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Italian Pages 384 [577] Year 2014
il SECOLO SPEZZATO delle AVANGUARDIE
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il SECOLO SPEZZATO delle AVANGUARDIE
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Franz Marc, Cervo in un giardino fiorito, particolare, 1913, Brema, Kunsthalle Umberto Boccioni, Rissa in galleria, particolare, 1910, Milano, Pinacoteca di Brera Consulenza editoriale: Manuela Mellini Coordinamento del progetto: Donatella Ferrari Art director: Davide Vincenti Coordinamento editoriale: Giulia Dadà Redazione: Carlamaria Colombo, Massimo Zanella/Ultreya Ricerca iconografica: Daria Rescaldani, Massimo Zanella/Ultreya Revisione testi: Paola Comparetti, Chiara Ratti Coordinamento tecnico: Sergio Daniotti L’autore ringrazia per la collaborazione: Riccardo Culotta, Marina Dalmasso, Lorenzo Lingua © Hans Arp, Giacomo Balla, Max Beckmann, Boris Bilinsky, Alighiero Boetti, Georges Braque, Carlo Carrà, Felice Casorati, Marc Chagall, Paul Citroen, Giorgio de Chirico, Salvador Dalì, Gala–Salvador Dalì Foundation, Fortunato Depero, Maurice de Vlaminck, Otto Dix, Succession Marcel Duchamp, Max Ernst, Walter Gropius, George Grosz, Renato Guttuso, Erich Heckel, Thomas Heine, Auguste Herbin, Vassily Kandinsky, Fondation à la mémoire de Oskar Kokoschka, Alfred Kubin © Eberhard Spangenberg, Michail Larionov, Fernand Léger, Tamara de Lempicka © 2010 Tamara Art Heritage, George Lepape, René Magritte, Filippo Tommaso Marinetti, Succession H. Matisse, Ludwig Mies van der Rohe, Successiò Mirò, the Munch Museum/The Munch-Ellingsen Group, Jean Pàges, Francis Pi‐ cabia, Succession Picasso, Man Ray Trust, Banco de Mexico Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust D. F., Arild Rosenkratz, Alberto Savinio, Karl SchmidtRottluff, Arnold Schönberg, Kurt Schwitters, Gino Severini, Mario Sironi, Vladi‐ mir Stenberg, Alfred Stieglitz, Kees van Donge, Georges Vantongerloo, Edward Weston by SIAE 2014. © 2014 RCS Libri Spa, Milano Tutti i diritti riservati www.rizzoli.eu ISBN 978-88-58-67534-2 Prima edizione: novembre 2014 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
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SOMMARIO Introduzione Questioni storiche e cronologiche • • • • •
Piccola confessione dell’autore Fra un gadget e l’altro Tre morti d’avanguardia Tre signori, tre cafoni Il secolo spezzato delle donne
La cavalcata delle avanguardie • • • • • •
Da Giulio Cesare alla rivoluzione borghese Dall’Europa all’America L’onda passa l’onda Marinetti, borghese di sicuro, anarchico forse Nudi alla meta Su, lottiamo! L’Ideale nostro fine sarà
Introduzione nei misteri delle cose note • • • • • • • • • • • • • •
I tredici cavalieri Louis e Auguste Lumière Émile Cohl Antonio Sant’Elia Ludwig Mies van der Rohe Paul Cézanne Gustav Klimt Umberto Boccioni Giacomo Balla Kazimir Malevič Vasilij Kandinskij Paul Klee Giorgio de Chirico Pablo Picasso
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A passo di danza • • • • •
Dal tacco alla punta e ritorno A piedi nudi La Russia conquista Parigi Danza e avanguardie Una nuova femminilità
Ansia genetrix • Spleen e Decadentismo • Apocalisse a tempo di valzer • Dai roaring twenties alla grande depressione
La città tentacolare • • • • •
Città e mito New York e le altre La città immaginata L’arte al servizio delle città Città e solitudine
Conclusione Indici
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Juan Gris, Uomo in un caffè, particolare, 1912, olio su tela, cm 127,6x88,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
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INTRODUZIONE
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uesto libro ha uno scopo: non ammaliare ma amma‐ lare il lettore. Vorremmo fare di voi dei patiti dell’argo‐ mento, quindi degli afflitti da patologia vera e propria. E farvi uscire dall’ovattata noia del museo tradizionale, quando pen‐ sate che l’unico premio sarà il coffee break nella caffetteria, e consentirvi invece di scoprire il virus che si nasconde in fondo all’anima d’ogni uomo e donna d’Occidente, cioè la contorsio‐ ne della sua modernità. Se cascate nel tranello che vi abbiamo preparato, sarete leggermente diversi dopo la cura. In fondo il dibattito su che cosa sia l’arte ha pervaso tutto il XX secolo, che spesso l’ha definita morta. È invece rimasta viva quando è patogena, quando è capace di alterare la visione che abbiamo delle cose. Questo è il libro, per un certo verso ironico, d’un curatore frustrato, al quale il buon senso comune giustamente non ha concesso la libertà del pensiero folle, ovvero la possibilità di allestire alcune mostre riassuntive degli anni che ci hanno for‐ mati, quelli del secolo breve che ha sconvolto tutti i parametri preesistenti, scoprendo il profondo della psiche e del linguag‐ gio. Molto dobbiamo all’abilità dei mercanti d’arte, i quali, so‐ stenendo con convinzione i prezzi, hanno fatto nascere colle‐ zioni e musei; a loro dobbiamo un serio riconoscimento a tal punto che abbiamo dedicato proprio a loro un piccolo spazio 10
mnemonico che tutto è fuorché un cimitero. Da loro non possiamo neppure prescindere in quanto hanno stabilito ciò che conta, anche economicamente si intende, e hanno posto in un cono d’ombra ciò che non ha mercato, le immagini dei giornali e i ricordi del cinematografo, come le affiches pubbli‐ citarie che hanno spesso condizionato ben di più l’immagina‐ rio collettivo. Il pubblico che oggi visita un museo a loro deve molto, talora ben di più di quanto non debba ai curatori che hanno conservato alla memoria futura le opere. Grazie al loro impegno, talvolta garbato e attento, talvolta comprensibil‐ mente avido, si è formata la coscienza storica del secolo bre‐ vissimo. La memoria viene coltivata quotidianamente e la no‐ stra non è eccellente, segue essa il simpatico adagio di Ingrid Bergman per la quale il segreto della felicità è una buona salu‐ te e una cattiva memoria, ecco perché i musei d’arte moderna contribuiscono alla felicità dei popoli: alterano questa memo‐ ria estetizzandola e potandola. Ma questa stessa memoria muta costantemente ed è confusa: ecco il motivo d’un tentati‐ vo azzardato di mettervi ordine. Per quanto concerne la memoria recondita e dormiente, il lettore dovrà aspettare un secondo volume dove spero di pote‐ re rivelarne i contorni celati. Questo è un primo passo inizia‐ tico che potrà forse consentire una calibratura in grandi linee del fenomeno noto, in modo da penetrare successivamente l’i‐ gnoto. La distanza fra l’epoca nostra e quella che siamo abi‐ tuati a considerare la genesi della nostra cosmogonia estetica è in realtà lunghissima, c’è chi considera tuttora Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso un’opera di difficile comprensione, al pari dell’Ulisse di James Joyce o di Verklärte Nacht di Schönberg, eppure il tempo trascorso da allora a oggi è uguale a quello passato dalla battaglia di Waterloo alla Prima guerra mondiale o, per chi si appassiona alla musica, al tempo che corre dal Flauto magico di Mozart alla Bohème di Puccini. 11
Pensiamo che tutto sia diverso da allora, eppure portiamo an‐ cora come vestito contemporaneo contro la pioggia il trench delle trincee di questa guerra mondiale, le medesime cravatte Regimental e le desert boots in cuoio scamosciato. È bizzarra questa sospensione della Storia, come se all’epoca del Napo‐ leone di Waterloo fosse apparso in parrucca Luigi XIV. Mai la storia fu così crudele e carica di drammi come nell’epoca nostra e mai così lenta nelle mutazioni del gusto. Stiamo se‐ duti ancora ai medesimi tavolini tondi dei caffè come l’uomo di Juan Gris e ci capitano i medesimi incidenti automobilistici che capitarono a Marinetti per evitare un ciclista. Di questo percorso drammatico e compresso abbiamo più percezione che comprensione. La comprensione oggi sembra di dovere: sarebbe utile a rimettere in moto il corso e la corsa delle cose. Torniamo quindi all’ultimo momento denso del pensiero, quello della Scuola di Francoforte, quando Adorno si pone le sue astruse domande e Horkheimer le sue improbabili rispo‐ ste per immaginare un mondo che sembrava sull’orlo della fine dei tempi e che tentava di raccontarsi anche con le imma‐ gini. Poi ci fu solo il pensiero debole. Mettere ordine in una matassa così intricata è di per sé operazione intollerabile, oppure ambizione ingenua, tentare piccoli codici di lettura è invece opportuno. I grandi artisti sono grandi, tutti lo sanno, i piccoli artisti del passato spesso sono dimenticati o servono alla critica storica per alimentare il mercato antiquariale; nel mondo moderno non è così: la fac‐ cenda si è resa democratica e ogni appassionato è autorizzato a dire la sua. Per ottenere questo risultato servono però alcuni punti fermi, ecco il motivo che ci ha costretto a ingiustificabili riassunti e a dolorose amputazioni senza anestesia. Chiedo venia al lettore, ma salvo la mia coscienza col fatto che l’edito‐ re mi ha vietato di redigere un’enciclopedia lunga quanto uno scaffale della Biblioteca de Babel del sommo Jorge Luis Borges. 12
Nel presente volume l’intenzione è assai semplice, stimola‐ re il lettore carpendone le grazie con la qualità dei dipinti e portarlo a porsi egli stesso le domande atte a rivedere il dogma.
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Gustav Klimt, Fregio di Beethoven, particolare 1902, tecnica mista su intonaco, al‐ tezza cm 220, Vienna, Secession
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QUESTIONI STORICHE E CRONOLOGICHE Piccola confessione dell’autore
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evo confessare la verità al lettore: sono sempre stato gaullista, da quando, sulla prima televisione arrivata a Kingersheim, mio paese d’origine in Alsazia, che per fortuna fu quella di casa nostra, vedevo di domenica il generale nelle sue allocuzioni alla nazione, alla “France”, parola pronunciata con un lungo accento nasale. Il generale de Gaulle avrebbe potuto dire di se stesso ciò che con la sua retorica enfasi dice‐ va della Francia: “La Francia è un paese che proviene dalle profondità della Storia”. Come scrittore non era niente male: le sue memorie di guerra sono tuttora degne d’essere lette. Mio nonno Anton Hauss, ch’era stato per sei anni a Berli‐ no, ben più della durata della Prima guerra mondiale, non aveva mai sparato un colpo perché a Potsdam si occupava del‐ l’allenamento dei cavalli degli ulani, in una caserma a pochi metri da dove mio fratello Paul oltre settant’anni dopo, ironia della sorte o passione per i lillà che fioriscono a giugno, ha aperto la sua clinica. Paul e io siamo sempre rimasti affascina‐ ti da Berlino, forse perché il nonno, nella sua prima licenza in Alsazia, a due giorni di treno, mise incinta la nonna e nacque mia madre con dei ricordi cromosomici della Prussia, quelli che mi sembravano erroneamente provenire dalla lettura mia di Theodor Fontane, ma che sono identici in mio fratello che non ha mai pensato di dedicare il suo tempo a Effi Briest. Il 15
nonno se ne tornò in Alsazia, ormai di nuovo francese dopo il 1918, ma quando sentì da lontano il rumore dei cingolati na‐ zisti se ne scappò subito nella Francia ancora indipendente, a Bandol, vicino a Marsiglia, a coltivare la vigna per il noto vino rosato che ha reso quella cittadina rispettata sui tavoli del mondo intero. Non imparò mai il francese decorosamente. Mio zio Lucien era entrato nella marina della France libre, quella di de Gaulle appunto, mentre mio zio René s’era arruo‐ lato fra i pompieri di Marsiglia per difendere la città in caso di invasione. Erano tutti gaullisti e il nonno andava di dome‐ nica, negli anni postbellici, alle adunate della Résistance, con il noto béret in testa sul quale campeggiava la croce di Lorena, quella del generale, sempre senza parlare francese. Io ero molto impressionato dalla dimensione del naso del generale, che veniva amplificata in modo ossessivo dalle ancora medio‐ cri riprese espressioniste della televisione di stato. A mio nonno devo una parte della mia memoria storica: questo il motivo per il quale ossessiono il lettore con notizie assolutamente prive d’interesse per la Storia dell’Arte. Ho sempre creduto che la memoria naturale che ognuno di noi si trova a coltivare sia quella dei racconti dei nonni e che quella effettiva e tangibile sia legata alla data di nascita del proprio padre e della propria madre. Mio padre era del 1903, mia madre del 1914. Mia madre Aurélie, ch’era stata a lavorare a Parigi da ragazza in un nego‐ zio di modiste, dove si vendevano cappellini come quelli che troverete in questo libro sulle copertine delle riviste più chic, era totalmente francomane e chiamava i tedeschi les boches. Mio padre Napoleone non rinunciò mai alla nazionalità ita‐ liana, benché cresciuto sin da bambino nelle scuole germani‐ che d’anteguerra e diventato francofono solo dopo il conflitto; fu internato in un campo di lavoro in Slesia a edificare fabbri‐ 16
che di benzina sintetica, con i suoi operai bergamaschi e vene‐ ti, dopo l’8 settembre 1943, quando per i tedeschi gli italiani da soci e alleati divennero nemici. Fu risarcito per i danni di guerra con l’invio d’una pletora di giovanissimi prigionieri te‐ deschi, i quali, se sfortunati, finivano spesso sotto le macerie dei muri bombardati che smantellavano oppure, se fortunati, lo seguivano nella ricostruzione delle cantine dei vignaioli d’Alsazia. Ecco perché sin da bambino ho annusato l’odore inebriante delle fermentazioni. In cantina conservavamo gli schioppi della Prima guerra mondiale e a sei anni sapevo smontare un fucile Mauser. Ho quindi la sensazione che da quegli anni lì il mondo che osser‐ vo non mi sia distante quanto quello di Robespierre o di Giu‐ lio Cesare, ma sia esattamente il mio, quello nel quale mi ri‐ conosco. Questa mania autobiografica pervade la mente di ogni uomo sulla terra. Così siamo fatti e questo è il motivo per il quale un capo tribù africano, anche se diventa banchiere in Europa come il mio amico Otto Bitjoka, deve sapere che la sua autorevolezza cresce in base al numero di antenati che si ricorda. Non c’è da stupirsi più di tanto: in fondo anche nella Bibbia è scritto così. Questa inclinazione autobiografica è uno dei motivi per i quali vorrei concludere il percorso critico della nostra storia non con la fine della guerra nel 1945, ma nell’ot‐ tobre del 1949, quando, sotto il segno della Bilancia e della ri‐ costruzione d’Europa, sono nato io in un ciclo ben diverso da quello precedente, quello dei consumi di massa.
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FRA UN GADGET E L’ALTRO
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a cosa frullava nella testa degli uomini d’Occidente cent’anni fa? Erano convinti d’essere alle soglie d’una era nuova dell’umanità e non si potevano affatto immaginare che da lì a poco si sarebbe rovesciata sul loro mondo entusia‐ sta la tempesta d’acciaio che poi ci ha raccontato Ernst Jünger, che avrebbe sepolto il loro Occidente di lusso nel fango delle trincee prima e vent’anni dopo ancora nel gas dei campi di concentramento. Si rendevano conto delle contrad‐ dizioni insanabili che stavano vivendo e celebrando nella mor‐ bidezza delle crinoline? Già telefonavano e la posta pneumati‐ ca a Parigi portava una lettera da un capo all’altro della città in poco più di un’ora. Così Marcel Proust riceveva gli inviti a cena mentre era alla recherche du temps perdu, senza sapere che fra Milano e Zurigo Albert Einstein nello stesso momento stava stabilendo la relatività, con un primo testo pubblicato nel 1905 dal titolo apparentemente innocuo: Sull’elettrodina‐ mica dei corpi in movimento. E alla questione del tempo egli era approdato partendo dagli studi degli americani Michelson e Morley che avevano nel 1887 dimostrato che la luce non aveva una velocità infinita, ma che corrispondeva circa a 300.000 chilometri al secondo. Questi eventi fondamentali sfuggiti a Marcel Proust permettono il gioco di questo libro in quanto consentono di porre un inizio alle nostre ricerche, gli ultimi anni dell’Ottocento appunto. 18
Già dal 1886 l’ingegnere Karl Benz aveva prodotto la prima automobile con motore a scoppio, dando il nome al carburan‐ te. Nel 1892 l’ingegnere Rudolf Diesel deposita il brevetto per il motore che tuttora porta il suo nome e pubblica l’anno suc‐ cessivo la Teoria e costruzione di un motore termico razionale, destinato a soppiantare la macchina a vapore e le altre macchine a combustione finora conosciute. L’imperatore dei tedeschi Gu‐ glielmo II, il maniaco del riarmo con il braccio sifulo, respon‐ sabile reale della catastrofe bellica successiva, dichiarerà che la cosa è del tutto ininfluente perché le guerre si sono sempre combattute a cavallo e così per sempre sarà; declamazione che replica quella del 1883, quando andò a visitare la prima mo‐ stra berlinese degli impressionisti nella galleria di Fritz Gur‐ litt dove i coniugi Bernstein avevano esposto la loro collezione assieme ai prestiti di Durand-Ruel, e dove, lasciando tintin‐ nare il fodero della sciabola, sostenne che questa faccenda era totalmente priva d’interesse.
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Il kaiser Guglielmo II di Prussia in una fotografia del 1900
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Georges Garen, La Tour Eiffel illuminata per l’Esposizione Universale, 1899, litogra‐ fia a colori, cm 52x34, Parigi, Musée d’Orsay
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Fotogramma della scena iniziale del film di Georges Méliès Viaggio nella Luna del 1902
Dall’altro capo d’Europa Guglielmo Marconi, sui colli sopra Bologna, fa la prima dimostrazione radiofonica nel di‐ cembre 1895. Già nel 1865 Jules Verne aveva pubblicato il suo Dalla Terra alla Luna, quello che avrebbe stimolato nel 1902 la nascita del primo film di fantascienza, il Viaggio nella Luna di Georges Méliès. S’era messo a volare nel dicembre 1903 il primo aereo sperimentale con un essere umano a bordo, quello dei fratelli Wright, apparecchio che prese il nome da Kitty Hawk in North Carolina dove si staccò dal suolo. Sul finire del XIX secolo, e per la precisione nel 1889, il pizzaiolo Raffaele Esposito dedica alla regina Margherita di Savoia la pizza, e l’Italia un giorno diventerà famosa nel mondo! Carlo Marx era morto ormai da sei anni e a Parigi si stavano accendendo i riflettori sulla Tour Eiffel, grande pro‐ tagonista dell’Expo francese di quell’anno di gloria, la stessa Expo per cui il doganiere Rousseau compose una commedia teatrale nel miglior stile vaudeville che sembra anticipare alcu‐ ni film di Alberto Sordi, e Thomas Edison presenta il primo fonografo. Stava nascendo la musica riprodotta; ma soprattut‐ to il vecchio mondo stava diventando il nostro mondo attuale. Il XX secolo era effettivamente già iniziato, con la pizza Mar‐ gherita ovviamente, e l’intero globo terrestre sembrava roteare 22
solo attorno alla vecchia Europa, allora sì unita nell’animo e non dalle banche, come infelicemente si tenta di fare oggi. Fu questo un grave errore di valutazione, che portò a sotto‐ valutare la valenza simbolica di molti piccoli e grandi avveni‐ menti. Ma il mondo all’inizio del XX secolo stava mutando in una direzione che neppure i più entusiasti potevano immagi‐ nare, e mutando nell’intelletto. La successiva Expo parigina del 1900 fu ancor più clamo‐ rosa in quanto a investimenti fatti. Fu costruita la Gare de Lyon con il noto ristorante Le train bleu per accogliere chi veniva dal sud, quindi dalle colonie; fu costruita anche la Gare d’Orsay, poi il Grand Palais e il Petit Palais nonché il ponte prospiciente sulla Senna che prese il nome Alexandre dallo zar di Russia che con la Francia aveva siglato l’accordo di coo‐ perazione sotto la presidenza di Sadi Carnot, il presidente as‐ sassinato dall’anarchico italiano Sante Caserio nel 1894. Per non farsi mancare nulla, nel 1900 furono pure organizzati a Parigi i Giochi Olimpici nella loro seconda edizione moderna dopo quella voluta da de Coubertin ad Atene quattro anni prima: qui per la prima volta entrarono in competizione le donne. Il segnale era quindi evidente: Parigi si dichiarava la nuova Atene. Rimanevano ancora in piedi gli edifici della mostra precedente, il che dotava la città d’una forza espositiva mai conosciuta prima, ma questi vennero radicalmente riordi‐ nati e quelli nuovi aggiunti facevano loro da contrappunto. Non s’era mai visto nulla di simile al mondo, come sforzo e come sfarzo. Ed è forse allora che i tedeschi dell’Impero prus‐ siano iniziarono a dire che per stare benissimo era necessario lo stare “come Dio in Francia”, e ad accarezzare il sogno della guerra che il loro formidabile riarmo avrebbe volentieri acceso anni dopo.
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Il ristorante Le train bleu, inaugurato nel 1900, all’interno della Gare de Lyon di Parigi
Permane una ironica questione di datazione circa l’anno 1900, e cioè se sia il primo di un’epoca nuova o, meglio, l’ulti‐ mo anno del secolo morente e l’Expo di questo concluda il ciclo di entusiasmi. Nel 1901, a Vienna, Sigmund Freud indaga l’animo umano oltre le ricerche parigine di Charcot e pubblica la Psicopatolo‐ gia della vita quotidiana, quella che certamente segna il vero cambio di coscienza. Negli stessi anni il linguista bilingue svizzero Ferdinand de Saussure opera in modo parallelo sul‐ l’interpretazione dei linguaggi e dei segni, ponendo le basi della semiotica e della semantica, mentre Aby Warburg appli‐ ca una metodologia analoga ai segni dell’arte dopo avere stu‐ diato l’iconografia del Rinascimento botticelliano e le pratiche degli indiani messicani nella raffigurazione del serpente: stava nascendo la semiotica delle arti.
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Frontespizio della Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud, 1901
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Litografia raffigurante l’applicazione del metodo Röntgen per le indagini a Raggi X
Nello stesso anno viene dato per la prima volta il Premio Nobel: quello per la Pace a Dunant, l’uomo che fondò la Croce Rossa nel 1863; per la fisica a Wilhelm Conrad Röntgen, l’inventore dei Raggi X; per la letteratura a Sully Prudhomme, in preferenza a Zola e a Tolstoj; per la medicina a Emil Adolf von Behring, il quale con il giapponese Shibasa‐ buro Kitasato (primi passi verso la globalizzazione della ricer‐ ca scientifica…) aveva scoperto a Berlino nei laboratori di Ro‐ bert Koch, padre dei bacilli assieme a Pasteur, i germi del co‐ lera, della tubercolosi e del tetano. Il secolo breve era nel mo‐ mento del suo cambio di percorso. Gli uomini d’Occidente più avveduti cercavano la verità in fondo alla coscienza. L’arte seguiva una strada analoga e pa‐ rallela. Quella che ci viene narrata solitamente dalle collezioni museali ufficiali, quella che viene esaltata dai prezzi sconvol‐ genti delle aste pubbliche, non rappresenta che una porzione minima dell’immaginario corrispondente. A dieci anni dall’inizio del secolo, nel 1911, in Italia, come scrive con entusiasmo Pascoli, “la grande proletaria si è mossa”, in realtà alla conquista di quattro disperati in Libia dimenticati dal soglio imperiale di Istanbul e tutto ciò per ce‐ lebrare nel polverone i cinquant’anni dell’Unità. Nel resto d’Europa si celebra invece la prima Giornata internazionale della donna, mentre in Russia gli studenti scioperano e si fanno prendere a fucilate come racconta Il dottor Živago. A Parigi, come ormai da quarant’anni dopo la guerra francoprussiana e la Comune, si balla e si gode: forse è per questo motivo che vi giungono gli artisti dal mondo intero. Il kaiser Franz Joseph compiva il suo ottantunesimo compleanno e Klimt a Vienna dipingeva la vita e la morte. Mai la vecchia Europa fu così schizofrenica.
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La stessa distonia procede a ritmo incalzante anche negli anni successivi. Vista dai libri di storia, la Prima guerra mon‐ diale sembra un’epoca accomunata nello stesso drammatico destino. Nulla di più errato. Perché se v’è una caratteristica specifica di questo catastrofico conflitto è che, se si esclude la nuova aristocrazia cavalleresca dei primi combattimenti aerei, per le masse in uniforme viene combattuta nel fango delle trincee, nelle tempeste dei mari, nel gelo delle mine alpine. Nasce lo scontro di classe fra truppe e comando, quello che porterà alla Rivoluzione d’ottobre russa e allo spartachismo tedesco. Ciò che più colpisce l’attenzione in quegli anni terribili è la differenza di sensibilità fra fronte e vita cittadina, fra trincee e balletti. Il sorriso sulla carta stampata è d’obbligo: la propa‐ ganda vuole un consenso perenne oppure la condanna per di‐ sfattismo. La verità delle atmosfere appare ben più evidente nella discrezione della pittura, dove il gusto estetico è in evo‐ luzione rapidissima. Il giovane Ernest Hemingway, ferito mentre combatte sul Piave, viene spedito all’ospedale della Croce Rossa di Milano. Qui conosce l’infermierina Agnes, che diventerà Catherine in Addio alle armi: andavano assieme a bere al Grand’Italia dove s’incontravano con Dos Passos e Julien Green, americani come loro, imbarcati nell’avventura della guerra. Julien Green, che ebbi ancora la fortuna di conoscere, mi raccontò della me‐ raviglia che fu la sua prima serata al Teatro alla Scala. L’Eu‐ ropa della guerra era per gli americani il sogno di conquista; il sommo dell’avventura possibile. Gli Stati Uniti si preparano a diventare i nuovi protagonisti del gioco mondiale. A Parigi, a duecento chilometri da dove nel Belgio si im‐ piegava per la prima volta il gas mostarda, si continua a balla‐ re: in realtà la guerra si viveva, ma non sempre si sentiva. E 27
qui fra poco arriva anche l’ormai guarito Hemingway, a bere e scrivere capolavori. La vecchia Europa sta per cambiare radicalmente. Quella di mezzo sarà la vera vittima del cambiamento: nel 1916 se n’era andato ottantaseienne l’imperatore kakanico (kaiserlich und königlich, imperiale e regio) Francesco Giuseppe dopo sessantotto anni di regno; nel 1918 a febbraio muore il canto‐ re delle eleganze viennesi Gustav Klimt, Schiele lo ritrae sul letto di morte e se ne va anche lui di febbre spagnola il 31 ot‐ tobre, come Apollinaire il 9 novembre e come la bisnonna di mio figlio Sebastiano a Venezia. Si morì allora, in venti milio‐ ni, più di febbre che di guerra.
Cartolina del 1937 in ricordo dell’Esposizione Internazionale di Parigi. In primo piano i padiglioni della Germania e dell’URSS
L’11 novembre 1918 s’era fermata la guerra con l’armisti‐ zio, non con la pace ma con le rovine e le questioni aperte. Da quel momento le strade si dividono: ciò che non fecero le armi lo faranno le arti, i vincitori sempre più chic, i perdenti sempre più choc. E il nostro compito ambizioso è quello di 28
portare il visitatore in una avventura intellettuale impertinente all’apparenza ma sostanziale per il ragionamento. Non fidandoci più di tanto della critica d’arte recente, pre‐ feriamo affidarci al sommo pensiero di sir Winston Churchill, il quale con acume lega la Prima guerra mondiale all’implo‐ sione dell’Europa e ne fa un tutt’uno con la Seconda guerra mondiale. Questo ciclo storico, ben più pregnante d’ogni dis‐ sertazione estetica, è quello che ci ha guidato. D’altronde anche sir Winston dipingeva, e neanche tanto male. Gli spiriti intelligenti già intuivano il dramma in corso e lo scambio epistolare fra Sigmund Freud e Albert Einstein lo di‐ mostra. In quel piccolo testo intitolato Perché la guerra? del 1933, anno nel quale l’imbianchino prese il potere definitivo sull’umanità germanica, avevano loro intuito ciò che Chur‐ chill avrebbe scritto nelle sue memorie ed è la stessa intuizio‐ ne che avrà Max Ernst nel 1937, quando la Germania lo de‐ creta artista degenerato: l’Europa correva verso la catastrofe esattamente come il Titanic incosciente navigava verso l’ice‐ berg, e sulle terrazze d’Europa, come nelle sale lussuose del Titanic, si continuava a ballare.
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Albert Einstein alla lavagna nel 1930
Ancora Einstein, in una raccolta di suoi scritti del 1931, a poco più di un anno dal tracollo di Wall Street, così ammoni‐ va i suoi contemporanei: Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il gior‐ no nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere “superato”. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso ta‐ lento e da più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza. L’inconveniente delle persone e delle Nazioni è la pigri‐ zia nel cercare soluzioni e vie d’uscita. Senza la crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c’è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lieve brezze. Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare il conformismo, invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla. Albert Einstein, Il mondo come io lo vedo, 1931
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Nessuno lo ascoltò. Nel 1903 Marie Curie era stata la prima donna insignita con un Premio Nobel: lo vinse insieme al marito Pierre e ad Antoine Henri Becquerel per la scoperta della radioattività, quella che consentirà di applicare quarant’anni dopo, il 16 lu‐ glio 1945, l’equazione di Einstein e=mc2 all’uranio per fare brillare nel deserto del Nuovo Messico la prima bomba ato‐ mica detta “the Gadget”, parola inventata dal signor Gaget di Parigi quando vendeva agli americani le piccole Statue della Libertà nel 1886, durante l’inaugurazione del monumento francese divenuto simbolo dello spirito degli States. La bomba vera e propria, non più sperimentale, esplode sopra Hiroshima il 6 agosto dello stesso anno ed è all’uranio, mentre quella di tre giorni dopo a Nagasaki è al plutonio. Fra il “gadget” del 1886 e quello del 1945 si delimita un’epoca che è ben più significativa della banale scansione dei secoli e corri‐ sponde maggiormente allo sviluppo capriccioso della Storia.
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Il fungo atomico sopra Nagasaki, 9 agosto 1945
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TRE MORTI D’AVAN‐ GUARDIA
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ella notte del 25 settembre 1940, il professor Walter Benjamin, nel tentativo di correre verso il Portogallo per imbarcarsi e rifugiarsi oltre Atlantico come fecero alcuni suoi compagni ebrei fra i più fortunati, si trovava a Portbou, picco‐ lo centro spagnolo vicino alla frontiera con la Francia, dove era giunto dopo una lunga fuga da Parigi. Era già stato inter‐ nato per tre mesi a Nevers assieme ad altri rifugiati di nazio‐ nalità tedesca; da lì era riuscito a fuggire verso la Spagna. Le notizie però erano pessime, la polizia spagnola forse lo avreb‐ be ricacciato nella Repubblica di Vichy ormai sottomessa al III Reich. Decise di suicidarsi con una overdose di morfina. In quelle ore fatali Benjamin scrisse una lettera d’addio al suo compagno filosofo Theodor W. Adorno, con il quale aveva condiviso le esperienze della scuola filosofica di Francoforte prima appunto di finire a Parigi nel 1937 nell’appena fondato Collège de Sociologie, dove insegnavano Georges Bataille, Roger Caillois e Michel Leiris, l’antropologo sposato con Louise Leiris, la gallerista di Pablo Picasso che aveva preso il posto del primo gallerista del Maestro, il notissimo ebreo Kahnweiler suo cognato, tedesco d’origine, ormai naturalizza‐ to francese, che riuscirà durante gli anni della guerra a rima‐ nere nascosto nelle pieghe della città.
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Walter Benjamin nella Biblioteca Nazionale di Parigi, in una fotografia di Gisèle Freund
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Lev Trockij legge i giornali esteri nel suo studio
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Anton Webern al pianoforte negli anni Trenta
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Egon Schiele, Ritratto di Anton Webern, 1912, litografia, cm 32x23, Collezione pri‐ vata
Nella notte del 15 settembre 1945, un mese circa dopo l’e‐ splosione della prima bomba atomica a Hiroshima, a Mitter‐ sill in Austria, il musicista Anton Webern fu ucciso con un colpo di fucile tiratogli in testa da un soldato americano che gli aveva intimato, dopo una razzia, l’alt sulla porta della casa 37
di un parente, sospettato di mercato nero. Con la morte di questi due protagonisti della prima metà del XX secolo si conclude in modo emblematico e drammati‐ co il ciclo d’una modernità che aveva fatto del vecchio conti‐ nente il centro della ricerca artistica mondiale. I due personaggi dalla morte drammatica ci interessano ov‐ viamente per il loro apporto alla storia del pensiero, Webern perché portò la musica occidentale ai limiti suoi ultimi, Ben‐ jamin perché l’ultima conferenza che avrebbe voluto tenere a Parigi era quella sulla moda, dopo avere a lungo analizzato l’evolversi del pensiero e della semiotica delle arti visive. A lui si deve un libretto che ebbe vasta fortuna, L’opera d’arte nell’e‐ poca della sua riproducibilità tecnica, scritto durante l’esilio pari‐ gino del 1935, testo particolarmente acuto nel quale si ipotiz‐ za la fine dell’aura che l’opera d’arte da sempre s’era portata appresso come in un mondo mitico. Ma se avesse avuto il tempo sufficiente per ragionare a lungo sulla moda avrebbe forse cambiato opinione, poiché avrebbe scoperto che dalla pittura, ormai non più adatta alla comunicazione di massa, si sprigionava una energia di ricerca che con regolarità inelutta‐ bile andava a contaminare tutto il mondo visivo, la pubblicità, il cinema e ovviamente anche il cosmo magico dei vestiti e delle mode. Benjamin una cosa l’aveva intuita, e cioè che le immagini si sarebbero sviluppate ben oltre la pittura, nel cinema e nell’il‐ lustrazione. Da lui in poi quasi tutti i pensatori una volta o l’altra avrebbero parlato della morte della pittura. L’altra inve‐ ce non la poteva ancora presagire, e cioè che la pittura era un laboratorio formidabile dove si sperimentava l’immaginario di frontiera, e che questo immaginario avrebbe lentamente con‐ taminato il resto del mondo delle immagini. Oggi la potente capacità di comunicazione restituisce alla pittura un ruolo 38
fondamentale. Ma a Benjamin mancava internet. Benjamin non aveva capito bene Trockij, il quale era stato assassinato in Messico un mese prima che lui si suicidasse. E Trockij era morto per via dell’altro dittatore.
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TRE SIGNORI, TRE CAFO‐ NI
L
a storia che questo catalogo immaginato intende nar‐ rare potrebbe, o forse si trova costretto, a documentare, apparentemente dovrebbe essere quella corrispondente al primo grande conflitto fra le masse che ha determinato le sorti dell’Occidente. La deflagrazione formidabile della Prima guerra mondiale, quella narrata da Gadda (Giornale di guerra e di prigionia), come da Céline (Viaggio al termine della notte) e da Ernst Jünger (Nelle tempeste d’acciaio), conclude solo la mattanza nei fanghi delle sue trincee con gli assassini di massa nei gulag e l’olocausto dei campi di sterminio vent’anni dopo. Dalla Guerra di religioni detta dei Trent’anni, quando i popoli germanici passarono da sedici a quattro milioni d’abi‐ tanti, nessuno ricordava un simile scontro malefico fra popoli, per motivi così lontani da interessi economici quotidiani.
Il generale de Gaulle parla alla BBC, 30 ottobre 1941, Parigi, Archivi de Gaulle
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Il presidente Roosevelt nel suo studio alla Casa Bianca dopo la rielezione, 4 novem‐ bre 1936
Winston Churchill annuncia alla nazione la vittoria degli alleati, 8 maggio 1945
Ritratto di Iosif Stalin, 1953
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Ritratto di Adolf Hitler
Benito Mussolini a cavallo, 11 febbraio 1933
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Benito Mussolini a torso nudo parla alla folla da un trattore durante la battaglia del grano, 6 luglio 1938
Eppure viene oggi la tentazione di rileggere questa storia di disgrazie desiderate e coltivate, non solo come conflitto di classi o di masse, ma come conflitto fra élite di diversa forma‐ zione. In una inattesa intervista che il presidente della Repub‐ blica Popolare di Cina diede al quotidiano parigino “Le Monde”, l’incredibile Mao Zedong sosteneva che la questione delle masse era in realtà solo uno specchietto per inavvertiti. Perché, a suo parere, la questione era come da sempre legata alle personalità somme che la avevano posta in essere. Se‐ guendo questa sua cinica quanto lucida affermazione si po‐ trebbe sostenere che il conflitto finale che chiuse una pagina fondamentale della storia dell’Occidente fu in realtà un epos tragico fra tre protagonisti lugubri d’origine sociale incerta e tre protagonisti di questa borghesia d’Europa che si stava por‐ tando verso il baratro. Da un lato tre istrioni vestiti in divise militari da operetta, tutti e tre con il proprio cognome trave‐ stito in simboli di massa: lo Stalin (Iosif Džugašvili), il Duce (Benito Mussolini) e il Führer (Adolf Hitler); dall’altro tre si‐ gnori di ottimi natali, fieri del proprio cognome, delle proprie scuole di formazione e dei propri antenati: sir Winston Chur‐ 43
chill discendente dal duca di Malborough, Charles de Gaulle generale della France libre, e Franklin Delano Roosevelt pre‐ sidente del New Deal. Tre cafoni contro tre signori.
La Boisserie, residenza di Charles de Gaulle a Colombey-les-Deux-Églises
La casa natale di Theodore Roosevelt
Blenheim Palace, la casa natale di Winston Churchill a Woodstock
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La casa natale di Iosif Stalin, ora museo, a Gori in Georgia
La casa di Adolf Hitler a Leonding
La casa natale di Benito Mussolini a Predappio
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IL SECOLO SPEZZATO DELLE DONNE
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ulla spiega meglio la questione del secolo brevissimo di quanto non lo possano fare alcune donne eccellenti, le quali per la prima volta celebrano e attuano una loro indi‐ pendenza. A loro si deve la mutazione della figura femminile casalinga o musa o amante o moglie o sorella o mamma, che diventerà movimento di massa solo nel secondo dopoguerra. Vanno dalle artiste più eccentriche alle protagoniste vere e proprie, da Sonia Delaunay ad Alma Mahler; dalla Gončarova alla Aleksandra Ekster; da Rosa Luxemburg, quella che tentò la rivoluzione in Germania, a Margherita Sarfatti che insegnò a Mussolini a tenere la forchetta; da Ro‐ maine Brooks ad Anaïs Nin; da Colette a Tamara de Lem‐ picka; da Djuna Barnes e Dora Maar, una delle più brillanti muse di Picasso, alla giovane filosofa Hannah Arendt, l’amica di Benjamin e di Heidegger; dalla promotrice delle arti in epoca cubista Gertrude Stein alla fanatica delle avanguardie successive Peggy Guggenheim; da lady Sackville-West, la super nobile britannica e super giardiniera, alla sua amica Vir‐ ginia Woolf; dall’America Latina con Victoria Ocampo, l’in‐ credibile mitomane amica di Borges e di Bioy Casares, all’Au‐ stria di Adele Bloch-Bauer, la mondanissima amica di Witt‐ genstein, e alla Francia di Coco Chanel, l’inventrice della mondanità fra Parigi e la Côte d’Azur.
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Tarsila do Amaral in una fotografia degli anni Trenta
Edward Weston, Tina Modotti in Messico, 1924 ca., stampa al platino, cm 28x21, Collezione privata
Mai vi fu un elenco così impressionante di personalità ap‐ 47
parentemente irripetibili, in questo secolo brevissimo dove già nel 1903 fu dato uno dei primi premi Nobel per la fisica a Marie Curie, che lo riceverà addirittura una seconda volta nel 1911 per la chimica. Per non parlare delle incredibili eccentri‐ che dei mondi lontani, Tarsila do Amaral in Brasile e di Frida Kahlo in Messico, in quel Messico rivoluzionario dove appro‐ da anche dal Friuli nostrano Tina Modotti. La Modotti fu socialista estrema, nata nel 1896 a Udine, due anni prima che a Kiev nascesse Golda Meir, una delle fondatrici dello Stato d’Israele. Ci volle tutta la forza d’impatto delle pin-up ameri‐ cane e delle maggiorate cinematografiche del secondo dopo‐ guerra per porre questa rivoluzione reale in un cono d’ombra. Una delle mutazioni radicali del secolo brevissimo è relativa innegabilmente all’emancipazione del mondo femminile. Le radici stanno nel cuore dell’Ottocento ma evolvono rapida‐ mente. Emblematica in questo senso la storia della nonna di Gauguin, l’agitatrice socialista Flora Tristan, figlia illegittima d’un possidente terriero nobile peruviano e d’una controrivo‐ luzionaria parigina della piccola borghesia, lei oggi considera‐ ta una delle prime femministe della Storia moderna, socialista utopista che si fece sparare una rivoltellata da un marito ma‐ nesco e scrisse il suo primo libro sulla condizione operaia in‐ glese nel 1840 prima di mettersi a girare in lungo e largo la Francia e morire di tifo a Bordeaux, lasciando un libro postu‐ mo dal titolo emblematico: L’émancipation de la femme ou Le testament de la paria.
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Man Ray, Coco Chanel, 1935, stampa al platino, cm 26x18, Collezione privata
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Djuna Barnes in una fotografia del 1925
Non è infatti estranea a questo cambiamento degli usi occi‐ dentali la nuova morale che le sinistre nascenti e lo spirito ri‐ voluzionario libertario diffondono in un mescolare fra perso‐ naggi letterari e reali, dall’analisi ancora spietata d’una Mada‐ me Bovary che viene condannata dal fato per essersi posta in un’ottica d’indipendenza, ad Anna Karenina per la quale la soluzione finisce in suicidio. Ma dalla medesima Russia con‐ torta nelle sue chiusure sociali provengono le prime emanci‐ pate internazionali. Sintomatica l’esistenza di Helena Petrov‐ na Blavatsky (1831-1891) che, subito dopo il matrimonio ap‐ parentemente liberatorio dai vincoli paterni, arriva ventenne a Londra dove scopre l’iniziazione ai misteri dell’India, ma 50
corre immediatamente dopo a trovare Garibaldi e a beccarsi una pallottola che la lascia mezza morta nella battaglia di Mentana. Apparentemente defunta e gettata in una fossa co‐ mune, sopravvive grazie a forze arcane e a due maestri indù (come si trovassero a Mentana è tuttora da dimostrare) che ne determineranno il destino, il quale si svolge fra Londra e New York dove fonda la Società teosofica nel 1875. Viene da porre la sua storia in parallelo con quella di Jessie White Mario (1832-1906), la quale va a studiare Filosofia alla Sorbona di Parigi, incontra Garibaldi a Nizza negli anni cinquanta del‐ l’Ottocento, torna in Inghilterra dove incontra Mazzini, vuole diventare la prima donna medico d’Inghilterra e se ne va inve‐ ce a seguire le avventure risorgimentali, prima con Pisacane dove finisce in galera a Genova. Torna in Inghilterra e a New York per far comizi a favore della causa italiana, poi con Gari‐ baldi a Palermo, dove arriva con la spedizione che segue im‐ mediatamente quella dei Mille, partecipa come infermiera alla battaglia del Volturno, segue tutto il percorso risorgimentale e Garibaldi dalla battaglia di Mentana, quella dove la Blavatsky viene ferita, fino alla guerra franco-prussiana del 1870 dove lo vede vincere l’unica battaglia contro l’invasore, va a Napoli conquistata dove scrive un’analisi spietata delle classi povere, La miseria di Napoli, fa da inviata per i giornali inglesi e ame‐ ricani e muore infine a Firenze.
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Tamara de Lempicka, Gruppo di quattro donne nude, 1925 ca., olio su tela, cm 130‐ x81, Collezione privata
L’Italia come terreno di sperimentazione politica attira più tardi un’altra donna futuro medico, sempre dalla Russia, Anna Kuliscioff, che si era spostata a Zurigo per studiare Fi‐ losofia (anche lei, ebbene sì). Qui incontrò Andrea Costa, dal quale avrà la figlia Andreina e con il quale sarà fondatrice del 52
Partito Socialista Italiano prima di laurearsi a Torino e a Pa‐ dova con una tesi sulle febbri puerperali che servirà a salvare la vita a migliaia di donne. Diventa successivamente medico a Milano e compagna di Filippo Turati: a casa loro nasce la ri‐ vista “Critica Sociale” che lei dirige dal 1891 e sempre a casa loro passano intellettuali e politici nonché la poetessa Ada Negri. A Milano approda nel 1902 Margherita Sarfatti (1880-1961), che dal 1909 dirige la rubrica d’arte del giornale socialista “Avanti!” e avrà la bizzarra responsabilità d’avere tentato d’insegnare le buone maniere al direttore del quotidia‐ no Benito Mussolini. Sarà lei la prima protettrice di Umberto Boccioni, la collezionista di Medardo Rosso, la fondatrice del movimento artistico Novecento nel 1922 con Anselmo Bucci, Mario Sironi e adepti. Fuggirà le leggi razziali andando in Argentina, dove incontra Victoria Ocampo, altro personaggio di formidabile rilievo, mondanissima e cosmopolita, musa di Borges, fondatrice della più sofisticata rivista letteraria del continente latino-americano “SUR”, dove lavora anche sua sorella minore Silvina, moglie di Adolfo Bioy Casares, il socio letterario di Borges. “SUR” diventa strumento di comunica‐ zione dell’intelligencija internazionale sotto la guida del filo‐ sofo Ortega y Gasset e sarà antifranchista, antifascista, anti‐ nazista e antiperonista. Donne naturalmente portate al prota‐ gonismo, socialmente provenienti da ambienti eterogenei, fino alla più eccentrica delle figure, quella della marchesa Ca‐ sati (1881-1957). Figlia dell’industriale cotoniere svizzero Al‐ berto Amman, approdato a Milano e fondatore della Associa‐ zione Cotoniera Italiana, entra anche lei nella categoria delle ereditiere che sposano mariti nobili e particolarmente tolle‐ ranti, come la comtesse de Noailles e la princesse de Polignac.
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Romaine Brooks, Ritratto della marchesa Luisa Casati, 1920, olio su tela, cm 258‐ x130, Collezione Lucile Audouy
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William Strang, Signora con cappello rosso, 1918, olio su tela, cm 102,9x77,5, Gla‐ sgow, Art Gallery and Museum
Queste donne anticonformiste si trovano a essere talvolta eroine inattese, talvolta protagoniste mondane, spesso artiste di talento e indipendenti. Il nucleo anglosassone nell’apparen‐ te società puritana della regina Vittoria ne è un altro buon esempio. Nell’etereo circolo di Bloomsbury, nato attorno a un gruppo di ex studenti di Cambridge, girava la scrittrice Virgi‐ nia Woolf e anche l’economista socialista John Maynard Key‐ nes, sposato con la prima ballerina dei Ballets russes Lidija Lopuchova, ma nondimeno attratto pure da Duncan Grant, cugino e amante dello scrittore Lytton Strachey, il quale con‐ vive con la decoratrice Dora Carrington. La loro storia finisce drammaticamente: Strachey muore di cancro nel 1932, la Carrington si spara una rivoltellata due mesi dopo. Suicida muore anche Virginia Woolf, gettandosi in un fiume coi sassi in tasca, due anni dopo l’inizio della Seconda guerra mondia‐ le. Aveva coltivato una lunga e tormentata relazione con Vita 55
Sackville-West, discendente da una delle più antiche famiglie normanne d’Inghilterra, ricca e sposata con il parlamentare scrittore Harold Nicolson. Vita Sackville-West amava girare nella sua soffice alta so‐ cietà in abiti maschili, e non era affatto l’unica. Così piaceva anche vestirsi a Romaine Brooks, l’ereditiera americana nata a Roma con il nome di Beatrice Goddard (viva Dante Alighie‐ ri!) nel 1874, sposata brevemente con il pianista bisessuale John Ellington Brooks che lascia regalandogli un assegno mensile soddisfacente. Ottiene la libertà d’ogni tipo di rela‐ zione, con d’Annunzio, con Lord Alfred Douglas, l’ex amante di Oscar Wilde, poi con la grande stella Ida Rubinštejn e infi‐ ne con il grande amore della sua vita, la scrittrice Natalie Clif‐ ford Barney, che la tradirà drammaticamente a ottant’anni con una giovane francesina. Bel tipo anche la Clifford, che a dodici anni si scopre lesbi‐ ca e nel 1899 va a trovare, vestita da “paggio dell’amore” ed evocando Saffo, in uno spettacolo di danza, la più bella di Pa‐ rigi, la cortigiana Liane de Pougy, quella che fa la stella alle Folies Bergère e ha Parigi ai suoi piedi, uomini e donne. Pub‐ blica la sua storia con l’adolescente intraprendente nel 1901, romanzandola nel volume Idillio saffico (con sessantanove rie‐ dizioni in un anno!), poi si sposa un principe rumeno (princi‐ pessa Ghika anche lei!) e finirà ottantenne convertita fra le suore di Losanna. Fra gli amori della Barney passa anche la sublime scrittrice Sidonie-Gabrielle Colette, quella dei gatti, giornalista, scrittrice, attrice di music-hall dove amava com‐ parire nuda in scena, che ebbe tre mariti e amanti d’ambo i sessi, diventerà grand’ufficiale della Legion d’Onore e avrà so‐ lenni funerali di stato a ottantun anni. Bel tipo la Colette, nata nella provincia francese di Borgogna, figlia d’un capitano degli zuavi che aveva perso la gamba nella battaglia risorgi‐ mentale di Melegnano al seguito di Napoleone III e che la 56
educa alla passione per la letteratura come una Madame Bo‐ vary del riscatto. La mamma è atea convinta e femminista ma va nondimeno a messa, con i testi di Corneille nascosti nel messale. La famiglia s’impoverisce e lei ventenne sposa Henry Gauthier-Villars, amico di casa e scrittore pop nonché critico musicale, oltre che editore e viveur. Lui la tradisce e lei si am‐ mala ma entra nei circoli d’arte e di mondo della capitale. Co‐ lette si mette a scrivere per lui e inizia una sequenza di ro‐ manzetti sulle avventure di Claudine, che diventano man mano sempre più piccanti. Intanto scopre il musichall, fra il Théâtre de Marigny, il Bataclan e il Moulin Rouge dove danza in modo assai discinto e si farà vietare uno spettacolo dalla Préfecture perché appare nuda sotta una pelle di leopar‐ do. Divorzia. E inizia la sua lunga carriera d’amori in ogni di‐ rezione, il più fragrante con la duchessina Mathilde de Morny che sale in scena con lei, il più intellettuale con Natalie Clif‐ ford Barney. Si risposa nel 1912 con il direttore del quotidia‐ no “Matin”, Henry de Jouvenel, futuro ministro della Pubbli‐ ca Istruzione, e così diventa baronessa. Lui la tradirà e lei già più che quarantenne inizierà ai misteri del sesso il di lui figlio Bertrand diciassettenne, nello stesso anno nel quale le viene data la Legion d’Onore, lei che nel frattempo è diventata nota scrittrice e aprirà un salone di bellezza per insegnare alle pari‐ gine lo stile del nuovo trucco.
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Romaine Brooks, Autoritratto, 1923, olio su tela, cm 117,5x68,3, Washington, Smi‐ thsonian American Art Museum
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Romaine Brooks, Gabriele d’Annunzio, il poeta in esilio, 1912, olio su tela, cm 116‐ x95, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Romaine Brooks, La crocerossina, 1914, olio su tela, cm 116,2x85, Washington, Smithsonian American Art Museum
Colette sul palco in una esibizione del 1909
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A Parigi l’atmosfera è invero ben più libera che a Londra. Nella capitale francese s’era formata quella società cosmopoli‐ ta che Hemingway definirà la Lost generation nel suo capola‐ voro dell’esistenzialismo peripatetico che è Fiesta (The Sun Also Rises, 1926), termine che ruba a Gertrude Stein e con il quale lei definiva il mondo letterario di Eliot e di Fitzgerald (quello del Grande Gatsby), di John Steinbeck (quello di Pian della Tortilla) e di Erich Maria Remarque (quello di Niente di nuovo sul fronte occidentale). E nel frattempo la Clifford Barney aveva organizzato a Neuilly il Salon che nomina l’Académie des Femmes dove passano la Rubinštejn, Colette, Gertrude Stein, la collezioni‐ sta di Picasso, Mata Hari la ballerina spia, Marguerite Your‐ cenar quella attratta dall’enigmatico imperatore Adriano e dal suo amante Antinoo, Greta Garbo agli esordi, Djuna Barnes, americana di fuori New York con una nonna suffragetta e un babbo sostenitore della poligamia, lei scrittrice alternativa che cresce come poetessa nel Greenwich Village, arriva a Parigi con una lettera di presentazione a James Joyce e pubblica nel 1915 The Book of Repulsive Women.
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Romaine Brooks, Ritratto di Ida Rubinštejn, 1917, olio su tela, cm 70x56, Washing‐ ton, Smithsonian American Art Museum
Un mondo chic e chèque, eleganza e danaro, libertà e crea‐ tività, al quale il dramma della guerra sembrava passare sulla pelle impermeabile. Il mondo choc stava altrove.
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Tarsila do Amaral, Abaporu, 1928, olio su tela, cm 85x73, Collezione privata
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André Kertész, Distorsione, 1933, stampa al platino, cm 40x60, Collezione privata
Nulla a che vedere infatti con le altre esperienze femminili, quelle dell’impegno politico alla Anna Kuliscioff. Se le ricche scappavano dall’America, le impegnate lì avevano lasciato la vita: la durissima Voltairine de Cleyre, poverissima di famiglia con un padre anticlericale e voltairiano (come il nome lascia intuire…) e un nonno materno che aveva aiutato gli schiavi a fuggire. Fu mandata a studiare dalle suore in assistenza nel‐ l’Ontario e fuggì anche lei a nuoto per tornare a casa, fu ri‐ mandata dal padre a scuola e si diplomò con la medaglia d’oro. Legge Thoreau, diventa anarchica dopo la repressione di Haymarket quando la polizia, il 4 maggio 1886 a Chicago, nel tentativo di reprimere una protesta operaia si vede lanciare una bomba che uccide un agente e reagisce sparando e facen‐ do successivamente impiccare otto lavoratori. Inizia anche così il secolo brevissimo, con quei mesi di pri‐ mavera di sangue che si ripeteranno con l’incendio della fab‐ brica di camicie a New York l’8 marzo del 1908 dove perirono 64
centinaia di operaie, evento funesto al quale si fa risalire la ge‐ nesi della Festa delle Donne. All’affare di Haymarket s’inte‐ ressa la quindicenne appena immigrata dalla Russia Emma Goldman (1869-1940) che diviene anche lei anarchica e fem‐ minista, passa al congresso anarchico di Amsterdam del 1907, corre in Russia con il compagno Aleksandr Berkman appena scoppia la Rivoluzione e si pente del bolscevismo immediata‐ mente dopo la repressione di Kronštadt. Lo stesso ideale rivo‐ luzionario porterà pochi anni dopo Tina Modotti dal Friuli alla California e poi in Messico con il fotografo e amante Ed‐ ward Weston per seguire l’altra rivoluzione, quella nella quale incontra Frida Kahlo e il suo compagno Diego Rivera e di‐ venta la fotografa ufficiale del giornale comunista “El Mache‐ te” (da quelle parti falce + martello = machete), poi torna nel vecchio continente e in Russia con il suo compagno Vittorio Vidali, il quale viene molto probabilmente arruolato nei servi‐ zi segreti staliniani e verrà coinvolto nell’assassinio di Lev Trockij. E la Modotti muore nel 1942 in un tassì a Città del Messico dopo una cena, probabilmente assassinata per garan‐ tire il silenzio sul caso. Le protagoniste del secondo dopoguerra saranno ben diver‐ se e la Pax americana inventa un tipo ben diverso di libertà femminile, quello della pin-up per camionisti, quella della tragica fine di Marilyn, suicida per disperazione banale e non per presa di coscienza.
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LA CAVALCATA DELLE AVANGUARDIE
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Umberto Boccioni, Carica di lancieri, particolare 1915, tempera e collage su cartone, cm 32x50, Milano, Museo del Novecento
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DA GIULIO CESARE ALLA
RIVOLUZIONE BORGHESE
I
l concetto di avanguardia appare nella storia dell’arte solo a partire dalla metà del XIX secolo. Il termine deriva dal lessico militare: nel De bello Gallico di Giulio Cesare sono chiamati avanguardie quei gruppi di milizie mandati avanti a sfondare le fila nemiche, soldati destinati a un ruolo epico ma tendenzialmente catastrofico. Quando nella Francia borghese del XIX secolo si renderà sempre più evidente la frattura tra arte ufficiale e arte di fron‐ tiera, gli impressionisti e poeti come Baudelaire si sentiranno avanguardie, piccoli nuclei illuminati, trascinatori di una massa cieca. La prima rottura del mondo dell’arte con la società però era già avvenuta a Firenze ai tavolini del caffè Michelangiolo quando dal 1855 si era costituito il gruppo dei Macchiaioli (gli Impressionisti a Parigi nasceranno nel 1874), un manipo‐ lo di artisti che si radunava con la consapevolezza di fare arte senza scopo e senza successo e che scelse come mercante e critico Diego Martelli, pur sapendo benissimo che non sareb‐ be stato capace di vendere i loro quadri. Il loro esistere si giustificava solo tra di loro (tra di loro si scambiavano le opere), si fondava sulla consapevolezza del gruppo stesso. Sono proprio i macchiaioli a formare la prima vera avanguardia della storia dell’arte, artisti che incominciano a chiamarsi fuori dalla società d’appartenenza per autoverifi‐ 69
carsi. La storia però non ha reso giustizia a questo importan‐ tissimo movimento, e quando se ne parla oggi non sembra es‐ sere più che una curiosità etnica. Nell’accezione comune si re‐ puta invece abitualmente che la genesi delle prime avanguar‐ die sia francese e la si debba collegare ai Salons alternativi a quelli ufficiali, anche se la dialettica all’interno del mondo delle arti già aveva raggiunto punti di sofisticato dibattito nella nota Querelle des Anciens et des Modernes.
Giovanni Fattori, La Rotonda dei bagni Palmieri, 1866, olio su tela, cm 12x35, Fi‐ renze, Galleria d’Arte Moderna
Questo dibattito fra antichi e moderni, fra classici e inno‐ vatori, ha infatti ossessionato la cultura d’Occidente sin dalle tensioni del Seicento francese. La Querelle des Anciens et des Modernes vide il confronto dei due partiti letterari opposti: di Boileau da un lato, sostenitore della necessità di mantenere i modelli degli antichi come riferimento per ogni gesto classico, e di Charles Perrault dall’altro, che reputava i suoi colleghi contemporanei altrettanto degni d’interesse. Invero la que‐ stione s’era già inscenata nel cuore del Rinascimento fra chi si riferiva al neoplatonismo e chi optava invece per la sperimen‐ tazione aristotelica: in modo più semplificato, fra Michelan‐ gelo e Leonardo.
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Silvestro Lega, Il pergolato, 1868, olio su tela, cm 74x94, Milano, Pinacoteca di Brera
Negli anni del Re Sole riprese un dibattito analogo con simpatiche conseguenze per i bambini del mondo intero in quanto, se dal lato degli antichi Jean de La Fontaine ripren‐ deva le fiabe di Esopo e Fedro e i testi di Tito Livio e di Ora‐ zio, dal lato dei moderni Perrault scriveva Il gatto con gli stiva‐ li, Cappuccetto Rosso, Cenerentola e altre sue invenzioni altret‐ tanto succose. E la prova della sua vittoria storica sta nel fatto che egli stesso è diventato oggi talmente “classico” da essere stato celebrato dai cartoni animati di Walt Disney. Perrault diventa così il padre concettuale d’ogni avanguardia.
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Édouard Manet, Colazione sull’erba, 1863, olio su tela, cm 208x264,5, Parigi, Musée d’Orsay
La questione tornerà viva nell’ambito delle grandi mostre pubbliche del XIX secolo, in quanto ancora una volta sarà l’Accademia a scegliere i partecipanti mentre i suoi oppositori esterni s’impegnano a inventare i vari Salons des Refusés (dal 1863, in polemica con le istituzioni) e des Indépendants (dal 1884, totalmente indipendente dalle istituzioni). È comunque la Francia che mantiene il primato del dibattito sulla questio‐ ne. Gli inglesi, si sa, erano da sempre più pragmatici anche se dalle parti loro pure i preraffaelliti dovettero trovare propri percorsi di promozione. La centralità francese in questa biz‐ zarra faccenda è innegabilmente conseguente di quella rivolu‐ zione quasi permanente che passò dalla convocazione degli Stati Generali al Terrore, poi all’Impero, alla Restaurazione, alla Rivoluzione del 1830 ch’era stata annunciata in teatro 72
dall’Hernani di Victor Hugo, a quella poi del 1848 che perva‐ se l’Europa fino a quella drammatica della Comune del 1871. Arte e politica, pulsioni generazionali e lotta di classe andava‐ no in parallelo. È solo nel lungo periodo di pace tra il 1871 e il 1914 che le avanguardie si staccano dalla politica e si fanno esteticamente autonome. La fiamma dell’avanguardia torna in quegli ultimi anni nella politica pura, come vuole Lenin e come faranno gli interventisti italiani, perché l’effettiva idea di avanguardia artistica ci metterà oggettivamente qualche tempo a definirsi e ad affermarsi, mentre avrà una sua matu‐ razione anticipata in area politica. Il primo confronto che tende a definire il concetto di avan‐ guardia è quello fra Lenin e Trockij tra il 1905 e il 1917: il concetto dell’essere intellettuale-artista creativo si trasferisce nell’idea di essere intellettuale-politico trascinante. Così nasce il sogno di creare un paese dove siano, al medesimo tempo, il percorso artistico e quello politico a portare a una trasforma‐ zione radicale della visione del mondo e a generare la Rivolu‐ zione d’ottobre. Per Lenin l’avanguardia doveva essere la parte evoluta in‐ terna alle masse, o meglio ancora alla “classe”, ad affrontare la responsabilità storica della rinascita sociale e politica. Per Trockij invece era un gruppo esterno a dover trascinare la massa verso una sua coscienza rinnovata, quindi: “L’arte deve essere indipendente da tutte le forme di governo, non deve mettersi ai suoi ordini né al suo servizio”. Questa distinzione concettuale porterà a una visione opposta del partito politico e del ruolo dell’intellettuale nei confronti della società. È Troc‐ kij in realtà che torna all’idea originaria di avanguardia e ri‐ prende l’immagine di Giulio Cesare: un gruppo scelto capace di precedere gli altri per poi informarli e trascinarli.
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Aleksandr Samochvalov, Lenin al Secondo congresso dei Soviet dei deputati operai, sol‐ dati e contadini il 26 ottobre 1917, 1958, olio su tela, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
Anche Marinetti, con il Manifesto del Futurismo (pubblica‐ to il 20 febbraio 1909 sulle colonne di “Le Figaro”), lancia l’i‐ potesi che possa esistere un gruppo intellettuale capace di tra‐ scinarle, le masse. Gli artisti futuristi che si impegnano a ela‐ 74
borare un’immagine “moderna” della vita “moderna” (diceva‐ no di sentire un’“ansia” che li “sparava” nel futuro e a essa cer‐ cavano di dare rappresentazione) si lanciano con impeto entu‐ siastico verso la “nuova barbarie” della scienza; lo fanno rivol‐ gendosi al pubblico, urlano per strada e non si chiudono in una torre d’avorio.
Giacomo Balla, Velocità d’automobile, 1912, olio su tavola, cm 55,6x68,9, New York, The Museum of Modern Art
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Carlo Carrà, Manifestazione interventista, 1914, tecnica mista su tela, cm 38,5x30, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
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Filippo Tommaso Marinetti, Marinetti in Russia, 1912, stampa, cm 48,4x14,6, Hannover, Sprengel Museum
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Gino Severini, Treno blindato in azione, 1915, olio su tela, cm 115,8x88,5, New York, The Museum of Modern Art
Marinetti, a differenza di Lenin costretto tra Svizzera e Russia per ragioni politiche, divulga le sue idee viaggiando e intervenendo nei dibattiti culturali e artistici più ferventi, por‐ tando le opere dei futuristi a Parigi, a Londra, a Berlino e nel 1914 anche a Mosca. Il movimento futurista già prima della 78
guerra scopre per naturale vocazione l’internazionalismo.
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DALL’EUROPA ALL’AME‐ RICA
L
’avanguardia tende, sin dai suoi primi passi, a essere cosmopolita e a reinventare e rifondare il mondo intero: il suo è un linguaggio immediatamente e necessariamente universale.
Cartolina dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, New York, The Museum of Modern Art
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Alfred Stieglitz, Mostra di Constantin Brancusi alla galleria 291, 1914, stampa al platino, cm 19,3x24,4, New York, The Museum of Modern Art
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Manifesto dell’esposizione internazionale d’arte moderna Armory Show, 1913, stampa a colori, cm 52x35,5, New York, The Museum of Modern Art
Il momento di fortissima accelerazione della storia che si verifica in quegli anni deriva dalla ventata di innovazione por‐ tata dalla nuova classe politica e intellettuale dell’Italia postri‐ sorgimentale e preindustriale. Ed è un fenomeno parallelo a quello che avviene in Russia politicamente: la rivoluzione 82
delle avanguardie che influenzerà il sentire artistico alternati‐ vo e antiaccademico di tutto il secolo si genera in un paese so‐ stanzialmente arretrato rispetto all’Europa, e allo stesso modo l’idea dell’avanguardia politica nasce nella Russia di San Pie‐ troburgo, lontana dall’evoluzione tecnologica e industriale eu‐ ropea. Sono i paesi arretrati, non la Francia, l’Inghilterra e la Germania che hanno già metabolizzato la rivoluzione indu‐ striale, che inventano l’avanguardia.
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Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, luglio-agosto 1915, Iowa University, Dada Archive
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Copertina con disegno di Francis Picabia per la rivista “291”, marzo 1915, Iowa University, Dada Archive
Le cosiddette avanguardie artistiche che verranno successi‐ vamente chiamate “avanguardie storiche” replicheranno questi primi gesti alternativi e radicalmente innovativi: nei venticin‐ que-trent’anni successivi lentamente si perderanno gli ingre‐ dienti fondamentali peculiari delle prime avanguardie. L’idea 85
di essere un gruppo scollato dalla società, l’idea del colloquio e del trascinamento della massa e del cosmopolitismo perderan‐ no progressivamente tono. Nel passaggio dai tavolini del caffè Michelangiolo di Firen‐ ze a quelli dei boulevard di Parigi, pieni di giornali e bicchieri di seltz, avviene un cambiamento sostanziale: si passa dall’es‐ sere fuori, alternativa vera, all’essere in qualche modo prota‐ gonisti interni pur dichiarandosi fuori. La modernità artistica del XX secolo, dalle correnti di Pari‐ gi alla rivolta spartachista del 1919 a Berlino fino ai movi‐ menti newyorkesi, in realtà è figlia della accelerazione, tutta italiana, della fine del secolo precedente. Il caso di New York è esemplare da questo punto di vista: dopo la Prima guerra mondiale gli Stati Uniti sentono il com‐ plesso di essere, seppure vincenti, ancora provinciali e legati a un atavico gusto per la narrazione – sempre presente nel DNA americano, basti pensare al romanzo, al cinema o alla musica narrativa di George Gershwin – ancora un po’ popola‐ resco. L’élite cittadina intuisce che l’unico modo per essere trendy è imitare il modello parigino e generare fermenti arti‐ stici d’avanguardia e sinergie con quelli del vecchio mondo. Già nel 1913 Alfred Stieglitz aveva partecipato alla prima mostra di avanguardia in America, l’Armory Show, presso l’armeria del 69° Reggimento, che presentava al pubblico americano oltre mille opere di artisti europei – e in parte ame‐ ricani – della seconda metà dell’Ottocento o contemporanei, tra i quali ricordiamo Piet Mondrian, Constantin Brancusi, Fernand Léger.
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Pablo Picasso, Ritratto di Gertrude Stein, 1906, olio su tela, cm 100x81,3, New York, The Metropolitan Museum of Art
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Georges Braque, Natura morta con clarinetto, 1913, carta, olio, carboncino, gessetto e matita su tela, cm 95,2x120,3, New York, The Museum of Modern Art
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Henri Matisse, Lo studio rosso, 1911, olio su tela, cm 181x219,1, New York, The Museum of Modern Art
Si incominciava a formare un gusto americano per ciò che si definiva il modernism. Gertrude Stein, amica di Picasso ma anche di altri importanti artisti come Braque o Matisse, crea i presupposti per la nascita di un collezionismo sofisticato, jewish e d’élite, alternativo al gusto tradizionale wasp. Ma le basi per un vero matrimonio con gli alternativi si creano alla fine degli anni Trenta, quando a New York sbarcano i miglio‐ ri intellettuali e artisti in fuga dalle persecuzioni naziste: la città decide di offrirsi come opportunità altra per un’Europa che sta morendo.
Piet Mondrian, Broadway Boogie Woogie, 1942-1943, olio su tela, cm 127x127, New York, The Museum of Modern Art
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Si crea così un’enclave nuova, che si propone come avan‐ guardia e che viene riconosciuta come tale, ma che in realtà non risponde più ai parametri marinettiani (di colloquio tra un gruppo intellettuale e la massa): un’élite culturale che più che altro rappresenta un tentativo di inserimento dall’esterno di un’estetica nuova su un look americano già ben definito – quello così bene riassunto dalla pubblicità della crema solare Coppertone –, di un tentativo di rottura con la cultura figura‐ tiva tradizionale americana che nasce dal desiderio di riscatto della borghesia ebraica newyorkese, in quegli anni innegabil‐ mente la parte più evoluta e sofisticata della società america‐ na. La nuova arte di “avanguardia” americana tenderà a diven‐ tare aniconica – secondo la tradizione ebraica – e più tardi si identificherà perfettamente anche con le idee delle forze di governo, desiderose di creare un’immagine dell’America paese trascinante della cultura occidentale e attente a non superare mai il confine del politically correct. Negli anni della Guerra Fredda e dell’isteria maccartista l’idea di un’arte anarcoide, apolitica e priva di contenuti espliciti viene sposata: le tesi estetizzanti dell’art pour l’art che in Francia avevano trovato spazio quasi un secolo prima vengono riscoperte e così si torna ai primi passi delle avanguardie, quand’ancora la politica non tangeva e il dibattito era esclusivamente teorico o genera‐ zionale.
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L’ONDA PASSA L’ONDA
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all’art pour l’art di Théophile Gautier, la volontà nei singoli gruppi posteriori di affermarsi in onde successive suscettibili di cancellare quelle precedenti diventa una sorta di mantra. Appaiono forse per prime, nella complessità germa‐ nica, le pulsioni che portano un piccolo gruppo di studenti d’architettura a formare la Brücke, quel ponte verso la nuova era che sorge a Dresda all’inizio dell’estate del 1905 quando, iniziando le vacanze, decidono di tradire il righello per il pen‐ nello. Sono in realtà guidati da un guru del progetto, quel‐ l’Hermann Obrist al quale si deve parte della nascita delle arti decorative moderne germaniche. Loro quattro (Fritz Bleyl, Erich Heckel, Ernst Ludwig Kirchner e Karl Schmidt-Rot‐ tluff) si ritrovano in una fabbrica di lampadari e ne rimangono illuminati: diventano maniaci dell’espressionismo nascente e della grafica conseguente, quella della xilografia che obbliga al segno feroce suscettibile di cancellare tutte le eleganze preesi‐ stenti dell’acquaforte e dell’acquatinta. E scivolano quindi quasi automaticamente nel segno apparentemente primitivo e nelle campiture pittoriche à plat. Innovatori totali ma già sin dall’origine ambigui, in quanto comunque la citazione del gruppo nasceva dai testi di Friedri‐ ch Nietzsche, quelli inneggianti al ponte verso l’umanità nuova, e il motto non era niente meno che quello di Orazio: odi profanum vulgus. Poi Heckel va ad affittare una macelleria in disuso dove s’insedia e dove verrà ad abitare pure Kirchner. 91
Fra lampadari e macello nasce un’estetica del tutto inattesa che cancella ogni traccia di buon gusto preesistente. Non potevano sapere che il loro percorso era nella realtà dei fatti cromatici già stato preceduto a Parigi dall’altrettanto feroce reazione al buon gusto impressionista che collegava un gruppo di pittori nel Salon d’Automne del 1905, quelli che Louis Vauxcelles, un critico rimasto legato al bon ton, defini‐ rà in senso dispregiativo come rinchiusi nella cage aux fauves, una gabbia di bestie feroci per via dei colori impiegati, in un articolo apparso su “Gil Blas” il 17 ottobre del 1905, quaran‐ taquattro anni prima che io, vostro modesto relatore, nascessi. Così scriveva:
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Ernst Ludwig Kirchner, Manifesto per la mostra Die Brücke alla Galerie Arnold di Dresda, 1910, litografia a colori, cm 70x56, Berlino, Kunstbibliothek
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Karl Schmidt-Rottluff, Der Holzschneider, 1906, olio su tela, cm 33x67, Chemnitz, Kunstsammlungen Chemnitz
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Erich Heckel, Giornata cristallina, 1913, olio su tela, cm 121x97, Monaco, Pinako‐ thek der Moderne
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Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per la strada, 1913, olio su tela, cm 120x90, Colonia, Wallraf-Richartz Museum Sala n. VII. I signori Henri Matisse, Marquet, Manguin, Camoin, Gi‐ rieud, Derain, Ramon Pichot. Sala superchiara, gente che osa, oltranzista, dei quali vanno decifrate le intenzioni, lasciando ai furbi e agli stolti il diritto di ridere, critica troppo facile… Al centro della sala, un torso di bambino e un piccolo busto in marmo, di Albert Marque, che modella con una sapien‐ za delicata. Il candore di questi busti sorprende in mezzo all’orgia delle tona‐ lità pure: “Donatello fra le belve”.
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André Derain, Barche da pesca, 1905, olio su tela, cm 81x100, New York, The Me‐ tropolitan Museum of Art
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Kees van Dongen, Ballerina rossa, 1907, olio su tela, cm 50x38, Collezione privata
E negli stessi giorni Georges Braque, che fauve era già stato, si trovava nel golfo di Marsiglia in un paesino delizioso dal nome L’Estaque, dove aveva esercitato la sua arte paesag‐ gistica anche Paul Cézanne, dopo avere studiato la forma vo‐ lumetrica della montagna di Sainte Victoire. Cézanne espone a Parigi nel 1907 al Salon d’Automne; Braque lo vede e torna convertito nel meridione. Nello stesso anno Picasso stava di‐ pingendo le sue Demoiselles d’Avignon, che non erano affatto 98
meridionali poiché la dicitura “d’Avignon” non riguardava la cittadina provenzale bensì la strada omonima di Barcellona con un suo reputato bordello. Ma fra prostitute e montagne sacre nasce la volumetria definita che verrà chiamata cubista per la prima volta con incuriosito dispetto da Matisse quando vede il quadro di Braque, presentatogli mentre è giurato al Salon d’Automne. Successivamente Louis Vauxcelles, sempre ancora sul “Gil Blas”, inventa il secondo suo nome che lascerà un segno definitivo nella storia delle arti: dopo Fauve nel 1905, a lui si deve anche Cubisme nel 1908. Certo è che se avesse avuto remunerato il diritto d’autore per questi due ap‐ pellativi sarebbe egli innegabilmente diventato il più ricco cri‐ tico della storia dell’arte!
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Henri Matisse, Donna vicino all’acqua, 1905, olio e matita su carta, cm 35x28, New York, The Museum of Modern Art
Tutto era iniziato in quel precedente 1896 nella calma pro‐ venzale di Cézanne. Ma così la storia sarebbe troppo banale e non terrebbe conto delle provocazioni costanti che il mondo artistico parigino generava durante la Belle Époque, in quan‐ to, nello stesso anno domini 1896, il babbo d’ogni provocazio‐ ne Alfred Jarry metteva in scena il suo spettacolo pirotecnico 100
Ubu Roi, quello dove l’interiezione regolare del protagonista patafisico era merdre!, con una erre in più per rendere comica e stringente l’esclamazione del generale Cambronne, quella da lui, capo della Vieille Garde di Napoleone, pronunciata a Waterloo come risposta al generale britannico Colville che gli aveva imposto la resa. E da tre anni l’altro provocatore genia‐ le, Erik Satie, già noto fra gli amici per le sue Gymnopédies, aveva composto Vexations, un brano musicale apparentemente semplicissimo che si ripeteva all’infinito per ventiquattro ore e che appariva nella scrittura quasi incomprensibile per la quan‐ tità di inutili doppi bemolle e doppi diesis. Questo meccani‐ smo della provocazione come gradino del procedimento d’a‐ vanguardia verrà seguito fino a Marcel Duchamp quando in‐ venta il suo Grande vetro dove la macchina macina cioccolata diventerà simbolo dell’autoerotismo degli scapoli, come recita il titolo La mariée mise à nu par ses célibataires, même.
Maurice de Vlaminck, La Senna a Chatou, 1906, olio su tela, cm 82x102, New York,
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The Metropolitan Museum of Art
Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919, matita su una riproduzione della Gioconda di Leonardo da Vinci, cm 19,7x12,4, Collezione privata
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Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1905, olio su tela, cm 63x83, Zurigo, Kunsthaus
Oggi abbiamo il diritto di porci la domanda profonda, sto‐ rica, intelligente, esistenziale: nel secolo ormai nuovo, Grande vetro o grande bufala? Una geniale operazione di concetto fatta per il cervello e non per la retina. Vent’anni di sedimen‐ tazioni personali e mentali attorno alla donna messa a nudo, a significati che chiederebbero di aver vissuto con lui medesimo una parte dell’esperimento, geniale e voyeuristico. Pistoni ap‐ pesi come salami che sono invece le vesti dei vari scapoli. Duchamp è tutto assieme: l’inventore del ready made vissu‐ to come pura provocazione, un oggetto in sé tutt’altro che ar‐ tistico ma che lo diventa in quanto viene individuato come tale dall’artista. Ma è anche l’uomo che mette i baffi alla Gio‐ conda, con la scritta L.H.O.O.Q. che vuol dire “lei ha caldo al culo”. Una visione quasi goliardica, di rottura totale con ogni linguaggio precedente.
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Marcel Duchamp, Il grande vetro (La mariée mise à nu par ses célibataires, même) 1915-1923, tre pannelli di vetro in una cornice di legno e acciaio, fogli di piombo e d’argento, colori a olio, cm 272,5x173,8, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
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MARINETTI, BORGHESE DI SICURO, ANARCHICO FORSE
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n sintonia inattesa con ciò che avveniva nel mondo tede‐ sco meridionale e in quello parigino, sorgeva il primo per‐ corso dell’espressionismo italico che inconsapevolmente com‐ binava la scomposizione statica cubista con i cromatismi mo‐ vimentati germanici. Il Futurismo come il Cubismo smontava i linguaggi tradizionali, ma lo faceva in modo dinamico, cre‐ deva al movimento, ne esaltava la funzione vitale. Ma compi‐ va la sua rivoluzione estetica fondandola su un gesto di presa di coscienza intellettuale: il manifesto. Qui si fa centrale la fi‐ gura di Filippo Tommaso Marinetti, elegante poeta decaden‐ te formatosi nella cultura francese d’Egitto e spola fra le ansie italiche e i fragori parigini.
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Filippo Tommaso Marinetti in una fotografia del 1911
Rimane fondamentale, per capire le derive successive del Futurismo che sfocerà nell’avanguardismo bellico degli Arditi, la scelta iniziale della traduzione del manifesto futurista: già, perché è lo stesso Marinetti a scriverlo sia in francese sia in italiano. È centrale questo piccolo esercizio letterario. In francese leggiamo: Nous avions discuté aux frontières ex‐ trèmes de la logique et griffé le papier de démentes écritures, cioè “abbiamo graffiato la carta con dementi scritture”. In italiano la stessa frase diventa “annerendo molta carta di frenetiche scritture” e si fa quindi già più decadente e morbida la que‐ stione. Tutta la prosa francese è qui stringata mentre in italia‐ no diventa retorica come se fosse stata scritta assieme a d’An‐ nunzio, il quale, a sua volta bilingue, quando scrive in francese è ben più conciso e concentrato. Ma la differenza sostanziale fra i due testi è politica e la si trova al punto 9 del Manifesto, dove le geste destructeur des anarchistes diventa “il gesto distruttore dei libertari” e dove so‐ 106
prattutto les belles idées qui tuent, cioè “le belle idee che uccido‐ no”, quelle degli anarchici appunto, diventano “le belle idee per cui si muore”. Nel passare da una lingua all’altra Marinetti da anarchico diventa oggettivamente prefascista. E qui sta l’e‐ quivoco che porterà Boccioni, il quale immediatamente aveva aderito al Futurismo e vi aveva portato la sua naturale inclina‐ zione a esaltare il movimento per partecipare alla fondazione di una lingua nuova, a partire in guerra volontario trenta‐ treenne con un reparto in bicicletta (altro che motori romban‐ ti!) e a morire colpito da un calcio di cavallo perché non si ri‐ cordava il principio d’ogni soldato d’allora: “Davanti al caval‐ lo, dietro ai cannoni e lontano dagli ufficiali”. Aveva però già fatto in tempo a ricredersi del manifesto marinettiano che re‐ putava la guerra unica igiene del mondo, perché nel marasma delle trincee aveva in una lettera alla signora Baer, quella del noto ritratto milanese, già nell’ottobre 1915 anche lui scritto la sua parola in libertà che così suonava: “guerra=insetti+noia”.
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Carlo Carrà, Ritratto di Filippo Tommaso Marinetti, 1910-1911, olio su tela, cm 136x97, Collezione privata
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NUDI ALLA META
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egli stessi anni bellici si formava il gruppo di quelli che non amavano la polvere da sparo. Sul Monte Verità, vicino a Lugano, s’adunavano da anni gli alternativi assoluti. Un incrocio simpatico di teosofi un po’ naturisti dove passa‐ rono gli anarchici amici, Bakunin e altri tipi strani fra i quali sarebbe sorta un’estetica che in un secondo tempo non sareb‐ be dispiaciuta ai tetri nazisti. Il luogo era stato scelto per le sue curiose caratteristiche geofisiche: infatti da quelle parti, attorno ad alcuni alberi centenari, le bussole impazzivano, e forse anche le menti. Il mondo lì si declinava fra dolcezze estive, bevute di tè e ipotesi miniagricole. Certo è che il lin‐ guaggio pittorico non appariva particolarmente innovativo; quello architettonico ben di più, ma solamente da un punto di vista antropomorfo poiché gli interni dell’abitato principale, laddove si svolgevano le sedute di danza, erano privi d’angoli acuti reputati troppo ostici e negativi per gli influssi esoterici. Ne sono significativa testimonianza pure le opere pittoriche che decorano uno dei padiglioni di legno del Monte, realizza‐ te da Elisar von Kupffer: nato a Tallinn, formatosi a San Pie‐ troburgo e poi a Berlino e rifugiatosi nelle dolcezze prealpine; drammaticamente realista, poetico ed esaltatore avanguardista dell’omofilia, il quale si stabilisce lì vicino in un proprio Sanc‐ tuarium Artis Elisarion. A lui si deve un’opera particolarmen‐ te significativa perché la intitola, in quel 1914 nel quale tutti gli altri corrono verso la guerra, Il disarmo.
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Alexej von Jawlensky, Testa mistica: Testa di Ascona, 1918, olio su tavola, cm 40x29,7, Collezione privata
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Marianne von Werefkin, Processione presso Ascona, 1924, olio su cartone, cm 46,2x42,2, Berlino, Neue Nationalgalerie
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Ritorno alla natura, un membro della colonia del Monte Verità fa giardinaggio, 1910
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Elisar von Kupffer, Il disarmo, 1914, olio su tela, cm 119x57, Minusio, Centro Cul‐ turale Elisarion
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Thomas Heine, Caricatura di Rudolf Steiner, in “Simplicissimus”, 1925, litografia, Collezione privata
L’originario Centro educativo Goetheanum, distrutto nel 1922, Dornach, Rudolf Steiner Archiv
La Confederazione Elvetica era già da anni terreno di spe‐ rimentazione. Al nord, nei dintorni di Basilea, s’era insediato 114
un gruppo di ricerca antroposofica di forte portata per il futu‐ ro. La aveva inventata Rudolf Steiner, già studioso di Goethe e Nietzsche e autore sin dal 1894 della Filosofia della libertà. Invece la neonata didattica steineriana diventerà un cardine della formazione libertaria durante tutto il secolo. Una nuova teosofia si stava facendo strada. Negli anni successivi alla guerra il centro educativo di Steiner diventerà il noto Goe‐ theanum, che prenderà una forma fisica di rilievo dove le cita‐ zioni delle ricerche più avanzate dell’architettura utopista tro‐ veranno echi inattesi. Intanto vicino ad Ascona si riuniscono in pieno periodo bellico gli altri alternativi, quelli che andranno a formare il fu‐ turo gruppo di dada. Lì si ritrova Yvan Goll, nato alsaziano ebreo con il nome di Isaac Lang. A lui si deve un trattato che in linea di massima interessa solamente al vostro modesto au‐ tore e ad alcuni studiosi, attratti dalla questione complessa protoeuropea di questi miei parenti che non sapevano mai se erano tedeschi o francesi in quanto discendevano dalla Lota‐ ringia che due nipoti di Carlo Magno (il prefrancese Carlo il Calvo e il pretedesco Ludovico il Germanico) si spartirono ai danni del loro terzo fratello (Lotario I, allora ufficialmente imperatore). Questione invero fondamentale, perché da essa discende oltre un millennio di conflitti sul Reno: Zur Psycho‐ logie der Elsässer (A proposito della psicologia degli Alsaziani) viene pubblicato nel 1917 a Zurigo, territorio di libertà anti‐ bellica. E sempre a Zurigo Yvan Goll pubblica lo stesso anno un testo che tocca invece l’umanità intera: Requiem für die Ge‐ fallenen von Europa (Requiem per i caduti d’Europa), che qui pubblichiamo nella traduzione francese che ne fece la sua consorte Claire Goll:
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Rudolf Steiner, Disegno alla lavagna, 1923, gesso su cartoncino, cm 64x100, Dorna‐ ch, Rudolf Steiner Archiv
Comme un mur gris autour de l’Europe Courait la longue bataille. La bataille éternelle, la bataille pourrie, Qui n’était jamais la dernière. Monotonie du combat. Tran‐ chées sépulcres. Sommeil de la faim. Au dehors les ponts faits de ca‐ davres. Au dedans les rues pavées de ca‐ davres. Les fossés des murs cimentés de cadavres.
Come un muro grigio in‐ torno all’Europa / Correva la lunga battaglia. / La battaglia eterna, la battaglia incancreni‐ ta, / che non era mai l’ultima. / Monotonia del combattere. Trincee di morte. Sonno del desiderio. / Fuori, i ponti fatti di cadaveri. / Dentro, le strade lastricate di cadaveri. / I fos‐ sati delle mura cementati di cadaveri.
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Arild Rosenkrantz, L’archetipo di uomo e animali, 1951, olio su tela, cm 51x65, Col‐ lezione privata
Personaggio formidabile Claire Goll, nata Clara Aisch‐ mann a Norimberga, che la storia successiva dimenticò finché lei non decise di tornare alle cronache ormai settantaseienne quando fece, in un vestito di cuoio nero e rossetto rosso, una conferenza stampa per comunicare che aveva finalmente rag‐ giunto il suo primo orgasmo, con un giovanotto ovviamente di ventun anni. Lo spirito d’avanguardia non era in lei defun‐ to. Questa traduzione della moglie è di particolare interesse letterario in quanto vi si ritrovano le ritmiche linguistiche im‐ parentate con il suo opposto, il Manifesto del Futurismo nella stesura francese di Marinetti. E con loro pacifisti, antibellici convinti, si ritrovano l’altro alsaziano Hans Arp, anche lui incapace di prendere parte fra Germania e Francia, poi Hugo Ball, a cui si devono alcune pagine meravigliose di creatività linguistica trasformata in ritmo musicale. Scrittore già amico di Kandinskij a Monaco, 117
Ball si fa riformare al servizio militare, scopre gli scritti anar‐ chici di Kropotkin e Bakunin e, insieme alla sua compagna, va nella Confederazione Elvetica e affitta un postribolo zuri‐ ghese con un pianoforte scordato che diventerà il Cabaret Voltaire. Passa un paio di notti in galera quando gli svizzeri scoprono che viaggia sotto falsa identità e poi non lo ferma più nessuno: il Cabaret apre ufficialmente il 5 febbraio 1916, e lì si forma il nucleo dada. Con un dettaglio che andrebbe indicato con maggiore attenzione: la Künstlerkneipe Voltaire non è ciò che noi pensiamo essere un cabaret, ma è una vera bettola, in senso etimologico, dove però avvengono conferen‐ ze, musiche e recite teatrali.
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Hans Arp, Collage disposto secondo le leggi del caso, 1916-1917, collage, cm 48,6x34,6, New York, The Museum of Modern Art
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Copertina di “Dada”, n. 2, dicembre 1917, Iowa University, Dada Archive
Il primo ad arrivare è un tale Richard Huelsenbeck, poeta cresciuto a Dortmund che s’era messo a studiare Medicina a Monaco di Baviera e poi nel 1912 Filosofia alla Sorbona di Parigi. Viene reclutato nell’esercito nel 1914, si fa riformare per dei presunti mal di testa (a qualcosa gli erano serviti gli studi abbreviati!) e se ne scappa a Zurigo. A lui s’aggiunge Sa‐ muel Rosenstock, ebreo di Romania che prende lo pseudoni‐ mo di Tristan Tzara (doppiamente triste, in francese e in ru‐ meno, per protestare contro l’antisemitismo della sua patria). Suo è il manifesto del movimento; una dichiarazione di rottu‐ ra definitiva. Cita Cartesio: “Non voglio nemmeno sapere se sono esistiti uomini prima di me”; “abbasso il futuro!”. Una esaltazione del nichilismo allegro, quasi apostolico nella voglia della contraddizione totale: “Abbandonate tutto, abbandonate dada, abbandonate la vostra moglie e la vostra amante, le vo‐ stre speranze e i vostri timori. Partite per le strade”.
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Hugo Ball recita Karawane con un costume cubista al Cabaret Voltaire, 1918
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Hugo Ball, Karawane, 1917
Divampa il fuocherello dell’avanguardia. Dada ha un im‐ mediato riscontro mondiale. Si sparge ovunque, secondo il sa‐ pore dei luoghi dove va a finire. Non è un linguaggio estetico ma un modo di essere della mente. È incoerente. Più che li‐ bertario è libertino. Se i futuristi credono nella performance, a una cosa preparata, loro credono nell’happening, l’unico vero 122
momento del vivere. Mentre ancora fumano i cannoni, Dada si espande da Zurigo a Berlino (George Grosz, il super creati‐ vo dell’Ecce Homo, della denuncia sociale, dell’intuito straordi‐ nario che gli permette di raccontarci in anteprima ciò che suc‐ cederà, in Germania e in Europa, negli anni a seguire; e il poeta Franz Werfel, uno dei molti mariti della Alma Mahler che s’era appena separata da Walter Gropius, fondatore del Bauhaus a Dessau, poi tanti amici di Brecht, del cinema di Friedrich Wilhelm Murnau e di Fritz Lang), sicché diventa partecipe nell’impegno politico della mancata rivoluzione spartachista di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, Hanno‐ ver (con il lupo solitario Kurt Schwitters e il suo Merzbau) e Colonia (Hans Arp, Max Ernst e Johannes Theodor Baar‐ geld), poi a Parigi dove diventerà la radice del successivo mo‐ vimento surrealista quando lì arriva Tzara e s’intreccia con la grinta letteraria di André Breton. E poi ancora a New York, dove il terreno era già stato preparato dal fotografo Alfred Stieglitz e dove Marcel Duchamp con la Société Anonyme aveva già portato il verbo parigino della provocazione. Gli Stati Uniti hanno bisogno di rendere il mondo comprensibile. Per l’America è molto importante capire cos’è l’Europa: l’Eu‐ ropa è dada e tutto quello che va bene in Europa è dada. A una sola condizione: che non contenga pensiero. Dada è la versione letta dall’America della storia complessiva delle avan‐ guardie europee purché non esprimano pensiero politico. L’Europa può esistere se non è pericolosa. Dada è la rilettura del Surrealismo di Aragon, è la rilettura di Kurt Schwitters, è la rilettura del Futurismo, senza rischio che sia comunista.
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Tristan Tzara, Calligrammes, 1916, matita e inchiostro su carta, cm 30x21, Colle‐ zione privata
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Johannes Baargeld, Venere al bagno del re, 1920, collage, cm 18x12,5, Collezione pri‐ vata
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Johannes Baargeld, Pastiche con rappresentazione dell’artista dadaista, 1920, collage, cm 22x16, Collezione privata
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Copertina del catalogo per la mostra Bauhaus a Weimar, 1923, litografia a colori, cm 25x19, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Copertina per Paul Klee Pädagogisches Skizzenbuch, 1929, litografia a colori, cm 28x21, Berlino, Kunstbibliothek
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Walter Gropius, Copertina per Gropius Bauhaus Bauten Dessau, 1930, litografia a colori, cm 34x28, Berlino, Kunstbibliothek
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Copertina per il catalogo della mostra Staatliches Bauhaus Weimar 1919-1923, 1923, litografia a colori, cm 25x25, Collezione privata
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Kurt Schwitters, Copertina di “Die Kathedrale”, 1920, litografia e collage, cm 22x14, New York, The Museum of Modern Art
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Tristan Tzara, Une nuit d’echecs gras, 1920, penna e inchiostro su carta, cm 40x29, Parigi, Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet
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Max Ernst, Il cappello fa l’uomo, 1920, collage, inchiostro, acquerello su carta, cm 35x45, New York, The Museum of Modern Art
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Max Ernst, Dada, 1922-1923, olio su tela, cm 78x39, Madrid, Museo ThyssenBornemisza
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Kurt Schwitters, Merzbild 32A. Le ciliegie, 1921, collage su cartone, cm 92x70, New York, The Museum of Modern Art
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SU, LOTTIAMO! L’IDEALE NOSTRO FINE SARÀ
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ontemporaneamente continuano a evolvere le lingue estetiche di rottura. La patria dell’innovazione più estre‐ ma, in politica come nelle arti, rimane innegabilmente il ca‐ dente impero degli zar di Russia e in ciò aveva ragione Karl Marx quando sosteneva contro Friedrich Engels che le sovra‐ strutture sono fra di esse collegate. Mentre Lenin scriveva il suo Che fare? (1902), a San Pietroburgo la musica trovava il suo da fare. Il Gruppo dei Cinque, che dal 1860 proponeva il rinnovamento russo sotto la guida di Milij Balakirev e aduna‐ va il capitano di marina Rimskij-Korsakov, Aleksandr Boro‐ din, Modest Musorgskij e César Cui, aveva trovato gli emuli a cavallo del secolo nuovo nella generazione giovane di Sergej Prokof’ev, Igor’ Stravinskij e Dmitrij Šostakovič. Stravinskij e Sergej Djagilev avrebbero poi infiammato Parigi. Kazimir Malevič si mise a cercare la sua di strada nel supre‐ matismo mentre El Lissitzky la trovava nel costruttivismo. E a Lenin la cosa non dispiacque affatto, perché contempora‐ neamente Vladimir Tatlin inventa la sua Torre del 1919 per la Terza Internazionale e Majakovskij lancia il fuoco dei poemi, mentre Stanislavskij aveva già rivoluzionato il teatro portando l’espressività della coscienza a stimolo primario della recita, quella stessa recita d’istinto che avrebbe indotto Kan‐ dinskij a sostituire le diciture classiche dei titoli delle opere vi‐ sive in “improvvisazione” o “composizione” come nelle opere 136
musicali.
Michail Larionov, Ritratto caricaturale di Sergej Djagilev, Igor’ Stravinskij, Jean Coc‐ teau ed Erik Satie, 1913, matita su carta, cm 22x39, Parigi, Bibliothèque nationale de France
La lotta delle classi diventava così lotta fra i generi. La Grande Madre Russia, apparentemente ferma nella sua so‐ spensione storica, stava invece diventando acceleratore della Grande Storia e Sergej Ejzenštejn si faceva protagonista d’un cinema espressionista che avrebbe tinto di epos tutta la cine‐ matografia successiva. Sarebbe riduttivo, e per l’antropologo culturale incomprensibile, che queste pulsioni si fossero svi‐ luppate solo nelle steppe della rivoluzione bolscevica. Tutto si sentiva coinvolto in una accelerazione comune per quanto di‐ stonica.
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El Lissitzky, Copertina di Per la voce di Vladimir Majakovskij, 1923, litografia, cm 19x13,4, Collezione privata
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Vladimir Tatlin, Copertina per Monumento alla III Internazionale di Nikolaj Punin, 1920, litografia, cm 28x22, New York, The Museum of Modern Art
Ricostruzione di Proun di El Lissitzky distrutto nella Seconda guerra mondiale
I suprematisti sono allora paralleli alle mutazioni stilistiche di Piet Mondrian e di Theo van Doesburg, il quale a Berlino s’era formato. La loro sperimentazione andrà a concludersi in un movimento olandese di particolare conseguenza per la mu‐ 139
tazione del gusto, De Stijl, nato nel 1917 con la rivista corri‐ spondente, e per un primo design che evolve in sintonia ma indipendente dal Bauhaus che sboccia a Weimar nel 1919. Nel 1922 li raggiunge anche il russo El Lissitzky che si stava esercitando per realizzare l’ambiente totale che chiamò Proun. Questi, in qualità di delegato russo per le arti, era già entrato in rapporto con Kurt Schwitters nel 1921. Perché intanto è successo ciò che sempre succede nei movimenti d’avanguar‐ dia: si litiga. La cosa andò praticamente così. Hans Arp, alsaziano un po’ antitedesco, viene rifiutato dal club Dada di Berlino retto da Richard Huelsenbeck. Sbatte la porta, torna a casa e, insie‐ me a Kurt Schwitters, crea un gruppuscolo alternativo dando‐ gli un nome a caso. Arp era infatti il teorico del caso e aveva già sperimentato in Svizzera la forma che prendevano foglietti di carta strappata quando li si lasciava cadere a terra. Il loro minigruppo si chiama Merz, ovvero il frammento che rimane dopo lo strappo di Kurt della scritta Kommerzbank. Merz ri‐ mette l’ordine nel creato, ripone equilibrio fra le cose e torna a un elementarismo dell’estetica. Nel 1923 a gennaio esce la ri‐ vista omonima e Schwitters si dà alla raccolta d’ogni rifiuto degno d’attenzione con la quale inizia la decorazione del suo miniappartamento di Hannover, chiamandolo appunto Merz‐ bau. E poi migrano: Arp passa a Colonia, tira su il giovane Max Ernst e se ne vanno a vivere a Parigi dove faranno parte del primo nucleo surrealista alla Galerie Pierre nella mostra del 1925. Proprio a quest’ultimo, peraltro, si deve l’invenzione del frottage, un modo di strofinare la pittura con straccio e spatole in modo da farne vibrare le varie componenti di colore. Così come viene da Max Ernst anche l’invenzione di una parte so‐ stanziale dell’immaginario del gruppo artistico al quale si lega, e che è capeggiato da André Breton: i ritratti degli amici, i 140
primi personaggi extrareali che poi riprenderà Magritte, e uno straordinario bestiario immaginifico.
Piet Mondrian, Composizione con grande riquadro Rosso, Giallo, Nero, Grigio e Blu, 1921, olio su tela, cm 59,5x59,5, L’Aia, Gemeentemuseum
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Theo van Doesburg, Contro composizione XIII, 1925-1926, olio su tela, cm 49,5x50, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim
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Fotografia dell’originario Merzbau, la stanza-installazione di Kurt Schwitters, 1933
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Ricostruzione del Merzbau di Kurt Schwitters distrutto nella Seconda guerra mon‐ diale, 1981-1983, Hannover, Sprengel Museum
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Max Ernst, Frottage, 1926, matita su carta, cm 17x25, Collezione privata
Nel 1926 succede a Marcel Duchamp, da anni in America, una bizzarra disgrazia che lui, avendo già imparato la filosofia americana dell’how to turn a disaster into an opportunity, tra‐ sforma in una sua esaltazione del caso. Infatti, già noto e rive‐ rito, gli viene offerta l’opportunità di esporre il suo Grande vetro al Brooklyn Museum, dove un operaio inavvertitamente lo danneggia lasciando cadere un martello. Lui non se la prende, anzi: si ritrova felice che il caso abbia definitivamente completato l’opera. Arp aveva lasciato un segno, in tutti i sensi. Come lo aveva lasciato sempre a Parigi Tristan Tzara, attorno al quale nasce il gruppo surrealista. Come lo aveva la‐ sciato pure André Breton sulla guancia di Giorgio de Chirico, quando gli mollò una sonora sberla dalle parti del Parc Mon‐ ceau per segnare definitivamente la rottura fra surrealtà e me‐ tafisica. Ma le avanguardie non erano allora solo di rottura. Talvol‐ ta il senso ordinato del neoplasticismo di De Stijl generava 145
movimenti, avanguardistici sempre, ma ben ordinati: quelli parigini che ambivano a riunire ogni gioco geometrico come Cercle et Carré, brevissimo del 1929 con tutti radunati, e quello più elitario del 1931 di Abstraction-Création (con Georges Vantongerloo e Auguste Herbin) che durò fino al 1936 in opposizione ai surrealisti.
Auguste Herbin, Composizione astratta, 1933, olio su tela, cm 65x53, Collezione privata
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Auguste Herbin, Composizione astratta, 1932, olio su tela, cm 73x54, Nantes, Musée des Beaux-Arts
La considerazione più curiosa che si possa fare a questo proposito è che tendenzialmente ogni avanguardia considera‐ va se stessa come assolutamente unica, mentre nella verifica odierna spesso appare che un movimento reputato dai suoi membri irripetibile si trovava a essere parallelo a un movi‐ mento analogo in un’altra parte d’Occidente, e questo senza esserne cosciente. La voglia che animava i futuristi quando si dedicavano al movimento e alla velocità aveva un suo parallelo nel raggismo che nei medesimi anni sviluppava una parte del‐ 147
l’avanguardia russa. La destrutturazione delle forme suprema‐ tiste viveva inconsapevolmente in parallelo con il vorticismo inglese nella sua fase di riarticolazione. E intanto il dibattito continua… Si stanno esaurendo le prove formali dei linguaggi. La dia‐ triba intorno alla questione compositiva non poteva andare oltre. La questione necessariamente doveva spostarsi in una dimensione diversa, quella psicanalitica. Se il sentimento, del‐ l’amore come della patria o del sociale fra serio e faceto, sem‐ brava avere raggiunto il punto estremo, si apriva il territorio vastissimo che la psicanalisi freudiana, la metafisica dechiri‐ chiana, la semiologia di Ferdinand de Saussure e di Aby War‐ burg stava rivelando come scenario necessario. In questo ferti‐ le terreno si sviluppò il Manifesto del Surrealismo che André Breton si mise a redigere dopo avere mollato il ben noto cef‐ fone a de Chirico. Così lo definisce lui stesso:
Georges Vantongerloo, No. 98 2478 Red/135 Green, 1936, olio su balsa, cm
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57,5x72, Londra, Tate Gallery Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, che per iscritto, o d’ogni altra maniera, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là d’ogni preoccupazione estetica o morale.
Di più non si può chiedere: la gabbia è aperta e ogni fanta‐ sia è liberata. Non contento Breton tenta anche una definizione che chiama filosofica: Il surrealismo si basa sulla fede in una realtà superiore di certe forme di associazione neglette fino al lui, all’onnipotenza del sogno, al gioco disinte‐ ressato del pensiero. Tende a rovinare tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella soluzione dei principali problemi della vita. Hanno fatto atto di surrealismo assoluto Aragon, Baron, Boiffard, Breton, Carrive, Crevel, Delteil, Desnos, Éluard, Gérard, Limbour, Malkine, Morise, Navil‐ le, Noll, Péret, Picon, Soupault, Vitrac.
Questo messaggio andò allora a generare un gruppo di amici che si trovarono immediatamente imbarcati in un’av‐ ventura inattesa, perché inattese erano le “fantasie” che scate‐ nò nel mondo intero. Ebbero seguaci laddove non se lo aspet‐ tavano affatto, e divennero surrealisti sia Magritte in Belgio sia Dalí in Spagna; per quanto Breton tentasse di passare tal‐ volta dalla figura di guru a quella di padre padrone del movi‐ mento, il venticello si fece tempesta fino a convertire il mor‐ bido armeno Arshile Gorky che contaminò gli Stati Uniti e contribuì a far nascere l’Espressionismo astratto, e nel cuore della Spagna in ebollizione portò nella medesima direzione sia il giovane regista Luis Buñuel sia l’immaginifico Salvador Dalí. Gli echi si fecero sentire sempre più lontani, dalla Boe‐ mia all’America Latina.
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René Magritte, Ritratto di Paul Nouge, 1927, olio su tela, cm 95x65, Collezione pri‐ vata
Max Ernst, Au Rendez-vous des Amis, 1922, olio su tela, cm 130x195, Colonia, Lud‐ wig Museum
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INTRODUZIONI NEI MI‐ STERI DELLE COSE NOTE
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Gustav Klimt, Fregio di Beethoven, particolare, 1902, tecnica mista su intonaco, al‐ tezza cm 220, Vienna, Secession
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I TREDICI CAVALIERI
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e mi trovassi nell’obbligo di spiegare con la scelta di pochi artisti la storia complessa del secolo breve, tipi-ca indicazione che richiedono le scuole, oppure se lo dovessi in‐ dicare a un gruppo di giovani artisti della cittadina di She Zu intenti a trovare le migliori cose da copiare, mi troverei inne‐ gabilmente in difficoltà. Nondimeno il compito didatti-co non consente scuse. Quindi ci voglio provare, ovviamente senza dimenticare la complessità del caso e le diverse forme espressive visive esistenti.
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Max Ernst, La femme 100 tête, 1929, litografia su carta, cm 24x19, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Partiamo dal cinema: guardare con attenzione L’innaffiato‐ re innaffiato (1895) dei fratelli Auguste e Louis Lumière; tutta la comica seguente ne discende, anche le bellissime opere di Charlie Chaplin. Poi passerei sempre nella pellicola primor‐ diale ai primi cartoni animati di Émile Cohl (1908): settecen‐ to disegni per due minuti di proiezione; tutto il mon-do suc‐ cessivo, compreso quello del grande Walt Disney, ne discen‐ de. Pensando all’architettura non andrei all’origine della fac‐ cenda ma indicherei il caso esemplare del Padiglio-ne Barcel‐ lona di Mies van der Rohe all’Expo del 1929, che riassume il meglio del pensiero razionalista, e le elucubrazio-ni irrealizza‐ bili di Antonio Sant’Elia che, prima della Prima guerra mon‐ diale, immagina già la città-mostro che diventerà poi Metro‐ polis di Fritz Lang. E così siamo a quattro padri fondatori. 155
Poi passerei ovviamente alle arti del pennello sostenen-do che tutto inizia con Cézanne al quale l’impressionismo fa im‐ pressione e quindi inventa la rappresentazione delle cose che assumono forma cubica. C’è poi Klimt, superbo cantore del‐ l’eleganza viennese, che dipinge la vita e la morte in quell’Eu‐ ropa di mezzo che sta per frantumarsi. Umber-to Boccioni tollera l’astrazione solo se comprende anche il movimento: ecco il suo movente, non riusciva mai a stare fermo finché non cascò da cavallo. Giacomo Balla, forse leg-germente in‐ genuo, scompone all’inizio del secondo decennio la luce in triangolini e divide così il Divisionismo fino a portarlo all’a‐ strazione, la medesima astrazione che la mistica di Kazimir Malevič scopre fra le croci delle icone russe, mentre Vasilij Kandinskij inventa il tormento della materia che si libera dalle citazioni ancestrali delle sue fiabe. C’è poi quel tedesco eleve‐ tizzato parzialmente di Paul Klee che scopre che le opere non hanno una dimensione fisica ma solo mentale nella nostra percezione e quindi si dedica ad acquarelli piccoli che assu‐ mono un peso infinito: tutto è relativo come sostiene negli stessi anni Albert Einstein. Nel 1911 Giorgio de Chirico de‐ cide che il mondo non è quello che vediamo ma che l’arte serve a entrare in una dimensione che va oltre il fisico: i sur‐ realisti ne saranno i discendenti irriverenti. Infine, forse il più grande di tutti, per l’età raggiunta nel disordine esistenziale e politico, forse il vero Giuda del gruppo, quello che non cerca‐ va ma trovava nella ricerca degli altri lo spunto delle sue for‐ midabili opere, diceva infatti: je ne cherche pas, je trouve, v’è l’e‐ terno Pablo Picasso che attraversa indenne a petto nudo tutto l’arco della questione. A dire il vero ce ne sarebbe un altro ancora, uno che per snobismo era rimasto fuori dal cenacolo e che quindi mi limi‐ to a menzionare, perché continuava imperterrito a credere alla figurazione tradizionale rappresentativa e aveva una inconfes‐ 156
sabile inclinazione a guardare le ragazzine sotto la gonna, ti‐ pico atteggiamento da nobile decaduto: si tratta di Balthasar Kłossowski de Rola (nato il 29 febbraio come Gioachino Rossini e quindi privo di compleanno tre anni su quattro), detto Balthus e sposato con la sua modella anch’essa nobile e nubile Antoinette de Watteville. Di tutti gli autori realisti che continuano a dipingere ciò che apparentemente pensano di vedere, innegabilmente il più curioso; infatti va a studiare dal vivo in Italia Piero della Francesca ad Arezzo e Masaccio a Firenze. Ecco quindi i nostri cavalieri, apostoli o profeti della creati‐ vità del secolo brevissimo. Era dagli anni lontani del Rinasci‐ mento che non si assisteva a un simile miracolo. Ad ognuno di questi eroi abbiamo offerto la possibilità di far vedere alcune opere.
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Louis e Auguste Lumière
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fratelli Lumière erano nati nel profondo della provincia francese, a Besançon, ancora sotto il II Impero, da un babbo fotografo che ebbe la buona idea di lasciarli fare, sicché Louis inventò la lastra secca che sarebbe stata necessaria alla ripresa d’immagini della futura pellicola mobile. Dal 1892 si mise al lavoro Louis con Auguste inventando il foro di trasci‐ namento e progettando una macchinetta che chiamarono il cinématographe (anche loro fan parte dei pionieri che se aves‐ sero brevettato il nome sarebbero diventati più ricchi di Creso). E il 19 marzo del 1895, festa del papà (non è accerta‐ to che la festività abbia infuenzato il loro lavoro ma sicura‐ mente il futuro dell’umanità), girarono il primo documentario della storia, L’uscita dalle Officine Lumière, grande auspicio per un secolo breve di lavoro. Il 28 dicembre del medesimo anno si tenne il primo spettacolo a pagamento, al Grand Café del Boulevard des Capucines. Se ne andarono subito a far propa‐ ganda del prodotto a Londra e a New York: il Novecento si fece subito cosmopolita. Non contenti nel 1903 inventarono il primo processo di fotografia a colori.
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Fratelli Lumière, Fotogramma del film L’uscita dalle Officine Lumière, 1895
Marcellin Auzolle, Cinématographe Lumière, 1896, litografia a colori, cm 189x236, Collezione privata
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Donna con ombrellino accanto a uno stagno, 1906-1912, autochrome Lumière
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Due ragazze in giardino tra i fiori, 1907, autochrome Lumière
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Famiglia al mare, 1910, autochrome Lumière
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Émile Cohl
B
el tipo Émile Cohl, parigino esistenzialista al punto di non avere mai depositato alcun brevetto. Nato nel 1857 all’anagrafe come Émile Eugène Jean-Louis Courtet. Amico di André Gill, il guru della caricatura, si dedica alla nuova scoperta della pellicola e vi inserisce il disegno al posto del‐ l’immagine ripresa. Nel 1912 se ne va negli Stati Uniti, lavora per la Gaumont francese e realizza un’ottantina di film di ani‐ mazione. I giornali satirici a Parigi abbondavano, ve ne erano oltre duecentocinquanta che coprivano tutto l’arco politico e ogni tipo di passatempo, intorno alle loro redazioni si stava sviluppando un cosmo di creatività figurativa in gran parte af‐ fidata alla matita e alla penna d’inchiostro che si affiancava in modo intenso al Parnaso della pittura. Così come il primo ci‐ nema discende direttamente dalla comica del vaudeville, i car‐ toni animati saranno figli delle sperimentazioni della carta stampata. Vi sono oggi importantissimi musei che documen‐ tano l’“arte maggiore” mentre il formidabile lavoro degli illu‐ stratori continua a dormire celato nelle biblioteche. V’era a dire il vero già stata un’epoca con una fenomenologia analoga, nel Quattrocento, quando le grandi scuole dei miniaturisti formavano un immaginario parallelo e talvolta molto più complesso di quello inventato dagli affrescatori e dai primi pittori a olio. La meccanica creativa del cartone animato gioca sulla semplificazione della linea, trae vantaggio dalla narrazio‐ ne delle sequenze. La formidabile macchina produttiva del ci‐ nema americano sarà per conseguenza la più adatta a racco‐ 163
gliere grandi gruppi di disegnatori per realizzare le migliaia di immagini necessarie a un film complesso.
Émile Cohl, Caricatura di Paul Verlaine in “Les Hommes d’Aujourd’hui”
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Émile Cohl, fotogramma da Fantasmagorie con Fantoche che duella con la spada, 1908
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Émile Cohl, fotogramma da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogramma da La lampada che fuma, 1909
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Émile Cohl, fotogramma da Les beaux arts de Joko, con la scimmia pittrice, 1909
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
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Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
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Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
Émile Cohl, fotogrammi da Fantasmagorie, 1908
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Antonio Sant’Elia
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l giovane Sant’Elia era un visionario entusiasta sempre alla ricerca della nuova frontiera, con la matita in mano al‐ l’Accademia di Brera o imbracciando un fucile sul Carso dove si prese una pallottola in fronte a soli ventotto anni nella trin‐ cea di quota 77. Era egli intimamente, come atto di fede, pronto a ogni ipotesi d’innovazione. Era rimasto illuminato dalla prima centrale elettrica di Trezzo d’Adda e da tutti gli elementi d’un avvenire tecnico che gli fecero immaginare già allora case a grattacielo con ascensori esterni e città a piani in‐ terconnessi dove le funzioni si potevano razionalmente so‐ vrapporre.
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Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, matita e acquerello su carta, cm 45x29, Collezione privata
Antonio Sant’Elia, Schizzo per la nuova stazione di Milano, 1914, matita e acquerello su carta, cm 36x78, Collezione privata
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Antonio Sant’Elia, La centrale elettrica, 1914, inchiostro nero, verde, rosso e matita nera su carta, cm 48x27, Collezione privata
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Ludwig Mies van der Rohe
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udwig Mies van der Rohe, per quanto possa sembrare altisonante il suo cognome, era figlio d’uno scalpellino per monumenti funerari (succederà così più tardi anche a Lucio Fontana!). Impara il mestiere manuale e si forma poi alla scuola tecnica. Inizia a disegnare mobili nel 1905 per Bruno Paul e scopre la magia della struttura. Poi se ne va a la‐ vorare dal sommo Peter Behrens, dove trova anche Walter Gropius e il giovane ginevrino Jeanneret non ancora diventato Le Corbusier. Inizia una carriera che cambia il destino del gusto aggiungendo il cognome della mamma e un van der in‐ ventato per impressionare i clienti: ecco la figura nuova del‐ l’architetto. Ha fortuna al punto tale, essendo diventato diret‐ tore del Bauhaus, da lasciare un segno indelebile e alcuni dei suoi mobili sono tuttora in produzione avendo sparso nel mondo milioni di esemplari. Un altro che si è dimenticato i diritti d’autore. Vale anche per lui la citazione successiva di Ernesto Nathan Rogers: “dal cucchiaio alla città”.
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Ludwig Mies van der Rohe, Casa Wolf, 1925-1927, fotografia alla gelatina di argen‐ to, cm 19x25,5, New York, The Museum of Modern Art
Ludwig Mies van der Rohe, Padiglione tedesco per l’Esposizione Internazionale del 1929 di Barcellona
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Ludwig Mies van der Rohe, Progetto per grattacielo sulla Friedrichstraße a Berlino, 1921, matita e carboncino su carta, cm 173x122, New York, The Museum of Mo‐ dern Art
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Ludwig Mies van der Rohe, Palazzo IBM a Chicago, 1971
Abbiamo discusso a lungo se lasciare la palma a Mies o a Walter Gropius e siamo arrivati alla conclusione che Gropius, forse di pari livello nel concepire gli edifici, non ha lasciato un’opera altrettanto classica e iconica sulla quale sedersi. E poi Gropius il cognome ce l’aveva già e come tale era meno designer di se stesso, mentre sul versante privato ebbe l’onere e l’onore di occuparsi di Alma Mahler che sposò da poco ve‐ 176
dova, durante una licenza militare nel 1915. Si sfidano sin dalla fine degli anni Venti del secolo brevissimo le due sedie, quella di Mies e quella di Gropius in tubolare curvato e cro‐ mato, che ha come antenata la sedia in faggio curvato di Mi‐ chel Thonet, e che ambisce a superare la struttura statica della poltrona B3 di Marcel Breuer del 1925. Breuer era il respon‐ sabile del laboratorio dei metalli al Bauhaus e sapeva bene che il tubolare era curvabile ma aveva bisogno di una progettazio‐ ne statica che lo obbligava a linee perpendicolari; la sfida con‐ siste nel dare al tubo la flessibilità della sedia a dondolo che già nel 1830 aveva disegnato il padre del mobile in ferro, l’a‐ mericano Peter Cooper, che usava invece la lamiera piegata. La stessa lamiera che riprende poi nel 1929 Mies per la sua poltrona, diventata oggi un’icona assoluta del design anche se non è affatto adeguata a una produzione industriale a macchi‐ na poiché richiede saldature di tipo tradizionale quasi artigia‐ nali. È comunque incredibile che oggetti progettati quasi un secolo fa già appaiano assolutamente contemporanei anche oggi, ma non è così anche per la pittura di Picasso o di de Chirico?
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Ludwig Mies van der Rohe, Poltrona Barcelona per Knoll, 1929, acciaio cromato e pelle, altezza cm 85, New York, The Museum of Modern Art
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Fratelli Thonet, Sedia, 1918, legno incurvato e paglia di Vienna, altezza cm 90, New York, The Museum of Modern Art
Peter Cooper, Sedia a dondolo, 1840-1850, ferro, stoffa, altezza cm 119, Londra, Victoria and Albert Museum
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Marcel Breuer, Poltrona Wassily, 1927-1928, acciaio cromato, tela, altezza cm 76, New York, The Museum of Modern Art
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Ludwig Mies van der Rohe, Sedia MR, 1927, acciaio cromato e pelle, altezza cm 78, New York, The Museum of Modern Art
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Paul Cézanne
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orghese agiato nato nel 1839 nella provincia meridio‐ nale, Cézanne era compagno di liceo ad Aix-en-Proven‐ ce di Émile Zola, il futuro grande scrittore, paladino dell’im‐ pegno civile, con il quale suonava in una orchestra. Sofferto e impegnato nel suo dipingere come intellettuale di frontiera, rimaneva serissimo dinnanzi alla tela e attribuiva la medesima importanza a una mela o alla montagna di Sainte Victoire che lo ossessionava per la sua volumetria. Fra le tante versioni di questo tema all’aria aperta, la sequenza delle quattro proposte consente di capire il passaggio di “evaporazione” del culto im‐ pressionista per la pittura all’aperto alla visione volumetrica che sarà lo spunto di partenza del successivo cubismo. Cézan‐ ne, da perfetto intellettuale, non intende rappresentare il reale ma penetrarlo, esattamente come dirà pochi anni dopo il filo‐ sofo Bergson, quando sostiene che per capire l’acqua v’è solo la possibilità di tuffarcisi dentro. Tanto amava l’aria libera che rimase vittima, Cézanne, d’un temporale autunnale e d’una conseguente polmonite che lo portò immediatamente al cimi‐ tero il 22 ottobre del 1906. L’anno successivo gli fu dedicata una vasta retrospettiva al Salon d’Automne di Parigi e la sua ricerca isolata diventò il germe delle pittura cubista. Fra i visi‐ tatori commossi v’erano Braque e Picasso, amici venticin‐ quenni, che ne rimasero folgorati. Basta guardare i quadri fatti prima e quelli dopo la mostra per rendersi conto di quan‐ to la “cura” Cézanne abbia influenzato la sensibilità di en‐ trambi gli artisti. Da quel momento in poi i due lavoreranno 182
spesso in simbiosi a tal punto che quando separeranno il loro percorso i dipinti successivi saranno talvolta difficili, così dice l’agiografia, da riconoscere per loro stessi (guardate in queste pagine le loro opere prima e dopo la “cura”). Due siamesi ap‐ parentemente, difficili da distinguere in fotografia, ma se vi capiterà di vederli dal vivo vi accorgerete d’una assoluta curio‐ sità: se vi allontanate dalle opere, quelle di Braque continue‐ ranno ad apparire distese sul supporto mentre quelle del terri‐ bile spagnolo assumeranno una curiosa terza dimensione pla‐ stica che è proprio quella che Picasso riprende nel giro succes‐ sivo del Neoclassicismo (provare per credere!). Ho avuto la fortuna di fare questa intrigante scoperta quando mi fu offerta la possibilità di vedere a porte chiuse la mostra Braque/Picas‐ so a New York anni fa. Non essendoci il pubblico che obbliga sempre il visitatore a camminare rasente i muri, ho potuto al‐ lontanarmi a cinque metri dai dipinti in totale tranquillità e la faccenda si è fatta incredibilmente evidente. Lo stesso mira‐ colo della terza dimensione lo ritroverete guardando Cézanne da lontano, ed è ancora quello che vi fa percepire il realismo totale di Canaletto quando la distanza (fatene la prova nelle sale talvolta vuote del British Museum di Londra) vi consente di percepire l’atmosfera, la temperatura e l’umidità dell’aria veneziana. E qui si trova uno dei curiosi segreti della scompo‐ sizione quando semplifica il segno: la nostra mente lo ricom‐ pone automaticamente come ricompone il segnale musicale d’una radio sentita in lontananza quando dà l’impressione d’uno strumento autentico. Infatti Picasso abbandona il Rea‐ lismo non con il Cubismo ma successivamente con il Surreali‐ smo e con la scomposizione dei ritratti della squisita Dora Maar.
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Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1897, olio su tela, cm 54x81, Baltimora, The Baltimore Museum of Art
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1892-1895, olio su tela, cm 73x92, Me‐ rion, The Barnes Foundation
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Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1902-1906, olio su tela, cm 64,8x81,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Paul Cézanne, La montagna Sainte Victoire, 1902-1904, olio su tela, cm 73x92, Fila‐ delfia, Philadelphia Museum of Art
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Pablo Picasso, Nudo seduto, 1906, olio su tela, cm 151x100, Praga, Národní Galerie
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Pablo Picasso, Donna con ventaglio, 1907, olio su tela, cm 78x49, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage
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Pablo Picasso, Autoritratto, 1906, olio su tela, cm 92x73,3, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
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Pablo Picasso, Autoritratto, 1907, olio su tela, cm 49x28, Praga, Národní Galerie
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Georges Braque, Paesaggio a La Ciotat, 1907, olio su tela, cm 71,7x59,4, New York, The Museum of Modern Art
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Georges Braque, Case a l’Estaque, particolare, 1908, olio su tavola, cm 73x59, Berna, Rupf Foundation
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Pablo Picasso, La cisterna a Horta de Ebro, particolare, 1909, olio su tela, cm 61,5x51,5, New York, The Museum of Modern Art
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Georges Braque, Viadotto à l’Estaque, 1908, olio su tela, cm 59x46, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Pablo Picasso, Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, olio su tela, cm 92x65, Mosca, Museo Puškin
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Georges Braque, La mandola, 1909-1910, olio su tela, cm 71x56, Londra, Tate Gal‐ lery
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Gustav Klimt
V
orrei, caro lettore, che tu potessi intraprendere un iti‐ nerario che mi è talvolta capitato di seguire quando ho avuto la fortuna di passare dallo stato di stupido a quello di stupito. Gustav Klimt è uno degli autori che più di tanti altri mi ha offerto questa opportunità. Era ignoto ancora al pub‐ blico e al mercato mezzo secolo fa, al punto che da giovinotto ebbi la fortuna di potere con facilità commerciare i suoi dise‐ gni per cifre analoghe a quelle che si pagava offrendo una buona cena al ristorante a una compagnia allargata e il noto dipinto della Speranza del 1903 fu venduto al museo di Otta‐ wa negli anni Sessanta del secolo passato da un mercante mi‐ lanese per poche decine di migliaia di dollari dopo averlo inu‐ tilmente proposto all’illuminata borghesia meneghina, mentre nel 2006 il ritratto di Adele Bloch-Bauer è stato acquistato da Ronald Lauder per centotrentacinque milioni degli stessi dol‐ lari, ovviamente leggermente svalutati da mezzo secolo di sto‐ ria. Pochi artisti hanno avuto una simile rivalutazione, la quale corrisponde ovviamente anche alla rivalutazione del mondo dell’Europa di Mezzo che rappresenta. La cultura mondiale solo da poco ha ricollocato nella sua memoria Musil e Kafka, Richard Strauss, Gustav Mahler e Arnold Schönberg, e il vecchio von Clausewitz, prussiano decorato dagli Habsburg come teorico delle strategie, il quale sosteneva che “poiché il talento e il genio agiscono all’infuori delle leggi della teoria, si trasformano nell’antitesi della realtà”. È questa la migliore spiegazione del genio di Klimt. Delle tante foto‐ 196
grafie che raffigurano il grande artista, nato da una famiglia boema come i suoi compagni con la K, quasi tutte lo raffigu‐ rano d’estate, molto spesso con camici discinti da guru incline ad una sensualità perenne, il che lo pone in un curioso paral‐ lelo con l’altro grande sensuale, Pablo Picasso che viveva in Costa Azzurra. Anche la pittura di Klimt è naturalmente esti‐ va, come lo sono i suoi giardini. L’horror vacui delle sue opere, il gusto per la decorazione nelle composizioni ne è forse la conseguenza naturale. Il viaggio che compie in Italia sarà di contributo fondamentale: Ravenna vista nel 1903 non fa che confermare la magia dei mosaici, degli ori, dei quadrettini che vanno a combinarsi con i fiori dei giardini estivi e annullano le depressioni della Secessione, ma non le contorsioni mentali d’una cultura viennese dove opera il dottor Freud e che già prima del viaggio gli permise di concepire il decoro interno dell’edificio progettato da Joseph Maria Olbrich ancora prima della fine del secolo e dove la cupola dà un segno fondamen‐ tale: non ha struttura portante se non nel decoro stesso che la forma. E se pochi anni dopo Adolf Loos sosterrà che la deco‐ razione è un crimine perché riporta l’uomo moderno nelle pratiche tribali dei primitivi che si decoravano la pelle al pari dei delinquenti tatuati, per Klimt come per Olbrich la decora‐ zione è struttura stessa della vita e dell’arte.
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Michael Powolny, Putto con fiori (La Primavera), 1912, ceramica, altezza cm 78, Fi‐ ladelfia, Philadelphia Museum of Art
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Gustav Klimt, Giardino fiorito con rose, 1914, olio su tela, cm 100x100, Collezione privata
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Gustav Klimt, Le amiche, 1916-1917, olio su tela, cm 90x100, Collezione privata
La fucilazione di Mata Hari, da “Simplicissimus”, 6 novembre 1917
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Claude Monet, Stagno delle ninfee, 1918-1919, olio su tela, cm 140x150, Londra, Collezione privata
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Gustav Klimt, Il girasole, 1907-1908, olio su tela, cm 121x122, Vienna, Belvedere
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Claude Monet, Il giardino dell’artista a Giverny, 1900, olio su tela, cm 81x92, Parigi, Musée d’Orsay
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Gustav Klimt, Giardino fiorito, 1905-1907, olio su tela, cm 110x110, Collezione privata
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Gustav Klimt, Ballerina, 1916-1918, olio su tela, cm 180x90, Collezione privata
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Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acque‐ rello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
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Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acque‐ rello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
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Gustav Klimt, Schizzi per L’albero della vita per palazzo Stoclet, 1905-1909, acque‐ rello su carta, cm 194x120, Vienna, Museum für Angewandte Kunst
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Gustav Klimt, Ritratto di Friederike Maria Beer, 1916, olio su tela, cm 168x130, Tel Aviv, Tel Aviv Museum of Art
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Gustav Klimt, La Vergine, 1912, olio su tela, cm 190x200, Praga, Národní Galerie
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Léon Bakst, ll ballerino Vaslav Nijinskij nel ruolo di Iskander nel balletto La Peri, 1912, litografia a colori, cm 25x19, Parigi, Bibliothèque-Musée de l’Opéra
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Arturo Martini, Fanciulla piena d’amore, 1913, maiolica dorata, altezza cm 42, Ve‐ nezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro
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Felice Casorati, Preghiera, 1914, olio su tela, cm 130x120, Verona, Galleria d’Arte Moderna “Achille Forti”
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Gustav Klimt, Ritratto di Eugenia Primavesi, particolare, 1913-1914, olio su tela, cm 140x84, Toyota, Toyota City Museum
La verità sta in realtà nella natura stessa, che è generosa e fiorita; le belle signore di Vienna sembrano un prodotto di questa floridezza. Klimt ha raramente ritratto gli uomini se non per esercizi apparentemente accademici che per nulla ri‐ cordano l’arte sofisticata che consegnò alla Storia: sono bar‐ 214
buti e austeri. Le donne sono il centro della sua attenzione. Le donne sono come i fiori d’una estate infinita. In questo senso è ben diverso il suo emulo Egon Schiele, il quale dipin‐ ge con la medesima ansia ambo i sessi, con una marcata pre‐ dilezione per il mondo femminile che lo attrae ma con una comune attenzione dal sapore morboso per maschi e femmi‐ ne. E anche se Schiele guarda la natura, è quella dell’inverno, degli alberi scabri dell’autunno. Klimt ha un colpo apoplettico l’11 gennaio del 1918 e muore il 6 febbraio. Viene sepolto nell’Hietzinger Friedhof, vicino al suo studio. Nello stesso ci‐ mitero lo segue per sempre Otto Wagner che muore l’11 apri‐ le. Il 31 ottobre muore anche Schiele, che aveva lo studio nella stessa circoscrizione di quello di Klimt.
Vittorio Zecchin, Le principesse e i guerrieri (dal ciclo delle Mille e una notte), 1914, olio e oro su tela, cm 171x188, Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro
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Si chiude un mondo, scompare l’Impero. L’11 novembre si firma l’armistizio a Compiègne.
Gustav Klimt, Ritratto di Emilie Floege, 1902, olio su tela, cm 181x84, Vienna, Hi‐ storisches Museum der Stadt Wien
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Umberto Boccioni
U
n milanese nato in Calabria e come tale inatteso pro‐ dotto dell’Unità d’Italia, a prima vista provinciale quin‐ di, anche se nazionale. Ma solo apparentemente perché sem‐ bra assistito da un inatteso demone che lo piazza in mezzo alle correnti d’Europa. Il suo modo di procedere nella scom‐ posizione divisionista lo porta immediatamente a intuire le forze di un movimento che accompagnano l’esistere, e gli stati d’animo che ne sono la conseguenza esistenziale. Rimane un mistero capire per quale motivo egli applichi i numeri nel suo dipinto esattamente come se avesse visto al lavoro Picasso e Braque a Parigi. I numeri erano nell’aria dell’avanguardia. Mentre conosceva sicuramente quell’artista ermetico e simbo‐ lico ch’era Romolo Romani. Boccioni è una carta assorbente degli umori d’avanguardia che la sua esperienza gli fa attraver‐ sare. E prima di morire nel 1916 ha già abbandonato il Futu‐ rismo, essendo passato da una esperienza espressionista dal sapore quasi germanico e spingendosi in una dimensione di recupero della plasticità formale. E il numero è semplicemen‐ te quello d’immatricolazione della locomotiva. Il motore principale di Boccioni è l’entusiasmo per l’epoca storica che sta vivendo, per le ansie dense e le esaltazioni della mutazione in corso. E le medesime ansie si ritrovano nelle esperienze di Carrà, un artista che mi ricorda talvolta la capa‐ cità di mutare stili appena vengono alla luce come fa Pablo Picasso. Quell’atmosfera intesa da Boccioni si ritrova in un 217
suo collega, assai avaro di opere ma non di genio, che è Luigi Russolo, il quale gioca fra stridori visivi e quelli musicali ai quali darà vita con gli esperimenti dell’Intonarumori, un po’ come se anche lui avesse visto l’acquarellino di Francis Picabia La musique est comme la peinture.
Umberto Boccioni, Nudo di spalle (Controluce), 1909, olio su tela, cm 60x55,2, Rove‐ reto, MART, Collezione L.F.
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Umberto Boccioni, Materia, particolare, 1912, olio su tela, cm 225x150, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
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Umberto Boccioni, Stati d’animo I - Quelli che vanno, 1911, olio su tela, cm 71x96, Milano, Museo del Novecento
Umberto Boccioni, Stati d’animo II - Gli addii, 1912, olio su tela, cm 70,5x96,2, New York, The Museum of Modern Art
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Umberto Boccioni, Bozzetto per Quelli che vanno, 1911, olio su tela, cm 95,5x121, Milano, Museo del Novecento
Umberto Boccioni, Stati d’animo II - Quelli che restano, 1912, olio su tela, cm 70,8x95,9, New York, The Museum of Modern Art
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Mai sarebbe nato il Futurismo a Milano senza l’Expo del 1906 per la quale l’Italia decise di completare il traforo del Sempione che mise la penisola in relazione rapida con la Francia. Il treno diventa simbolo di libertà: Marinetti, come d’Annunzio d’altronde, si mette a fare spola fra Milano e Pa‐ rigi. Ecco il motivo che porta Umberto Boccioni a dipingere gli Stati d’animo di quelli che vanno, quelli che restano, gli addii… La prima mostra parigina del gruppo futurista (Boccioni, Carrà, Russolo e Severini) si tiene alla Galerie Bernheim-Jeu‐ ne nel 1912. E Boccioni, il più consapevole del gruppo al punto di lasciare scritti di fragrante consapevolezza, distribui‐ sce e assorbe. E le cose non gli vanno affatto male, visto che successivamente a Londra riesce a vendere al già notissimo super pianista Ferruccio Busoni La città che sale durante la mostra che si apre alla Sackville Gallery. A proposito di La strada entra nella casa scrive lo stesso Boccioni: “La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, ir‐ rompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fo‐ tografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni dire‐ zione, dal balcone”.
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Umberto Boccioni, Autoritratto, 1906, olio su tela, cm 65x38, Milano, Pinacoteca di Brera
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Gino Severini, Autoritratto con panama e pipa, 1908, olio su tela, cm 35x22, Colle‐ zione privata
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Gino Severini, Autoritratto, 1912, olio su tela, cm 55x46, Collezione privata
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Carlo Carrà, Simultaneità (La donna al balcone), 1912, olio su tela, cm 85x72, Colle‐ zione privata
Severini, del gruppo, è l’unico che decide di non tornare in‐ dietro perché nel 1913 si sposa con la sedicenne Jeanne, la fi‐ glia d’uno dei più noti poeti di Francia, Paul Fort, che fu por‐ tavoce dei futuristi. L’aveva incontrata alla Closerie des Lilas, la brasserie dove passavano tutti da quando era stata fondata nel 1847: per un toscano di provincia come lui sedersi sulle sedie dove erano già stati seduti Cézanne, Gautier, Zola e Baudelaire doveva essere una forte sensazione! 226
Umberto Boccioni, Visioni simultanee, 1911, olio su tela, cm 70x75, Wuppertal, Von der Heydt Museum
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Umberto Boccioni, Materia, 1912, olio su tela, cm 225x150, Collezione Gianni Mattioli, deposito a lungo termine presso la Collezione Peggy Guggenheim, Vene‐ zia
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Marcel Duchamp, Nudo che scende le scale numero 2, 1912, olio su tela, cm 147x89,2, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
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Francis Picabia, Rivedo nella memoria la mia cara Udnie, 1914, olio su tela, cm 250,2x198,8, New York, The Museum of Modern Art
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Giacomo Balla
È
innegabilmente uno degli artisti più ludici che abbiano attraversato il secolo brevissimo: in lui l’autocoscienza cerebrale viene sostituita da una curiosità perenne. È anzitut‐ to uno sperimentatore del visivo. Apparentemente potrebbe sembrare l’artista meno “intellettuale”, all’opposto proprio di Boccioni che ragiona su tutto ciò che fa, mentre invero è, forse inconsapevolmente, il più aristotelico, cioè il più speri‐ mentale. Cresciuto nell’ambito del Divisionismo, mette im‐ mediatamente in dubbio la suddivisione della materia per pic‐ coli tratti e sostituisce questa prassi con una ricerca su tutto ciò che l’occhio umano da un lato e l’occhio ottico dall’altro, quello della fotografia, consentono di vedere. Ecco quindi che appaiono i movimenti mossi d’un piede o di una deambula‐ zione (le signore che scendono per le scale) oppure il contra‐ sto fra il chiarore esterno e le ombre interne come se fossero viste non dall’occhio umano che ristabilisce nel cervello gli equilibri di tonalità ma dalla macchina ottica che si trova li‐ mitata a restituire la luce nella sua gradazione naturale. Esem‐ plari in tal senso le sue opere con personaggi in “controluce”. Ma altrettanto curiose son le varie forme pittoriche usate per restituire la sensazione della luce: tratti, cerchietti, triangoli, che verranno negli anni successivi portati alle estreme conse‐ guenze geometriche finché il bizzarro artista, forse stanco d’una ricerca nei meandri della semiastrazione, torna quasi a riconvertirsi alla figura classica, che però classica non lo è più, a tal punto che sembra una illustrazione per la carta stampata. 231
Ma anche in questi lavori, che un’analisi distratta potrebbe definire di retroguardia, la pittura si articola su sfondi inattesi come quelle tele che usava ricoprendole con una garza per spezzare il segno tradizionale del pennello e ritrovare la sensa‐ zione delle prime ricerche.
Giacomo Balla, Villa Borghese, Parco dei daini, 1910, olio su tela, cm 190x390, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Giacomo Balla, La scala degli addii (Salutando), 1908, olio su tela, cm 105,5x105,6, Collezione privata
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Giacomo Balla, Rondini: linee di movimento + sequenze dinamiche, 1913, olio su tela, cm 96,8x120, New York, The Museum of Modern Art
Giacomo Balla, Studio di motocicletta in corsa (Velocità di motocicletta), 1913, vernice su carta intelata, cm 68x97, Collezione privata
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Giacomo Balla, La signora Pisani al balcone, 1901, olio su tela, cm 203x133, Colle‐ zione privata
In effetti considerare Balla solo come artista futurista in senso stretto ne altera la personalità. Non per nulla lui stesso, assieme a Fortunato Depero, redigono nel 1915 il Manifesto per la Ricostruzione futurista dell’universo, una sorta di procla‐ ma di ciò che sarà il design del secolo. 235
Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone, 1912, olio su tela, cm 125x125, Mila‐ no, Museo del Novecento
Eccone il sunto del pensiero: Col Manifesto tecnico della Pittura futurista e colla prefazione al Catalogo dell’Esposizione futurista di Parigi (firmati Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini), col Manifesto della Scultura futurista (firmato Boccioni), col Mani‐ festo La Pittura dei suoni rumori e odori (firmato Carrà), col volume Pittura e scultura futuriste, di Boccioni, e col volume Guerrapittura, di Carrà, il Futuri‐ smo pittorico si è svolto, in sei anni, quale superamento e solidificazione del‐ l’Impressionismo, dinamismo plastico e plasmazione dell’atmosfera, compe‐ netrazione di piani e stati d’animo. La valutazione lirica dell’universo, me‐ diante le Parole in libertà di Marinetti, e l’Arte dei Rumori di Russolo, si fon‐ dono col dinamismo plastico per dare l’espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale. Noi futuristi, Balla e Depero, vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente. Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’imper‐
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cettibile. Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto. […] MEZZI NECESSARI: Fili metallici, di cotone, lana, seta d’o‐ gni spessore, colorati. Vetri colorati, carteveline, celluloidi, reti metalliche, trasparenti d’ogni genere, coloratissimi, tessuti, specchi, lamine metalliche, stagnole colorate, e tutte le sostanze sgargiantissime. Congegni meccanici, elettrotecnici, musicali e rumoristi; liquidi chimicamente luminosi di colora‐ zione variabile; molle; leve; tubi, ecc.
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Giacomo Balla, Elisa sulla porta, 1904, pastello e carboncino su carta, cm 174x115, Collezione privata
Giacomo Balla, La pazza, 1905, olio su tela, cm 175x115, Roma, Galleria Naziona‐ le d’Arte Moderna e Contemporanea
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Peter Behrens, AEG-Metallfadenlampe, 1907, litografia a colori, cm 39x23, Berlino, Kunstbibliothek
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Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909, olio su tela, cm 175x115, New York, The Museum of Modern Art
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Umberto Boccioni, Rissa in galleria, particolare, 1910, olio su tela, cm 76x64, Mila‐ no, Pinacoteca di Brera
In realtà il binomio Balla-Depero pone così una provoca‐ zione profonda contro la serietà ufficiale: Il giocattolo futurista Nei giochi e nei giocattoli, come in tutte le manifestazioni passatiste, non c’è che grottesca imitazione, timidezza, (trenini, carrozzini, pupazzi immobili, caricature cretine d’oggetti domestici), antiginnastici o monotoni, solamente atti a istupidire e ad avvilire il bambino. Per mezzo di complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che abitueran‐ no il bambino: 1) a ridere apertissimamente (per effetto di trucchi esageratamente buffi); 2) all’elasticità massima (senza ricorrere a lanci di proiettili, frustate, punture improvvise, ecc.); 3) allo slancio immaginativo (mediante giocattoli fantastici da vedere con lenti; cassettine da aprirsi di notte, da cui scoppieranno meraviglie pirotecni‐ che; congegni in trasformazione ecc.)
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4) a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità (nel dominio sconfi‐ nato dei rumori, odori, colori, più intensi, più acuti, più eccitanti). 5) al coraggio fisico, alla lotta e alla GUERRA (mediante giocattoli enormi che agiranno all’aperto, pericolosi, aggressivi). Il giocattolo futurista sarà uti‐ lissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, agile, festante, disinvol‐ to, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo.
Giacomo Balla, La finestra di Düsseldorf con il binocolo, 1912, olio su tavola, cm 28,5x35, Collezione privata
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Giacomo Balla, Volo di rondini, 1913, olio su tela, cm 42x53, Collezione privata
Fortunato Depero segue l’idea e incontra Djagilev e tramite lui Michail Larionov e Stravinskij e realizza poi con Gilbert Clavel, che trova a Capri nel 1917, un progetto autonomo di balletti a Roma dove metteranno in scena nell’aprile del 1918, quand’ancora sparano i cannoni sulle Alpi, i Balli plastici con musiche di Béla Bartók e di Malipiero. Una pagina d’avan‐ guardia formidabile che spesso la storiografia recente tende a occultare. Ballo di marionette, ma di quanto spessore! Se il primo vento futurista tende a scomporre la materia e l’occhio secondo le linee di forza, questa seconda fase vuole ricompor‐ re il mondo smontato in una dimensione nuova, autentico gioco di bambini adulti.
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Giacomo Balla, Numeri innamorati, 1920, olio su tela, cm 77x56, Rovereto, MART
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Giacomo Balla, Si è rotto l’incanto, 1920, olio su tela, cm 40x30, Collezione privata
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Giacomo Balla, Andiamo che è tardi, 1934, olio su tavola, cm 70x100, Collezione privata
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Giacomo Balla, Ritratto di Benedetta Marinetti, 1951, olio su tavola, cm 89x58, Col‐ lezione privata
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Giacomo Balla, Belfiore-Peonie, 1924, olio su tela, cm 56x24, Collezione privata
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Giacomo Balla, Magnolie che si specchiano, 1938, olio su tavola, cm 82x67, Napoli, Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano
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Kazimir Malevič
P
rima dei grandi sconvolgimenti politici, avvengono al‐ trettante mutazioni nel mondo del pensiero. Kazimir Malevič ne è eccellente esempio. Per arrivare al manifesto del Suprematismo (e che cosa ci sarà poi di più supremo della Ri‐ voluzione d’ottobre!) che scrive nel 1915 assieme a Vladimir Majakovskij, la strada era stata breve, convulsa e piena di as‐ sorbimenti. Majakovskij era stato preceduto dal poeta futuri‐ sta Velimir Chlébnikov, il quale come ogni buon slavo non poteva esimersi dall’inclinazione teosofica. Futurismo e teolo‐ gia teleologica millenarista combinavano uno strano cocktail totalmente russo e non del tutto estraneo alla passione che portò molti intellettuali e artisti nelle falangi rivoluzionarie. Chlébnikov è affascinato dalla sua mitologia slava e dai nu‐ meri di Pitagora al contempo, dal mondo futuro della radio, dai trasporti innovativi e dalla città che verrà. Partecipa quindi al gruppo futurista russo Hylaea con Majakovskij:
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Kazimir Malevič, La sindone, 1908, olio su tela, cm 23,4x34,3, Mosca, Galleria Tre‐ t’jakov
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Gustav Klimt, Le tre età della vita, particolare, 1905, olio su tela, cm 171x171, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Kazimir Malevič, L’aviatore, 1914, olio su tela, cm 125x65, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
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Robert Delaunay, Omaggio a Blériot, particolare, 1914, tempera su tela, cm 250‐ x251, Basilea, Kunstmuseum
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Pablo Picasso, Natura morta con violino e frutta, 1913, tecniche miste e collage su carta montata su cartoncino, cm 65x49,5, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
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Kazimir Malevič, Riservista della Prima divisione, 1914, olio su tela e collage, cm 54x45, New York, The Museum of Modern Art
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Pablo Picasso, Il chitarrista, 1910, olio su tela, cm 100x73, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Kazimir Malevič, Samovar, 1913, olio su tela, cm 88,5x62, New York, The Mu‐ seum of Modern Art Quando i cavalli muoiono soffiano Quando le erbe muoiono si seccano Quando gli astri muoiono si spengono Quando le genti muoiono cantano canzoni.
Muore trentasettenne nel 1922, il che gli eviterà la delusio‐ ne d’una rivoluzione alla quale aveva aderito come tutta la sua generazione con entusiasmo. Non è il caso dell’altro personaggio estremo, aderente al 258
gruppo letterario dell’Acmeismo, il quale farà a sua volta una triste fine in periodo staliniano morendo deportato nel 1938: il poeta Osip Emil’evič Mandel’štam. Certo non era andato leggero con il Padre della Russia in un suo epigramma del 1933: Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, a dieci passi le nostre voci sono già bell’e sperse, e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino.
Kazimir Malevič, Bianco su bianco, 1918, olio su tela, cm 79,4x79,4, New York, The Museum of Modern Art Le sue tozze dita come vermi sono grasse e sono esatte le sue parole come i pesi di un ginnasta. Se la ridono i suoi occhiacci da blatta e i suoi gambali scoccano neri lampi.
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Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile: i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio. Chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone, lui solo, mazzapicchia e rifila spintoni.
Kazimir Malevič, L’arrotino, 1912-1913, olio su tela, cm 79,5x79,5, New Haven, Yale University Art Gallery
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Fernand Léger, Natura morta, 1919, olio su tela, cm 119,5x88, Collezione privata
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Dionisij, San Basilio Magno, 1502-1503 ca., tempera all’uovo su tavola, cm 157x59, Kirillov, Museo Storico Statale Kirillo-Belozerskij
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Dionisij, San Nicola, 1502, tempera all’uovo su tavola, cm 156x58, Kirillov, Museo Storico Statale Kirillo-Belozerskij Come ferri di cavallo, decreti su decreti egli appioppa: all’inguine, in fronte, a un sopracciglio, in un occhio. Ogni esecuzione, con lui, è una lieta Cuccagna ed un ampio torace d’osseta.
Ma capace era egli stato in gioventù d’una poetica che por‐ tava alla sublimazione espressiva, in modo non dissimile da 263
ciò che avverrà nelle arti visive: “Il rumore prudente e sordo / del frutto, caduto dall’albero / tra il canticchiare continuo / del silenzio profondo del bosco…”. Fra sublimazione e passione per i numeri si evolve il pen‐ siero figurativo di Kazimir Malevič, e poi avrà egli il buon senso di tornare in un alveo più figurativo che non dispiacerà troppo al regime degli anni Trenta, quando verrà guardato con sospetto per le sue amicizie internazionali nel campo te‐ desco del Bauhaus e avrà la fortuna di morire nel 1935 prima delle grandi purghe che non lo avrebbero risparmiato, poiché già nel 1930 era stato arrestato per via di queste sue pericolose relazioni internazionali. “Solo la sensibilità è essenziale. L’og‐ getto in sé non significa nulla” decreta all’inizio della sua mu‐ tazione verso una astrazione totale. Le sue opere rimarranno in gran parte a Berlino dopo la mostra del 1927, e da qui cir‐ coleranno per il mondo. Ma già nel 1914 era stato esposto a Parigi al Salon des Indépendants dove impressionò Fernand Léger al punto di convertirlo. Pochi artisti quanto lui avranno il magico compito di contaminare, instradare, indicare.
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Kazimir Malevič, Croce nera, 1923 ca., olio su tela, cm 106x106, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
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Kazimir Malevič, Croce rossa su cerchio nero, 1920, olio su tela, cm 73x51, Amster‐ dam, Stedelijk Museum
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El Lissitzky, Illustrazione in Per la voce di Vladimir Majakovskij, 1923, litografia a colori su carta crema, cm 19x13,4
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Nikolaj Sapunov, Fiori e porcellana, 1912, olio su tela, cm 83x72, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
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Kazimir Malevič, Suprematismo, 1915, olio su tela, cm 87x72, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
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Kazimir Malevič, Contadina con secchio e bambina, 1912, olio su tela, cm 73x73, Am‐ sterdam, Stedelijk Museum
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Carlo Carrà, L’antigrazioso, 1916, olio su tela, cm 67x52, Collezione privata
Rimane una questione difficile da chiarire e cioè la formi‐ dabile ipotesi di parallelismo fra Malevič e il mondo occiden‐ tale, visto che lui dalla Santa Madre Russia si muove pochissi‐ mo. Nel 1908 si tiene a Vienna nel Konzerthaus una mostra del gruppo di Gustav Klimt e Joseph Hoffmann, fra arti mag‐ giori e arti applicate. È l’anno nel quale Klimt presenta il noto Bacio ed è lo stesso nel quale Malevič dipinge un Cristo morto che potrebbe provenire dalla medesima ispirazione. Gli incro‐ ci informativi in quella Russia prerivoluzionaria sembrano ben più ricchi di quanto la narrazione successiva abbia voluto tra‐ 271
smettere e le ultime onde del Simbolismo appaiono in sottile sintonia con le passioni teosofiche slave. Le evoluzioni dei fumi mentali di Jan Toorop si ritrovano quasi identiche in Malevič, prima della sua conversione alla lingua nuova cubofuturista, la quale permea l’informazione. Talvolta sembrereb‐ be naturale porre in confronto opere sue con le altre che la cultura visiva d’Occidente sta elaborando; altre volte una rela‐ zione fondata solo su rapporti informativi appare ben più dif‐ ficile da dimostrare. In realtà è la sensibilità comune di quegli anni che genera forme apparentemente similari ed è ciò che i francesi chiamano l’air du temps che unisce formalmente espe‐ rienze figurative distanti migliaia di chilometri. L’artista è og‐ gettivamente un indovino, come quel vaticinatore che de Chi‐ rico evoca. Altre volte ancora sembra evidente l’influenza che Malevič ha su correnti successive. Forse Fernand Léger non si sarebbe convertito al “tubismo” senza di lui; ma lo conosceva? E lui stesso, Kazimir, quanto rimane russo nella sua psiche…
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Kazimir Malevič, Gli sportivi, 1928-1932, olio su tela, cm 142x164, San Pietrobur‐ go, Museo Statale Russo
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Kazimir Malevič, Ragazzo con zaino – Masse di colore nella quarta dimensione, 1915, olio su tela, cm 71x44,5, New York, The Museum of Modern Art
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Gerrit Rietveld, Sedia rossa e blu, 1918 ca., legno dipinto, altezza cm 90, New York, The Museum of Modern Art
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Pierre Chareau, Lampada da terra LP180, 1923 ca., ferro battuto e alabastro, altez‐ za cm 28, Collezione privata
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Kazimir Malevič, Testa, 1928-1929, olio su tela, cm 61x41, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
277
Vasilij Kandinskij
O
“gni opera nasce così, come nasce il Cosmo, attraver‐ so le catastrofi che dal caotico frastuono degli strumenti vanno a formare una Sinfonia, la Musica delle sfere. La crea‐ zione di un’opera è la creazione del mondo.” Così nel 1909 Vasilij Kandinskij scrive nel suo famoso saggio Lo spirituale nell’arte, poco prima di dipingere il primo acquerello astratto della sua storia (1910). Il pittore, fin dagli anni giovanili, suo‐ nava pianoforte e violoncello; il suo amico Klee suonava il violino, strumento più leggero, e forse per questo motivo pre‐ feriva l’acquerello e il disegno a penna. E sarei curioso di sa‐ pere cosa si raccontavano a proposito della musica quando la‐ voravano fianco a fianco nel Bauhaus. Fatto sta che in quegli anni nei quali tutti gli spiriti creativi passavano dalla figura alla sua sublimazione, mentre i discendenti di Cézanne scivo‐ lavano verso il Cubismo e i discendenti del Divisionismo cor‐ revano verso il Futurismo, mentre Mondrian con Malevič evaporavano verso la forma geometrica concettuale, Kandin‐ skij s’eleva nella lirica pura. E lo fa scrivendo, ragionando a oltranza e diventando così cervellotico in senso ovviamente trascendente da lasciare una pittura altrettanto fisica e cervel‐ lotica al contempo, sublime comunque. Nel 1912, appena de‐ dicatosi all’esperimento d’un primo gruppo di lavoro alterna‐ tivo a Murnau, pubblica Über das Geistige in der Kunst. Insbe‐ sondere in der Malerei (A proposito della spiritualità nell’arte. Particolarmente nella pittura). In una seconda fase metterà ordine nella pulsione e scoprirà la rassicurazione in Punkt und 278
Linie zu Fläche: Beitrag zur Analyse der malerischen Elemente… (Punto, Linea, Superficie…) del 1928 con copyright del 1926. Fra un testo e l’altro vi è l’innegabile esperienza del Blaue Reiter, nato nel 1911 quando Kandinskij si ribella alla mostra ufficiale degli artisti di Monaco alla quale non viene accettata la sua opera Il Giudizio universale e in quel gruppet‐ to (Franz Marc, Paul Klee, August Macke, Alexej von Jaw‐ lensky, Marianne von Werefkin) si ritrovano non solo artisti visivi ma anche il curioso pianista Thomas Aleksandrovič de Hartmann che mette in musica i dettami del guru Georges Ivanovič Gurdjieff con composizioni dalla ritmica infinita e orientale che precedono per un certo verso quelle di La Monte Young negli anni di Fluxus. Alla coppia HartmannGurdjieff andrebbe messo innegabilmente in relazione il par‐ ticolare lavoro compositivo di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin che muore nel 1915 a quarantatré anni lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro Mysterium (due ore e quaranta minuti per orchestra e pianoforte), una sorta di esaltazione sonora della fine del mondo, dove si pone egli all’opposto dei suoi contem‐ poranei “latini” come Schönberg e Stravinskij. Ma è egli già talmente noto che addirittura d’Annunzio gli dedica l’anno successivo un poema in Notturno. Di Skrjabin consiglio al let‐ tore l’ascolto della breve composizione immediatamente pre‐ cedente, Vers la flamme, nell’esecuzione esemplare di Vladimir Horowitz che ne recupera tutta la trascendenza lirica.
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Vasilij Kandinskij, Dama a Mosca, 1912, olio su tela, cm 108,8x108,8, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunsthaus
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Marc Chagall, La passeggiata, 1917-1918, olio su tela, cm 170x163,2, San Pietro‐ burgo, Museo Statale Russo
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Vasilij Kandinskij, La grande porta di Kiev, 1930, tempera, inchiostro e acquerello su carta, cm 21,3x27,3, Colonia, Theaterwissenschaftliche Sammlung der Universität zu Köln
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Vasilij Kandinskij, Chiesa rossa, 1901, olio su tela, cm 28x19,2, San Pietroburgo, Museo Statale Russo
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Vasilij Kandinskij, Canto del Volga, 1906, olio su tela, cm 49x66, Parigi, Musée Na‐ tional d’Art Moderne, Centre Pompidou
Vasilij Kandinskij, Pannello per l’esposizione della Juryfreie, 1922, guazzo su carta nera, cm 34,7x60, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Vasilij Kandinskij, San Giorgio e il drago, 1915 ca., olio su tela, cm 40x63, Mosca, Galleria Tret’jakov
Vasilij Kandinskij, Composizione VIII, 1923, olio su tela, cm 140x201, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
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Vasilij Kandinskij, Figura fluttuante, 1942, acquerello su carta, cm 33x24,5, Vézelay, Musée Zervos
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Vasilij Kandinskij, Improvvisazione, 1913, acquerello su carta, cm 29x48, Vladivo‐ stok, Primorsk State Art Gallery
Vasilij Kandinskij, Berge, 1911, litografia a colori, cm 35x48, Berlino, Kupferstich‐ kabinett
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Vasilij Kandinskij, Studio per Composizione II, 1910, olio su tela, cm 97,5x130,5, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
Joan Miró, Il carnevale di Arlecchino, 1924-1925, olio su tela, cm 66x93, Buffalo, Al‐ bright-Knox Art Gallery
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Vasilij Kandinskij, Rosa decisivo, 1932, olio su tela, cm 80,5x100,5, New York, Solo‐ mon R. Guggenheim Museum
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Vasilij Kandinskij, Segmento blu, 1921, olio su tela, cm 120,6x140,1, New York, So‐ lomon R. Guggenheim Museum
La morte prematura evitò a Skrjabin l’esilio per via d’una rivoluzione che non ebbe sempre rapporto facile con le arti quand’erano troppo vicine ad ipotesi di fedi alternative a quel‐ la politica. Se a Prokof’ev il soviet sorride certamente non lo fa a Nikolaj Borisovič Obuchov, anche lui teosofo che si esilia e compone successivamente Il libro della vita (1926) e poi il Terzo e ultimo testamento per cinque voci, croce sonora (uno stru‐ mento postfuturista con grande forza scenica), organo, due pianoforti e orchestra (1946). E lo fa ancora meno il soviet con Pavel Aleksandrovič Florenskij, il teosofo che li influenza tutti e morirà vittima delle purghe staliniane del 1937, lui che descrive in modo icastico la musica e, perché no, la composi‐ zione di Kandinskij: “Come il rumore di una lontana risacca, così risuona all’autore l’unità ritmica della sua opera. I temi se 290
ne vanno e poi di nuovo ritornano e di nuovo ritornano; e ciò accade sempre di nuovo: essi ritornano ogni volta rafforzati e arricchiti, ogni volta si riempiono del succo di vita”. L’importanza dell’opera di Kandinskij non deriva quindi solamente dalle eleganti forme geometriche che regala alla co‐ scienza collettiva ma pure dal sedimento complesso della cul‐ tura russa dalla quale proviene e che egli porrà in dialogo con le esperienze germaniche, gli esperimenti del Bauhaus dove diventa protagonista, e le eleganze parigine del suo successivo esilio. Chiedo scusa al lettore se in queste pagine abbandono il ritmo organico del libro e la sua articolazione didattica. Anche l’editore non è del tutto d’accordo con questa mia in‐ clinazione al disordine. Ma troppo importante è l’esperienza umana e intellettuale di Kandinskij per non obbligarci a una parentesi, e troppo complessa la questione russa e quella tede‐ sca per non tentare di entrare nei meandri della coscienza che la genera.
291
Vasilij Kandinskij, Senza titolo, 1923 ca., tempera su cartone, cm 58x42, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
La teosofia e l’ossessione del Giudizio universale, curiosa anticipazione del dramma che fra poco distruggerà l’Europa della Belle Époque, appare come sentimento di fondo nelle opere di Kandinskij a Monaco. Se i francesi sono tendenzial‐ mente esteti ed esistenzialisti dinnanzi al bicchiere di assenzio 292
in quegli anni, se gli italiani sono entusiasti per la modernità che li emancipa da un passato troppo determinante, se i tede‐ schi si crogiolano fra peccato e godimento a Dresda e gli in‐ tellettuali libertari si liberano oltre misura sul Monte Verità, Kandinskij rimane russo e teosofo. E dal mondo alemanno che lo affascina e nel quale trova come primo professore a Monaco già nel 1896 Franz von Stuck, talvolta lugubre nel suo decadentismo, deve imparare molto. Vengono quasi natu‐ rali alcune considerazioni sulla formidabile mutazione lingui‐ stica che porta Kandinskij a comporre una prima serie di ri‐ cerche visive sul Giudizio universale, proprio mentre è in Germania, superando la garbata sua narrazione slava. A Dan‐ zica è conservato il Giudizio universale di Hans Memling dove Cristo risorto appare fra due cerchi colorati, le sfere. Anche van der Weyden aveva usato la stessa sfera celeste nel suo Giudizio conservato a Beaune, in Borgogna, e del quale le ri‐ produzioni erano materiale didattico. A Monaco si trovava la grande tela di Rubens nella Alte Pinakothek con il turbinio e la luce centrale. I vortici barocchi di Rubens permetterebbero addirittura di considerare barocca la prima ricerca astratta di Kandinskij, in quanto tutti questi elementi rotatori e di luce ritrovano un loro destino scosso nell’acquerello e nel futuro dipinto che Kandinskij realizza fra il 1910 e il 1913, riassu‐ mendone la potenza del movimento e la tensione teleologica, quella che corrisponde fino in fondo alla percezione russa del fato e d’un destino terminale non lontano dal pensiero politi‐ co di Kropotkin e di Dostoevskij. E qui si capisce che la ricer‐ ca poetica e formale della Pittura con la maiuscola va oltre la caducità del mondo ben più vasto dell’illustrazione.
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Hieronymus Bosch, Il Giudizio universale (frammento), 1493 ca., olio su tavola, cm 59,5x113, Monaco, Alte Pinakothek
Vasilij Kandinskij, Primo acquerello astratto, 1910, matita, acquerello e china su carta, cm 49,6x64,8, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Vasilij Kandinskij, Il Giudizio universale, 1911, acquerello su carta, cm 45x63, Col‐ lezione privata
Hans Memling, Il Giudizio universale, particolare, 1468-1472, olio su tavola, cm 221x161, Danzica, Pomorskie Museum
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Vasilij Kandinskij, Frammento 2 per Composizione VII, 1913, olio su tela, cm 115‐ x127, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
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Hieronymus Bosch, Ascesa all’Empireo, 1490 ca., olio su tavola, cm 87x40, Venezia, Palazzo Grimani
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Vasilij Kandinskij, Attorno al cerchio, 1940, tecnica mista su tela, cm 96,8x146, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
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August Macke, Omaggio a Bach, 1912, olio su tela, cm 130x97, Ludwigshafen am Rhein, Wilhelm Hack Museum
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Paul Klee
F
orse è proprio la pratica del violino e il suo naturale in‐ timismo che porta Paul Klee (1879-1940) alla dimensio‐ ne piccola in tutti i lavori della sua esistenza. Figlio d’un violi‐ nista tedesco e d’una cantante elvetica, nasce tedesco nella Confederazione Elvetica e ovviamente anche lui violinista. Poi si va a formare nel crogiolo artistico di Monaco di Baviera negli anni generosi durante i quali da quelle parti muta il gusto dal decadentismo accademico di Franz von Stuck alle sperimentazioni di quell’avanguardia mista che sarà il Blaue Reiter. E nel frattempo si sposa con Lily anche lei musicista.
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Paul Klee, Adamo e la piccola Eva, 1921, acquerello e inchiostro su carta, cm 31,4x22, New York, The Metropolitan Museum of Art
301
Paul Klee, Testa minacciosa, 1905, incisione, cm 19,5x14,5, New York, The Mu‐ seum of Modern Art
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Paul Klee, L’inizio di un sorriso, 1921, tecniche miste su cartoncino, cm 36x25, Düsseldorf, Museum Kunstpalast
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Paul Klee, Tre teste, 1909, litografia su carta, cm 12,5x15, Berlino, Kupferstichkabi‐ nett
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Ritratto fotografico di Paul Klee nei primi anni del Novecento
Affascinato dal disegno e dal segno va a cercare con August Macke la trasparenza delle arie di Tunisi dove il colore lo converte definitivamente. Partecipa con buon esito alle mo‐ stre che si organizzano in quell’area prebellica e che gli per‐ mettono d’annusare sia l’aria parigina di Delaunay sia quella berlinese dove incontra Chagall. Diventa, passo dopo passo, il cantore d’una poetica altrettanto trasparente. Anche se arruo‐ lato nell’esercito tedesco, riesce ad attraversare indenne l’in‐ ferno di fuoco e d’acciaio e a scrivere la sua Schöpferische Kon‐ fession, la confessione sulla creatività che pubblica nel 1920, come poi continuerà a pubblicare durante la sua permanenza al Bauhaus una serie di testi che consentono con gran facilità d’intuire l’assoluta autocoscienza del suo operare. Vi è poi una considerazione necessaria: quell’apparente sua semplificazione del segno corrisponde a una serie infinita di motivazioni, fra le quali l’esperienza musicale è innegabilmente trainante; ma lo è altrettanto l’afflato trasversale e non sempre dichiarato che porta molti artisti nella direzione d’un primitivismo atavi‐ co che si discosta assai da quello che Pablo Picasso va a ricer‐ care nella négritude. È come se Paul Klee, che di Sigmund Freud forse non si interessava, fosse andato comunque a inda‐ gare la coscienza della propria infanzia per ritrovare quel dato uniformante che, assopito nel subcosciente, collega l’umanità tutta.
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Paul Klee, Geni, 1922, matita, acquerello e inchiostro su carta e cartoncino, cm 24x16,4, Berna, Zentrum Paul Klee
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Paul Klee, Città infetta, 1922, penna, matita e acquerello su carta, cm 30,7x23,1, Berna, Kunstmuseum
Ed è egli, contro l’apparenza d’una prima visione superfi‐ ciale, legato comunque alla volontà di porre in questa primor‐ dialità un ordine da lui riorganizzato; a proposito cita l’altro pittore che amava suonare il violino: “Se Ingres ha posto ordi‐ ne alla quiete, io vorrei, al di là del pàthos, porre ordine al mo‐ vimento”. E se il fruitore per caso fosse distratto, questo mo‐ 307
vimento gli viene indicato dalle frecce che Klee pone nelle sue composizioni. È con questa precisa prassi che egli stupirà uno dei pensatori più acuti del secolo spezzato, il Walter Benja‐ min, il quale rimane colpito da Angelus Novus del 1920, a ri‐ prova del fatto che, per quanto l’opera pittorica sua fosse per pochi addetti fino all’esplosione della sua fama dopo la Secon‐ da guerra mondiale, la comunicazione d’un piccolo acquerello poteva generare pensieri profondi contraddicendo lo stesso pensiero di Benjamin (ma il filosofo lo aveva proprio visto in riproduzione!). In Über den Begriff der Geschichte (Tesi di filo‐ sofia della storia), il manoscritto del 1940 che lascia ad Han‐ nah Arendt prima di suicidarsi, così scrive Benjamin: “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresen‐ tato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qual‐ cosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente mace‐ rie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal Paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spal‐ le, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera”.
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Paul Klee, Separazione di sera, 1922, acquerello e matita su carta, cm 33,5x23,2, Berna, Zentrum Paul Klee
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Paul Klee, Eros, 1923, acquerello, guazzo e matita su carta, cm 33,3x24,5, Lucerna, Collection Rosengart
Paul Klee, Corridore alla meta, 1921, acquerello e matita su carta montata su carton‐ cino, cm 39,4x30,2, New York, Solomon R. Guggenheim Museum
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Paul Klee, Scena di battaglia dall’opera comico-fantastica Il navigatore, 1923, ac‐ querello, olio e guazzo su carta su acquerello e inchiostro su cartoncino, cm 34,5x50, Basilea Kunstmuseum, Kupferstichkabinett
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Paul Klee, Cacodemonic, 1916, olio su tela, cm 39x39, Berna, Zentrum Paul Klee
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Paul Klee, Ad Parnassum, 1932, olio su tela, linee e punti stampati, cm 100x126, Berna, Kunstmuseum
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Paul Klee, Senecio, 1922, olio su cartone, cm 40,5x38, Berna, Kunstmuseum
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Paul Klee, Angelus Novus, 1920, china, gessetto colorato e guazzo su carta, cm 32x24, Gerusalemme, The Israel Museum
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Natalja Gončarova, Bozzetto di un costume per il balletto Liturgia, 1915, acquerello su carta, cm 32,5x24,7, Mosca, Museo Teatrale Bachrušin
Paul Klee, Pesci con vermi all’amo, 1901, acquerello e inchiostro, cm 15,2x21,7, Col‐
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lezione privata
Come doveva essere diverso Klee da come lo vedeva il suo compagno d’avventura e di viaggio August Macke e da come si vedeva egli medesimo. È egli in costante ricerca d’un equili‐ brio fra ansia e redenzione, fra tensione e direzione. Ecco il motivo delle sue frecce! Ecco pure il motivo del titolo d’un suo splendido acquerello del 1916 Cacodemonic. Ridurre Paul Klee alla sua formidabile stagione didattica nel Bauhaus è un crimine contro l’intelligenza creativa. Egli è costantemente un laboratorio mentale libero, capace di intuiti formidabili, come quando sogna le deformazioni surrealiste ben prima che il movimento parigino nasca. La sua infatti ri‐ mane costantemente una sperimentazione che gioca fra armo‐ nie e trasparenze, evocazioni e contenuti letterari. Questa sua cosmogonia nasce con una materia, sia pittorica ad olio sia ac‐ querellata, intimamente cristallina.
Paul Klee, Giardino degli uccelli, 1924, tecnica mista su carta, cm 48x76, Monaco, Pinakothek der Moderne
Piccola nota autobiografica: ho sempre avuto per Paul Klee 317
una simpatia totale. Ho avuto la fortuna di possedere alcune delle sue opere, da un primo piccolo olio tunisino del 1914 ad alcuni acquarelli e disegni. Ciò mi portò, come si addice a ogni mercante attento, alla certificazione di autenticità, la quale nel caso suo è la più semplice del mondo. Da uomo in‐ credibilmente ordinato, quale era lui e certamente non il vo‐ stro autore, egli poneva a ogni opera che realizzava una atten‐ zione totale. Il sem-plice disegnetto tratteggiato su una carta apparentemente anonima veniva con attenzione incollato su cartoncino. Poi veniva intitolato, datato e numerato con una sigla che egli riportava in un taccuino. Il taccuino è tuttora conservato presso la sua fondazione e funziona un poco come il Liber veritatis che Claude Lorrain aveva redatto nel XVII secolo per documentare tutta la sua opera. In questo senso Klee e Lorrain sono l’opposto esatto di de Chirico, il quale re‐ plicava le sue opere talvolta per inganno, talvolta per senso fi‐ losofico, generando una confusione tuttora difficilmente risol‐ vibile. L’attenzione che Klee porta al proprio lavoro, una volta eseguito, è parte del lavoro stesso. Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte, poi reso pe‐ sante, prezioso e forte dal fuoco di sera pervaso da Dio e cur‐ vato, infine etereo avvolto di blu si libra su campi innevati verso cieli stellati.
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Paul Klee, Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte…, 1918, acquerello, inchio‐ stro e matita su carta, con inserto di carta argentata, su cartoncino, cm 22,6x15,8, Berna, Kunstmuseum
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Paul Klee, Apparecchi per il trattamento magnetico delle piante, 1921, penna e inchio‐ stro su carta, cm 22,2x28,2, Collezione privata
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Pablo Picasso, Testa di donna, 1929-1930, tecniche miste, ferro, cm 100x37x59, Pa‐ rigi, Musée National Picasso
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Alighiero Boetti, Peshaixar, 1988, tessuto ricamato, cm 108,5x108, Kassel, Neue Galerie
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Paul Klee, Sogno forte, 1929, guazzo, acquerello su carta, cm 26x21, Collezione pri‐ vata
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Paul Klee, Commedia, 1921, acquerello e olio su carta, cm 30,5x45,4, Londra, Tate Gallery
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Joan Miró, L’oro dal cielo blu, 1967, acrilico su tela, cm 205x173, Barcellona, Funda‐ ció Joan Miró
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Giorgio de Chirico
L
’immagine di de Chirico è ancora non definita. Per molti è l’artista che ha il più grande numero di falsi al mondo, per altri è quello che ha fatto i propri falsi; per altri ancora, e parlo dei grandi critici internazionali, è un artista molto importante per un certo periodo e meno importante dopo: gli americani pensavano che fosse morto nel 1919, mentre invece è morto nel 1978! Anche questo contribuisce a fare di lui un personaggio curiosissimo. Vorrei ricordare il mio primo incontro con lui. Avevo allora circa ventisei anni e avevo deciso di aprire una galleria a Mila‐ no, in via Monte Napoleone. Un giorno un signore venne da me per propormi l’acquisto di due cassapanche, decorate sul fronte e sul coperchio con quattro piazze d’Italia. All’interno avevano i timbri del Sindacato fascista degli artisti: sembrava‐ no autentiche. Mi venne chiesta una garanzia di quaranta mi‐ lioni di lire, una somma all’epoca considerevole. Non sicuro dell’affare, decisi di incontrare de Chirico per una conferma e scesi in auto fino a Roma, dove viveva all’ultimo piano di un palazzo che si affacciava su Trinità dei Monti. Comparve da uno studio dal sapore orientale, pieno di tavolini dorati. La televisione era accesa, ma senza audio. Entrò nella stanza, guardò le cassapanche e disse: Je ne me les rappelle pas, poi tornò a sedersi davanti alla televisione nello studio. Le due cassapanche erano false.
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Giorgio de Chirico, Centauro morente, 1909, olio su tela, cm 117x73, Collezione privata
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Giorgio de Chirico, Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire, 1914, olio su tela, cm 81x65, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Giorgio de Chirico, La ricompensa dell’Indovino, 1913, olio su tela, cm 135,6x180, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Tutto ciò che vediamo nei quadri di de Chirico appartiene ai dettagli della sua vita quotidiana, alla sua infanzia intima, alla sua storia greca. Ha trascorso i primi anni in una Grecia che immaginiamo in modo particolare noi oggi, ma che è una creazione germanica. Qui le grandi industrie tedesche hanno riversato i loro prodotti, in particolare le vernici. Per questo le facciate delle case greche, a partire dagli anni settanta e ottan‐ ta dell’Ottocento, diventano bianche e i portali colorati. Que‐ sti colori sono quelli che lui raffigura. De Chirico porta avanti una sua controrivoluzione che mescola i cromatismi folli e le immagini della sua storia, le radici classiche.
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Giorgio de Chirico, Le Muse inquietanti, 1916, olio su tela, cm 97x66, Collezione privata
Non fu affatto facile per lui tornare a Parigi nel 1924 a dire che voleva fare una pittura nuova rispetto a quella metafisica che lo aveva reso famoso fra il 1912 e il 1914, e che allegra‐ mente per tutta la vita avrebbe replicato, in alcuni casi con poetica ironia, in molti altri con autentico cinismo. E invece, 330
negli anni compresi tra le due guerre, portò avanti una perso‐ nalissima citazione neoclassica in cui mise i contenuti della sua Grecia, facendo convivere le statue antiche con le imma‐ gini pop. Lì pose le radici di quella che diventerà poi la cultu‐ ra postbellica. Giorgio era stato nei primi anni del Novecento, quando la Belle Époque e l’Impressionismo stavano per sciogliersi nel‐ l’insorgere dei cubismi e dei futurismi, un innovatore fuori pista, l’artista che trapiantava in un ambiente puramente dedi‐ cato al bello lo spirito dell’ansia metafisica che aveva trovato nelle letture di Friedrich Nietzsche e nella pittura dei simboli‐ sti tedeschi. Ed era diventato immediatamente un punto di riferimento alternativo agli alternativi, amico del grande poeta iperalternativo Guillaume Apollinaire, il quale come lui van‐ tava una genetica complessa: de Chirico italiano con l’accento greco di chi si era formato ad Atene essendovi nato, cresciuto a Monaco di Baviera dove era emigrato con la famiglia dopo la morte del padre, ingegnere ferroviario; Apollinaire mezzo polacco e mezzo italiano. I due posero una delle fondamenta della cultura alternativa per la Francia e per il mondo. Poi de Chirico se ne tornò in Italia per via della guerra e Apollinaire la guerra la fece invece con la nuova patria francese, rimanen‐ do prima ferito in trincea e poi morendo, come altri milioni di sfortunati, di febbre spagnola nel 1918. Dopo la guerra l’a‐ vanguardia che nasceva dalle provocazioni dadaistiche vantava loro due, il defunto e l’emigrato, come antenati spirituali. E Giorgio de Chirico decise di tornare a Parigi. Il ritorno del‐ l’antenato è quasi sempre intollerabile; non fu però privo di successo quel suo secondo periodo parigino.
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Giorgio de Chirico, La torre rossa, 1913, olio su tela, cm 74x100, Venezia, Peggy Guggenheim Collection
In quegli anni suo fratello Andrea, che era stato raffinato musicista nell’ambito delle avanguardie pianistiche e già ec‐ cellente scrittore, si cambiò il nome in Alberto Savinio e si mise anche lui a dipingere. I due allora cominciarono a render pubblico il rapporto strettissimo che sin dall’infanzia li legava e che aveva giocato un ruolo fondativo nel loro modo di pen‐ sare, di vedere, di scrivere e di dipingere. Si definirono i nuovi Dioscuri, dal nome mitico di Castore e Polluce. E se ne tor‐ narono a mietere successi in Italia. Nel frattempo era morta la famosa “baronne”, la mamma baronessa che spesso li aveva seguiti in spostamenti costanti, anzi che era stata la fautrice dell’abbandono della Grecia. De Chirico cambiò moglie, pas‐ sando dall’archeologa Raissa Calza alla bizzarra polacca, forse ballerina, Isabella Far. Alberto Savinio divenne padre di fami‐ glia con una moglie stabile e due figli, Ruggero e Angelica. Eredità, mogli, successi diversi, l’uno ricco ormai, l’altro con‐ dannato alla vita frugale dell’intellettuale, una discussione a 332
proposito dei tappeti che la “baronne” arrotolava e srotolava e che andavano ora divisi. Fatto sta che il rapporto fra i Dioscu‐ ri si sfilacciò e si spense.
Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, 1917, olio su tela, cm 90x60, Collezione privata
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Giorgio de Chirico, Bagni misteriosi, 1935, olio su tela, cm 38x46,3, Collezione pri‐ vata
La pittura tarda di de Chirico ci risulta oggi particolarmen‐ te interessante perché si snoda lungo due realtà parallele: i falsi che lui faceva per ingannare chi li comprava e i quadri “veri”, l’evoluzione costante della sua ricerca che passa attra‐ verso i Bagni misteriosi e ricompare negli anni Sessanta, ispi‐ rata da una cartella grafica che si chiamava Calligrammes e ri‐ prendeva un lavoro di Apollinaire degli anni Trenta. Fu anco‐ ra un’invenzione formidabile. La creatività dechirichiana con‐ tinua con un lavoro e un gioco di ricerca perenne. Ma allora perché tutti questi quadri falsi? Un po’ per carat‐ tere levantino, un po’ perché, a partire dagli anni Trenta, si parlava di lui solo per opere diverse da quelle che al momento faceva. Ma anche per un fatto banalmente tecnico: nel 19381939 la galleria Milione a Milano decise di fargli un catalogo. I quadri venivano allora riprodotti in bianco e nero e le stam‐ 334
pe erano colorate in tipografia seguendo il quadro originale. Ma lui i quadri non li aveva più e così risolse la faccenda con la soluzione più naturale: li rifece. E si accorse che rifacendoli piacevano come quelli di prima.
Giorgio de Chirico, Le cabine dei Bagni misteriosi, 1964, olio su tela, cm 59x49, Col‐ lezione privata
Da quella sua prima serie di riproduzioni del 1939 ne fece altre che avevano come scopo anche quello di contraddire il 335
mercato parigino che vendeva i suoi quadri a prezzi altissimi. Lui li datava e li faceva con un senso di inganno vero e pro‐ prio: da qui si aprì la strada a una pletora di falsari. Da metà dagli anni Settanta a metà degli Ottanta si sviluppò il caso dei falsi de Chirico. A volte lui approvava addirittura quadri falsi per un gusto dissacratorio. Questo permette di intendere un po’ meglio la sua pittura, una costante sperimentazione personale vista attraverso il fil‐ tro di alcuni elementi fra loro a volte distonici. Una piazza con un gruppo di carciofi, una linea con un treno che ricorda i viaggi dell’infanzia, il babbo costruttore, gli spostamenti, l’ab‐ bandono. Ricordano il giovanotto non ancora ventenne che arriva nella Monaco del 1906, uno dei luoghi più pulsanti della sto‐ ria occidentale, e in cui scopre citazioni letterarie e pittoriche totalmente inattese. Qui per la prima volta il greco antico in‐ contra la ciminiera industriale. Sembra provocatorio dirlo, ma lui e il fratello scoprono i templi greci in Baviera. E sono pro‐ prio queste forme che andranno a invadere il loro immagina‐ rio e la loro opera pittorica per tutta la vita. Scoprono anche la letteratura e la filosofia germanica che in quegli anni teneva in grande considerazione il mito greco. A Monaco de Chirico frequenta la Neue Pinakothek, il museo d’arte moderna voluto da Lodovico I nel 1849. Si inte‐ resserà in particolare a due artisti in quel tempo fuori moda: Arnold Böcklin e Max Klinger. I centauri e la melanconia di Böcklin saranno la sua prima fonte di ispirazione. Le ombre e i personaggi che scivolano di Klinger lo accompagneranno durante tutta la sua opera di figurazione. La basilica di Sant’Ambrogio di Giovanni Migliara del 1822 è identico nel suo equilibrio prospettico alla Piazza d’Italia del 1938. L’impostazione trapezioidale del vialetto di Miglia‐ 336
ra diventa l’impostazione della vasca di de Chirico. Nella copia che Ahlborn fa di un dipinto di Schinkel nel 1830 vi è la campionatura più ricca possibile di elementi dechirichiani. Nascosto in un paesaggio romantico delirante il tempio ro‐ tondo che appare nell’Enigma del 1911, in alto a destra la torre dell’altro dipinto enigmatico del 1913, gli archi scuri della Nemica del poeta del 1914 sempre simmetrici e invertiti rispetto a quelli definitivi e in basso a filo d’acqua il tempio che comparirà in ben due dipinti del 1927, ogni volta in una stanza.
Giorgio de Chirico, I dioscuri, 1934, olio su tela, cm 78x100, Collezione privata
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Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia, 1938, olio su tela, cm 53x70, Collezione privata
Giovanni Migliara, La basilica di Sant’Ambrogio a Milano, 1822, olio su tela, cm 47,2x61,7, Monaco, Neue Pinakothek
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Giorgio de Chirico, L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio, 1911-1912, olio su tela, cm 70x86,5, Collezione privata
Arnold Böcklin, L’isola dei morti III, 1883, olio su tela, cm 147x325, Berlino, Natio‐ nalgalerie
E in un pacifico dipinto di Karl Blechen compaiono le squadre che ossessioneranno de Chirico nel suo periodo ferra‐ rese. I cannoni di Géricault compariranno nella Sorpresa del 1913, sempre ovviamente speculari. 339
De Chirico non ha mai detto la verità. Anche quando de‐ scrive la prima Piazza d’Italia mente, perché tutte le piazze non sono viste da una panchina ma come da un primo piano, da una telecamera cinematografica che riprende dall’alto. In questo senso sono identiche alle visioni dell’Espressionismo germanico dei primi vent’anni del XIX secolo e identiche anche ai film di Ejzenštejn. Quella telecamera non era sulla panchina di piazza Santa Croce a Firenze. L’edificio stesso, lo spostamento dell’ora, la convivenza dell’edificio storico con quello moderno neoclassico… tutto ciò proviene da un’altra parte. Ma com’erano nate le Piazze d’Italia viste dal primo piano? Io l’ho scoperto per caso, a Monaco ovviamente, in una birre‐ ria accanto al teatro. Basta affacciarsi alla finestra del primo piano ed ecco apparire il prototipo delle Piazze d’Italia con l’edificio lungo di citazione fiorentina ad archi, la statua con l’ultimo re di Baviera e dietro l’Opera… esattamente come la Piazza d’Italia. Erano le potentissime immagini dell’infanzia di de Chirico. Per de Chirico l’artista era un vaticinatore, colui che ac‐ compagna le persone per capire le cose che altrimenti non ca‐ pirebbero. Lo spirito stesso della metafisica. I suoi quadri de‐ terminano meccanismi di pensiero che stanno da qualche parte accanto al fegato, lì dove i presocratici sostenevano si trovasse l’anima.
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Pablo Picasso
I
l nonno della mamma di Picasso era di Genova. Lui in realtà si chiamava Pablo Ruiz ed era figlio di un modesto pittore di Malaga. Decise di cambiare cognome per quello della mamma perché gli piaceva il suono della doppia esse, non consueto nella lingua spagnola. Siccome nomen omen, cioè il nome è un auspicio, anche Picasso esprime un deside‐ rio, che noi interpretiamo in modo impertinente: abbandonò la parte cupa del carattere spagnolo e del suo periodo blu per scoprire il Mediterraneo solare della Liguria e della Costa Az‐ zurra. E appena potrà, durante tutta la sua vita, andrà a risie‐ dere a metà strada, più o meno fra il luogo del padre e quello del cognome materno: nei dintorni di Nizza, zona che più di ogni altra dà energia alla sua vita, passata in gran parte a torso nudo in Provenza. Picasso sarà il maggior propagandista dello spirito del Me‐ diterraneo del XX secolo: mai espressionista cupo come i mi‐ gliori tedeschi, mai astrattista glaciale come Mondrian. E sarà pure portatore sano del germe mediterraneo dell’ironia e della sua anima neoclassica.
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El Greco, San Francesco in meditazione, 1590-1595, olio su tela, cm 98x67, VitoriaGasteiz, Museo Diocesano
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Pablo Picasso, La signora ubriaca è stanca, 1902, olio su tela, cm 56x44, Collezione privata
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Gustave Moreau, I liocorni, 1888 ca., olio su tela, cm 115x90, Parigi, Musée Moreau
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Pablo Picasso, Bagnanti a Biarritz, 1918, olio su tela, cm 89x67, Parigi, Musée Na‐ tional Picasso
Lui, il più immigrato degli immigrati, aveva scelto come punto di partenza il pittore più serio e più borghese di Fran‐ cia, Paul Cézanne. Da straniero ha cercato di diventare ciò che la borghesia seria francese stava sperimentando in quel momento, e l’incrocio fra questa voglia di essere e quello che in realtà si è ha generato un’esplosione. Da quel momento in poi, i quadri non hanno più avuto bisogno di una definizione: si è definitivamente entrati nella magica realtà della rivoluzio‐ ne plastica carica di significato e priva di contenuto. Il Doganiere Rousseau gli diceva: “Siamo noi due i più 345
grandi pittori del mondo, io nello stile moderno e lei in quello egizio”. E aveva ragione, perché Picasso è tutto egizio, poten‐ te, grafico, carico di vita, anche se spesso non riesco a capire che cosa dica. Debbo confessare che di lui poco mi importa, ma mi piace moltissimo, è il massimo lusso possibile per l’oc‐ chio. Ha il segno graffiante della miglior grafica che possa esistere, assieme alla passione per la materia: sempre, anche quando la dimensione è parallela con la terza dimensione della scultura.
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Odilon Redon, Il carro d’Apollo, particolare, 1905-1914, pastello e tempera su tela, cm 91x77, Parigi, Musée d’Orsay
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Pablo Picasso, Evocazione (Il funerale di Casagemas), 1901, olio su tela, cm 150x90, Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris
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Pablo Picasso, Testa di donna (Fernande), 1909, bronzo, altezza cm 41, New York, The Museum of Modern Art
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Pablo Picasso, Donna con pere (Fernande), 1909, olio su tela, cm 92x73, New York, The Museum of Modern Art
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Arte Baule, Statuetta stante, XIX secolo, legno, altezza cm 81, Berlino, Ethnologi‐ sches Museum
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Pablo Picasso, Studio per Les demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, cm 81x60, Berlino, Nationalgalerie, Museum Berggruen
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Arte Betsi, Testa reliquiario, XIX secolo, legno, altezza cm 62, New York, The Me‐ tropolitan Museum of Art
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Pablo Picasso, Studio per Les demoiselles d’Avignon, 1906, acquerello su carta, cm 22x15, New York, The Museum of Modern Art
Picasso è stato definito il più grande artista del XX secolo, il padre del Cubismo, l’inventore della pittura moderna. Bam‐ bino prodigio, ha cominciato a dipingere a otto anni e ha stu‐ pito il mondo con la propria longevità creativa, producendo instancabilmente fino all’età di novantun anni. Picasso è l’uomo che ha portato in Europa l’idea dell’art nègre, di quell’arte d’Africa delle Demoiselles d’Avignon senza la quale l’arte moderna non sarebbe esistita.
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Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, cm 244x234, New York, The Museum of Modern Art
Nel 1917 poi accade un fatto apparentemente marginale che ebbe conseguenze per il cambio del gusto successivo, Pablo Picasso, non ancora comunista, dopo le Demoiselles e l’invenzione del Cubismo, uscito rallegrato dai successi di Pa‐ rade, se ne va a fare un giro a Roma e lì per la prima volta sco‐ pre che c’è ben meglio che riassumere i suoi contemporanei. Scopre il fascino della citazione dall’antico. Vede il pugile del Museo Archeologico e lascia colpire la fantasia dalla grafica incisa sugli specchi e sulla Cista Ficoroni che lo influenzeran‐ no per anni in quel suo ciclo vastissimo di incisioni che racco‐ glie Ambroise Vollard nella nota Suite e si pongono così in 355
rapporto dialettico il formalismo neoclassico riscoperto con le geometrie degli astrattismi andando a porre le basi dell’Art Déco. Nello stesso anno Mario Broglio e i suoi amici stanno po‐ nendo le basi di una rivista che appare nel 1918 con il titolo “Valori Plastici” e che segnerà la fine del percorso di rottura avanguardistica per tornare alle forme del passato, quello tal‐ volta dell’antichità maggiore, quello altre volte della grande pittura del primo Quattrocento. Nessuno può testimoniare d’un possibile incontro fra lo spagnolo e i romani, ma ciò che è certo è che ancora una volta Picasso annusa da che parte va il vento. L’Europa degli intellettuali e degli artisti mediterra‐ nei sente che sta venendo il proprio turno. Lo stesso de Chiri‐ co sta dipingendo i suoi ultimi dipinti strettamente metafisici e inizia a guardare alla Roma eterna. Sorge un bisogno tra‐ sversale in quell’anno di ritorno alla sicurezza formale come parallelo ritorno delle certezze della vita.
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Lisippo e Lisistrato, Pugile seduto, 340-335 a.C., bronzo e rame, altezza cm 128, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo
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Pablo Picasso, Nesso e Deianira, 1920, matita su carta, cm 20,9x26, New York, The Museum of Modern Art
Pablo Picasso, Il riposo del Minotauro, 1933-1939, acquaforte, cm 34x44, New York, The Museum of Modern Art
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Cista Ficoroni, particolare, IV secolo a.C., bronzo, Roma, Museo Nazionale Etru‐ sco di Villa Giulia
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Cista Ficoroni, IV secolo a.C., bronzo, altezza cm 58, Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
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Pablo Picasso, Tre donne alla fonte, 1921, olio su tela, cm 204x174, New York, The Museum of Modern Art
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Giorgio de Chirico, Lo spirito della Dominazione, 1927, olio su tela, cm 136x273, Collezione privata
Pablo Picasso, La sorgente, 1921, olio su tela, cm 76x125, Londra, Tate Modern
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Marc Chagall, Compleanno, 1915, olio su tela, cm 80x99, New York, The Museum of Modern Art
A differenza di altri artisti, a Picasso il successo ha sorriso quasi subito: ha avuto un periodo infantile difficile, geniale, poi un periodo parigino in cui ha stretto la cinghia a lungo e a partire dal 1906 ha trovato il primo mercante, Ambroise Vol‐ lard, che gli ha dato duemila franchi di allora per tutto lo stu‐ dio. In seguito è arrivato il secondo mercante, Daniel-Henry Kahnweiler, e ancora i grandi collezionisti americani. Nel 1919 Picasso era già un uomo ricco e aveva una passio‐ ne per l’ostentazione della ricchezza. Trentamila opere a un valore medio di mezzo milione di euro l’una sono una somma difficile persino da immaginare, un patrimonio incredibile. E lui, che amava visceralmente le donne in un secolo in cui fra gli artisti non c’erano molti eterosessuali, se l’è goduta fino in fondo. Ha avuto donne complicate, certo, ma che si sono ri‐ velate una fonte di ispirazione perenne: i quadri che ne risul‐ 363
tano sono forse i più vitali che ha fatto. Più che gli intellettua‐ li, frequentava gli scrittori e i poeti tipo Paul Éluard o Louis Aragon, quei personaggi straordinari della Parigi degli anni Venti e Trenta, spesso molto impegnati politicamente. Picas‐ so era realmente, concettualmente un rosso. Forse il comuni‐ sta più ricco del mondo.
Pablo Picasso, La lettura, 1932, olio su tela, cm 130x97, Parigi, Musée National Pi‐
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casso
Pablo Picasso, Bagnante seduta, 1930, olio su tela, cm 163x129, New York, The Museum of Modern Art
Di una cosa sono sicuro: quando fra cinque secoli si tenterà di trovare l’opera che rappresenta il XX secolo come la Cap‐ pella Sistina rappresenta il secolo del Rinascimento, quest’o‐ pera sarà Guernica, che rappresenta fino in fondo il secolo della catastrofe, delle guerre e delle distruzioni. Guernica, il 365
dipinto realizzato nel 1937 in un mese e mezzo di lavoro dopo che le forze naziste su richiesta di Franco avevano bom‐ bardato e distrutto un piccolo villaggio in Spagna. Si narra che, dopo la presentazione pubblica dell’opera, l’ambasciatore nazista a Parigi andò a trovare Picasso nel suo studio, perché l’artista non aveva nessuna intenzione di andarsene dalla Francia (e non avrebbe saputo d’altronde dove andare, perché in Spagna sicuramente non sarebbe tornato e in America non amava andare). Ebbene il diplomatico Otto Abetz, che aveva capito alla perfezione il valore del gesto di Picasso, lo trovò nel suo studio in cui campeggiava anche una grande riprodu‐ zione di Guernica. Guardandola con un certo sdegno gli disse: “Ah, eccolo qua, è lei che ha fatto questo?”. E Picasso rispose: “No, siete voi che avete fatto questo”.
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Pablo Picasso, Il sogno, 1932, olio su tela, cm 130x97, Collezione privata
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Pablo Picasso, Ritratto di Dora Maar, 1937, olio su tela, cm 92x65, Parigi, Musée National Picasso
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David Douglas Duncan, Picasso nel suo studio a Cannes, 1957, Barcellona, Museu Picasso
Pablo Picasso, Guernica, 1937, olio su tela, cm 350x782, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reína Sofía
Un artista dal talento totale e dal gesto innato e naturale. Uno spirito ludico e infantile in un corpo che non sembrava mai invecchiare: ha fumato Gauloises per settantatré anni ma non ha mai perso l’accento spagnolo. Picasso è morto nel 1973, appena in tempo per non dover vedere l’arrivo del fax, del telefonino e di internet. E oggi non c’è più un posto fisico per l’avanguardia.
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A PASSO DI DANZA
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Edgar Degas, La classe di danza, particolare 1873-1876, olio su tela, cm 85x75, Pa‐ rigi, Musée d’Orsay
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DAL TACCO ALLA PUNTA E RITORNO
L
e arti visive sono molto più vaste e complesse di quan‐ to non si pensi: non sono solo i quadri, bensì tutto ciò che tocca il nostro occhio. Il mondo delle arti è carico di si‐ gnificati semantici intrecciati: lo si vede bene, per esempio, nella danza, che possiamo prendere come esempio per un’in‐ dagine poco ortodossa su un tema del Novecento che nasce in seno alla Belle Époque: la joie de vivre. La prima riflessione che va fatta è relativa al rapporto fra tacco e punta: normalmente si cammina sulla punta dei piedi, il tacco lo si usa pochissimo. Ma pestare il tallone fa crescere di statura e aumentare il ritorno venoso e genera, inoltre, una sorta di euforia. È una curiosa particolarità che ben conosco‐ no i cavalli i quali non danzano sul tacco, ma addirittura sulla punta dell’unghia, la quale contiene una parte morbida che serve da pompa per accelerare la circolazione sanguigna. La stessa pompa gli esseri umani, ormai abituati alla posizione eretta, ce l’hanno nel tacco. Pompar sangue nel tacco porta a una ebbrezza analoga a quella dei cavalli quando corrono. Si è più pompati. Questa faccenda del tallone pestato che eccita l’hanno capita bene anche i soldati, che infatti hanno inventa‐ to il passo dell’oca. La danza sulle punte esalta la muscolatura dei glutei, il che piaceva enormemente a quegli sporcaccioni di uomini in tuba che rincorrevano le ballerine dopo lo spettacolo nei quadri di 373
Degas; un erotismo crudele e voyeuristico raccontato alla per‐ fezione anche da Henri de Toulouse-Lautrec. Piaceva meno alle fanciulle che vedevano i loro piedini insanguinarsi. La danza sulla pianta dei piedi, secondo la tradizione dello stor‐ nello romano, porta in una ben altra direzione: “daje de tacco, daje de punta, quant’è bbona la sora Assunta”. Il popolo ro‐ mano, inconsapevolmente, si ricorda la sedimentazione della propria storia antica; ha quindi in fondo alla coscienza ancora la fascinazione delle danzatrici che accompagnavano Bacco nella tradizione della sua ebbrezza. I romani avevano tradotto Bacco da Dioniso, rendendo il giovanotto che proveniva dal‐ l’Asia un simpatico ciccione etrusco. In questo stava la muta‐ zione. Ma nella sostanza la questione non era cambiata per‐ ché Dioniso nei suoi riti si portava appresso le danzatrici. E il suo era un rito iniziatico che innalzava alla divinità attraverso non il ballo ma lo sballo, da un lato quello del vino, dall’altro quello della danza sul tacco. Sono le famose menadi, a piedi nudi ovviamente. All’alba cominciano a correre verso i monti e si scatenano come furie.
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George Barbier, Shéhérazade, 1910, litografia, cm 30x22, Collezione privata
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Vittorio Zecchin, Le principesse, particolare 1914-1915, olio su tela, cm 140x254, Collezione privata
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Léon Bakst, Il pellegrino, costume per il balletto Le Dieu Bleu, 1922, guazzo e matita su carta, cm 67x49, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art
Ecco perché il vino e alcune altre curiose droghe che abbia‐ mo ormai dimenticato, ma che Omero ci ricorda come fuma‐ bili nelle parti bizzarre del Mediterraneo del Sud, si accompa‐ gnavano facilmente con la danza antica che portava gli esseri umani verso un’altra dimensione, verso la divinità, en Theos, da dove proviene la parola entusiasmo. Il ballo sul tacco gene‐ ra entusiasmo. Brava la sora Assunta! In realtà la fascinazione della danza coinvolge tutti i popoli 377
dell’antichità, dagli etruschi – o meglio, dalle etrusche seguaci di Cibele, che ballano suonando i cembali o i crotali ed esibi‐ scono un sedere muscolato tipico di quegli anni – ai greci, che corrono e danzano costantemente, si librano nell’aria: sono quelli che fanno la danza rituale del kòmos. Gesti che non esi‐ tano a essere equivoci come nella seconda versione della Danza di Henri Matisse, quel quadro epocale che andrà, cu‐ rioso destino della storia, o forse profondo intuito dell’acqui‐ rente Sergej Ščukin, a finire a Mosca, da dove verrà in seguito sequestrato nel 1917 per approdare all’Ermitage di San Pie‐ troburgo, la città dove Djagilev si formò e dove Bakst, pseu‐ donimo di Lev Schmule Rosenberg, trovò i primi successi. Il kòmos greco, i Balletti russi di Djagilev, i costumi di Bakst, La danza di Matisse: arte e immaginario continuano costante‐ mente la loro danza di contaminazione nel corso dei secoli.
Danzatrice con crotali, bronzo, altezza cm 32, Ferrara, Museo Archeologico Nazio‐ nale
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Pittore di Dokimasia, Kylix attica a figure rosse con scena di komos, particolare, V secolo a.C., terracotta, diametro cm 32, Berlino, Altes Museum, Antikensammlung
Menadi danzanti, I secolo d.C., marmo, cm 70x145, Firenze, Galleria degli Uffizi
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Antonio Canova, La danza dei figli di Alcinoo, 1790-1792, gesso, cm 141x281, Mi‐ lano, Gallerie d’Italia, Piazza della Scala
William-Adolphe Bouguereau, La giovinezza di Bacco, 1884, olio su tela, cm 331‐ x610, Collezione privata
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El Greco, Laocoonte, 1610-1614, olio su tela, cm 137x172, Washington, National Gallery of Art
Henri Matisse, La danza, 1910, olio su tela, cm 259x390, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
Il tallone rimane a terra ancora a lungo: la basse danse era 381
praticata dai re di Francia durante il Rinascimento. È solo dopo che si scopre che bisogna ballare in punta di piedi, per‐ ché si è più ordinati, meno eccitati. Il minuetto e il valzer si ballano in punta di piedi, e sono a tre tempi. I tempi binari, due o quattro, sono i tempi del tacco basso. Il Rinascimento è innegabilmente dionisiaco. La Controriforma ci porterà, con il Barocco avanzato, sulla punta dei piedi. È bravissimo Ca‐ nova a riproporre nei suoi bassorilievi, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, quel modo di danzare che generava entusiasmo fin nella corte di Joséphine Bonaparte. La questione dei piedi è fondamentale, perché si passa dai piedini di prima, che erano en dehors, come quelli delle balle‐ rine di Edgar Degas, al piede nuovo en dedans, che poggia sul tacco. Con il XX secolo e la rivoluzione delle avanguardie, si torna giù.
382
A PIEDI NUDI
L
a liberazione della donna in scena avviene in realtà nel teatro, non nella danza, grazie ad alcuni personaggi straordinari, come Sarah Bernhardt o come Eleonora Duse. O forse già Sarah Bernhardt compie i primi passi perché, dopo aver recitato, finisce al ristorante e balla la giava sui ta‐ voli.
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Jules Chéret, Folies-Bergére/La Loïe Fuller, 1893, litografia a colori, cm 100x70, Collezione privata
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Raoul-François Larche, Loïe Fuller, 1900, bronzo, altezza cm 35, Collezione privata
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Isaiah West Taber, Loïe Fuller, 1897, fotografia ai sali d’argento, cm 10x14,5, Pari‐ gi, Musée d’Orsay
Harry Ellis, Loïe Fuller, 1900 ca., fotografia ai sali d’argento, cm 10x14,5, Parigi, Musée d’Orsay
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La Sylphe, 1918, fotografia ai sali d’argento, cm 14,5x10, Collezione privata
Questo sapore di libertà attira allora, forse come oggi, alcu‐ ne americane che arrivano in Europa. Mi riferisco, in partico‐ lare, alla geniale creatività di quattro danzatrici formidabili. La prima rivoluzionaria è sicuramente Loïe Fuller. Si formò nell’ambiente equivoco fra teatro di varietà e burlesque circen‐ se, proprio il mondo che tanto piaceva a Toulouse-Lautrec e 387
ai suoi amici alternativi. E lì compì due gesti di spoliazione fondamentale: si tolse le scarpe e ciò che allora era il reggise‐ no, vale a dire quella macchina diabolica fatta da stecche di balena che rendeva la vita strettissima, la digestione difficile e il seno esplosivo.
Ruth St. Denis come Cleopatra, 1916, fotografia ai sali d’argento, cm 10x14,5, Col‐ lezione privata
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Lawrence Ira Hill, Ruth St. Denis e Ted Shawn in una danza egizia, 1917, fotogra‐ fia ai sali d’argento, cm 14,5x10, New York, New York Public Library
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Lawrence Ira Hill, Ruth St. Denis e Ted Shawn in una danza egizia, 1916, fotogra‐ fia ai sali d’argento, cm 14,5x10, New York, New York Public Library
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Lawrence Ira Hill, Ruth St. Denis in una danza egizia, 1916 ca., fotografia ai sali d’argento, cm 10x14,5, New York, New York Public Library
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Lawrence Ira Hill, Ruth St. Denis e Ted Shawn in una danza egizia, 1916, fotogra‐ fia ai sali d’argento, cm 14,5x10, New York, New York Public Library
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Ruth St. Denis come danzatrice greca, 1916-1917, fotografia ai sali d’argento, cm 14,5x10, Collezione privata
La danza fu in quegli anni il laboratorio di un’estetica nuova e di un’etica rinnovata. Come lo fu per la Fuller, che viaggiava e si esibiva profetica fra Londra e le Americhe, lo sarà quasi in contemporanea per Ruth St. Denis, nata nel New Jersey e protagonista fra New York e Los Angeles, la 393
quale avrà l’idea provocatoria di far arrivare, in ciò che oggi chiamiamo avanspettacolo con un ingiustificato disprezzo, la libertà gestuale egizia che scopre sulla pubblicità dei pacchetti di sigarette. E anche per l’americana La Sylphe, in grado di portare scompiglio tanto in Francia quanto negli Stati Uniti con la sensualità muscolare ed esotica delle sue interpretazio‐ ni. Isadora Duncan darà, infine, allo stile nuovo del togliersi le scarpette e i costumi la gloria fatale della morte assurda, quando la sua lunga sciarpa andrà ad avvolgersi nella ruota della Bugatti e la strangolerà nel 1927. Per lei, ovviamente più intellettuale, gli unici maestri potevano essere Jean-Jacques Rousseau per le sue teorie di ritorno alla libertà della natura, Walt Whitman ancora con più insistenza in quanto la natura da lui predicata era quella infinita e incontaminata di un’A‐ merica vissuta nella casetta del bosco di David Thoreau, nella quale però veniva esaltata ogni libertà sessuale, esattamente come negli stessi anni veniva predicata sul Monte Verità sopra Ascona. E infine, sempre per la Duncan, Friedrich Nie‐ tzsche che aveva con acume distinto l’apollineo, il bello cano‐ nico, dal dionisiaco, il bello esistenziale, crudele e vissuto, e che avrebbe negli stessi anni, ma questo ella non lo poteva sa‐ pere, ispirato la prima Metafisica di Giorgio de Chirico, il quale, anche lui, non disdegnava affatto le muse scalze viste in Baviera.
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Antonio Canova, Danzatrice con cembali, 1809-1812, marmo, altezza cm 187, Berli‐ no, Nationalgalerie
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Isadora Duncan mentre balla, 1904, fotografia ai sali d’argento, cm 14,5x10, Colle‐ zione privata
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Léon Bakst, Costume per il balletto Cléopâtre, 1909, acquerello, matita, guazzo su carta, cm 25,5x18, Collezione privata
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Isadora Duncan mentre balla, fotografia ai sali d’argento, cm 14,5x12, Collezione privata
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LA RUSSIA CONQUISTA PARIGI
Q
uesta formidabile mutazione del gusto viene ripresa con straordinario acume teatrale nelle coreografie che i Ballets russes di Sergej Djagilev propongono a Parigi a partire dal 1909. Genialmente intuisce che la vecchia danza, che tanto piaceva agli uomini della Belle Époque, è definitiva‐ mente in crisi. Egli porta con sé un immaginario fiabesco russo infinito, quello abissale di Nikolaj Roerich e di Aleksan‐ dr Benois. Ma la sua mutazione stilistica avviene con il gusto parigino in mutazione, quello di Loïe Fuller e dello stilista Paul Poiret, i due liberatori della donna. E così il dialogo fra le arti che in Germania aveva portato alla nascita di “Der Sturm” e del Blaue Reiter diventa effettivo.
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Sergej Djagilev e Vaslav Nijinskij in una fotografia del 1919
I Ballets russes sono la vera macchina diabolica dell’innova‐ zione inventata da Djagilev. Perché portano a Parigi un in‐ contro di sperimentazioni, dove i ballerini russi si mescolano ai musicisti francesi e degli artisti spagnoli come Picasso, ap‐ pena giunti in città. Scrittori francesi, favole russe, muscoli d’Oriente e pensieri d’Occidente. Con Djagilev lavoreranno 400
Léon Bakst, per tutta la stagione iniziale, ma nel 1917 appro‐ da Picasso con Parade, poi Natalja Gončarova e Michail La‐ rionov (così creativi da dare sapore d’avanguardia anche al‐ l’immaginario rubato a Chagall) fino a Derain e Matisse. La congiunzione delle arti avviene e si fa gioco pubblico. Il gioco pubblico si fa moda, e i grandi illustratori della moda, da Bar‐ bier a Lepape, trovano lì la fonte d’ispirazione per migliaia di immagini che plasmeranno il gusto Art Déco.
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Pablo Picasso, Sergej Djagilev e Alfred Seligsberg, 1919, matita su carta, cm 65x50, Parigi, Musée National Picasso
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Pablo Picasso, Léon Bakst, 1919, matita su carta, cm 64x49, Parigi, Musée National Picasso
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Léon Bakst, Costume per Anna Pavlova come Farfalla, 1916-1917, acquerello e grafite su carta, cm 45x28, Boston, Museum of Fine Arts
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Léon Bakst, Costumi per due baccanti per il balletto Narcisse, 1911, acquerello, ma‐ tita, guazzo su carta, cm 45x28, Collezione privata
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Léon Bakst, Costume per Natasha Trouhanova come Peri nel balletto La Peri, 1911, acquerello, cm 45x28, Collezione privata
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Léon Bakst, Costume per Tamara Karsavina per il balletto L’uccello di fuoco, 1910, acquerello, matita, guazzo su carta, cm 45x28, Collezione privata
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Nijinskij come schiavo negro nel balletto Shéhérazade, 1910
Anno chiave della vicenda è il 1911, quando Igor Stravin‐ skij porta una nota nuova, nel vero senso della parola, con Petruška. Non si era più decadenti e simbolisti come i france‐ si. Stava nascendo un’idea nuova della musica.
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Michail Larionov, Bozzetti per scene e costumi del balletto Le buffon, in Comoedia illustré, 1921, litografia a colori, cm 42x69, Parigi, Bibliothèque nationale de France
Vaslav Nijinskij è il protagonista della storia epica di quegli anni: animalesco, vitale, chiuso, seducente. Nel 1912 trasfor‐ ma il Prélude à l’après-midi d’un faune, con musica di Claude Debussy su un testo letterario precedente di Stéphane Mallar‐ mé, in una formidabile esibizione vitale ed erotica nella quale il fauno copula con la terra. La grande Ida Rubinštejn s’era, forse per questo motivo, rifiutata di danzare. Il giovane Jean Cocteau, ch’era in sala entusiasta nel senso più greco del ter‐ mine e con le medesime inclinazioni sessuali altrettanto gre‐ che del protagonista, chiese di incontrarlo. Aveva lo scrittore esordiente appena pubblicato un piccolo testo su Marcel Proust che era passato assai inosservato. Cocteau, ch’era nato banlieusard a Maisons-Laffitte, chiese, incontrando in quel‐ l’occasione Djagilev, che cosa avrebbe dovuto fare per diven‐ tare realmente famoso. L’impresario gli rispose con la frase che fonda allora il pensiero nuovo sulla modernità contempo‐ ranea: Monsieur, étonnez-moi! Qui sta tutto il segreto del se‐ colo brevissimo. L’arte deve étonner, sorprendere cioè come il 409
tuono. Il che serve anche a capire la fine di questo ciclo arti‐ stico, quando l’arte si metterà a épater, cioè solo a stupire, il che notoriamente rischia di rendere stupidi. Per i francesi non v’è dubbio che si possa solo épater le bourgeois, laddove il ter‐ mine bourgeois ha tutta l’accezione negativa che gli daranno Jean-Paul Sartre, Georges Brassens e Jacques Brel. E tutto il secolo breve sarà all’insegna dell’étonnement fino alla catastro‐ fe finale.
George Barbier, Nijinskij come fauno nel balletto L’après-midi d’un faune, 1912, li‐ tografia a colori, cm 35x28, Londra, The British Library
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Nijinskij nel balletto L’après-midi d’un faune, 1916 ca., fotografia ai sali d’argento, cm 15x13, Parigi, Musée d’Orsay
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Léon Bakst, Costume per Vaslav Nijinskij come fauno in L’après-midi d’un faune, 1912, acquerello e grafite su carta, cm 38x22, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art
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Jacques-Émile Blanche, Vaslav Nijinskij nel balletto Les Orientales, 1910, olio su tela, cm 219,7x120, Collezione privata
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George Barbier, Vaslav Nijinskij nel balletto L’oiseau d’or, 1912, acquerello su carta, cm 29x21, Collezione privata
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Léon Bakst, Costume per Vaslav Nijinskij come danzatore siamese in Les Orientales, 1917, acquerello e grafite su carta, cm 45,7x64,5, San Antonio, McNay Art Mu‐ seum
Nijinskij come danzatore siamese nel balletto Les Orientales, 1910
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Léon Bakst, Costume per un diavolo per il balletto Narcisse, 1911, litografia a colori, cm 24x19, Collezione privata
In realtà negli anni Dieci del XX secolo si forma una koinè d’epoca che se ne infischia del dramma che sta per scatenarsi e usa quegli anni come crogiolo per mescolare le carte dell’este‐ tica e della musica. Parade, Parigi 1917: le musiche sono di Erik Satie, l’idea è di Cocteau, le scene e i costumi di Pablo Picasso. Ci si diverte da matti nel 1917 a Parigi, mentre i compagni stanno morendo in fondo alle trincee della Marna e Céline sta scrivendo le prime righe di Viaggio al termine della notte. E Parigi continua nella sua allegria leggermente irre‐ 416
sponsabile anche nel primo dopoguerra. Si balla fino alla fine, fino all’esempio fenomenale di Giorgio de Chirico in Le Bal, 1929. Domani tutto cambia: inizierà la crisi di Wall Street; l’Occidente cade nella disperazione vera, quella economica.
Pablo Picasso, Costume da cinese per il balletto Parade, 1917, litografia a colori, cm 28x20, Collezione privata
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Pablo Picasso, Progetto per un costume da acrobata, 1916-1917, acquerello, matita di piombo, cm 28x20,5, Parigi, Musée National Picasso
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Pablo Picasso, Costume per il balletto Parade, ricostruzione, 1917, tecniche miste, altezza cm 199, New York, The Museum of Modern Art
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Pablo Picasso, Sipario per il balletto Parade, 1917, pittura a colla su tela, cm 1060‐ x1724, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
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Pablo Picasso, Studio per la scenografia del balletto Parade, 1917, matita di piombo, cm 27,5x22,5, Parigi, Musée National Picasso
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Allestimento del balletto Le bal con scene e costumi di Giorgio de Chirico, Roma, Teatro dell’Opera
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Giorgio de Chirico, Copertina del programma di sala dei Ballets russes, 1929, lito‐ grafia a colori, cm 20x14, Collezione privata
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Giorgio de Chirico, Costume per il balletto Le bal, 1929, tessuti e panno, altezza cm 156, Collezione privata
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DANZA E AVANGUARDIE
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n realtà ogni tipo di avanguardia riesce a trovare un pro‐ prio spazio di colloquio con il mondo del ballo. Tra gli ar‐ tisti di avanguardia, forse, il più particolare di tutti sarà Fer‐ nand Léger. In quegli anni, infatti, arriva a Parigi una nuova compagnia, quella dei Balletti svedesi, e Léger, chiamato a la‐ vorarci, ci mette dentro il suo modo di vedere, quello cubistatubista. Musica di Darius Milhaud, personaggi curiosamente africani, 1923.
Fernand Léger, Bozzetto per la scenografia del balletto La création du monde, 1922, matita su carta, cm 21x27, New York, The Museum of Modern Art
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Fernand Léger, Maquette per il balletto La création du monde, 1922, Biot, Museé Fernand Léger
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Fernand Léger, Bozzetto per un costume per il balletto La création du monde, 1922, acquerello e grafite su carta, cm 36x25, Collezione privata
E in Italia, nel frattempo, cosa succede? Per i futuristi il balletto diventa un tentativo per ricostruire, da futuristi, l’uni‐ verso intero. Non ci sarà più bisogno della presenza umana: la musica si deve accordare con lo spazio e con i colori. I futuri‐ sti, in realtà, sono autentici megalomani. In Francia il gioco 427
serve a essere allegri, per gli italiani diventa un impegno poli‐ tico: reinventare il mondo intero. E ci riesce alla perfezione Fortunato Depero, il suo mondo è totale, topolini compresi. Una cosa sembra curiosa ma accertabile: la danza liberatrice di energie, capace di mescolare in un’opera d’arte complessiva i vari linguaggi, ha il suo momento di massimo sfogo nei paesi che stanno correndo verso il totalitarismo: l’Italia, la Germania, la Russia.
Fortunato Depero, I miei balli plastici, 1918, olio su tela, cm 158x175, Collezione privata
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Giacomo Balla, Feu d’artifice, 1917-1997, tecnica mista, luce e sonoro, misure am‐ bientali, Rivoli, Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea
Giacomo Balla, Bozzetto di scena plastica per Feu d’artifice, 1915, olio su carta, cm
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16x19, Milano, Museo Teatrale alla Scala
Per L’usignolo (1914) di Stravinskij, il giovane Oskar Schlemmer impara quasi tutto dai suprematisti russi alla Lis‐ sitzky e mette in piedi una scena incredibile. Mescola avan‐ guardia russa e avanguardia tedesca e trasforma le serie ricer‐ che dei suprematisti in un trono per l’imperatore di Cina. Schlemmer evolve rapidamente verso una fantasia totale che porta nel Bauhaus una sua visione del mondo, un suo gioco polimorfo in ogni direzione, ma con una grande attenzione al gesto del balletto. Attenzione: non senza una certa ansia pre‐ monitrice, perché indovina già il manganello che sta per col‐ pirlo. La magia si trasforma in una piattitudine totale. È in Russia che la questione si complica in modo particola‐ re, perché dalla Russia era venuta l’innovazione, in Russia av‐ verrà l’evoluzione di questa innovazione per sposare le cause della Rivoluzione. E in Russia ci sarà la morte dell’Avanguar‐ dia. Nel 1930 Majakovskij si suicida. Quattro anni dopo, esplode il Realismo socialista. E poi, esattamente come Arshile Gorky, André Breton e George Balanchine finiscono a New York, anche la grande innovazione della danza diventa di casa in America, perfetta‐ mente sintetizzata dalla danza moderna espressa da Martha Graham.
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UNA NUOVA FEMMINILI‐ TÀ
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urono quindi le stelle del balletto a fare i primi, piccoli passi verso un tentativo di liberazione femminile. Anni dopo la loro eredità fu raccolta da un uomo: Paul Poiret, o del chic totale, grande sarto innovativo parigino che tolse ogni costrizione ai busti delle signore e inventò l’abito che cascava con leggerezza ed eleganza, come ben testimoniano i dipinti di van Dongen e le illustrazioni di Lepape e Barbier. Poiret compie un gesto sostanzialmente neoclassico, riportando le belle nell’ambiente liberatorio del Direttorio, quando una ge‐ nerazione di nuove protagoniste s’affacciavano alla storia libe‐ randosi dagli orpelli costrittivi dell’Ancien Régime, anche quel‐ li del vestire, ovviamente. Ed è questa donna rinnovata che celebrano i migliori illustratori assieme al grande espressioni‐ sta parallelo e alternativo all’espressionismo tedesco, Kees van Dongen. E, naturalmente, le fotografie, che ritraggono attrici dell’epoca oppure seducenti signore: quella che avete visto qualche pagina fa è niente meno che la moglie dello stesso Poiret, che per l’occasione sfoggia tanto gli abiti del marito quanto un’appena acquistata scultura di Brancusi. Questo la dice lunga sulla commistione delle arti, tanto più che l’illustre stilista fu anche collezionista eccellente dei dipinti metafisici di de Chirico.
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Paul Poiret in una fotografia del 1924
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Madame Poiret con la scultura Majastra di Constantin Brancusi, 1919
Alexander Bassano, Daisy Irving indossa un abito di Paul Poiret, 1911
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Georges Lepape, Copertina di “Les Modes” con abiti di Paul Poiret, 1912, litogra‐ fia a colori, cm 43x28, Collezione privata
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George Barbier, Illustrazione per “La Parisienne”, 1922, litografia a colori, cm 40x26, Londra, The British Library
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François Pascal Simon Gérard, Ritratto di Juliette Récamier, 1805, olio su tela, cm 222,5x148, Parigi, Musée Carnavalet
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Georges Lepape, “Les choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape”, 1911, lito‐ grafia a colori, cm 32x57, Collezione privata
Georges Lepape, “Les choses de Paul Poiret vues par Georges Lepape”, 1911, lito‐ grafia a colori, cm 41x27, Collezione privata
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Kees van Dongen, La sfinge, o La signora con i crisantemi, 1925, olio su tela, cm 146‐ x113, Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris
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Kees van Dongen, Divertimento, 1914, olio su tela, cm 100x81, Grenoble, Musée de Grenoble
Atto due della mutazione del gusto: entra in scena Coco Chanel. Non che prenda invero il posto di Poiret. I protago‐ nisti in quegli anni sono vari, da Worth alla sottile Madeleine Vionnet. Ma Chanel ne inventa una vincente: avendo una simpatica amante creola, convince le belle del mondo che, oltre a liberare il corpo dalle costrizioni vestimentarie, è utile andare oltre e svestirsi del tutto per iniziare a prendere il sole in Costa Azzurra. Tutti abbronzati per la felicità della na‐ scente industria cosmetica, tutti a ballare e a divertirsi come se l’appena trascorsa Prima guerra mondiale fosse solo un lonta‐ 439
no ricordo. La scuola anche per lei saranno i Ballets russes, a partire da Le train bleu (1924), con i fondali di Picasso, e ben si capisce la scelta: Le train bleu era quello che partiva dalla Gare de Lyon e portava gli snob parigini in Costa Azzurra, laddove Pablo Picasso faceva correre in spiaggia le sue eroine neoclassiche scoperte a Roma, quando andò nel 1917 a visita‐ re le collezioni archeologiche di Villa Giulia. Coreografia della sorella di Nijinski (la Nijinska), testo di Jean Cocteau, musica di Darius Milhaud. La cosa fondamentale: tutti a piedi nudi, tutti che pestano sul tacco, sul tallone. Erotomani. Poi, nel 1928 ancora, Coco fece i costumi per Stravinskij nell’Apollo musagete. Continuava il dialogo delle varie forme creative. E Picasso incominciava a regnare.
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Kees van Dongen, L’Ecuyère, 1920, olio su tela, cm 100x81, Collezione privata
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Sonia Delaunay, Ragazze in costume da bagno, 1928, acquerello su carta, cm 20,3x27, Collezione privata
George Barbier, Au Lido, 1920, litografia a colori, cm 34x62, Londra, The British Library
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Coco Chanel e Misia Godebska Natanson Sert al Lido di Venezia negli anni Tren‐ ta, in una fotografia di Henri de Beaumont
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Marcel Duchamp, Semisfera rotante, 1925, assemblaggi di materiali, altezza cm 45, New York, The Museum of Modern Art
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Pablo Picasso, Donne che corrono sulla spiaggia, 1922, olio su tela, cm 32x41, Parigi, Musée National Picasso
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ANSIA GENETRIX
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Arthur Rackham, Pandora, illustrazione per Il libro delle meraviglie di Nathaniel Ha‐ wthorne 1922, litografia a colori, cm 24x17, Collezione privata
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SPLEEN E DECADENTI‐ SMO
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a grande scoperta del disagio esistenziale venne sancita negli anni durante i quali il Romanticismo stava mar‐ ciando e marcendo verso il Decadentismo. Come spesso capi‐ ta per gli stati dell’animo, questi prendono forma più percepi‐ bile quando trovano un nome. E Baudelaire inventò lo spleen: l’impotenza esistenziale dinnanzi a un mondo con regole non percepibili o comunque non suscettibili d’essere condivise. Il poeta francese pubblica nel 1857 Les fleurs du mal, dove il primo ciclo di poemi s’intitola Spleen et Idéal. Gustave Mo‐ reau sembra averli letti e interiorizzati quando, dieci anni dopo, dipinge Pegaso che s’invola nell’ideale e si trascina ab‐ bracciata la poesia nuda in versione Chimera, ovviamente oltre il baratro. La stessa poesia a cui fa riferimento Moreau, Élévation (terzo componimento del capolavoro di Baudelai‐ re), viene illustrata, all’inizio del secolo nuovo, dal tedesco Carlos Schwabe. Au-dessus des étangs, au-des‐ sus des vallées, Des montagnes, des bois, des nuages, des mers, Par delà le soleil, par delà les éthers, Par delà les confins des sphères
Sopra gli stagni e sopra le valli, / sopra le montagne e le foreste e i mari e le nuvole, / al di là del sole e dell’etere, / oltre i confini delle sfere astrali,
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étoilées, Mon esprit, tu te meus avec agilité, Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde, Tu sillonnes gaiement l’immen‐ sité profonde Avec une indicible et mâle vo‐ lupté.
agile ti muovi, o mio spiri‐ to, / e simile a chi nuota bene e s’abbandona alle onde, / lieto, solchi la profonda im‐ mensità / con ineffabile e viri‐ le voluttà.
Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides; Va te purifier dans l’air supé‐ rieur, Et bois, comme une pure et di‐ vine liqueur, Le feu clair qui remplit les espa‐ ces limpides.
Vola lontano da questo fe‐ tore che ammala; / va a purifi‐ carti nell’aria più fina e bevi, / bevanda pura e divina, / il limpido fuoco che riempie quello spazio chiaro.
Derrière les ennuis et les va‐ stes chagrins Qui chargent de leur poids l’exi‐ stence brumeuse, Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse S’élancer vers les champs lumi‐ neux et sereins;
Oltre i fastidi e le vaste sof‐ ferenze, / un grave fardello alla fosca esistenza, / felice chi si slancia con forte ala / verso i campi sereni e luminosi,
chi ha pensieri simili alle allodole / che spiccano il volo al mattino verso il cielo / – chi sorvola la vita e capisce al volo le parole /
Celui dont les pensers, comme des alouettes, Vers les cieux le matin prennent un libre essor, – Qui plane sur la vie et com‐
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dei fiori e delle cose che non hanno voce!
prend sans effort Le langage des fleurs et des cho‐ ses muettes!
Gustave Moreau, Chimera, 1867, olio su tavola, cm 33x27, Cambridge, Fogg Art Museums
Quanto sarà pesato il Simbolismo a cavallo del secolo su quel principe dell’illustrazione britannica che fu Arthur Rac‐ kham, nato nel 1867, anno del dipinto di Moreau? Vorrei im‐ maginare che l’immaginario di lui bambino sia stato influen‐ 451
zato dal visionario francese e che di conseguenza lui stesso abbia deciso di dedicarsi, tanto intensamente, all’illustrazione per l’infanzia tentando di contaminare tutta una generazione a lui posteriore. In questo meccanismo, talvolta assai perverso, Rackham percorre una strada parallela dove l’esercitazione, nell’ambito del mondo adulto, si riversa costantemente in quello dell’infanzia: altro che Sigmund Freud! E nel giocare con la mente dei bambini pensando a quella dell’adulto apre il vaso di Pandora, dal quale escono mille diavoletti. I fantasmi dell’inconscio, che il secolo precedente aveva coltivato con ambigua attenzione, diventano nel secolo breve patrimonio accettato dei ragazzi e motivo di ricerca per la nascente psi‐ coanalisi.
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Arthur Rackham, Le figlie del Reno si impossessano dell’anello, illustrazione per Il cre‐ puscolo degli dei, 1924, litografia a colori, cm 35,5x27, Collezione privata
Se allo spleen si aggiunge il disagio tedesco della Entfrem‐ dung, della sensazione di estraneità, allora ci si avvicina alla patologia poetica dell’ansia, che poco ha a che vedere con la patologia clinica vera e propria.
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Alfred Kubin, L’uomo, 1902, incisione, cm 15x18, Vienna, Leopold Museum
Inizia così quello stato di sospensione che diventa un dato stabile della sensibilità all’inizio dell’era contemporanea. Il taedium vitae leopardiano è drammaticamente superato e non si è ancora giunti alla risposta filosofica che darà l’Esistenzia‐ lismo dopo la Seconda guerra mondiale. Forse l’ansia degli anni delle avanguardie è fenomeno di sostanza dell’epoca stes‐ sa e corrisponde alla sensazione di vertigine di un’era che si sta per concludere senza appello. Ci si trova sull’orlo del bara‐ tro della storia, quella che terminerà con il collasso dell’Euro‐ pa. E gli artisti, mossi dalla loro naturale sensibilità, lo preve‐ dono, lo sentono come i vaticinatori che Giorgio de Chirico inizia a celebrare nei suoi dipinti. È interessante pensare che l’indoeuropeo teorico che dovrebbe corrispondere alla radice angh, cioè stretto, porta sia all’angustus latino sia all’eng tede‐ 454
sco (stretto) ma pure alla Angst tedesca, che è la “paura”. L’uso diffuso della parola, comunque, è assolutamente mo‐ derno.
Giorgio de Chirico, Enigma di un pomeriggio d’autunno, 1910, olio su tela, cm 45x60, Collezione privata
Certamente uno degli epicentri della dissolvenza è costitui‐ to dal mondo germanico, che passerà nell’esperienza del seco‐ lo brevissimo affondando nella Seconda guerra mondiale. Bertolt Brecht lo scrive con inquietante precisione: Das große Karthago führte drei Kriege. Es war noch mächtig nach dem er‐ sten, noch bewohnbar nach dem zweiten. Es war nicht mehr auf‐ findbar nach dem dritten (La grande Cartagine condusse tre guerre. Era ancora potente dopo la prima, ancora abitabile dopo la seconda. Non era più individuabile dopo la terza). È questa la descrizione della Germania fra la guerra francoprussiana del 1870, la Prima guerra mondiale e la Seconda. Ma è anche ciò che allora sembrò il destino ineluttabile del‐ l’intera Europa. 455
Dal profondo della coscienza e dagli ultimi momenti di un XIX secolo in crisi proviene, fortissima, l’immagine e la capa‐ cità di disegnare di Alfred Kubin, all’inizio giovanotto legato alle tematiche complessive di quel sapore che si chiama sim‐ bolismo, nel quale si recuperano immagini antiche provenien‐ ti dal profondo del Medioevo, citazioni orrendamente burle‐ sche di Hieronymus Bosch, inferni improbabili legati alla meccanica moderna, percorsi fra il satanico e l’ironico che lo avvicinano ad altri suoi colleghi, come Franz von Stuck. Ma subito questo percorso si tramuta in un’altra cosa, ovvero nella liberazione degli incubi profondi. Anche il suo operato, al pari di quello di Rackham, non è lontano da ciò che sta succe‐ dendo nello stesso periodo sotto l’occhio attento e calibratore di Sigmund Freud. Penna, inchiostro e lavis, quella tecnica fenomenale che la‐ scia apparire i grigi e i neri per una narrazione che è profon‐ damente europea da sempre e germanica in modo particolare, quella dell’albero al quale vengono impiccati i disperati, ma qui con un segno poetico particolare e inquietante. La volpe che teneramente esce fra le erbe e l’altra che, in mezzo alla strada, li guarda con appetito. Tutto ruota attorno alla bocca dell’inferno e l’ora inarresta‐ bile della morte taglia le teste, a una a una, da un orologio dal quale cascano in una cesta: allegoria di una vita senza speran‐ za, di una corsa dalla nascita alla morte, la velocissima vita dell’uomo dalla nascita alla morte. E poi le paure, lo spavento del naufragio, i misteri del passato, gli appetiti tremendi del potere, un’enorme foca bianca che divora tutto, l’epidemia, sparsa come una polvere notturna dallo scheletro della morte, la fame. Destino terminale: la tomba. E l’amazzone terribile, vestita di nero, cavalca un cavallo a dondolo che taglia l’uma‐ nità con una doppia mezzaluna. Siamo nel 1909, il terrore della malattia, il terrore dell’aggressività sessuale, la paura di 456
un suicidio di massa che fra poco colpirà l’Europa.
Alfred Kubin, L’ora della morte, 1900 ca., incisione, cm 19x8,5, Collezione privata
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Alfred Kubin, La forza, 1900, incisione, cm 21x17, Salisburgo, Museum der Mo‐ derne, Rupertinum
Alfred Kubin, Il tiglio di Hausham, 1903 ca., incisione, cm 17x28, Collezione privata
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Alfred Kubin, Donna a cavallo, 1901, penna, inchiostro, guazzo su carta, cm 39,7x31, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau
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Copertina per “Simplicissimus” con Hitler a cavallo, aprile 1931, litografia a colori, cm 45x27, Collezione privata
Félicien Rops, Il dondolo, 1870, litografia a colori, cm 19x14, Londra, The British
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Museum
Alfred Kubin fa parte di quel curioso mondo austroungari‐ co che ha una radice profonda nel mondo boemo e nelle sue strane paure attorno ai boschi. Tutti artisti con la kappa: Kubin, Klimt, Kokoschka, Kafka. Storicamente non sono af‐ flitti dalla crudezza popolare del burlesco e del Grand-Gui‐ gnol, ma discendono dallo stesso modello atavico che si forma e si ripresenta alla fine del Medioevo germanico quando la Riforma luterana libera l’anima profonda di quei popoli lonta‐ ni.
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APOCALISSE A TEMPO DI VALZER
È
innegabile che le vertigini maggiori si siano sviluppate in quell’impero di mezzo asburgico dove la sensazione della fine possibile si stava trasformando in ansia per una fine certa, mentre nei giardini pubblici si suonano gli ultimi valzer di Johann Strauss e Franz Lehár mette in scena La vedova al‐ legra nel 1905. Fondamentale è la figura dell’imperatore Francesco Giu‐ seppe, elegante nel suo guardaroba infinito e con una moglie bellissima che è la quintessenza della raffinatezza: Sissi. Fran‐ cesco Giuseppe nasce nel 1830. Ha solo diciotto anni quando, nel 1848, la grande ventata di rivoluzione attraversa tutta l’Europa. Suo zio imperatore si dimette, suo padre rifiuta di prendere la corona, e lui senza neanche accorgersene finisce sul trono. L’anno dopo, nel 1849, si trova a reprimere dura‐ mente, ferocemente, la ribellione ungherese. Nel 1859, con la battaglia di Solferino, perde la cassaforte: il Lombardo-Vene‐ to contribuiva per oltre il cinquanta per cento delle entrate fi‐ nanziarie austriache. Anni dopo, nel 1869, finalmente l’Un‐ gheria ce la fa: si separa dall’Austria ma rimane unita all’Im‐ pero. Da quel momento in poi il mondo dell’Europa di centro avrà due corone sulla stessa testa: Francesco Giuseppe è im‐ peratore d’Austria e re d’Ungheria. Kaiser und König, doppia‐ mente al vertice di un mondo che dalle iniziali dei suoi titoli prende il nome di kakanico. E anche le disgrazie, ovviamente, 462
raddoppiano. Nel 1867 suo fratello Massimiliano, diventato imperatore del Messico, viene fucilato. Nel 1889 l’unico suo figlio ma‐ schio Rodolfo, che fa il liberale e scrive sui giornali clandesti‐ ni, si suicida all’età di trentun anni. Nel 1896 il fratello di Francesco Giuseppe, Carlo Ludovico erede al trono, muore. Nel 1898 Sissi, che non ne può più della vita di corte e delle sue molte insidie, decide di viaggiare. Parte in incognito, va a Ginevra e viene assassinata da un anarchico italiano. Il figlio del fratello, Francesco Ferdinando, diviene erede al trono. Al‐ meno finché non viene ucciso nel 1914 a Sarajevo: scoppia la Prima guerra mondiale. Fra poco l’Impero scomparirà, ma nel 1916 muore anche Francesco Giuseppe. Il praghese Franz Kafka pubblica nel 1915 il suo notissimo racconto La metamorfosi. La guerra stava già infuriando, ma si presume che l’ispirazione dell’opera sia antecedente all’evento e tragga la sua atmosfera dall’aria che si respirava negli anni immediatamente precedenti e che già Alfred Kubin rappre‐ sentava all’inizio del secolo con un senso di vertigine, di estra‐ niazione, di ansia e di terrore che a sua volta trovava paralleli‐ smi evidenti nei teatri e nelle sale da concerto dove Richard Strauss eseguiva Salomè nel 1905, lui che era diventato noto e protagonista già nel 1889 con Morte e trasfigurazione e poi con il Così parlò Zarathustra del 1896, che prendeva senso tea‐ trale dagli scritti di Friedrich Nietzsche del 1885.
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Edvard Munch, La bambina malata, 1896, litografia a colori, cm 21x38, Oslo, Munchmuseet
Edvard Munch, Angoscia, 1894, olio su tela, cm 94x74, Oslo, Munchmuseet
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Alfred Kubin, Il succhiatore, 1903, china e acquerello su carta, cm 29x38, Amburgo, Hamburger Kunsthalle
Ma forse il testo musicale più forte dell’epoca è quello co‐ stituito dal ciclo dei Canti per i bambini morti, composti fra il 1901 e il 1904 da Gustav Mahler scegliendo fra le oltre quat‐ trocento poesie dedicate al tema da Friedrich Rückert negli anni trenta del secolo precedente. L’ansia sottile pervade tutto il secolo della felicità austriaca e trova il suo apice nella Morte e la fanciulla di Franz Schubert già nel 1817, forse ispirata dal suo primo testo musicale nel 1815 per la morte del fanciullo dell’Erlkönig di Goethe, e ovviamente le sue declinazioni di nuovo in Kubin (L’ora della morte) e in Munch (La bambina malata e Angoscia) nel 1903. Il rapporto fra vita e morte, fra sogno e realtà, fra notte e giorno lo esprimerà alla perfezione Arnold Schönberg venticinquenne in Verklärte Nacht del 465
1899, la “notte trasfigurata” o, meglio ancora, il buio che trova la luce.
Gustav Klimt, Volto di fanciulla, 1898, olio su tela, cm 20x20, Collezione privata
466
Arnold Schönberg, Sguardo rosso, 1910, olio su cartoncino, cm 32x25, Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau
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Franz von Stuck, Il peccato, 1912, olio su tela, cm 88x52, Berlino, Nationalgalerie
Eppure nel 1888 era già avvenuta una fusione politica in‐ quietante per le sue conseguenze storiche, quando a Vienna il partito nazionale germanico s’era unito con il partito cristiano socialista e il seme fra nazional e socialista era così lanciato per diventare il futuro Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, il Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei 468
(NSDAP), quella costola dissidente che uscirà nel febbraio del 1920 dal DAP (Deutsche Arbeiterpartei, il Partito dei lavo‐ ratori tedeschi). Il trasferimento politico dall’Austria alla Ger‐ mania era dovuto a un imbianchino austriaco disoccupato momentaneamente impiegato come confidente per conto del‐ l’esercito tedesco che aveva cercato fortuna politica nella Re‐ pubblica di Weimar, quell’Adolf Hitler che aveva partecipato al bagno di folla nel 1910 durante il funerale di Karl Lueger, sindaco di Vienna. Lueger era stato l’artefice della fusione dei due partiti austriaci e s’era fatto eleggere sindaco di Vienna già nel 1892, con un programma socialista, populista e antise‐ mita, ma il vecchio Kaiser non ne aveva ratificato l’elezione sostenendo che egli era chiamato da Dio a governare tutti i sudditi contribuenti, al di là della loro appartenenza religiosa o razziale. Sigmund Freud sostenne allora d’avere acceso un sigaro alla salute dell’autocrate illuminato. Ma nel 1895 Lue‐ ger rivinse le elezioni municipali con una tale maggioranza che la sua vittoria dovette essere accettata. A dire il vero, il nuovo sindaco fu esemplare nella gestione delle questioni lo‐ cali, innovando la prima municipalizzazione delle acque e dei trasporti pubblici. Ma la Vienna non industriale della piccola borghesia funzionariale e del sottoproletariato aveva così tro‐ vato una sua identità ambigua che con gli anni avrebbe porta‐ to alla catastrofe.
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Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer, 1907, olio, argento e oro su tela, cm 140x140, New York, Neue Galerie New York
470
Gustav Klimt, Giuditta, 1901, olio e oro su tela, cm 84x42, Vienna, Belvedere
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Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer II, 1912, olio su tela, cm 190x120, Col‐ lezione privata
Il senso di inquietudine cresceva nella borghesia storica e fra gli intellettuali. L’Europa del centro si contorceva come le dita dei modelli di Egon Schiele, lo psicopatologo della de‐ pressione viennese, esperto di gesti moderni e di mani goti‐ che. Figlio di una scuola linguistica che in quegli anni si stava 472
evolvendo in tutta Europa; con le fragranze russe che sono il primo passo verso un’astrazione che fra poco dominerà tutta la cultura visiva: campiture inventate con tasselli, quadratini misteriosi uguali a quelli che negli stessi anni sta cominciando a immaginare Paul Klee con il suo viaggio in Nordafrica.
Egon Schiele, Nudo maschile in piedi con perizoma rosso, 1914, guazzo, acquerello e matita, cm 48x32, Vienna, Albertina
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Egon Schiele, Autoritratto nudo con smorfia, 1910, guazzo, acquerello, matita su carta, cm 36,9x55,8, Vienna, Albertina
Gustav Klimt, che gli è contemporaneo, sembrerebbe il suo opposto: non la vittima ma il controllore dell’ansia nel fram‐ mento della decorazione effettuata per il padiglione della Se‐ cessione viennese. Qui il tassello decorativo imparato guar‐ dando Ravenna non è più decorazione, è struttura stessa del dipinto. Ecco quindi che Gustav Klimt trova in Adele Bloch-Bauer una delle sue modelle e clienti preferite. La ritrae in varie ver‐ sioni, talvolta di alto lusso e talvolta a seno nudo, senza pudo‐ ri freudiani ma anzi con quel fremito orgasmico che è per Klimt un dato stabile del vivere in un’eleganza cittadina e mondana viennese che abbiamo totalmente scordato. Le de‐ dica decine e decine di disegni, la usa come modello per la 474
Giuditta, eroina dell’Antico Testamento che nel suo libro omonimo taglia la testa all’invasore Oloferne. La signora Blo‐ ch-Bauer era la ricca figlia d’un banchiere che aveva sposato la figlia del re dello zucchero e dava vita al più raffinato dei sa‐ lotti viennesi, dove fra intellettuali e artisti apparivano anche i ragazzi Wittgenstein, quello che divenne noto filosofo, Lud‐ wig, e l’altro che perdette il braccio destro in guerra, Paul, di‐ venuto poi, ciò nonostante, un famoso e celebrato pianista, noto per l’esecuzione della Ciaccona di Bach nell’arrangiamen‐ to che ne dà Brahms per sola mano sinistra. Negli stessi anni Rachmaninov si arrovellava a Dresda nelle sue sonate per pia‐ noforte. In questo mondo di artisti Oskar Kokoschka gioca un ruolo particolare. Epifania di un bambino come un Cristo in man‐ dorla retto da dita assolutamente gotiche. Marmellate di bambini che stanno aspettando lo scioglimento dell’Impero in cui sono nati. Un mondo che non potrebbe vivere senza musi‐ ca. Capace di esaltare nel 1916 la figura del nemico Ferruccio Busoni, italiano: nemico per via della guerra, amico per le note musicali. E gli artisti si mettono tutti a collaborare con la Wiener Werkstätte.
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Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1914, olio su tela, cm 125x248, Basilea, Kunstmuseum
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DAI ROARING TWENTIES ALLA GRANDE DEPRES‐ SIONE
G
li anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale saranno ben diversi fra perdenti e vincitori. Da un lato l’ansia viene sedata dall’apparente gioia dei roaring twenties, gli anni della ripresa folle e scatenata, del charleston, del proibizionismo e delle bische americane e di qua dall’A‐ tlantico delle serate in riviera e dalla crescita immobiliare di Londra; dall’altro viene sublimata dalle speranze democrati‐ che della Repubblica di Weimar o dall’apparente successo d’un nuovo mondo in costruzione sia nella Russia bolscevica sia nel Messico rivoluzionario. Il sogno dura poco e la crisi drammatica di Wall Street riporta le nuvole di un’ansia forse peggiore ancora. Dopo i primi anni Trenta tornano gli spettri ad aggirarsi nell’Occidente. La Germania si risolleva sotto il segno della croce uncinata, l’Italia corre irresponsabile verso il suo impero. La Russia passa sotto il governo di Stalin e Ždanov dichiara la fine delle avanguardie domestiche portan‐ do Majakovskij al suicidio nella primavera del 1930 e milioni di oppositori nei campi di concentramento. I colori sgargianti si fanno cupi, dalla pittura alla moda.
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Alberto Savinio, La battaglia dei centauri, 1930, olio su tela, cm 65x81, Collezione privata
I roaring twenties sono presto dimenticati. Giorgio de Chi‐ rico abbandona Parigi e se ne torna a Roma, non c’è più aria sulla Senna. Anche i surrealisti, allegri e spensierati si fanno cupi. Tutto si fa più aggressivo e il design delle automobili sco‐ pre l’aerodinamica perché sa già che al lusso bisognerà sosti‐ tuire l’efficacia, quella che fra pochi anni porterà alla finta guerra veloce, quel Blitzkrieg che avrebbe dovuto conquistare l’Europa con la velocità con la quale l’aviazione tedesca a so‐ stegno dei panzer andrà a conquistare la Polonia annientan‐ dola. Henry Ford, il quale sosteneva che l’auto dovesse diven‐ tare democratica e che quindi ogni colore era consentito pur‐ ché fosse nero, ha intuito un passaggio storico fondamentale che altera l’estetica dopo la crisi e durante il lungo periodo di ricomposizione dell’economia, una economia che si rimette a 478
crescere fino al punto di consentire la deflagrazione bellica. Quei venti dell’ansia, espressi quasi in modo sonoro, appaiono con potente e sorda voglia cromatica nei quadri di Alberto Savinio, il quale abbandona il gusto colorato e allegro degli anni precedenti. I nuvoloni sono densi. Ma il centro del cata‐ clisma sarà in realtà l’allegro mondo americano nel quale scoppia inattesa, imprevista e terribile la crisi finanziaria di Wall Street.
Mario Sironi, Nudo e albero, 1930, olio su tela, cm 80x60, Collezione privata
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Victor Bobritsky, Copertina per “The New Yorker”, novembre 1930, litografia a co‐ lori, cm 36x23, Collezione privata
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Sacha Zaliouk, L’Art negre à la mode. À la manière de Rodin, in “Fantasio”, 1923, li‐ tografia a colori, Collezione privata
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Constantin Alajalov, Copertina per “Vanity Fair”, marzo 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Anne Harriet Fish, Illustrazione per “Vanity Fair”, 1925 ca., Collezione privata
Ci sono mille modi di raccontare la drammatica crisi di Wall Street. A essa si deve la fine del sogno d’una ricostruzio‐ ne inarrestabile, d’una finanza che premiava chiunque parteci‐ passe al suo gioco da roaring twenties. Con la crisi cambia il mondo: la Germania andrà a correre verso la conclusione drammatica d’una inflazione mai conosciuta prima, quella che in breve tempo porterà l’imbianchino caporale alla guida della politica nazionale e quella che negli Stati Uniti dà inizio alla grande depressione. Faulkner e Steinbeck racconteranno l’epi‐ ca d’una catastrofe popolare senza precedenti. Questa muta‐ zione avviene in pochi mesi; fortune consolidate, andate defi‐ nitivamente a rotoli.
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Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vanity Fair”, dicembre 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vanity Fair”, agosto 1931, litografia a colo‐ ri, cm 38x24, Collezione privata
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Copertina per “Vanity Fair”, ottobre 1933, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Locandina per “Farligt Sällskap”, 1929, litografia a colori, cm 99x71, Collezione privata
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Eduardo Garcia Benito, Copertina per “Vogue”, ottobre 1929, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Pierre Mourgue, Copertina per “Vogue”, settembre 1929, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Georges Lepape, Copertina per “Vogue”, febbraio 1930, litografia a colori, cm 38x24, Collezione privata
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Harry Herzog, City of New York. Municipal Airports, 1936-1937, litografia a colori, cm 124x89, Collezione privata
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Theodore Haupt, Copertina per “The New Yorker”, maggio 1930, litografia a colo‐ ri, cm 36x23, Collezione privata
Eppure in quel drammatico 1929 aveva aperto il museo che doveva dare a New York la sua definizione nuova nel mondo delle arti, il MoMA, voluto dalla moglie di Rockefeller, la si‐ gnora Abby Aldrich, assieme alle sue amiche Lillie Bliss e Mary Sullivan. Il primo direttore ne sarà Alfred Barr, un in‐ 492
tellettuale di sottile capacità, lui che assieme a James Thrall Soby si darà alla prima redazione del catalogo delle opere me‐ tafisiche di de Chirico, ma che si interessa pure a tutte le avanguardie d’Europa da Cézanne in poi. A loro si devono gli arrivi dei miracolosi dipinti del doganiere Rousseau, quelli che andranno a pervertire le fantasie fino in fondo alle Ameri‐ che latine. Il museo aprì al pubblico il 7 novembre 1929, nove giorni dopo il crollo di Wall Street, ed ebbe un successo immediato, forse per motivi lenitivi delle anime in pena. Il commento dell’opinione pubblica fu pari allo stupore d’una società abi‐ tuata ancora alle estetiche perbeniste del tardo Impressioni‐ smo, come bene lo dimostrano le copertine delle riviste d’epo‐ ca: quella del “New Yorker” di Victor Bobritsky, scappato dalla Russia dopo la rivoluzione, e quella di “Vanity Fair” di Constantin Alajalov, anche lui fuggiasco russo. Si vede che agli esuli non piaceva l’arte di El Lissitzky, collaboratore dei bolscevichi. È vero che così facendo gli illustratori non erano particolar‐ mente d’avanguardia, perché a Parigi l’altro russo Sacha Za‐ liouk, che se n’era andato già negli anni Dieci come Bakst, per cercar successo nel disegno, dell’arte contemporanea sem‐ brava avere la medesima opinione, così come faceva sempre a New York la signora Anne Harriet Fish che da Bristol in In‐ ghilterra era approdata a Manhattan conservando tutto il suo sarcasmo britannico rétro.
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Jean Pagès, Illustrazione per “Vogue”, marzo 1933, litografia a colori, Collezione privata
Alfred Kubin, Il perseguitato, 1900 ca., inchiostro su carta, cm 31x40, Vienna, Al‐ bertina
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Alfred Kubin, Il muro del cimitero, 1902, inchiostro acquerellato su carta, cm 24,2x18,3, Linz, Schlossmuseum der Oberösterreichischen Landesmuseen
Un mondo si cancella per sempre. La prova più bella della trasformazione in corso viene dalla geniale superficialità di Benito, il cartellonista più di moda in quelli anni a Manhat‐ tan. È evidente la mutazione da un’estetica ancora eccitata ed elegante proprio nella settimana del tracollo (copertina di “Vogue” del 26 ottobre, quindi disegnata una settimana prima), dove la borsa crolla definitivamente nel “martedì nero” del 1929, se si paragona l’elegante signora ancora tutta Art Déco con la preoccupata signorina che nel Natale del 1930 si trova in una posizione nella quale vige l’equivoco: è egli un signore cortese che le regala una collana o Arsène Lupin con la finta barba di Babbo Natale che le sottrae il gio‐ iello? Comunque sia, la festa è finita. E ancora è una rivista a raccontarlo nel modo migliore, nell’emblematica copertina di “Vanity Fair” del 1933: il capitalista parla con il barbone e sono tutti e due di carta straccia, anzi sono la medesima per‐ 495
sona, prima e dopo la cura. La città ce la mette tutta per rilanciarsi, costruisce aeropor‐ ti, immagina l’avventura dei dirigibili. La loro visione onirica era cominciata all’inizio del secolo immaginando la città del futuro come in un disegno di Antonio Sant’Elia e facendo so‐ gnare un altro futurista che approdava dalla provincia italiana, il trentino Fortunato Depero; si concluse con la catastrofe del dirigibile von Hindenburg nel 1937. Preludio terribile quello, perché proveniva la macchina volante dalla Germania con la croce uncinata, e in quel medesimo 1937 si inaugurava a Pari‐ gi l’Expo del confronto delle potenze mondiali.
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Barthel Gilles, Autoritratto con maschera antigas, 1930, tempera su tavola, cm 65x46, Aquisgrana, Suermondt-Ludwig-Museum
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Otto Dix, Truppa d’assalto avanza sotto i gas, 1924, acquaforte, acquatinta e punta‐ secca, cm 34,8x47,3, New York, The Museum of Modern Art
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Franz Sedlacek, Il chimico, 1932, olio su tela, cm 82,5x63, Vienna, Historisches Mu‐ seum
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Salvador Dalí, Ballerina in una testa di morto, 1932 o 1939, olio su tela, cm 97x76, Collezione privata
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Charles Allan Gilbert, Tutto è vanità, 1892 ca., litografia in bianco e nero, cm 29x17,5, Collezione privata
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Salvador Dalí, Senza titolo, 1942, olio su tela, cm 43x35,5, Collezione privata
La grande Expo di Barcellona del 1929 aveva segnato il momento della fiducia nella modernità, quella ben più magni‐ ficente parigina del 1937 manifestava tutti i segni dell’ansia. Nella Germania nazista del 1937, dove le leggi razziali erano in vigore già da quattro anni, si celebrava la prima mostra sul‐ l’arte degenerata. Nello stesso anno, a Mosca, l’ordine opera‐ tivo n° 00447 del 31 luglio 1937 decreta di reprimere gli “ele‐ menti antisovietici e socialmente pericolosi”, dando inizio alle grandi purghe. Ežov dà ordine alla polizia segreta di fucilare 502
72.950 persone e di mandarne 193.000 nel GULag. Verrà lui stesso fucilato qualche anno dopo. Dal 1936 al 1938 si reputa che le esecuzioni siano state circa 750.000. In Spagna si com‐ batte la guerra civile e a Guernica la legione aerea Condor della Luftwaffe nazista opera il bombardamento a tappeto il 26 aprile, un mese esatto prima dell’inaugurazione dell’Expo di Parigi. E nell’Expo di Parigi di questo drammatico 1937, decisa prima degli inasprimenti politici della vecchia Europa, i due padiglioni dell’ansia si affronteranno, quello nazista e quello sovietico, in modo così palese che Max Ernst ne riprenderà la dialettica in un dipinto proprio del 1937, I barbari marciano verso Occidente, che contiene tutta l’angoscia di chi prevede che fra poco i barbari incominceranno a marciare verso l’Ove‐ st del mondo: presenta due esseri diabolici, due uccelli del malaugurio che si fronteggiano. Il dado è tratto. I teschi tor‐ neranno di nuovo alla ribalta e popoleranno le fantasmagorie dell’immaginario.
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Max Ernst, I barbari marciano verso Occidente, 1937, olio su carta montata su carto‐ ne, cm 24x33, Amburgo, Hamburger Kunsthalle
George Grosz, Wofür?, 1927, litografia in bianco e nero, cm 17x27,5, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum
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Francis Picabia, La rivoluzione spagnola, 1936-1937, olio su tela, cm 162x130, Col‐ lezione privata
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LA CITTÀ TENTACOLA‐ RE
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George Grosz, Automi repubblicani, particolare 1920, olio su tela, cm 60x47, New York, The Museum of Modern Art
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CITTÀ E MITO
C
osì scrive Paul Verlaine nel 1874 nella sua raccolta di poesie Romances sans paroles, sancendo la forza poetica e romantica della vita in città, quell’evocazione che generazioni intere di poeti precedenti avevano piazzato fra colline, campi e montagne: Il pleure dans Piove nel mio cuore / come piove sulla mon coeur città; / cos’è questo languore /che penetra Comme il pleut sur il mio cuore? la ville; Quelle est cette langueur Qui pénètre mon coeur? O bruit doux de Oh brusio dolce della pioggia / sui la pluie sassi e sui tetti! / Per un cuore che s’an‐ Par terre et sur les noia / oh canto della pioggia! toits! Pour un coeur qui s’ennuie O le chant de la pluie! Perché, nella seconda metà del roboante e industrializzato XIX secolo, è nelle metropoli che si sviluppa la vita, e quindi 509
anche il sentimento. La città che fu descritta in modo virtuo‐ sistico, nei suoi fumi e nelle sue glorie, dal David Copperfield di Dickens, diventava centro d’una agiatezza morbida e d’una sperimentazione intellettuale senza fine.
Boris Bilinsky, Metropolis, 1925-1926, litografia a colori, cm 125x187, Collezione privata
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Heinz Schulz-Neudamm, Metropolis, 1926, litografia a colori, cm 210x93, New York, The Museum of Modern Art
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William Hogarth, Gin Lane, 1751, litografia in bianco e nero, cm 38x24, Collezio‐ ne privata
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George Bellows, Cliff Dwellers, 1913, olio su tela, cm 103x107, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art
Il mito della città è quello sul quale si fonda la civiltà d’Oc‐ cidente, la quale diventa parzialmente “urbana” cioè civile per via dell’Urbs per eccellenza, Roma, che torna a essere esempio sin dal Rinascimento, quando la scoprono gli stranieri come luogo d’una memoria tramontata e ormai sedimentata. Così scrive a metà del XVI secolo il poeta francese Joachim du Bellay: Roma non è più: e se l’ar‐ chitettura / può ancora rievo‐ care alla mente un’ombra di Roma, / pare quasi merito di poteri magici, / come spoglie 513
Rome n’est plus: et si l’ar‐ chitecture Quelque ombre encor de Rome fait revoir, C’est comme un corps par
mortali riportate alla vita di notte.
magique savoir Tiré de nuit hors de sa sepul‐ ture.
E poi ancora: Roma può assomigliare solo a Roma, / solo Roma può far tremare Roma.
Rome seule pouvait à Rome ressembler, Rome seule pouvait Rome faire trembler.
George Grosz, Metropolis, 1916-1917, olio su tela, cm 123,5x122, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza
In questa curiosa nostalgia stanno le radici di sviluppi ben fortunati e maggiori. Se Roma non è più, tante saranno le 514
città che ne prenderanno il testimone. Venezia per prima, la quale si fonda sul suo concetto senatoriale per rimanere Re‐ pubblica; Parigi poi, quando finalmente sotto Richelieu toglie alla cittadina di Sens il titolo di sede del Patriarcato di Fran‐ cia e se lo porta a Notre-Dame, sicché, per quanto la monar‐ chia andrà a rifugiarsi a Versailles, fuori d’una città che da sempre teme, essa diventa la città per eccellenza e forse pro‐ prio per questa ragione. Nel frattempo Londra brucia e si ri‐ costruisce verso quella che sarà la metropoli ottocentesca con il suo proletariato e, lentamente, una sua autonomia, tenendo sempre la nobiltà in vita campestre e la proprietà del suolo in mano a poche famiglie. Berlino intanto cresce come le ambi‐ zioni della monarchia di Prussia che farà la Germania moder‐ na e di Berlino farà Metropolis, anche se la vera metropoli d’allora, e il poeta tedesco Bertolt Brecht lo capisce subito, sarà per il XX secolo New York, alla quale si rifanno le due grandi città parallele: in America Latina Buenos Aires e in Oriente Shanghai. Tutte figlie di Roma, che fu parente stret‐ ta di Alessandria d’Egitto, la quale viveva nel mito della città di Ur.
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Umberto Boccioni, La strada entra nella casa, 1911, olio su tela, cm 100x100, Han‐ nover, Sprengel Museum
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Vasilij Kandinskij, Mosca. Piazza Rossa, 1916, olio su tela, cm 51,5x49,5, Mosca, Galleria Tret’jakov
Oltre mezzo secolo dopo la riforma urbanistica del prefetto Haussmann che inventò i boulevard parigini per impedire le barricate, negli anni nei quali si conclude la nostra indagine, Alberto Savinio dedica il suo Ascolto il tuo cuore, città (1944) a Milano. L’umanità d’Occidente aveva in quest’arco di tempo cambiato radicalmente le proprie abitudini, tornando forse a quelle ancestrali dell’Impero romano: allora si era cives perché legati alla civitas.
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Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorfplatz, particolare, 1912, olio su tela, cm 69x60, Berlino, Stadtmuseum Berlin
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Virgilio Marchi, Città fantastica, 1914-1915, acquerello su carta, cm 123x148, Pari‐ gi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou
Erich Mendelsohn, Torre Einstein a Potsdam, 1919-1922
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NEW YORK E LE ALTRE
Q
uando negli anni Venti Henry Miller decide di di‐ ventare il cantore d’un epos cittadino newyorkese, che lo porterà poi all’abbandono dell’America e alla fuga in Francia, è impiegato in realtà nella super banca della Western Union, ma romanza la faccenda fingendo di lavorare nella compagnia telefonica cittadina, quella che chiama la Cosmodemonic Tele‐ graph Company e che farà apparire nella trilogia Crocifissione in rosa (composta dai romanzi Plexus, Sexus, Nexus). Non po‐ teva immaginare che negli stessi anni quella compagnia avrebbe commissionato all’architetto Ralph Walker dello stu‐ dio McKenzie, Voorhees & Gmelin il Verizon Building, un edificio costruito fra il 1922 e il 1927 che questa realtà sem‐ brava riassumere. E neppure che il 1° maggio 1931, Festa del lavoro, sarebbe stato inaugurato l’Empire State Building, de‐ ciso già prima e ultimato dopo il dramma della crisi diretta‐ mente con il dito del presidente Hoover che dalla Casa Bian‐ ca ne accese le luci, quelle dell’America. New York stava di‐ ventando quella città gotica con gli edifici affiancati per ri‐ sparmiare il suolo e le altezze ambiziose per esaltare il suo predominio. Diventava l’esempio per il mondo.
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Alberto Savinio, La cité des promesses, 1928, olio su tela, cm 97x146, Milano, Pina‐ coteca di Brera
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Antonio Sant’Elia, La città nuova, 1914, matita e acquerello su carta, cm 47x23, Collezione privata
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Acrobati sulle impalcature dell’Empire State Building a New York, 1934
Londra non può non competere e nello stesso anno inau‐ gura il Shell Mex House, una sorta di potente oggetto da so‐ vra-caminetto compreso d’orologio, mentre Shanghai fa bella mostra del suo Bund e Buenos Aires si porta all’altezza. E a Lipsia, e poi a Berlino, la coppia Bertolt Brecht autore e Kurt Weill musicista, ancora eccitata dal successo del 1928 523
dell’Opera da tre soldi ambientata a Londra, mette in scena Ascesa e caduta della città di Mahagonny, la Goldstadt (città d’oro) ovviamente riferita a New York e fa cantare alla prota‐ gonista: Alle grosse Unternehmungen haben ihre Krise (Tutte le grandi imprese hanno la loro crisi). Nel frattempo Iosif Stalin avvia la costruzione dei suoi grattacieli moscoviti, animati dalla passione per un futuro che immaginano perfetto.
Fotogramma dal film Tempi Moderni di Charlie Chaplin, 1936
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Edward McKnight Kauffer, Metropolis, 1926, guazzo su carta, cm 75x43, New York, The Museum of Modern Art
Sono i medesimi anni nei quali, si parva licet, monta l’am‐ bizione milanese con una sequenza di edifici di incomparabile novità e potenza. Ma già nel 1912 Umberto Boccioni, in pieno furore futurista, aveva preso una tela enorme, alta due metri e larga tre, per inscenare il suo capolavoro La città che sale, un testo figurativo che esaltava il costruire in corso dei nuovi quartieri di Milano. Tutta l’Europa si sta inurbando. La prima sensazione che ne proviene tangibile è quella d’una densità, già conosciuta sin dal Medioevo, che assume ora un valore di compattezza dove ogni opportunità sembra diventare possibile. La tecnologia nuova, la posta pneumatica prima, il telefono poi, l’illumina‐ zione con la luce elettrica, lo sviluppo dei trasporti pubblici generano un tipo di vita fino ad allora impensabile. La città medievale era densa ma subiva il coprifuoco. La città nuova è viva sempre, ventiquattr’ore su ventiquattro, e si rompono de‐ finitivamente i ritmi della giornata.
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Umberto Boccioni, La città che sale, particolare 1910, olio su tela, cm 200x301, New York, The Museum of Modern Art
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LA CITTÀ IMMAGINATA
H
ippolyte Taine aveva scritto nel 1855 a proposito delle grandi Expo: “L’Europa si è mossa per vedere delle merci”, intuendo la città come luogo d’aggregazione neomedievale. E se avesse concentrato ulteriormente la pro‐ pria attenzione avrebbe capito che quel Medioevo avrebbe in breve tempo riassunto la densità delle torri con la genesi della città moderna transatlantica. Conclude il suo pensiero, alla fine del medesimo ciclo sto‐ rico, Walter Benjamin con il suo saggio magistrale Parigi ca‐ pitale del XIX secolo del 1939. Compie la sua analisi partendo dalle illustrazioni che Grandville fa della città futura. Ritrova in questo padre formidabile del Surrealismo una serie di in‐ tuizioni che diventeranno dato stabile della vita nella prima metà del XX secolo. È il medesimo afflato futurista che di‐ venta mito definitivo e cinematografico con Metropolis di Fritz Lang nel 1927. La città futura è un tema stabile e ossessivo della modernità recente. È quello che sogna il giovane futurista Antonio San‐ t’Elia, travolto in pieno dall’ideologia artistica con la quale inizia il XX secolo: un’ideologia forte e convinta che il mondo verrà ridisegnato integralmente, verso l’utopia. Lo stesso tema verrà poi messo in pratica dai ragazzi delle avanguardie bri‐ tanniche del Vorticismo. Un caso del tutto a parte è invece quello della cosmogonia di Paul Klee, il quale l’architettura la racconta solo come un gesto poetico di un mondo già visto e 527
percepito. Se si esclude la preveggenza talvolta surreale di Leonardo da Vinci, è assai raro che gli uomini d’Occidente, pur nella loro lunga storia, abbiano pensato a un domani sostanzial‐ mente diverso dal loro tempo contemporaneo. L’idea d’un progresso inteso come motore inarrestabile dei tempi si fa strada a partire dal XIX secolo e genera una sua conseguenza immediata e poetica della quale saranno protagonisti letterari Jules Verne in Francia e tre successivi inglesi, H.G. Wells, Aldous Huxley e George Orwell. A dire il vero erano stati preceduti dalla romantica Mary Shelley (1797-1851) la quale, con il suo Frankenstein (1818, poi ripubblicato nel 1831), per la prima volta ipotizzava la creazione scientifica d’un uomo superiore anche se incompreso, e alla quale si deve anche il romanzo apocalittico L’ultimo uomo (1826), dove si prevede l’abdicazione del re inglese nel 2073 e la successiva catastrofe dell’umanità travolta dalla peste.
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Moses King, Future New York, “The city of Skyscrapers”, 1915, litografia a colori, cm 45x28, Collezione privata
Jules Verne in Francia assume un atteggiamento ben più positivo ed entusiasta verso i tempi che verranno; di suo fa lo scrittore di successo di romanzi d’avventura e di testi teatrali d’intrattenimento, un po’ come se fosse già un autore dei film del XX secolo. La vena visionaria gli viene in parallelo, ma è 529
quella che lo consegnerà alla storia con anticipazioni incredi‐ bilmente plausibili e che avranno la fortuna di avverarsi in gran parte, come Dalla Terra alla Luna (1865), Ventimila leghe sotto i mari (1870), Il giro del mondo in ottanta giorni (1873).
Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939, olio su tela, cm 130x155, Collezione privata
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Manifesto per il film L’uomo con la cinepresa di Dziga Vertov, 1929, litografia a colo‐ ri, cm 210x120, Collezione privata
Al suo opposto gli autori inglesi sembrano tendenzialmente misoneisti: per loro il futuro è da temere. H.G. Wells, sociali‐ sta pacifista e sostenitore dello stato mondiale unico, scrittore prolisso e insegnante di fama, pubblica il suo primo libro di fantascienza nel 1895, La macchina del tempo. Ma il testo che 531
lo consegna alla Storia e ne fa un padre fondatore della fanta‐ scienza è innegabilmente La guerra dei mondi del 1897, con una copertina che già anticipa molto dell’iconografia fanta‐ scientifica del XX secolo. L’edizione francese appare in Belgio nel 1906 con ben 132 illustrazioni mirabili d’un artista brasi‐ liano formato a Parigi, Henrique Alvim Corrêa, dove appaio‐ no già molti dei temi che ossessioneranno i disegnatori di fan‐ tascienza successiva e nei quali la fonte d’ansia non sembra estranea ai disegni angosciati di Odilon Redon. Questo ro‐ manzo diventerà negli anni successivi fonte d’ispirazione per quello che forse è da considerarsi il massimo capolavoro cine‐ matografico del genere negli anni Trenta, Things to Come (La vita futura), per la regia di William Cameron Menzies (1936) e la sceneggiatura dello stesso H.G. Wells. Nel 1938 un altro Wells, questa volta il ben noto Orson americano, in una delle più note sue creazioni radiofoniche riprenderà il tema con tale realismo, in una cronaca finta dal vero, da provocare un pani‐ co pubblico.
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Manifesto per il film Things to Come di William Cameron Menzies, 1936, litografia a colori, cm 210x120, Collezione privata
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Albert Robida, Maison tournante aérienne, 1883 ca., matita su carta, cm 25x15, Wa‐ shington, Library of Congress
Albert Robida, Le Sortie de l’opéra en l’an 2000, 1882 ca., litografia colorata a mano, cm 48x75, Washington, Library of Congress
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In fondo la visione dello scrittore britannico appariva al‐ l’opposto di quella dell’altro socialista utopista che era il drammaturgo George Bernard Shaw, il quale immaginava un mondo migliorabile a tal punto che negli anni della grande depressione americana si dichiarava sostenitore del regime staliniano, suggeriva di spedire in Unione Sovietica i disoccu‐ pati americani e avanzava addirittura ipotesi di eutanasia per migliorare la razza umana; non gli sarà quindi per nulla anti‐ patico il fascismo italiano e Gaetano Salvemini, rifugiato in Inghilterra, lo contrasterà violentemente nel 1930. Stava sor‐ gendo in quegli anni il conflitto fra utopisti impegnati e di‐ fensori delle libertà democratiche. Trockij era costretto a fug‐ gire in Messico, dove sarebbe successivamente stato assassina‐ to da un altro nucleo di utopisti legati alla polizia staliniana.
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Piero Portaluppi, Studio per il grattacielo S.K.N.E., 1920, acquerello su carta, cm 120x70, Milano, Fondazione Portaluppi
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Ivan Il’ič Leonidov, Progetto per un commissariato, 1934, acquerello su carta, cm 45x25, Collezione privata
Dell’utopia fantascientifica francese rimane la vasta opera disegnata di Albert Robida, il quale pubblica Le vingtième siè‐ cle (1883), dove già ci si sposta in aereo; La guerre au vingtiè‐ me siècle (1887), dove si usano aeromobili da combattimento e gas; e infine La vie électrique (1890) nella quale anticipa la te‐ 537
levisione. Lui è innegabilmente il pioniere d’una visione che il secolo intero successivo dovrà considerare come dato stabile d’una nuova fantasia.
Vladimir e George Stenberg, Manifesto per il film Velikosvetskoe pari di Carl Froeli‐ ch, 1927, litografia a colori, cm 108x74, Collezione privata
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Tatlin, con un assistente, davanti al Monumento per la III Internazionale, 1920
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Paul Citroen, Metropolis, 1920, collage, cm 76,5x58,5, Collezione privata
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Fortunato Depero, 24th Street, 1929, litografia in bianco e nero, cm 27x16, Colle‐ zione privata
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Lewis Wyndham, La folla, 1915, olio su tela, cm 20x15, Londra, Tate Britain
George Grosz, Esplosione, particolare, 1917, olio su cartone, cm 47,8x68,2, New York, The Museum of Modern Art
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L’ARTE AL SERVIZIO DELLE CITTÀ
Q
uesta città nuova, questo nuovo aggregato degli esseri umani genera al contempo entusiasmo e preoccupazio‐ ne. La si ritrova descritta con acida partecipazione nella pittu‐ ra espressionista tedesca, talvolta con quella Angst che da quelle parti è elemento costante quando l’individuo abbando‐ na la natura e la sua patria domestica, la Heimat del campani‐ le, per correre a entrare nel vasto proletariato urbano. E di‐ venta ansiogena e plumbea in Sironi. Curiosa carriera quella di Mario Sironi, e curioso carattere sicuramente duro dovuto alla genetica lombarda combinata con la nascita nella Sardegna di fine Ottocento. Carattere di pietra plasmato nelle trincee della Prima guerra mondiale, Si‐ roni è il testimone più epico d’un paese che si trasforma nella mattanza umana del Carso e del Piave, dall’Italietta giolittia‐ na Belle Époque in una nazione che sogna di pesare nel tessu‐ to della politica europea, d’un paese che si vuole protagonista dei fumi e delle fatiche della prima industria, che guarda con militare rispetto la crescita delle sue tetre periferie. Non poté non essere futurista, ma portava nel suo animo visivo un tale graffio espressionista che il suo Futurismo fu estremamente personale, cinematografico come le prime immagini di Ejzenštejn e impostato scenograficamente come se visto dalle posture alte della macchina da presa del Fritz Lang di Metro‐ polis. Fu metafisico, ma non nel senso di de Chirico, essendo 543
la sua versione del tema non connessa alla melanconia ma al‐ l’ansia vera e propria, quella che rappresentava con dipinti che raffigurano bevitori solitari che guardano nel vuoto oltre il bicchiere. Un mondo suo con uomini forti condannati al fato. Di lui la definizione più esatta la diede lo scultore Arturo Martini, nel 1944, quando disse che Sironi credeva d’essere fascista ma era invece bolscevico e abissale.
Fortunato Depero, Grattacieli e tunnel, 1930, olio su tela, cm 68x102, Rovereto, MART
Il fascismo diede a Sironi come a tanti altri la legittimazio‐ ne per l’abbandono dell’arte privata legata al piccolo formato della pittura da cavalletto. L’arte doveva ricoprire una funzio‐ ne pubblica, dimostrativa ed eterna. La pittura poteva, anzi doveva tornare alla dimensione monumentale dell’affresco e del mosaico. Non fu egli l’unico a praticare questa strada: l’i‐ dea piacque anche a Massimo Campigli, a Gino Severini, a Carlo Carrà. Ma lui fu capace di viverla in tutta la sua epica grandiosità, producendo centinaia di grandi cartoni prepara‐ tori e migliaia di bozzetti che cospargevano il pavimento dello 544
studio e sui quali spesso camminava, che struggeva e distrug‐ geva e faceva poi rinascere in opere straordinarie fissate nel tempo con una strana colla di caseina. I risultati parietali defi‐ nitivi furono clamorosi quanto effimeri: si pensava di dipinge‐ re per l’eternità ma tutto durò solo il tempo delle mostre o al massimo quello del Regime. Di quel percorso rimangono oggi poche testimonianze, il potente mosaico per esempio all’ulti‐ mo piano del Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, alcune aule di tribunali o di palazzi pubblici. Restano invece gli appunti, grandi e piccoli, conservati dagli eredi. Sono opere dove la potente vena espressionista riscatta il gusto dell’epoca per la riscoperta d’una modernità neoromana fatta di virtuosi contadini, di laboriosi operai, di potenti guer‐ rieri e di archi alla Marcello Piacentini.
Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1924, olio su tela, cm 34x50, Venezia, Ca’ Pesaro,
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Galleria Internazionale d’Arte Moderna
Mario Sironi, Pescivendolo, 1927, olio su tela, cm 79x68, Collezione privata
Sarebbe sbagliato pensare che questa voglia del grande e del sublime sociale fosse solo legata alla cultura esasperata del Ventennio. Scelte identiche venivano sostenute nel Messico comunista e negli Stati Uniti di Roosevelt da Diego Rivera. Pareti ugualmente grandi ed espressioniste andavano a deter‐ minare, non a decorare, le sale d’attesa delle ferrovie svizzere con Ferdinand Hodler come avevano decorato il ristorante di lusso Le Train Bleu della ferrovia francese alla Gare de Lyon a Parigi, quella che portava al Sud e alle colonie. Non fu ne‐ cessariamente l’arte dei totalitarismi, fu l’arte delle società di massa. Fu un proclama retorico visivo, nel senso più positivo del termine, che credeva che l’arte non dovesse solo abbellire gli appartamenti dei ricchi borghesi, ma avesse una funzione precisa di formazione e di esaltazione dei popoli. Passata la guerra e crollato il regime, Sironi tornò a dipingere quadri da cavalletto, alcuni di rara qualità, molti invece da sopravvivenza quotidiana dove i temi infiniti della passata gloria si riduceva‐ no a stilemi in questua della cornice e del chiodo finale.
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Ma la ricerca degli anni epici non s’è esaurita affatto. Per tutta la seconda metà del XX secolo l’opera d’arte intesa come evento pubblico è rimasta un dato perenne delle nostre cultu‐ re occidentali, un “memento” della sensibilità politica, ideolo‐ gica, avanguardista, dalle grandi installazioni patologiche di Joseph Beuys con i suoi cumuli di lavagne scolastiche, alle sculture gigantesche che Wolf Vostell assemblava a Berlino con carcasse di automobili, pianoforti e aerei, fino alle am‐ bientazioni babiloniche di Mimmo Paladino con la montagna di sale posta in piazza del Plebiscito a Napoli.
Diego Rivera, L’uomo controllore dell’Universo o l’uomo nella Macchina del Tempo, 1934, affresco, cm 485x1145, Città del Messico, Palacio de Bellas Artes
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Mario Sironi, L’Italia corporativa e figure simboleggianti il lavoro e l’industria, 19361937, mosaico, cm 205x328, Milano, Palazzo dell’Informazione
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CITTÀ E SOLITUDINE
M
a la città non è solo la città dei contatti, della folla; è pure la città dell’isolamento, d’una nuova solitudine, quella che Hermann Hesse porta in poesia: Strano camminare nella nebbia! Ogni cespuglio, ogni pietra è sola, nessun albero vede l’altro, ognuno è solo.
Seltsam, im Nebel zu wan‐ dern! Einsam ist jeder Busch und Stein, Kein Baum sieht den anderen, Jeder ist allein.
Il mio mondo era pieno d’amici, quando la mia vita era ancora luminosa; ora che cade la nebbia, nessu‐ no è più visibile.
Voll von Freunden war mir die Welt, Als noch mein Leben licht war; Nun, da der Nebel fällt, Ist keiner mehr sichtbar.
È vero, nessuno è sag‐ gio, se non conosce l’oscu‐ rità, che ininterrotta e si‐ lente da tutto lo separa.
Wahrlich, keiner ist weise, Der nicht das Dunkel kennt, Das unentrinnbar und leise Von allem ihn trennt.
Strano, camminare nella nebbia! Vivere è essere soli. Nessun uomo conosce l’altro, ognuno è solo.
Seltsam, im Nebel zu wan‐ dern! Leben ist Einsamsein. Kein Mensch kennt den andern, Jeder ist allein.
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Fotogramma dal film Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, 1919
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George Grosz, La strada, 1915, olio su tela, cm 45,5x35,5, Stoccarda, Staatsgalerie
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Mario Sironi, Paesaggio urbano con camion, 1920, olio su tela, cm 50x80, Collezione privata
Sembra di vedere le grandi statue solitarie che Alberto Gia‐ cometti, non lontano da dove si ritirò Hermann Hesse in Canton Ticino, realizzava per Parigi riprendendo la scultura etrusca che d’Annunzio aveva intitolato L’ombra della sera. È la solitudine nelle periferie urbane di Sironi e di Hopper, mentre Balthus narra il vero segreto di Parigi, la quale è sì grande città, ma come accumulo degli arrondissements che sono ognuno un villaggio, con la sede comunale propria, la caserma dei pompieri e le scuole elementari. Ed è forse questo il motivo che spinge gli americani a venire a Parigi, come nella nota composizione musicale di Gershwin. Seguono il percorso di Gertrude Stein che venne a comperare arte mo‐ derna, di Hemingway che venne a bere. Qui non si è costretti a essere solitari, perché se la città moderna è estraniante la vecchia Parigi rinnovata è proprio quest’incrocio fra villaggi e boulevard metropolitani. Almeno fino al 1950, quando Fer‐ nand Léger rappresenta in un celebre quadro l’operaio comu‐ nista al lavoro: una New York rivista a Parigi con le mani forti e il profilo di Pablo Picasso. 552
Edward Hopper, Sole su Prospect Street, 1934, olio su tela, cm 71x92, Cincinnati, Cincinnati Art Museum
Balthus, La strada, 1933, olio su tela, cm 195x240, New York, The Museum of
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Modern Art
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Fernand Léger, I costruttori, 1950, olio su tela, cm 300x200, Biot, Musée Fernand Léger
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Joseph Stella, Laminatoio per l’acciaio, 1919-1920, acquerello su carta, cm 45x31,5, Washington, Smithsonian American Art Museum
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Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938, olio su tela, cm 154x140, Chicago, The Art Institute
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CONCLUSIONE
N
on è lecito concludere ciò che si concluse così male; una riflessione mi viene però automatica. Me l’ha fatta venire in mente quel brav’uomo argentino vestito di bianco in Vaticano quando scelse come suo dipinto preferito la Crocifis‐ sione bianca di Marc Chagall, il quale non è neppure della sua ditta in quanto seguiva la normativa della Torah. La riflessio‐ ne mi ha aperto una strada inattesa. E una domanda imprevi‐ sta: ma come mai le crocifissioni nel secolo dell’apparente to‐ tale laicità, se non addirittura dell’ateismo al potere? Non siamo più, mi dicevo, negli anni opulenti della Con‐ troriforma, eppure ogni artista dotato di sensibilità, talvolta ben al di là del proprio credo religioso, non ha potuto fare a meno di misurarsi con il tema drammatico della morte di Cri‐ sto. Queste opere ben più di ogni altra lo testimoniano. L’ar‐ te, finché fu vera, è testimonianza. Del secolo spezzato.
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Paul Gauguin, Il Cristo giallo, 1889, olio su tela, cm 92x73, Buffalo, Albright-Knox Art Gallery
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Emil Nolde, Crocifissione, 1911-1912, olio su tela, cm 260x240, Collezione privata
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Paul Klee, Tomba in tre parti, 1923, acquerello e grafite su carta, cm 33x45, Filadel‐ fia, Philadelphia Museum of Art
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Max Beckmann, La deposizione dalla croce, 1917, olio su tela, cm 151x129, New York, The Museum of Modern Art
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Pablo Picasso, Crocifissione, 1930, olio su tela, cm 50x65,5, Parigi, Musée National Picasso
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Renato Guttuso, Crocifissione, 1940, olio su tela, cm 198,5x198,5, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
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Salvador Dalí, Cristo di san Giovanni della Croce, 1951, olio su tela, cm 205x116, Glasgow, Art Gallery and Museum
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ARTISTI E OPERE
Alajalov Constantin, [1] Arp Hans, [1] Arte Baule, [1] Arte Betsi, [1] Auzolle Marcellin, [1] Baargeld Johannes, [1] Bakst Léon, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7] Ball Hugo, [1] Balla Giacomo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19] Balthus, [1] Barbier George, [1], [2], [3], [4], [5] Bassano Alexander, [1] Beckmann Max, [1] Behrens Peter, [1] Bellows George, [1] Bilinsky Boris, [1] Blanche Jacques-Émile, [1] Bobritsky Victor, [1] Boccioni Umberto, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12] Böcklin Arnold, [1] Boetti Alighiero, [1] Bosch Hieronymus, [1], [2] Bouguereau William-Adolphe, [1] Braque Georges, [1], [2], [3], [4], [5] Breuer Marcel, [1] Brooks Romaine, [1], [2], [3] Canova Antonio, [1], [2] Carrà Carlo, [1], [2], [3], [4] Casorati Felice, [1]
566
Cézanne Paul, [1], [2], [3] Chagall Marc, [1], [2], [3] Chareau Pierre, [1] Chéret Jules, [1] Citroen Paul, [1] Cohl Émile, [1], [2], [3], [4] Cooper Peter, [1] Crali Tullio, [1] Dalí Salvador, [1], [2], [3] de Chirico Giorgio, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] de Lempicka Tamara, [1] de Vlaminck Maurice, [1] Degas Edgar, [1] Delaunay Robert, [1] Delaunay Sonia, [1] Depero Fortunato, [1], [2], [3] Derain André, [1] Dionisij, [1] Dix Otto, [1] do Amaral Tarsila, [1] Duchamp Marcel, [1], [2], [3], [4] Duncan David Douglas, [1] El Greco, [1], [2] El Lissitzky, [1], [2] Ellis Harry, [1] Ernst Max, [1], [2], [3], [4], [5] Fattori Giovanni, [1] Fish Anne Harriet, [1] Fratelli Lumière, [1] Fratelli Thonet, [1] Garcia Benito Eduardo, [1], [2] Garen Georges, [1] Gauguin Paul, [1] Gérard François Pascal Simon, [1] Gilbert Charles Allan, [1] Gilles Barthel, [1] Gončarova Natalja, [1]
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Gris Juan, [1] Gropius Walter, [1] Grosz George, [1], [2], [3], [4], [5] Guttuso Renato, [1] Haupt Theodore, [1] Heckel Erich, [1] Heine Thomas, [1] Herbin Auguste, [1] Herzog Harry, [1] Hill Lawrence Ira, [1], [2] Hogarth William, [1] Hopper Edward, [1] Jawlensky Alexej von, [1] Kandinskij Vasilij, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14] Kauffer Edward McKnight, [1] Kertész André, [1] King Moses, [1] Kirchner Ernst Ludwig, [1], [2], [3] Klee Paul, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] Klimt Gustav, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15] Kokoschka Oskar, [1] Kubin Alfred, [1], [2], [3], [4], [5] Larche Raoul-François, [1] Larionov Michail, [1], [2] Lega Silvestro, [1] Léger Fernand, [1], [2], [3], [4] Leonidov Ivan Il’ič, [1] Lepape Georges, [1], [2], [3] Lisippo e Lisistrato, [1] Macke August, [1] Magritte René, [1] Malevič Kazimir, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13] Man Ray, [1] Manet Édouard, [1] Marc Franz, [1] Marchi Virgilio, [1]
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Marinetti Filippo Tommaso, [1] Martini Arturo, [1] Matisse Henri, [1], [2], [3] Memling Hans, [1] Mendelsohn Erich, [1] Mies van der Rohe Ludwig, [1], [2], [3], [4] Migliara Giovanni, [1] Miró Joan, [1], [2] Mondrian Piet, [1], [2] Monet Claude, [1] Moreau Gustave, [1], [2] Mourgue Pierre, [1] Munch Edvard, [1] Nolde Emil, [1] Pagès Jean, [1] Picabia Francis, [1], [2] Picasso Pablo, [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8], [9], [10], [11], [12], [13], [14], [15], [16], [17], [18], [19], [20], [21], [22], [23], [24], [25], [26], [27], [28], [29], [30], [31] Pittore di Dokimasia, [1] Portaluppi Piero, [1] Powolny Michael, [1] Rackham Arthur, [1], [2] Redon Odilon, [1] Rietveld Gerrit, [1] Rivera Diego, [1] Robida Albert, [1], [2] Rops Félicien, [1] Rosenkrantz Arild, [1] Samochvalov Aleksandr, [1] Sant’Elia Antonio, [1], [2], [3] Sapunov Nikolaj, [1] Savinio Alberto, [1], [2] Schiele Egon, [1], [2] Schmidt-Rottluff Karl, [1] Schönberg Arnold, [1] Schulz-Neudamm Heinz, [1] Schwitters Kurt, [1], [2] Sedlacek Franz, [1]
569
Severini Gino, [1], [2], [3] Sironi Mario, [1], [2], [3], [4], [5] Steiner Rudolf, [1] Stella Joseph, [1] Stenberg Vladimir e George, [1] Stieglitz Alfred, [1] Strang William, [1] Taber Isaiah West, [1] Tatlin Vladimir, [1] Tzara Tristan, [1], [2] van Doesburg Theo, [1] van Dongen Kees, [1], [2], [3] Vantongerloo Georges, [1] von Kupffer Elisar, [1] von Stuck Franz, [1] Werefkin Marianne von, [1] Weston Edward, [1] Wyndham Lewis, [1] Zaliouk Sacha, [1] Zecchin Vittorio, [1], [2]
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CREDITI FOTOGRAFICI
© 2004 TopFoto/Archivi Alinari, 1 © 2005 TopFoto/Archivi Alinari, 1 © 2013 Olycom s.p.a. & Publifoto s.r.l., 1 © 2014 Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International USA/Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze, 1 © 2014 Mondrian/Holtzman Trust c/o HCR International USA/Monda‐ dori Portfolio/AKG Images, 1 © Association Frères Lumière /Roger-Viollet/Archivi Alinari, 1 © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais/Philippe Migeat-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 © Culture and Sport Glasgow (Museums)/Bridgeman Images/Archivi Ali‐ nari, 1 © Fine Art Images/Marka, 1 © Fondazione Piero Portaluppi, Milano, 1 © Galliera/Roger-Viollet/Archivi Alinari, 1, 2 © Gianni Mattioli Collection, 1, 2 © Iowa University, Dada Archive, 1, 2 © Musée d’Orsay, Dist. RMN-Grand Palais/Patrice Schmidt-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 © Nolde Stiftung Seebüll/Archivi Alinari, Firenze, 1 © Norimberga, Germanisches Nationalmuseum, 1 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/Droits réservés-Réunion des Mu‐ sées Nationaux/distr. Alinari, 1 © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/Hervé Lewandowski-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 © RMN-Grand Palais (musée d’Orsay)/René-Gabriel Ojéda/Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 © RMN-Grand Palais/Franck Raux Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 © RMN-Grand Palais/René-Gabriel Ojéda-Réunion des Musées Natio‐ naux/distr. Alinari, 1
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© RMN-Grand Palais/Thierry Le Mage -Réunion des Musées Natio‐ naux/distr. Alinari, 1, 2 © Roger-Viollet/Archivi Alinari, 1, 2, 3 © Rue des Archives/PVDE, 1, © Rue des Archives/Tallandier, 1 © Stiftung Museum Kunstpalast/Artothek-Archivi Alinari, 1 Albright Knox Art Gallery/Art Resource, NY/Scala, Firenze, 1, 2 Archiv Friedrich Interfoto/Archivi Alinari, 1 Archives Charmet/Bridgeman Images /Archivi Alinari, 1, 2, 3, 4, 5, 6 Archives de Gaulle, Paris, France/Giraudon/Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1 Archivi Alinari, Firenze, 1, 2 Archivio Fotografico MART, Rovereto, 1 Archivio GBB/Contrasto, 1 Archivio Luca Carrà, 1 Archivio Luciano Pedicini, 1 Archivio RCS, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99 Artothek/Archivi Alinari, 1 Bassano/Hulton Archive/Getty Images, 1 BI, ADAGP, Paris/Scala, Firenze, 1, 2 Bibliothèque nationale de France, 1 Bridgeman Art Library/Archivi Alinari, 1, 2 Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21 British Library board/Robana/Scala, Firenze, 1, 2, 3 Buyenlarge/Moviepix/Getty Image, 1 Christie’s Images, London/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 Comune di Minusio, Centro culturale Elisarion, 1 Condé Nast Archive, 1, 2, 3, 4, 5 Corrado Maria Falsini, 1 Courtesy Associazione per il patrocinio e la promozione della figura e dell’o‐ pera di Mario Sironi, Milano, 1 Courtesy Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, 1 Courtesy Yale University Art Gallery, 1 Culture Club/Getty Images, 1
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DeA Picture Library/Archivi Alinari, 1, 2 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 Digital Image Museum Associates/LACMA/Art Resource NY/Scala, Fi‐ renze, 1 Digital image, The Museum of Modern Art, New York/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41 Foto Art Media/Heritage Images/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4 Foto Art Resource/Bob Schalkwijk/Scala, Firenze, 1 Foto Austrian Archives/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4 Foto Fine Art Images/Heritage Images/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 Foto Scala Firenze/Heritage Images, 1 Foto Scala, Firenze – conc. MiBAC, 1, 2, 3, 4 Foto Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22 Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19 Foto Smithsonian American Art Museum/Art Resource/Scala, Firenze, 1, 2, 3 Foto The Philadelphia Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 Foto The Print Collector/Heritage-Images/Scala, Firenze, 1 Freund Gisèle (1908-2000): © RMN gestion droit d’auteur/Fonds MCC/IMEC, 1 Gaspart/Scala, Firenze, 1 Giraudon/Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1 Granger Collection/Archivi Alinari, 1 Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Fi‐ renze, 1, 2, 3, 4, 5 Imagno/Archivi Alinari, 1 Interfoto/Bildarchiv Hansmann/Archivi Alinari, 1 Interfoto/Friedrich/Archivi Alinari, 1 Keystone-France/Gamma-Keystone via Getty Images, 1 Lebrecht/Contrasto, 1 Lessing/Contrasto, 1, 2 Mary Evans/Scala, Firenze, 1, 2 McNay Art Museum/Art Resource, NY/Scala, Firenze, 1 Mondadori Portfolio /AGE, 1 Mondadori Portfolio, 1
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Mondadori Portfolio/AKG Images, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 Mondadori Portfolio/Album, 1 Mondadori Portfolio/Electa/Luca Carrà, 1, 2, 3 Mondadori Portfolio/Electa/Sergio Anelli, 1, 2 Mondadori Portfolio/Giorgio Lotti, 1 Mondadori Portfolio/Leemage, 1, 2, 3, 4, 5, 6 Mondadori Portfolio/The Art Archive, 1 Mondadori Portfolio/The Kobal Collection, 1 Mondadori Portfolio/Walter Mori, 1, 2 Museo Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze, 1 Museum of Fine Arts, Boston. Tutti i diritti riservati/Scala, Firenze, 1 Museum of Modern Art, New York/Fine Art Images/Superstock, 1, 2 Neue Galerie New York/Art Resource/Scala, Firenze, 1 Paul Popper/Popperfoto/Getty Images, 1 Photo © AISA/Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Pa‐ lais/Christian Bahier/Philippe Migeat-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Pa‐ lais/Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Pa‐ lais/Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Pa‐ lais/Droits réservés/Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Pa‐ lais/Georges Meguerditchian-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1, 2 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais/Jac‐ ques Faujour-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Centre Pompidou, MNAM-CCI, Dist. RMN-Grand Palais/JeanClaude Planchet-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © Christie’s Images/Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1, 2, 3 Photo © Peter Nahum at The Leicester Galleries, London/Bridgeman Ima‐ ges/Archivi Alinari, 1 Photo © RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/Droits réservés-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari, 1 Photo © RMN-Grand Palais/Agence Bulloz-Réunion des Musées Natio‐ naux/distr. Alinari, 1 Photo © RMN-Grand Palais/Béatrice Hatala-Réunion des Musées Natio‐
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naux/distr. Alinari, 1, 2 Photo Anne Gold, Aachen, 1 Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA)-collezione Manno, Firenze, 1 Roger-Viollet/Alinari, 1 Sigmund Freud Privatstiftung Imagno/Archivi Alinari, 1 Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau, 1 Tate, London/Foto Scala, Firenze, 1, 2 The Ronald Grant Archive/Mary Evans/Archivi Alinari, 1 The Solomon R. Guggenheim Foundation/Art Resource, NY/Scala, Firen‐ ze, 1 The Stapleton Collection/Bridgeman Images/Archivi Alinari, 1, 2, 3 UIG/Archivi Alinari, 1 Ullstein Bild/Archivi Alinari, 1 Wadsworth Atheneum Museum of Art /Art Resource, NY/Scala, Firenze, 1 White Images/Scala, Firenze, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografi‐ che non identificate
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INDICE Copyright Introduzione Questioni storiche e cronologiche
5 10 15
Piccola confessione dell’autore Fra un gadget e l’altro Tre morti d’avanguardia Tre signori, tre cafoni Il secolo spezzato delle donne
15 18 33 40 46
La cavalcata delle avanguardie
66
Da Giulio Cesare alla rivoluzione borghese Dall’Europa all’America L’onda passa l’onda Marinetti, borghese di sicuro, anarchico forse Nudi alla meta Su, lottiamo! L’Ideale nostro fine sarà
69 80 91 105 109 136
Introduzione nei misteri delle cose note
151
I tredici cavalieri Louis e Auguste Lumière Émile Cohl Antonio Sant’Elia Ludwig Mies van der Rohe Paul Cézanne Gustav Klimt Umberto Boccioni Giacomo Balla 576
154 158 163 170 173 182 196 217 231
Kazimir Malevič Vasilij Kandinskij Paul Klee Giorgio de Chirico Pablo Picasso
250 278 300 326 341
A passo di danza
370
Dal tacco alla punta e ritorno A piedi nudi La Russia conquista Parigi Danza e avanguardie Una nuova femminilità
Ansia genetrix
373 383 399 425 431
446
Spleen e Decadentismo Apocalisse a tempo di valzer Dai roaring twenties alla grande depressione
La città tentacolare
449 462 477
506
Città e mito New York e le altre La città immaginata L’arte al servizio delle città Città e solitudine
Conclusione Indici
509 520 527 543 549
558 566
Artisti e Opere Crediti Fotografici
566 571
577