa non esser del
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tutto valida, e per una semplice ragione: perché, com’egli spiega ad Evodio, fra gli esseri umani l’intellezione (intelligere) è essa stessa un tipo di vita. «E che cos’è pensare se non vivere più consapevolmente e perfettamente nella luce dell’intelligenza?», domanda a Evodio. «Pertanto tu, salvo mio errore, non hai anteposto alla vita un altro concetto, ma a una certa vita, una vita più elevata» (/ntellegere autem quid est, nisi ipsa luce mentis illustrius perfectiusque vivere? Quare tu mihi; nisi fallor, non vitae aliud aliquid, sed cuidam vitae meliorem vitam praeposuisti)?7.
Questo passo richiede una rigorosa attenzione. Dopo aver stabilito che l'intelligenza può essere separata dalla vita come la vita può essere distinta dal mero essere, Agostino suggerisce che la «consapevolezza di vivere», sebbene sia conoscenza nel pieno senso della parola, sia r0r vitae aliud ali-
quid, «qualcosa di non diverso dalla vita». Queste proposizioni vertono su una difficoltà logica della quale non è sempre evidente se Agostino fosse
del tutto consapevole. Senza designarlo come tale, l’autore del De libero arbitrio ha formulato un dilemma, nel senso etimologico del termine: la congiunzione di due distinti e confliggenti lemmata che debbono, e tuttavia non possono, essere conservati entrambi. Da una parte, la scienza, per essere tale, non può coincidere con la vita»di cui dev'essere conoscenza: per natura preferibile alla mera esistenza animale, la scienza deve comprendere in sé quell’esistenza, poiché il termine gerarchicamente superiore contiene l’inferiore, e su di esso prevale. Tuttavia, la scienza, come ci viene detto, è «qualcosa di non diverso dalla vita»; è, più precisamente, «una certa vita, una vita più elevata».
Un lettore simpatetico verso le manifeste finalità del dialogo preferirebbe sottolineare la prima tesi, mettendo da parte l’esistenza animale, che Agostino descrive miratamente, a vantaggio di quella più elevata vita che è la conoscenza. Si potrebbe dunque ammettere che, sebbene il filosofo stes-
so definisca inequivocabilmente la «vita» come «vita animale o sensitiva fin dall’inizio», quando parla di «una vita più elevata», probabilmente intende qualcosa di più nobile, che trascende di gran lunga la vita dell’animale: una «vita più luminosa», come ha scritto uno studioso contemporaneo, «una vita intellettuale e spirituale» felicemente remota da ogni forma di esistenza animale?5. Talora l’antico filosofo sembra ammettere questa interpretazione, che però non può realmente risolvere il dubbio inequivocabilmente sollevato dal suo testo. Ipotizzare che nell’essere parlante vi siano
due distinte e analoghe vite, significherebbe determinare una frattura fin nel nucleo dell’animale pensante, dividendolo in misura tale da render dif-
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ficile definirlo un’unità. Vi sarebbe in esso una vita superiore e una inferiore, mentre nell’uomo v'è sia intelligenza che sensazione, e quanto più la «scienza» avanzasse, tanto più cancellerebbe ed escluderebbe quell’esistenza che pur costantemente presupponeva, sostituendola con una migliore e beata vita di pensiero. Non si dovrebbero sottovalutare le conseguenze di una simile lacerazione vitale: l’animale razionale diverrebbe infatti in
tal caso un animale schiavizzante, che, prima di ogni altro, schiavizzerebbe se stesso. Contro tale interpretazione si può però sollevare una più incisiva obiezione. Rendendo la vita della «scienza» una vita effettivamente «più luminosa», una vita ben al di là della vita dell’animale, la si monda proprio di ciò di cui essa doveva far scienza, cioè dell’esistenza sensitiva, che l’animale percepisce, ma non conosce. Una «consapevolezza di vita» in cui la vita rimanga soltanto «una vita intellettuale e spirituale» potrebbe essere molte cose: conoscenza volta su se stessi, sulla propria ragione, sul proprio spirito, sulla propria innata intelligenza, una pratica cognitiva che assuma se
stessa come proprio unico oggetto. Tale «conoscenza» non sarebbe comprensione della vita animale, bensì ne costituirebbe il volontario oblio; ne sarebbe la deliberata sostituzione da parte di un’altra. L’alternativa sta nell’ancorarsi saldamente alla seconda proposizione formulata da Agostino. Ci si atterrebbe allora strettamente al principio per
cui la conoscenza della vita è «qualcosa di non diverso dalla vita», seguendolo ovunque ci possa portare. Questo percorso mentale ha certamente inizio nel dialogo sul libero arbitrio, ma ben presto dovrà mirare al di là di quello. Se infatti la consapevolezza di vivere è «qualcosa di non diverso dalla vita», gli animali allora rimangono animali fino in fondo, a dispetto
dei loro pii desideri. Non importa quanto possano pensare, essi continuano a vivere; comprendendo mediante la «percezione», si trovano costante-
mente consegnati a una dimensione dell’esistenza comune tanto agli animali schiavizzanti quanto a quelli schiavizzati. Almeno due ranghi della tripartita geriarchia dell’essere devono dunque vacillare: la comprensione non può essere più contrapposta alla percezione, mentre diventa vieppiù difficile distinguere con rigore fra «la consapevolezza di vivere» e il «senso interno» grazie al quale ogni vita animale deve percepire se stessa, le proprie facoltà, e la natura che (giacché sempre l’accompagna) le è propria. AI vescovo di Ippona, il quale in ragionata conversazione si rassicurava che la sua esistenza fosse essenzialmente «migliore» di quella di quanti erano sottomessi alla sua volontà, quest'eventualità sarebbe sembrata tutt’altro
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che edificante. È forse questo il motivo per cui, dopo aver avanzato tale ipotesi, egli scelse di non esaminarla; questa forse la ragione per cui, dopo averne accennato, decise, in accordo col suo interlocutore, di non riflettervi. Sotto alcuni aspetti, potrebbe trattarsi di una questione di scarsa importanza. Ci sono però segnali che il filosofo possa averla inconsapevolmente avvertita. Come chi è fulminato da un dio pagano, anch’egli
avrebbe potuto vivere di più, o di meno, di quanto avesse voluto.
Capitolo quattordicesimo Il re senza nome
In cui la lingua greca entra a far parte di quella araba, e il senso princi pale fa un’imprevista apparizione in un libro di al-Farabi
Agostino d’Ippona morì il 28 agosto del 430. In quell’epoca, l'Impero romano, un tempo invincibile, aveva già subito più di una perdita. Nel 406, i Vandali avevano invaso la Gallia; nel 415, i Visigoti avevano raggiunto la Spagna; durante gli ultimi anni di vita del vescovo, i Vandali erano passati dalla penisola iberica a una regione prossima al luogo di nascita di Agostino, la distesa di terra nordafricana che gli antichi conoscevano come Numidia. Erano eventi importanti, nel paesaggio politico mediterraneo, ma potevano sembrare di breve momento e d’effimero effetto, se paragonati alle
trasformazioni subite — poco più di due secoli prima — dall’Impero romano e da quello bizantino. A quel tempo, gli eserciti giunti dalla penisola
arabica conquistarono vaste porzioni delle coste meridionali e orientali del Mediterraneo, in nome d’una nuova religione rivelata al profeta Maometto, della tribù dei Quraysh. All’altezza del 732, un secolo dopo la morte di Maometto, il territorio conquistato dagli eserciti arabi era immenso: gran parte dell’Africa settentrionale, dell'Egitto, del Medio Oriente e della Per-
sia costituivano ora una nuova unità. Le terre per breve tempo soggiogate
mille anni prima da Alessandro Magno erano ora divenute province d’un unico impero, governato e amministrato sulla base dei princìpi giuridici e religiosi dell’Islam. Fu un fatto di incalcolabile importanza per la tradizione della cultura antica, poiché con l’andar del tempo la pax islamica determinò un movimento di trasmissione e traduzione testuale raramente eguagliato nella storia delle civiltà. Si è detto, senza esagerare, che, nei primi quattro secoli successivi alle prime conquiste arabe, «quasi tutti i libri secolari greci, eccetto quelli di carattere letterario e storico, che circolavano nell’Impero bizantino d’Oriente e nel Medio Oriente, furono tradotti in lingua araba»!. Fra
questi, naturalmente, i testi filosofici. Tutt'oggi, molti aspetti del passaggio dal pensiero greco a quello arabo rimangono oscuri; in particolare, la precoce abitudine di sostituire gli originali greci con le versioni arabe conti-
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nua a porre delle difficoltà nella ricostruzione dei vari stadi attraversati dalla pratica della traduzione. Tuttavia, è evidente che, intorno al 1x secolo, i filosofi di lingua araba non erano affatto rari, bensì numerosi. Favoriti dalla dinastia Abbaside per diverse ragioni, tanto d’ordine intellettuale che politico, essi raffinarono la propria scienza studiando sistematicamente e approfonditamente le opere dei loro antichi predecessori?. Naturalmente, questo fatto è da tempo ben conosciuto, ma non sempre se ne sono pienamente tratte le conseguenze3. Come ha recentemente ricordato Dimitri Gutas, «lo studio degli scritti greci post-classici di carattere secolare non può certo progredire senza le testimonianze in lingua araba», e, per quan-
to concerne la storia della filosofia, si potrebbe asserire sia «l’arabo, e non il latino, la seconda lingua classica»4. Se la scienza dell’Antichità ha conosciuto una seconda vita nei secoli successivi alla caduta di Roma, ciò è accaduto soprattutto in terra d’Islam; se la disciplina un tempo detta philosophia è sopravvissuta al greco classico, ciò si è principalmente concretato nella pratica che a suo tempo gli Arabi chiamarono falsafa!. Sarebbe un grave errore, comunque, credere che l’«arte delle arti» (sina‘at as-sina‘a) non fosse che una ripetizione del testo greco”. La traduzione era inevitabilmente anche una trasformazione. Lo sviluppo della psicologia può essere una buona illustrazione di questo punto. Non v’è dub-
bio che le opere sulla natura dell’anima scritte dai falasifa debbano molto alle precedenti opere greche, e in particolare alla tradizione peripatetica antica — soprattutto al De anima di Aristotele e ai suoi cosiddetti Parva naturalia, che furono tradotti in arabo intorno all’inizio del x secolo — e al
corpo esegetico degli antichi commentatori aristotelici greci, circolanti anch’essi ampiamente nel mondo arabo7. Quando però si pone a confronto la psicologia classica araba con quella greca, diviene evidente come le opere più tarde contengano elementi estranei a quelle più antiche. Su più d’un singolo punto, la filosofia sembra aver conservato la sua vitalità, non meno nella sua seconda vita che nella prima. Come i filosofi e i medici dell’Antichità, i pensatori classici arabi credevano che l’anima — principio di vita — consistesse in varie capacità, diver-
sificate per funzione e disposizione, e strutturate come elementi di un insieme stratificato e sistematico. La prima fra tali capacità era, negli animali, la sensazione. Tanto i discepoli di Aristotele, quanto gli eruditi di tra-
dizione araba, ben sapevano che è in virtù della percezione che l’animale può esser distinto dalla pianta. Non potevano inoltre non aver familiarità con le cinque specie di questo genere individuate dalla scienza psicologica
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e medica dell’ Antichità: vista, udito, olfatto, gusto e tatto. I pensatori dell'Islam classico, tuttavia, non chiudevano qui la loro enumerazione dei sensi. Conoscevano infatti un ulteriore insieme di facoltà percettive, che prima di loro nessuno — se si vuol dar credito alle prove testuali — aveva mai concepito come tali. Non è del tutto chiaro quando e come i filosofi e i medici di cultura araba siano giunti a identificare queste facoltà come classe, ma le fonti giunte fino a noi suggeriscono che anche i più antichi pensatori di quella tradizione le conoscevano. Per distinguerle dalle cinque
forme di percezione note già molto tempo prima, questi pensatori definirono le altre «sensi interni» (bawas batina, bushim panimim). I trattati classici arabi ed ebraici sulla natura dell’anima contengono numerose classificazioni di questi sensi, anche se, per ragioni di brevità, le diverse tassonomie possono essere ridotte, come ha dimostrato Harry Austryn Wolfson, a due. Secondo la prima — rappresentata da figure come Hunayn ibn Ishaq, al Razi, Isaac Israeli e lo Pseudo-Bahya —, i sensi inter-
ni sono l’immaginazione (khaydl), la cognizione (fakr) e la memoria (dbikr); per la seconda — proposta da Ibn Gabirol, Abraham Ibn ‘Ezra e Mosè Maimonide), essi sono invece l'immaginazione, il pensiero e la «com-
prensione» (come in Ibn Gabirol e in Maimonide, che impiegano il termine fahm) o la «saggezza» (come in Ibn ‘Ezra, che usa il vocabolo bikma)?. Nella misura in cui i sensi interni constano di capacità percettive dell’ani-
ma memori di quelle esaminate da Aristotele nel De anima successivamente a quelle dei cinque sensi propriamente detti, i sensi interni presentano ovvie analogie con le facoltà «interiori» note alla prima tradizione cristiana: il «senso interiore» (sersus interior) delineato da Agostino nel De libero arbitrio, soprattutto, ma anche il «senso del cervello» (sersus cere-
bri) evocato da Gregorio Magno, senso che «governa dall’interno» (ntrinsecus praesidet; Moralia x1, 6 [PL 75, col. 957b]) ed esercita molte delle funzioni che il filosofo assegnava al senso comune. Ci sono però solo analogie, poiché non esiste alcuna indicazione che le opere dei Padri della chiesa latini siano mai state conosciute nel mondo arabo!9.
Va osservato che le prime classificazioni arabe ed ebraiche dei sensi interni omettono ogni esplicito riferimento al senso aristotelico cui Ago-
stino e Gregorio alludevano parlando di un «senso interno» e di un «senso del cervello», e che si è detto anche gli Stoici avessero presente quando formularono l’idea di un «tatto interno, grazie al quale noi riusciamo a coglie-
re noi stessi». Nonostante l’importante ruolo svolto dal peripatetico «sen-
so comune» nella concezione dei sensi interni sviluppata dalla tarda filosofia
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greca e latina, esso sembra escluso dalle prime descrizioni sistematiche delle facoltà interne nell’ambito del pensiero arabo-islamico. Apparentemente, i primi filosofi di questa tradizione considerarono il «senso principale» d’ascendenza aristotelica non più d’una capacità percettiva inferiore, come se ai loro occhi la condivisa facoltà della sensazione non fosse, in breve, un senso fra gli altri, non importa se «interno» o «esterno». Una delle più antiche analisi del senso comune che ci siano state trasmesse
dalla tradizione araba conferma quest’impressione. Si tratta del breve esame che di tale facoltà si legge nel Libro degli elementi (Kitab al-Ustugsat) del filosofo e medico egiziano Isaac ben Solomon Israeli, vissuto nel x secolo. Spesso considerato come il primo dei filosofi ebraici del Medioevo, Isaac Israeli scriveva in arabo, come le altre grandi figure del pensiero ebraico medioevale, ma le sue opere vennero tradotte in ebraico-e in latino, e nei secoli successivi alla sua morte circolarono tanto nell’Europa cristiana quanto nel mondo islamico. Nel Libro degli elementi — ché sopravvive soltanto in forma frammentaria, nelle traduzioni ebraica e latina, essendo perduto l’originale arabo —, Isaac dedica parecchie pagine alle condizioni psicologiche della profezia. Ricostruendo l’insegnamento degli «antichi» sulla natura del sonno e dei sogni, egli non può fare a meno di esaminare la facoltà di cui sia il sonno che la veglia sono, per la dottrina classica, «affezioni». «Il senso comune», scrive, «è intermedio tra il senso corporeo della vista e il senso cui questo dà forma, il quale ha sede nella parte anteriore del cervello ed è chiamato fantasia»!. Di qui deriva, secondo Isaac, la sua denominazione di «comune»: «È per questa ragione che viene chiamato “senso comune”, perché riceve da un senso corporeo, cioè il senso della vista, gli aspetti corporei delle cose, e li trasmette al già citato senso spirituale, ovvero al senso cui il primo dà forma»'?. È una definizione sorprendente. Colloca il senso comu-
ne al confine tra le due sezioni dell'anima bipartita: la corporea e l’incorporea, l’esterna e l’interna, la sensibile e l’intellettuale. È dunque in una nuova accezione che la facoltà aristotelica può dirsi «comune»: non perché, come
nelle opere della tradizione, la sua attività possa essere attribuita a ciascuno dei sensi, ma perché da ciascuno di essi differisce, in quanto il mediatore può
essere distinto da ciò che media. La facoltà comune delineata dal pensatore egiziano costituisce un senso della soglia fra tutti i sensi, un senso delle linee
lungo le quali ciascun senso scivola nel senso contiguo, e le facoltà inferiori dell’anima rasentano quelle superiori.
Se ora prendiamo le opere che ci sono rimaste del grande contemporaneo arabo-persiano di Isaac, Abù Nasr al-Farabî, anche qui la collocazio-
IL RE SENZA
NOME Je2A]
ne del senso comune non sembra meno eccezionale. «Secondo maestro»
(al-mu‘allim al-thani) dopo Aristotele, al-Farabîi ha trasmesso alla tradizione due classificazioni dei sensi interni. La prima si può leggere nella Enumerazione delle scienze, e consiste tanto in una descrizione che in un’enumerazione. La seconda, contenuta in un’opera minore, presenta solo un’enumerazione!3. Nessuna delle due classificazioni menziona il senso comune. Data l’importanza di questa facoltà nella tradizione aristotelica,
quest’omissione lascia perplessi, e non può che provocare una semplice domanda: cosa ne è stato della «facoltà sensitiva dominante», ci si potrebbe ben chiedere, nel pensiero del secondo maestro? Nel xx capitolo del Libro delle idee degli abitanti della città virtuosa,
egli fornisce degli elementi per una risposta. Questa sezione del trattato è dedicata alla partizione e alle facoltà dell’anima umana, che appaiono nel sembiante allegorico di personaggi di diverso rango e funzione. Dopo avér descritto la facoltà nutritiva come composta di una «capacità principale e
d’altre che sono sue serve e bambinaie», al-Farabi passa alla facoltà sensitiva: «anche la facoltà sensitiva consta di una potestà principale [ras] e di bambinaie [riwada>, spiega: Queste ultime sono i cinque sensi a tutti noti, che sono collocati negli occhi, nelle
orecchie, ecc. Ciascuno dei cinque sensi percepisce il sensibile che gli è proprio. La potestà principale è l’unica in cui sono riunite tutte le percezioni dei cinque sensi, che fungono per essa da ripetitori. È come se i cinque sensi fossero tutti suoi consiglieri, ciascuno responsabile per un diverso tipo di informazioni provenienti da una delle regioni del regno. La potestà principale è come il re, alla cui corte i consiglieri raccolgono le notizie provenienti da tutte le regioni del regno!4.
Al-Farabi evoca qui un tropo d’origine platonica, comune a innumere-
voli opere psicologiche e mediche dell’Antichità. La struttura dell’anima appare come quella di un’entità politica, anche se non si tratta della polis greca, bensì della politeia araba, che era il «regno» (mamlaka). Dietro la maschera dei suoi caratteristici personaggi, non è difficile riconoscere le
facoltà della tradizione aristotelica, rivestite dei panni ufficiali delle funzioni amministrative arabo-islamiche. Proprio come a ciascun senso — secondo il filosofo e i suoi esegeti — corrisponde un oggetto particolare, così a ciascuno dei cinque «consiglieri» appartiene una singola regione; e proprio come, secondo lo Stagirita, 1 sensi individuali ricevono i loro
oggetti sensibili in virtù di un organo specifico, in una data posizione entro
lo spettro che ne delimita l'apparire, così ciascuno dei «consiglieri» di al-
Farabiî deve riferire all’unica capitale le notizie tratte dal suo dominio.
e
IL TATTO
INTERNO
La sorprendente invenzione del filosofo arabo consiste nell’aver elevato un’unica facoltà, in qualità di «re» (malik), al governo di ciascuna delle parti dell’anima sensitiva. Né l’identità del personaggio reale è dubbia, nonostante non la si precisi: il re senza nome della filosofica parabola svol-
ge i sovrani uffici dell’«organo sensitivo fondamentale» (kyrion aistheterion), cui la dottrina aristotelica classica assegnava poteri percettivi al di là — 0 al di qua — di quelli di ciascuna delle cinque forme sensoriali. La città virtuosa costituisce un momento di grande importanza nella trasmissione
e nella trasformazione di quell’«organo sensitivo fondamentale». Qui, infatti, non si afferma più che la potestà classica sia semplicemente «condivisa» dalle facoltà di percezione; né la si caratterizza come «intermediario» nell’ambito della struttura dell’anima. Non è né esterna né interna, bensì è la capitale, la «potestà principale», rispetto alla quale i sensi propriamente detti non sono che «bambinaie». Se è il governatore a stabilire la legge che divide e unifica i territori di un singolo regno, è il senso comune, in questa allegoria psicologica, a garantire la struttura delle potestà dell’anima sensibile, assegnando a ciascuna di esse il suo dominio, come pure la responsabilità di trarne il «tipo di informazioni» appropriato. Ne consegue che la scomparsa della facoltà condivisa determinerebbe la fine dell’intero regime della sensazione. In assenza d’un re, dopo tutto, non può esservi regno alcuno, e senza questo «governatore» e la sua corte — come suggerisce il secondo maestro —, l’anima animale non sarebbe unitaria.
Capitolo quindicesimo Psicologia della quattrocentoquarantanovesima notte
Un breve capitolo, in cui una costosa schiava discetta, al cospetto di un califfo, delle facoltà del cervello
Tra le molte storie narrate dalla regina Shahrazad al suo omicida con-
sorte, re Shahryar, non poche coinvolgono giovani schiave d’eccezionale intelligenza. In realtà, le eroine di questi racconti sono molto diverse tra loro. Alcune non manifestano particolari pretese nei riguardi del sapere: le capacità di cui la natura le ha dotate bastano — com’esse invariabilmente dimostrano — a permetter loro di risolvere le più problematiche situazioni, mettendo nel sacco i padroni che avrebbero dovuto giudicarle. Altre però posseggono una considerevole cultura, che sanno mostrare con infallibile destrezza. Di questa schiera fa parte Tawaddud, l’eroina del raccon-
to della 449° notte. Costei ebbe la sfortuna di far parte delle proprietà di uno spendaccione di Baghdad, il quale, dopo aver dilapidato il suo patrimonio, decise infine, onde por rimedio a quell’illiquidità di cui era il solo
responsabile, di vendere Tawaddud, per un prezzo esorbitante, ad Harun al-Rashid. Uomo di grandi mezzi, il califfo si dichiarò disposto a pagare la cifra richiesta. Tuttavia, egli non era un compratore impulsivo, e rimaneva ancora una circostanza da verificare, prima che la transazione potes-
se andare in porto. Poiché infatti gli era stato detto che Tawaddud era tanto colta quanto bella, prima di spendere qualcosa come diecimila denari per averla, il califfo chiese di accertare che le cose stessero così. Chiamò
dunque a raccolta gli esperti che si trovavano presso la sua corte e ordinò loro di appurare quale fosse la vastità della sua cultura. Per primo venne
un commentatore del Qur'4n, che le pose una serie di domande sull’esegesi del libro sacro. La donna rispose con sicurezza. Fu poi la volta di un medico, che esaminò, tra le altre cose, la sua conoscenza del cervello.
Anche su questo tema, il risultato fu impeccabile. Quando le fu chiesto quante cavità vi fossero nella testa umana, ella senza esitare diede al medi-
co la risposta corretta: «Tre cavità, che contengono cinque facoltà, dette sensi interni, e cioè: il senso comune [a/-hiss al-mushtarak], l’immagina-
124
IL TATTO
INTERNO
zione [al-kbayal], il raziocinio [al mutasarrifa), la percezione [al-wahima] la memoria [al-bafiza]»!. La risposta di Tawaddud desta meraviglia. Harun al-Rashid regnò dal
786 all’809, e a quel tempo l’imponente movimento di traduzione dal greco all’arabo, che sarebbe durato per più di due secoli, muoveva i suoi primi passi. Probabilmente, nessun filosofo 0 medico dell’epoca avrebbe potuto
offrire una enumerazione dei sensi interni così sistematica. Quando i primi filosofi di tradizione araba cercavano di classificare queste facoltà, proponevano una descrizione tripartita che, per quanto mutevole nei dettagli,
poteva leggersi come una replica della distinzione ellenistica — verosimil-
mente d’ascendenza aristotelica — fra «immaginazione» (phantastikon), «intellezione» (dianoetikon) e «memoria» (mnemoneutikon). A queste tre facoltà, al-Farabi ne avrebbe poi aggiunta una quarta, la «valutazione» (wahbm), un senso che avrebbe svolto un ruolo prominente, nella psicologia della Scolastica latina, presso la quale sarebbe stàto conosciuto come aestimatio*. Tuttavia, la risposta della giovane schiava iniziava con una facoltà che era stata omessa dalla lista del «secondo maestro»: il senso
comune. I cinque termini dell’elenco di Tawaddud rivelavano la sua perfetta conoscenza della classificazione dei senssinterni proposta da Avicenna, il grande filosofo persiano che però — con una discrasia temporale tipica della letteratura medioevale, tanto araba quanto europea — visse nella prima metà dell’x1 secolo. Anche se il califfo avrebbe potuto non saperlo, la risposta di Tawaddud dimostrava chiaramente com’ella fosse da annoverarsi tra i molti lettori dei più filosofici trattati di Avicenna. In ciò, egli somigliava a quel dugentesco professore universitario dell'Europa Cristiana, Tommaso d’Aquino, che nella prima parte della Summa theologiae analogamente riferiva, dando credito alla sua fonte, che «nel suo libro De anima, Avicenna propone cinque facoltà sensitive interne, gioè il senso comune, la fantasia, la facoltà immaginativa, l’estimativa e quella della memoria [sensum communem, phantasiam, imaginativam, aestimativam et memorativam]>3.
In effetti, Avicenna aveva proposto diverse classificazioni dei sensi interni, che riproducevano alternativamente le due tassonomie della tradizione, e andavano oltre il loro scopo. Nel trattato medico noto all’Occidente latino con il titolo di Canone della medicina, egli in un certo punto
adottava una tassonomia tripartita; in un altro, invece, suggeriva che i sensi interni fossero quattro. Fu nel capolavoro filosofico della sua maturità, il Kitab al-shifa — come pure pure nel suo compendio, il Kitàb al-Najat — ch’egli propose gli insegnamenti psicologici richiamati da Tawaddud,
PSICOLOGIA
DELLA
QUATTROCENTOQUARANTANOVESIMA
NOTTE
I 25
distinguendo, in totale, cinque sensi interni (il cui numero, bisognerebbe aggiungere, poteva aumentare fino a sette, a seconda dei princìpi con 1 qua-
li li si contava)*. Ciascuno di questi elenchi revisionava, almeno in un aspetto, le dottrine arabe classiche sui sensi interni. Dal Canone al grande «libro De anima» cui alludeva Tommaso, Avicenna cominciò la sua partita con il senso comune.
Il «libro De anima» era la sezione del Kitab al-Shifà” sulla psicologia che, tradotta dall’arabo in latino a Toledo nella seconda metà del x11 secolo, divenne noto all'Occidente cristiano come Liber de anima o Sextus de naturalibus. Il Kitab al-Shifa? conteneva già — nel quinto capitolo del Libro I- un sommario elenco dei sensi interni, che iniziava con la facoltà della «fantasia, che è il senso comune» (bantasia, wa° l-biss al-mushtarak, fantasia, quae est sensus communis). Il testo però proponeva una sistematica
descrizione della facoltà solo nel capitolo 1 del Libro Iv, che si occupava di tutte le capacità dell’anima nel loro insieme. Avicenna cominciava la sua analisi con il senso comune, facendo chiaramente intendere, fin dall’inizio del capitolo, com’egli credesse che almeno alcuni dei suoi predecessori ave-
vano gravemente frainteso la vera natura di quella capacità. Contro coloro che avevano chiamato in causa la facoltà per spiegare soltanto le qualità sensibili comuni, egli argomentò, in termini programmatici, che «il senso comune è, al contrario, la facoltà che riceve tutte le cose sensibili». La sua prova era chiarissima: se le cose non fossero state così, nessun animale —
uomo o bestia che fosse — avrebbe potuto collegare un oggetto sensibile d’un tipo a un oggetto d’un altro tipo. Se il senso comune non fosse il sen-
so di tutte le cose percepite, dopo aver mangiato qualcosa di dolce, non sapremmo mai come collegare cosa abbiamo gustato con qualcosa che possiamo vedere; e, dopo aver ascoltato cantare una canzone da un certo uomo, non saremmo in grado di riconoscere attraverso la vista l’uomo che l’ha cantata. Anche «la vita delle bestie» diverrebbe dura, osservava il filosofo: se
non avessero un senso comune, gli animali non saprebbero collegare la vista di un bastone di legno alla sensazione del dolore, né potrebbero capire da
un certo odore che si trovano vicini all’oggetto di un certo sapore. Avicenna, dunque, estendeva in modo considerevole la portata e il significato del senso comune, pur inserendolo, per la posterità, come il ter-
mine più elementare nella scala gerarchica delle facoltà interne dell’anima. Talora, a dire il vero, sembra che il filosofo persiano cerchi di limitare le funzioni attribuite a questo «senso». Sebbene sostenga invariabilmente che la facoltà condivisa colga comuni qualità sensibili e sensazioni complesse,
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IL TATTO
INTERNO
talora egli nega possa afferrare l’attività dei sensi stessi7. Tuttavia, egli afferma che il ruolo della facoltà condivisa nell’anima degli animali sia più fondamentale di quanto abbiano asserito altri prima di lui. Il motivo della sua audace rivendicazione è semplice: egli credeva che il senso comune fosse nulla di meno che «il centro di tutti i sensi» (markaz al-hbiwas, centrum omnium sensuum). Per lui, la facoltà condivisa era l’unica capacità che rendeva possibile l’affezione dell’animale da parte delle cinque forme di sensazione ch’esso sapeva distinguere con precisione. È forse nella Shifa” che Avicenna si spinge più lontano nel sottolineare l’importanza del senso centrale. Riprendendo l’immagine classica della circonferenza e del punto, Avicenna descrive la facoltà interna non solo come il fondamento di tutti i sensi, ma anche come il loro centro, come il punto dal quale essi tutti «emanano», generati nel condiviso procedere a partire da una facoltà primaria8. I termini utilizzati dal filosofo persiano nel Liber de anima per la sua definitiva caratterizzazione del senso sono memorabili, non da ultimo per la distanza ch’essi segnano nei rispetti della fonte della dottrina, il trattato aristotelico sull’anima. Tawaddud non li usa nem-
meno, a dire il vero. Forse perché erano troppo ovvi; o forse perché ella esitava, in perfetta modestia, a citarli da un testo che non poteva aver letto. Secoli dopo Avicenna, questi termini dovevano ritornare, come echi, per essere glossati e amplificati dai molti idiomi del pensiero medioevale. «Questa facoltà ch’è chiamata senso comune», scriveva Avicenna, «è il centro dal quale i sensi si ramificano, e al quale tornano, come raggi, e, in
verità, il soggetto della percezione è proprio tale facoltà» (Et haec virtus est quae vocatur sensus communis, quae est centrum omnium sensuum et a qua
derivantur rami et cui reddunt sensus, et ipsa est vere quae sentit)9.
Capitolo sedicesimo La fontana e la fonte
Un altro breve capitolo, in cui si esamina la fortuna delle dottrine arabe tra î filosofi della Scolastica e tra gli altri eruditi dell’epoca
Come Tawaddud, gli eruditi del tardo Medioevo conoscevano bene Avicenna. Negli anni in cui Alberto Magno compose il suo commentario sul De anima di Aristotele, alla metà del xt secolo, la dottrina proposta nell’opera nota al mondo occidentale con il titolo Sextus de naturalibus era diventata una tematica che nessun filosofo poteva fare a meno di tenere in
considerazione. I testi di personaggi quali Jean de la Rochelle, Alessandro
di Hales e Robert Kilwardby, per tacere delle varie anonime Quaestiones in tres libros De anima, pubblicate nel corso dell’ultimo secolo, tutto testi-
monia della profondità e dell’ampiezza dell’impegno della Scolastica del x secolo nello studio delle opere dell’Avicenna Latinus!. Ma gli studiosi duecenteschi di Aristotele beneficiarono anche di quel monumento del-
l’esegesi filosofica che è Il Commentario lungo di Averroè sul trattato aristotelico, commentario che fu tradotto in una data compresa tra il 1220 e il 1235 da Michele Scoto (e che oggi sopravvive esclusivamente in questa
forma)?. Com'è evidente, la tesi avanzata nel trattato di Alberto sul De ani
ma non sarebbe stata possibile senza quei due contributi alla psicologia filosofica. Il maestro di Colonia si allontana dichiaratamente e completamente da una pedissequa lettura di Avicenna e Averroè e, basandosi sulle
proposizioni di entrambi ifalasifa, otfre una descrizione — per certi versi senza precedenti — della sensazione.
Alberto dedica alla natura del senso comune il quarto trattato del suo commentario sul «secondo» libro del De anima. Il suo metodo è quello — praticato nelle università dell’epoca — della sistematica e progressiva interpretazione ad litteram del testo aristotelico, ch'egli distribuisce in dodici capitoli ordinati per argomento. Diversamente da quella di Avicenna, la sua esposizione della teoria del senso comune procede perciò mediante la
costante citazione ed esposizione autoritativa della dottrina dello Stagirita. Rievocando il contesto dell’originaria analisi del «senso condiviso»,
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IL TATTO
INTERNO
Alberto spiega come soltanto questa facoltà percepisca le cinque qualità sensibili complesse (motus, status, figura, magnitudo, numerus et unum), e infine com’essa soltanto consenta che «percepiamo di vedere e di udire» (sentimus nos videre et audire)3. La sua conclusione unisce in un sol colpo la dottrina del testo aristotelico e la descrizione del fondamento e della fonte delle facoltà sensitive proposta da Avicenna nel Sextus de naturalibus. «Dichiariamo che il senso comune è il principio di tutti i sensi particolari, ed è la forma dalla quale il senso scorre in tutti i sensi appropriati» (Dic mus sensum communem esse principium omnium sensuum particularium et
esse formam, a qua est influentia sensus in omnibus propriis sensibus)4. Il successivo (e finale) capitolo del trattato abbandona completamente la forma del commentario. Dagli editori novecenteschi dell'Opera omnia di Alberto viene designato come «digressione», ma la sua tesi, per quanto nuova, discende logicamente dall’analisi del senso comune condotta fino
a quel punto”. Qui Alberto, approfondendo la sua analisi dello status della facoltà come capacità singola che si esercita in ciascuno dei cinque sensi, riflette sulla natura della sua unità, concludendo che il senso comune può essere definito come forma «universale», non certo nell’ambito del predicabile, ma «come causa che conosce anticipatamente ciò che da essa
deriva, come l’architetto conosce anticipatamente la forma della casa» (est universalis non nt praedicabile, sed sicut causa formaliter prachabens ea quae oriuntur ex ipsa, sicut architectonica praehabet formam domus). L’«universalità» del senso comune consiste dunque nella sua specifica relazione causale con i sensi individuali: «prenozione» (praebabitio). Come Alain de Libera ha dimostrato, Alberto, per chiarire la natura della facoltà aristotelica, richiama con questo termine un concetto del neoplatonismo medioevale. La praebabitio rimanda a Pseudo-Dionigi l’Arcopagita, che
nel De divinis nominibus utilizza il tefmine greco proechein, come pure a Eustrazio di Nicea, il quale definisce il Bene come ciò che «conosce anticipatamente» ogni cosa in sé, in quanto al contempo superbabens e praehabens rispetto a quanto da esso procede7. Questa affermazione potrebbe sorprendere un aristotelico contemporaneo, ma, per un lettore familiare con Avicenna, sembra un rigoroso svi-
luppo della tesi che si legge nel Sextus de naturalibus, secondo la quale i cinque sensi «emanano» dal senso come comune i raggi d’una circonferenza nascono dal suo centro. La facoltà condivisa si dimostra ora come il solo potere per mezzo del quale si origina, con le sue molte branche, l’in-
tera facoltà sensoriale. È ilprimum sentiens, che, nella sua universalità for-
LA FONTANA
E LA FONTE
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male, già contiene i sensi veri e propri, nella modalità della neoplatonica «prenozione». Di qui, la nuova definizione del senso comune: il primo senziente — non temporalmente primo, ma tale per natura —, ovvero ciò in cui originariamenente viene conservata l’intera ‘capacità sensitiva, è il senso comune,
che è l’origine dei sensi veri e propri, sì che da esso i sensi veri e propri derivano, mentre esso non è per contro costituito da quelli, né da quelli trae alcunché del proprio essere (primum sentiens non quidem tempore, sed natura, hoc est in quo primitus salvatur
tota virius sensitiva, est sensus communis, qui est origo sensuum propriorum ita, quo ab ipso derivantur sensus proprii, ita quod non e converso constituitur ab eis nec aliquid sui esse habet ab eis)®.
Il senso che nella tradizione era il principale, a questo punto, corre il rischio di cessar d’essere «un» senso, tout-court. Diversamente dagli altri sensi, la «facoltà condivisa», come ora Alberto la definisce, non costituisce una forma distinta di ricettività, bensì l’unico potere in cui «viene conservata l’intera capacità sensitiva» (primitus salvatur tota virtus sensitiva). Se, per adottare un termine dei dottori medioevali, si dà il nome di medium
allo spettro entro il quale il senso individuale percepisce il suo oggetto, si deve allora concludere — come fanno gli editori dell'Opera omnia di Alberto — che il senso comune sia il «medium dei media», o — nell’astratta terminologia dei filosofi medioevali — che il senso comune costituisca la
«medietà di tutte le cose sensibili» (medietas omnium sensibilium)9. È il supremo elemento di percezione: la dimensione in cui, e da cui, nascono tutte le sensazioni, preservandosi nell’arco della loro durata.
Fu questa la forma più diffusa in cui la facoltà condivisa della sensazione passò, col resto della dottrina della Scolastica, dal latino alle prime lin-
gue dell’Europa moderna. Si potrebbe ricordare il tentativo di Meister Eckhart, una generazione dopo Alberto, di presentare questo concetto al pubblico delle sue prediche, al quale spiegò che «i professori dicono vi sia una facoltà che vede attraverso l’occhio, ed un’altra che percepisce che questa vede» (daz ein ander kraft ist, dà von daz ouge sibet, und ein ander kraft, dà ez bekennet, daz ez sihet)!°. Molto tempo prima, però, un igno-
to autore, formatosi
agli insegnamenti
delle università medioevali,
approfondiva l’analisi della facoltà che Alberto e i pensatori arabi avevano definito. Il trattato — conosciuto come Li ars d’amour, de vertu et de
boneurté, un’opera un tempo attribuita a Jean le Bel, in seguito assegnata a Jean d’Arckel, mentre più recentemente se ne è negata la paternità ad entrambi gli autori — contiene un esemplare abbozzo di questo concetto
psicologico.
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IL TATTO
INTERNO
Il senso comune è una facoltà che abbraccia oggetti appropriati che interessano appropriati sensi. E tutti i singoli sensi, che sono esterni, discendono dal senso comu-
ne, che è interno, analogamente ai raggi di una circonferenza, che partono dal centro della circonferenza e ne raggiungono ogni punto. Allo stesso modo, le apparenze delle cose, percepite dai sensi specifici, raggiungono il senso comune; ecco come il senso
comune giudica le proprietà delle specifiche sensazioni, variamente distinguendo fra le diverse cose per mezzo delle sensazioni percepite, come ad esempio distinguiamo fra bianco e dolce, nel latte. Diciamo dunque che il senso comune è la fontana e la fonte di
tutti i sensi individuali, alla quale tutti imovimenti»sensibili sono ricondotti, come al loro termine ultimo. Questa facoltà possiede un oggetto [particolare] nella misura in cui essa è un senso, e possiede un [oggetto particolare] nella misura in cui essa è comune. Nella misura in cui è un senso, essa riceve dalle cose un’apparenza senza materia né presenza di forma materiale alcuna. Nella misura in cui è comune, essa svolge due attività. Una è il giudizio sulla cosa percepita, in virtù del quale siamo consapevoli di percepire, come quando giudichiamo di vedere e di ascoltare per mezzo di un altro senso. La seconda attività consiste nel comparare le diverse cose percepite,e nell’immaginare. Così diciamo: questo è dolce, e questo è ancor più dolce, questo latte èbianco edet? ce. È per tale ragione che tutti gli aspetti delle cose percepite vengono ricondotti da ciascun senso specifico al senso comune. Alcuni collocano questa facoltà nella parte posteriore del cervello, dove i nervi dei cinque sensi s'incontrano; altri la pongono invece nel cuore, poiché esso è la fontana e la fonte della vita!!
Ciascuna delle funzioni che definisconola facoltà condivisa dell’anima appare qui in un’esemplare forma abbreviata. L’autore ha letto non sol-
tanto Aristotele, ma anche quei suoi successori che, nella lingue della cultura araba e latina, cercarono di commentarne le opere. Lo scrittore fran-
cese definisce il senso comune come una facoltà interna (er dedans) che anima 1 sensi esterni (de dehors), proprio come i «raggi di una circonferenza [...] partono dal centro della circonferenza e ne raggiungono ogni
punto»; egli precisa che è per mezzo di tale facoltà ch'è possibilegiudicare «le proprietà delle specifiche sensazioni, variamente distinguendo fra le
diverse cose per mezzo delle sensazioni percepite», ed esser «consapevoli di percepire» (ke nous connissons ke nous sommes sentant). Questa Ars in volgare, comunque, non è un semplice sommario dei trattati greci, arabi e
latini che la precedono. Sa anche trovare una propria peculiare espressione per la facoltà percettiva primaria: «la fontana e la fonte di tutti i sensi individuali, alla quale tutti i movimenti sensibili sono ricondotti, come al
loro termine ultimo» (lifontaine et li sourgons de tous les sens singulars, ouquel tot li movement sensible sunt rapporté, si comme en fin derraine). In realtà, si tratta di una duplice fontana e fonte. Il senso comune non è soltanto «la fontana e la fonte di tutti i sensi individuali», ma anche, come leg-
giamo alla fine del passo, «la fontana e la fonte della vita» (fontaine et raci-
LA FONTANA
E LA FONTE
131
ne de vie). Forse è per questa ragione che, per quegli animali senzienti che siamo, vivere significa essere consapevoli di sentire, e forse è per questo che — come scrisse Tommaso, glossando Aristotele e parafrasando Agostino —
«in virtù del senso comune percepiamo di vivere» (sensu enim communi percipimus nos vivere)"?.
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Capitolo diciassettesimo
Percezione ovunque Un lungo capitolo su Descartes, Bacone, e particolarmente su Campanella, che credeva il mondo fosse un grande animale senziente
La prima modernità fu, tra le altre cose, un’epoca dai molti sensi. Prima vennero le percezioni delle qualità esterne, definite dai dottori delle scuole medioevali, con i quali, naturalmente, gli autori del xvi e del xvn secolo avevano grande familiarità: i cosiddetti cinque sensi esterni, enumerati da Aristotele e dai suoi commentatori nella loro classica sequenza, «vista, udito, olfatto, gusto e tatto»!. Molti seguirono Filopono e Agosti-
no nel sostenere che questi fossero comuni a ogni creatura senziente, ma taluni ricordarono come le vite degli animali possano esser complete anche in assenza di sensi. La prova, osservavano, è offerta dal riccio: almeno stan-
do ad Aristotele, quest’animale si destreggia perfettamente privo del senso dell’olfatto, proprio come (secondo i celebri Plinio il Vecchio) le balene e le talpe vivono una vita piena completamente cieche?. In ogni caso, però, tutti concordavano
pur essendo resoconti di pur essendo sul fatto che
le facoltà percettive degli animali non terminassero con i sensi che si sceglieva di ammettere, poiché vi erano altre e più elevate percezioni, che la tradizione medioevale definiva «interne». Intorno al xvI secolo, esistevano diverse e consolidate tesi, tanto medioevali quanto moderne, in merito alla spinosa questione del censimento di tali facoltà. Vi fu chi basò la propria enumerazione delle capacità interne sul numero dei ventricoli cerebrali — per alcuni, due; per altri, tre. Vi fu chi invece rifiutò, su basi mediche, di
identificare i sensi interni con delle regioni cerebrali, suggerendo in ogni caso che fossero tre («immaginazione, pensiero e memoria»), come Galeno aveva — molto tempo prima - stabilito. Vi fu chi credette fossero quattro, come insegnavano Tommaso e, dopo di lui, il Caetano e Silvestro da Ferrara3. Infine, vi fu chi — e furono molti —, seguendo Avicenna e i suoi discepoli latini, ritenne che le «facoltà interne» fossero cinque: il senso
comune (sensus communis), la capacità immaginativa (vis imaginativa), la valutazione (aestimatio), l'immaginazione (phantasia) e la memoria
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(memoria). Fu questa la dottrina condivisa da figure diverse quali alGhazali, Alberto Magno e William Shakespeare, il quale nel sonetto cxLI evoca una passione che i suoi «cinque sensi», come pure le sue cinque
«facoltà mentali» non sanno pienamente scandagliare*. Questi erano, in larga parte, sensi ereditati. Ne sarebbero arrivati di più recenti, e con il tempo essi avrebbero trasformato per sempre la teoria della percezione. Tuttavia, in questa fase, il vecchio e il nuovo erano stretti contemporanei, e gli anni che assistettero all’emergere di nuovi modelli di sensazione furono anche quelli in cui la tradizione delle antiche dottrine continuò a procedere come prima. In The Anatomy of Melancholy (1621), ad esempio, si trova una descrizione delle facoltà vitali che è ancora largamente simile a quella dei dottori medioevali. Dopo aver definito la potenza vegetativa, Robert Burton passa alla potenza percettiva, osservando che «la facoltà sensibile [...] è per dignità tanto al di sopra delle altre, quanto un animale è superiore a una pianta, poiché quello possiede [anche] le facoltà vegetali»!. Questa proposizione è puramente aristotelica. Tra i viventi, essa stabilisce, si possono distinguere quelli che si nutrono da quelli che, oltre a nutrirsi, percepiscono; i primi possono essere definiti piante, mentre i secondi — razionali o irrazionali che siano — saranno invece animali. L’intellezione, secondo la medesima dottrina, segnala un livello di attività ancora più alto, quello che separa l’uomo dagli animali, mentre gli esseri senzienti possono esser distinti, a causa delle loro sensazioni, dagli enti meramente vegetativi. Nel giro di pochi anni, come è noto, la dottrina classica della sensazio-
ne sarebbe stata contestata dal pensatore che più spesso d’ogni altro è stato considerato il padre dell’età moderna in campo filosofico. A partire dalle Regulae ad directionem ingenti, che si crede siano state composte prima del 1628, Descartes dichiarò che l’indubitabile fondamento dell’intera conoscenza poteva consistere unicamente, nell’attività rappresentativa propria dell’ente razionale, attività ch’egli chiamava, con un termine insieme vecchio e nuovo, cogitatio, «pensiero»°. Come avrebbe successivamente chiarito, tale «cogitazione» non poteva essere contrapposta alla percezione nel modo in cui l’«intellezione» dei dottori medioevali era stata distinta, almeno in linea di principio, dalla «sensazione». Questo perché la percezione, per Descartes, era — in ogni senso — un atto dell’«io» capace di rappresentazione, consapevole e pensante; per lui, ogni sensazione umana era, in altre parole, un atto di cogitazione. «Con la parola “pensiero” [cogi-
tationis nomine]», così spiegava il filosofo nel 1x principio della prima parte dei suoi Principia philosophiae, «intendo tutto ciò che accade in noi in
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quanto ne siamo consapevoli, fin quando ve n’è in noi coscienza» [omni4, quae nobis consciis in nobis fiunt, quatenus eorum in nobis conscientia est]»7. Nel secondo gruppo delle Repliche, egli fu ancor più esplicito. Parlando dell’espressione cogitatio, dichiarò: stutto ciò ch’è talmente in noi da esserne immediatamente consapevoli. Dunque, sono pensieri tutte le ope-
razioni della volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione e dei sensi» (Cogitationis nomine complector illud omne, quod sic in nobis est, ut ejus immediate conscii sumus. Ita omnes voluntatis, intellectus, imaginationis et sensuum operationes sunt cogitationes)®. La definizione cartesiana di cogitazione non poteva che trasformare la natura della sensazione qual era stata tradizionalmente intesa. Nelle tradizioni classica e medioevale, la percezione era stata la facoltà condivisa da tutti gli animali, non meno da quelli pensanti che da quelli incapaci di pensiero. Per Aristotele e i suoi successori, gli animali s’incontravano tutti, per detinizione, sul terreno dell’attività un tempo detta aisthesis. La definizione cartesiana della mente consapevole erigeva invece in questo ambito un’in-
sormontabile barriera. Una volta che la sensazione caratteristica degli esseri umani venne intesa quale un modus cogitandi come tutti gli altri, essa non
poté aver nulla a che fare con le molteplici operazioni eseguite nel mondo degli animali. Questi avevano offerto a innumerevoli pensatori classici e medioevali chiare dimostrazioni dell’esistenza di facoltà percettive comuni agli animali razionali e irrazionali. Per Descartes, invece, imovimenti degli animali inumani recavano testimonianza di una natura meccanica dalla quale la coscienza era per definizione assente: si trattava di automi costruiti dal-
la mano di Dio ma assolutamente privi di una mente — «animali-macchina», come il filosofo della coscienza ripeteva insistentemente?. Era una nuova prospettiva, dalla quale veniva progressivamente riesaminato ogni aspetto della teoria classica della percezione, l’idea dell’anima sensitiva non meno della teoria dei sensi individuali. Alcuni dei termini più antichi poterono essere conservati; altri, invece, furono presto messi da parte. Fra quelli verso i quali la teoria cartesiana non poteva certo essere gentile, c’era il primo dei sensi interni, che, nelle descrizioni medioeva-
li della vita animale, aveva collegato le facoltà basse alle facoltà alte dell’anima sensitiva. Burton gli riconosceva ancora la collocazione classica, e gli
attribuiva le antiche funzioni. In Det sensi interni, egli lo identificava come «il senso comune», «il giudice o l’arbitro di tutto il resto, e grazie al quale noi discerniamo tutte le differenze degli oggetti». «Poiché», spiegava,
«non è grazie al mio occhio che so di vedere, e non è grazie al mio orec-
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chio che so di udire, ma grazie al mio senso comune, che giudica i suoni e i colori: essi sono solo organi che portano le apparenze di fronte al giudizio; dunque, tutti gli oggetti sono del giudizio, come pure tutti i doveri sono suoi»!9, Come «giudice» e «arbitro» di tutti i sensi, che non soltanto distingueva fra tutte le percezioni, ma percepiva anche il fatto stesso di percepire
(«di vedere» e «di udire»), il senso comune aveva svolto nella psicologia medioevale una funzione simile a quella del «pensiero» cartesiano. Si potrebbe persino credere che sia stata l’antica facoltà percettiva a fornire il modello logico per la facoltà cogitante che in epoca moderna sarebbe stata attribuita al conscio «io»!!. Le differenze fra le due facoltà sono però perfettamente chiare. La facoltà classica era sensitiva, non cognitiva e, in quanto capacità di percezione, era di pertinenza di un ambito in cui la consapevolezza animale e l’umana coscienza non potevano esser chiaramente distinte. Descartes non avrebbe mai ammesso l’esistenza di tale regione, e per questo motivo il medioevale «senso comune» non poté trovare stabile dimora nella teoria cartesiana della percezione. Come gli storici della filosofia hanno ampiamente dimostrato, comun-
que, Descartes non rigettò dall’oggi al domani la dottrina delle scholae medioevali. Il destino di ciò ch’egli chiamava «senso comune, che attribuiscono persino agli animali», non è che uno dei molti esempi!?. Come hanno osservato gli studiosi, anche se la dottrina cartesiana dei sensi inter-
ni «varia leggermente» da opera a opera, Descartes «mostrò sempre un cer-
to distacco verso l’espressione senso comune»!3. Nella xI1 regula e nella Diottrica, egli si riferisce al senso comune con un termine utilizzato dagli
autori della tradizione (nel primo di questi testi, leggiamo ad aliam quandam corporis partem, quae vocatur sensus communis e, nel secondo, cette
faculté qu'il appellent le sens commun)*4. Ikmondo e la Descrizione del corpo umano offrono ancora una tradizionale presentazione dei tre sensi interni (Sens commun, Imagination e Mémotre), e anche una lettera d’in-
certa datazione contiene un fuggevole accenno all’antica facoltà!5. Nella Seconda meditazione, però, Descartes considera il senso comune solo un nome per la «potenza immaginativa» (sensu communi, ut vocant, id est potentia imaginatrice)!®. Dal 1649, poi, il senso comune sparisce comple-
tamente dalla descrizione delle capacità sensitive: Le passioni dell’anima non fa menzione alcuna di tale facoltà, nell’analisi della sensazione!7. Nei suoi trattati, infine, Descartes non cita mai questa «facoltà medioevale». A volte, utilizza l’espressione «senso comune», ma in questi casi, come diver-
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si studiosi hanno indicato, essa sta a significare l’idea retorica latina di
«buon senso» e «sano giudizio» (le bon sens), che, fin dall'epoca dei Romani, era stato designato anche con l’espressione sensus communis!8. Dopo
Descartes, quest’accezione si dimostrò decisamente la più diffusa. A_partire dal xvi secolo, l’espressione «senso comune» perse progressivamente il suo valore di designazione d’una facoltà percettiva, acquisendo il significato che ancora oggi ha!9. Sul fatto che la teoria cartesiana sia stata una delle più influenti teorie della sensazione della prima modernità sussistono ben pochi dubbi, e tuttavia sarebbe un’infelice svista credere ch’essa fosse unica nel suo genere.
Negli anni durante i quali Descartes mirava a dar fondamento a tutta la conoscenza, fisica e metafisica, sull’attività dell’«Io» pensante, lo svilup-
po di un’altra corrente di pensiero era già a buon punto. Rispetto agli insegnamenti delle scuole medioevali, questo movimento filosofico era innovativo almeno quanto quello cartesiano, ma perseguiva una linea
d’indagine totalmente indipendente e, quanto meno nella sua descrizione della percezione, procedeva lungo una linea di pensiero che potrebbe in
un certo senso definirsi opposta alla strada seguita da Descartes. Non mirava a separare l’«10» conscio dal mondo intorno a lui, in quanto res cogitans contrapponibile alla res extersa; cercava invece di dimostrare come ogni intellezione resti per natura soggetta ai princìpi che governano il mondo puramente materiale. Inoltre, questo movimento non divideva
il regno animale — come faceva Descartes —, distinguendo gli esseri che possiedono la facoltà della ragione da quelli che ne difettano, poiché faceva della sensazione animale, nelle sue molte varietà, il principio fondamentale di tutte le cose.
Fu questa la via intrapresa dal meno noto e di poco più anziano contemporaneo calabrese di Descartes, Tommaso Campanella, che sviluppò la sua dottrina della natura sulla scia dell’influente filosofo e scienziato cinquecentesco Bernardino Telesio. Nel De sensu rerum et magia — che fu
composto nel 1589-1590, ma venne pubblicato in latino solo nel 1620 +, si trova una descrizione della percezione che è irriducibile agli insegnamenti delle scuole medioevali come pure alla dottrina che Descartes avrebbe di lì a poco, distinguendosene, elaborato. Campanella rifiuta inequivocabilmente la descrizione classica del «senso comune» come facoltà distinta responsabile del discernimento dei diversi tipi di qualità sensibile?°. Fedele alla filosofia della natura di Telesio, Campanella sostituisce alla psico-
logia scolastica una teoria materialistica per la quale esiste in tutte le cose
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un’unica sostanza vivificante, lo «spirito» (spirits), che negli animali scorre nelle diverse parti del corpo e, interagendo con le parti variamente molli e flessibili di questo, produce le numerose varietà della percezione?! Di qui la superfluità di un senso comune, che invece nella tradizionale dottrina dell’anima aveva unificato in un singolo principio le molteplici operazioni della facoltà percettiva. Secondo Campanella, non c’è alcun bisogno di supporre una facoltà specifica che medii tra i vari poteri sensitivi,
poiché esiste soltanto un unico spirito che attraversa l’intero corpo senziente; in altre parole, non c’è alcun bisogno di un senso comune, poiché non esiste che un senso, ed è per natura irriducibilmente comune. Come leggiamo nel Libro 11 del De sensu rerum et magia, «Idem ergo spiritus audit, videt, gustat, quandoquidem ex organis in organa ita accurrit»?? (Il medesimo spirito dunque ode, vede e gusta, poiché in tal modo passa di organo in organo). Campanella, comunque, riscrive la teoria dei sensi su aspetti più rilevanti di quanto lo sia il problema del loro numero. Dalle sue prime opere fino all’ultima, egli dà della percezione una descrizione che ditferisce radicalmente dagli insegnamenti tradizionali. L’antica dottrina si basava sulla teoria dell’«informazione» avanzata nel De anima*di Aristotele. Secondo l’insegnamento canonico della Scolastica, la percezione consiste nell’apprensione di una forma intelligibile in ciò che è percepito. L’analogia classica era quel-
la del sigillo, che lascia la sua immateriale impronta sulla cera in cui è impresso: come la materia informe acquisisce la figura del sigillo solo nella forma, così il potere percettivo, per la Scolastica, riceve la «specie» della cosa percepita, non adulterata da una qualche materia sensibile?3. Tale argomento, però,
conduce a conseguenze che — afferma Campanella — non sono sostenibili. Perché una forma sensibile passi dal percepito al percipiente — ragiona il filo-
sofo —, la forma della cosa percepita dovrebbe poter essere separata, sia pur per un momento, dalla cosa stessa, e proprio affinché essa possa «informa-
re» la facoltà percipiente. Questo comporta comunque delle assurdità, sia per quanto riguarda il concetto di ciò che percepisce, sia per la nozione di ciò ch’è percepito. Si consideri, in primo luogo, la condizione della cosa perce-
pita, in questa teoria. Nel momento in cui la forma passa alla facoltà senziente, essa tornerebbe necessariamente ad essere informe, e sarebbe immediatamente corrotta. Allo stesso tempo, anche la facoltà senziente perderebbe
se stessa: quand’essa ricevesse le forme di ciascuna delle cose che percepisse, diverrebbe quelle, disfatte e rifatte così come la cera si trova riplasmata a ogni
impressione d’un differente sigillo?4.
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In luogo della tradizionale dottrina della sensazione per «informazione», Campanella elabora una nuova teoria, che può essere efficacemente descritta, per contrasto, come una teoria della sensazione per «mutamen-
to». Sviluppata sulla base della filosofia naturale di Telesio, tale teoria evita ogni riferimento all’apprensione di forme ideali, definendo la percezione in termini puramente materiali, come il processo grazie al quale una cosa, quando è collocata in prossimità di un’altra, acquisisce qualcosa della sua consistenza fisica”). «Fra tante cose», scrive Campanella, «una sola asserisce bene: che non si faccia sensazione, senza che il senziente del sentito prenda similitudine»?°. Cosa significa avvertire un movimento, ricorda il filosofo, se non sentirsi lievemente mossi? E cosa significa avvertire della luce, se non sentirsi in parte illuminati? All’«esperienza poi ripugna», osserva ancora, questa dottrina, «ché per sentire il fuoco, non bisogna tutta la forma del fuoco pigliare, ma basta esser un poco scaldato»?7.
Questa circostanza colpiva il filosofo italiano quale un fatto di capitale importanza. Come Léon Blanchet ebbe ad osservare in un suo influente studio, per Campanella ogni percezione può essere colta quale «esito di una lievissima modificazione dello spirito vitale, che patisce l’azione esterna delle cose, e riproduce molto debolmente in sé i movimenti che di tali cose sono propri»?8. Percepire un oggetto esterno significa percepire, entro se
stessi, la forza stessa di ciò che si percepisce all’esterno. Significa esserne toccati: in questo senso, Campanella sosteneva che ogni percezione consiste in
un atto tattile (tutti li sensi esser tatto), che trasmette a un ente la natura di
un altro?9. La prova poteva essere prolungata ad infinitum, sicché l’eloquente pensatore non si peritava di ridurre gli esempi per ragioni di economia. Tuttavia, commentò una volta, non c’è bisogno di guardar più in là di
«questa penna» che «scrive»: «lo stesso oggetto imprime se stesso», lasciando traccia di sé nei suoi movimenti sul foglio inchiostrato39. La traccia, per Campanella, è essenziale. Essa testimonia di un’attività dell’essere senziente che non dev'essere trascurata, ove s’intenda cogliere pienamente la struttura della percezione. La sensazione non può essere
ridotta a un mero mutamento minore, poiché essa implica anche una dimensione attiva entro l’ente mutato: la «percezione della passione» (perceptio passionis), in cui la lieve trasformazione viene a essere registrata — ancorché debolmente — dal paziente. Si tratta di un punto ch’era stato ripetutamente sottolineato da Telesio, il quale insegnava che tutta la sensazione consiste nella «percezione della propria passione» (propriae passionis perceptio)3!. Campanella trace però da tale principio un’innovativa conse-
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guenza, che interpreta quell’alterazione fisica che è il «mutamento» come la genesi di una «coscienza» — sebbene d’una coscienza che, contrariamente a quella cartesiana, non può essere definita un atto di pensiero. Come la percezione — così ragiona Campanella —, ogni sensazione implica un certo grado di consapevolezza. Percepire significa subire un’influenza, e «discer-
nere», «giudicare» e «riconoscere» (digroscere), per quanto debolmente, che si è sottoposti a un cambiamento3?. Tale consapevolezza a Campanella non sembrava di natura specificamente umana. Nella sua più famosa dichiarazione, ipotizzava precisamente l’esistenza di un «senso delle cose» (sersus rerum), e, in tutta evidenza, egli dava a questa tesi un significato letterale. Come chiaramente afferma nel Compendium physiologiae, composto verso la fine della sua vita, «[n]oi affermiamo che il senso [o la sensazione, sersus] di cui tutti gli animali sembrano forniti e che li distingue dagli oggetti inanimati si trova in ogni cosa»33. La prova, spiega, sta nell’«azione reciproca» per la quale «tutte le cose si muovono verso il contrario e fuggono dal contrario»34. Egli sviluppò approfonditamente questa tesi, tanto nel De sensu rerum et magia quanto nella Metafisica, condannando Aristotele e i suoi seguaci per aver stoltamente limitato il campo della percezione al dominio della vita animale. Come ricordava, le piante reagiscono a quanto le circonda, crescendo ad esempio in direzione della luce del sole, o allontanandosene, a seconda di ciò ch’esse sentono di aver bisogno, e avvicinandosi alle — o evitando le — piante verso le quali esse avvertono una naturale simpatia o antipatia35. Per il filosofo italiano, però, anche i più piccoli e i più grandi esseri provano sensazioni. I movimenti delle acque dimostrano come anch'esse percepiscano le affezioni patite; il magnetismo è la prova dell’esistenza della percezione fra le pietre; la reazione dell’aria a ciò che risuona entro di essa ci dice molte cose sulle sue facoltà sensitive... Secondo Campanella, un’ininterrotta catena di percezione si stendeva dalla materia — che percepisce desiderando le forme, di cui è priva — alle sensazioni dei corpi celesti che orbitano nei cieli senzienti. Ogni prova conduce a una singola, sorprendente tesi, che
Campanella non esita a formulare ripetutamente: «È necessario dichiarare», scrive il filosofo, «che il mondo è un animale altamente senziente» (mundum esse animal maxime sensitivum)3°. Nelle sue parti, si debbono semplicemente distinguere differenze di grado, ammettendo che «la sensibilità è in alcune cose più chiara e più vivace, in altre più oscura e più ottusa»37.
Nella Metafisica della sua maturità, Campanella ne traeva l’unica conseguenza che tale principio implicava per la struttura di tutte le cose. Il senso,
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sosteneva in quell’opera, è un principio di esistenza, senza il quale nessuna
cosa, terrestre 0 divina, potrebbe essere. Nel Libro vi del suo trattato sulla
filosofia prima, egli spiega dunque che l’«essenza» (essentia) di ogni cosa che è, consiste nel «senso» (sersus) non meno che nella potenzialità (potentia)e nell'amore (4207). Senza «senso» — o, come pure scrive nel testo, «sapienza» (sapientia)—, e particolarmente senza senso e sapienza di sé, nessun ente saprebbe preservarsi e continuare a essere: nessun ente sarebbe consapevole di se stesso, e quindi nessun ente saprebbe come protegger se stesso quanto meglio possibile. Il «senso» — ci viene spiegato — consiste perciò in una sorta di conoscenza. Ma, per Campanella, questa non era necessariamente di carattere intellettuale, né implicava la rappresentazione di alcun oggetto. Significativa è la sua terminologia a questo proposito: nella Metafisica, come altrove, egli usa costantemente il termine agostiniano rosse per descrivere la consapevolezza di sé che ogni cosa possiede, non quel cogitare che presto Descartes avrebbe evocato per la conoscenza che la mente consapevole pos-
siede nella rappresentazione dei propri pensieri a se stessa. «Vediamo che l’ente è», scrive Campanella, «perché sa di essere, e che non v’è ente che sia inconsapevole di sé, giacché per sé combatte contro
enti distruttivi che non gli sono sconosciuti, poiché principio dell’essere e della preservazione dell’essere è la sapienza» (Ecce videmus quidem ens esse, quia novit esse: et nullum ens reperiri sui inscium; nam pro se pugnat
contra non ignota sui destructiva, quia essendi et conservandi esse princi-
pium sapientia est)3*. Il filosofo trovava nella sensazione il grado ultimo dell’«auto-conservazione» (conservatio sui) che Telesio aveva posto a fondamento della filosofia naturale39. È in sostanza una formulazione metafisica di un antico principio stoico. Tendendo a ciò che loro giova ed evi-
tando quanto li danneggia, gli esseri preservano se stessi — sostiene Campanella — poiché percepiscono ciò che reca loro affezione e perché, e dunque al contempo percepiscono se stessi.
Campanella si sforza di distinguere fra due tipi di percezione che di fatto spesso coincidono, ma rimangono tuttavia, come’egli dimostra, formal-
mente distinti. Su questo punto, il filosofo italiano non divergeva soltanto da Aristotele, ma anche da Telesio. Secondo Campanella, non è sufficiente ipotizzare che la sensazione si verifichi grazie a un «lieve mutamento»
mediante il quale il corpo senziente acquisisce qualcosa della natura del percepito, poiché entro questi termini non sarebbe possibile dar conto dell’intera struttura della percezione come «percezione di una passione»4°. In ogni atto di sensazione, l’affezione subita dalla facoltà senziente può certamen-
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te intendersi come il risultato di tale trasformazione: un ente ha alterato la consistenza di un altro. Ma la percezione in cui la sensazione giunge a essere registrata in quanto tale, non può esser spiegata in termini di «mutamento», giacché sarebbe contraddittorio supporre che un ente, pur rimanendo se stesso, possa trasferire se stesso a se stesso, nello stesso modo in cui il caldo, ad esempio, passa dalla fonte di calore alla cosa riscaldata. La «percezione di una passione» è una percezione d’altro ordine, poiché rivela un’essenza che non è trasmessa dall’esterno, bensì percepita dall’interno: non un
«senso addotto» (sensus additus) — scrive Campanella — ma un «senso innato» o «indotto» (sensus inditus). Essa svela quel «senso di sé» (sersus 542) ch'è condiviso — debolmente o intensamente — da tutto ciò che esiste4!. Che il «senso addotto» e il «senso indotto» possano essere simultaneamente presenti nell’atto di percezione, è fuor di dubbio. Il classico esempio del sentir caldo quando ci si sente riscaldati è sufficiente a illustrare la regola: in questo caso, la sensazione esterna di ciò ché è caldo coincide con la sensazione interna di un’alterazione nel proprio essere. Tuttavia, l’equi-
librio fra i due livelli di percezione è cosa delicata, e può anche accadere — come il filosofo sottolinea ripetutamente — ch’essi divergano. Significativamente, esaminando la natura della sensazione per mutamento, Campanella parla in modo sistematico di una «lieve percezione», sostenendo che,
perché vi sia percezione, il corpo senziente dev'essere «trasmutato in parte, non integralmente» da ciò che percepisce4. C'erano buone ragioni per specificarlo. Se la trasmutazione non è parziale, ma completa, il percettore diverrà il percepito, e ad attestare l’evento della trasformazione non resterà nessun sé. Un «senso acquisito», allora, sovrasterà e cancellerà ogni «senso innato»; un eccessivo sensus additus coprirà ogni traccia
di sensus inditus, volgendo un sersus sui inditus in un sensus sui abditus. Prendiamo come esempio un uomo che sia stato morso da un cane rabbioso: sopraffatto dalla qualità sensibile in tal modo trasmessagli, costui diverrà in seguito rabbioso proprio come il cane, senza percepire con chiarezza la trasformazione subita. Al limite, una percezione eccessivamente potente potrebbe anche condurre a un’alterazione estrema, in cui è addirittura il «sé» a svanire completamente, almeno in una delle sue forme: quel
«mutamento nel modo di sentire» (mutare sentiendi modum) che Campanella usò per definire l’evento della morte43.
Comunque, anche se la modifica nella percezione non è «lieve», ma troppo lieve, la percezione indotta e quella addotta possono divergere. Prendiamo il caso di una fonte di calore tanto modesto da poter essere a
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malapena avvertito. L’ente che entra in contatto con esso lo percepirà, ne
sarà dunque mutato e percepirà, nella parte affetta, la passione di tale muta-
mento; ma la percezione potrebbe essere troppo debole o troppo rapida per essere registrata come tale dallo spirito senziente. Campanella insiste ripetutamente su questo punto: è un grave errore scambiare ciò ch’è trop-
po piccolo per esser percepito con ciò ch'è semplicemente impercettibile. Aristotele sosteneva che le ossa, le corna e i peli fossero completamente
insensibili, ma in ciò errava: «Quando li si taglia, essi sentono un certo dolore, ma, a causa della loro densità, non comunicano questa passione allo spirito senziente, e la parte lacerata non comunica sufficientemente la sua sensazione all’altra parte»44. È ciò che accade quando le pulci mordono
debolmente un uomo mentre dorme. Quest'uomo «pate quel che non sente», ma la parte morsa invariabilmente registra il cambiamento che essa ha
subito4. Tutto dipende dal grado di «percettibilità» (perceptibilitas) che definisce un mutamento. Alterazioni di una certa consistenza saranno sia patite che chiaramente registrate dallo spirito senziente, ma un'infinità di più minute trasformazioni sarà subita e percepita troppo fuggevolmente
per essere chiaramente sentita come tale. Sensus additus e sensus inditus, «sensazione acquisita» e «sensazione innata», la passione e la sua percezione possono perciò essere sia congiunti che disgiunti. Possono essere uniti nell’esperienza di un’alterazione perce-
pita come tale, ma possono anche divergere, quando un «senso addotto» sopraffaccia un «senso indotto», o dimostri che una modificazione è trop-
po piccola perché il suo verificarsi possa essere adeguatamente percepito. In ogni caso, una cosa è certa: in quell’«animale altamente senziente» che è il mondo di Campanella, le percezioni non mancano mai. Echeggiando e riscrivendo il celebre apoftegma kafkiano sulla speranza, si potrebbe arri-
vare a condensare il pensiero di questo filosofo della prima modernità nella seguente proposizione: «C’è abbondanza di sensazioni — ma non per noi» (0, quanto meno, non necessariamente per noi). È vero che potrebbero esse-
re nostre: è il caso in cui la percezione di calore coincide col nostro divenire riscaldati. Ma v’è anche il caso in cui il legname è riscaldato al punto da cessare, con la combustione, di esser se stesso; e vi sono tutti i riscaldamenti e raffreddamenti minori, che, pur essendo sentiti dalle parti del corpo
riscaldate e fredde, restano tuttavia troppo modesti per essere attribuiti ad uno spirito senziente sì ch’esso li assuma come propri. Per Campanella, v'è
mutamento ovunque e, con esso, tanto «sensazione» quanto «sensazione di sé», sensus e sensus sui; e tuttavia i «sé» non cessano di mutare.
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Nella sua epoca, Campanella non era il solo a rilevare nel mondo una quantità di percezioni in eccesso rispetto alle menti conscie alle quali sarebbe stato possibile attribuirla. Francis Bacon, il suo quasi-contemporaneo,
osservava — in un’opera pubblicata nel 1623 — che, ove ci si fermassse per
un momento a esaminare le occorrenze sensitive tra i corpi, o anche quel-
le interne ai singoli organismi, si dovrebbe ammettere che, per usare le sue
parole, le «percezioni» (perceptiones) si dimostrerebbero di gran lunga più numerose delle «sensazioni» conscie (sersus). Bacon considerava questa circostanza «un fatto di grande importanza», troppo frettolosamente trascurato dalle autorità classiche che avevano trattato la questione della sensazione. Verso la fine del Libro 1v del De augmentis scientiarum, egli esaminava il problema abbastanza dettagliatamente: I filosofi avrebbero dovuto premettere ai loro trattati sul senso e sul sensibile una buona spiegazione della differenza fra percezione e senso, poiché si tratta di una questione fondamentale. Vediamo infatti come in quasi tutti i corpi naturali sia presente un’evidente capacità [vm] di percepire, come pure una sorta di scelta innata di accogliere le cose amiche e fuggire le nemiche. Né si parla soltanto delle percezioni più sottili; come quando il magnete attira il ferro; la fiamma si attacca alla nafta; una bolla accostata ad una bolla si unisce a questa; un raggio di luce è respinto da un oggetto bianco; il corpo dell’animale assimila ciò che è utile, espelle quel che è inutile; ete. Dal momento che nessun corpo che sia mosso verso un altro corpo né lo muta né ne viene mutato, ove la percezione reciproca non preceda l’operazione, a cosa serve enumerare tutti i casi simili? Il corpo percepisce i pori attraverso i quali si insinua; percepisce l’assalto dell’altro corpo, cui cede; quando si ritrae, percepisce la rimozione dell’altro corpo, dal
quale era trattenuto; percepisce l’interrompersi della propria continuità, cui per un certo tempo resiste; ovunque, insomma, v’è percezione. L’aria, poi, percepisce tanto inten-
samente il caldo e il freddo che la sua percezione è di gran lunga più sottile di quella del tatto umano, il quale è tuttavia considerato la misura del caldo e del freddo. Dunque,
si coglie una duplice colpa degli uomini, a proposito di questa dottrina: in primo luogo il fatto che per lo più la lasciarono intatta’ non studiata (sebbene fosse un nobilissimo oggetto d'interesse); in secondo luogo, perché quanti volsero l’animo a tale contemplazione andarono ben oltre la convenienza, fino ad attribuire un senso a tutti i
corpi, sì che per loro svellere un ramo d’albero divenne quasi un atto che — a guisa di Polidoro — la pianta ne soffrisse. Tuttavia, i filosofi esplorare la differenza fra percezione e senso non soltanto a mezzo ne fra sensibili e insensibili, sul piano del corpo intero (come quello
sacrilego, per tema avrebbero dovuto della comparaziodelle piante e degli
animali), bensì anche osservare, nello stesso corpo sensibile, cosa sia in questione per-
ché tante azioni vengano tuttavia eseguite in totale assenza di senso: come gli alimenti vengano digeriti ed espulsi; come gli umori e i succhi vengano portati in alto e in basso; come il cuore e la pulsazione battano; come i visceri, quali officine, compiano ogni loro opera; e come tutte queste cose — e moltissime altre — avvengano tuttavia in assenza di senso. Gli uomini, però, non seppero vedere con sufficiente acutezza quale sia l’a-
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zione del senso; né quale tipo di corpo, quale tempo, quale ripetizione d’iimpressione siano richiesti a questo scopo, perché ne segua dolore o piacere. Sembra, insomma, ch’essi non conoscano affatto la differenza fra semplice percezione e senso; né in che misura possa esservi percezione in assenza di senso. Né questa è infatti una mera controversia terminologica, bensì una questione concernente una circostanza davvero di grande momento.
Potrebbe essere seducente leggere la descrizione che Bacon dà di coloro che «andarono ben oltre la convenienza, fino ad attribuire un senso a
tutti icorpi» come un’allusione all’opera della controparte italiana del filosofo inglese, controparte chie aveva appena pubblicato quel «celeberrimo trattato sulla dottrina della diffusione universale della sensazione», il De
sensu rerum et magia4. Tuttavia, le differenze dottrinali fra i due pensatori, comunque reali, non dovrebbero indurre a trascurare la specifica circostanza sulla quale entrambi insistono: il fatto che «nessun corpo che sia mosso verso un altro corpo né lo muta né ne viene mutato, ove la percezione reciproca non preceda l’operazione»; che «ovunque, insomma», come scrive Bacon, «vi sia percezione» (ubique denique est Perceptio), perfino — o specialmente — in assenza di ogni chiara consapevolezza e di ogni
«senso». È nel mezzo di percezioni irriducibili alla coscienza che gli animali senzienti, per Bacon come per Campanella, trovano se stessi: nel mezzo di un'infinità di percezioni «eseguite in totale assenza di senso», da quelle che attestano i rapporti fra corpi sensibili e insensibili, a quelle ope-
rate all’interno dei corpi individuali, per mezzo delle quali «gli alimenti vengono digeriti ed espulsi; [...] gli umori e i succhi vengono portati in alto e in basso; [...] il cuore e la pulsazione battono; [...] i visceri, quali officine, compiono ogni loro opera». E tuttavia, insiste Bacone, non basta rilevare l’ubiquità della percezio-
e. Questo fatto solleva una questione filosofica che «gli uomini [...] non seppero vedere con sufficiente acutezza»: la natura dell’«azione del senso».
È una questione che il filosofo inglese fu tra i primi a presentare come tale. Sorta nel xvII secolo, essa non non è ancor stata risolta una volta per tutte,
ma ha determinato molte risposte, sviluppatesi nel corso di secoli. Una di tali risposte trovò espressione nel progetto formulato da Descartes in quegli stessi anni: separare completamente il problema della «percezione» da quello del «senso», contrapponendo le azioni inconsce eseguite nel mondo meccanico agli atti consci compiuto dall’«io» cogitante, così come l’ente esteso può esser contrapposto — nei più implacabili termini metafisici — all’ente pensante. Una diversa risposta trovò le sue prime formulazioni in
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Campanella e in Bacon. Questo progetto era fondamentalmente diverso, poiché collocava la genesi del senso nella percezione stessa, investigando «in che misura possa esservi percezione in assenza di senso», e conseguentemente in quale punto un’affezione inconscia possa passare in una sensazione conscia. Il progetto, in contrasto con quello cartesiano, intendeva interpretare la «differenza fra percezione e senso» non come un’opposizione, bensì come una soglia, non come una barriera fissa, ma come una porosa membrana in grado tanto di congiungere quanto di disgiungere l’insensibile e il sensibile, legando ogni stato di coscienza all’infinità di
incoscienza dalla quale sorgeva, e alla quale sarebbe potuto sempre tornare. Con l’andar del tempo, questo progetto si sarebbe spinto lontano, fino a comprendere termini e dominii che né Campanella né Bacon avrebbero potuto immaginare, e fino all’inevitabile scoperta di ulteriori percezioni, non identificate in quell’«animale altamente senziente» che fu il mondo della prima modernità.
Capitolo diciottesimo Sui meriti dei proiettili
In cui Leibniz diverge da Descartes e da Locke, richiamando alla mente lenti ma possenti movimenti, altamente degni d’attenzione
Matematico non meno che metafisico, logico come pure diplomatico, teologo, giurista e, non da ultimo, filologo — di particolare eccellenza nello studio del cinese —, Gottfried Wilhelm Leibniz coltivò molte delle branche della scienza conosciute alla sua epoca, e in poche fra loro si può dire egli non abbia aggiunto molto, in una delle diverse lingue europee cui egli
affidava le sue riflessioni. È forse soltanto naturale che fra i molteplici argomenti sui quali il secentesco filosofo tedesco si pronunciò più d’una volta,
vi fosse anche la venerabile disciplina alla quale egli indubbiamente sapeva di avere in molti modi contribuito: la storia della cultura. Le sue osservazioni in questo campo — come del resto in ogni altro — sapevano essere tanto penetranti quanto sorprendenti. In una nota tipicamente concisa e provocatoria, ma che non ha sempre ricevuto la meritata attenzione, Leibniz ebbe una volta a sostenere che le scoperte dei filosofi della prima modernità sarebbero state meglio comprese nei termini tradizionalmente riservati ai manufatti di un ben preciso carattere: le armi, e, in particolare,
gli strumenti tecnologicamente sofisticati della guerra moderna!. Come spiegava Leibniz, si potrebbe distinguere fra almeno due tipi di armi, nella scienza. Un primo insieme di scoperte concettuali nella fisica e nella metafisica moderna può essere ammirato per la sua velocità, mentre un secondo insieme può essere lodato per la sua intensità. Gli elementi della prima classe di creazioni filosofiche e scientifiche seguono la traiettoria della palla di piombo (pila plumbea) lanciata da una fionda o da un’arma da fuoco. Sono molto rapidi, e in ciò risiede la loro forza. Il secondo tipo
di creazione teoretica può esser paragonato al proiettile scagliato dalla catapulta (catapulta missus). Tale proiettile si muove in effetti più lentamente di quanto faccia la palla di piombo, e tuttavia, nonostante la sua minor velocità, essa possiede una qualità negata al pallettone lanciato dalla fionda e dal fucile: un proiettile, dopo tutto, non è nulla se non è potente e,
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conseguentemente, può forare quasi ogni oggetto. Nel suo breve scritto, Leibniz non esitava a fornire esempi per i tipi d'arma ch’egli aveva individuato. Fra i creatori di palle di piombo in campo scientifico, scriveva, si debbono classificare Descartes (per le sue teorie della fisica) e Hobbes (in relazione alla sua filosofia morale). Come esempio dei proiettili filosofici catapultati nella prima modernità, ci si dovrebbe invece volgere a Campanella e a Bacon. Il loro pensiero, osservava Leibniz, aggiungendo una metafora alla sua similitudine, sembra «raggiungere le nuvole», mentre quello di Descartes e di Hobbes si limita a «strisciare sul suolo»?.
Queste analogie erano ovviamente polemiche, e vanno intese come provocazioni. Sarebbe tuttavia un errore concludere che Leibniz prendesse inequivocabilmente le distanze da Descartes, primo «rettile» della modernità filosofica, e dai suoi discepoli, che giunsero a trasformare le sue terragne teorie nei princìpi di una vera e propria scuola cartesiana, da Louis de La Forge a Nicolas Malebranche e Antoine Arnauld. Esistono infatti buone ragioni perché gli storici della filosotia considerino solitamente Leibniz, come pure il suo contemporaneo Spinoza, una delle più importanti figure della tradizione razionalista del pensiero moderno inaugurata da Descartes; tra la filosofia leibniziana e quella cartesiana vi sono inequivocabili punti di prossimità dottrinale, se non d’identità, concernenti princi-
palmente la natura di quella res cogitans che i filosofi della prima modernità individuavano come anima umana e, più precisamente, l’attività di
quell’ente elusivo col quale la identificavano: la «mente» (mer5) 0, come fu poi chiamata nel quadro terminologico del nuovo gergo cartesiano, lo «spirito» (esprit). Come Descartes prima di lui, Leibniz riteneva la mente sia immateria-
le che immortale. Egli pensava inoltre fosse distinta per natura dal corpo, nonché mossa da princìpi che nulla doveyano alle leggi della forma corporea, né infine si stancava di ripetere che, nella sua capacità intellettuale,
la mente attingeva a fonti di conoscenza che non potevano ridursi alla percezione sensoriale. A dire il vero, Leibniz non dubitava che «i nostri sensi esterni» (mos sens externes), com'egli li definiva, fossero importanti per
l’apprensione di «oggetti particolari e delle loro qualità, come colori, suoni, odori, gusti, e di alcune qualità qualità tattili come il caldo, il freddo, etc.»3. Tuttavia, aggiungeva, «esistono altre, più intelligibili concezioni», che esorbitano dall’azione di qualunque senso individuale esterno. Un esempio è «l’idea di numero», che non può essere percepita da nessuno
dei sensi esterni, quali la vista o il tatto. Per spiegare tali percezioni —
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sosteneva Leibniz, evocando un concetto classico —, ci si deve volgere a una facoltà dotata di maggior capacità di astrazione: «il senso comune ed interno» (le sens commun et interne)t. Ricordava poi con insistenza come
l’intelletto dell’uomo benefici soprattutto di quella «luce naturale» (lumière naturelle) che è la sua «comprensione» (entendement): la facoltà per mezzo della quale la mente, naturalmente dotata di idee innate e intellettuali, può arrivare a cogliere le necessarie verità che costituiscono il fondamento di ogni scienza dimostrativa, dall’aritmetica alla geometria alla meccanica). Almeno in apparenza, anche Leibniz conveniva con i cartesiani su un principio che era fondamentale nella dottrina della loro scuola, ovvero il principio per cui «la mente pensa sempre» (mens semper cogitat). Per i
discepoli di Descartes, la verità di questa proposizione era indubitabile. Essi insegnavano che l’intellezione costituiva l’attributo e l'essenza primaria della mente. È perché pensa, consapevolmente rappresentandosi delle idee — sostenevano —, che l’essere umano dev'essere considerato res cogitans, in contrapposizione all’altro ordine della sostanza, la res extersa. In realtà, non sarebbe inesatto asserire che lo stesso Descartes abbia avanzato più di una singola tesi in merito a diversi delicati aspetti della sua teoria della cogitazione, particolarmente quelli relativi al problema della rappresentazione senza oggetti determinati. Ad esempio, parecchie pagine delle
Passioni dell’anima suggeriscono l’esistenza di cogitazioni — specialmente della volontà — non riferibili ad altri movimenti che a quelli dell'anima stessa°. Tuttavia, le questioni sollevate da tali ambiguità, non toccavano la fondamentale tesi cartesiana in merito alla struttura della facoltà conscia. Senza i suoi pensieri, come costantemente insegnavano Descartes e i suoi discepoli, la mente non sarebbe tale. Non tutti i pensatori del xvi secolo, però, osservavano questo princi-
pio. Nel 1690, John Locke, che era solo pochi anni più anziano di Leibniz, lo mise in dubbio nei termini più energici. Così il filosofo inglese scriveva nel Libro 11 del Saggio sull’intelletto umano: «Ora, per sapere se l’anima pensa sempre sia una proposizione autoevidente, così che ciascu-
no le conceda il proprio assenso non appena venga formulata, mi appello a tutto il genere umano»7. Locke non esita poi a chiarire la sua opinione in materia: «Confesso che a me», scrive con modestia, «è toccata una di
quelle anime fiacche, che non sempre impegna se stessa nel contemplare
le idee»8. Locke vuole anche concedere che «nello stato di veglia l’anima
di un uomo è sempre alla presenza di un pensiero, perché questa è una
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condizione essenziale alla veglia»?. Tuttavia - come nota Locke —, diversamente dall’«infinito Creatore e Conservatore di tutte le cose», gli esseri umani finiscono inevitabilmente per dormire e sonnecchiare'°. Possono allora sognare, e in qualche misura percepire e ritenere, in tal modo, pensieri di qualche sorta. «Ma in che misura essi si presentino, per la maggior parte, stravaganti e incocrenti», commenta Locke, «e quanto siano poco conformi alla perfezione e all’ordine che contraddistinguono un essere razionale, non è certo necessario lo sî spieghi a quanti hanno familiarità con i sogni»!". In ogni caso — aggiunge —, nel sonno anche queste
visioni «fatue e irrazionali» possono essere assenti. Secondo Locke, «gli uomini per lo più trascorrono la maggior parte del loro sonno senza sognare»; e almeno un gentiluomo, ch’egli conosceva personalmente e che era «cresciuto applicandosi allo studio», gli disse di «non aver mai sognato in tutta la sua vita, fino a che, all’età di venticinque o ventisei anni, non gli capitò di avere la febbre, dalla quale, all’epoca, era guarito da poco tempo»!?. Agli occhi di Locke, s’imponeva una chiara conclusione: «sebbene il pensiero sia visto più di ogni altra cosa come l’azione propria dell’anima, tuttavia non è necessario supporre», così ragionava, «che l’anima pensi sempre, e sia sempre in azione». Infatti, spiegava Locke, «non è necessario per l’anima pensare sempre, più di quanto non lo sia per il corpo
muoversi sempre; infatti per l’anima la percezione delle idee (così come io l’intendo) equivale a ciò che il moto è per il corpo: non è il suo carattere peculiare, la sua essenza, è una delle sue operazioni»!3.
Leibniz conosceva bene il Saggio di Locke. Sembra l’avesse notato molto presto, subito dopo la sua pubblicazione nel 1690, e, quando acquisì la
traduzione francese (eseguita da Pierre Coste) del trattato, che apparve ad Amsterdam nel 1700, poté porre la massima cura nella lettura di quel «Saggio filosofico» inglese, «in cui si diméstra» — così recitava il sottotitolo francese — «quale sia l’estensione delle nostre conoscenze certe, e il modo in cui vi perveniamo»!4. Le riflessioni di Leibniz sul trattato inglese trovano la loro forma conclusiva nei Nouveaux essais sur l’entendement hbumain, che si pensa siano stati completati nel 1709 o subito dopo, anche se, pro-
babilmente, il filosofo tedesco formulò gran parte della sua risposta a Locke una buona decina d’anni prima. Una sua lettera, indirizzata a Tho-
mas Burnett nel 1698, contiene già una breve riflessione su Ar Essay Concerning Human Understanding, che esprime in forma concisa molti degli argomenti che in seguito riempiranno i capitoli dei quattro volumi dei Nouveanx essais. Dalla sua lettera all’amico, si evince che Leibniz era sta-
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si
to particolarmente stimolato dal Libro n dell’Essay di Locke, e specialmente dal suo rifiuto della tesi cartesiana per cui la mente pensa sempre. L'argomentazione del filosofo inglese aveva lasciato Leibniz assolutamente insoddisfatto. «Confesso», Leibniz spiega a Burnett, «di condividere l’opinione di coloro che ritengono che la mente pensi sempre». Leibniz, tuttavia, si propone di far ben più che comunicare le sue Opinioni in materia. Nella sua lettera dichiara infatti di poter anche dimostrare il fatto, e proprio in riferimento al fenomeno invocato da Locke: lo stato di sonno. Leibniz ammette l’esistenza del sonno senza sogni; concede inoltre che «vi
sono persone che non sanno cosa sia un sogno»'5. Dall’assenza di ogni sogno conosciuto — continua — non si può però inferire che nell’anima vi sia una cessazione d’ogni movimento. Egli presenta la cosa in primo luo-
go come un fatto di principio. Come nella scienza delle forme corporee si deve ammettere l’esistenza e la perpetua persistenza di «piccoli corpi e movimenti insensibili» (petzts corps et [...] mouvements insensibles) in virtù dei quali un’assoluta assenza di movimento è inconcepibile, così nello studio della mente si deve concedere vi siano percezioni minute «che non sono sufficientemente avvertibili da potersene ricordare»: l’equivalente, in
psicologia, delle particelle in fisica. Con un’invenzione terminologica e concettuale che era destinata ad avere rilevantissime conseguenze filosofiche, Leibniz definì queste minute modificazioni «piccole percezioni» (petites perceptions)7. Esse costituiscono una classe di affezioni psicologiche
trascurata dai filosofi della coscienza: le percezioni che per natura sono «troppo deboli per essere avvertite, sebbene siano comunque sempre trattenute, nel mezzo di un’infinità d’altre piccole percezioni che continuamente abbiamo» (parmy un tas d’une infinité d’autres petites perceptions que nous avons continuellement)!*. Leibniz adduce numerose prove che, secondo lui, dimostrano al di là di
ogni dubbio l’esistenza di tali «piccole percezioni». Si considerino quelle persone «che si sono addormentate in un luogo freddo»: queste affermano, una volta sveglie, che da addormentate «avevano sensazioni confuse e deboli». Il
filosofo trae un altro esempio dalla sua stessa esperienza: «Conosco una persona che, quando si spegne una lampada che tiene accesa di notte nella sua camera, si sveglia [...]. Qui, dunque», continua Leibniz, «c’è qualcosa di più preciso, che rende evidente come, se non si avessero sempre percezioni, non
si potrebbe mai esser destati dal sonno». Immaginiamo un uomo addormentato, che si svegli improvvisamente sentendo chiamare il suo nome da
molte persone in coro. «Supponiamo», inoltre, «che la voce di ciascuno non
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sia di per sé sufficiente a destarlo, ma che il rumore prodotto da tutte le voci insieme lo svegli. Ora prendiamo uno fra i molti che hanno chiamato». Si potrebbe correttamente affermare che l’uomo addormentato non l’abbia sentito, semplicemente perché non se ne era reso conto? «Egli dev’esser stato specificamente toccato dalla sua voce», ragiona Leibniz, «poiché le parti sono nell’intero, e se ciascuna parte è di per sé nulla, anche l’intero sarà nulla. Tuttavia, l’uomo non si sarebbe destato, se avesse sentito una sola voce, e questo», aggiunge il filosofo, «senza mai ricordare di esser stato chiamato». La voce sola deve perciò essere stata sentita, anche se non è stata sentita come tale. Leibniz ne trae l’unica conclusione ch'egli ritiene ammissibile: la sua udibilità era semplicemente troppo piccola per esser chiaramente rappresentata dalla mente conscia!9. AI lettore contemporaneo, queste «piccole percezioni» possono sembrare più che altro una contestazione della teoria cartesiana della res cogitans, ovvero dell’anima umana. E certamente lo erano, come Leibniz ben sapeva. Tuttavia, nelle opere che il filosofo tedesco scrisse in risposta a Locke, Leibniz stesso fece uso delle affezioni intinitesimali ch’egli aveva identificato, ma per un diverso fine: offrire una difesa completamente nuova del principio razionalista per cui «la mente pensa sempre». Le pagine
che Leibniz inviò a Burnett nel 1698 contenevano già l’essenza dell’argomentazione, che, con sbalorditiva svolta retorica e logica, poneva le «piccole percezioni» — che Descartes e i suoi discepoli non avrebbero mai potuto ammettere — al servizio di un’evidente conferma del principio cartesiano che Locke aveva messo in discussione. Leibniz offre qui al contempo una riformulazione e una trasformazione del principio cartesiano. La sua insistenza sull’incessante attività della mente si rivela ben presto, in realtà, come la riprova dell’ininterrotto «pensare» generato al di là — 0, meglio, al
di sotto — degli atti consci di una mente che pensa in modo chiaro. «Confesso di condividere l’opinione di coloro che ritengono che la mente pensi sempre», scrive Leibniz, aggiungendo: «anche se i suoi pensieri sono
spesso troppo confusi e deboli perché questa li ricordi distintamente»?9. Nel suo Essay, Locke aveva in un certo senso già considerato la possibilità di tali «pensieri». Ai suoi occhi, era al di là d’ogni dubbio che in alcu-
ni casi gli esseri pensanti cessino di pensare, ed era convinto che queste evenmienze semplicemente confutassero radicalmente la teoria razionalista
dell’anima perpetuamente cogitante. «Tuttavia mi pare», scriveva Locke, «che il minimo cenno di assopimento turbi la dottrina di coloro che insegnano che l’anima è sempre impegnata in attività di pensiero»?! Ma il filo-
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sofo inglese non sottostimava i suoi avversari; né sottovalutava il loro impegno in difesa delle tesi ufficiali della loro scuola. Egli si aspettava una
discussione in cui, se obbligati a rispondere della realtà del «sonno più profondo», essi avrebbero potuto cercare e di sfatare l’incontrovertibile prova del sonno senza sogni. «Allora forse si dirà», scriveva, «che l’anima pensa, anche durante il sonno più profondo, ma la memoria non è in grado di
trattenere alcun ricordo di tale attività». Questa era un’ipotesi che Locke, per parte sua, trovava difficile prendere in considerazione. «È davvero dif-
ficile immaginare che durante il sonno di un uomo la sua anima in un momento sia impegnata a fofmulare pensieri, e in un momento successivo, quando l’uomo è desto, non ricordi, non sia capace di rintracciare il minimo indizio di tutti quei pensieri»??, Il filosofo si domandava anche quale potesse essere il fine di tale «pensare», dal momento che — come osservava
seccamente — «pensare spesso e non ricordare che per un solo istante l’oggetto dei nostri pensieri, è un modo davvero inutile di pensare». Se l’anima «non potesse conservare alcun ricordo dei suoi pensieri, se non potesse accumularli per le proprie necessità, e all’occasione non le fosse possibile richiamarli in caso di bisogno; se non potesse riflettere su quanto è acca-
duto in passato e servirsi delle sue esperienze precedenti, dei ragionamenti e delle osservazioni, a che scopo», si chiedeva Locke, «l’anima di per sé
sarebbe dotata della facoltà di pensare?»?3. Si può poi ulteriormente argomentare — aggiungeva Locke — contro l’esistenza di tali immemoriali attività nella mente. L'autore di An Essay Con-
cerning Human Understanding sollevava un’obiezione di principio, che, a suo dire, escludeva la possibilità stessa di ipotizzare pensieri di cui i pensatori potessero essere inconsapevoli. E infatti, chi, per dirla plicità, avrebbe mai potuto renderne testimonianza? «Sarei inoltre imparare da questi uomini», scriveva Locke, «in che modo siano
proprio in semfelice di giunti a
sapere quel che con tanta sicurezza proclamano: ossia che l’anima dell’uomo, 0 l’uomo che con essa è tutt'uno, pensa incessantemente; anzi in che
modo siano giunti a sapere che essi stessi pensano, dato che loro stessi non ne hanno la percezione»?4. Il filosofo naturalmente ben sapeva come non ci potesse essere che una risposta a tale domanda. L’anima dovrebbe insie-
me pensare e non pensare; dovrebbe percepire e al tempo stesso non percepire di averlo fatto. In tal modo, però, la sua unicità verrebbe ad essere irreparabilmente compromessa. «Supporre che il pensare sia una condizione dell’anima, della quale l’uomo non ha alcuna percezione, equivale,
così come ho detto, a scindere un uomo in due differenti persone»?5. Una
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presupposizione centrale — tanto fra i cartesiani che fra gli anti-cartesiani — in molte delle discussioni della prima modernità sulla natura del pensiero viene ora chiaramente alla luce. È il principio per cui pensiero e coscienza sono strettamente correlativi: in altre parole, non potrebbe esistere pensiero senza che il pensatore non ne fosse nel contempo consapevole. Per Locke, tale principio era assiomatico, e la sua negazione prossima all’inconcepibilità. «Dire che un corpo è esteso senza parti che lo compongono», scriveva, «e dire che un essere pensa senza esserne consapevole o senza avere la percezione di quel che fa, sono due affermazioni altrettanto incomprensibili». Ove si ammettesse tale ipotesi, si dovrebbe anche ammettere la possibilità di un fatto che Locke per primo non tollererebbe, ovvero che in un uomo ci sia qualcosa di più (o di meno) di quella facoltà ch’egli chiamava «consapevolezza», e definiva — in termini che sarebbero presto divenuti canonici — come «la percezione di quel che attraversa la mente di un uomo». Se infatti vi fosse pensiero senza la sua simultanea apprensione da parte dell’essere pensante stesso, qualcosa potrebbe dunque accadere a un uomo senza esser percepita come verificatasi; potrebbe attraversare «la mente di un uomo», per dirla semplicemente, senza che
quella mente sia la propria, ch’egli deve per'natura conoscere. Un essere senziente, insomma, potrebbe pensare «senza esserne consapevole», nello stesso modo in cui potrebbe percepire senza avvertire di averlo fatto: potrebbe essere affamato — osservava Locke — senza avvertirlo sempre?0. Ancora una volta, il filosofo cercava di escludere quella possibilità, stabilendo che questa non potesse per definizione essere verificata da alcun metodo sperimentale. Solo la divinazione, sosteneva, avrebbe potuto confermare tali fatti. «Di certo costoro devono possedere una vista assai penetrante», scriveva Locke, con una certa asprezza, «per scorgere con certez-
za che io penso, nei casi in cui non ne ho percezione alcuna e quando io stesso affermo di non star pensando affatto; inoltre costoro possono vedere che i cani o gli elefanti non pensano, anche se questi animali ci forniscono ogni dimostrazione immaginabile della capacità di esercitare il pensiero, sebbene non siano loro stessi a dircelo»?7. Leibniz, a detta di tutti, aveva appunto una «vista assai penetrante»
Questa lo distingueva sia da Locke che dai discepoli di Descartes, le cui tesi il filosofo inglese mirava a confutare. Che la caratteristica specifica del pensiero fosse la coscienza era un principio fondamentale della scuola cartesiana: come ebbe a scrivere una volta La Forge, definendo con precisione la natura dell’attività mentale, «la cognizione non è la produzione dell’idea
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che rappresenta, né la sua ricezione nell’interno dell’anima, bensì la coscien-
za o percezione che di questa idea si ha»?8, Con tale tesi, Locke conveniva; ecco perché era per lui inconcepibile che «un essere» potesse pensare «senza esserne consapevole o senza avere la percezione» di averlo fatto. Leibniz non era d’accordo. Nei suoi Nowveaux essais sur l’entendement humain, come pure altrove, egli insisteva sul fatto che non vi fosse nulla di contraddittorio nell’idea di una mente che agisse senza coscienza. Proprio come lo specchio può riflettere più o meno chiaramente un'immagine senza avere alcuna consapevolezza di ciò, così la mente può percepire senza aver necessariamente coscienza di farlo. Nella prefazione ai Nouveaux essais, Leibniz arrivava inoltre a dire che la mente, in ogni momento, non faccia null’altro che questo, e ad infinitum: «Vi sono mille segnali che ci spingono a supporre vi sia in noi un’infinità di percezioni», scriveva, «ma
senza appercezioni e senza riflessione, ovvero dei cambiamenti nell’anima stessa, dei quali non abbiamo percezione»?9. Questa tesi implicava una radicale inversione di termini nella filosofia razionalista della mente, come diversi studiosi hanno ampiamente dimostrato. Per i discepoli di Descartes, la percezione costituiva un tipo particolare di consapevolezza; per loro, la sensazione era un atto non meno
conscio della volizione o dell’intellezione. La risposta di Leibniz fu serafica: «Non mi consta», scrisse, «che i cartesiani abbiano mai dimostrato —
o abbiano mai potuto dimostrare — che ogni percezione sia accompagnata dalla coscienza»39. Tutte le prove, sottolineò ripetutamente, suggerirebbero piuttosto il contrario: in altre parole, che la coscienza non sia che una varietà della percezione, la quale per lo più sussiste in totale assenza di consapevolezza3!. Leibniz credeva di poter illustrare in modo convincente questo punto, confutando Descartes non meno di Locke. Si potrebbero
fare diversi esempi di come, nello stato di sonno, molto possa esser percepito, pur senza una chiara consapevolezza: il senso di freddo, o lo spegnersi
d’una luce, o il suono di una singola voce che ci desta, troppo debole per essere udita, e tuttavia percepibile se unita ad altre dello stesso tipo. Leibniz avrebbe potuto invocare anche delle sensazioni che restano inavvertite a causa della loro eccessiva familiarità. L’abitudine, osserva, può rendere impercettibile il percettibile: prendiamo il caso di chi viva vicino a un mulino o ad una cascata, che sia insensibile al loro costante rumore, che, ove non vi fosse aduso, certo percepirebbe3*. Tuttavia, anche le grandi sensazioni della vita conscia — sosteneva il filosofo tedesco — convergono a provare l’esistenza di sensazioni infinitamente più piccole, «nascoste»
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(cachées) fuori di quelle33. Consideriamo la percezione della luce e del colore: cos'è, ad esempio, la sensazione distinta del colore blu, se non l’apprensione del verde e del giallo, percepiti, per quanto indistintamente, insieme?34. E c’è quel celebre esempio di sensazione, cui Leibniz più d’una volta fece ricorso: il rumore del mare. «Non lo si udrebbe», puntualizzava il filosofo, «se non si avesse una piccola percezione di ogni singola onda» che s’infrange sulla spiaggia, e a sua volta non si udrebbe ogni singola onda se non si udisse ogni singola goccia d’acqua. E tuttavia è evidente che nessun orecchio umano potrebbe percepire una singola onda o una singola goccia nel mare con una qualche consapevolezza di farlo3!.
Era per Leibniz una necessità, derivante dai due princìpi che secondo lui definivano la natura della sensazione. Da una parte — sosteneva —, una percezione conscia è una totalità, e quindi, come ogni intero, dev’esser com-
posta di parti: è complessa per natura3°. Tale ragionamento è a sostegno della tesi per cui, per essere svegliati da molte voci, occorre averle udite singolarmente tutte, anche se confusamente, e, per percepire — come si fa — il mugghio del mare, «è necessario s’odano le parti che compongono questo tutto, ovvero i suoni emessi da ogni singola onda, anche se ognuno di
questi suoni si rende conoscibile unicamente nel confuso insieme di tutti gli altri, vale a dire il mugghio stesso, e non sarebbe avvertito, se l’onda che lo emettesse fosse la sola»37. D'altra parte, affermava Leibniz, ogni sensazione può essere intesa come un effetto e, in quanto tale, dev’esser riducibile alla causa; se l’effetto dev'essere percepibile, dopotutto, dev’esserlo anche la causa38. Proprio come i suoni prodotti dal richiamo al risveglio e dalle
onde che s’infrangono sulla spiaggia possono ricondursi, per naturale necessità, ai distinti eventi che li hanno occasionati, così la loro percezione deve includere quella di ogni loro singola causa: ogni voce individuale levatasi in grido, in quanto essa produce il suono relativo, ogni goccia d’acqua che si
muova nel mare, in quanto essa si unisce alle altre del suo genere. Da entrambi i princìpi deriva un’unica conseguenza: si deve affermare che le sensazioni nascano da percezioni, parziali o causali, troppo piccole per essere consciamente rappresentate da una mente limitata. Come ha scritto Alison Simmons, tutte le sensazioni — a prescindere da quanto distintamente
possano apparire allo spirito — restano «costitutivamente confuse»: per definizione, esse contengono un'infinità di «piccole percezioni» che sfuggono a ogni facoltà rappresentativa che non sia quella divina39. Più e più volte, dal trattato al discorso, fino all’epistola, alla bozza e alla nota, Leibniz insistette sull’importanza di tener conto di tale infinità nella
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teoria della mente. Come quei «piccoli numeri» implicati nel calcolo ch’egli aveva inventato mentre stava ancora studiando a Parigi, le «piccole percezioni» della psicologia leibniziana erano destinate a trasformare il mondo della scienza4°. Tra la cogitazione continua e la sua negazione, tra i partigiani della ragione impassibile e i difensori della varietà dell’esperienza, il filosofo dell’infinitesimale aprì così una terza via, che conduceva a una regione della mente che né Descartes né Locke avevano immaginato: una regione in cui la coscienza e la sua assenza s’incontrano sul terreno delle percezioni incessanti e infinitamente piccole. Qui, nella sua epoca, il filosoto della monade era solo. Tuttavia, egli non aveva trovato senza aiuto la sua strada verso le «percezioni troppo piccole per essere avvertite». Leibniz aveva tratto il materiale della sua dottrina dalla storia della cultura, ch’egli conosceva bene, avvalendosi di strumenti non sfruttati dai razionalisti e dagli empiristi del suo tempo: strumenti come quelli offertigli da
Campanella (che si era così instancabilmente battuto a favore dell’esisten-
za e dell’ubiquità di un senso comune a tutte le cose, tanto fisiche quanto spirituali) e da Bacone (la cui nuova scienza aveva programmaticamente cercato di esplorare il luogo delle sensazioni consce in un mondo d’innu-
merevoli percezioni). Senza lasciarsi scoraggiare dall’evidente tendenza di sviluppo della scienza, Leibniz aveva fatto una scelta strategica, sebbene
anacronistica, nel volgersi verso questi autori. Egli aveva messo da parte la tecnologia della palla di piombo, e l’aveva sostituita — come ben sapeva — con quella di un’epoca più antica: quella dei voluminosi proiettili che un tempo venivano catapultati nello spazio. Tallonando il movimento, lento ma potente, del pesante proiettile, lo scienziato aveva deciso di seguirlo fin
dove potesse condurre, e fino alla profondità che fosse riuscito a raggiungere nel più resistente e opaco degli oggetti filsofici, che, ai suoi tempi, era ancora una sorta di novità: la coscienza.
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Capitolo diciannovesimo
Spine Un altro lungo capitolo sulle tesi di Leibniz in merito alla percezione, all’appercezione, e all’esistenza di sensazioni infinitamente piccole e sottilmente acute
Lo stesso Leibniz pensava che la dottrina delle piccole percezioni, ch’egli aveva diffusamente discusso nelle sue opere, avesse una rilevanza tanto metafisica quanto psicologica. Mediante le sue minute sensazioni, ogni anima — sosteneva — dimostra di essere quella sostanza semplice cui egli ave-
va dato il nome di «monade»: «un mondo in miniatura» (un monde en raccourci), !?. Fortunatamente, «il traduttore francese» aveva aggiunto una nota
alla sua edizione dello Essay, in cui spiegava che «con questa parola inglese, l’autore designava la condizione di un uomo che non è a suo agio, la
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mancanza di quiete e di tranquillità nell'anima», e che perciò il termine inglese ureasiness poteva esser reso, per quanto imperfettamente, dalla parola francese per «irrequietezza», ovvero inquiétude!3. Teofilo riferisce come, una volta colto il senso del termine usato da
Locke, egli sia stato assalito da un ulteriore dubbio, che lo aveva obbligato a mettere in questione la felicità espressiva del filosofo inglese. L’alter ego di Leibniz osserva che, nella misura in cui il vocabolo inglese uneasiness designa «un dispiacere, un dolore, un disturbo, e insomma una qualche afflizione patita», il suo uso in tale contesto rischia di generare una certa contusione. A rigor di termini, non c’è alcun dolore nel desiderio: «Direi piuttosto che nel desiderio vi sia invece una disposizione e una preparazione al dolore»'#. Alludendo alla lingua natale del proprio autore, il personaggio letterario aggiunge che questo stato determinante della volontà si potrebbe indicare con maggior precisione mediante il termine tedesco Unruhe, «insoddisfazione», una parola spesso usata per «l’irrequietezza del pendolo dell’orologio»!5. L'espressione, a differenza dell’originale inglese, si applica appropriatamente ai movimenti del corpo; tutto considerato, così fa anche il termine gallico invocato nella traduzione francese, inquiétude, che è privo delle connotazioni di dolore presenti nell’inglese uneasiness. Come il pendolo, che oscilla continuamente, così il nostro corpo si trova per natura in uno stato «irrequietezza» privo di dolore, ma con-
tinuo. «Non può mai essere perfettamente in quiete», leggiamo, «poiché, se pure lo fosse, una nuova impressione degli oggetti, un lieve cambiamento negli organi, nei vasi sanguigni e nei visceri modificherebbe nuova-
mente l’equilibrio, spingendoli ad esercitare un qualche sforzo per tornare al migliore stato che il corpo possa raggiungere; ciò che determina quella perpetua lotta che costituisce, per così dire, l’irrequietezza [inquiétude] del
nostro orologio»!°. Dall’uneasiness di Locke, alla Unrube e all’inquiétude di Leibniz, le traduzioni sono quindi insieme linguistiche e concettuali. Consentono alla condizione evocata da Locke di offrire a Teofilo una perfetta illustrazione della teoria leibniziana delle modificazioni infinitamente piccole di due ordini perfettamente paralleli, quello corporeo e quello psichico. Per capire esattamente ciò che l’autore di An Essay Concerning Human Understanding vuol dire, si può far riferimento, spiega Teofilo, ai termini utilizzati dall’autore dei Nouveaux essais sur l’entendement bumain. «Ancora
una volta», dichiara il personaggio letterario, «è necessario applicare la nostra dottrina delle percezioni che sono troppo piccole perché.noi le si
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avverta»!7. L’«irrequietezza» è la condizione naturale di una sostanza che rappresenta il mondo creato nella sua totalità, ma solo indistintamente, secondo il suo punto di vista, e soprattutto in relazione con il proprio corpo. È in altre parole la condizione dell’anima, perpetuamente affetta dalle innumerevoli «piccole percezioni» che si affollano in essa da ogni parte, componendo le sue percezioni consce e al contempo superandole in ogni punto: l’infinità delle affezioni che formano lo sfondo di ogni percezione conscia, e della quale nessuna mente che non sia quella divina potrebbe essere pienamente consapevole. Anche qui Leibniz attinge dalle possibilità offertegli dalla traduzione del libro di Locke. Analizzando la determinazione della volontà, il filosofo inglese aveva asserito, nei propri termini, che «il più grande disagio presente, che è costantemente provato, è quello ch’è sprone [spxr] all’azione»!8. La traduzione fraricese che Leibniz aveva letto rendeva spr [sprone, sperone] con aiguillon, una parola che indica anche il «pungolo» e la «spina» («La plus grand inquiétude actuellement présente», aveva scritto Coste, «est ce qui nous pousse à agir, c'est l’aiguillon qu’on sent constam-
ment»)!9. Nelle abili mani di Teofilo, lo «sprone» passa dal singolare al plurale, trasformandosi, nella sua indefinita molteplicità, nell’esemplare figu-
ra di quelle piccole percezioni non previste da Locke, e neppure da Descartes. Tali «pungoli» quindi appaiono, nel discorso dell’alter ego del filosofo, come provvidenziali doni della natura: le «spine del desiderio», «abbozzi o elementi di dolore 0, per così dire, semi-dolori, o anche (se mi
è permesso parlarvi in modo ancor più diretto) piccoli dolori inconsci»?9. Indolori per natura, tali «minuscole sollecitazioni» non pongono alcuna minaccia a una vita felice. Anzi, spiega Teofilo: «Trovo che l’irrequietezza
sia essenziale alla felicità delle creature, poiché questa non può mai consistere in un possesso perfetto, in quanto esso renderebbe le creature insensibili e stupide; deve piuttosto consistere in un continuo e ininterrotto progresso verso beni più grandi, un progresso che non può che essere
accompagnato dal desiderio, o dalla continua irrequietezza»?!. Acute, ma infinitamente piccole, le minute spine formano la lama affilata dell’ottimismo leibniziano. Senza un qualche stimolo, ragionava il filosofo, non si arriverebbe da nessuna parte: i pungoli sono necessari per natura. Tuttavia,
nel migliore dei mondi possibili, non è necessario che le loro estremità, anche se efficaci, siano percepibili, poiché il provvidenziale creatore ha fatto in modo che, per quanto continuamente pungolati da esse, noi non siamo obbligati a percepire la loro costante puntura??.
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Per Leibniz, il fenomeno noto alla modernità come «coscienza» deve esser collocato all’interno di questo campo di spine. Dopo Campanella e Bacon, nonché dopo Descartes e Locke, il filosofo secentesco sapeva bene di dover distinguere fra le affezioni di cui gli esseri senzienti sono consapevoli e quelle ch’essi non avvertono: di qui la differenza fra «piccole percezioni» e «percezioni», o, in altre parole, fra percezioni in senso lato e «sen-
sazioni» nel più rigoroso significato del termine. Leibniz, però, non si stancava di ripetere che, fra l’inconscio e il conscio, fra il «piccolo» e il grande, esiste una differenza di grado. Era un punto fondamentale, ed implicava un principio ch'egli, riterendo di averlo introdotto per primo in campo
scientifico, chiamava «la mia legge di continuità»?3. Nella prefazione ai Nowveaux essais, spiegò programmaticamente la sua tesi, paragonando il metodo che aveva introdotto nella scienza del corpo a quello che avrebbe ora adottato nella scienza dell’anima. «Le percezioni insensibili sono utili nella pneumatica quanto i corpuscoli insensibili lo sono nella fisica», scrive, ed è egualmente irragionevole respingerli entrambi solo perché sono entrambi al di là dei nostri sensi. Nulla accade tutto in una volta; e una delle mie grandi e meglio dimostrate massime recita appunto: la natura non fa salti. È quella che ho definito la mia legge di continuità, quando ne ho parlato nella prima delle Nouvelles de la République des lettres, e l’uso di tale legge è di considerevolissima importanza, in fisica. Essa stabilisce
che si passa dal piccolo al grande, e viceversa, sempre passando per un intermediario, sia per gradi che per parti, e che un moto non nasce mai immediatamente dalla quiete, né può ad essa esser ridotto se non mediante un movimento minore, proprio come non si è mai terminato di tracciare una linea fin quando non si è finito di tracciarne una più breve — e questo sebbene coloro che hanno finora formulato le leggi del moto abbiano evitato di rilevare questa legge, credendo che, in un singolo istante, un corpo potesse
ricevere un moto di verso contrario a quello precedente. E tutto ciò c’induce a pensare che anche le percezioni avvertibili derivino per gradi da quelle che sono troppo piccole per essere avvertite?4.
Del corpo o dell’anima che sia, ogni alterazione — insiste Leibniz — è
dunque di un unico tipo: continua. Come ogni moto fisico dato emerge da un moto minore, e ogni linea tracciata da una linea lievemente più breve, così ogni percezione conscia sorge da più percezioni minori, troppo piccole per essere ricordate e percepite come tali. E come un cambiamento discreto nel mondo corporeo può sempre esser collocato nel punto in cui un processo d’ininterrotta alterazione raggiunge un certo limite, così la consapevolezza sorge quando si è attraversata una soglia nella sensazione: la soglia oltre la quale la sensazione è «avvertita»?5. Fino a questo punto, le anime avvertono, riflettendolo in assenza di coscienza, il mondo del qua-
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le esse sono specchi viventi. Al di là di questo punto, però, fanno di più: avvertendo le loro sensazioni minori, le percepiscono, e perciò al contempo sentono di farlo. Coniando un termine che era destinato ad avere una lunga vita nel linguaggio filosofico e psicologico dopo di lui, Leibniz chiamò «appercezione» tale percezione del percepire. Per lui, questa era una parola francese, sicché la citò senza eccessivo commento nelle opere più importanti che affidò alla lingua gallica, quali i Nouveazx essats, la cosiddetta Monadologie e i Principes de la nature et de la gràce fondés en raison?6. Tuttavia, il lessico della lingua francese del xvi secolo non conosceva il termine. Non che la sua forma potesse porgere il destro a fraintendimenti. «Appercezione», come si comprendeva immediatamente, poteva essere soltanto un sostantivo tratto dal verbo transitivo che i pensatori della prima modernità spesso usavano per designare l’atto di avvertire e di esser consapevoli di un qualcosa: appercevoir. Era questo, ad esempio, il verbo impiegato nella traduzione francese di An Essay Concerning Human
Understanding nei passi che nell’originale contenevano to perceive (dove Locke aveva affermato: «Whatsoever the Mind perceives in it self, or is the immediate object of Perception, Thought, or Understanding, that I call Idea» [Designo con la parola idea qualunque cosa la mente percepisce in se stessa, 0 l’oggetto immediato della percezione, del pensiero o dell’intel-
letto], Coste scrisse: «J'apelle idée tout ce que l’Esprit appergoit en luymème, toute perception qui est dans nòtre Esprit lors qu’il pense» [Chiamo idea tutto ciò che lo spirito percepisce in se stesso, ogni percezione che sia nel nostro spirito quand’esso pensa])?7. Era chiaro, perciò, che l’«apper-
cezione» di Leibniz designava una sorta di consapevolezza e di coscienza. Ma la lingua francese del xvIt secolo disponeva già di due termini che si sarebbero potuti impiegare per tali idee: il comune vocabolo perception, che Coste aveva scelto come equivalente della perception lockiana, e con-
science, corradicale dell’inglese consciousness, regolarmente usato dai filosofi francesi della mente fin da Descartes. Naturalmente, Leibniz cono-
sceva bene questi termini. Si può solo presumere che li trovasse entrambi inadeguati all’idea ch’egli intendeva esprimere, la cui originalità richiede-
à < va un’espressione nuova.
Il neologismo è tanto più significativo ove si ricordi il vigore con il quale Leibniz stesso aveva messo in guardia contro l’invenzione di termini tec-
nici in campo scientifico. Nella sua lunga prefazione al De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudophilosophos (1670) di Mario Nizolio, Leibniz si era spinto a farne un principio metodologico del buo-
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no stile filosofico. «I termini tecnici debbono essere evitati», scriveva imperiosamente, «più del cane e del serpente»?3. Con la parola «appercezione», però, come pure con l’ancor più strano termine «monade», egli trasgredì la legge che aveva promulgato, includendo gli animali e introducendo nella langue particulière del discorso filosofico espressioni per cui si potevano trovare pochi o punto equivalenti. Il termine «appercezione» doveva dimostrarsi decisamente difficile, e non soltanto perché non attestato fra le espressioni della psicologia filosofica secentesca. Con l’andar del tempo, la parola continuò a resistere ad una traduzione dalla lingua in cui Leibniz l’aveva creata. Fu semplicemente naturale che i filosofi settecenteschi, i quali costruirono il moderno razionalismo accademico sulla base degli insegnamenti di Leibniz, desiderassero incorporare «appercezione» nella terminologia ufficiale della loro dot-
trina. Quando Christian Wolff, intendendo sistematizzare le scoperte del suo mentore, redasse la sua compendiosa Psychologia empirica in latino, tradusse dunque il termine francese nel linguaggio delle università come
apperceptio, debitamente ricordando che questo era stato il termine «usato da Leibniz» (apperceptionis nomine utitur Leibnitins)?9. L'adattamento era però ingannevole, e intatti il traduttore/traditore finì effettivamente per
abbandonare il singolare termine e il suo conforme concetto, spiegando come il suo significato «coincidesse» perfettamente con il termine centrale della tradizione cartesiana: «coscienza» (conscientia)39.
Fu per lo più in questo senso cartesiano che «appercezione» acquisì un posto consolidato nel lessico della filosofia moderna. Dopo Wolff, la con-
notazione «percettiva» in «appercezione» cedette il passo a una caratterizzazione legata al «pensiero», poiché l’espressione leibniziana giunse ad essere regolarmente impiegata per definire l’attività conscia e cogitante, intesa, dopo Descartes, come costitutiva dell’essenza dell’ego umano. In un famo-
so passo che si legge nell’edizione del 1787 della Critica della ragion pura, Kant dunque evocò questo termine per definire la struttura in virtù della quale l’«io» pensante rimane identico a se stesso nella molteplicità delle sue rappresentazioni. Per «appercezione pura, [...] o anche appercezione origi-
naria» — leggiamo nella «Deduzione dei concetti puri dell’intelletto» —, si deve intendere l’originaria «autocoscienza [Se/bstbewuftein] che, in quanto produce la rappresentazione /o perso — che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica —, non può essere accompagnata da nessun’altra»3!. Dopo tale definizione, che trasformò il termine leibni-
ziano nel nome dell’unità della coscienza, l’«appercezione» non poté che gio-
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care un ruolo centrale nel discorso filosofico, e, da Fichte e Hegel all’epoca
posteriore all’idealismo trascendentale, fino alle nuove psicologie di Johann Friedrich Herbart e di Wilhelm Wundt, il vocabolo, sia pur solo a livello decisamente tecnico, restò in uso3*. La parola «appercezione», comunque, non perse mai la sua originaria oscurità. Significativamente, anche dopo la sua prima Critica, Kant evocò ambiguamente il termine in latino: nella sua Antropologia da un punto di vista pragmatico (1798), egli la menzionò in una nota come apperceptio, 0
come «la coscienza di se stesso» (der Bewufttsein seiner selbst)33. Eppure, anche dopo aver conquistato un posto sicuro nella terminologia filosofica e psicologica tedesca del x1x secolo, «appercezione» poteva ancora destare qualche perplessità. Commentando l’elusiva espressione in uno studio pubblicato nel 1900, Anton Sticker, uno storico di questa nozione, rileva-
va come, dopo quasi due secoli, il termine non potesse ancora esser reso in modo appropriato da un equivalente tedesco. Come molte delle creazioni concettuali del filosofo di Leipzig, osservava, «appercezione» «crebbe su
terre in cui si parlavano lingue straniere» [auf fremdsprachlichen Boden]»,
e in seguito si rifiutò di rientrare in patria, semplicemente perché non poteva essere efficacemente «trasferito nella lingua madre»34. Lo stesso Leibniz attribuiva grande importanza al concetto di appercezione. Lo utilizzò programmaticamente nel trattato noto alla tradizione come Monadologia, nonché nei Principes de la nature et de la gràce fondés en raison, in entrambi 1 casi insistendo sul suo significato nell’ambito della dottrina dell’anima. «È bene», scriveva con chiarezza nei Principes, «distinguere fra percezione, la quale è la condizione interna della monade che rap-
presenta le cose esterne, ed appercezione»35. «La condizione temporanea che raccoglie e rappresenta una moltitudine in unità o sostanza semplice», leggiamo analogamente nella Monadologia, «non è che la percezione, la quale dev’esser ben distinta dall’appercezione»3°. In queste due opere, Leibniz associava l’attività cui egli aveva dato un nome con stati psicologici già individuati dai suoi predecessori, e, in particolare, con lo stato che Descartes
chiamava «coscienza». Nella Monadologie egli parlò dunque di «appercezione, 0 coscienza [conscience]», e nei Principes offrì una più ampia glossa del
termine «appercezione» come «coscienza 0 conoscenza riflessiva di questo stato interiore [della monade, che rappresenta le cose esterne], che non è affatto in tutte le anime, o sempre nella medesima anima»37. In entrambi i
casi, però, Leibmz finì per spiegare che la «coscienza» indicata dall’«appercezione» non poteva esser ridotta a quella di Descartes e dei suoi seguaci.
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Nella Monadologie, dopo aver distinto l’appercezione dalla percezione, Leibniz così si esprimeva: «È su questo punto chei cartesiani sono dolorosamente carenti, in quanto cioè non danno peso alcuno alle percezioni inconsapevoli [ayant compté pour rien les pergeptions dont on ne s’appercott pas]}»3*. Nei Principes, itermini sono quasi identici: «È perché mancando di questa distinzione», leggiamo in quel testo, nel punto in cui Leibniz spiega la differenza fra percezione e appercezione, «che i cartesiani sono carenti, in quanto cioè non danno peso alcuno alle percezioni inconsapevoli [en comptant pour rien les perceptions dont on ne s’appergoit pas], così come la gente non dà peso alcuno ai corpi insensibili»39. Come molto tempo fa ebbe ad osservare Josef Capesius, le definizioni che si leggono nella Monadologie e nei Principes de la nature et de la grà-
ce fondés en raison lasciano pochi dubbi quanto al motivo per cui Leibniz abbia introdotto in campo filosofico il concetto di appercezione. Non fu per segnalare l’esistenza nello spirito di qualcosa come la «coscienza», «cosa di cui nessuno potrebbe dubitare», e per la quale il filosofo non aveva alcun bisogno di coniare un nuovo sinonimo dell’antico nome4°. Leib-
niz identificava l’appercezione per sgombrare una regione, all’interno della mente, per ciò che non è appercezione e che, minore di questa per
natura, la accompagna in ogni circostanza: quello stato di mera «percezione», in cui non c’è consapevolezza ma in cui non cessano le «piccole percezioni inconsapevoli» (dont on ne s’appercoit pas). L’appercezione potrebbe dunque intendersi quale «coscienza», come Leibniz afferma ripetutamente, e come i suoi allievi, bramosi di parafrasare il maestro, non mancano di sottolineare. Tuttavia, questa è una «coscienza» che i filosofi cartesiani del suo tempo, come pure di quelli successivi, non avrebbero potuto sottoscrivere. Accettare la nozione leibniziana di «appercezione», infatti, significherebbe la sua costitutiva relazione di differenza dalla — e
non di opposizione alla — «percezione». Significherebbe, in altre parole, ammettere che tanto l’assenza quanto la presenza di consapevolezza devono collocarsi all’interno di un unico graduale continuum, fatto d’una infi-
nità di percezioni troppo minute per essere rappresentate dalla mente finita in quanto tale. Significherebbe semplicemente concedere che entro l’«appercezione» vi sia la «percezione»: che entro quella nobile cosa chiamata «coscienza» vi siano enti minori incessantemente in movimento, e che sia soltanto in virtù delle loro alterazioni — in virtù di «una piccolo accrescimento o aumento» della loro inavvertita e immateriale massa — che gli esseri viventi prendono i sensi, e, una volta senzienti, li perdono4!.
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La definizione leibniziana di appercezione — si è spesso sostenuto — COStItuì un passo decisivo nel superamento del concetto di coscienza fissato dai
discepoli di Descartes. Questo progresso potrebbe essere descritto in molti modi. Si potrebbe asserire che i fenomeni propri dell’inconscio incontrassero con esso una chiara collocazione all’interno della vita conscia, oppure — e probabilmente con maggior giustizia — che con esso il fenomeno della coscienza divenisse finalmente oggetto d’esame in relazione ai processi inconsci, dai quali questa intermittentemente emerge, e ai quali sempre finisce per tornare. Come ogni progresso filosofico degno di questo nome, comunque, la descrizione leibniziana dell’appercezione ebbe conseguenze retroattive nella storia del pensiero, almeno quanto ne ebbe di progressive, ponendo nuovamente una questione che molti credevano esser stata da lungo tempo formulata. Si trattava, naturalmente, della questione animale. Fin tanto che l’attività percettiva della res cogitans venne intesa quale modalità di cogitazione, come insegnavano i cartesiani, essa non condivideva nulla con le operazioni osservabili nel mondo animale. Ma una volta che la sensazione della mente conscia giunse a essere colta come atto di «appercezione», il suo rapporto con la percezione animale era destinato a cambiare. Leibniz era stato il primo a trarre la conseguenza, e proprio nei passaggi in cui definiva il nuovo concetto. Dopo aver distinto la mera percezione dall’appercezione e avere osservato come i seguaci di Descartes commettano un grave errore nel «non dar peso alcuno alle percezioni inconsapevoli», Leibniz così scrive nella Monadologie: «È questo che li indusse a credere che solo le menti fossero monadi, e che non esistessero le anime degli animali, né altre entelechie»4?. I termini dei Principes de la
nature et de la gràce fondés en raison sono, ancora una volta, quasi identic143. Se può esservi percezione senza appercezione, allora non c’è ragione per negare che tutti gli animali percepiscareo, e se la percezione, come l’appetizione, non può esistere nelle creature animate, se ne deve concludere che gli animali inumani, non meno degli umani, possiedono un’anima*#4.
Per questo motivo, Leibniz dimostrava scarsa simpatia per la dottrina cartesiana secondo la quale «solo l’uomo ha veramente un’anima». «È difficile comprendere», commentava, «perché gli uomini trovino così ripugnante accordare immateriali sostanze imperiture ai corpi di altre creature
organiche»45. Se il fisico può garantire che la sostanza di un atomo non può essere corrotta — così ragionava Leibniz —, non v’è alcun motivo perché il metafisico non possa garantire che anche l’immateriale sostanza dell’animale, come ogni altra, duri per sempre.
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In luogo della contrapposizione cartesiana fra res cogitans e res extensa, Leibniz propone una triplice gerarchia di sostanze che, a un occhio moderno, ricorda straordinariamente la tipologia medioevale della vita, radicata in Aristotele. Molto tempo dopo l’evidente obsolescenza della dottrina scolastica articolata in vita vegetativa, vita sensitiva e vita intellettuale, il pensatore secentesco distingueva tre varietà di monade. In primo luogo, vi sono le monadi «nude», o «semplici», le quali, riflettendo l’universo senza alcuna consapevolezza, percepiscono, ma non appercepiscono. Vi sono poi monadi in cui «la sensazione è più distinta», ed è accompagnata dalla memoria», ovvero gli animali. Vi sono infine monadi dotate di «conoscenza delle verità eterne e necessarie», e di capacità di ragionare: esse sono «menti» o «spiriti»4’. Questi punti, nel secentesco sistema filosofico, sono al di là di ogni dubbio. È tutt'altro che chiaro, però, dove dovrebbe collocarsi in tale gerarchia di sostanze la facoltà che Leibniz defi-
nisce appercezione; su questa materia, anche i più abili interpreti del corpus leibniziano non sono ancora riusciti a raggiungere un accordo. Molti
hanno sostenuto che per Leibniz ogni sostanza rifletta l’universo, e, in questa misura, «percepisca», mentre solo della monade razionale, fra tutte le altre, si potrebbe dire che «appercepisca». In un’esaustiva panoramica della letteratura su questo soggetto, Mark Kulstad ha battezzato questo giudizio come «l’opinione di riferimento»47. In effetti, è stato certamente sottoscritto da un buon numero di autorità leibniziane. Yvon Belaval, Aron Gurwitsch, Robert McRae ed Émilienne Naert, fra gli altri, hanno tutti
concordato sul fatto che l’appercezione, nell’universo leibniziano, possa essere attribuita unicamente agli «spiriti»48.
I testi leibniziani sulla questione, comunque, sono ben lungi dall’essere inequivocabili, e alcuni suggeriscono che il filosofo della prima modernità sia andato troppo oltre nell’accordare agli animali una consapevolezza che i suoi lettori del xx secolo avrebbero ammesso49. C’è ad esempio il caso, esaminato nel dibattito con Bayle, del cane che, mentre sta «mangiando il suo cibo», viene interrotto da un colpo sulla testa. Analizzando
la serie causale rappresentata dal corpo e dall’anima del cane, Leibniz spiega al suo corrispondente che, quando il bastone maneggiato dall’uomo rag-
giunge la testa del cane, colpendolo con una disposiziona causale «chiara e distinta», l’anima canina agisce, come sempre, in parallelo con il corpo, le cui affezioni esso rappresenta: «Il cane lo appercepisce molto distintamente», scrive il filosofo, «ed è questo che ne determina il dolore [le chien
s’en appercoit très distinctement, et c'est ce qui fait sa douleur)»5°. L'anima
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canina sembrerebbe dunque appercepire, anche se soltanto quando patisce un dolore. La prefazione ai Nouveanx essats di Leibniz suggerisce peraltro che non ci sarebbe nulla di strano in questo, poiché è soltanto nel momento della morte che gli animali sono «ridotti ad uno stato di confusione che sospende l’appercezione, ma che non può durare per sempre»; inoltre, come ha osservato in modo convincente Kulstad, l’«appercezione» difficilmente potrebbe «esser sospesa negli animali, se gli animali non avessero mai appercepito prima»!". Un cinghiale leibniziano fornisce infine un’ulteriore prova. Percependo distintamente che una «persona» sta urlando davanti a lui, sembra decidere della questione in modo definitivo. Considerando i rapporti fra percezione, appercezione e intellezione, il filosofo stesso giudica le azioni dell’animale selvatico una prova indubitabile del fatto che gli animali, per quanto irrimediabilmente irrazionali, abbiano nondimeno la «capacità d’essere consapevoli», ovvero di «appercepire». Il passaggio cruciale si può trovare nel Libro 11 dei Nouveanx essais. «Gli animali non hanno intellezione [entendement]», spiega colà il dotto, «almeno nel senso che, sebbene abbiano la capacità di appercepire le più rimarchevoli e distinte impres-
sioni [quoyqu'elles ayent la faculté de s’appercevoir des impressions plus
remarquables et plus distinguées], proprio come il cinghiale appercepisce una persona che grida verso di lui e corre dritto verso questa persona, della quale egli aveva fino a quel punto una nuda percezione, ma confusa, come quella di tutti gli altri oggetti che cadevano sotto i suoi occhi, e i cui raggi colpivano il suo cristallino»5*. «Appercependo» chiaramente ciò che fino ad allora aveva soltanto oscuramente «percepito», il cinghiale matura perciò una sorta di consapevolezza. La muta ma lucida bestia «appercepisce una persona che grida ver-
so di lui» (s’appercoit d’une personne qui.luy crie). Diversamente da molti dei suoi predecessori e successori, Leibniz non crede che tale «appercezione» sia di natura cognitiva. L’intero scenario dell’episodio del cinghia-
le è lo scenario di una sensazione. Dalla «nuda percezione» dell’oggetto che cade sotto gli occhi dell’animale, colpendone il «cristallino» con i suoi
«raggi», fino alla consapevole «appercezione» dell’uomo che grida di fronte a lui, del quale egli è ben cosapevole, e che subito si dispone a caricare, è tutta una faccenda di percezione. Non potrebbe esser più chiaro. Ci si potrebbe tuttavia domandare se il cinghiale non percepisca di più — e di meno — di quanto il filosofo dice in questo passo. Fra le piccole sensazio-
ni dell’anima del cinghiale e la distinta sensazione di una persona che gri-
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da, fra le infinite affezioni di quell’eterno specchio ch’è la monade e la rimarchevole immagine che, per quanto confusamente, può formarsi sulla sua superficie, devono esistere dei termini intermedi. La natura, dopotutto, «non fa salti», e - come Leibniz costantemente insegnava —, né in fisica né in psicologia può darsi una transizione in assenza d’intermediari: dal più
piccolo al più grande, si deve passare attraverso intermediari, «sia per gradi che per parti», proprio come «un moto non nasce mai immediatamente dalla quiete, né può ad essa esser ridotto se non mediante un movimento minore», e «non si è mai terminato di tracciare una linea fin quando non si è finito di tracciarne una più breve», e non si è mai terminato di tracciarne una più breve fin quando non si è finito di tracciarne una che sia di poco ancor più brevei3. Nella transizione dall’assenza alla presenza della consa-
pevolezza, tali intermediari, per definizione, non apparterrebbero né all’oscurità delle «nude percezioni» né alla chiarezza della «sensazione». E non sarebbero riducibili né allo stato dormiente né alla lucidità della mente
desta. Non più «piccole» ma non ancor «grandi», sarebbero percezioni sulla soglia dell’avvertibilità: spine dalla puntura quasi percepita, ma non in quanto tali, le loro acute estremità comincerebbero appena ora a pungere. Ma il cinghiale le avverte? A prestar fede alla parola del filosofo, sì, anche se potrebbe esser difficile, a rigor di termini, dichiarare che quella bestia non-pensante lo sapesse. L'animale selvatico aveva infatti attraversato l’in-
finitamente divisibile spazio tra la percezione e la coscienza; e deve aver distintamente avvertito ogni piccolo passo del disagevole viaggio, anche se,
una volta giunto sul saldo suolo dell’appercezione, esso ha presto dimenticato — come pure la persona che gli gridava contro — come l’avesse mai ottenuto.
Capitolo ventesimo
A me stesso; ovvero, il danese
In cui un terribile cane, secondo un noto aneddoto, balza addosso a Jean-Jacques Rousseau, ponendo fine a una passeggiata che diversa-
mente sarebbe stata solitaria
Esistono diversi tipi di stati intermedi della coscienza. Alcuni, eterni accompagnatori della caduta nel torpore, accompagnano la mente dalla veglia al sonno. Altri invece compongono i passaggi, lenti o improvvisi, grazie ai quali gli esseri senzienti divengono «sani di mente». Come accade per tutti i passi avanti, solitamente queste tappe intermedie non vengono notate. Se richiamate all’attenzione in seguito, è naturale che retrospettivamente sembrino anelli minori in una lunga catena, soste su una strada che si avvicina a un punto col quale esse non possono per definizione coincidere. «Riaversi» è il caso esemplare. Se questo processo giunge a conclusione, è nel momento in cui un «io» recupera se stesso: l’istante in cui io torno, dopo il sonno, lo shock o lo stordimento, a me stesso. È allora dif-
ficile, se non impossibile, ricordare le vaste distese che pur debbono essere già state attraversate: tutte quelle plaghe in cui un io giunge senza tuttavia con ciò arrivare a qualcosa o a qualcuno, salvo che a quell’ente intimamente sentito eppur dimenticabilissimo che è «me stesso». Forse ci vuole una circostanza di discreta rarità, qualcosa come un inci-
dente, per far sì che si possano intravvedere con una certa nettezza queste regioni. Tuttavia, fra gli animali gli eventi inaspettati non mancano mai, e
perfino nei momenti di grande concentrazione una res cogitans resta vulnerabile a straordinarie sollecitazioni di natura sensoriale. Jean-Jacques Rousseau lo sapeva molto bene. Nel secondo capitolo di Le fantasticherie del passeggiatore solitario, egli offre una vivace illustrazione dei modi in cui
una catena di pensieri può essere interrotta da un evento imprevisto. Il filosofo ricorda come, nel pomeriggio di giovedì 24 ottobre 1776, egli stesse tornando alla sua casa parigina dopo un giro fra le «vigne e i prati» di Ménil-Montant. Aveva deciso di fare una passeggiata postprandiale, mettendo per il momento da parte il progetto di scrivere un possibile seguito delle Confessioni. La campagna fuori città gli aveva offerto «quel piacere e
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quell’interesse» che i luoghi ameni sempre gli promettevano, e in questo caso la meditativa sgambata l'aveva condotto a delle inaspettate scoperte botaniche — parecchie varietà di piante impossibili a trovarsi a Parigi, e tre, in particolare, ch’egli ebbe cura di ricordare per nome: «Ja Picris hieracioides della famiglia delle composite», «il Bupleurum falcatum delle ombrellifere», e «una pianta ancor più rara, specie in un paese elevato, cioè il Cerastium aquaticum»!.
Vagabondando nella «campagna, ancora verde e ridente», il dotto viandante aveva osservato anche altre varietà di flora e fauna, «guardare e numerar le quali», come in seguito ricordò, «mi dava sempre piacere». Tutto era perfetto, come scenario per «dolci meditazioni» — fin quando egli non fu spaventato da un inaspettato spettacolo. «Alcune persone che procedevano dinanzi a me», scrive, «improvvisamente» si tirarono,da parte. Dietro di loro, un gigantesco cane stava caricando: un danese, per la precisione, che correva davanti a una carrozza con tale velocità e potenza che «quand’anche mi avesse scorto», rammenta Rousseau, «non avrebbe avuto neanche il tempo di trattener la corsa o di deviarla». Con un rapido calcolo, il filosofo comprese immediatamente il da farsi: doveva spiccare un grande balzo verso l’alto, dopo aver istantaneamente giudisato — così spiegava — «che il solo mezzo rimastomi per evitare d’esser gettato a terra, era di spiccare un salto, in modo che il cane», di così considerevoli proporzioni, «passasse sotto di me nell’attimo in cui sarei stato in aria»?. Possiamo solo domandarci come se la sarebbe cavata, il filosofo, se avesse avuto l'opportunità di eseguire il suo acrobatico piano. Come invece accadde, il cane in corsa si dimostrò persino più veloce dei moti mentali del pensatore, e, prima ancora che potesse accorgersene, il solitario viandante, non avvertì né sentì più alcunché. «L'idea, più pronta del lampo», osservava Rousseau, richiamando alla
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teratura medica, 218-224; sensazione negli, 212-214; come spiriti, 216
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Autobulo, personaggio del De sollertia animalium di Plutarco di Atene (v.), 269n
autoconsapevolezza, 33, 107 autocoscienza, 12, 51, 66, 89
Automatisme psychologique, L’ (P. Janet, V.), 234, 236, 306n automi, 135, 159 Averroè, 40, 127, 262n, 264n, 279n, 281n Avicenna, 40, 124-128, 133, 181-182, 188, 195, 245, 262n, 281n, 295$n, 296n, 308n
Azouvi, Frangois, 193, 297n, 298n, 299n, 300n
341 Babrio, 276n Bacon, Francis, 133, 144-146, 148, 165, 157, 286n, 287 Badalamenti, Guido, 266n, 275n Badawî, ‘Abdarrahman, 259n, 280n
Baertschi,
Bernard,
298n,
299n,
300n,
3zoIn Bakos, Jan, 262n, 281n, 295n balene, 133 Ball, Benjamin, 306n
bambini, fanciulli, neonati, 87, 90-91 Barker, Andrew, 264n, 267n Barnes, Jonathan, 256n, 258n, 260n Barone, Caterina, 271n, 276n Baruk, Henri, 239-240, 307n, 308n Bastian, Henry Charlton, 207 Bastianini, Guifo, 274n, 275n, 276n Bastien, Jean-Frangois, 294n, 301n Bayle, Pierre, 161, 171 Beaunis, Henri Ftienne, 302n Becker, Otfrid, 267n
Bekker, Immanuel, 277n Belaval, Yvon, 171n, 292n Bell, Charles, 218, 304n Bellour, Raymond, 299n
Bender, Lauretta, 307n Benjamin, Walter, 59, 62, 242, 266n, 308n Bergh, Simon van den, 296n
Berliner Klassikertexte, 95 Bermon, Emmanuel, 279n Bernard, Wolfgang, 270n Berrios, German E., 233, 305n, 307n, 308n Bertrand, Alexis, 302n bestie, v. animali Beyssade, Jean-Marie, 284n
Biard, Joél, 283n Bien, Gunther, 256n, 284n bizantino, Impero, 117 Blakeslee, Sandra, 304n
Blanchet, Léon, 139, 285n, 287n Block, Irving, 259n Blumberg, Harry, 264n
306n,
IL TATTO
342 Blumenthal, Henry J., 32, 260n, 270n Bodei, Remo, 255n Bonnet, Charles, 185, 235
INTERNO
Cancrini, Antonia, 256n, 266n
Canguilhem, Georges, 300n cani: 13, 75, 103-106, 142, 154, 161, 167,
Borchardt, Ludwig, 95 Boureau-Deslandes, André-Frangois, 185
171-172, 175-177, 180, 290n; il danese di J.-J. Rousseau (v.), 175-176, 179-
Bourguignon, André, 301n, 307n Boyle, Robert, 160 Brandenburg, Dietrich, 28on Brandom, Robert B., 293n Bréhier, Émile, 50, 262n, 264n Brentano, Franz Clemens, 263n Brizzi, Enrico, 293n Broca, Paul, 220
180; dottrina delle piccole percezioni e, 161, 171-172; ragionamento dei, 103-105; nella Repubblica di Platone
(v.); 75 Canone della medicina (Avicenna), 124 Capesius, Josef, 169, 291n, 292n Cappelletti Truci, Nadia, 293n Carbone Andrea L., 309n carne, 21, 53-55, 252
Brody, Eugene B., 308n Browne, Gerald M., 262n Bruns, Ivo, 261n, 262n, 267n, 270n, 274N,
279n Brunschwig, Jacques, 273n, 274n, 275n, 276n Buffon, Georges-Louis Leclerc de, 185,
235 Burnett, Thomas, 150-152 Burnyeat, Myles, 257n Burton, Robert, 134-135, 283n Busa, Roberto, 282n
Butterworth, Charles Edwin, 279n Bywater, Ingram, 42, 263n, 268n Cabanis, Pierre-Jean-Georges,
188-189,
205, 297n, 302n Cacho, Jorge, 304n, 305n Caetano, v. De Vio, Tommaso Cabiers (P. Valéry, v.) Calcante, Cesare Marco, 271n
133,
137-146,
148, 157, 165, 284n, 28sn, 286n, 287n
Camus, Paul, 239, 307n Camuset, Louis, 304n, 30$n
Canale, Dee James, 303n
Case of George Dedlow, The (S. Weir Mitchell, v.) catacresi, 31 Catone, Marco Porcio, come personaggio del dialogo De finibus di M.T. Cicerone (v.), 87-89
buio, percezione nel, 71 Burdach, Karl Friedrich, 204, 302n
Calcidio, 252, 310n Callu, Florence, 265n Campanella, Tommaso,
Cartesio, v. Descartes, René
Cattell, James P., 308n cavalli, 177 cenestesi: 197, 200-202, 204-209, 224, 239; depersonalizzazione e, 239; percezione fantasma e, 224. Si veda anche «senso comune» cenestopatia, 239-240 cervello: arti fantasma e, 213-215; senso del, 119, 123-124, 133-134; senso comune e, 120 cervo, 101-102, 269n, 276n Charcot, Jean-Martin, 220 Charpentier, René, 223 Chrétien, Jean-Louis, 260n Chrysippus, v. Crisippo Cicero, Vincenzo, 287n, 290n, 294n Cicerone, Marco Tullio, 82-84, 87, 89, 271n, 273n, 274n, 284n cinese, lingua, 147 cinestesia, 207
cirenaica, scuola, 97-98 Clarke, Samuel, 104, 277n
INDICE
ANALITICO
349 Cleante, 81
coenaesthesis, v. «cenestesi» Coenaesthesis (C.F. Hùbner, v.), 197-198, 202, 299n, 300n Coenaesthesis (F. Schiller, v.), 300n, 303n «Coenaesthesis», voce del Compact Edition ofthe Oxford English Dictionary, 300n cogitatio, 16, 31, 134-135, 283n, 287n. Si
veda anche «coscienza» cogitazione: 12, 33, 134-135, 149, 157, 170, 240; appercezione e, F70; cultura arabo-islamica e, 30-31; depersonalizzazione e, 239-241; nel pensiero cartesiano, 135, 148-150; percezione e, 33 cogito, $0, 178, 191 cognizione: 13, 51, 154-155; scienza della
vita e, II$; «senso comune»
consapevolezza: 15, 31, 33; animali e, 8689; dialoghi platonici sulla; organica, 16-17; sensazione e, 78; stati intermedi di (coscienza), 175; synaisthesis e, 66 Considerazioni filosofiche del gatto Murr (Lebensansichten des Katers Murr, E.T.A. Hoffmann), 9, 11, 13, 14, 255n continuità, $0 Cooper, John M., 256n corpo: arti fantasma e, 211-218; assenza nel delirio di negazione, 221-223; per-
cezione del, 185-189, 191; sensazione alienata, 229, 236 corporeità, 185 coscienza: 12, 15, 140; animali e, 14,88 89; appercezione e, 166-169; arti fan-
€, 31;
tasma €, 213-215; cenestesi €, 205;
come senso interno, 119; syrazsthesis
continuità della, 49; depersonalizza-
e, 67
zione e, 233; differenza percezionesenso e, 146; distinzione uomo-ani-
Cohen, Hermann, 289n colore, percezione del, 148, 156 conoscenza: 17, 141; animali e, 75, 90 (scientia); atto sintetico di, 41; definizione di Agostino, 113 (scienza); distinzione uomo-animale e, 112-113; genesi della, 183-184, 201; percezione
e, 97; delle schiave, 123-124; senza sensazione di vita, 241; sentimento e,
179
male e, 135; dottrina cartesiana della, 233-235, 241; linguaggio e, 31; il pensiero antico sulla, 23; pensiero senza, 154-1 55; «piccole percezioni» e, 151,
157; il «senso comune» di Aristotele e la, 31; sogni e, 58; stati intermedi della, 175; tatto e; synaisthesis e, 248; unità della, 40-41; vita come gioia, 10-
11. Si veda anche «cogitatio»
commentari, 63-64 Commentario lungo (Averroè, v.), 127n
Cosroe II, 69
Compendium physiologiae (T. Campanel-
Coste, Pierre, 150, 164, 166, 29In Costello, Charles G., 308n
la, v.), 140, 28sn comprensione, 108, 112, 114 (intelligere), 115 (intelligenza), 149, 172 (entendement, intellezione) conchiglie, 82-83, 93 Condillac, Étienne Bonnot de, 178, 181, 183-193, 201, 206, 296n, 297n
Confessioni (Agostino di Ippona, v.), 107, 278n
Confessioni,
Le (Les confessions, J.-}.
Rousseau, v.), 175, 193N
Costantino VII Profirogenito, 82
Costello, William T., 277n costituzione degli animali, 86-93, 101-102,
I1O Cotard, Jules, 220-225, 237; 304n, 305n, 307n Courcelle, Pierre, 272n Cousin, Victor, 297n Crawford, Frederick Stuart, 262n Crisippo di Soli, 81-84, 86-87, 92, 96, 103104, IIO-III1, 242, 26In, 270n, 27IN,
IL TATTO
344 272n, 274N, 2770; su pinna e pinnotere, 81-83; sul ragionamento negli ani-
Dedlow,
mali, 103-105; la scuola Stoica e, 81;
Mitchell (v.), 211-217 De finibus (M.T. Cicerone, v.), 87-88, 273 De generatione et corruptione (Aristotele,
sulla sensazione e sull’appropriatezza a se stessi, 91-92 cristiana, prima età, 65, 79, 119
George,
protagonista
INTERNO
di 7he
Case of George Dedlow, di S. Weir
VA) 22:02:81
Critica della ragion pura (I. Kant, v.), 167-
Dei fini (Crisippo di Soli, v.), 86, 91
168, 29In crostacei, 8I, 93
De insomntis (Aristotele, v.), 18, 56-57, 257, 265
cuculi, 76 Cudworth, Ralph, 235 Czermak, Marcel, 304n
Deipnosophistai (Ateneo di Naucrati, v.), 82, 27In
Dei sensi interni (Of the Inward Senses, R. Burton, v.), 135
Dagognet, Francois, 296n d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond, detto, 178, 201, 294N, 30In
Damascio, 66, 69
D'Amico, Maria Grazia, 287n, 290n, 294n De abstinentia (Porfirio, v.), 76, 89, 103,
273n, 277n De anima (Aristotele, v.): 73, 242; sui cinque sensi, 29, 36, 119; commentario di Temistio sul; commentario scolastico
sul, 68-69; commentatori aristotelici
del, 39-40; distinzione uomo-animale e, 76-78; editori del, 25-26; sul koimon aistheterion, 199-200; sulla percezione di percepire, 31-32, 64-65, 239-241; sulla qualità sensibile comune, 25-32; sulla sensazione complessa, 36-37;
De la névropathie cérébro-cardiaque (M. Krishaber, v.), 230, 305n, 306n De l’aperception immédiate (P. Maine de Biran, v.), 191-193, 298n
De l’angoisse à l’extase: Études sur les croyances et les sentiments (P. Janet, V.), 237-238, 307n, 308n
De l’exercitation (M. E. de Montaigne, v.),
178, 293n De libero arbitrio (Agostino di Ippona, v.), 108, 110, 112, 114, 119, 278n, 279n De l’intelligence (H. Taine, v.), 230, 306n
delirio del dubbio, 231-232, 306n delirio di negazione, 221-224 delfini, 76 De l’origine psycho-sensorielle ou psychomotrice du délire (]. Cotard, v.), 223,
sulla sensazione negli animali, 41-42; synaisthesis e, 65-68; sul tatto, 17-25, III, 246-247; sul tempo, 41-45; 49; teoria dell’«informazione» nel, 138; traduzione in arabo, 117-119 De anima liber cum mantissa (attribuito
De memoria et reminiscentia (Aristotele, v.), 18, 43, 260n, 263n, 269n Democrito, 73, 75, 86 Demostene, 95 De natura animalinm (Eliano, v.), 193,
ad Alessandro di Afrodisia, v.), 92, 262n, 274n, 279n
277n De partibus animalium (Aristotele, v.),
De animalibus (Filone Ebreo, v.), 103, 277n De augmentis scientiarum (F. Bacon, v.), 144, 286n
De divinis nominibus (Pseudo-Dionigi l’Areopagita, v.), 128, 28In
3o$n
245, 260n, 308n
depersonalizzazione, 232-243 Dépersonnalisation, La (L. Dugas, v., e F. Moutier, v.), 232, 306n
Descrizione del corpo umano (Description
INDICE
ANALITICO
343 du corps bumain, R. Descartes, v.), 136, 284n
Derrida, Jacques, 263n Descartes, René: 50, 133-137, 14I, 145,
dialettica, 81, 91, 105 Dide, Maurice, 308n
168, 170, 178, 191-192, 201,218, 234,
Diderot, Denis, 178, 185 Didimo Calcentero, 95, 274n Didymos, v. Didimo Calcentero Diels, Hermann, 268n, 274n
283n, 284n, 287n, 294n, 297n, 298n,
Dierauer, Urs, 268n, 269n, 277n
147-149, 152, 154-155, 157, 159; 164304n; su animali e ragione, 134-137; sulla coscienza, 168-169; critici di, 178-179; modernità filosofica e, 147149; seguaci di, 147-149; sulla sensazione negli arti fantasma, 218 De sensu et sensibilibus (Aristotele, v.): 18, 29,
31,
37,
477515,
66-67,
205,
246,
259n, 261n, 263n, 264n, 302n, 309n;
sull’esistenza, 49-50; sulla sensazione complessa, 37; sul «senso totale», 205; synaisthesis e, 65-67; sul tatto, 246; sul tempo impercettibile, 47-50 De sensu rerum et magia (T. Campanella, V.), 137-138, 286n
140,
145, 284n, 28sn,
desiderio, 17-18, 23, 77, 162 Des maladies mentales considérées sous le rapport médical, bygiénique et médico-légal (É. Esquirol, v.), 228, 305n De sollertia animalium (Plutarco di Atene, v.), 83, 269n, 270n, 27In, 277n De somno et vigilia (Aristotele, v.): 18, 29, 31, 36, 53-54, 56-57, III, 259n, 260n,
261, 264n, 265n, 278n; sulla sensazione e l’anima, 54; sui sogni, 57-58; sul tatto come facoltà principale, 111. Destutt de Tracy, Antoine Louis Claude, 189-190, 297
De trinitate (Agostino di Ippona, v.), 107, 279n
Dietz, Friedrich Reinhold, 256n Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (G.E.W. Hegel, VObao
Di Napoli, Giovanni, 285n Diogene di Apollonia, 75, 268n Diogene Laerzio, 75, 81, 86-87, 270n, 371n, 273n, 277n Diottrica (Dioptrica, 136, 283n
R. Descartes;
v.),
disordini dissociativi, 242 Dix livres de la chirurgie (A. Paré, v.), 218 Dodds, Eric Robertson, 256n, 262n, 266n,
272n dolore: 14, 17, 56, 65, 77; 87, 90-91, 125, I43, 145, 161-164, 171-172, 178, 201TR
NOTI
AI
BADA
DADA.
231, 237, 242-243, 287n, 290n; negli arti fantasma, 212-214, 218; assenza di, 242; coraggio e, 227-228; desiderio
e, 163; dottrina delle piccole percezioni e, 161; percezione comune e, 171
Donini, Pierluigi, 262n Donio, Agostino, 285n Druart, Thérèse-Anne, 295n Du délire d’énormité (J. Cotard, v.), 223,
3osn Du délire des négations (J. Cotard, v.), 222-223, 304N, 30$N Dugas, Ludovic, 231-233, 236, 306n
Deutsch, Helene, 242, 308n
Dupré, Ernest, 239, 307n
De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudophilosophos
Diiring, Ingemar, 264n Dutens, Louis (Ludovicus), 287
(M. Nizolio, v.), 166
De Vio, Tommaso (al secolo Giacomo),
detto il Cardinal Caetano o Gaetano, 133
ebraico, lingua, 30, 120, 260n, 280n Eckhart di Hochheim, detto «Meister Eckhart», 129, 282n
IL TATTO
346
INTERNO
educazione, istruzione, 13 Egmont (J.W. v. Goethe, v.), 9
Essai sur les éléments de philosophie (J.-B.
Egitto, 117; Alto Egitto, 95
294N, 30In Essai sur les fondements de la psychologie (P. Maine de Biran, v.), 193-194, 298n
Le Rond, detto d’Alembert, v.), 201,
ego, 167, 215
elefanti, 154 Elementa moralia (Ierocle Stoico, v.), 96, 102, 274N, 27 5N Éléments de métaphysique tirés de l’expérience (J.-A. Lelarge de Lignac, v.), 201, 294N, 300n Eliano, 103-104, 277 ellenistico, periodo, 65-66, 124 Ellis, Robert Leslie, 287n Ellrodt, Robert, 300n Émile (J.-]. Rousseau, v.), 179, 294n emozione, 201, 236
Essais (M. de Montaigne, v.), 177, 265n,
2750, 277n Essai sur l’origine des connaissances hwmaines (É. B. de Condillac, v.), 183 Essay Concerning Human Understanding, An (J. Locke, v.), 150-153, 162, 163, 166, 178, 287n, 288n, 290n, 29In,
294n Essen, Ernst, 257n estimativa, facoltà, 134, 28on etica, 81, 84, 97, 102, 243
Etica Eudemia, 65, 266n, 269n, 310n Etica Nicomachea (Aristotele, v.), 65, 76,
Empedocle, 73, 75 Encyclopédie, 178, 201, 294n, 300n Enea Tattico, 272n
86, 227, 247, 250, 266n, 269n, 27In,
Enneadi (Plotino, v.), 40, 78, 262n, 267n,
269n
30$n, 309n, 310n Eustrazio di Nicea, 128, 28I1n, 282n
Enumerazione delle scienze (al-Farabi, v.), 121 Epicurei, 16
Everson, Stephen, 272n Evodio, 108-114
Epitteto, 91, 96, 274n
Faggin, Giuseppe, 262n, 269n
Fracle, 99
Falret, Jules, 221, 223, 305n
Ernst, Germana, 28sn Erodoto, 85, 272n
Fantasticherie del passeggiatore solitario,
esperienza, IO, 14, 17, 20, 26, 68, 75, 90,
293n Faust, personaggio dell’omonima opera di
Le (J.-J. Rousseau, v.), 175, 177, 178,
139, 143, 151, 153,157, 177-181, 183AVANT CREBCIRO IO
LR
TA
287n, 299n esistenza: 9, 12, 108, IT5, 190; amicizia ed, 250; arti fantasma ed, 214-215; coscien-
za dell’, 49-50; esperimento dell’«uomo nel vuoto» ed, 181-183; «leggera esistenza», 178-179; risveglio dal sonno ed, 59-61; sapienza ed, 141; sensazione ed, 51; sensazione alienata (depersonalizzazione) ed, 230, 233, 235-236, 241; senza sensazione, 177-178 Esquirol, Étienne, 228-229, 231, 234, 236, 241, 305n, 306n
. J.W. v. Goethe, v., 12
Fedimo, personaggio del De sollertia animalinm di Plutarco di Atene (v.), 83 Fedone (Platone, v.), 17 Fedro, 276n Fenves, Peter, 291n
fenomenologia, 194 Fermani, Arianna, 305n Ferrand, mademoiselle, amica di É.B. de Condillac, 184 feti, 188-190 Fichte, Johann Gottlieb, 168 Filippiche (Demostene, v.), 95
INDICE
ANALITICO
347 filologia, 25, 66, 85, 112, 147, 259n, 260n, 272n Filone di Alessandria, v. Filone Ebreo
Filone Ebreo, 65, 82, 103-105, 267n, 277n Filopono, Giovanni, 39, 66, 78-79, 133, 247, 261n, 267n, 270n, 309n
filosofia: 66, 73; cartesiana, 134-137, 147148; etica
metodologia
e, 227;
medievale,
della,
127,
154,
107;
181;
moderna, 133, 147-148, 159, 183; pas-
saggio dal greco all’arabo, 117-118; come pratica del commentario, 63-64; termini tecnici in, 166-168; tempo e, 43. Si veda anche «stoica, scuola»
Finger, Stanley, 304n Fiorentino, Francesco, 285n fisica, 81, 137, 146, 148, 151, 165,173, 181
Gagnebin, Bernard, 293n, 294n Galeno di Pergamo, 65, 133, 266n Galindo-Aguilar, Emilio, 295n Ganault, Joel, 297n Gantar, Kajetan, 272n
Garnier, Paul 223 Gass, William H., 283n Gatje, Helmut, 259n, 280n, 281n gatti, 9-14, 252 Gellio, Aulo, 96, 275n Gennaro, Rocco ]., 292n Gerhardt, Carl Immanuel, 287n, 289n, 290n, 294N Gershom ben Solomon di Arles, 55, 264n Giacomo I, 104 Gibb, Hamilton Alexander Rosskeen, 296n
Fisica (Aristotele, v.), 43, 263n Foerster, Otfreid, 307n
Gigante, Marcello, 270n
Forget, Jacques, 295n Fortenbaugh, William W., 264n, 267n, 269n, 272n
Ginzburg, Natalia, 265n Giorgio da Trebisonda, 105
Foucault, Michel, 274n Foville, Achille, 221
Fragments d’un journal intime (H.-F. Amiel, v.), 233, 306n Fraisse, Jean-Claude, 266n, 310n francese, lingua, 159, 162-164, 166-167, 202, 203,308n . — Frank, Richard M., 296n
Frede, Michael, 257n Frege, Gottlob, 289n Fremont, Christiane, 298n
frenologia, 215 Fried, Salomon, 280n Functiones organo animae peculiares (J.
Gilson, Étienne, 284n, 29sn
Giovanni Damasceno, 217 Giove, 107 giudizio, 77, 259n
giurisprudenza, 13 Giustiniano I, 69 Glossary of Greek Fishes (D’A. W.Thompson), 82, 270n Goethe, Johann Wolfgang, Goichon, Amélie-Marie, 296n, 308n Gòrgemanns, Herwig, 85, 272n Gorgia, 86
granchi, 81-83, 93, 270n, 271n greco, lingua: 15, 30-31, 65-67, 73, 81, 85, DITO SEMI ISAIA INTO SMS;
Gabriel, Gottfried, 256n, 284n
256n; classico, 15, 65, 73, 75,110, 118, 199; coscienza e, 31; filosofia in, 3031; Stoici e, 85-86 Gregorio Magno, 119 Griesinger, Wilhelm, 229, 306n Grimm, Friedrich Melchior, 185
Gabrieli, Francesco, 269n; 28on Gadamer, Hans-Georg, 284n
gru, 76
Chr. Reil, v.), 202 Funke, Otto, 302n Furlani, Giuseppe, 295n
Grimsley, Ronald, 301n
IL TATTO
348 Gruithuisen, Franz von Paula, 204, 302n
Grunder, Karlfried, 256n, 284n guerra, 147 guerra civile americana, 217, 224 Guéroult, Martial, 283n Guerrero, Rafael Ramén, 280n Guglielmo d’Alvernia, 181
Guglielmo di Moerbeke, 40, 262n Gundrada, 218
Gurwitsch, Aron, 171, 292n
Herttrich, Ernst, 255n Herzen, Alexandre, 235, 307n Hicks, Robert D., 259n Historia animalinm (Aristotele, v.), 76, 82, 246, 266n, 269n, 270n, 276n, 309n Hobbes, Thomas, 148, 287n Hobbius, v.
Hobbes, Thomas Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus, 9,
IE°13, 255 Hoffmeister, Johannes, 255n, 323n
Gusdorf, Georges, 294n
Holzhey, Helmuth, 289n
gusto, senso del: 19, 22, 25-27, 29-30, 3536, 77, 109, I19, 133, 202, 246 cultura
homo sui juris, 13
araba e, 118-119; come forma di tatto,
246; giudizio e, 27; pensatori della prima modernità e, 133 Gutas, Dimitri, 118, 279n
Hacking, lan, 306n
Hadot, Ilsetraut, 79, 267n, 270n Haller, Albrecht von, 300n Hamacher, Werner, 263n Hamilton, William, 202 Hamlyn, David Walter, 32, 256n, 257n, 260n, 262n, 309n Hardie, William Francis Ross, 260n
Hartn al-Rashîd, 123-124 Harvey, Simon, 294n Harvey, Steven, 264n Hayduck, Michael, 270n, 309n Hegel, Georg Friedrich Wilhelm, 9, 1112, 168, 255n
Heidegger, Martin, 242, 263n, 308n Heinze, Richard, 262n, 268n, 309n Heller-Roazen, Daniel, 263n, 268n, 279n, 31on Hemsterhuis, Francicus, 178
Henle, Jacob, 204, 207, 303n Henry, Michel, 297n, 299n Henry, Paul, 262n Herbart, Johann Friedrich, 168 Herbertz, Richard, 288n Hering, Ewald, 302n Hermann, Ludimar, 302n
INTERNO
Hooker, Michael, 288n Hibner, Christian Friedrich, 206, 208, 299n, 300n
197-202,
Huby, Pamela, 267n, 268n Hude, Karl, 266n
Huenemann, Charles, 292n Hunayn ibn Ishag, 40, 119 Hustwit, Meredith, 304n Ibn Gabirol, 1 19
Ibn Rushd, v. Averroè Ibn Sina, v. Avicenna
Ierocle di Alessandria, 275n Ierocle Stoico, 95-102, 274n, 275n, 276n immaginazione: 23, 43, I19, 257n; cultura arabo-islamica e, 123-124; distinzione
uomo-animale e, 77; pensatori della prima modernità e, 133-134; nel pensiero cartesiano, 135; come senso “*nterno, 119 impulso, 84, 86-87, 89, 96
incoscienza, 55, 58, 146 informazione, teoria dell’, 138
Injuries of Nerves and Their Consequences (S. Weir Mitchell), 219, 304n inglese, lingua, 15, 66, 85, 162-163, 166,
199, 202 : intelligenza: 73-75, 112-113; degli animali, 75-76, 84; senso del tatto e, 246-248
Intelligenza degli animali di terra e di mare, v. De sollertia animalium
INDICE
ANALITICO
349 intelletto / intellezione: 23, 73, 75, 113I14, 134-135, 251; distinzione uomoanimale e, 134; come essenza della mente, 149 intervallo, percezione ed, 21, 47 intoccabile, 248-249, 252 Inwood, Brad, 97, 100, 272n, 275n, 276n Isoldi Jacobelli, Angelamaria, 286n Israeli, Isaac ben Solomon, 119-120, 280n istinto, 88
Jackson, Holbrook, 283n Jalabert, Jacques, 288n, 292n Janet, Pierre 234-239, 241, 306n, 307n, 308n Jean de la Rochelle, 127, 181, 281n Jean le Bel, 129 Jones, Edward G., 303n Jung, Gertrud, 256n, 267n
Kilpe, Oswald, 207, 303n Kulstad, Mark, 292n, 293
171-172,
288n,
29In,
Laparrière, Jean-Louis, 269n Lacan, Jacques, 305n, 308n
La Forge, Louis de, 148, 154, 288n Lamarck, Jean-Baptiste-Pierre-Antoine de Monet de, 202-204, 238, 301n, 307n Landucci, Sergio, 304n Largier, Niklaus, 282n Larsen, Bent Dalsgaard, 270n
Lasègue, Charles, 220 latino, lingua: 15, 130; filosofia in, 30; lingue moderne europee e, 15-16; i Padri
della Chiesa e il, 119; traduzioni dal greco in, 40, 73; traduzioni dall’arabo al&n20, 125 Laurenti, Renato, 257n, 259n, 260n, 261n,
Kafka, Franz, 11, 59, 255n Kahn, Charles H., 18, 31-32, 256n, 257n, 260n, 26Iin
Kannicht, Richard, 276n Kant, Immanuel, 32, 167-168, 194, 29In
Keil, Gundolf, 304n Kerferd, George B., 272n, 273n Kilwardby, Robert, 127, 281n
Kitab al-budud, v. Libro delle definizioni Kitab al-isharat wa’ltanbibat, v. Libro
delle istruzioni e delle osservazioni Kitab al-Najat (Avicenna, v.), 124, 281n Kitab al-shifa”° (Avicenna, v.), 124-125 Kitab al-Ustugsat, v. Libro degli elementi Koch, Hans-Gerd, 255, 325n koinon aistheterion, 199-200 Kosman, Louis Aryeh, 32, 257n, 261n Kranz, Walther, 268n
Krapf, Ernesto, 308n Kreisler, Johannes, amico di Meister Abraham (v.), 13-14 Kreisleriana (R. Schumann, v.), 13, 255N Krishaber, Maurice, 229-231, 233-234, 236, 306n
263n, 264n, 26sn, 278n Lautner, Peter, 267n, 268n, 270n
Lechi, Francesca, 278n
Lectures on Metaphysics and Logic (W. Hamilton, v.), 202
Lefort, Claude, 310n Leggi (Platone, v.), 75, 268n, 272n
Legrand du Saulle, Henri, 221 Lehre vom Tastsinn und Gemeingeftibl, Die (Dottrina del tatto e del sentimento comune, E.H. Weber, v.), 204205, 302n, 303n Leibniz, Gottfried Wilhelm, 147-152,
154-157, 159-173; 178, 192, 234, 287, 288n, 289n, 290n, 29In, 292n, 293n,
294n; sull’appercezione, 166-173; sull'armonia di corpo e anima, 159-161; sulla coscienza,
164-165;
critica di
Locke, 162-164; sulle «piccole percezioni», 151-152, 156-157, 159-161, 164-165, 169, 204, 288n
Leidenfrost, Johann Gottlob, 204, 302n Lelarge de Lignac, Joseph-Adrien, 178, 201, 294N, 300n
IL TATTO
INTERNO
399 Lemos, Aaron, 218, 304n
Magrelli, Valerio, 265n
Lenhossék, Mfhaly Ignacz, 204, 302n lepri, inseguite dai cani, 103-106 Le Roy, Georges, 297n Levi ben Gershom, 181 Lévinas, Emmanuel, 242, 308n Lewry, Patrick Osmund, 281n Libera, Alain de, 128, 282n Liber de anima (Avicenna, v.), 125-126,
Maimonide, Mosè, 119 Maine de Biran, Pierre, 181, 189-195, 201-
262n, 28In
libero arbitrio, 115
Libro degli elementi (I. Israeli, v.), 120 Libro delle definizioni (Avicenna, v.), 245 Libro delle idee degli abitanti della città virtuosa (al-Farabi, v.), 121-122 Libro delle istruzioni e delle osservazioni
Lloyd, A.C., 256n Lloyd, Geoffrey Ernest Richard, 260n, 264n
Locke, John, 147, 149-155, 157, 162-166, 287n,
288n,
Ribot, v.), 206-207, 302n, 303n Malebranche, Nicolas de, 148, 159 Malgaigne, Joseph-Frangois, 304n Manuli, Paola, 28on Maometto, 117
Marchl, Paul, 257n Marco Aurelio, 91, 96 Marion, Jean-Luc, 283n Markus, Robert Austin, 278n Marmura, Michael, 295n Masham, Damaris, 29on Masson, Samuel, 289n
(Avicenna, v.), 182
linguaggio, favella, 73, 134 lingue, 147
178, 201,
202, 206, 235, 297n, 298n, 299n, 300n, zoIn Maladies de la personnalité, Les (Th.
290n,
29In,
294n; sulla conoscenza dell’esistenza,
178; su mente e percezione, 291; sulla volontà e la mente, 161-164
matematica, 147 materialismo, 137
Matteo d’Acquasparta, 181 Matthews, Gareth B., 278n Mayer-Gross, William, 308n McRae, Robert, 171, 292n medici: 65, 118-120, 123, 197-198, 201, 204, 206, 209, 2I1I-212, 214-223, 225,
227-230, 232, 237, 239-241; dell’Anti-
logica, 81, 103-104 logica cartesiana, 49-50, 233-234
chità, 227; arti fantasma e, 211-220; sul
Long, Anthony Arthur, 83, 271n, 272n,
lizzazione e, 241; sulla percezione fan-
273n, 274n, 275$n, 276n
Lovering, Joseph P., 303n luce, percezione della, 156 Lucilio, corrispondente di Seneca, 84, 89-
90, 99 Lucrezio Caro, Tito, 284n lumache, 101 Lupi, Filiberto Walter, 285n
Lyons Malcolm Cameron, 262n Madec, Goulven, 278n Magini, Donatella, 269n, 270n, 271n, 277n magnetismo, 140
delirio di negazione, 221; depersonatomatica, 225; sulle sensazioni alterate, 229 medicina, 65, 205, 221
medium (mezzo): 20-23, 28, 49, 129, 249; il medium intoccabile, 249; il medium trasparente, 19; pensiero €, 248-249; «senso comune» e, 120, 129 Meige, Henry, 305n Meister Abraham, il mecenate del gatto Murr, 12-14 Meister Eckhart, v. Eckhart di Hochheim melancholia anaesthetica, 231 melanconia, 221-224, 229, 231, 239
INDICE
ANALITICO
35.1
Mémotre sur la décomposition de la pensée (P. Maine de Biran, v.), 191, 193, 297n
Mémoires sur l’influence de l’habitude sur la faculté de penser (P. Maine de Biran, v.), 189
memoria:
23, 124, 238; monadi e, 171;
pensatori
della prima
modernità
e,
133-134; risveglio dal sonno e, 59-61; sensazione alienata e, 230-231; come senso interno, 119; SONNO €, 153 mente: 147-149, 159; coscienza di sé e, 234-235; filosofia della, 168-169; incessante attività della, 152-153; problema mente-corpo, 32 Mercken, Henri Paul Florent, 282n Merleau-Ponty,
Maurice,
194, 248-249,
299n, 304n, 310n Mersenne, Marin, 284n Merzdorff, Johann Friedrich Alexander, 197-198
metafisica, 37, 137, 147; 181 Metafisica (Aristotele, v.), 73, 247-248,
Mondo, Il (R. Descartes, v.), 136 Mondolfo, Rodolfo, 50, 256n, 262n, 264n
Montaigne, Michel Eyquem de, 59, 98, IO4=105;:177;.26511;.27511, 2770, 293n, ,299n Montebello, Pierre, 299n Moore, Francis Charles Timothy, 297n, 298n Moore, Will, 301n Moraux, Paul, 262n morbosi, stati, 56
Morel, Bénédicte Auguste, 221 Morselli, Enrico, 302n morte: 17, 142, 172, 177; come assenza di aisthesis, 17; depersonalizzazione e, 236; mutamento nel modo di sentire e, 142
Mortier, Roland, 294n Moseh ben Selomoh (Mosè da Salerno), 260n Moutier, Francois, 232, 306n Movia, Giancarlo, 257n, 258n, 259n, 261n, 263n, 264n, 267n, 268n, 279n, 309n
movimento: «conoscenza» degli animali,
268n, 309n, 310n
Metafisica (T. Campanella, v.), 140-141, 285n, 286n
Metaphrasis in Theophrastum et Solutionum ad Chosroem liber (Prisciano di Lidia, v.), 70, 268n Metochites, Theodoros, 54 Michaud-Quantin, Pierre, 281n Michaux, Henri, 197, 299
89-90; sensazione e, 23, 26, 29, 151,
230; «senso muscolare», 193, 207, 303n; la statua sensibile di Condillac, 185-186 Mulsow, Martin, 28sn Murr, il gatto scrittore di E.T.A. Hoffmann, 9-14, 250 Murray, James Augustus Henry, 301n
Michel, Karl Markus, 255n Michele Scoto, 127
Nadir, Albert Na?rî, 280on Naert, Émilienne, 171, 292n
Miller, Jacques-Alain, 305n, 308n
nascita, 10, 53, 83, 92-93, 98-99, 102, IIO,
Michele di Efeso, 31, 55, 260n, 265n
modernità,
147-148,
165, 191, 208, 24I-
242 Modrak,
180, 227, 273N; auto-appropriazione e,
92; sensazione dal momento della, 53, Deborah
K.W.,
31-32,
258n,
260n, 261n
Moldenhauer, Eva, 255n monadi, 159, 167-168 Monadologie (G.W. Leibniz, v.), 166, 168-170, 204, 289n, 29In, 292n
98
natura: 87-88, 165, 173; dottrina della natura in T. Campanella (v.), 137-138; filosofia della, 11 Neoplatonici, 16, 40, 69-70, 78, 128-129, 275n
IL TATTO
INTERNO
DO Neuhaeuser, Josef, 263n
neurologia, 208, 217 nevralgia, 214, 219 Nidditch, Peter
H., 287n, 290n, 294n
Paré, Ambroise, 218-219, 304n Parmenide, 73, 75 Parva naturalia (Aristotele, v.): 18, 29, 30, 43, 55-56, 70, 118, 259n; facoltà sensi-
Nizolio, Mario, 166, 291n
tiva comune
Nonveanx essais d’antbropologie (P. Maine de Biran, v.), 191, 235, 298n
38; sul sonno, 55-57; synaisthesis e, 70; tempo e percezione nei, 42-43; tradu-
nutritiva, facoltà, 18, 76, 121 nutritiva, vita, $4
nutritivo, principio, 77
nutrizione / nutrimento, 18-19, 77, 206, 257n Nuyens, Frangois, 259n
e, 29; sulla sensazione,
zione in arabo, 118 Parva naturalia commentaria, In (Miche-
le di Efeso, v.), 55, 260n, 26sn passione, percezione della, 139, 141-143, 28sn
Passioni dell’anima (Passions de l’àme, R. Descartes, v.), 136, 149, 284n
O’Daly, Gerard, 278n odore, 21, 105, 109, 125, 148
Pathologische Untersuchungen (Ricerche in campo patologico, J. Henle, v.), 204 pazzia, delirio mentale, 56, 230, 232-233, 240
Of the Inward Senses, v. Dei sensi interni
Peisse, Louis, 206
Obsessions et la psychastbénie, Les (P. Janet, v., e F. Raymond, v.), 236, 307n
otketosis, 84-87, 89, 273n
Pellecchia, Fausto, 310n
olfatto, senso dell’: 17, 19-22, 25, 27, 35» 109; UI9, 133, 202; culmira araba e; 119; pensatori della prima modernità
Pembroke, Simon G., 84, 89, 97, 272n,
3) Omero, 73
Opera omnia (Alberto Magno, v.), 128129, 258n, 28In, 282n
273n, 274n, 275n pensiero / pensare: 18, 33 (res cogitans), 251; cultura arabo-islamica e, 124 (raziocinio); distinzione uomo-anima-
le e, 74-76; sensazione e, 40-42 percezione: 16, 19, 33, 241-242, 275; ami-
opinione (doxa), 76, 78
cizia e, 250; aristotelismo della prima
Orsi, IOI Osborne, Catherine, 261n
modernità, 133-134; arti fantasma e,
Osborne, Mary Chamberlain, 304n Osmont, Robert, 293n «Ospedale Moncherino» («Stump Hospital») di Filadelfia, 213-215, 217-218 Ottaviano, Carmelo, 285n Ovidio Nasone, Publio, 107, 278n Owen, Gwilym Ellis Lane, 260n, 264n
218-220; cessazione della, 241; cogita-
zione e, 135; continuità della, 49; cultura arabo-islamica e, 124; depersonalizzazione e, 237-240; discernimento, 27; etica e, 227; logica e, 103-104; del-
le qualità esterne, 97, 133; generale, 209; natura inanimata e, 140-141; pensatori presocratici sulla, 73; «perversione delle sensazioni» e, 230, 232 6;
Pachymeres, Georgios, 54
«piccole percezioni», 151-152, 155-
Paoli, Rodolfo, 255n
161, 163-165, 169; la Scolastica sulla,
Parafrasi (Themistii in libros Aristotelis
127; sensazione complessa e, 29, 156; sensazione differenziata dalla, 144145, 173, 235; sensi corporei €, 20;
De anima paraphrasis, Temistio, v.), 40, 44, 68, 262n, 268n, 309n
INDICE
ANALITICO
353 senso comune e, 35, 129; «sensi interni», 119; sonno e, 53-54; syrassthesis e, 66, 69; tempo e, 42, 44, 49-50; teoria
delle cinque forme della, 27 Peripatetica, Scuola: 32, 353 37; 43, 47; 49, $1, 54, 57, 64, 69, 76-77, 92, IIO-III,
118-119; autocoscienza degli animali e, 77; dottrina dell’anima, 54; sull’esistenza e la percezione, 51; Neoplatonismo e, 69; pensiero arabo-islamico e, 119; il
«senso interno o interiore»diAgostino (v.) e la, 111; sui sogni, 64-65; sul sonno (riposo), 54; syaisthesis e, 65; sull’unità
della percezione, 47-48 persecuzione, delirio di, 221-222
Perte de la vision mentale dans la mélancolie anxieuse (J. Cotard, v.), 223, 30sn Peters, Francis Edward, 259n, 28on
Plebe, Armando, 310n Plinio Secondo, Gaio, il Vecchio,
Plotino, 40, 67, 76, 78, 262n, 267n, 269n Plutarco di Atene, 78, 81-83, 103-105, 269n, 270n, 271n, 273n, 277n; sulla pinna e sul pinnotere; sul ragiona-
mento dei cani Pohlenz, Max, 84, 104, 272n, 274n, 277n
Polibio, 267n Polidoro, figlio di Priamo e di Ecuba, 286n
Politico (Platone, v.), 75, 268n Polydorus, v. Polidoro Ponzio, Paolo, 285n Porfirio, 76, 89, 103, 105, 271n; 273n,
idro Poulet, Georges, 294n
phantasia, «rappresentazione», 84
Praechter, Karl, 275n praehabitio, v. prenozione prenozione (praebabitio), 128
Phantom
Presocratici, 73, 75
Petit, Jules, 282n
Limbs (S. Weir Mitchell, v.),
218-219, 304 Philippson, Robert, 273n, 274n
Philo Alexandrinus, v. Filone Ebreo
Philonenko, Alexis, 29on Philoponus, v. Filopono, Giovanni
Physiologia medicinalis (M.I. Lenhossék, V.), 204, 302N
piacere: 77, 87, 91, 145; la dottrina delle piccole percezioni e il, 161; esistenza e, 179; tatto e, 252; temperanza e, 227 piante, 54, 76-77, 118, 134, 140, 144, 176
Pick, Arnold, 307n Pierre de Grenoble, 217 Pigmalion, ou la statue animée (A.-F. Boureau-Deslandes, v.), 185 Pines, Shlomo, 281n, 295n pinna, 81-83, 270n pinnotere, 81-83, 270n
Pirotta, Angelo Maria, 309n Pitagorica, Scuola, 48 Platone, 16-17, 44, 75, 252, 256n, 257n, 268n, 269n, 272n, 310n
133,
276n
Preston, John, 104-105 Price, Douglas B., 303n, 304n Principes de la nature et de la gràce fondés en raison (G.W. Leibniz, v.), 166, 168-
170, 29In, 292n Principia philosophiae (R. Descartes, v.), 134, 283n Prisciano di Lidia, 66, 69-71, 242, 267n, 268n
Proclo, 78 propriocezione, 207, 303n Proust, Marcel, 59-60, 62, 265n Pseudo-Bahya, 119
Pseudo-Dionigi l’Areopagita, 128, 281n Pseudo-Filopono, 78 psichiatria: 208, 223, 227, 233, 239, 242;
«cenestesi» e, 208; depersonalizzazione e, 232-234, 239-240, 242-243 psicoanalisi, 62, 220
psicologia: 110, 151; antichi testi greci sulla, 17-18; aristotelica, 35, 43; azioni
primarie e secondarie
in, 238-239;
IL TATTO
994 medioevale, 40; passaggio dal greco
Regulae
all’arabo, 118; risveglio come «ri-torno», 60; Scolastica e, 127; sensazione
Descartes, v.), 134, 283n Reil, Johann Christian, 197, 199-202, 204-
d’assenza di sensazione, 69 (percezione); transizione attraverso intermediaFusi 730
Rein, David, 303n Relazione per un’Accademia,
Psychologia empirica (Chr. Fr. von Wolff, v.), 167, 29In
Psychologie allemande contemporaine, La (Th. Ribot, v.), 206 Quaestiones in tres libros De anima (anonimi), 127
ad
directionem
INTERNO
ingenii
(R.
206, 208, 300n, 30In, 302n
Una (F.
Kafka, v.), IT
Repubblica (Platone, v.), 17, 75, 85, 268n Resnik; Salomon, 307n
Resta Barrile, Anna, 271n Ribot, Théodule, 206-208, 231-232, 234,
sine difficilium dubitationum et solutionum libri quattuor (Physikai scholikai aporiai kai lyseis, Alessandro di
236, 302n, 303n, 306n ricci, 133 riconoscimento, 75 . Riet, Simon van, 262n, 281n riflessive, forme verbali, 15, 86, 177 risveglio, momento del, 56, 58-62, 156,
Afrodisia, v.), 39, 65-66, 69, 26In, 267n, 270n
Ritter, Joachim, 256n, 284n
Quaestiones naturales, de anima, morales,
265n
qualità sensibili comuni, 35, 125
Roazen, Paul, 308n
Quintiliano, Marco Fabio, 284n
Robertson, John Mackinnon, 287n
Rackham, Harris, 88
Robinson, Judith, 265n, 266n Rocci, Lorenzo, 270n Roche, Daniel de la, 197, 299n, 300n
Robinson, James T., 264n
raddoppio dell’io, 230, 235 Radice, Roberto, 261n, 271n, 279n
ragione: 10, 12, 157; consapevolezza e, 16; distinzione uomo-animale e, 73-74, 76, 79-80; come scienza della vita, 112; sensazione alienata e, 230, 233 Rahman, Fazlur, 279n, 295n Ramachandran, Vilayanur S., 304n
Rapports du physique et du moral de l’homme (P.-J.-G. Cabanis, v.), 188, 19I, 206, 297n, 302n 12, 84, 88, 149; appercezione e, 167; cenestesi e, 208-209;
rappresentazione:
cogitatio e, 134; sensazione e, 40-42; sensazione esterna e, 198 Rashed, Roshdi, 283n Raymond, Fulgence, 307n Raymond, Marcel, 293n, 294n razionalismo, 148, 152, 155,157, 167 Reale, Giovanni, 310n Régis, Emmanuel, 223
Rodier, Georges, 257n, 258n, 259n, 263n Rodrigo, Pierre, 266n, 310n romano, Impero, 117
romanze, lingue, 15
Romeyer-Dherbey, Gilbert, 297n rondini, 76, 269n Rosenthal, Franz, 279n rospi, 101 Ross, David, 259n, 261n, 263n Rotpeter («Pietro il Rosso»), personaggio del racconto di F. Kafka (v.) Una relazione per un’Accademia, 11 Rousseau, Jean-Jacques, 175-180, 293n,
294n Rudolphi, Karl Asmund, 204, 302n Rusca, Luigi, 275n
Russell, Bertrand, 289n Russo, Antonio, 258n, 263n, 277n
INDICE
ANALITICO
355 Saint Thomas, v. l'ommaso d’Aquino
Scettici, 97 Schafer, O., 231, 306n Schiff, Maurizio (Moritz), 205, 302n Schilder, Paul, 239, 304n, 307n Schiller, Francis, 300n, 303n
37»
Schiller, Jerome, 261n
Malcolm,
g
48; condivisa,
30,
32;
Schubart, Wilhelm, 274n Schumann, Robert, 13, 255n Schweppenhauser, Hermann, 266n, 308n 256n,
144-145, 173, 2355 «permanente», 203204, 208, 238-239; percezione di perce-
Schroeder, Frederick M., 267n, 269n
Schwyzer, Hans-Rudolf, 267n, 272n
41,
canza di, 227-229; mediazione e, 20; per mutamento, 139-141, 143; 02kezoszs e, 89; percezione differenziata dalla,
256n, 258n, 260n,
273n Scholl, Michael O., 263n
39
coscienza e, 10-11; consapevolezza e, 78; distinzione uomo-animale e, 74-77, » 84; esistenza e, 50-51; come facoltà animale, 12; per informazione, 139; man-
Schizzi pirroniani, 103, 277n Schmahl-Cattell, Jane, 308n Schofield,
della, 98; complessa, 26-27, 29-30, 35-
266n,
scienza: 113-115, 157, 165; il cogito di Descartes (v.) e la, 191-192; guerra e, 147-148; ottocentesca, 202; storici della, 218 scimmie, II Scolastica, 124, 127, 129, 137-138, 171
sé: «cura di sé» e, 91-92; sensazione alienata (depersonalizzazione) e, 230-231; «mutamento nel modo di sentire» e, 142; 0ikeiosis e, 86; percezione corporea e, 187-193, 206-207; «puro Sé» come vuoto, 12; raddoppio del, 230; ritorno
al (riaversi), 175-178; risveglio come «autogenesi», 60; senso di, 142-143 Seconda meditazione (R. Descartes, v.), 136, 283n Seel, Otto, 256n Séglas, Jules, 223-224, 236, 304n, 305n
pire, 32, 79, 109-II1I; pensatori presocratici sulla, 73; qualità sensibile comune, 26-32; «sensi particolari», 30, 55, 70-71, 128, 202-203, 205; senso addotto, 142-143; senso indotto o innato, 142-143; sogni e; 57 sonno e, 54, 56-57; synaisthesis e, 66; tempo e, 42-45; unitaria e molteplice, 37; vita e, 114. Si veda anche « sensi interni» sensi: a/sthesis e, 19, 25; anima come unità politica e, 121-122; cenestesi e, 199;
cinque, 25-27, 77, 133-134, 245; sensazione complessa e, 26-27, 29; «senso comune» e, 35-36, 127-130; «senso interno» e, 201, 278n. Si vedano anche
le voci sui diversi sensi sensi esterni, IIO, 130, 143, 148, I9I, 193
«senso comune»: 7, 25, 30-33, 35-36, 49, 52, 70-71, 89, 98, IIO-III, II9-13I,
133, 135-138, 149, 157, 197-200, 204, 208, 239-240, 242, 26I1n, 283n, 284n; Agostino e il, 110; cartesiano, 135-
137; i cinque sensi e il, 128; depersonalizzazione e, 239-241; come fonte di tutti i sensi, 129-131; mente e, 148-
Seneca, Lucio Anneo, il Giovane, 89-92, 99, 27In, 273n, 274n, 276n, 284n
149; nel pensiero arabo-islamico, 120-
Senofonte, 86 sensazione: 14, 16, 142-144 aisthesis e, 16; alienata, 229-231; antichi filosofi e, 15;
284n; come senso dominante, 35-36; sensi interni e, 133-134; syrazsthesis e,
appropriatezza a se stessi e, 91-92; negli
come unità e pluralità, 40; vista e, 120. Si veda anche «cenestesi»
arti fantasma, 214, 219-220; Cessazione
121; come