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Il Pensiero rivista di filosofia Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicoli 1-2
Il Dio dei filosofi? * Logiche della folosofia
Massimo Adinolfi Francesco Paolo Adorno Francesco Berto Massimo Cacciari Piero Coda Carmela Covino Adriano Fabris Franco Ferrari Ernesto Forcellino Carlo Sini Luigi Vero Tarca Vincenzo Vitiello
Il Pensiero
rivista di filosofia Riedizione 2016 in occasione dei 60 anni della rivista. Comitati e direzioni attuali Rivista diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi. Comitato scientifico internazionale: Massimo Cacciari, Félix Duque, Jean-François Kervégan, Thomas Rentsch, Volker Rühle, Carlo Sini, Hans Vorländer. Direzione scientifica: Piero Coda, Florinda Cambria, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Enrica Lisciani-Petrini, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Luigi Vero Tarca. Redazione: Alessandro Apruzzese, Michele Capasso, Ernesto Forcellino, Giulio Goria, Davide Grossi, Lucilla Guidi, Chiara Maggese, Anna Parente, Giacomo Petrarca, Filippo Silva. Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicoli 1-2 Comitati e direzioni nel 2007 Direzione scientifica: Massimo Adinolfi, Massimo Cacciari, Piero Coda, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Félix Duque, Enrica Lisciani-Petrini, Luigi Vero Tarca. Segreteria di redazione: Domenico Grimaldi. © 2007, Eredità Lugarini. Editore: Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli. © 2017 - riedizione, Vincenzo Vitiello. Editore: Edizioni Inschibboleth - Roma. Il numero riportato sul margine esterno del testo corrisponde al numero di pagina dell’edizione originale. ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-61-2 Registrazione: Tribunale di Rieti, n. 3/2015; precedente registrazione: Tribunale di Rieti, n. 2/1978. Deposito legale: febbraio 2017. Proprietario della testata: Vincenzo Vitiello. Editore: Inschibboleth società cooperativa - Roma. Direttore responsabile: Francesco Cundari. Curatore della riedizione in occasione dei 60 anni della rivista: Giuseppe Pintus. Impaginazione: Inschibboleth società cooperativa. Sede della pubblicazione: Rieti. Indirizzo per la corrispondenza: Inschibboleth società cooperativa, Via G. Macchi 94, 00133, Roma Italia, e-mail: [email protected], [email protected], web: www.inschibbolethedizioni.com. La riedizione è stata resa possibile grazie al contributo di:
Si ringraziano gli studenti del Liceo Classico Azuni e del Liceo Scientifico Marconi di Sassari per la collaborazione nella revisione dei testi.
Il Pensiero
rivista di filosofia Anno 2007 | Volume XLVI
INDICE
Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicolo 1 Il Dio dei filosofi?
Saggi Carlo Sini, Il Dio dei filosofi
p. 11
Massimo Cacciari, Imago Dei
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Piero Coda, La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella » 23 Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino Adriano Fabris, Fiat voluntas tua
» 35
Carmela Covino, La grazia del messia
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Vincenzo Vitiello, Religione e nichilismo
» 57
Ricerche Francesco Paolo Adorno, All’origine dell’archeologia. Foucault di fronte alla fenomenologia » 69
Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicolo 2 Logiche della filosofia
Saggi Luigi Vero Tarca, Logica philosophica. Per una logica interale
» 99
Vincenzo Vitiello, Verità Contraddizione Riduzione
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Francesco Berto, Kant, Hegel, Frege e la priorità del proposi» zionale
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Indice
Massimo Adinolfi, Non ogni via è perduta: dall’identità all’indifferenza »
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Ernesto Forcellino, Decostruzione del ‘logos’
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187
Franco Ferrari, Il «sogno» di Socrate nel Teeteto: problemi, aporie, possibili soluzioni »
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Letture
Il Pensiero
rivista di filosofia Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicolo 1
Il Dio dei filosofi?
SAGGI
Il Dio dei filosofi1* Carlo Sini
«Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Non dei filosofi e dei sapienti…»: si racconta che queste parole vennero ritrovate, scritte su un foglietto di carta e cucite nel giustacuore di Pascal, dopo la morte del filosofo. Egli le aveva vergate nella notte del 23 novembre 1654, al culmine di una crisi mistica accompagnata dalla visione di una gran luce, e vi aveva aggiunto: «Certezza, certezza, sentimento, gioia…». Cominciò così la contesa di Pascal contro il Dio dei filosofi. Non sarà inutile ricordare, per misurare la varietà dei destini e degli umani pensieri, che in quello stesso 1654 il giovane Spinoza perdeva il padre e si associava ai fratelli per continuarne l’impresa commerciale; ma già nutriva certamente in cuore molti dubbi sul Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, quei dubbi che, di lì a due anni, avrebbero condotto alla sua clamorosa espulsione dalla sinagoga. Il Dio dei filosofi non era solo quello di Cartesio. La sua vicenda era antica e agli occhi di Pascal evocava, per converso, i dubbi dei Pirroniani, come era solito ripetere. In altri termini: un Dio che si affida agli argomenti della sola ragione può sempre essere dalla medesima ragione confutato e distrutto. La forza del pensiero non basta a salvaguardarlo e men che meno a definirlo; si sa che, secondo Pascal, ci volevano anche e soprattutto la forza del sentimento e le ragioni del cuore. La forza del pensiero: è innegabile che il Dio dei filosofi era proprio nato così, come testimoniano i celebri versi di Senofane: un Dio che «tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode; che senza fatica, con la forza del pensiero, tutto scuote». Questo Dio non ha corpo né sentimenti umani; non
* Relazione tenuta al Colloquio italo-tedesco «La teologia filosofica oggi: Prospettive e problemi nel dialogo con e tra le religioni», organizzato dalla Philosophisch-Theologische Hochschule Brixen, dall’Institut für Religionsphilosophische Forschung der J.W. G oethe-Universität Frankfurt am Main e da ICREA - Universitat Autònoma de Barcelona [Bressanone (Brixen) 6-7 luglio 2007].
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è rosso né nero, come sognano Traci ed Etiopi; non è nato in Palestina o in alcun altro luogo. Esso è puro ed eterno pensiero, anzi, «pensiero di pen siero», dirà Aristotele. È la forza del suo pensiero che genera, governa e definisce tutti i moti dell’universo e i suoi fenomeni, qui sulla terra e lassù nei cieli. Il Dio dei filosofi è autòmatos: si muove da sé e muove tutto il resto. Così impostata la questione diviene molto semplice, o almeno si può supporlo. Un altro grande pagano la espresse mirabilmente in questi termini: una delle due, o tutti questi fenomeni che di continuo accadono «provengono da una medesima fonte intelligente, e allora non è bene che una parte sollevi rimproveri per quanto accade al tutto; oppure, al contrario, tutti questi eventi non sono che atomi, atomi e nulla più, salvo aggiungervi la loro continua mescolanza e separazione. Veniamo a noi: perché ti agiti tanto?» Così annotava il nobile Marco Aurelio sotto la sua tenda militare, dopo aver penosamente passato in rassegna i mali del mondo e della condizione umana. Anche lui si dava pace, a suo modo, nel cuore di una notte. Che le cose si muovano da sole lo sanno tutti, credenti e non credenti, scettici e dogmatici, sapienti e non sapienti: così è fatta l’umana esperienza, nessuno potrà mai negarlo. Accade sempre qualcosa, questo è indubbio, e gli esseri umani sono interessati, almeno da gran tempo, a chiedersi perché. Perché l’essente e non piuttosto nulla? domandava Leibniz e ripeterono a loro volta, come si sa, Schelling e Heidegger. Razionalmente la domanda non è un granché; mostra palesemente di frequentare quella pretesa che Marco Aurelio non riteneva ammissibile: che la parte, l’essente appunto, si metta a rivolgere domande al tutto e magari a giudicarlo. Senza contare che l’abito stesso del domandare, del domandare così come domanda, per esempio per «sapere», è una figura dell’essente, cioè un evento del mondo: la sua pretesa di guardare il mondo dal di fuori e di chiederne ragione è davvero insostenibile e insensata. Tuttavia una qualche motivazione la contiene, se la consideriamo invece come una tipica espressione del «sentimento». Leibniz desiderava ardentemente di trovare un argomento per confutare atei, eretici e miscredenti; Schelling vi aggiunse motivazioni ed emozioni proprie e il medesimo fece Heidegger, resuscitando in termini ammodernati l’antica domanda con lo scopo dichiarato di stabilire una demarcazione tra filosofia e teologia, legittimando in certo modo la prima e respingendo la seconda come «ferro ligneo». La domanda in questione è così anzitutto un’espressione autobiografica: espressione che utilizza il pensiero filosofico in base alle proprie emozioni esistenziali. Ma torniamo al movimento. C’è del movimento, è indubbio (Kant direbbe che c’è differenza tra le impressioni). In generale qualcosa si muove. Si muove «da sé»? Domanda ambigua. Nel dire «qualcosa» indubbiamente ci riferiamo a un che di delimitato o di delimitabile, a un che di determinato. Questo che, cioè questo ente o essente, disporrebbe di una gamma di movimenti possibili e deciderebbe volta a volta di esercitarne qualcuno. In questo senso diciamo che «si muove da sé», ovvero per autonoma decisione. Non per esempio come vorremmo o non vorremmo noi. Ma «che cosa» o «chi» deciderebbe?
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Se una foglia si muove, è il vento che decide, ma il vento è a sua volta deciso dalla pressione atmosferica, e così via. All’ultimo gradino di questa scala qualcuno immagina di trovare Dio. Dice un proverbio popolare: «Non si muove foglia che Dio non voglia». Il detto è suggestivo (anche se assegna impietosamente al buon Dio una considerevole mole di lavoro), ma nel dire «qualcosa si muove da sé» non pensiamo di solito né alla foglia, né al vento e neppure a un Dio signore dei venti e delle tempeste. Pensiamo più semplicemente a un organismo vivente, per assimilazione analogica col nostro organismo e con i suoi movimenti. La foglia non sceglie tra i suoi movimenti possibili; piuttosto essa è necessitata a muoversi così come si muove. Un animale invece no. Per esempio può aggredire o può scappare e può farlo appunto in modi imprevedibili. È così che pensiamo il muoversi da sé. Quindi si tratterebbe del muoversi «al modo di» un organismo vivente simile al nostro, come un cane, un gatto, uno scimpanzé ecc. In realtà anche questi enti mostrano margini di libertà molto ristretti o piuttosto evanescenti. Forse solo l’essere umano, si dice, può scegliere davvero, quasi fosse condannato, notava Sartre, a essere libero. Solo dell’essere umano sarebbe quindi giusto dire che si muove da sé. In effetti solo l’essere umano mostra di essere in grado di fare domande e di chiedersi, non solo se è opportuno muoversi o no (attingendo già un livello di riflessione intelligente superiore a quello dell’animale), ma anche se è «giusto» farlo. In tal modo l’essere umano mostra di conoscere e di esperire quanto meno l’idea di una libertà possibile. Una libertà che sormonta la natura dei movimenti delle foglie e degli animali; e di tutte le semplici «canne», diceva Pascal, che palesemente non pensano. Ma è forse l’essere umano un Dio? Possiamo pensare: non si muove uomo che uomo non voglia? Ecco allora la gran questione: l’uomo è libero, ma anche no, perché dipende in ultimo dalla libertà del suo creatore. Solo Dio, principio di tutto, è libero davvero. Forse così libero, osservava Spinoza, che in lui libertà e necessità coincidono. Conclusione a sua volta necessaria, che ha però l’imprevista conseguenza di mandare a fondo proprio la nozione di libertà intesa come decisione di muoversi da sé. Per l’essere umano questa pretesa libertà si ridurrebbe al più a un mero «sentimento». Per esempio come potrebbe capitare a un sasso lanciato per aria: se improvvisamente acquistasse la sensazione del suo muoversi nello spazio e una coscienza riflessa della sua situazione, diceva Spinoza, ecco che il sasso potrebbe immaginare di muoversi da sé, per sua libera decisione, e non per l’azione della mano che l’ha scagliato o del cieco destino. La sua pretesa di libertà non è più di un sogno «esatto e perseverante», per usare una terminologia cara a Leibniz (che peraltro non gradirebbe questo prestito dal suo lessico per un siffatto argomento). Conclusione che la dice lunga sulla ragione filosofica e sul Dio dei filosofi. Ecco dove si va a finire con la filosofia: si dice «ragione», si ripete di continuo «Dio», ma in realtà si intende il caso e si allude al nulla, cioè si avvalora il più cieco nichilismo, oggi ipocritamente mascherato di tollerante e virtuoso rela-
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tivismo. Così potrebbe obiettare, forse, un novello pascaliano. Egli potrebbe appellarsi, a questo punto, al più classico degli argomenti: libertà e necessità voi dite, ma non si tratta essenzialmente o principalmente di questo quando l’uomo religioso si riferisce a Dio, al Principio creatore e alla Ragione del tutto; si tratta invece dell’amore. Un atto d’amore è la creazione della creatura e non la premessa maggiore di un sillogismo o la causa «mentale» di un universale «scuotimento», come dicevano i pagani e in fondo ripeteva ancora quel libertino di Cartesio. Voi dite «Dio», parlate di «Dio», ma si vede bene, da come ne parlate, che non l’avete mai davvero incontrato: Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, con quel che segue. L’amore, dunque. Quale amore? In che senso «amore»? Dio ti ama, ama proprio te, assicurano le scritte, opera di mani ignote, sui ponti dell’autostrada. Davvero? Possibile che non te ne sia mai accorto? Ha scritto Hume: non abbiamo argomenti per negare che le cose di questo mondo, e in particolare gli umani destini, siano retti da una divina provvidenza amorevole verso le sue creature, perché troppo limitata e precaria è la nostra esperienza rispetto all’universo tutto, al suo infinito estendersi nello spazio e nel tempo; ma sostenere sulla base della nostra esperienza che vi è palesemente questa provvidenza, no, questo proprio non lo si può dimostrare. Per pretendere di farlo, commentava Voltaire, bisognerebbe essere un grande sciocco o un gran birbone. Sono note le geniali contorsioni kantiane per sciogliere la teologia da questi e da altri nodi. Anzitutto con la nozione di limite; quindi con l’uso della analogia; infine col ricorso a ciò che, stando a Kant, si potrebbe forse chiamare teologia simbolica. Non è possibile qui un’analisi anche solo sommaria della proposta kantiana. Si può nondimeno, con una certa libertà, cercare di richiamarne gli esiti. L’umana ragione, dice Kant, non è confinata nel mondo fenomenico. In quanto essa è funzione della totalità ed esigenza dell’incondizionato, la ragione frequenta piuttosto un limite, ovvero una soglia che non è chiusa in se stessa e rivolta solo al suo interno, come il confine, ma che, appunto come soglia, connette il di qua del contingente fenomenico e l’al di là del noumenico. Questa collocazione sul limite si manifesta in modo paradigmatico nel giudizio teleologico: esigenza di una spiegazione «finale» e «finalistica» di tutti i fenomeni della natura e della vita mediante il ricorso a una causa razionale e intenzionale posta necessariamente al di là del mondo della esperienza fenomenica. La teleologia sfocia così inevitabilmente in una teologia i cui contenuti non possono essere però che «analogici». Un’analogia, specifica Kant, che non si pone assolutamente tra «cose», poiché la «cosa noumenica» è sconosciuta e resta inconoscibile. Già questo riferimento alla «cosa» noumenica, cui Kant più volte ricorre, è invero scorretto ed è uno dei motivi della fragilità dei suoi ragionamenti «teologici», se è vero che proprio Kant ci ha insegnato che la «sostanza» è una categoria dell’intelletto, cioè una funzione unificatrice dei fenomeni e nulla di «cosale» o di
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«essente» in sé. Dunque, non un’analogia tra cose, ma tra rapporti, dove uno dei termini rimane sconosciuto e tuttavia assimilato, appunto per analogia, al corrispondente termine che è invece noto. Se per esempio diciamo che le cose prodotte dall’arte umana sono conseguenze della sua volontà razionale, possiamo dire per analogia che la natura tutta è a sua volta il prodotto di una ragione intenzionale uguale a x, ma pensata in riferimento all’intenzionalità umana. Ecco allora che possiamo anche parlare di Dio come padre delle sue creature, amorevolmente provvido nei loro confronti, così come sappiamo essere un padre terreno verso i suoi figli. Naturalmente il limite di questi argomenti è quello, già denunciato da Hume, dell’antropomorfismo manifestamente superstizioso. Kant tenta di scansarsene immaginando, dice, un «antropologismo simbolico», che limiti le sue analogie «solo al linguaggio», senza investire l’oggetto stesso. Così, se noi diciamo che la cura per il benessere dei figli si rapporta all’amore dei genitori, per analogia possiamo dire che il benessere del genere umano si rapporta «a quell’essere ignoto» che chiamiamo Dio e nel quale supponiamo «ciò che diciamo amore». Ma questo non significa attribuire a Dio alcunché che abbia la minima somiglianza con le inclinazioni umane; semplicemente, noi poniamo il rapporto di esso col mondo come simile a quello che si ritrova tra determinate cose del mondo. Così pure, è vero che noi pensiamo Dio attribuendogli una ragione e una volontà, quando lo assumiamo come creatore e causa suprema del mondo; così pure «pensiamo analogamente il mondo come se esso dipendesse, e per la sua esistenza e per la sua determinazione interna, da una supposta ragione suprema»; però queste nozioni hanno valore solo per il loro riflesso «soggettivo». Esse non hanno e non possono avere la pretesa di affermare qualcosa di «appropriato» relativamente a quell’oggetto uguale a x che è e resta Dio: pensare in senso proprio Dio come una causa agente per mezzo della volontà, di una volontà mossa per esempio da amore e simili, è solo, dice Kant, una «superstizione grossolana». Restiamo dunque sul limite. Cosa in tal modo abbiamo conseguito sembra invero non più di una consolazione del cuore e di una soddisfazione del sentimento, beninteso per coloro che ne avvertano l’imprescindibile esigenza soggettiva. Che questa esigenza sia o debba essere «universale», anche se magari non riconosciuta esplicitamente, è solo un’affermazione temeraria: contraria al vero, perché contraddetta in modi e tempi innumerevoli, e del tutto priva di carità o anche solo di tolleranza, perché pretende di assimilare alla sua «logica» il complesso orizzonte dei sentimenti e delle ragioni umane. La ragione dei filosofi e il suo Dio possono essere invece assai più aperti e disponibili; in questo senso possono anche suggerire un modello e un terreno favorevole per avviare un dialogo costruttivo sia con la religione, sia tra le religioni. La ragione filosofica, se non cade a sua volta in superstizioni e in pretese dogmatiche, può continuare a manifestare il suo vivo interesse «fenomenologico» verso il sentimento religioso, così cospicuo e grandioso in tutti i tempi e luoghi della civiltà. Personalmente non desidero affatto che venga
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meno. Temo solo le sue ricorrenti tentazioni di tradurre il suo legittimo apostolato in una irruzione violenta nel vivere civile, politico e sociale. Ma questo non appartiene appunto al genuino sentimento religioso, ma solo a quelle degenerazioni, nocive anche alla vita religiosa, che discendono da volontà di potenza e di prepotenza umana, troppo umana. Il Dio dei filosofi, quando non pretenda di aggirarsi a sua volta in vacue dimostrazioni, deduzioni, illazioni, analogie avventurose e simili (quando insomma non dimentichi di rivolgersi la domanda profonda di Marco Aurelio: perché ti agiti tanto?), non nega affatto di trovarsi, con tutti e come tutti, in una sorta di esperienza della verità cui il nome di Dio si attaglia in modo essenziale e non per modo di dire. Ogni cammino del pensiero, infatti, è un itinerarium mentis in Deo, che poi per alcuni si specifica anche come itinerarium mentis in Deum. Prendere la verità solo dal lato dei suoi contingenti contenuti e dei suoi significati transeunti è la tentazione perenne di ogni superstizioso e idolatrico pensare. Prendere la verità dal lato del suo evento, di cui peraltro sono parte e figura i significati medesimi, transitanti nel nostro destino mortale (poiché di essi e di null’altro possiamo dire che la verità sia appunto evento), questo è quell’incontro col divino che pertiene, io credo, alla ragione e all’esperienza filosofiche. Anche la ragione filosofica incontra Dio, a suo modo e nelle sue figure relative; anch’essa ne può trarre, e così pure offrire, gioia, certezza e pace, sicché del suo cosiddetto «relativismo» non ha da dispiacersi e men che meno da emendarsi: caso mai ha da riflettervi con consapevole senso di giustizia. Inoltre ha da mostrare, con un attivo esercizio genealogico, come le pratiche di vita, di parola e di pensiero conformino il soggetto molto al di là della sua consapevolezza e comprensione. Queste pratiche lo consegnano a una soggezione impotente, anche e soprattutto perché in gran parte involontaria, ma non per questo meno esiziale, nei confronti delle sue idiosincrasie e superstizioni, scambiate per contenuti di verità irrinunciabili e immutabili. Nella sua mal riposta «tenacia» (come diceva Peirce), il soggetto neppure si avvede di promuovere involontariamente proprio quelle trasformazioni delle figure della verità che vorrebbe evitare; né comprende che proprio questo divenire transitando in figura è per tutti noi l’esperienza stessa della verità: essa si produce, per così dire, «in errore», rinascendo ogni volta alla vita eterna del suo evento. Rispetto a tutto ciò, l’esercizio genealogico del filosofare è una via «etica» di liberazione; etica perché mai conclusa, ma da ripetersi immer wieder, come diceva Husserl. E sempre di nuovo la ragione filosofica ha da ribadire il carattere finito e transitorio anche delle sue figure e di tutta intera la sua pratica di vita e di pensiero, secondo quello spirito di carità verso gli altri che non abbisogna necessariamente del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (ma neppure pretende di prescinderne) per costituire da sempre il più forte, generoso e imprescindibile legame tra gli esseri umani.
Imago Dei Massimo Cacciari
Per affrontare adeguatamente il tema dell’«imago Dei» è necessario an- 13 zitutto intendersi sul significato che attribuiamo ai termini biblici. Che la nascita dell’uomo, nella sua uni-duplicità maschio- femmina, costituisca il compimento della creazione, di una idea di creazione da cui ogni casualità viene esclusa e ogni dimensione «razionalizzata» sul fondamento della volontà divina, poiché questa si esprime come volontà di Ordine, Logos ordinante, non appare dubbio. Ma altrettanto evidente è la novità che tale nascita rappresenta. L’apparire dell’uomo segna un’autentica crisi nell’ordinamento cosmico fino a quel momento formato, l’irrompere di un conflitto, che le precedenti creature non potevano prevedere. E poiché è necessario pensare in uno i giorni della creazione, ciò significa che il Signore pone al centro di questa e come suo fine quella creatura che lungi dal consolidarne definitivamente l’ordine, da assicurarne la compattezza, continuamente ne minaccia la stessa durata, esponendola al rischio di quell’abisso che sembrava esser stato «superato» fin dal primo «fiat». La creazione non appare così mai certissimo mondo-cosmo; essa rimane sempre sospesa sull’abisso dal cui In-forme è sorta, perché Dio ha voluto affidarla all’uomo, al suo essere-in-dubbio, al suo essere «seducibile», alla sua costitutiva possibilità di errare-peccare. Il «kalòn» dell’uomo suona assolutamente paradossale rispetto a quello delle altre creature: «Tob» (che i LXX traducono «kalòn» del tutto correttamente, in quanto ogni «tono» di bellezza-piacevolezza è anche nel termine greco del tutto assente) indica infatti la costituzione perfetta dell’ente, l’«adaequatio» perfetta del suo apparire alla sua idea, così che nulla sia pensabile aggiungervi o sottrarvi. Il dramma biblico consiste appunto, invece, nella spietata rappresentazione della «incompiutezza» dell’uomo rispetto alla sua «missione», nella sua ostinata volontà di abbandonarla o tradirla – cui corrisponde un’altrettanto ostinata fedeltà divina al suo disegno. Si dovrebbe dire che l’uomo è «kalòn» proprio in quanto contraddice l’«etymon» del termine, la sua «vera» radice, che egli è «buono» non in quanto actu tale, ma solo in quanto ha la
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potenza di diventarlo, che è «buono» il suo essere «gettato» in una ricerca che potrà avere compimento solo all’Ultimo, che è «buono» l’esperimento che Dio inizia con lui. Questo paradosso getta tutti gli Angeli nell’angoscia; nessuno di loro lo comprende, anche se soltanto alcuni vi si ribellano apertamente. E non vi è dubbio che tutti gli animali, se fossero stati dotati di «intellectus et ratio», avrebbero fatto salire i loro lamenti all’unisono fino al trono del Signore! Già la «prima creazione» dunque non porta affatto il sigillo del «simplex et unum». Essa si compie con la «affermazione» di quella creatura che può revocare in dubbio il «kalòn» dell’essere cosmico complessivo, in quanto capace di non stare all’Ordine, al Comando divino che lo ha prodotto (capace della «follia» di ribellarsi ad esso). Ma proprio questa sola è detta «a immagine e somiglianza di Dio». Una somiglianza che perdura attraverso ogni «peccato». In che cosa potrebbe essenzialmente consistere? Non si può dire che, pur nel variare infinito dei commenti, si siano date risposte davvero divergenti. Le “varianti” potrebbero grosso modo così riassumersi: per «ratio et intellectus» l’uomo è simile al suo Fattore; perché grazie a tale «dono» può «ripetere» il «fiat» divino nominando gli enti col loro vero nome, quello stesso che la Sapienza divina aveva in se stessa pensato (ciò che l’Angelo ribelle non sa fare); perché il suo arbitrio è «libero» a immagine della Libertà, dell’assoluta Incondizionatezza dell’atto creativo del Signore, che in ogni istante si rinnova. E tutte queste «risposte» si potrebbero riassumere in una: è per l’anima che l’uomo è simile a Dio; «uguaglianza», ovvero reale possibilità di comparazione, sussiste tra l’anima dell’uomo e lo stesso «spirito di Dio» sulle Acque; perciò l’uomo in quanto Ultimo può anche essere detto Primo della creazione. Ma perché dire a propria «immagine e somiglianza» quell’ente che, a differenza di ogni altro, può pervenire al perfetto occultamento di tale sua fondante origine? Ed è poi evidente che, se ci limitassimo alle interpretazioni «canoniche» dell’espressione, non potremmo in alcun modo ridurre ad esse la novitas cristiana. Anzitutto occorre ricordare la «paradossalità», nel contesto biblico, dei termini stessi «selem» e «demut». La radice del primo indica l’atto del ritagliare, dell’incidere. In accadico «salmu» è la statua, in quanto immagine strettamente collegata alla realtà del rappresentato. Con lo stesso termine sono indicati gli idoli, le immagini degli dèi, che costantemente tentano Israele. Ma «selem» può anche valere come «ombra», immagine fugace, effimera; come tale passa l’uomo in Salmi 35,7; 73,20. Appare, insomma, impossibile eliminare da Genesi 1,26-27 ogni duplicità: l’uomo, in quanto veramente «selem» contiene, sì, in sé in qualche modo ciò di cui è immagine, ma, ad un tempo, esprime la realtà di cui è immagine nei termini dell’essere fugace, e cioè nei termini dell’essere-mortale. Analogamente in «demut»; l’uguaglianza viene sì affermata, ma simultaneamente alla più radicale differenza: chi, infatti, potrebbe paragonarsi a Lui? Volersi uguagliare a Lui è il peccato, complementare e opposto a quello di volerLo abbandonare. L’intero
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disegno della creazione esclude, d’altronde, ogni astratta uguaglianza; essa si articola infatti per distinzioni e differenze; nessuna «confusione» è «buona». Si dovrebbe addirittura affermare che proprio l’esser distinto di ciascun ente 15 ne costituisce la «bontà»; la stessa materia «prima nata» è in-forme, in quanto capace di articolarsi in ogni forma, non de-forme. La materia vale come grembo dei germi di tutti gli enti formati, non come indistinto chaos. «Demut» stabilisce, insomma, una relazione – una relazione certo non adventitia – tra due «dimensioni» di cui occorre pensare, in uno, la incomparabilità. Non basta tradurre «somiglianza»: «selem» e «demut» indicano senza dubbio una «vicinanza» più forte, un movimento alla identità che, in ogni suo punto, scopre le ragioni della distanza. È come se la «immagine» della somiglianza potesse compiutamente apparire soltanto sullo specchio della differenza, e anche della differenza più radicale, e viceversa. Della paradossalità di tali analogie i Padri erano attenti cultori, sia in Oriente che in Occidente. E Agostino ne rappresenta forse l’insuperabile testimone. La similitudo di Genesi è longe dissimilis, e tale è destinata a rimanere fino al Riposo, all’ultimo Sabato, Fine di tutti i giorni e delle età dell’uomo. La somiglianza deve essere interpretata come la reale possibilità di «avvicinarsi» alla Realtà rappresentata (che si rappresenta) nell’immagine. L’uomo è creato secondo la misura di tale Possibile; egli è creato per farsi Dio (e poiché così è creato, sarà follia il suo pretendere di poter raggiungere tale Fine da solo, autonomamente). Ma abbiamo forse con questo risposto alla nostra questione? In che cosa consiste ora la «immagine-e-uguaglianza»? Abbiamo cercato di «corrispondere» al significato dell’espressione, alla sua problematicità – e già questo semplice «esercizio» fa vedere quanto sia arduo intenderla come «promessa» di un lineare dispiegarsi della storia della salvezza (sta nella critica di un’idea “teleologica” di salvezza l’importanza della riflessione di Edoardo Benvenuto1). Già nella idea della «prima creazione» la «continuità» appare perlomeno in dubio. Certamente nulla «assicura» ad essa, nulla radica nella sua origine, come su terra ferma, quel Fine per cui, secondo le potenti immagini paoline, chi crede spera e anela in angoscia. Tuttavia, neppure è possibile «rinviare» alla «seconda creazione», al nuovo Adamo, la rivelazione, l’autentica apocalisse del suo significato. Se l’immagine è vera immagine, e nello stesso tempo segno di incolmabile differenza, ciò va fatto valere ab origine. Nell’essere dell’immagine anche segno dell’abissale distanza tra sé e la Realtà che immagina occorre ritrovare qualcosa che compete essenzialmente a questa stessa Realtà. In altri termini, se l’immagine proprio nel suo non essere semplicemente uno con la Realtà che mette in-immagine non si riferisse realmente a questa stessa Realtà neppure potrebbe dirsi «selem» o «demut». L’immagine è tale se ontologicamente in rapporto al rappresentato, ma in
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Cfr. in particolare il suo Il lieto annuncio ai poveri, Bologna 1997.
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questo caso il rappresentato deve contenere in sé l’abissale differenza con ogni sua immagine. Ciò significa che l’uomo può essere detto veramente immagine di Dio soltanto se in Dio sono concepibili quei caratteri dell’immagine per cui essa è anche «ombra», caducità e fugacità, per cui essa è anche abissale distanza dalla realtà divina. Ora, la distanza è quella tra mortale e immortale; tale distanza dovrà pertanto essere ritrovata in Dio. In Dio occorre si riveli quella dimensione dell’essere che sembra immediatamente contraddire la Sua essenza. Se una immagine puramente «mortale» è semplice idolo (e un idolo che volesse fingersi Dio sarebbe una bestemmia); una immagine dell’Immortale in sé e per sé rappresenterebbe una contraddizione in termini, un «impossibile» a pensare. E invece una immagine della contraddizione in Dio tra mortale e immortale, della Sua lotta eterna tra i Due inseparabili, questa potrebbe costituire la vera immagine, l’Eikon del «cuore» divino. Che un’autentica lotta in Dio segni la nascita della Sua immagine è stato «narrato» dalla tradizione giudaica in varie forme. La verità non potrebbe «piegarsi» a quella immagine se non lasciandosi vincere dalla misericordia; ma la misericordia si risolverebbe in un puro «svuotarsi», che cancellerebbe la realtà divina, se non fosse in uno «apocalisse» della stessa verità. Il Vero è tale se eternamente è; ma la misericordia è tale soltanto se «ontologicamente» in relazione a ciò che è degno di misericordia, e cioè col mortale. Dunque, è l’amore per il mortale che squassa il cuore divino fino a «vincerne» quello per la pura Verità. Ma se questo amore nulla ha in sé di accidentale, ciò significa che la Verità divina accoglie e custodisce in sé lo stesso mortale, come suo proprio. Ciò significa che questa Verità non è concepibile se non come avente in sé ciò che la contraddice. La tradizione «attenua» il paradosso immaginando immortale il corpo stesso di Adamo prima del peccato, e spiegando anche per questa via il suo essere immagine di Dio. Ma appare evidente dall’intero contesto di Genesi 1-3 che l’immortalità del corpo potrebbe venire solo dall’aver gustato del frutto dell’albero della Vita, che rimane proibito ad Adamo, per essere più tardi pensato come dono di Dio nel giorno della resurrezione. L’uomo è «a immagine» non nonostante, ma perché mortale. Non certo, però, della mortalità delle altre creature (compresi i cieli e le stelle, che passeranno). Esse appaiono «compiute» nel proprio essere mortale; l’uomo lo avverte e vive, invece, come un «compito». L’uomo non «sta» nel proprio essere mortale, non vi ha dimora. In tutti i suoi gesti, in tutte le forme del suo fare egli interroga, dubita, mette in questione tale sua apparentemente «naturale» condizione. La domanda sulla morte ne segna la vita, e perciò stesso la morte cessa per lui di essere qualcosa di «naturale», per trasformarsi, fin dal primo istante in cui si pone, nella domanda sulle proprie possibilità. L’uomo è quel mortale per cui la morte stessa diviene un possibile. Il «bello» della incompiutezza dell’uomo (ciò che rimane fermo in lui nel perenne mutare delle sue forme e delle sue maschere) è l’essere-possibile, il poter «trasgredire» lungo l’intera scala dei viventi
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mortali fino a potersi immaginare «uguale» ai viventi immortali, gli Angeli, anzi superiore a loro, oltre ancora: fino ad essere uno con Dio, immortale della Sua immortalità senza durata, Nunc aeternum. L’uomo non sarebbe assoluta apertura al Possibile, e dunque reale «incompiutezza», se non fosse ad un tempo possibilità di immortalità. Ecco come ab origine l’uomo è reale, vera immagine della Realtà divina, pur continuando ad essere «ombra», parvenza fugace. Ma, di nuovo, proprio questo suo essere-possibile va in quanto tale pensato immanente a Dio. E come senza negare la Sua perfetta attuosità? Solo se in Dio i possibili, tutti i mondi e tutte le anime possibili, sono compresi nel loro dispiegarsi – e se questo dispiegarsi viene inteso come null’altro che l’apparire della loro verità e eternità. Solo di Dio come infinita Com-possibilità l’uomo è veramente «eikon». Della sua ultima possibilità, l’essere immortale, è immagine il Risorto; ma essa non può valere come «risoluzione» dell’incompiutezza implicita nell’essere imago Dei dell’uomo. L’uomo continua a morire, ma la sua morte ha formalmente perduto ogni definitività. L’uomo la sa come null’altro che un suo possibile. Non ne è più sovrastato e dominato. La sua parola, grazie al Logos, se ne è impossessata. All’inizio egli aveva trovato i nomi «giusti» per le cose e gli animali; ora gli si è rivelato il Nome della morte; pronunciandolo, egli già l’ha vinta, in attesa di super- vincerla nell’Ultimo. La «creazione della resurrezione», in quanto, secondo Benvenuto, prendersi «cura» della morte così radicalmente da far risorgere da essa immortale il vivente, non è l’«inaudito» della «prima creazione», ma ciò che la sua «narrazione» esprime per immagine. L’immagine si fa carne in Gesù. Qui l’«eikon» risuona con una forza e pienezza che mai in precedenza avrebbe potuto attingere. L’essere immagine si riconduce e risolve perfettamente nella Realtà rappresentata, rappresentante e rappresentato coincidono senza disordinatamente confondersi, in ordinato amore. Non vi è alcuna differenza incommensurabile, se intendiamo l’imago Dei come, simul, «similitudo dissimilis» e incompiuta com-possibilità. È perfettamente giusto, invece, non vedere in termini «continuistici» la storia della salvezza a partire dalla creazione del mondo (di questo mondo) e dell’uomo; la creazione dell’uomo è segno di contraddizione e di crisi (che il Cristo «giustificherà»), ed egli giungerà a sapere la propria morte soltanto attraverso la Novitas che l’incarnazione della Parola rappresenta. Ma se si finisce col separare la prima «narrazione» da questo Evento, necessariamente quest’ultimo verrà ascoltato come la Risposta all’essere-possibile dell’uomo, risoluzione in atto del contraddirsi dei suoi possibili. E allora si dovrà concludere che solo «per immagine» l’uomo poteva dirsi in origine imago Dei. Quell’ultima «eikon», invece, rappresentata dal Cristo, dispiega la originaria immagine, senza che sia possibile risolvere quest’ultima in identità, poiché Dio è Onni-compossibilità, di cui l’uomo è un apparire nel tempo, di volta in volta determinato. 18 Di tale Onni-compossibilità è apparsa nel tempo la possibile immortalità;
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questo inaudito possibile si è fatto carne e ha chiamato al suo ascolto. Ma se l’ascolto dell’uomo comportasse il risolversi del suo essere nell’essere-immortale, «dimenticando» tutte le altre sue dimensioni, sarebbe questa davvero la Immagine assolutamente reale della Realtà divina? L’uomo si «divinizza» semplicemente divenendo immortale? Allora la Croce non è che un momento, un caduco passaggio. Risorto immortale è, invece, il Crocefisso soltanto. Immortale è il mortale che ritorna in Dio e «riposa» nell’ambito dei Suoi infiniti possibili. In tutti gli altri modi, immortalità significherebbe negazione del mortale, e dunque morte, e verità negazione dell’errore, del dubbio e della ricerca, e dunque non-verità, poiché verità non può rappresentare una «parte» soltanto, non può non comprehendere in sé ogni logos. Perché Dio sia «panta en pasin» deve anche essere il «nulla» di ogni cosa – e il risorgere da esso: Non solo «lotta» per risorgere, ma «lotta» anche per «vincersi» fino a svuotarsi di Sé. E l’uomo è l’apparire di tale Dramma, poiché apparire della Parola che lo indica. E tale Dramma è l’Eterno.
La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino Piero Coda
1. L’affermazione argomentata dell’essere di Dio (quaestio 2) introduce nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino il discorso sul quomodo sit di Dio stesso, il quale a sua volta dovrebbe aprire la strada all’esplicazione del suo quid sit, secondo la logica della nota progressione: an sit, quomodo sit, quid sit. L’essere d’una res, una volta acquisito, va innanzi tutto circoscritto e illustrato nel suo quomodo, e cioè in quelle proprietà che ne esibiscono la qualità d’essere, così da poterne poi cogliere, mediante esse, il quid est, e cioè l’essenza. Ma il discorso intorno a Dio è del tutto singolare, e Tommaso ha già premesso che di Dio non possiamo sapere il quid sit. Il che, oltre tutto, viene evidenziato dal procedimento e dal risultato delle quinque viae1. Da ciò deriva che anche il quomodo del suo essere può venire attinto solo in forma negativa: secondo il registro del quomodo non sit. L’essere di Dio, infatti, ci è noto unicamente attraverso la mediazione degli effetti che a esso rimandano. Non, dunque, in sé. Il che implica che, come tale, esso va distinto dai suoi effetti, benché solo attraverso di essi si renda a noi presente. La conoscenza di Dio richiede per questo estrema prudenza: e in concreto una rigorosa ascesi intellettuale (e insieme spirituale) che permetta di non proiettare sull’essere di Dio il modo d’essere delle cose create, preservandone così la trascendenza. Paradossalmente, solo percorrendo la via del quomodo non sit rispetto alle cose create si può pervenire alla soglia santa e intrascendibile del quomodo sit di Dio: che sarà Dio stesso a dischiudere, per pura grazia, mediante la rivelazione di sé. La giustificazione della via negationis o remotionis che Tommaso senza tentennamenti privilegia per descrivere il quomodo non sit di Dio, una volta affermato ch’egli è, è al tempo stesso antropologica e teologica: è conforme cioè sia alla dinamica soggettiva della 1 Mi permetto rinviare al mio Il significato strategico delle «quinquae viae» nel «De Deo» di Tommaso d’Aquino, in Verità e responsabilità. Studi in onore di Aniceto Molinaro, a cura di L. Messinese e C. Göbel, Studia Anselmiana, Roma 2006, 591-608.
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conoscenza umana sia all’identità oggettiva dell’essere di Dio. All’uomo è necessaria infatti quella purificazione dell’intelletto (purgatio mentis la definiva Sant’Agostino) che sola permette d’attingere Dio nell’assoluto rispetto della sua trascendenza: «la purezza totale, la verginità, si potrebbe dire, dell’essere di Dio»2. A questa duplice istanza si richiamano i tre momenti in cui Tommaso articola il discorso intorno all’essentia Dei introducendo la quaestio 3: «Per prima cosa, dunque, occorre considerare come (Dio) non sia; in secondo luogo come sia da noi conosciuto [q. 12]; in terzo luogo come sia nominato» [q. 13]3. Innanzi tutto, il quomodo non sit. Tommaso così precisa il metodo e l’articolazione della trattazione: Si può in realtà mostrare di Dio come non sia, rimuovendo da Lui quelle cose che a Lui non convengono, come la composizione, il moto e le altre cose di tal fatta. Per prima cosa, dunque, ci si interrogherà sulla semplicità di Lui, per mezzo della quale si rimuove da Lui la composizione. E poiché le cose semplici nelle cose corporali sono imperfette e (consistenti di) parti, in secondo luogo ci s’interrogherà sulla sua perfezione; in terzo luogo, sulla sua infinità; in quarto luogo, sulla sua immutabilità; in quinto luogo, sulla sua unità4.
Il metodo, dunque, è la “rimozione” da Dio di tutto ciò che, rinvenibile nelle cose create, non conviene però a Dio che di esse è il trascendente principio e fine. Con ciò si giunge tuttavia a dire qualcosa di positivo di Dio, perché di lui si affermano via via le perfezioni corrispondenti a ciò ch’è negato, benché esse siano totalmente altre rispetto a quelle esibite dalle realtà create. Così, negando di Dio la composizione se ne afferma la semplicità, negando la finitezza l’infinità, negando la mutabilità l’immutabilità, negando la molteplicità l’unità. Significative sono la successione e l’articolazione degli attributi di Dio che vengono individuati percorrendo la via del quomodo non sit. Il primo è la simplicitas, strettamente connesso con il secondo, la perfectio. Essi sviluppano, di fatto, il punto d’arrivo delle quinque viae, sviscerando il significato propriamente ontologico dell’essere di Dio come causa efficiente e insieme finale del mondo creato, e in tale prospettiva vanno colti nel loro reciproco rimando. I successivi attributi – l’infinità, l’immutabilità e l’unità, coi loro rispettivi annessi –, hanno valore derivato ed esplicativo. Ci soffermiamo qui sul primo
2 G. Lafont, Structures et méthode dans la «Somme théologique» de saint Thomas d’Aquin, Les Éditions du Cerf, Paris 1996, 44. 3 «Primo ergo considerandum est quomodo non sit; secundo, quomodo a nobis cognoscatur; tertio, quomodo nominetur» (q. 3, prologus). 4 S.Th., I, q. 3, pr.: «Potest autem ostendi de Deo quomodo non sit, removendo ab eo ea quae ei non conveniunt, utpote compositionem, motum, et alia huiusmodi. Primo ergo inquiretur de simplicitate ipsius, per quam removetur ab eo compositio. Et quia simplicia in rebus corporalibus sunt imperfecta et partes, secundo inquiretur de perfectione ipsius; tertio, de infinitate eius; quarto, de immutabilitate; quinto, de unitate».
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di tali attributi, la simplicitas, cercando d’andare al cuore dell’argomentare di Tommaso e tralasciando la ricchezza di questioni tecniche e di approfondimenti specifici via via in proposito esibiti. 2. L’attributo della simplicitas, per primo affermato e investigato, intende ridestare – si direbbe – l’originario stupore di fronte alla purezza immacolata dell’essere divino. Esso, secondo Tommaso, precede e fonda l’attributo della immutabilitas che classicamente, sia nella filosofia greca (Aristotele) sia nella teologia cristiana (Agostino), era ritenuto il distintivo primo della deità rispetto alla mutevolezza delle realtà mondane. Tommaso stesso, nella Summa contra Gentiles, s’era ancora mosso secondo questa logica, partendo dall’affermazione secondo cui Dio è omnino immobilis5, mentre nella Summa Theologiae, ormai, il punto di partenza è invece che Dio è omnino simplex. In tal modo, egli intende esprimere l’originario riflesso affettivo e percettivo, per la coscienza umana, che scaturisce nel trovarsi investita dalla scoperta che “Dio è”. Non si tratta, evidentemente, d’un’originarietà cronologica, ma onto-logica. Essa esprime, infatti, la purezza d’uno sguardo che, da un lato, corrisponde alla dinamica del desiderium e della perceptio da cui muove la conoscenza di Dio, ma purificata e ricondotta alla sua più radicale nudità; e, dall’altro e al tempo stesso, corrisponde alla rivelazione che Dio stesso ha fatto di sé a Mosè sul monte Sinai: Ego sum qui sum (Es 3,14). In definitiva, è il fatto stesso che Dio sia prima percepito confusamente e poi conosciuto distintamente come Ipsum Esse ciò che porta ad ammirarne innanzi tutto, stupiti e riconoscenti, l’attributo della semplicità. Dio, infatti, semplicemente “è”. Ciò che colpisce la coscienza, non appena giunge a formulare il giudizio: “Dio è”, è appunto l’inesauribile e ineffabile semplicità del suo Essere. Nella semplicità di tale predicato – “è” – in quanto attribuito a Dio, è evocato l’abisso di tutto ciò che si potrà conoscere e dire di Dio stesso. Spiega Tommaso, nell’articolo 4 della quaestio 3: essere si dice in due modi: nell’uno significa l’atto d’essere, nell’altro significa la composizione della proposizione, cui l’anima perviene congiungendo il predicato al soggetto. Nel primo modo dunque di accezione dell’essere, non possiamo sapere l’essere di Dio, come neppure (possiamo saperne) l’essenza, ma solo nel secondo modo. Sappiamo infatti che questa proposizione che formiamo riguardo a Dio, quando diciamo «Dio è», è vera6.
Summa contra Gentiles, Libro I, cap. 14. «Esse dupliciter dicitur: uno modo, significat actum essendi; alio modo, significat compositionem propositionis, quam anima adinvenit coniungens praedicatum subiecto. Primo igitur modo accipiendo esse, non possumus scire esse Dei, sicut nec eius essentiam, sed solum secundo modo. Scimus enim quod haec propositio quam formamus de Deo, cum dicimus “Deus est”, vera est». 5 6
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La veritas dell’affermazione secondo cui “Dio è” esibisce se stessa, innanzi tutto, nel coglimento della simplicitas dell’esse di Dio, il quale, se resta impenetrabile nella sua essentia e nel modo del suo actus essendi, tuttavia, proprio mostrando la sua simplicitas fa intuire limpidamente ciò che distingue l’essere di Dio da ogni altro essere. Lo splendor veritatis dell’Esse divino ha, prima di tutto, il timbro dell’umiltà, che è insieme maestà, e dell’immacolatezza, che è insieme pienezza. E proprio così ne attesta la trascendenza e originarietà rispetto a ogni altra forma d’essere. Tommaso cita, in proposito, Ilario di Poitiers: «esse non est accidens in Deo, sed subsistens veritas»7. Al fine d’esplicitare tale singolare distintivo dell’esse divino sono consacrati gli 8 articoli della quaestio 3. Essi vengono a illustrare, con sapiente progressione, la simplicitas Dei in quanto nell’essere di Dio non v’è composizione alcuna di elementi o dimensioni che, in qualunque modo, vengano a incrinarne l’assoluta purezza. Nell’articolo 7, che in forma riassuntiva del percorso precedente pone esplicitamente la questione «utrum Deus sit omnino simplex», Tommaso argomenta: che Dio sia del tutto semplice, può essere manifesto in molteplici modi (…). Poiché infatti in Dio non vi è composizione né di parti quantitative, perché non è un corpo; né di forma e materia; né in Lui è altro la natura e il supposito; né altro l’essenza e l’essere; né in Lui vi è composizione di genere e differenza; né di soggetto e accidente; è manifesto che Dio in nessun modo è composto, ma è del tutto semplice8.
La semplicità di Dio esprime il suo stesso essere ch’è spirito e non corpo, forma e non materia, atto e non potenza. Ciò deriva, in radice, dalla qualità, a Lui solo propria, del suo stesso essere: Poiché Dio è la forma stessa, o meglio lo stesso essere, in nessun modo può essere composto. E questa ragione l’attinge Ilario in «De Trinitate», 7 [n. 27] dicendo: «Dio, che è potenza, non deriva da cose deboli; né Lui che è luce, risulta da realtà oscure»9.
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L’essere di Dio è come la luce che in sé non può albergare tenebra. La semplicità di Dio, dunque, pur non dicendo in positivo l’essere di Dio, ne Ilario di Poitiers, De Trinit., 7; cfr. Tommaso d’Aquino, S.Th., I, q. 3, a. 4. S.Th., q. 3, a. 7: «Deum omnino esse simplicem, multipliciter potest esse manifestum. (…) Cum enim in Deo non sit compositio, neque quantitativarum partium, quia corpus non est [a. 1]; neque compositio materiae et formae [a. 2]; neque in eo sit aliud natura et suppositum [a. 3]; neque aliud essentia et esse [a. 4]; neque in eo sit compositio generis et differentiae [a. 5]; neque subiecti et accidentis [a. 6]; manifestum est quod Deus nullo modo compositus est, sed est omnino simplex». 9 Ibidem: «Cum Deus sit ipsa forma, vel potius ipsum esse, nullo modo compositus esse potest. Et hanc rationem tangit Hilarius, 7 “De Trin.” [n. 27], dicens, “Deus, qui virtus est, ex infirmis non continetur: neque qui lux est, ex obscuris coaptatur”». 7 8
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dice, in negativo, la distinzione e la differenza onto-logica da ogni altro essere, che in Dio ha il suo principio e in Dio trova il suo compimento. Di qui la centralità degli articoli 3 e 4 della quaestio 3: «utrum sit idem Deus quod sua essentia vel natura» e «utrum in Deo sit idem essentia ed esse». Dio, innanzi tutto, è la sua stessa essenza. Mentre nelle realtà create, ogni cosa è quella determinata cosa in virtù dell’essenza ch’essa attua (ad es., l’uomo è uomo perché attua ciò ch’è proprio dell’umanità), ma non per questo è tutta e solo quell’essenza che attua (l’uomo, pur essendo uomo, non è l’umanità: tanto che vi sono più uomini che attuano l’essenza dell’umanità); Dio è tutta e solo la sua deità, tanto che in Lui «non differt suppositum et natura»: e cioè il soggetto che è Dio e la deità ch’Egli è. Con ciò non so positivamente che cosa sia la deità, ma so ch’essa definisce l’essenza di Dio in un modo ch’è proprio a Dio e a Dio soltanto. Ciò acquisito, si può fare ancora un passo innanzi. Affermare che Dio è la sua essenza significa infatti dire, a ben vedere, che Dio è per sé ciò che è, e cioè che il suo essere è identico alla sua essenza. Se Dio non fosse per sé ciò che è (= la sua essenza), dovrebbe ricevere l’essere da altro: il che è contraddittorio. Perché Dio è appunto colui che è per sé e che, come tale, non riceve l’essere da altri per partecipazione: «id ergo quod subsistit in Deo, est suum esse»10. In Dio, dunque, v’è identità tra il soggetto che sussiste (suppositum), l’essenza per cui egli è ciò che è (essentia) e l’atto d’essere in virtù del quale egli sussiste (esse in quanto actus essendi). Con ciò s’è esplicitato il significato ontologico, e cioè la verità, esibita dalla semplicità di Dio: egli è altro da tutto ciò che è distintamente da lui (cfr. articolo 8), in quanto appunto “è” in quanto Dio. Varrebbe la pena soffermarsi almeno un poco sulle nozioni metafisiche che Tommaso utilizza con estrema finezza, lungo lo snodarsi della quaestio 3, per esprimere l’esse divino nella sua costitutiva simplicitas. Ne offro soltanto un cenno esemplificativo. Tommaso esclude che, propriamente, si possa parlare di Dio come sostanza, infatti Il nome di sostanza non significa soltanto ciò che è per sé essere (…) ma significa l’essenza cui compete di essere così, e cioè di essere per sé: il quale essere, tuttavia, non è la sua stessa essenza. E così è evidente che Dio non è nel genere della sostanza11.
La precisazione è assai importante, e innovativa rispetto alla tradizione diventata canonica in una certa teologia cristiana. Tommaso puntualizza infatti che il concetto di substantia implica l’esse per se, ma non l’esse quod est ipsa
S.Th., q. 3, a. 4. S.Th., q. 3, a. 5: «substantiae nomen non significat hoc solum quod est per se esse (…) sed significat essentiam cui competit sic esse, idest per se esse: quod tamen esse non est ipsa eius essentia. Et sic patet quod Deus non est in genere substantiae». 10 11
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eius essentia. Per questo, propriamente, non si può parlare di Dio nei termini della sostanza. Giustamente, dunque, Dionigi ha affermato che la deità è “sovrasostanziale”; ma essa, comunque, non è del tutto ineffabile (come afferma lo stesso Dionigi): perché è, ed è il suo stesso essere. Tommaso attinge così un punto di vista che supera tanto la prospettiva meramente sostanzialistica quanto quella ultimamente apofatica, indicando un livello d’essere ch’è proprio di Dio e di Dio soltanto. In tal modo, ante litteram, risponde alla critica moderna all’onto-teo-logia.
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3. L’analisi del percorso sin qui proposto da Tommaso ci conforta nella fondata supposizione ch’egli non premetta un De Deo uno in cui sia definita metafisicamente l’essenza divina per poi accostarvi un De Deo trino, derivato dalla rivelazione, ma che non altera la cornice metafisica già tracciata. Tutt’altro. Tommaso, piuttosto, delinea le condizioni d’una corretta conoscenza di Dio in quanto Dio (il quomodo sit o meglio il quomodo non sit), per innestare poi, su questo sfondo, la trattazione delle Persone divine in quanto oggetto della rivelazione che Dio ha fatto di sé, rivelazione che prelude alla conoscenza dell’essenza di Dio svelata in patria. In altri termini: la trattazione circa l’essenza e quella circa le Persone non delimitano due ambiti distinti della conoscenza di Dio, ma due momenti articolati e progredienti dell’ordo disciplinae – prima l’essenza di Dio in negativo (il quomodo non sit), poi le Persone divine in cui, a partire della rivelazione, viene svelato qualcosa del mistero di Dio. Rimandando la conoscenza svelata dell’essenza divina alla visio beatorum. Secondo quest’ordine, ci si potrebbe anzi aspettare una qualche determinazione in positivo dell’essenza divina dopo la trattazione delle Persone. Tommaso non lo fa ex professo e in extenso, ma è conscio del problema. Lo mostra, con tutta evidenza, nella quaestio 12 («Quomodo Deus a nobis cognoscatur») l’articolo 13: «utrum per gratiam habeatur altior cognitio Dei quam ea quae habetur per rationem naturalem». Tommaso parte da un’obiezione forte, che trae da Dionigi nel De Mystica Theologia. Secondo l’Areopagita, si deve ritenere che chi è meglio unito a Dio in questa vita, gli è unito come a colui che è del tutto (omnino) sconosciuto. Così si deve dire persino di Mosè, che pure ha ricevuto un grado sublime nella conoscenza di rivelazione. Ma – ecco l’obiezione – esser congiunti a Dio ignorando di lui il quid sit, l’essenza, è ciò che avviene anche per mezzo della semplice ragione. E pertanto, per mezzo della rivelazione, Dio non sarebbe conosciuto più pienamente di quanto avviene per mezzo della ragione! L’obiezione è ben calibrata, perché tocca una questione cruciale in ordine alla conoscenza di Dio. Tommaso sa bene che non si può semplicisticamente equiparare la conoscenza di Dio come “non conosciuto” di cui parla Dionigi, con la non conoscenza di Dio cui approda la ragione naturale. Nel primo caso, si tratta di un’unione “mistica” che trascende la facoltà della ragione; nel secondo, del semplice arrestarsi della ragione sulla soglia della trascendenza divina. Eppure, nonostante il rispetto che nutre nei confronti della mistica apofatica di Dionigi, Tommaso non ha timore di mostrare l’incongruenza che
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deriva dal ritenere la tenebra della non conoscenza come il grado sommo dell’ascesa verso Dio resa possibile dalla rivelazione. Se così fosse, in fin dei conti, non vi sarebbe alcun guadagno sostanziale nella conoscenza del mistero di Dio per mezzo della rivelazione, rispetto alla conoscenza di lui ottenibile per mezzo della ragione. L’unione con Dio, che è certo presente nel pati divina, e cioè nella conoscenza mistica di Dio di cui parla Dionigi, non avrebbe nessuna ripercussione sul livello della conoscenza razionale di Dio e sulla comunicazione di essa. La mistica apofatica, in una parola, non può esaurire il dono della grazia della rivelazione, e proprio in base al principio che essa attua: gratia perficit naturam12. Si fa così strada, rispetto al primato dell’apofasi della tradizione dionisiana, una consapevole e serena fiducia nella possibilità di conoscenza e comunicazione della ratio fide illustrata, in quanto tale fondata sull’evento stesso della rivelazione. Così infatti Tommaso risponde all’obiezione: Sebbene per la rivelazione della grazia non conosciamo in questa vita l’essenza di Dio, e in questo senso ci uniamo a lui quasi come a chi è sconosciuto, tuttavia lo conosciamo in modo più pieno, perché ci si manifestano opere di lui più numerose e più eccellenti; e perché in forza della rivelazione divina gli attribuiamo delle perfezioni che la ragione naturale non può raggiungere, come, ad esempio, che Dio è trino e uno13.
Il testo è pregnante e, a mio avviso, decisivo. Per prima cosa, Tommaso ribadisce che – com’egli stesso ha affermato e ampiamente argomentato – in questa vita non si può conoscere il quid est di Dio, benché per la fede si sia congiunti a Lui quasi ignoto. Da notare, innanzi tutto, la formidabile tensione che così viene affermata: a Dio si è realmente congiunti per mezzo della grazia di rivelazione (fides non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem, afferma in altro luogo Tommaso14), ma senza conoscerlo ancora “faccia a faccia” (cfr. 1 Cor 13,12), tanto che egli resta quasi – non omnino, del tutto, come
12 «Cum enim gratia non tollat naturam, sed perficiat, oportet quod naturalis ratio subserviat fidei (Poiché la grazia non soppianta la natura, ma la perfeziona, è necessario che la ragione naturale si ponga a servizio della fede)» (S.Th., I, q. 1, a. 8, ad 2um); «Per lucem divini Verbi non evacuatur mens hominis, sed potius perficitur (Per mezzo della luce del Verbo divino non è evacuata la mente dell’uomo, ma piuttosto perfezionata)» (S.Th., III, q. 5, a. 4, ad 1um). È nota, e significativa, la risposta che Tommaso dava indirettamente a coloro che gli rimproveravano d’inquinare il vino della rivelazione con l’acqua della ragione (aristotelica): «coloro che usano documenti filosofici commentando la Sacra Scrittura in ossequio alla fede, non mischiano l’acqua al vino, ma convertono l’acqua in vino» (In Boetium De Trinitate, “Opuscula omnia”, LXX, 120, D); cfr. anche Aa.Vv., San Tommaso Teologo, 1a sez., “Ragione e fede” (A. Lobato; G.F. Ponferrada; I. Gambetti; P. Orlando), Libr. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1995. 13 S.Th., I, q. 12, a. 13, ad 1: «licet per revelationem gratiae in hac vita non cognoscamus de Deo quid est, et sic ei quasi ignoto coniungamur; tamen plenius ipsum cognoscimus, inquantum plures et excellentiores effectus eius nobis demonstrantur; et inquantum ei aliqua attribuimus ex revelatione divina, ad quae ratio naturalis non pertingit, ut Deum esse trinum et unum». 14 Cfr. S.Th., II-II, q. 1, a. 2, ad 2.
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per Dionigi, ma solo quasi – sconosciuto. Non si tratta d’un fatto quantitativo (qualcosa ci è conosciuto di Lui, qualcos’altro no), ma qualitativo: la conoscenza reale, per mezzo della fede, non è ancora la conoscenza svelata della visione. Ma concesso questo, Tommaso precisa che la conoscenza di fede è altra da una conoscenza meramente negativa. L’essere realmente uniti a Dio, nella grazia, non può non avere delle conseguenze sul piano della conoscenza di Dio: e cioè sull’essere introdotti, anche con la ragione, al di là della soglia del mistero in cui si celano il quid est e il qui est di Dio stesso. Ciò avviene secondo due profili. In primo luogo, perché, nella grazia della rivelazione, ci sono manifestati più numerosi e più eccellenti effetti (dell’agire) di Dio in noi: e – secondo il noto principio scolastico – dalla qualità e dalla natura dell’effetto si può conoscere qualcosa della causa che l’ha posto in essere. In secondo luogo, «inquantum ei aliqua attribuimus ex revelatione divina, ad quae ratio naturalis non pertingit, ut Deum esse trinum et unum». Non è un caso, ovviamente, che tra tutte le verità inaccessibili alla ragione, e offerte dalla rivelazione, Tommaso ricordi proprio quella della trinità e unità di Dio: perché essa, più d’ogni altra, introduce nel cuore del mistero di Dio. Né penso sia un caso che Tommaso metta qui in rapporto l’inconoscibilità, nella vita terrena, dell’essenza di Dio (oggetto del primo momento del De Deo), con l’affermazione di Dio trino e uno (oggetto del secondo momento): quasi a dire che una prima, incipiente ma reale, introduzione nel mistero di Dio si ha appunto con la rivelazione della Trinità. Lo mostrerà ampiamente la successiva trattazione delle Persone divine. In essa, grazie alla rivelazione e rispettando la trascendenza del mistero, la ratio fide illustrata sarà chiamata a penetrare a fondo nel mistero del Dio trinitario e a dirlo in parole umane, a comunicarne cioè la verità mostrandone la superiore intelligibilità. Tanto che Tommaso – in questo pareggiato soltanto da Duns Scoto e Antonio Rosmini – offrirà una straordinaria illustrazione ontologica delle processioni trinitarie e delle Persone divine, nell’unicità e unità dell’essenza, quali relationes subsistentes: poiché «relatio in divinis (…) est ipsa divina essentia: unde est subsistens, sicut essentia divina subsistit»15. Una verità che sarà confermata dall’experientia fidei della mistica di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Ora, dire che «relatio in divinis (…) est ipsa divina essentia» e che tale «relatio subsistens» è, per sé, il sussistere del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, non è davvero poco, in ordine alla contemplazione e alla comunicazione dell’Esse divino. 4. Ricordando come s’interrompe la stesura della Summa, verrebbe spontaneo domandarsi se Tommaso, alla fine, non abbia però perso fiducia nella possibilità della conoscenza vera e comunicabile, già in questa vita, del miste15 S.Th., I, q. 29, a. 4; cfr. G. Lafont, Peut-on connaître Dieu en Jésus Christ?, Cerf, Paris 1969, 107-167; H.C. Schmidbaur, Personarum Trinitas. Die trinitarische Gotteslehre des heiligen Thomas von Aquin, EOS Verlag, St. Ottilien 1992.
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ro intimo di Dio in quanto rivelato. Al fido segretario e confessore Reginaldo, che gli chiedeva il motivo del suo silenzio a seguito dell’esperienza mistica da lui vissuta in una celebrazione dell’Eucaristia a Napoli, nel dicembre del 1273, Tommaso infatti risponde: «Raynalde non possum… non possum quia omnia quae scripsit videntur mihi palehae respectu earum quae vidi et revelata sunt mihi»16. Il non possum ripetuto a Reginaldo sembrerebbe riproporre l’ultima parola, in ordine alla conoscenza di Dio, proferita da Dionigi: il primato dell’apofasi che decreta il fallimento dell’impresa perseguita nella Summa. Ma non è così. Anzi, a mio avviso è proprio il contrario. Il collegamento con l’Eucaristia non è né casuale né accidentale. È l’irruzione, nel pensiero di Tommaso, della carne crocifissa e risorta di Cristo. Non che sino a questo momento l’Eucaristia fosse estranea al suo pensare: come ispirazione, come sorgente, come contenuto, persino come humus dell’intelligenza teologica. Tutt’altro. Ma, forse, non lo era, radicalmente, come “forma” del pensare. Proprio questo denuncia l’evento che interrompe la costruzione del pensiero di Tommaso. Egli non scrive più non perché è inutile o per sé impossibile comunicare ciò che ha contemplato, ma perché sono tanto grandi e luminose le realtà che gli sono state rivelate – per la comunicazione con la carne glorificata del Cristo ricevuta nell’Eucaristia –, che non sa trovare le parole giuste per dirle. È come Mosè che contempla da lontano, dal monte Nebo, la terra promessa, consegnando ad altri il testimone. E cioè il compito di trovare o, meglio, di ricevere da Dio la luce e le parole adatte per contemplata aliis tradere. Secondo alcuni autori, infatti, dichiarando “paglia” ciò che ha scritto, San Tommaso si riferirebbe in verità al senso letterale, che appunto si conveniva definire “paglia”, lasciando intuire che, al di là di esso, si dà un più profondo “senso spirituale”17. È significativo, inoltre, che, parlando della Trinità nel testo che più sopra abbiamo citato, spontaneamente Tommaso menzioni prima la verità secondo cui Dio è trino e poi quella secondo cui è uno18. La Trinità di Dio – sembra così suggerire – induce a una comprensione nuova, in positivo, del suo essere e del suo essere uno già conosciuto per via di ragione: ma solo negativamente. San Tommaso non svolge quest’intuizione. Ma è importante ch’essa sia qui esplicitamente menzionata. Nella trattazione di Tommaso si staglia dunque, e a tutto tondo, la necessità d’un organico rapporto tra ontologia e rivelazione, e in entrambe le 16 «Padre, perché hai cessato un’opera tanto grande che hai cominciato a lode di Dio e a illuminazione del mondo? A lui rispose frate Tommaso: Reginaldo, non posso… non posso, perché tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia, rispetto a ciò che ho visto e che mi è stato rivelato» (Processus, n. 79, 376s). 17 Cfr. A. Nichols, Forward a B. Forte, The Silence of Thomas, New City, London 2003. 18 Curioso notare come, nella tr. it. a cura dei Domenicani italiani (Casa Editrice Adriano Salani, Bologna 1952), il riferimento all’unum preceda il trinum (cfr. S.Th., I, q. 12, a. 13, ad 1). Nonostante Tommaso – si direbbe!
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direzioni: quella che va dalla prima alla seconda e quella che ritorna dalla seconda alla prima. E ciò, oltre il resto, senza incappare nel cortocircuito d’una facile quanto sterile onto-teo-logia. Il fatto è che, per Tommaso, l’ontologia dell’Essere divino esibisce con pertinenza la sua conformità all’intentio rationis in quell’esito apofatico (il quomodo non sit di Dio) che non solo apre la ragione, nella sua massima tensionalità, all’attesa desiderante del darsi della rivelazione, ma la fa capace di riconoscere quest’ultima precisamente come rivelazione del Dio ignoto cui essa, da sé, è pervenuta. D’altra parte, una volta accolta per la fede la grazia della rivelazione, la ratio fide illustrata può, anzi è senz’altro chiamata a inoltrarsi nel mistero rivelato di Dio, facendo sbocciare l’ontologia dell’essere in un’ontologia della Trinità che, proprio perché s’alimenta ed è normata dalla rivelazione del Deus Trinitas è al massimo grado un’ontologia realistica, che tratta dell’essere di Dio e dell’essere creato “sub ratione Dei”: che altro non significa, in concreto, se non “sub ratione Trinitatis in Christo”. Il movimento dell’ontologia (filosofica) dell’essere e quello dell’ontologia (teologica) della Trinità, pur restando distinti, per oggetto e per metodo, son dunque armonicamente convergenti e per più versi comunicano l’uno con l’altro. In verità, l’ontologia dell’essere di Tommaso, non solo – almeno nella Summa Theologiae – è eseguita all’interno d’una prospettiva teologica, ma di fatto giunge alle sue più alte affermazioni non senza l’influsso, almeno me diato, della rivelazione19. Così come l’esercizio ardito dell’intelligenza ontolo gica in sinu Trinitatis, tempera la sua intrinseca dimensione catafatica, evitando ogni tentazione di blasfema hybris, grazie alla netta consapevolezza del dono di grazia da cui e in virtù di cui argomenta, e dell’ineffabile trascendenza del mistero di Dio, che s’aprirà alla piena contemplazione dell’uomo solo in patria. Anche se pure allora, in patria, nella visio facie ad faciem, la creatura contemplerà l’essenza divina totam sed non totaliter20. E tuttavia il silenzio finale di Tommaso denuncia che l’equilibrio raggiunto, con un guadagno che va oltre l’esito apofatico della teologia di Dionigi e il risultato d’intelligenza teologica cui era pervenuto Agostino21, e che resta un’acquisizione imperdibile del pensiero cristiano, va ulteriormente messo in gioco, per essere così ritrovato nuovo, secondo la dinamica pasquale di 19 San Tommaso, nelle quaestiones da 2 a 26 della Ia pars della Summa Theologiae, consacrate alla conoscenza dell’esistenza e dell’essenza di Dio, mostra a chiare lettere che l’intelligenza umana, a ciò abilitata dalla rivelazione divina, può e dev’essere condotta a «sviluppare la presa di possesso della sua propria facoltà razionale sino a raggiungere di fatto ciò a cui di diritto la ragione naturale dell’uomo ha capacità di accedere» (D. Dubarle, Dieu avec l’être. De Parmenide a Saint Thomas. Essai d’ontologie théologale, Beauchesne, Paris 1986, 268). 20 Cfr. S.Th., I, q. 12, a. 7: «Qui igitur videt Deum per essentiam, videt hoc in eo, quod infinite existit, et infinite cognoscibilis est: sed hic infinitus modus non competit ei, ut scilicet ipse infinite cognoscat». 21 Cfr. il mio L’anima e il suo oltre. La teologia trinitaria di Agostino tra interiorità e reciprocità, in Aa.Vv., Luoghi del pensare. Contributi in onore di Vincenzo Vitiello, Associazione Culturale Mimesis, Milano 2005, 117-128.
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morte/risurrezione propria dell’esistenza e del pensiero cristiani. Quale la via da percorrere, meglio la strettissima “cruna dell’ago” (cfr. Mt 19,24) da attraversare per questo col pensiero? Penso sia precisamente la via della carne donata del Crocifisso/Risorto, “sapienza e potenza” (cfr. 1 Cor 1,24) di Dio, secondo l’enunciato inequivocabile dell’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinti: «I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato» (2,11-12). Paolo parla di cháris, e cioè di quanto è donato gratuitamente per rivelazione e che, come tale, va conosciuto, anzi visto (eidénai è il verbo qui usato); e ciò ch’è conosciuto, in quanto tale può e dev’essere comunicato: «Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, collegando insieme realtà spirituali per mezzo di pensieri/parole spirituali (didaktoîs lógois pneúmatos, pneumatikoîs pneumatikà synkrínontes)» (2,13). Non è proprio questa la soglia del contemplari et contemplata aliis tradere? Sul limitare di essa conduce la straordinaria meditazione ontologica sulla Trinità di Tommaso d’Aquino. Francesco d’Assisi, intanto, a La Verna, l’aveva attraversata accogliendo nella sua carne le stigmate del Crocifisso e facendo esclamare al suo discepolo teologo, Bonaventura: «Nemo intrat recte in Deum nisi per Crucifixum»22.
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Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, Prol., 3.
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1. Fiat voluntas tua «Sia fatta la tua volontà», pregano i cristiani. Pregano così come aveva insegnato a pregare colui che i discepoli chiamavano «Signore». Che gli uomini debbano pregare seguendo in tal modo l’insegnamento di Gesù è scritto nel Vangelo di Luca (Lc XI, 1-4), è scritto nel Vangelo di Matteo (Mt VI, 7-13). Ma, a proposito di questa preghiera, ci sono differenze nella sinossi dei due Vangeli. Una, soprattutto, salta agli occhi: nella versione di Luca manca il passo che recita, appunto, «sia fatta la tua volontà». È forse un caso? O non piuttosto il segno che proprio questo passo comporta dei problemi? Che cosa vuol dire infatti, precisamente, una tale formulazione, con il riferimento a una «volontà» divina? Se tentiamo una traduzione più letterale della locuzione evangelica «genetheto to thelema sou», potremmo vedervi inteso qualcosa come: «si generi, maturi, si compia il tuo desiderio, ossia il tuo volere». Il vocabolo greco ‘thelema’, comunemente tradotto con ‘volontà’, possiede infatti un’assonanza ben precisa con il termine ‘thelemos’: una parola usata, anche, per esprimere l’apporto fecondante del fiume Nilo. Si pregherebbe dunque affinché la fecondità divina, nei confronti del mondo e dell’uomo, si realizzi pienamente. Ma un tale approccio linguistico, in questo caso, è davvero corretto? La nostra indagine, seguendolo, può davvero condurre anch’essa a esiti fecondi? Assumendo questa prospettiva, infatti, ci muoviamo pur sempre all’interno di un contesto lessicale greco: un contesto che, lo sappiamo bene, non era certo quello della lingua parlata da Gesù. Lasciamo da parte, dunque, l’analisi terminologica e cerchiamo di comprendere i contenuti concettuali che le parole della preghiera, nella versione di Matteo, vogliono esprimere. Ma anche qui, subito, nascono domande ben precise. Infatti può fare problema, anche da un punto di vista filosofico, introdurre un concetto come quello di «volontà di Dio». L’accusa di antropomorfismo può infatti sempre riproporsi. E se anche ciò non accadesse, in che modo si dovrebbe pensare un Dio che «vuole»? Che cosa significa, cioè,
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parlare di un «volere divino»? E come bisognerebbe determinare il rapporto, che la preghiera intenderebbe appunto definire, tra le richieste dell’uomo e la volontà di Dio? Non dovrebbe l’uomo, semplicemente, fare la volontà di Dio, senza chiedere a sua volta che essa sia fatta, non dovrebbe soltanto adottare un atteggiamento di mera sottomissione? In effetti, in una prospettiva cristiana, il tentativo di chiedere a Dio qualcosa, di fare in modo cioè che la sua volontà venga inclinata in una certa direzione, sembra destinato al fallimento. Non tanto perché Dio è infinitamente lontano dall’uomo, non tanto perché la sua «volontà» è frutto di una decisione inattingibile dalla comprensione umana: quanto perché – come appunto recita un altro passo di Matteo (Mt XI, 8), anch’esso non presente nel parallelo contesto di Luca – «il vostro Padre sa di quali cose avete bisogno ancora prima che gliele domandiate». Ma se le cose stanno così, che senso ha allora il pregare? E che funzione ha una preghiera che non sia soltanto preghiera di lode, che cioè non esprima, unicamente, venerazione per Dio da parte dell’uomo? Molte, come si vede, sono le questioni che questo semplice versetto del Padre nostro – con l’espressione fiat voluntas tua – solleva. Cercherò di affrontarle scegliendo un particolare punto di vista: quello filosofico e, specificamente, quello di una filosofia delle religioni. Senza trascurare, però, il confronto che è possibile stabilire sul piano dell’esperienza religiosa fra il cristianesimo e le altre religioni. Inizierò infatti con una comparazione fra il Padre nostro cristiano, considerato nelle varianti che intercorrono fra i Sinottici, e il Qaddish ebraico, assunto in alcune fra le sue differenti versioni1. 2. Qaddish e Padre nostro
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È evidente, infatti, il legame tra l’antica preghiera ebraica, ora usata principalmente nella liturgia funebre2, e questa preghiera cristiana. Soprattutto per quanto riguarda gli elementi di fondo del Qaddish: la lode e la benedizione del Nome di Dio. Anche se poi il Qaddish si muove propriamente in tre direzioni specifiche, a partire da tre particolari riferimenti: la Torah, nella misura in cui una tale preghiera è dossologia di chiusura dello studio della Torah stessa; la ‘Avodah, il culto, in quanto è testo inserito nella liturgia quotidiana; e infine la dimensione delle opere di misericordia, dal momento che esso viene usato come preghiera per i defunti. 1 Per la traduzione di alcune delle versioni del Qaddish e per la storia di questa preghiera, «non completamente chiarita, […] lunga, complessa e tortuosa» si veda B. Carucci Viterbi, Il Qaddish, Marietti, Genova 1991. Il «rapporto di filiazione» del Padre Nostro dal Qaddish è sottolineato da P. Stefani, Il Padre Nostro, Marietti, Genova 1991, pp. 30-32. 2 Sui diversi caratteri della preghiera ebraica cfr. C. Di Sante, La preghiera di Israele. Alle origini della liturgia cristiana, Marietti, Genova 1985. Dello stesso autore, sul nostro argomento, si veda Il Padre nostro. L’esperienza di Dio nella tradizione ebraico-cristiana, Cittadella, Assisi 1995.
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Così, nel Qaddish, troviamo la santificazione del Nome di Dio, la preghiera per la venuta del Regno, l’invocazione a che la supplica della Casa di Israele venga accolta davanti al loro «Padre che è in cielo». E poi, analogamente a quanto viene detto nel Padre nostro a proposito dei rapporti degli uomini fra di loro – «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» – viene invocata la pace e la buona vita «per noi e per tutto Israele»3. Colpisce, certo, questa vicinanza sia nelle parole usate che nelle richieste espresse. E colpisce altresì il fatto che, come nel Padre nostro, anche nel Qaddish Dio è invocato con il nome di «Padre». Nel Qaddish, poi, c’è anche un riferimento alla «volontà» divina: ma è quella secondo la quale Dio ha creato il mondo, non già quella con la quale gli uomini possono sperar di interagire. Tuttavia, ciò che differenzia decisamente il Qaddish dal Padre nostro è il fatto che solo nella preghiera cristiana a Dio viene dato del «tu». La preghiera del Padre nostro è volta alla seconda persona; invece nel Qaddish la santificazione del nome, per ovvi motivi liturgici, è fatta alla terza persona. Anche se nello stesso Qaddish Dio è chiamato «Padre». Ma è un padre del quale si parla, non al quale ci si rivolge. Ciò comporta conseguenze non secondarie riguardo al problema che c’interessa discutere: il problema della «volontà» divina nel suo rapporto con la volontà umana che la prega. Nel Padre nostro, infatti, questa «volontà» di Dio non è più qualcosa di stabilito nella creazione del mondo, ma è qualcosa con la quale è possibile interagire. Segno di una tale possibilità è appunto il fatto che a Dio si dà del tu. 3. Dare del tu a Dio Il passaggio dalla terza alla seconda persona che si verifica tra il Q addish e il Padre nostro individua infatti due differenti modalità di relazione fra l’uomo religioso e il suo Dio, modalità che l’atto di preghiera rende possibile e mette in opera. Per un verso si tratta del modo in cui, mediante parole, viene reso onore a Dio. Per altro verso emerge, accanto alla preghiera di riconoscimento e di santificazione, un’invocazione mediante la quale l’uomo si rivolge direttamente a Dio nelle forme della chiamata e della richiesta. Si profilano così due caratteri specifici della preghiera, intesa come quella rela-
3 Così recita infatti, nelle sue parti principali, il Qaddish shalem, cioè il Qaddish intero: «Il Suo grande Nome sia magnificato e santificato nel mondo che ha creato secondo la Sua volontà; e realizzi il Suo regno durante la vostra vita e nei vostri giorni e durante la vita di tutta la casa di Israele, presto e in un tempo vicino. […] Sia accolta la preghiera e la supplica di tutta la casa di Israele davanti al loro Padre che è in cielo. […] Vi sia una grande pace dal cielo e una buona vita per noi e per tutto Israele. […] Colui che stabilisce la pace nelle Sue altezze, Egli con la Sua misericordia stabilisca la pace per noi e per tutto Israele […]».
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zione rituale fra uomo e Dio che è mediata soprattutto dalla parola. Il primo carattere si esprime nella lode; il secondo è riconducibile alla domanda4. Lode e domanda, rendimento di grazie e formulazione di una richiesta sono dunque due dei modi in cui può essere vissuto, da parte dell’uomo, il rapporto con Dio. Si tratta di un Dio concepito come essere personale. E appunto come a una persona, che ha le caratteristiche del «padre», ci si rivolge – rendendo grazie e domandando – nella preghiera del Padre nostro. Questi aspetti del pregare possono essere tuttavia compresi solo all’interno di uno sfondo ben preciso: lo sfondo che è proprio dell’atteggiamento religioso. Un tale atteggiamento si contraddistingue infatti per il fatto che – come lo stesso termine ‘religio’, nella etimologia di Lattanzio, specificamente indica5 – in esso viene messa in opera una specifica relazione fra uomo e Dio. L’uomo religioso, in altre parole, si concepisce come un essere costantemente aperto, estroflesso, rivolto al di là di sé per la realizzazione di se stesso. Questo «al di là», questa «trascendenza» dell’uomo non è tuttavia qualcosa di mondano (come lo interpreta tutta la tradizione filosofica da Aristotele a Sartre), né trova la sua piena realizzazione in un’alterità etica, cioè nel volto altrui (come ad esempio accade nel pensiero di Levinas). Si tratta invece di un «oltre» che mira a qualcosa di non oggettivabile, di non tematizzabile. Nella struttura dell’uomo religioso, in altre parole, è insito un puro far segno. Tuttavia il modo in cui con il Padre nostro viene a configurarsi, nella forma della preghiera, il legame religioso provoca una serie di interrogativi. Il passaggio dalla terza alla seconda persona, come dicevo, introduce infatti un legame diretto, «filiale», tra l’uomo religioso e il suo Dio. Ma, appunto perciò, apre la possibilità di chiedere a Dio qualcosa di particolare, d’impetrare la sua grazia, di «forzare», quasi, il suo «volere»6. Emerge in altre parole uno specifico modo in cui la relazione fra uomo e Dio può venire a configurarsi: la possibilità, per l’uomo, di rivolgersi a Dio con richieste; d’incidere, addirittura, su ciò che Dio può compiere. L’uomo, insomma, sembrerebbe capace di domandare qualcosa a Dio, in modo tale che la «volontà» divina possa orientarsi, a seguito di questa domanda, in un’altra direzione rispetto a ciò che precedentemente aveva stabilito. L’uomo, insomma, può voler incidere su questa «volontà». E dunque la relazione fra uomo e Dio viene qui ad essere pensata come una relazione fra 4 La fecondità di quest’ultimo aspetto del pregare è contestata da Emmanuel Levinas: cfr. E. Levinas, De la prière sans demande. Note sur une modalité du judaïsme, in «Les Études Philosophiques», XXXV (1984), n. 82, pp. 157-63, trad. it. Della preghiera senza domanda. Nota su una modalità dell’ebraismo, in Aa.Vv., Filosofia religione nichilismo. Studi in onore di Alberto Caracciolo, Morano Editore, Napoli 1988, pp. 57-65. Sull’argomento si veda ora F. Rossi, Il problema filosofico della preghiera in Emmanuel Levinas, Angeli, Milano 2007. 5 Divinae Institutiones, IV, 28. 6 Come viene detto da Franz Rosenzweig nell’Introduzione alla Parte Terza della sua opera principale, La Stella della redenzione, ora in Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. II, Der Stern der Erlösung, con un’Introduzione di R. Mayer, Nijhoff, Dordrecht 1976, trad. it. a cura di G. Bonola, Vita & Pensiero, Milano 2004.
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due volontà. Ma si può davvero rintracciare una «volontà» in Dio? Non si tratta piuttosto di un discorso umano, troppo umano? Non si ricade forse – come già prima accennavo – nell’antropomorfismo? 4. Il problema dell’antropomorfismo Non è il caso qui di ricordare il ruolo importante avuto nella storia del pensiero religioso, filosofico e teologico dalla nozione di ‘volontà’, in quanto nozione specificamente attribuita a Dio. Si tratta, a ben vedere, di una delle conseguenze di quel carattere personale che a Dio, appunto, viene riconosciuto. Né conviene approfondire i differenti significati che, anche quando è applicato all’uomo, il termine ‘volontà’ assume dal mondo antico fino ai nostri giorni7. Desidero piuttosto approfondire lo sfondo di pensiero che consente l’attribuzione a Dio di questo concetto. Desidero affrontare, cioè, la nozione di ‘antropomorfismo’ come specifico modo in cui il rapporto fra l’uomo religioso e il suo Dio può venire a configurarsi. Ciò che conta, anche qui, è infatti il rapporto tra Dio e uomo, che pure nel nostro contesto viene a emergere e, soprattutto, il senso, la direzione secondo cui risulta orientato un tale rapporto. In altre parole dobbiamo chiederci: come dev’essere inteso il passo di Gn 1, 27, secondo cui «Dio creò l’uomo simile a sé, a immagine di Dio lo creò»? Non è piuttosto l’uomo, come ci ha mostrato tutta una tradizione filosofica da Senofane di Colofone a Feuerbach, a crearsi un Dio a propria immagine e somiglianza? Ma se le cose stessero così, la volontà in gioco sarebbe solo quella dell’uomo, non quella di Dio. E il fiat voluntas tua sarebbe qualcosa la cui attuazione dipenderebbe, in ultimo, solo dal potere dell’uomo stesso. Per l’uomo religioso, però, le cose non stanno affatto in questi termini. Facciamoci aiutare, per chiarire meglio il problema, da un pensatore ebreo del Novecento, Franz Rosenzweig. In una sua recensione alla voce Antropomorfismo pubblicata nell’Encyclopaedia Judaica Rosenzweig afferma in maniera molto decisa che la parola della Bibbia dev’essere «presa sul serio». Giacché – cito – «i cosiddetti antropomorfismi sarebbero […] in verità teomorfismi: non è che noi ci figuriamo che Dio vede, ascolta, parla, si adira, ama, perché noi vediamo, ascoltiamo, parliamo, ci adiriamo, amiamo: bensì noi possiamo vedere, ascoltare, parlare, adirarci, amare, unicamente perché Dio vede, ascolta, parla, si adira, ama»8.
Per un tale approfondimento mi sia consentito rinviare alla voce Volontà da me redatta per la Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006. 8 F. Rosenzweig, Nota su «Antropomorfismo» (1928), ora in Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, vol. III., Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, hrsg. v. R. u. A. Mayer, Nijhoff, Dordrecht 1982, trad. it. di G. Bonola in La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991. 7
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Non si tratta di un discorso manifestamente ingenuo. Ciò che entra in gioco, qui, è l’esperienza religiosa in quanto tale, e il senso del rapporto fra Dio e uomo. Continua infatti Rosenzweig: «Gli ‘antropomorfismi’ della Bibbia sono sempre affermazioni su incontri umano-divini. Dio non viene mai […] descritto. […] Non c’è nessuna delle affermazioni della Bibbia, neppure delle più pazzesche e scandalose, che non possa realizzarsi oggi come un tempo nell’incontro con il creato o con la creatura». È l’uomo dunque, nella prospettiva religiosa della tradizione ebraico-cristiana, a concepire se stesso, propriamente, a partire da come Dio è. E Dio è proprio nei modi in cui si è rivelato, cioè nelle forme dell’incontro. Gli antropomorfismi sono i segni di un incontro avvenuto, e sempre possibile, fra Dio e uomo. Giacché, qui, la dimensione dell’incontro racchiude in sé, comunque, un’eccedenza positiva, nella quale si riconferma lo specifico carattere estroflesso dell’uomo nella relazione religiosa. 5. Forzare la volontà di Dio o sottomettersi ad essa
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L’antropomorfismo, dunque, è il prezzo che l’uomo religioso deve pagare per la realizzazione di un vero e proprio incontro con Dio. Si tratta di quel Dio che, rivelandosi, appunto viene incontro all’uomo: nella parola con cui lo interpella, più e più volte, nell’Antico Testamento; nella Parola che si fa carne secondo la prospettiva del Nuovo. Con questa sottolineatura, però, non è affatto chiarito il significato del fiat voluntas tua. Anzi: potremmo dire che, proprio rispetto a quest’interpretazione dell’antropomorfismo, la preghiera – la possibilità cioè di rivolgersi a Dio con il «tu» – inverte il senso del rapporto, rovescia la direzione dell’iniziativa. La questione infatti non concerne qui il manifestarsi di Dio all’uomo in termini umani, ma la volontà dell’uomo di incidere, con la preghiera, sull’azione di Dio. E tuttavia questo aspetto della preghiera di relazione, della preghiera del «tu», risulta espresso, nel dettato del Padre nostro, in una forma paradossale. Lo sappiamo bene. Il rivolgersi a Dio con il «tu» può anche comportare l’intenzione di chiedere qualcosa riguardo a ciò che Dio può fare nel suo rapporto con l’uomo. E dunque l’uomo religioso, dopo aver pregato affinché il nome di Dio sia santificato e il regno di Dio possa venire sulla terra, può ben domandare a Dio stesso che gli venga dato il pane quotidiano, che gli siano rimessi i debiti, che non sia indotto in tentazione. Ma al di là di tutto questo, ciò che nel Padre nostro si chiede, soprattutto, è che si compia la «volontà» divina. Di più. Pare che tutte le altre richieste della preghiera siano in qualche modo subordinate a questa condizione fondamentale: che, appunto, la «volontà» divina sia fatta. Infatti, una volta che ci si sia posti in sintonia con il «volere» divino, volendo che la «volontà» di Dio si generi, maturi e trovi compimento in cielo e sulla terra, di null’altro l’uomo religioso pare aver più bisogno. Giacché, sperimentando davvero il legame religioso, egli non manca
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di nulla. E dunque, alla fine, può sembrare addirittura inutile chiedere a Dio qualsiasi altra cosa che non sia l’attuazione del suo «volere». Dunque il Padre nostro, come dicevo, è il luogo in cui viene messo in scena un vero e proprio paradosso. In esso la lode alla terza persona dell’uomo religioso viene trasformata nel rapporto diretto con un «tu»; in esso sono introdotte delle richieste che sembrano implicare, rischiando l’accusa di antropomorfismo, un’interazione tra la volontà umana e la «volontà» divina. Ma proprio quando ciò sembra prefigurare un potere umano sulla stessa «volontà» di Dio, si leva, nel cuore della preghiera, un’espressione diversa: ciò che viene richiesto, ciò che unicamente può essere richiesto, è che il «volere» divino si compia. Solo questo. In una tale prospettiva lo spazio del volere umano appare dunque ridotto, assolutamente ridimensionato. La sola cosa che l’uomo religioso può voler pregare, a questo punto, è che la «volontà» di Dio sia fatta. Ecco, potremmo dire, la meta-richiesta che sostiene, supporta e corregge tutte le altre possibili richieste che possono essere da lui avanzate, e che le ridimensiona radicalmente. Ma ciò significa, ancora, che l’unico comportamento legittimo per l’uomo religioso, chiamato a fare la «volontà» divina, è quello appunto di accogliere una tale «volontà». Di più: possiamo enfatizzare un tale atteggiamento, possiamo portarlo alle estreme conseguenze, possiamo addirittura trasformarlo nel paradigma di una religiosità vissuta. Se ciò accade, allora l’abbandono può trasformarsi in ubbidienza e l’uomo religioso diviene tout court un sottomesso. Tanto più perché, da un punto di vista umano, non è possibile penetrare la «volontà» divina, non è possibile conoscere il «disegno di Dio». E dunque l’unico modo per l’uomo religioso di corrispondere a questa situazione è dato dalla totale accettazione di ciò che egli ritiene sia «parola di Dio». Questa parola può essere comunicata in un testo, in una rivelazione, in un annuncio. Si tratta comunque di un evento mediante il quale Dio ha fatto conoscere all’uomo, appunto, quello che è il suo «volere». 6. Così in cielo come in terra L’istanza di sottomissione sembra dunque essere la chiave di lettura più agevole e immediata per comprendere il significato del fiat voluntas tua del Padre nostro. A partire da qui sarebbero chiaramente inquadrate le richieste escatologiche («venga il tuo regno»), economiche («dacci oggi il nostro pane quotidiano»), etiche («rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori») e soteriologiche («non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male») che ricorrono nella preghiera. Più ancora. Lo stesso paradosso insito nel fatto che la volontà umana possa orientarsi a chiedere solamente che sia fatta la «volontà» divina troverebbe la sua soluzione nell’atto conclusivo: quello che vede l’accoglimento, da parte dell’uomo, del «volere» di Dio. In
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definitiva ciò che l’uomo religioso potrebbe legittimamente volere sarebbe solo una cosa: la sottomissione alla «volontà» divina. Tuttavia le cose non stanno propriamente così: anche se appunto in una tale direzione il rapporto tra uomo e Dio è stato interpretato non solo – com’è noto – in specifici contesti islamici, ma anche in alcuni filoni quietistici e pietistici del cristianesimo. Le cose non stanno così perché, nel passo di Mt VI, 10, al «sia fatta la tua volontà» si trova aggiunto: «così in cielo come in terra». A che cosa allude una tale precisazione? La «volontà» divina, posto che si continui ad usare questo linguaggio antropomorfico, non vale, metaforicamente, in cielo e in terra e in ogni luogo? Ci può essere forse una discrepanza, nell’esercizio da parte di Dio del suo «volere», tra ciò che avviene in cielo e ciò che accade sulla terra? In realtà, forse, l’esplicito richiamo alla terra significa qui qualcosa di diverso dalla semplice indicazione di uno degli ambiti in cui la «volontà» divina può manifestarsi. Esso implica un impegno particolare: un impegno che anzitutto è proprio non già di Dio, bensì dell’uomo. Richiede, in altre parole, che venga messo in opera, da parte dell’uomo religioso, uno specifico agire. La relazione dell’uomo religioso con Dio si configura infatti non solo nelle forme della preghiera, non solo nei modi dell’accoglimento della rivelazione: si definisce piuttosto nei termini di un’attiva collaborazione. E questa collaborazione consente di fuoriuscire da un’idea chiusa, esclusiva, del legame fra uomo e Dio. Non si tratta semplicemente di un rapporto a due. Esso viene infatti a prolungarsi in un’azione: nell’azione dell’uomo che si apre al mondo. La «volontà» di Dio, pertanto, diviene solamente uno spunto per l’agire dell’uomo. Essa dev’essere messa in opera, non già semplicemente accettata. Il quietismo, in questa prospettiva, si rivela una malattia del fideismo. L’uomo religioso è chiamato invece a contribuire attivamente, per quanto è in suo potere, alla venuta del regno. Anzi, di più. La sua azione è sempre interpretazione del volere divino e libera ri-creazione di esso. La sua stessa preghiera, da questo punto di vista, si trasforma in una prassi: in quella prassi che apre ad altre prassi del mondo e che ad esse si accompagna. 7. La responsabilità di ciò di cui non sono responsabile La prassi dell’uomo religioso, supportata dalla preghiera che pone ogni richiesta sotto il segno di un’accettazione della «volontà» divina, è dunque uno dei modi in cui si può realizzare il rapporto con Dio. La «volontà» di Dio va «fatta» nel mondo. L’amore per Dio si compie nell’amore del prossimo. L’ubbidienza si trasforma in azione. Questo è il punto nel quale, propriamente, l’uomo religioso sperimenta la propria libertà. Si tratta tuttavia di una libertà intesa in un’accezione specifica; si tratta, cioè, di una libertà responsabile. Il che significa: l’azione che l’uomo religioso è chiamato a compiere – collaborando a far sì che la «volontà» di Dio sia «fat-
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ta», così come in cielo, anche sulla terra – è un’azione che ha specifiche conseguenze nel mondo. Ed è di tali conseguenze che l’uomo appunto risponde. Per dirla in maniera più precisa: due sono i significati del termine ‘responsabilità’ che risultano qui impliciti, ed entrambi si ricollegano alla semantica del ‘rispondere’. Si risponde di ciò che deriva dal mio agire; si risponde a ciò che assumo come criterio del mio agire. Nel primo caso si ha la responsabilità delle conseguenze che la mia azione produce; nel secondo si ha la responsabilità dell’intenzione da cui un tale agire è animato. Da questo punto di vista, allora, si può parlare solo di una responsabilità dell’uomo. La questione di una «responsabilità» di Dio, quale si presenta ad esempio nel contesto della teodicea, si rivela infatti un problema da reinterpretare nella prospettiva che ho sviluppato in precedenza nelle riflessioni sull’antropomorfismo. Giacché, come ben si sa, la teodicea presuppone una particolare idea della «volontà» divina nei confronti del mondo e del rapporto, in Dio, fra «intelletto» e «volontà». Ma abbiamo visto che queste nozioni, questo vocabolario, sono l’espressione antropomorfica di un incontro, non già la definizione di un attributo; sono modi umani d’indicare la relazione con un’eccedenza, non già occasioni d’inglobare il rapporto religioso all’interno di una dimensione mondana. La questione della responsabilità, nelle forme in cui la stiamo affrontando, concerne dunque l’agire dell’uomo. E in relazione a ciò due sono i punti che è necessario soprattutto approfondire. In primo luogo dobbiamo domandarci se davvero, quando operiamo, siamo in grado di determinare tutte le conseguenze che una certa azione comporta, tutte le interazioni nelle quali si trova coinvolta, tutte le prospettive che essa apre. La risposta è, ovviamente, no. E allora bisogna chiedersi di che cosa, propriamente, siamo responsabili: di che cosa, cioè, effettivamente rispondiamo. Allo stesso modo, poi, possiamo porci la stessa domanda – di che cosa davvero siamo responsabili? – anche di fronte a situazioni che all’apparenza risultano fortuite, casuali, sottratte cioè ad una possibilità d’incidervi, in generale, da parte dell’uomo. O che risultano, quanto meno, sottratte alla mia propria responsabilità, anche se poi altri se ne debbono – o se ne dovrebbero – fare carico. Tuttavia, anche nei confronti di tali situazioni, ciascuno di noi può sentir di avere ugualmente, sebbene in modo paradossale, una qualche responsabilità. E su ciò, appunto, sovente c’interroghiamo. Senza poter fare ricorso, come accadeva nel mondo antico, all’idea di ‘destino’: a un destino capace bensì di farci soffrire, ma in grado, di sgravarci, almeno in parte, dalle nostre colpe. Oggi invece siamo persuasi ad estendere le nostre pretese, ad ampliare il raggio del nostro potere, fino a riconoscere il fatto di avere una certa responsabilità anche nel caso di eventi ai quali non abbiamo direttamente dato l’avvio. Viviamo dunque una condizione oltremodo ambigua. Da un lato sperimentiamo la nostra incapacità di controllo totale, la nostra effettiva impotenza nei confronti di tante, fin troppe situazioni. Dall’altro ci riteniamo in grado,
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almeno potenzialmente, di esercitare un dominio su di esse e ci sentiamo responsabili perché ciò non può accadere. Per uscire da quest’ambiguità, due, di solito, sono le strategie che vengono adottate. Per un verso si cerca di stabilire il punto fino al quale è possibile esercitare un controllo: il limite entro il quale, effettivamente, io posso essere ritenuto responsabile di qualcosa. E tuttavia è difficile pensar di definire tale limite con precisione, così com’è problematico ritenersi non responsabili di situazioni alle quali, pur senza esplicitamente volerlo, abbiamo comunque dato l’avvio. È su questo versante, a ben vedere, che emergono le insufficienze dell’etica della responsabilità elaborata da Hans Jonas9. Per altro verso, invece, si tende a ridimensionare la responsabilità delle conseguenze a favore della responsabilità dell’intenzione. In altre parole: si finisce per subordinare il «rispondere di» al «rispondere a». Una volta cioè che un’azione venga compiuta sulla base della retta intenzione il criterio morale è soddisfatto, e poco importa quali conseguenze deriveranno dalla mia azione o quale sorte mi toccherà. Fiat iustitia et pereat mundus. Ma sono ben note, nella storia del pensiero, le obiezioni avanzate nei confronti di questa posizione: una posizione che viene di solito, seppur erroneamente, attribuita a Kant. Pare difficile, allora, tanto subordinare la responsabilità delle conseguenze a quella dell’intenzione, quanto sgravarsi del tutto dalla responsabilità di ciò che propriamente non abbiamo voluto, sia che siamo stati noi a dare l’avvio a un determinato processo, sia che propriamente non lo siamo stati. Vi è, insomma, una sorta di responsabilità anche nei confronti di ciò di cui, in un certo senso, non siamo responsabili. E questa situazione costituisce un problema da affrontare con urgenza per l’uomo morale: tanto più oggi, in un contesto nel quale all’aumentato potere delle tecniche non corrisponde un’adeguata capacità di controllare le conseguenze che l’esercizio delle stesse tecniche comporta. 8. La responsabilità della preghiera L’uomo religioso, per questo problema, possiede una sua soluzione. Che è racchiusa proprio nel versetto del Padre nostro che abbiamo finora cercato di approfondire. L’uomo religioso, che prega come gli ha insegnato a fare il suo «Signore», prega ben sapendo di non avere potere sul tutto. È questa l’origine della sua apertura a un’alterità religiosa. E tuttavia, insieme, prega sapendo di dover collaborare a che la «volontà» di Dio sia fatta «come in cielo così in terra». Dunque egli sa di essere responsabile della realizzazione di questa «volontà». Di più: sa che è la «volontà» di Dio, e non la sua, ciò che deve contribuire a realizzare. E sa anche che questo compito non lo sgrava 9 Mi riferisco in particolare, ovviamente, a Das Prinzip Verantwortung, Insel, Frankfurt a. M. 1979, trad. it. a cura di P. P. Portinaro, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1993.
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affatto, ma lo carica di una responsabilità che trascende la sua stessa capacità di controllare le conseguenze delle proprie azioni. È questa l’insopportabile responsabilità del pregare. Ma proprio di fronte a una tale situazione l’uomo religioso è posto davanti a due tentazioni. Ha la tentazione, anzitutto, di caricare l’alterità divina del controllo che a lui manca, e di sperare d’incidere in via mediata su ciò che nel mondo gli è impossibile dominare immediatamente. Ma si tratta solo di una tentazione. Anzi, del riproporsi di quella che, nel contesto ebraico-cristiano, è la forma generale di tutte le tentazioni: il desiderio di essere come Dio (Gn 3). La seconda tentazione è invece quella di rinunciare alla propria responsabilità e di affidarsi interamente a Dio nella forma della sottomissione. Abbiamo visto come questa sia la tentazione del quietismo. Ma gli odierni fondamentalismi mostrano che qui si ha non tanto la rinuncia ad un’azione, quanto la rinuncia alle responsabilità che da quest’azione in ogni caso conseguono. Qui, infatti, la libertà umana viene mortificata e deposta a favore di un presunto decreto divino. Si tratta dunque di evitare ambedue le tentazioni. Tanto più nell’esperienza della preghiera. Ma allora che cosa rimane all’uomo religioso? Resta certo da compiere in piena responsabilità quanto è in suo potere; resta da caricarsi, onestamente, delle responsabilità di ciò che, anche non voluto, consegue dalle proprie azioni; resta magari da accogliere, in piena responsabilità, il proprio destino. Tutto ciò è messo in opera nell’atto della preghiera; tutto ciò esprime il «sia fatta la tua volontà» del Padre nostro. Ma questo, per l’uomo religioso, è ancora poco. Infatti un passaggio ulteriore, sperimentato solo da alcuni filoni della riflessione ebraica e cristiana, può addirittura essere quello che consiste nel caricarsi delle responsabilità non volute che derivano non solo dalle proprie azioni, ma anche da quelle altrui10. Nel cristianesimo ciò è riconosciuto come una specifica forma di imitatio Christi. E per questa via l’uomo religioso assume la responsabilità, per quanto gli attiene, anche del destino che concerne il tutto. Un’apparente atto di potenza, questo suo, che ne rivela, invece, la somma impotenza. Ecco allora che il «sia fatta la tua volontà» non esprime un semplice abbandono. Dice piuttosto l’affidamento a ciò che trascende il mio potere, pur nel tentativo – richiesto a ogni uomo «di buona volontà» – di contribuire alla venuta del regno. Dice, in altre parole, la mia responsabilità anche per ciò di cui non sono propriamente responsabile. Ma non nel senso dell’onnipotenza 10 Dice ad esempio il Baal Shem Tov: «Se ti accade di veder peccare o di venire a sapere di un peccato, cerca qual è la tua parte di responsabilità e impegnati a porvi rimedio. Vedrai che anche il peccatore si ravvederà. Devi solamente ricomprendere costui in una prospettiva unitaria, giacché siamo tutti un unico uomo» (Des Rabbi Israel ben Elieser, genannt BaalSchem-Tow, das ist Meister vom Guten Namen, Unterweisung im Umgang mit Gott, Aus den Bruchstücken Gefügt von Martin Buber, Neugestaltete Ausgabe, mit Nachwort und Kommentar herausgegeben von Lothar Stiehm, 4. Auflage der Einzelasugabe, Lambert Schneider, Heidelberg 1981, p. 91).
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di chi si decide anche per ciò che non può che subire, e neppure nel modo della disperazione impotente di chi non è in grado di controllare il tutto. Il «sia fatta la tua volontà» è invece la manifestazione di un’accoglienza responsabile sia di ciò che dipende da me, sia di ciò che da me non dipende. È il segno che l’ultima parola, l’ultima forma d’iniziativa, ce l’ha Dio. È la riproposizione di una fede. In sintesi, allora, nel fiat voluntas tua viene ad espressione, nell’ambito dell’esperienza cristiana, la fede stessa dell’uomo religioso. Non nel senso di una fede dogmatica, della cosiddetta fides quae creditur, ma nella prospettiva, anzitutto, dell’affidamento: della fides qua creditur. E così, da questo punto di vista, la preghiera, la preghiera dei cristiani, si rivela in definitiva, agli occhi del fedele, ciò che propriamente è, ciò che ogni preghiera è: l’espressione di una grande tautologia; una testimonianza di finitezza; una confessione e una professione di fede.
La grazia del messia Carmela Covino Und ob ich auch ein Feigling bin und ob du auch ein kranker bist: du liebst, wenn du es auch nicht bist, der liebt, ich liebe, wenn ich’s auch nicht bin. Robert Walser Fu alzata quindi un’altra tela e si vide che ricopriva San Paolo che cadeva giù da cavallo, con tutti i particolari soliti a dipingervi nel quadro rappresentante la sua conversione. Quando lo vide così al vivo che si sarebbe detto che Cristo parlava e Paolo rispondeva «Questo – disse Don Chisciotte – fu il più gran nemico che la Chiesa di Dio Nostro Signore avesse al suo tempo, ed il maggior suo difensore che avrà mai; cavaliere errante nella vita e fermamente santo nella morte, lavoratore instancabile nella vigna del signore, dottore delle genti, al quale servirono di scuola i cieli, e da maestro e guida lo stesso Gesù Cristo». M. De Cervantes
Perché si adempisse ciò che fu detto… Gesù è risorto. E non c’è spazio per il dubbio. Gesù è risorto – è la Verità inaccettabile che per essere creduta necessita di abbandonare ogni incertezza, pretende una fedeltà totale, al di là della ragione, sfida alla ragione. La croce è un non segno, la resurrezione la rende scandalosa, «insidia per i Giudei, follia per i gentili»: a morire in croce è il Cristo, il Figlio di Dio, scandalo per i conformisti di questo mondo. Questo è il messaggio di Paolo. Un messaggio povero di parole, che non tace nel silenzio, segue il suo corso sempre, continuamente. Esso è azione, è destinato «a muovere, a determinare, a incidere sulla sostanza del vivente e sul corso della vita interiore, sulla storia dell’uomo»1. La sua è una parola concreta, radicale. È forza, una forza che pretende obbedienza, «sono catene che non si possono strappare di dosso senza strappare il nostro stesso cuore, 1
M. Luzi, Vangelo e poesia, in Avvenire, 11 febbraio 2007.
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sono demoni che l’uomo non può vincere che sottomettendovisi»2. Pure in essa non vi è comando. Colui che ascolta agisce la parola. Essa è solo se eseguita, è la stessa possibilità del suo compimento: è grazia. «Compite ora l’opera» sollecita l’apostolo agli abitanti di Corinto, ed è un invito a confessare con la bocca che Gesù è il Signore, perché se «di cuore crederai che Dio lo resuscitò dal regno dei morti, sarai salvato». Occorre farla la parola. La vita cristiana è attuazione della parola, attuazione della vita di Gesù, vita che Paolo riassume nella croce, la più radicale donazione di sé per gli altri: «Siate dunque imitatori di Dio quali suoi figli amati, procedete nell’amore come anche il Cristo vi amò e si consegnò per noi». All’ignominia della croce, nel 79 a.C., sui legni allineati lungo l’Appia Antica, erano stati sottoposti gli schiavi ribelli di Spartaco. Grandi cambiamenti si andavano preparando all’interno della società imperiale romana, entrata in una fase di lenta agonia che si sarebbe prolungata per secoli sino alla finale implosione. Le vecchie organizzazioni sociali andavano disintegrandosi. Era l’epoca della grande diffusione dello stoicismo come insieme di norme etiche e morali, della predicazione del ritorno agli antichi costumi e della ricerca di un redentore capace di ristabilire le vecchie abitudini. La quarta egloga di Virgilio auspicava il ritorno dell’età dell’oro con la nascita di un bambino straordinario che avrebbe dato inizio al rinnovamento del mondo e al ritorno della giustizia. La Palestina romana del primo secolo non era estranea all’ambiente di piena decomposizione sociale esistente nella maggioranza dell’Impero, ormai mondiale, attraversato da strade che permettevano un flusso reciproco tra Oriente e Occidente. In essa le agitazioni ed i tumulti erano costanti e riflettevano i conflitti esistenti fra gli ebrei, aggravati dall’oppressione romana. L’attesa messianica non era limitata a circoli particolari, ma era diventata un’idea capace di muovere le masse e di diventare un problema per i governanti. Dopo molti tentativi insurrezionali, condotti da messia e visionari di ogni specie, si arrivò alla grande insurrezione del 66 e alla distruzione di Gerusalemme di pochi anni dopo. In questo clima era nata la primitiva congregazione cristiana che aveva inizialmente raccolto il profondo malumore antiromano3. Il tempo era maturo. Saulo, zelante osservante della Legge ai cui precetti riteneva di conformare la propria azione, si era ispirato ai dettami della scuola con i criteri di raziocinio del concretista impotenti a cogliere il movimento reale che cambia lo stato di cose presente. Disastroso era stato l’incontro con la umile comunità di Gerusalemme, ferma nella fede quale «garanzia delle cose sperate, prova per le realtà che non si vedono», sicurezza che l’azione salvifica avrebbe permesso il conseguimento dei beni promessi e garantito sulle realtà non acces-
K. Marx, in Rheinische Zeitung, 16 ottobre 1842. Cfr. J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, Milano 1997. L’autore rileva la sottovalutazione di Bruno Bauer che pure aveva sottolineato come la prima letteratura cristiana fosse stata una «protesta contro il dilagare del culto dei Cesari», p. 42. 2 3
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sibili alla mente umana. Una posizione in contrasto con il legalismo giudaico. Inevitabile fu in Saulo la determinazione di osteggiare la nuova credenza con tutte le sue forze sino all’aperta persecuzione, obbedendo all’orgoglio dell’io, arroccato nei fortilizi innalzati da una ragione ideologica, che è il contrario della realtà profonda. Quelle barriere sarebbero crollate solo di fronte all’evidenza accecante della realtà di un Cristo che mostrava tutta l’inconsistenza delle presunzioni e delle piccolezze dell’individuo. Saulo era poca cosa, diventò Paolo4. È sempre un colpo di follia che apre la strada, che permette di sentirsi chiamare, che permette di riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. Allora il sapere non può essere radice del sapere. Punto di partenza è l’istinto, che non è specchio di una spinta immediata, ma superamento della limitata contingenza di una situazione o di un rapporto particolare. Paolo seppe dimenticare, rinnegare, strappare dalla mente e dal cuore il vecchio mondo, cercando sempre una sola cosa, una nuova comunità. Mentre nei vangeli Gesù premetteva all’ama il prossimo tuo come te stesso l’altro comandamento: devi amare il signore tuo con tutte le tue forze e la tua anima ed i tuoi mezzi tutti; Paolo riduceva il doppio precetto all’amore non verso il Signore, ma verso il prossimo5. «Infatti tutta la legge si adempie in una frase sola, quell’amerai il prossimo tuo come te stesso». Non si creda in un’etica dell’amore, quella di Paolo è un’ontologia. Non esorta ad amare. L’amore è qui dinamismo che rende operativamente amanti, non è una regola da realizzare nell’agire, un dover essere, non è un sentimento, ma una forza attiva che porta a darsi, dimentichi di sé e aperti pienamente agli altri. Non ci sono principi morali da presupporre, l’amore è la piena realizzazione dell’essenza relazionale umana. Essenza dipendente che sancisce nell’uomo una intrinseca debolezza divenendo il luogo di manifestazione della potenza di Dio. «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me; la mia vita mortale al presente è vita di fede nel figlio di Dio». Debolezza è l’uomo che non esiste se non nel rapporto all’altro uomo. Debolezza è affidamento, necessaria apertura all’accoglienza della nuova libertà, libertà di luce, che impone di divenire schiavo del proprio fratello. Libertà è lasciarsi possedere dalla fede, è obbedire ad un’urgenza, ad una voce che chiama, è rinnegare la propria ragione particolare abbandonandosi alla grazia di Cristo morto e risorto. Libertà è agire per amore dell’altro, del prossimo, consapevoli del tempo speciale, tempo di attesa della futura e prossima salvezza. Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo ammoniva a non dare scandalo ai propri fratelli compiendo opere considerate da essi impure, anche qualora ciò andasse contro le proprie convinzioni coscienziali. «Se qualche pagano v’invita, e volete andare, mangiate tutto quello che vi si presenta, senza inda4 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta, Torino 2005: «Agostino […] sa perfettamente che Paolo significa semplicemente piccolo», p. 18. 5 Cfr. J. Taubes, op. cit., pp. 101-102.
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gare per motivo di coscienza. Ma se qualcuno vi dicesse: «è carne immolata agli idoli», astenetevi dal mangiare, per riguardo a colui che vi ha avvertito, e della coscienza; della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro». La colpa sociale verso il fratello debole è colpa cristologica. La libertà della fede riposa nel dar conto all’altro. Nel battesimo si è coinvolti nella morte di Gesù, morte che genera vita, «una vita nuova», che richiede sempre nuova attuazione nelle scelte e nei comportamenti quotidiani «dunque il peccato non regni nel vostro corpo mortale così da obbedire alle sue cupidigie; né presentate al peccato le vostre membra quali armi per l’iniquità; presentate invece a Dio voi stessi come viventi risa liti dal regno dei morti e le vostre membra quali armi per la g iustizia». Il termine ebraico dabar significa nello stesso tempo parola e gesto, dire e fare. E se l’uomo è l’essere che dice, è più ancora l’essere che fa, che crea, e soltanto creando è, «di poco inferiore a Elohim, lo creò». Marcel Jousse scriveva dei talmid o, come lui li chiamava, «gli apprenditori a memoria» della vecchia Palestina, che seguivano il loro maestro non per ascoltare le sue lezioni, ma per «azionarle». Qualcosa di simile lo aveva riferito Scholem raccontando del Magghid di Messeritz, i cui seguaci non chiedevano di apprendere la Torah, ma andavano da lui «per vedere come annodava le stringhe delle sue scarpe». In Paolo non c’è altra teologia che non sia l’operatività. Nella coerenza del suo agire egli mostra la chiamata divina che non necessita di altra dimostrazione. Ogni volta che un uomo, mosso da quella voce che chiama più forte di qualsiasi certezza, «vi risponde con pura intonazione, gli viene intimata non già una forma verbale ma un’azione, anzi un movimento del corpo nello spazio. Così Abramo dovette istantaneamente migrare, Mosè scalzarsi sulla terra ardente del roveto, i discepoli spezzare un pane»6. «Alienati i peccatori, errarono fin dall’utero… la loro pervicacia è a similitudine del serpente, dell’aspide sorda e che si tura gli orecchi per non udire la voce dell’incantatore, di colui che ordisce sapienti incantagioni» «Fammi nota, o Signore, la via che ho da percorrere». «Fammi noto, o Signore, il mio fine…». Chiedere null’altro che di riconoscere quello che gli appartiene «da tutta l’eternità» e ringraziare di averlo qualche volta conosciuto o riconosciuto, solo questa la parola del salmo. «Illumina su di noi il tuo volto e abbi misericordia di noi, affinché si conosca sopra la terra la tua via». Ecco l’unica richiesta umana a cui perfino il cielo non può negare asilo: «un orecchio perfetto col quale percepire la propria vocazione e melodiosamente corrispondervi»7. Gesù è la risposta, la verità più grande del vero, la via che si segue rivivendo la sua morte, quale totale abdicazione all’altro. Morendo con lui si muore 6 7
C. Campo, Gli imperdonabili, Milano 1987, p. 131. C. Campo, op. cit., p. 114.
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al vivere egocentrico; si smettono i vecchi abiti vivendo come lui ha vissuto, vivendo come lui è morto. «Gesù ci ha lasciato il compito di entrare nella sua ora»8. La vita diviene essa stessa fede. Dimorare nella chiamata è affidarglisi, affidandosi l’un l’altro, accogliendo la Grazia del Messia, quale piena realizzazione di quella debolezza che dice l’uomo essere dipendente, essere amante. E non è più possibile peccare, non è più possibile seguire i capricci del proprio cuore. Non può esistere fede individuale così come non può esistere salvezza individuale. «Infatti, come in un sol corpo abbiamo molte membra, ognuna con attività diverse, così noi, pur molti, siamo un unico corpo in Cristo e membra ognuno dell’altro». La verità è troppo pesante perché un uomo solo la sostenga. Il regno di Dio è realizzazione dell’essenza umana che si compie nel partecipare del corpo del Figlio, divenendone membra: comunità. «Poiché l’essenza umana è la vera essenza comune degli uomini, gli uomini, realizzando la loro essenza, producono l’essenza comune umana, l’essenza sociale [il corpo di Cristo], che non è una potenza universale-astratta contrapposta al singolo individuo, ma è l’essenza di ciascun individuo [membra del corpo], la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza»9. Agli abitanti di Corinto, Paolo rimprovera l’assenza di condivisione conviviale: «ciascuno, all’atto di mangiare, prende prima la sua propria cena; sicché da una parte c’è chi ha fame, dall’altra chi è ubriaco». Questa assenza annulla di fatto il «convenire». Ne segue che la cena che consumano non può essere quella del Signore, anzi smembra la costituzione della comunità come «corpo dei credenti», rendendo vana la stessa morte di Gesù10. «Nessuno di voi vive per sé, come nessuno muore per sé. Se viviamo, viviamo per il Signore, e se moriamo, moriamo per il Signore». «Soltanto la solidarietà dei credenti che formano un solo corpo nella comune commensalità dei partecipanti»11 dà accesso alla solidarietà con Cristo, in Cristo, nel suo corpo personale, celebrata nel rito del pane spezzato e del vino bevuto. «Io non sono un io, ma noi siamo un noi»12.
J. Ratzinger, Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, parte I, § 11. K. Marx, Estratti da «Elements d’économie politique» di Mill, in Marx-Engels, Opere Complete III, Roma 1976. Le annotazioni all’interno delle parentesi sono mie aggiunte. 10 Il passo della 1Cor 11, 27 è stato oggetto di numerose polemiche esegetiche riguardo all’esatta natura del «modo indegno» di partecipazione al corpo e al sangue del Signore, riassunto nell’accusa della «cena propria». Alcuni interpreti sostengono che «la critica paolina non è dovuta al carattere essenzialmente negativo della cena propria. L’apostolo non biasima il pasto in quanto tale, ma la sua indebita collocazione spazio-temporale», ossia il sovrapporsi della cena propria a quella comunitaria dell’eucaristia. In ogni caso, anche in questa lettura, tale sovrapposizione diveniva colpa cristologica in quanto dimenticava la necessaria precedenza da accordarsi al fratello debole. Cfr. L.D. Chrupcala, Chi mangia indegnamente il corpo del Signore, in LABSF, 46 (1996), pp. 53-86. 11 G. Barbaglio, Il pensare dell’apostolo Paolo, Bologna 2004. 12 J. Taubes, op. cit., p. 108. 8 9
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È la consapevolezza di con-vivere con tutti gli uomini che sono e anche con tutti gli uomini che furono un tempo a scandire il tempo liturgico secondo Paolo. «Convivere nel senso di sentire e sapere che questa esperienza è aperta a quella degli altri»13, vuol dire abitare lo stesso tempo, un tempo non lineare, che non passa, anzi resta e diventa passato, continuità, eredità, conseguenza; vuol dire sapere gli altri in ogni gesto, e sapere che «non esiste un semplice gesto. Ogni gesto è, in maggiore o minore misura, globale. Ogni gesto è tutto l’uomo»14. Partecipare al corpo di Cristo, alla sua morte, per i credenti è abitare il mondo che non gli appartiene, ma di cui fanno parte, esistendo insieme. «Che cosa possiedi che non l’abbia ricevuto?». Un giorno Choni, si legge nel Talmud, mentre camminava per la via, vide un uomo anziano che piantava un carrubo e gli disse: «poiché il carrubo non dà frutti che dopo settant’anni, sei tu certo di vivere così a lungo da mangiarne?» «Io trovai – rispose quello – il mondo provvisto di carrubi; come i miei antenati ne piantarono per me, così io ne pianto per i miei discendenti». Nella partecipazione, una partecipazione atemporale, riposa l’essenza stessa dell’uomo che è corpo, essere somatico, ossia essere relazionato: agli altri, al mondo, a Dio. In assemblea Paolo chiede a quel «corpo» di pregare con spirito ed intelletto, con tutto il proprio essere, e ciò significa rivolgersi all’altro, e più ancora essere per l’altro. «Chi parla in gergo, infatti, non parla agli uomini, ma a Dio, nessuno l’intende, egli in spirito dice misteri. Chi invece profetizza parla agli uomini, edificando, esortando, consolando. Chi parla in gergo edifica se stesso, il profeta edifica l’assemblea. Vorrei che tutti parlaste in gergo, ma più vorrei che profetaste». La prospettiva comunitaria deve dominare l’assemblea e i carismi non sono altro che servizi «per l’edificazione comune». Non c’è umanesimo. La comunità in quanto corpo di Cristo è il tramite del rapporto a Dio. «Dio fuse il corpo attribuendo assai maggior pregio al membro che ne mancava, per impedire scissioni nel corpo stesso, e invece le membra si preoccupino l’un dell’altra». Lo stesso apostolo dipende dalla saldezza nella fede dei destinatari delle sue lettere, della sua comunità. La sua missione, costitutiva del suo stesso essere15, è «cooperare all’opera di cui Dio è l’autore, cooperare a quell’edificazione di Dio stesso»16 che altro non è che la sua stessa comunità. M. Zambrano, Persona e democrazia, Milano 2000, p. 14. M. Jousse, La manducazione della parola, Roma 1980, p. 128. 15 Cfr. L.J. Lietaert Peerbolte, Paolo il missionario, Cinisello Balsamo 2006. L’autore sostiene che Paolo non si sia inserito in una corrente missionaria già esistente, ma che sia stato lui «il primo grande missionario della storia» e che l’attività missionaria sia stata sentita da Paolo come indispensabile e costitutiva dell’annuncio. 16 G. Fadini, Comunità e singolarità. Riflessioni e sviluppi sulla ricezione paolina contemporanea, in Fenomenologia e società, n. 3, 2005, p. 53. 13 14
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La parola del vangelo va predicata e non può essere patrimonio personale. L’umanità divisa non può partecipare del corpo del Cristo. Pure «nel tempo di ora» soltanto un resto è pronto all’annuncio, coloro che sono stati chiamati, primizia della salvezza, Dio li scelse «folli», chiamò gli ultimi, scelse la parte ignobile del mondo perché «la potenza si compie nella debolezza». Scelse gli ultimi, coloro che non avevano nulla, coloro che più facilmente si sarebbero affidati perché «chi getterà la sua vita la salverà». Ai totalmente sradicati che non avrebbero temuto di afferrare la chiave del sapere e del fare di un domani che sa racchiudere il recupero delle conquiste umane del passato, dicendo la resurrezione dei morti, dei vivi, dei nascituri, che senza speranza si sarebbero affidati all’insperabile. A loro chiedeva la fedeltà del folle, chiedeva di appartenere ad una realtà antitetica a questo mondo, proiettata nel futuro, quando «Dio sarà tutto in tutto». L’impossibilità etica di compiere il bene non riguarda la volontà morale del singolo che è impotente. «Non c’è nessuno che sia giusto, neppure uno». Paolo ignora il motivo moralistico della conversione e del pentimento. «L’attuazione supera la forza dell’uomo. Egli non è pensabile in base alle proprie forze»17. «Di fatto compio non quello che voglio, bensì quello che odio»; «Volere il bene è a mia portata, non però il compierlo, dal momento che non faccio il bene che voglio, ma compio proprio il male che non voglio» e questo perché «non sono più io che agisco, bensì il peccato che abita in me». Ma al grido dell’io, l’uomo incapace di uscirne: «me infelice! Chi mi libererà dal mio corpo votato a questa morte?» «siano grazie a Dio per Gesù Messia nostro Signore!». Paolo non parla di «i peccati» ma utilizza he hamartia, il peccato, al sin golare, inteso come malefica potenza dominatrice, superbo ostacolo alla accettazione di quella debolezza che permette all’uomo di non seguire i capricci del proprio cuore. Il perdono dei peccati o la loro purificazione non salverebbe gli uomini, tutti indistintamente sotto il dominio schiavistico del peccato. Esso è sconfitto dalla venuta del «suo figlio», Gesù, maledetto tra i maledetti, lui che «non conobbe peccato», ed è il compimento della promessa fatta ad Abramo «senza opere di legge». L’amore non è una legge da osservare, non è richiesta morale di opere giuste, ma opera che coincide con il proprio essere, è l’opera che in ogni gesto svela la presenza dell’umanità intera, è compimento dell’essenza umana, quale vera comunità umana. La critica paolina alla legge non invoca una legge del cuore, non intende instaurare una autorità della fede contro una fede nell’autorità. Essa imputa alla legge la sua costitutiva impotenza alla salvezza. La tradizione ebraica, cui
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M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, Milano 2003, p. 164.
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l’apostolo è fedele, voleva carne e spirito quali dinamiche operative, che attirano l’uomo in direzioni contrarie, «realtà in lotta tra loro, di modo che non potete fare ciò che volete». Non è l’uomo impossibilitato a osservarla, è la legge stessa «impotente a motivo della carne»18. Essa intendeva liberare l’uomo, ma questo le fu impossibile, poiché era immersa nel peccato: attraverso di essa si manifestava e avveniva l’alienazione dell’uomo, sancita nella scissione di essere e fare che la legge attuava istituendo un dover essere trascendente. Davanti alla legge l’uomo è solo, responsabile singolarmente delle proprie colpe. Nella Torah «tutti restano legati mediante i medesimi rapporti a un ordine sociale duraturo, mediante la sottomissione alla Legge restano tutti nell’uguaglianza dell’intero Israele»19, uguaglianza rispetto alla Legge, uguaglianza rispetto al Padre. Nel caso di Gesù non è l’adesione alla Torah che unisce tutti nell’uguaglianza, ma è la grazia che attraverso la partecipazione al Cristo rende fratelli, non trascendentemente uguali, ma membra di un unico corpo. La grazia non viene ad offrire la possibilità di attuare pienamente i precetti della Torah, né una presunta esigenza di fondo, compendiata nel comandamento dell’amore vicendevole, poiché in tal modo si ridurrebbe la parola evangelica a fatto morale. Non è data in vista della Legge, non le compete la sostituzione di un codice del dovuto con quello del gratuito, interiorizzando in tal modo la legge, che significherebbe la liberazione del corpo, ma porrebbe «in catene il cuore». «Non è il nostro agire etico – scrive Schmithals – ma è essenzialmente il nostro essere che compie la giusta esigenza della legge»20. Il suo giusto intento, la salvezza, è il fondamento e non lo scopo dell’agire. «Non siete sotto la legge, ma sotto la grazia». Il nostro agire finalmente coincide con il nostro essere. In questo senso il Messia risolve «il conflitto tra essenza ed esistenza». La legge, impotente alla salvezza, ora è lì senza più significato. Non è più. Non serve trasgredirla o adempirla. A Paolo non serve sovvertire l’ordine di Cesare, né invoca una sovversione del cuore. A Filemone non chiederà di rinunciare alla schiavitù di Onesimo. Glielo riconsegnerà «come a dire il mio
18 Cfr. R. Penna, Come interpretare la giustizia della legge in Rom 8, 4, in L. Padovese, Atti del VI simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 2000; «affinché il dikaioma della legge fosse compiuto in noi che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito». Il termine dikaioma viene tradotto usualmente con norme, prescrizioni. Ma nella lettera ai Romani Paolo lo utilizza con perlomeno quattro significati diversi. Romano Penna propone di tradurre dikaioma con «l’intento giustificante della legge» o ancora «la giustificazione a cui la Legge era orientata o per cui la Legge era stata data». «Il dikaioma della Legge costituisce il lato positivo della legge stessa, ma non a livello di contenuto, ma di progetto, di intenzione, di ciò a cui essa tende anche se le è impossibile produrlo. Con ciò Paolo esprime la finalità vivificante, salvifica, liberatrice della legge». «Proprio questo è ciò che però di fatto risultava impossibile alla legge». 19 J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Milano 2007, p. 142. 20 W. Schmithals in R. Penna, cit.
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cuore» ancora schiavo e più ancora, fratello «un tempo a te inutile, ora utile a te come a me». Non è un invito alla individuale presa di coscienza, ossia ad una trasvalutazione morale dei valori. Paolo spregia i moralismi e non può che ripetere un sì totale alla vita: «il figlio di Dio non divenne un sì e un no, ma in Lui fu fatto sì», non piegato in relativismi, non debitore di alcun punto di vista. L’apostolo parla all’uomo totale che non risponde più a imperativi morali21. Se l’uomo era schiavo il suo corpo aveva un proprietario alieno, il padrone, ma se era libero egli era il padrone di se stesso. Si verificava un semplice cambio di padrone22. Da liberi si era schiavi di se stessi. La critica di Paolo fu radicale. Gli era estranea la concezione che nella proprietà vedeva un prolungamento della persona, rigettando il banale sillogismo: la mia persona, il mio corpo fisico mi appartengono, sono mia proprietà. «Siete stati comprati ad un prezzo, non fatevi servi degli uomini». Per il membro della comunità cristiana, comunità umana, non valeva la rivendicazione dei diritti personali di proprietà, diveniva inessenziale la condanna della stessa categoria dello sfruttamento. Quest’ultimo, in certo qual modo, sarebbe stato ineliminabile perché da sempre i bambini, i malati, gli invalidi, i vecchi hanno bisogno di sfruttare le cure e i soccorsi. «Invece molte sono le membra e unico il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: non ho bisogno di te, né a sua volta la testa ai piedi. Non ho bisogno di voi». La società è composta di diversi dove il rapporto tra sforzo e consumo non solo sarà di disuguaglianza sempre, ma nel tempo di ora diverrà indifferente che lo sia. «La giustizia che si ha per fede parla così: non dire nel tuo cuore: ‘Chi potrà salire in Cielo’ ciò è per far discendere Cristo» Uguaglianza è per Paolo termine vuoto, ancora troppo particolare, che al più descrive l’uomo vecchio, l’uomo della legge, l’individuo. L’individuo è impotente, la volontà morale è impotente così che la legge che non si rivolge che a essi, è inevitabilmente un dover essere inattuabile. C’è un racconto di Kafka, commentato da molti: un uomo è davanti alla porta della legge. Vorrebbe entrare, ma c’è lì un guardiano a vietarglielo. L’uomo invecchierà nell’attesa, morirà nell’attesa, senza che gli sia concesso di varcare una porta che a lui solo era destinata. A lui soltanto. La parola è vicinissima nella tua bocca e nel tuo cuore ed è nelle tue mani eseguirla (Deuteronomio 30, 11-14).
21 Sarebbe interessante la lettura della critica nietzscheana a Paolo alla luce della prospettiva heideggeriana che rimprovera a Nietzsche di aver frainteso Paolo rimproverandogli il ressentiment, poiché «i rapporti stabiliti da Paolo vanno intesi in termini non etici». 22 Aristotele, Politica, in Opere, Laterza, Bari 1973, vol. IX, p. 9: «Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo».
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1. Sia che venga da legere (Cicerone), sia che derivi da ligare (Lattanzio), 53 il termine religio indica lo stare-insieme proprio del raccogliere-essendo-raccolto. E, infatti, se la derivazione da legere rileva l’agire di chi raccoglie, tiene insieme, là dove quella da ligare evidenzia la passività dello stare insieme, la dipendenza da altro – va pur detto che le caratteristiche, messe in luce dalle due etimologie, non possono non stare, a loro volta, insieme, unite. Chi raccoglie, raccoglie secondo un principio, un criterio, che deve, in qualche modo e misura, conformarsi alla “cosa”, a ciò che viene raccolto, tenuto insieme. Del pari la passività dello stare insieme, l’essere legato ad altro, dev’essere sentito, avvertito da chi è legato, perché dipendenza vi sia – quella dipendenza, dico, che non è tra cose inerti, ma tra viventi. In breve: l’attività del legere e la passività del ligare definiscono un unico rapporto – quello, appunto, che caratterizza la religio. Facendo un salto di secoli – da Cicerone e Lattanzio a Schleiermacher – il “sentimento di assoluta dipendenza”1, che caratterizza la religione nella sua essenza, è appunto l’unità della passività della dipendenza (ligare) e dell’attività del “sentire” (legere). Solo per questa unità di passività ed attività – unità che penetra in ciascun termine: nella dipendenza che è tale perché sentita, e nel sentimento che è sentimento, appunto, di dipendenza assoluta –, solo per questa unità il legame è legame religioso, vale a dire: ha la forma dell’ob-ligatio.
* Relazione tenuta al Colloquio italo-tedesco «La teologia filosofica oggi: Prospettive e problemi nel dialogo con e tra le religioni», organizzato dalla Philosophisch-Theologische Hochschule Brixen, dall’Institut für Religionsphilosophische Forschung der J.W. Goethe-Universität Frankfurt am Main e da ICREA - Universitat Autònoma de Barcelona [Bressanone (Brixen) 6-7 luglio 2007]. 1 Cf. F. D. E. Schleiermacher, Der Christliche Glaube, 2 Bde, de Gruyter, Berlin 1960; trad. it. di S. Sorrentino, 2 voll., Paideia, Brescia 1981-1985, I, § 4; e altresì, Id., Über die Religion, Reclam, Stuttgart 1969, Zweite Rede (trad. it. di G. Durante, in Id., Discorsi sulla religione e Monologhi, Sansoni, Firenze 1947).
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L’unità del legere e del ligare – il fatto cioè che legere è già ligare, e viceversa – ci permette di illustrare altra caratteristica dell’esperienza religiosa: la sua duplice direzione, che indico con un’immagine spaziale, l’orizzontale e la verticale. Perché, se raccogliere è possibile solo in base ad un principio o criterio, allora, non essendo il principio o criterio del raccogliere sullo stesso piano di ciò che è raccolto – al modo stesso in cui l’unità del molteplice non è termine del molteplice –, la dimensione orizzontale dell’unione, dello stare insieme (del legere), rinvia di necessità alla dimensione verticale del principio o criterio che regge lo stare insieme. Parimenti sentirsi legato (dipendente) da qualcosa, e quindi essere ob-ligato a qualcosa, implica con la verticalità del principio ob-ligante, l’orizzontalità dell’ob-ligato. Ne consegue che non v’è esperienza religiosa di pura immanenza. Esperienza religiosa, o non, piuttosto, esperienza tout-court? Invero la dimensione verticale della dipendenza caratterizza tutta la vita dell’uomo, sia questi filosofo o scienziato, artista o uomo d’azione, politico, militare, o capitano d’industria. Il sentimento di dipendenza – da un principio, dal Tutto, da un’Alterità altra anche dal Tutto – pervade intera l’esistenza. L’uomo d’azione o l’artista, lo scienziato e pure il filosofo, possono bene non esserne consapevoli, ma questa dipendenza c’è. L’uomo d’azione può anche presumere che tutta la sua opera dipenda da lui, ma pur teme la mala sorte, il colpo non riuscito: l’accadimento è oltre l’azione, questa è del singolo, quello è il risultato dell’incontro e dello scontro di più volontà, che trascende le intenzioni e i desideri, le attese e le aspirazioni dei singoli; per riprendere la bella espressione di Hegel, l’accadimento è das Tun Aller und Jeder, «il fare di tutti e di ciascuno»2. L’artista può anche sentirsi “genio creatore”, ma non dipende certo da lui esserlo; e il filosofo e lo scienziato possono anche ritenere che i principi con cui interpretano e spiegano il reale sono puramente “soggettivi”, resta il fatto che per interpretare e spiegare il reale debbono far uso di principi che comunque trascendono ciò che volta a volta intendono interpretare e spiegare. Quel che caratterizza la “religione” è la consapevolezza di questa dipendenza. Ne consegue che la religione, non certo in quanto “istituzione”, ma come consapevole sentimento di dipendenza, non è la domenica della vita; coincide, bensì, con la vita stessa. E per distinguere anche terminologicamente questi due aspetti della religione – l’“istituzione” dal “sentimento” – uso per il secondo il neutro che la lingua italiana non possiede: il “religioso”, nel significato del tedesco das Religiöse. L’esperienza del nostro tempo non sembra, però, avvalorare questa asserita coincidenza del “religioso” con la vita dell’uomo. Prevale, oggi, ed è un già lungo oggi, la religione-“istituzione”. Di quella modalità del sentire che pervade l’intera esperienza umana pare si custodisca il ricordo, quando non
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G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Meiner, Hamburg 19526, p. 300.
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la nostalgia, solo in ristrette cerchie di studiosi o di poeti3. Nel vivere comune e quotidiano la religione è una forma di vita a parte. Forma di vita anche con forte incidenza sulle altre: sull’economia, la politica, la vita sociale. Talora le ‘manifestazioni religiose’ ricordano da vicino anche per il modo chiassoso della partecipazione, le riunioni sportive. Non è questo, non è anche questo – nichilismo? 2. L’origine del fenomeno è antica, molto antica. Risale alle prime manifestazioni del “religioso”. Al tempo in cui il “religioso” – il sentimento di dipendenza – permeava tutta la vita dell’uomo, quando una rigida partizione distingueva lo spazio sacro dal profano, e il tempo festivo dal tempo comune. Quando la dimensione verticale dell’esperienza dominava su tutte le pratiche di vita: dalla costruzione della casa, alla definizione del luogo della polis ove si pronunciava giustizia, dalla distinzione dei giorni destinati al lavoro da quelli dedicati al riposo, alla indicazione dei riti da celebrare prima d’iniziare l’aratura o la raccolta delle messi, e così via di seguito. Già, perché la verticalità del “religioso” era piegata all’orizzontalità dell’esperienza. Il giorno Festivo era il giorno della contemplazione, della rinascita, della purificazione. Il giorno in cui l’uomo, tornando all’origine, riprendeva forza, si rinnovava, rinasceva. La theoría, il theoreîn, la visione del divino era in funzione dell’umano. E quanto più la Festa ricordava il Caos originario e la Notte del mondo, come nelle orge dionisiache, tanto più i sacrifici erano destinati a “placare” il Dio o gli Dèi, a definire nuovi, o rinnovati, patti, nuove, o rinnovate, alleanze. Nuove, o rinnovate, fedeltà. La filosofia volle sganciarsi da questa servitù, fissando leggi eterne e inviolabili, per l’uomo come per Dio. Lo dico con le parole del Greco: ouk ên ápeiron chrónon cháos è nyx, allà tautà aeì è periódo è állos, eíper próteron enérgeia dynámeos4. E la condizionale (eíper…) non era una condizionale, anzi l’evidenza (phanerón) somma – ché nulla potrebbe mai passare dalla potenza all’atto, se non ci fosse già una causa in atto che determina tale passaggio. E la causa sempre attuosa, la causa sempre in atto, la Causa causarum, è Dio, il supremo “perché” (dióti). Il Dio epistemico garante del mondo. Non erano più necessari sacrifici, né spazi sacri, né giorni festivi. Ma il Dio epistemico – il Dio della filosofia – non poteva non vacillare prima, e poi cadere, quando la filosofia stessa mise a nudo il fatto che non Dio garantiva il mondo, ma la ragione che aveva fatto di Dio il garante del mondo. E la ragione è pur fragile e limitata se quel che conosce, lo conosce sempre limitatamente. Se la scepsi può sempre di nuovo mettere in crisi la ragione.
3 Cf. R.M. Rilke, Briefe aus Muzot, Hrsg. R. Sieber Rilke und Carl Sieber, Insel, Leipzig 1936, la lettera del 13 novembre 1925 al suo traduttore polacco, Withold von Hulevicz, spec. p. 335. 4 Aristotele, Metafisica (= Met.), XII, 1072a 7-9: «non ci fu per un tempo infinito Caos o Notte, ma sempre le stesse cose o ciclicamente o in altro modo, se l’atto è prima della potenza».
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Salvò il mondo un Dio straniero, che veniva da Oriente. Parlava parole nuove, indictae prius, inaudite. Un Dio che non era causa, che non si fondava sulla ragione – umana, troppo umana – ma sull’amore, un insolito amore che non chiedeva, ma dava. Non eros, ma agape. Un amore non desiderante, ma oblativo. Questo Dio dette un giorno di sollievo al mondo, al mondo degli uomini. Agape sosteneva il mondo. Era il verticale – la colonna – su cui poggiava il mondo e la storia del mondo, l’orizzontale. E la colonna valeva per quel che sosteneva. Pur lodando la glossolalia – il rapporto intimo e diretto dell’uomo con Dio, o, forse, meglio: di Dio con l’uomo –, Paolo non esitava a manifestare la sua predilezione per la profezia, per il parlare nell’ekklesía agli altri uomini, al fine di edificarli, e-ducarli (I Co, 14). Al centro, al punto di incrocio del verticale con l’orizzontale era pur sempre l’uomo.
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3. Il giorno di sollievo non durò molto. Per sostenere il mondo, il Dio venuto dall’Oriente doveva essere molto potente, tanto che nessuna forza a lui contraria avrebbe mai potuto abbatterlo. Doveva essere onnipotente. Illimitabile, e quindi anche capace di distruggere il mondo, oltreché di conservarlo. Neppure l’amore poteva essere per lui una regola, ché l’avrebbe limitato. Come si espresse Lutero: se il giusto è in quanto giusto condannato all’inferno da Dio – e Dio nella sua illimitatezza può ben farlo –, il giusto, in quanto giusto, loda Dio perché l’ha condannato alla pena eterna. Lutero capovolge il senso del rapporto: non il verticale è per l’orizzontale, ma questo per quello. Il centro è Dio, non l’uomo. Lutero, però, non resta fedele a se stesso: il giusto che loda Dio che l’ha condannato, è salvato dalla lode5! Ora davanti a questo Dio che tanto può reggere il mondo, quanto lasciarlo cadere, quale garanzia può avere l’uomo della persistenza del mondo? del suo mondo, e di se stesso? Chiaramente nessuna. S’impose, allora, il ritorno alla ragione come fondamento del mondo6. Ma quale ragione poteva sostenerlo? Non certo una ragione intramondana. Non poteva certo trattenersi per il codino – come il barone di Münchhausen – per evitare di scivolare nel nulla. La ragione che doveva sostenere il mondo, la ragione che nulla “re” indiget ad existendum7, das reduzierte Ich – l’Io ri sultato dalla riduzione fenomenologico-trascendentale – ist kein Stück der Welt8, «non è un pezzo di mondo». Non è un significato, un oggetto della
5 Cf. M. Lutero, La Lettera ai Romani (1515-1516), trad. it. di F. Buzzi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, pp. 552-553. 6 Cf. in merito, H. Blumenberg, Säkularisierung und Selbstbehauptung, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1983 (II ed. ampiata della I e II Parte di Die Legitimität der Neuzeit), pp. 167-211; trad. it. di C. Marelli, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992, P. II, Cap. III. 7 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Nijhoff, Den Haag 1950-1952, I, § 49. 8 E. Husserl, Cartesianische Meditationen, Gesammelte Schriften, Hrsg. Elisabeth Ströker, Bd. 8 (contiene anche la Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie), Meiner, Hamburg 1992, § 11.
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ragione, come tale sempre suscettibile di dubbio. Non è “significato” affatto, per essere il sostegno d’ogni significato e d’ogni significare. Anche dirlo Io è troppo, che in fondo è tanto Io, quanto, Egli, o Esso, è la cosa che pensa, das Ding welches denkt, rectius: il veicolo di tutti i concetti in generale (das Vehikel aller Begriffe überhaupt)9. Ed anche questo dire è di troppo: perché se davvero è non-significato, se davvero è uguale a X, come è giustamente detto, allora è tanto veicolo di tutti i concetti, quanto l’abisso di tutti i concetti. L’autofondazione del mondo, l’autolegittimazione della ragione sulla base della stessa ragione, non ha miglior risultato della fondazione attraverso il Dio onnipotente. Come il Dio onnipotente è per la sua onnipotenza uguale a X, e cioè: indefinibile, perché illimitabile, così la ragione. Dio e ragione non garantiscono affatto il mondo. Sono una non-garanzia. Un nulla-di-garanzia. Sono nulla. 4. In questo nulla abita il nichilismo. Il nichilismo contemporaneo, erede diretto della secolarizzazione, ovvero della subordinazione del rapporto verticale col Dio al rapporto orizzontale con gli uomini. E vani appaiono i tentativi di distinguere secolarismo da secolarizzazione, attribuendo all’uno la chiusura immotivata nel mondo e all’altro l’apertura, entro il divenire storico, alla trascendenza10. Vani, perché quel richiamo o rinvio alla trascendenza rientra a pieno titolo nella storia del nichilismo. È nichilismo esso medesimo. Non solo vana, ma per di più pericolosa, è poi quella tendenza reattiva nei confronti del nichilismo, che intende riportare il mondo al sentimento arcaico del Sacro, al senso della sacralità della Natura. Il secolo appena trascorso insegna a quali aberrazioni è giunto tale neo-paganesimo. Al nichilismo non si risponde reattivamente, negativamente. Si corrisponde al nichilismo accettandolo, col portarne sino in fondo la sua “logica”. E non per controllarlo, “governarlo”, neutralizzandone gli “effetti negativi”; bensì, per farne emergere la latente religiosità. Il titolo “religione e nichilismo” va, dunque, mutato in “religione è nichilismo”? 5. Tanto il Dio onnipotente – dicevamo – quanto l’Io o ragione, che proprio in quanto pensati come fondamento del mondo non sono riconducibili a nulla di mondano, nel loro comune esser-nulla non sono semplicemente il negativo dell’essere. Indicano, per contro, quanto si sottrae all’“essere”, e alla sua copula, all’“è”: alla grammatica del pensiero che pensa in “terza persona”. Non bisogna attendere Heidegger per capire che la logica, in quanto scienza rivolta all’essente, è incapace physei, per natura o costituzione e non per
9 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Werke, Akademie Textausgabe, De Gruyter, Berlin 1968, A (vol. IV) 341 B (vol. III) 399, e A346 B 404. 10 Cf. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit, Siebenstern Taschenbuch, München und Hamburg 19662, spec. cap. 9, Säkularisierung und Säkularismus.
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difetto, di “parlare” del nulla11. L’aveva già detto Aristotele – che Heidegger conosceva e il suo critico Carnap, il logico Carnap, non pare, o forse l’aveva dimenticato –; l’aveva già detto Aristotele con la sua stringatezza essenziale: tò mè òn eînai mè òn phámen (Met., IV, 2, 1003b 10: «diciamo che il non- essere è non essere»). La tirannia della terza persona, della copula “è”, porta anche il non-essere nell’orizzonte dell’essere. Neppure si esce dalla grammatica dell’essere usando la prima persona, l’“io sono”. Questo, al meglio, ci può portare al limite di questa grammatica, alla X, al nulla-di-significato; ma se e quando non vi ricade – come è accaduto a Descartes, a Kant e a Husserl – non va oltre, non può andare oltre, perché la logica della prima persona non mette in questione le categorie modali, ma le prende, senza apportarvi alcun mutamento, dalla tradizione. E se la logica della terza persona è la logica della “necessità” – la “è” definisce la natura o essenza della cosa, quello che la cosa è e non può non essere –, la logica della prima persona è la logica della realtà: dice quello che l’io di fatto è, hic et nunc, e che per essere ha dovuto avere i suoi buoni motivi, tanto buoni da superare la possibilità di non-essere. Pertanto ciò che in realtà è, è necessario che sia. La possibilità è solo il “passato” del reale, la sua ombra. E passato da sempre “passato”, mai stato presente, se i motivi per cui il reale si è realizzato nel presente si collegano ai motivi di tutto ciò che è stato reale e sarà reale. L’aristotelico Leibniz, che pur era partito dall’intento di distinguere verità di ragione da verità di fatto, per dar spazio al possibile, aveva concluso affermando che la conoscenza perfetta (quella che pertiene solo a Dio) di una sola monade presente consente di conoscere tutto quanto è, è stato e sarà non solo di quella monade, ma di tutto l’universo delle monadi12. Il possibile è, in tal modo, relegato nella conoscenza imperfetta, nell’ignoranza, che è propria dell’uomo. Il reale, invece, è tradotto, trasposto nel necessario. La logica della prima persona, non meno di quella della terza, è retta dalla categoria modale della necessità. Per entrambe le logiche – o grammatiche – anche il possibile è subordinato alla necessità. Per entrambe, infatti, il possibile è necessariamente possibile – e solo perciò si dice, e si può dire, che esso, il possibile, è possibile. Il pensiero che pensa nell’orizzonte dell’essere, pensa il possibile come possibilità d’essere e di non-essere. Pensa il possibile in relazione ad altro e non a sé. Pensato in relazione a sé, il possibile non è solo possibilità d’essere e di non essere, ma possibilità della possibilità d’essere e di non essere come dell’impossibilità d’essere e di non essere. Riflesso su di sé, il possibile si sottrae alla copula “è”, perché non può dirsi che il possibile è, dovendosi dire che il possibile è-possibile. E, si badi, “è-possibile” non è copula + predicato.
11 M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, in Id., Wegmarken, Klostermann, Frankfurt/M. 19782, pp. 103-121. 12 G. Leibniz, Discours de Métaphysique, testo francese e trad. tedesca, in: Philosophische Schriften 5 Bde, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1985, I, pp. 56-172, § 8.
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È bensì solo copula. E copula che non ha predicato. Si consideri questo: ove volessimo dare al possibile un predicato, il giudizio dovrebbe formularsi così: il possibile è-possibile (copula) possibile ed impossibile (predicato). È palese che il predicato si toglie da sé, possibile negando impossibile e impossibile negando possibile. Che cosa comporta il fatto che il possibile può esprimersi soltanto in un giudizio formato di soggetto e copula? Comporta che il giudizio del possibile è un atto per costituzione – physei – mancato. È un giudizio non compiuto, non finito. Un giudizio in-finito. Come un ponte che poggia su un pilone soltanto, che resta sospeso, ma che pure è una via per…, un cammino verso… Ed è questo che esprime la logica della seconda persona. La logica del TU, che non manca di dire l’Altro, ed anzi ad esso si approssima con la parola confidente dell’amicizia, ma nella consapevolezza che tutto quanto dice di quello cui s’approssima, cade nella sfera dell’appellante, è proprio di chi dice TU. Non definisce l’Altro – l’Altro cui s’approssima resta tale, Altro. E tanto altro da poter essere anche altro da sé, essere il medesimo. Identità. E come tale, identica a chi ad essa si rivolge: interior intimo eius. Ne consegue che l’appellante è coinvolto nel destino dell’appellato, vale a dire che la possibilità dell’appellato di poter-essere ed insieme di non poter-essere altro e identico si riflette sull’appellante, esso medesimo non io, ma tu. Ne discende che il Tu dell’appello non è detto che sorga dall’appellante, è possibile che provenga dall’appellato stesso. Questa possibilità apre l’appellante ad una costante riflessione su di sé, che procede non per incrementi o aggiunte, ma, all’inverso, per sottrazioni. Per aprirsi all’alterità dell’Altro deve assottigliare sé, ridursi, esponendosi così al pericolo estremo di conseguire la negazione ultima, quella che pone fine alla stessa interrogazione sottraente, alla riflessione autonegantesi. Nella logica della seconda persona, o del Tu, non si fronteggiano due identità, ma due possibilità, la possibilità massima del quiddam maius quam cogitari potest, e la possibilità minima del quiddam minus quam cogitari potest. Ed è possibile che le due possibilità siano la medesima. È possibile. Il latino delle ultime proposizioni rivela che non abbiamo abbandonato il tema del “religioso” ed anzi che l’intero percorso sinora tracciato aveva una ben precisa mèta: parlare non della religione in generale, ma della religione cristiana. Il titolo “religione è nichilismo” va mutato allora in “cristianesimo è nichilismo”? 6. La penultima parola del Cristo è: Fiat voluntas tua. È la seconda kenosi del Figlio. La prima – quella di Filippesi 2, 6-8 – è la spoliazione del Figlio della sua divinità. Riduzione di sé a uomo, a carne, a sofferenza infinita, da Dio a servo. A servo che muore in croce. È riduzione non annullamento di sé. La seconda kenosi è nihilizzazione di sé. L’ultimo atto di volontà del Cristo
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è la rinuncia alla propria volontà. È la sua ‘penultima’ parola: non sicut ego volo, sed sicut tu13. A questa parola penultima, segue l’Eloì, Eloì, lamà sabactàni. Un grido. Il grido dell’abbandono. Rimessosi completamente al Padre, il Padre si manifesta sottraendosi, ritraendosi. Il meno minore d’ogni meno non colma il distacco. Il TU resta altro: quiddam maius quam… Qui non possiamo più dire: cogitari possit. La possibilità che qui è in giuoco va al di là del pensiero, del Logos, del Verbo. Il ritrarsi del Padre, l’abbandono del Figlio, del Verbo, del Logos, coinvolge il mondo. Coinvolge la “creatura” del Figlio: di’autoû pánta eghéneto kaì chorìs autoû eghéneto oudè hén (Gv, 1. 3: «tutto da lui è stato generato e senza di lui niente è stato generato»). L’abbandono del Figlio è insieme abbandono del mondo. Il dolore del Figlio – per la lontananza dal Padre, dal suo esser-divino – è insieme, háma, simul, gioia infinita: perché un altro giorno è stato concesso al mondo. L’abbandono indica che la consummatio in Unum, la perfezione, è rinviata. È la gioia della conservazione della creatura: il mondo irredento è però salvato: serbato. Qui la gioia che accompagna il dolore infinito. Ma è gioia che è essa stessa dolore. Il mondo salvato, serbato, è salvato, serbato in quanto abbandonato, in quanto lasciato a se stesso. Nella sospensione del possibile. Nel nulla di sé. Il mondo abbandonato non-è, è-possibile. Nonché esser colonna che regge il mondo, il verticale è l’abisso in cui il mondo può sprofondare. L’abisso di Dio su cui il mondo – creatura del Figlio – resta sospeso. Chiedersi per quanto tempo significa non comprendere che non c’è tempo per questo, che il tempo stesso è sospeso su questo abisso, l’abisso dell’eterno, che non fu, è, sarà, perché non conosce i mére chrónou, non conoscendo tempo – non essendo tempo. La sospensione del mondo sull’abisso di Dio, sull’abisso dell’eterno dice appunto questo: il mondo è-possibile, il tempo è-possibile. Per comprendere in tutta la sua potenza il nichilismo di questa affermazione, aggiungo – solo di passaggio14 – che la sospensione del mondo e del tempo sull’abisso del possibile non è meno sospensione del Deus-Trinitas. L’abbandono del Figlio segna, nella prossimità, la distanza infinita del Figlio dal Padre. Quando questa distanza fosse colmata, la Trinità stessa scomparirebbe. Il Padre è nella Trinità ciò che serba, salva, la Trinità, ed insieme ne è l’estremo pericolo. Il pericolo che minaccia il Deus-Trinitas? Lo stesso che minaccia il mondo: la perfectio dell’Uno. La mirabile pittura di Grünewald
13 Non si comprende la demonica volontà delle ultime parole di Kirillov – la contrapposizione dell’uomo-dio al dio-uomo (cf. I demoni, trad. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1974, pp. 219-223) – se non si riflette sulle parole penultime del Cristo. 14 Sul tema rinvio al mio Il Dio possibile, Città Nuova, Roma 2002, Parte I, cap. III: “La Trinità, il negativo e il male”, pp. 73-97, ed al più recente: E pose la tenda in mezzo a noi…, Albo Versorio, Milano 2007, cap. I: “La Trinità e il Sacro. La trascendenza del corpo”, pp. 17-48.
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accenna a questa possibilità: Il Figlio che torna al Padre perde via via che sale la sua figura. Il ritorno al Padre è la scomparsa del Figlio? O non v’è altro ancora da pensare? Nella possibilità del Padre è anche la compresenza del Figlio. Il Figlio siede alla destra del Padre, non è assorbito nel Padre, dal Padre. La Trinità non esige perfezione. È-possibile. Il Deus-Trinitas è-possibile. Il Deus-Trinitas è il Dio possibile. 7. È tempo per trarre qualche conclusione sul piano etico. Intendo “etico” in senso originario, da ethos, dimora. È tempo per trarre qualche conclusione sul modo di abitare il mondo, e il tempo, il tempo del mondo. Lo faccio commentando alcuni versi di un poeta del tramonto e della nostalgia del mondo tramontato. Freilich ist es seltsam, die Erde nicht mehr zu bewohnen, kaum erlernte Gebräuche nicht mehr zu üben, Rosen, und andern eigens versprechende Dingen nicht die Bedeutung menschlicher Zukunft zu geben; das, was man war in unendlich ängstlichen Händen, nicht mehr zu sein, und selbst den eignen Namen wegzulassen wie ein zerbrochenes Spielzeug. Seltsam, die Wünsche nicht weiterzuwünschen. Seltsam, alles, was sich bezog, so lose in Raume flattern zu sehen15.
Non dare più alle cose, colme di promessa, significato di futuro umano. La sospensione del mondo sull’abisso della perfezione piega il tempo, tutto il tempo, sul presente. Che non è la hóra della Parousìa dell’Assoluto, ove le morte stagioni e le presenti e vive, e le future, attese o promesse, sperate o preparate, si raccolgono e si dividono; ma è il piccolo, minuscolo, minimo nûn del tempo che passa. Un istante, toccato dalla perfezione dell’Uno (ut Unum sint), pericolo e minaccia del tempo che scorre. Un istante, che non cessa di scorrere, di avere un prima e un dopo, ma nel quale tutto il tempo è come convocato dinanzi all’abisso dell’eterno. Questo presente – piccolo, minuscolo, minimo istante – vale non per la memoria del passato che possa custodire in sé, non per la speranza, l’attesa o il desiderio e la volontà di futuro, ma per la possibilità che si è aperta in esso, per ciò che lo salva, serbandolo nella sua parvità, o al contrario lo nega, perfezionandolo. Questo presente vale per la 15 «Certo è strano non abitare più la terra, / gli usi appena appresi non più praticare, / alle Rose e alle altre promettenti cose, non dar più il significato di un futuro umano; / ciò che si era in mani infinitamente ansiose, / non esserlo più, ed anche il proprio nome / metterlo via come un balocco rotto. / Strano non desiderare ancora i desideri. Strano / vedere tutto ciò ch’era collegato, liberamente / fluttuare nello spazio»: Rilke, Duineser Elegien, Werke, Bde 6, Insel, Frankfurt/M. 19822, Bd. 2, pp. 443-444. 19 I. vv. 69-78.
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sua verticalità, per il rapporto col Sacro, col Sacro di Dio, che è “prima” della distinzione tra Cielo e Terra, e non per la sua estensione, o durata: non per l’orizzontalità della storia. E tanto poco la glossolalia è per la profezia, che anche il proprio nome – il nome che designa e determina la storicità dell’appellante, ed il suo essere-con, la sua appartenenza ad una comunità – è messo via come un balocco che si è rotto. In questo rapporto col Sacro, con ciò che è oltre ogni oltre, altro da ogni altro, sì da poter essere nella sua oltranza dall’altro, altro dell’altro, epperò medesimo, chi dice Tu, l’appellante, fa esperienza della sua nullità. Pur essa non-essente, ma possibile. Non negazione attuata, ma exercita, negazione tutta nel negare, nullità tutta nell’annullare-sé. Un sé che non è prima dell’annullare, ché solo nell’annullarsi è-possibile. Riprendo qui le parole con cui Hegel definisce l’essenza, l’essere dell’essere, come riflessione, ma non cito le prime che dicono: Die Bewegung von Nichts zu Nichts, bensì le seconde: Die Bewegung des Nichts zu Nichts16. Nel riprenderle, preciso, però, che la negazione del niente (die Negation eines Nichts) non definisce punto l’essere (macht das Sein aus), ma il possibile. Il possibile, perché quell’annullarsi, in cui l’appellante fa esperienza della sua nullità, può – insisto: “può” – ben incontrare l’Altro nella medesimezza: può ben essere assorbimento della negazione riflessiva nell’Altro, ora non più Altro, così come, all’opposto, abbandono. Abbandono dell’autonegazione, della seconda kenosi, a se stessa. La relazione religiosa si rivela qui relazione non di identità, ma di non- identità, relazione senza poli, essa medesima solo possibile. Sospesa pur essa all’oltranza dell’Altro, alla possibile-impossibile possibilità dell’Altro. Sospesa al Dio possibile: il Sacro. Qui anche si mostra l’infinita distanza tra l’uomo-dio che ringrazia perché il ragno, che sale sul muro, sale sul muro, e il dio-uomo che dice Fiat vo luntas tua. Kirillov conserva ancora troppo amore per il mondo, se ringrazia perché l’essente è (I demoni, cit., p. 222); se ringrazia – per dirla con Heidegger – per la meraviglia di tutte le meraviglie (das Wunder aller Wunder): «daß Seiendes ist», che essente è17. Kirillov ringrazia per l’accadere dell’essente, per quello che nella VII Lettera platonica è detto “alethòs on”, il puramente essente, il tí indicibile senza poión (342-343); ringrazia per ciò che Wittgenstein definiva das Mystische, che il mondo è18. Il fiat voluntas tua è, invece, totale
16 G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Werke in zwanzig Bänden, 5-6, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, II, pp. 24-25. 17 Cf. M. Heidegger, Nachwort zu “Was ist Metaphysik?”, Wegmarken, cit., p. 305. Wunder dice “meraviglia” in Heidegger, “miracolo” in Schleiermacher. Ma cos’è, poi, miracolo, Wunder, in Schleiermacher? «Wunder è solo il nome religioso per un fatto (für Begebenheit), ogni fatto anche il più naturale e abituale, quando ha certe proprietà tali che l’opinione religiosa che se ne ha può essere dominante, è un miracolo. Per me tutto è miracolo»: Über die Religion, cit., p. 79; it. 77. 18 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it., con testo tedesco a fronte, di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1989, 6.44.
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remissione all’oltranza dell’Altro. Pure a quella oltranza che è – ad occhi umani, troppo umani – oltraggio: ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù (Malachia, 1.2-3). Strano non più continuare a desiderare i desideri. Il poeta non dice che è strano non desiderare più. Dice: strano non più ulteriormente desiderare (weiterzuwünschen) desideri. I desideri sono, sono presenti, come il tempo che scorre, nel quale scorre anche il piccolo istante, il nyn toccato dall’eterno, ma come questo nyn, davvero kairós, è nel flusso del tempo indifferente al fluire in cui fluisce, così i desideri che sono, e sono presenti, attuali, non sono più oltre desiderati. Nel detto del poeta s’ode l’eco di più antiche parole, che nominano l’essere nel mondo che non è essere del mondo (Gv, 17). Seltsam die Erde nicht mehr zu bewohnen. Questa stranezza è religione. E religione cristiana. Strano veder fluttuare, sciolte, nello spazio tutte le cose – cose e uomini, e non le cose come gli uomini, ma gli uomini come le cose – ch’erano in rapporto. La nostalgia di passato, a cui il poeta soggiace, rivela l’assoluta novità del presente, del piccolo, minuscolo, minimo presente del nyn kairós. Sciolte nello spazio tutte le cose in uno stare accanto che non è più definibile stare-con, stare-insieme: uno stare accanto senza regola, senza dottrina, senza rivelazione. Uno stare accanto come vento e albero, erba e animale, mare e cielo, e terra… Uno stare accanto che non è dialogo, semmai preghiera, parola rivolta al proprio Dio, avendo accanto altre e diverse parole rivolte ad altri e diversi Dèi. Dissero a Gesù che parlava alle folle che sua madre e i suoi fratelli volevano parlargli; ed egli rispose: chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? Tutti coloro che seguono la voce del Padre nostro che è nei cieli. La voce silenziosa del Sacro che parla nelle cento e cento lingue dell’umanità storica. La lingua pura, l’inesistente lingua paradisiaca (Benjamin), parlante solo in lingue storiche. Questa religione è il riconoscimento della religiosità di tutte le religioni. Questo cristianesimo è il cristianesimo della Chiesa invisibile – dell’unica Chiesa che non conosce servi, ma amici. Che conosce un’unica forma di ospitalità, quella di chi ospitando si sente ospite, di chi dando ospitalità ringrazia per essere ospitato dal suo ospite. Il cristianesimo che si è liberato del futuro, dell’éschaton, non perché lo neghi, ma perché non è esso che conta, bensì lo stare hic et nunc ai piedi della Croce, segno di sospensione tra la possibilità dell’incontro e la possibilità dell’abbandono. Entrambe – gioia e dolore infiniti. 8. Gioia e dolore infiniti – perciò nessun irenismo. So bene che il vento come accarezza così abbatte la pianta, che l’animale si nutre del vegetale e pur del suo simile, che l’ospite toglie spazio nella casa comune. Nessun incanto per il mondo – che è e resta l’aiuola che ci fa feroci. Perché il male del mondo è il mondo. Se omnis determinatio est negatio, allora all’origine del male è la creazione stessa: il Verbo, il Logos, di’autoû panta egheneto. Il Verbo che parla parole, il Logos che si realizza in lógoi, o non si realizza affatto.
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All’origine del male non dice: causa del male, bensì condizione di possibilità19. Senza il mondo non sarebbe il male, senza il molteplice non sarebbe il male. Ma male è più che negatività. Male è il molteplice non relato all’uno, il molteplice che vale di per sé, il niente separato dal possibile. Il puro orizzontale, dimentico d’ogni verticalità. Male è Satana, il Signore del mondo, che Gesù, il Cristo, teme, perché teme le seduzioni del mondo, perché soffre il mondo non meno dell’abbandono. Soffre la lontananza del Padre a cui si è rimesso – Fiat voluntas tua –; ma non soffre di meno il ritorno alla perfezione del Padre. Leggo così, anche così, la stupenda immagine di Grünewald. Ma stare ai piedi della Croce, non vivere la Croce come momentum, passaggio, ma come possibilità d’incontro e di abbandono, di abbandono e di incontro, significa avere accanto all’immagine di Grünewald del Cristo che ascende nella Gloria del Padre svanendo, l’immagine del Cristo morto del Mantegna. Quest’ultimo riferimento – all’immagine del corpo morto di Cristo – stimola ad un’ultima riflessione su religione e nichilismo, religione come nichilismo. Su cristianesimo come nichilismo. Le ultime parole del Cristo non sono pronunciate, sono gridate. Le ultime parole parlano il corpo, dicono il corpo, e nell’unico modo possibile di dire il corpo che è il corpo stesso. La parola è qui parola originaria non perché esprima significati originari. È originaria perché è oltre il significato, è all’origine del significare. È insieme respiro e gesto, phoné che esce dal petto, l’ultimo affanno, del corpo morente, che s’agita sul legno della sofferenza. Respiro e gesto. Ha scritto, il primo filosofo, che tutte le cose hanno phonè kaì schêma, e molte, non tutte, anche chrôma, colore. Cose: il greco del primo filosofo dice: prágmata, per indicare le cose che sono non semplicemente connesse all’agire dell’uomo, ma sono questo medesimo agire, e tanto più lo sono, quanto più colore hanno. Il colore di cui qui si parla è – chiaramente – il colore della passione. Di quella, in particolare, che ‘segna’ il sentimento di assoluta dipendenza. Assoluta, anche nel senso del restare en tô kryptô, nella segretezza del rapporto verticale, glossolalico, nello stare-accanto.
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Cf. Il Dio possibile, cit., loc. cit. (retro nota 14).
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All’origine dell’archeologia. Foucault di fronte alla fenomenologia Francesco Paolo Adorno
A prendere per buone le parole di Foucault, si sarebbe del tutto autorizzati a pensare che la fenomenologia abbia avuto, nel suo percorso, una mera funzione negativa, quasi un ostacolo di cui sbarazzarsi per lasciare libero il campo alla teorizzazione di concetti e metodi con maggiore forza critica. D’altronde, questa tesi è stata globalmente accettata, dato che, al di fuori della relazione di Lebrun al convegno del 19881, molto interessante ma che si occupa del solo Le parole e le cose, i rapporti di Foucault con la fenomenologia non sono mai stati analizzati in modo sistematico. Ma i lettori più attenti sanno bene che gli sguardi retrospettivi che Foucault lancia sul proprio percorso non offrono sempre delle corrette chiavi di lettura, come è dimostrato in maniera esemplare dal ruolo che i nomi dei filosofi giocano nei suoi scritti2. Le citazioni di Cartesio, Freud, Nietzsche, Kant e di altri filosofi non sono sempre univoche, ma seguono – come Derrida ha mostrato a proposito della psicoanalisi3 – un regime infaticabile di fort/da che è specifico del testo foucaultiano e che ne rende estremamente difficoltosa un’interpretazione definitiva. Foucault aveva una “cattiva” abitudine che consisteva nel ritornare sui suoi scritti a distanza di anni dando delle indicazioni che avevano la funzione di orientare la lettura dei suoi testi secondo delle direzioni che potevano essere diverse da quelle che avevano guidato la loro produzione4. È 1 G. Lebrun, «Note sur la phénoménologie dans Les Mots et les choses», in Michel Foucault philosophe, éd. du Seuil, Parigi 1989, p. 33-53. 2 Se è vero che il discorso di Foucault non si appoggia sull’autorità dei nomi propri, come sostiene F. Ewald («Anatomie et corps politiques», Critique, n. 343, 1975, p. 1228-1265), non bisogna dimenticare che numerosi nomi propri circolano nei suoi testi e, ogni volta, con funzioni specifiche. 3 J. Derrida, «Etre juste avec Freud», in Penser la folie, a cura di E. Roudinesco, Galilée, Parigi 1992, p. 139-195. tr. it. a cura di P.A. Rovatti, Essere giusti con Freud, Cortina, Milano 1994. 4 M. Foucault, L’Archéologie du savoir, Gallimard, Parigi 1970; tr. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971.
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dunque assolutamente necessario mettere alla prova del testo il rapporto con la fenomenologia, verificare tutti i passaggi delle interviste, degli articoli, delle prefazioni in cui Foucault parla del suo lavoro passato, ed essere disposti anche a non prenderli sul serio, è necessario essere estremamente sospettosi per non lasciarsi intrappolare dalla lettera di quello che Foucault dice di sé e del suo lavoro passato. Il primo testo a cui ci interesseremo è l’«Introduzione» a Sogno ed esistenza di Binswanger5. Si tratta di un testo importante, forse fondamentale nel percorso di Foucault, ma che in ogni caso non è di circostanza, poiché è inaugurato un dialogo con una tradizione filosofica che si protrarrà per anni e appaiono delle preoccupazioni teoriche, il problema del senso e una «teoria» del soggetto, per esempio, che si ritroveranno molto più tardi. Con ciò non si vuole sostenere che questa introduzione rappresenti una sorta di condensato originario della filosofia di Foucault, ma è pur vero che si trovano qui un insieme di problemi e di concetti che saranno ripresi con una certa continuità anche se saranno sottoposti, in alcuni casi, ad altre problematizzazioni, come nel caso del rapporto tra sogno e soggettivazione – ancora discusso ne La cura di sé. A differenza delle introduzioni classiche in cui si cerca di presentare l’autore del testo in questione, Foucault scrive un saggio, d’altronde molto più lungo del testo di Binswanger, seguendo due direzioni che trovano un punto comune nell’interpretazione del sogno e nella definizione dell’immagine. I motivi teorici per cui Foucault s’interessa a Binswanger sono già significativi: l’importanza della Daseinanalyse risiede nell’analisi delle strutture ontologiche dell’esistenza attraverso l’interpretazione dei sogni. In questo modo, la Daseinanalyse si può dirigere direttamente verso l’esistenza concreta del soggetto scavalcando i problemi posti dal carattere fondatore dell’ontologia e dal carattere empirico dell’antropologia. In altri termini, il lavoro di Binswanger permette di trovare nell’analisi dell’esistenza, di una esistenza concreta, la maniera di risalire alla conoscenza di una serie di archetipi che regolano la formazione della soggettività stessa. La Daseinanalyse si indirizza, a partire dall’esistenza determinata, verso una conoscenza ontologica del soggetto, poiché la conoscenza dell’universale che si acquisisce è costituita da tutte le arci-coordinate secondo le quali l’individuo formalizza la sua soggettività. Ora, anche se questa introduzione è fortemente segnata dal periodo in cui è scritta, Foucault studia la Daseinanalyse per una ragione assolutamente centrale: la possibilità di analizzare la maniera in cui il soggetto si costituisce che, trasformata, sarà pur tuttavia alla base della genealogia del soggetto di desiderio abbozzata ne L’uso dei piaceri e ne La cura di sé. Evidentemente non c’è nessuna continuità teorica tra questi due momenti della sua riflessione, 5 L. Binswanger, Traum und Existenz, tr. it. di L. Corradini e C. Giussani, con una introduzione di M. Foucault, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993 (citiamo l’introduzione di Foucault con la sigla IRE, seguita dal numero di pagina).
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ma esiste quella che si può definire una «continuità problematica», cioè una capacità costante di ritornare sugli stessi problemi per ridefinirli in funzione di nuovi dati teorici. Come se non bastasse a rendere conto della centralità di questo testo, l’analisi del sogno binswangeriana è interpretata da Foucault come un primo passo verso una teoria dell’espressione che si situa al di fuori del campo dell’estetica. Questa teoria dell’espressione, che, a dire il vero, non è mai stata formalizzata in quanto tale da Foucault, sarà centrale, come vedremo, nella definizione dell’archeologia. 1. Il problema posto è d’ordine espressivo. È su questa base che è sviluppata una critica della psicoanalisi e della fenomenologia che sono le due teorie con cui uno studio sulla Daseinanalyse deve fare i conti in priorità. La specificità di Binswanger consiste nel fatto che, a differenza di quanto fanno psicoanalisi e fenomenologia, egli riesce a coniugare un’analisi dei contenuti soggettivi dei sogni dei suoi pazienti con una definizione delle strutture dell’esistenza che sono a priori universali. Da parte sua la psicoanalisi, pur riuscendo a comunicare il senso delle immagini del sogno, dunque a garantire un contenuto in qualche sorta universale, fallisce quando vuole definire la sua semantica, poiché manca di una reale comprensione delle strutture e della morfologia delle immagini oniriche. Se è vero per esempio che un incendio significa un desiderio sessuale, perché questo contenuto prende esattamente questa forma e non un’altra? L’immagine del fuoco aggiunge qualche cosa di fondamentale alla rappresentazione del desiderio? E se sì, che cosa? Altrettante domande alle quali la psicoanalisi non risponde, fallendo nel suo compito6. A differenza della psicoanalisi, la fenomenologia riesce a far parlare le immagini ma rende il loro senso incomprensibile e dunque incomunicabile, venendosi a trovare in una situazione speculare a quella della psicoanalisi. Husserl nelle prima delle sue Ricerche Logiche separa l’indice dal significato: il primo rinvia al soggetto e il secondo costituisce uno strato di senso
6 Bisogna ricordare che in questo stesso periodo, Foucault si interessa soprattutto alla psicologia in una serie di scritti che serviranno da base teorica alla Storia della follia. Si vedano in particolare: «La psychologie de 1850 à 1950», in Id., Dits et écrits, Gallimard, Parigi 1996, citato con la sigla DE, seguito dal numero del volume e dal numero di pagina), DE, I, 120-137; «La recherche scientifique et la psychologie», DE, I, 137-159, e soprattutto Maladie mentale et personnalité, PUF, 1954 e la seconda edizione modificata di questo testo, Maladie mentale et psychologie, PUF, 1964, tr. it. a cura di F. Polidori, Malattia mentale e psicologia, Cortina, Milano 1997. Sul rapporto tra queste due edizioni, cfr. P. Macherey, «Aux sources de l’Histoire de la folie: une rectification et ses limites», Critique, n. 471-472, août-septembre 1986, p. 753-774. Da vedere è anche H.L. Dreyfus, «Introduction» a M. Foucault, Mental Illness and Psychologie, California UP, 1976; J. Seigel, «Avoiding the Subject: a Foucaultian Itinerary», Journal of History of Ideas, 1990, p. 273-299; R. Caillois, «Michel Foucault. Maladie mentale et personnalité», Critique, n. 93, 1955, p. 189-190.
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oggettivo e dunque accessibile a tutti7. L’immagine è così costituita da un elemento significante, universale proprio in quanto significante, e da un elemento in qualche modo soggettivo costituito dal lato indicativo dell’immagine. Ora una tale analisi dell’immagine che appunto mancava alla psicoanalisi, sembra assolutamente necessaria (IRE, 29). I problemi nascono a proposito del fondamento soggettivo del lato indicativo dell’immagine. In effetti, l’atto di significazione, per essere ideale deve avere evidentemente due caratteristiche: in primo luogo, deve essere universale; in secondo luogo, deve essere trascendentale, precedendo qualsiasi formulazione di un contenuto. Husserl ritrova queste due caratteristiche nell’intenzionalità. Ma l’intenzionalità, benché sia universale e trascendentale, si apre sempre su un orizzonte costituito dall’insieme dei vissuti del soggetto, cioè su qualche cosa che è nel suo contenuto intimamente soggettivo e guida l’espressione del significato. Anche se Husserl cerca di rendere ideale il contenuto dell’immagine, al di sotto di questo, Foucault mette l’accento sul fatto che, resistente a ogni riduzione, resta un ineliminabile atto donatore di senso del soggetto che non permette la comunicazione del contenuto8. 7 «Vedo dei buchi nella neve, delle specie di stelle regolari, dei cristalli d’ombra. Un cacciatore vi scorgerà, lui, le tracce fresche di una lepre. Queste sono due situazioni vissute; sarebbe vano dire che una comporta più verità dell’altra; ma nel secondo schema si manifesta l’essenza dell’indicazione, nel primo no. È soltanto per il cacciatore che la piccola stella scavata nella neve è un segno. Questo non vuol dire che il cacciatore ha più materiale associativo di me e che a una percezione egli ha associato l’immagine di una lepre che a me manca nella stessa situazione. L’associazione qui è derivata in rapporto alla struttura di indicazione: essa non fa che ripassare a tratti pieni la linea di una struttura che è già segnata nell’essenza dell’indizio e dell’indicato». (IRE, 28). Cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, Niemeyer, Halle 1900; tr. it. a cura di G. Piana, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 1988, pp. 291-328. I problemi formali e logici della fenomenologia non hanno attirato l’attenzione dei filosofi francesi che si sono interessati a Husserl. Già Sartre, ne La transcendance de l’Ego (1936 e poi Vrin, Parigi 1996, p. 84, tr. it. a cura di R. Ronchi, La trascendenza dell’Ego, EGEA, Milano 1992) e nell’Imaginaire (1940, e poi Gallimard, Parigi 1986; tr. it. di E. Bottasso, Immaginazione e coscienza, Einaudi, Torino 1980) non riconosceva all’epoché lo statuto di metodo intellettuale che ha per Husserl. A partire da qui, la tradizione fenomenologica francese si è interessata piuttosto ai problemi dell’esperienza e del soggetto. Si vedano per esempio, A. de Waelhens, Phénoménologie et vérité. Évolution de la notion de vérité chez Husserl et Heidegger, PUF, Parigi 1953; E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Parigi 1967; tr. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998. Su questa doppia ricezione e sui rapporti con la formazione filosofica di Foucault è da vedere «Structuralisme et post-structuralisme», DE, IV, 431-457; «Entretien avec Michel Foucault», DE, IV, 41-95; «Qui êtes-vous, professeur Foucault?», DE, I, 601-620. Tuttavia, i problemi logici e formali della fenomenologia sono stati discussi anche in Francia, in particolare da S. Bachelard, La logique de Husserl, PUF, Parigi 1967; J. Derrida, La voix et le phénomène. Introduction au problème du signe dans la phénoménologie de Husserl, PUF, Parigi 1967; tr. it. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1968; R. Scherer, La phénoménologie des Recherches logiques de Husserl, PUF, Parigi 1967 e soprattutto M. Merleau-Ponty, Signes, Gallimard, Parigi 1960; tr. it. a cura di A. Bonomi, Segni, Il Saggiatore, Milano 2003 nuova edizione, p. 201-228. 8 «Ma ricollocato così nel suo fondamento espressivo, l’atto di significazione è privato di ogni forma d’indicazione oggettiva; nessun contesto esteriore permette di restituirlo nella sua verità; il tempo e lo spazio che porta con sé formano soltanto una scia che scompare subito;
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È evidente che il primo bersaglio della critica di Foucault è costituito dal soggetto in quanto donatore di senso, dalla definizione del soggetto in quanto fondamento del significato del mondo. Una critica che passa attraverso un giudizio del tutto negativo del vissuto, che sarà costantemente discusso e rifiutato, e che costituirà la base della critica della filosofia contemporanea sviluppata in tante pagine de Le parole e le cose. Tuttavia, soprattutto in una messa in prospettiva del suo percorso, ad essere problematico per Foucault è il rapporto tra soggetto e verità. La fenomenologia è interessata semplicemente alla maniera in cui la verità nasce nel soggetto, mentre l’aspetto oggettivo dell’espressione è separato dal significato e non costituisce un problema. Per Foucault il problema della verità si situa, già in questo testo, nel rapporto tra soggettività e mondo. È nei rapporti complessi, quasi impossibili da analizzare, tra il soggetto e il fuori che si trova il momento costitutivo della verità. La considerazione fondamentale è data dal fatto che questi rapporti non possono evidentemente essere totalmente costitutivi né del soggetto né del mondo: il soggetto non può essere né totalmente passivo né totalmente attivo, poiché nel primo caso si cadrebbe in un oggettivismo assoluto mentre nel secondo si finirebbe in un idealismo soggettivo, ma nessuna di queste due posizioni permetterebbe di spiegare quello che Merleau-Ponty chiama il chiasme, cioè la coappartenenza originaria del mondo e del soggetto, che sembra essere in qualche modo strutturante delle preoccupazioni di Foucault9. Comunque sia, oltre a questo giudizio negativo sulla fenomenologia, Foucault vi intravvede una possibilità non esplorata dallo stesso Husserl, data dall’analisi delle strutture significanti delle immagini, cioè dalla definizione di una teoria dell’espressione che va al di là della fenomenologia colmando l’incapacità di quest’ultima di dissolvere l’irriducibilità della soggettività nella costituzione del significato delle immagini. Se Husserl non ha potuto sviluppare questa teoria dell’espressione a causa del ruolo che la soggettività gioca
e nient’altro è implicato se non in una maniera ideale all’orizzonte dell’atto espressivo senza possibilità di incontro reale. La comprensione non sarà dunque definita nella fenomenologia che come una ripresa secondo il modo dell’interiorità, una nuova maniera di abitare l’atto espressivo; essa è un metodo per restituirsi in esso mai uno sforzo per situarlo in quanto tale» (IRE, 32-33). 9 Ma al di là di questa convergenza in negativo, è opportuno precisare che la differenza tra i due filosofi è notevole: mentre per Merleau-Ponty tali rapporti sono il punto di partenza di una filosofia del dentro, dell’interiorità, della riflessione, per Foucault tutto avviene nel fuori, nel campo di forze del mondo. Precisiamo comunque che l’interiorità di Merleau-Ponty non rinvia a un soggetto chiuso su di sé, ma a una struttura vivente composta da soggetto e mondo, poiché «la verità non abita soltanto “l’uomo interiore”, o meglio non v’è uomo interiore: l’uomo è nel mondo, e nel mondo egli si conosce». (M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Parigi 1945; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 19). Cfr. F. Dastur, «Merleau-Ponty et la philosophie du dedans», in M. Richir - E. Tassin (éd.), Merleau-Ponty. Phénoménologie et expériences, Jerôme Millon, Grenoble 1992, p. 43-56.
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nella sua filosofia, sarà fondamentale vedere come Foucault sfrutta questa possibilità offerta e inesplorata dalla fenomenologia. Ma per il momento lasciamo da parte questo problema e concentriamoci su quello che Foucault dice a proposito del soggetto. Dopo aver messo in evidenza il disaccordo con una teoria in cui il soggetto è donatore di senso, dobbiamo cercare di capire dove conduce questa critica. La Daseinanalyse si riallaccia a un’antica tradizione che descrive il sogno all’interno di una teoria della conoscenza per la quale i sogni permettono di acquisire una conoscenza del soggetto stesso. In primo luogo, il sogno è il luogo di espressione di una verità che oltrepassa le facoltà razionali dell’uomo «una verità che da tutte le parti oltrepassa l’uomo, ma tende a lui e si offre alla sua mente sotto le specie concrete dell’immagine» (IRE 38). Ma il sogno è anche il momento di rivelazione al soggetto della sua verità, della verità della sua esistenza passata e di quella futura10. Il sogno è il luogo in cui si realizza una conoscenza che permette al soggetto di prendere coscienza di sé, di conoscersi, di conoscere la sua libertà, il suo passato e il suo futuro. Questa verità non è una donazione di senso, non è costitutiva del soggetto né del mondo che lo circonda, non è neanche una produzione autonoma che segue le coordinate della soggettività: il sogno non è né ricezione passiva di un contenuto trascendentale né produzione attiva del soggetto, ma è invece scoperta della libertà originaria del soggetto, ricezione attiva da parte dell’individuo di quello che è stato, di quello che è e di quello che sarà. Tuttavia questo contenuto, profondamente soggettivo, è formalizzato secondo coordinate espressive universali, sorta di archetipi sulla base dei quali l’immaginazione ordina le proprie produzioni. È proprio grazie alla definizione di questo doppio livello, empirico e trascendentale, che la Daseinanalyse si differenzia sia dalla psicoanalisi che dalla fenomenologia11. Nel sogno si può dunque mettere in evidenza l’espressione della verità dell’individuo e la strutturazione di un contenuto esistenziale su coordinate che trascendono il soggetto. Binswanger realizza in questo modo il movi-
10 A questo proposito Foucault cita un sogno analizzato da Binswanger in cui una donna non aveva semplicemente rappresentato il suo traumatismo passato, ma anche prefigurato il momento della comunicazione di questo traumatismo al suo analista (IRE 58-61). 11 Notiamo anche che tra tutte le coordinate che permettono l’espressione del contenuto soggettivo nel sogno la più importante è la verticale su cui si situano l’ascensione e la caduta. Questo privilegio le è accordato perché è questa dimensione che funziona come criterio discriminatorio e di deciframento della temporalità, della storicità e dell’autenticità del soggetto. È secondo le modalità espressive che riguardano la caduta e l’ascensione che si possono comprendere e decifrare le modalità di costituzione del soggetto in rapporto alla sua temporalità. La vicinanza di queste analisi dell’immaginario con quelle di Bachelard è notevolissima, tanto più che ne L’air et les songes (José Corti, Parigi 1943; tr. it. di M. Hemsi, Psicanalisi dell’aria: sognare di volare, Red, Milano 1997), quest’ultimo aveva messo in luce l’importanza della verticalità nelle produzioni dell’immaginazione. Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, tr. it. cit., p. 326-388, che contiene delle lunghe analisi degli assi cartesiani dello spazio.
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mento di andata e ritorno dall’empirico al trascendentale, tra l’antropologia e l’ontologia che era assente sia nella fenomenologia che nella psicoanalisi, senza operare né una confusione ingenua tra questi due livelli, né una ricerca nel soggetto di ciò che costituisce la sua conoscenza del mondo e della soggettività. È possibile dunque constatare, in questa «Introduzione», l’apparizione di alcuni temi centrali negli ultimi momenti della riflessione di Foucault, in particolare un’interrogazione, anche se appena accennata, sul rapporto tra soggetto e verità. Ma è in questo testo che si elabora il rifiuto critico della fenomenologia secondo delle modalità che si allargheranno progressivamente fino a comprendere ne Le parole e le cose tutta la filosofia post-kantiana. 2. Come si sa, ne Le parole e le cose, Foucault annuncia la morte dell’uomo e denuncia la preminenza dell’antropologia diventata il sapere che meglio caratterizza l’epistéme moderna, almeno per quanto riguarda le scienze umane12. A partire da Kant, dalla questione complessiva sul «Was ist der Mensch?» della Logica fino alle critiche della ragione, Foucault segnala non solo che l’analisi antropologica comincia a diventare una questione determinante per la filosofia, ma anche che la responsabilità di questa torsione della filosofia non è di Kant, ma del pensiero post-kantiano, poiché la questione sull’uomo posta dalla filosofia del XX secolo confonde «l’empirico e il trascendentale» di cui Kant «aveva pur indicato la separazione»13.
12 Sembra che il problema della morte dell’uomo sia stato ormai assimilato dalla comunità filosofica. Non è del tutto inutile ricordare i testi che compongono questo «dossier»: M. Dufrenne, Pour l’homme, éd. du Seuil, Parigi 1968, il n. 360 della rivista Esprit; G. Canguilhem, «Mort de l’homme ou épuisement du cogito?», Critique, n. 242, 1967, p. 599-618, e le risposte di Foucault, «Entretien avec Madeleine Chapsal», DE, I, 513-518 e «L’homme est-il mort?», DE, I, 540-545. 13 M. Foucault, Les Mots et les Choses, Gallimard, Parigi 1966; tr. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 366. Altrove Foucault spiega che «l’uomo nell’analitica della finitudine, è uno strano allotropo empirico-trascendentale, dal momento che è un essere tale che in esso verrà acquistata conoscenza di ciò che rende possibile ogni conoscenza» (MC, 343). Si potrebbe anche vedere una prossimità con una necessità espressa a questo proposito da Heidegger nel Brief über den Humanismus, di cui Derrida scrive: «ogni messa in questione dell’umanesimo che non raggiunge la radicalità archeologica delle questioni abbozzare da Heidegger e che non dispiega le indicazioni che dà sulla genesi del concetto e del valore di “uomo” (ripresa della paideia greca nella cultura romana, cristianizzazione dell’humanitas latina, rinascita dell’ellenismo nel XIV e nel XVIII secolo, ecc.) ogni questione meta-umanista che non si tiene nell’apertura di queste questioni resta storicamente regionale, periodica e periferica, giuridicamente secondaria e dipendente, per quanto possa essere interessante e necessaria» (J. Derrida, Marges, éd. de Minuit, Parigi 1972, p. 152). Questa necessità è dettata dal fatto che in generale ogni interrogazione sull’uomo, ogni sorta di umanesimo, è una metafisica se non tiene conto della storia del concetto di uomo. «Per questo, scrive Heidegger, se consideriamo il modo in cui viene determinata l’essenza dell’uomo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “metafisica”» (M. Heidegger, Brief über den Humanismus, A. Francke, 1947; trad. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’“umanismo”, in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987). Foucault è evidentemente lontanissimo dall’interrogarsi sul rapporto dell’uomo
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La critica del vissuto sviluppata da Foucault è sintomatica dell’interpretazione globale della filosofia contemporanea e della sua configurazione antropologica che ha sdoppiato il dogmatismo e l’ha ripartito «su due diversi livelli che reciprocamente si sostengono e si limitano: l’analisi precritica di ciò che un uomo è nella sua essenza, diviene l’analitica di tutto ciò che può essere generalmente dato all’esperienza dell’uomo» (MC, 367). L’analisi fenomenologica del vissuto si radica nello studio dei contenuti empirici e della «forma originaria che li rende in genere possibili» (MC, 345). E anche se Foucault riconosce il carattere positivo di questo tipo di analisi, ciò non toglie che la sua natura è mista, incerta sulla specificità del suo contenuto, poiché «essa cerca di articolare l’oggettività possibile di una conoscenza della natura sull’esperienza originaria che viene a delinearsi nel corpo» (MC, 345). In un testo inedito, «Introduction à l’Anthropologie pragmatique de Kant», di qualche anno precedente Le parole e le cose, Foucault è più preciso nella sua critica dell’antropologia filosofica14. Qui sono svolti i rapporti tra Kant e le filosofie post-kantiane, tra le quali bisogna inserire evidentemente la fenomenologia; sono enumerate le ragioni per le quali Kant non è responsabile del «sonno antropologico» della filosofia contemporanea, permettendo una prima approssimazione alla figura di Kant che comincia a disegnarsi nei testi di Foucault; sono evidenti le ragioni della critica di Foucault di cui la filosofia in quanto antropologia è il bersaglio. Poiché evidentemente non possiamo seguire in dettaglio le analisi di Foucault, ci occuperemo semplicemente di tre punti. Il primo sarà il rapporto tra la critica e l’antropologia in Kant: è qui che è maggiormente visibile la separazione fondamentale tra l’empirico e il trascendentale, criterio di discrimine tra Kant e i suoi interpreti. Il secondo, a partire da una breve analisi della nozione di esperienza in Foucault, sarà la definizione delle filosofie contemporanee di «moralmente dubbie» e come questa critica si fondi su un modo di pensare il compito della filosofia che è del tutto diverso da quello definito dalla fenomenologia15. Infine vedremo molto rapidamente quali sono i concetti già presenti in questa introduzione a Kant e che saranno ulteriormente tematizzati da Foucault. L’introduzione di Foucault muove dal tentativo di definire un legame tra l’impresa critica e l’antropologia. Anche se apparentemente è possibile pensare che i due approcci non abbiano nessun punto di contatto, Foucault cer-
all’essere, la sua intenzione è invece di fondare solidamente la propria critica del rapporto dell’uomo alla verità e della scienza che ha l’uomo come oggetto di sapere. 14 «Introduction à l’Anthropologie pragmatique de Kant», tesi complementare per il dottorato, diretta da J. Hyppolite, 1961, testo dattilografato, p. 128, inedito [citato con la sigla IAK]. 15 Foucault spiega in che consiste in realtà l’interesse per l’uomo rivendicato dalla filosofia contemporanea: il passaggio a cui ci riferiamo dice esattamente: «in realtà si tratta, cosa più prosaica e meno morale, d’una duplicazione empirico-trascendentale con cui si tenta di far valere, in quanto fondamento della propria finitudine, l’uomo della natura, dello scambio e del discorso» (Les mots et les choses, tr. it. cit., p. 367).
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ca di mostrare che l’antropologia è semplicemente la ripetizione ad un altro livello delle questioni critiche, ovvero che il criticismo è ripreso «in modo tale che le sintesi della verità (cioè la costituzione del necessario nel campo dell’esperienza) appaiono ora nell’elemento della verità (nel riconoscimento del particolare come soggetto universale)» (IAK, 102). Un tale ritorno della critica nell’elemento dell’antropologia permette il passaggio al livello trascendentale discusso, come si sa, nell’Opus postumum. Assolutamente fondamentale per Foucault è che Kant mantenga rigorosamente separati questi tre campi, l’a priori, l’originale e il fondamentale, cioè l’impresa critica, la definizione di un sapere antropologico e la filosofia trascendentale. È proprio grazie a questa separazione che l’antropologia di Kant trova la sua forza e la sua possibilità, diversamente da quello che succederà nella filosofia post-kantiana, il cui progetto è di oltrepassare questa divisione, di confondere questi tre livelli e di mescolarli in un sapere antropologico. Dopo Kant, l’antropologia naviga tra l’a priori e il fondamentale, tra la critica e il trascendentale. «Il carattere intermedio dell’originario, e con lui, dell’analisi antropologica, tra l’a priori e il fondamentale, l’autorizzerà a funzionare com mito impuro e irriflesso nell’economia interna della filosofia: gli si attribuiranno sia i privilegi dell’a priori sia il senso del fondamentale, sia il carattere primario della critica, sia la forma compiuta della filosofia trascendentale; si dispiegherà senza differenze dalla problematica del necessario a quella dell’esistenza; confonderà l’analisi delle condizioni con l’interrogazione sulla finitezza» (IAK, 106). Una confusione moralmente dubbia poiché permette di sostituire a un sistema costituito da una «metafisica della rappresentazione e dell’infinito» (MC, 341) e da una «analitica dei desideri dell’uomo e delle parole della sua lingua» (MC, 342), un altro sistema costituito da una «analitica della finitudine e dell’esistenza umana e in opposizione a questa (ma in un’opposizione correlativa) una perpetua tentazione di costituire una metafisica della vita, del lavoro e del linguaggio» (MC, 342). Una confusione che è molto sensibile nella fenomenologia e in tutte le filosofie che si situano nel suo solco, come le psicologie fenomenologiche e le «tristi» analitiche dell’esistenza. Come succedeva nell’«Introduzione» a Binswanger e come succederà ne Le parole e le cose – anche se meno esplicitamente – anche nell’«Introduzione» a Kant il problema è costituto dal ruolo del vissuto. Se è vero che il progetto iniziale di Husserl era separare le condizioni di possibilità dalla conoscenza delle forme in cui erano rimaste invischiate le riflessioni sull’originario, dunque di separare l’a priori dall’empirico, appare impossibile operare questa separazione a partire dall’empirico come voleva Husserl. Questa incapacità non ha dunque permesso alla riflessione sul fondamentale di sottrarsi all’ipoteca dell’empiricità. È un rimprovero che, anche se implicitamente, Foucault indirizzerà a partire da questo momento a Binswanger. Il problema della Daseinanalyse è di non avere separato precisamente e costantemente
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l’empirico e il trascendentale, di non averli analizzati nel loro stato puro ma di aver cercato nell’uomo un sapere sull’uomo e un sapere sulla malattia. La discontinuità tra queste due introduzioni appare con evidenza: se l’interesse per Binswanger era dovuto alla sua capacità di stabilire un movimento di andata e ritorno tra ontologia e antropologia, Kant è favorevolmente criticato da Foucault nella misura in cui separa decisamente questi due campi. A partire da questo momento, egli si inscriverà senza esitazioni sempre tra i filosofi che operano una tale separazione fino a ritornare sui suoi passi e a disconoscere letture e interessi giovanili quando si accorgerà di esser caduto nella confusione tra questi due livelli16. La conseguenza di questa confusione è stata, cosa da non dimenticare né da sottovalutare, una certa configurazione teorica del sapere che ha pesanti conseguenza per la morale. C’è un punto che merita una riflessione più approfondita, ed è l’accusa mossa alle antropologie di essere delle filosofie “immorali”. Per capire meglio che cosa Foucault intenda con questo termine, bisogna rapidamente analizzare almeno l’ultima problematizzazione della nozione di esperienza, a partire in particolare dalla prefazione rifiutata de L’uso dei piaceri17, poiché è per l’appunto su questa nozione che l’antropologia filosofica ha operato la confusione criticata così frequentemente da Foucault. Almeno secondo quanto annunciato nella prima versione della prefazione al secondo volume della Storia della sessualità, Foucault si propone di studiare la costituzione delle forme dell’esperienza. Progetto che deriva da un problema più vecchio che consisteva nell’utilizzazione della Daseinanalyse per l’analisi delle malattie mentali, poi abbandonato a causa di un’insufficiente elaborazione teorica della nozione di esperienza e dei rapporti tra malattia mentale e istituzioni psichiatriche, dovuta a una prossimità troppo evidente con la nozione di immediatezza. In che modo Foucault pensa di aver risolto questo problema? Come pensa di aver elaborato meglio il concetto di esperienza? In questa prefazione Foucault opera un doppio passaggio: una riduzione «nominalista» dell’antropologia filosofica e uno spostamento in rapporto alla storia sociale che costituiscono i due grandi assi teorici e filosofici degli anni ’60. Una migliore definizione della nozione di esperienza comporta la necessità di mostrare il «luogo» in cui le forme di esperienza nascono, si sviluppano e cambiano: questo «luogo» non è altro che il «pensiero». Il soggetto si modifica pensandosi, riflettendo su se stesso. Il pensiero è ciò che «instaura, in diverse forme possibili, il gioco del vero e del falso e che, di conseguenza, costituisce l’essere umano come soggetto di conoscenza; ciò che fonda l’accettazione o il
16 In effetti è a causa della scoperta nello strutturalismo stesso di questa confusione che, secondo Blanchot, Foucault lo rinnega in quanto metodo: cfr. M. Blanchot, Foucault tel que je l’imagine, Fata Morgana, Parigi 1996; tr. it. di V. Conti, Michel Foucault come l’immagino, Costa e Nolan, Milano 1988, pp. 20-24. 17 M. Foucault, «Preface a Histoire de la sexualité», DE, IV, p. 579.
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rifiuto della regola e costituisce l’essere umano come soggetto sociale e giuridico; ciò che instaura il rapporto con se stesso e con gli altri, e che costituisce l’essere umano come soggetto etico»18. Il pensiero non è semplicemente alla base di «formulazioni teoriche», continua Foucault, ma è anche la sorgente dei modi secondo i quali il soggetto abita il mondo, la fonte del suo “fare” e delle sue pratiche. Teoricamente questo significa che, anche se le strutture universali possono regolare le forme singolari dell’esperienza, anche se bisogna tenere nella giusta considerazione le determinazioni sociali, tutto ciò non basta per definire un’esperienza. È nella misura in cui il soggetto riflette sulla propria maniera di mettersi in relazione al mondo che si può parlare di esperienza. Facilmente constatabile è la distanza che si scava con il progetto fenomenologico: non è questione di stabilire nel soggetto una distinzione tra un livello trascendentale e uno empirico, tra un soggetto in situazione e un soggetto definito dalla sua interiorità; non si tratta neanche di derivare da un’esperienza soggettiva un insieme di concetti universali; si tratta piuttosto di analizzare il «fare» del soggetto a partire dalla sua auto-riflessività. Non è sbagliato pensare che è proprio a partire dallo studio dell’antropologia pragmatica di Kant che questa possibilità prende forma. Se, a partire da una cattiva comprensione della tripartizione della sua filosofia si è sviluppato il «sonno antropologico» che caratterizza la filosofia attuale, compresa la fenomenologia, una comprensione corretta della sua antropologia dovrebbe fornire i mezzi per sottrarsi alla padronanza di questa filosofia. La conseguenza maggiore di questa ripresa di Kant è che, secondo Foucault, la fenomenologia si inscrive in una falsa filiazione di Kant, o almeno in una cattiva comprensione della sua opera, a tal punto che il filosofo prussiano gioca il ruolo di anti-Husserl19.
Ibidem, p. 579. Senza pretendere di svolgere un’analisi esaustiva dei rapporti tra Kant e Husserl, ricordiamo brevemente che la nozione di apriori materiale sembra giustificare, almeno in parte, l’ipotesi di Foucault dell’esistenza di una distanza tra la purezza trascendentale di Kant e la confusione husserliana. Husserl teorizza l’esistenza di due apriori: quando questo è compreso come la pura possibilità della conoscenza in generale, a prescindere da ogni considerazione sul contenuto, si tratta di un apriori formale. Ma quando l’apriori è considerato come condizione di possibilità non della conoscenza in generale ma di una conoscenza determinata abbiamo a che fare con un apriori materiale. In altri termini non sono solo le forme del pensiero che sono apriori, ma anche le essenze concrete che costituiscono il contenuto della conoscenza possono avere questa caratteristica. Husserl teorizza in effetti l’esistenza di essenze materiali accanto alle essenze formali. Queste non sono delle essenze dedotte a posteriori che riassumono il contenuto della coscienza, ma dei modi del soggetto comprensibili appunto nella misura in cui sono degli apriori vissuti dal soggetto stesso. Questa distinzione operata da Husserl segna la sua distanza irrevocabile da Kant. L’analisi trascendentale riflette sull’apriori in quanto condizione di possibilità di conoscenza degli oggetti in generale al di là di un contenuto qualunque. L’introduzione di un contenuto empirico, anche se solo sotto forma di un apriori, allontana decisamente la fenomenologia dalla purezza trascendentale raggiunta e voluta da Kant. Sul problema dell’apriori si veda M. Dufrenne, La Notion d’«a priori», P.U.F., Parigi 1959. Sui rapporti 18 19
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Evidentemente, si tratta di un altro Kant, almeno apparentemente, rispetto a quello della riflessione critica sul presente che sarà al centro di quei testi sull’Aufklärung che compongono quello che è stato proposto di considerare il testamento intellettuale di Foucault. Ma è veramente possibile affermare che c’è una reale differenza tra queste due letture di Kant? In realtà, a una lettura precisa, gli indizi che permettono di dubitare di questa ipotesi sembrano quasi balzare agli occhi. In effetti l’uso, la ripresa, il ricordo, la presenza più o meno nascosta di un certo numero di concetti di Kant del periodo antropologico permetteranno la messa in opera definitiva della nozione di esperienza e la possibilità di utilizzarla per dare alla storia della sessualità la sua forma. Fra questi i più importanti sono il Gebrauch e la Kunst. a/ Uno dei problemi maggiori dell’Antropologia è rappresentato dall’articolazione dell’uomo naturale sul soggetto della libertà. La soluzione di Kant fa appello al concetto di Gebrauch, uso: è qui che la natura e la libertà trovano un punto di incontro essenziale. Questa nozione determinerà il compito dell’antropologia che non sarà ormai più di studiare le facoltà dell’uomo né di descrivere il rapporto con il mondo, ma di analizzare la maniera in cui l’uomo si serve delle facoltà nel suo rapporto con il mondo: «Descrivere non quello che è l’uomo, ma quello che può fare di se stesso» (IAK, 39). È proprio in questo modo che l’antropologia prende il suo carattere pragmatico. Ma bisogna essere più precisi, perché nel Gebrauch c’è un rapporto tra il Können (potere) e il Sollen (dovere) che è assolutamente fondamentale: l’uomo si trova tra le forze della natura e il potere che gli è conferito dalle sue capacità. Il compito della libertà è di trovare una mediazione tra le une e le altre, o meglio di regolare l’esercizio quotidiano delle sue capacità sulle forze naturali a cui è in mano. L’esercizio riflesso della libertà si situa evidentemente nel campo della moralità. Il contatto e le rassomiglianze tra il concetto kantiano di Gebrauch e la maniera in cui, secondo Foucault, la soggettività si produce sono abbastanza chiare. Nella prefazione definitiva de L’uso dei piaceri si può constatare che è esattamente questione di un soggetto che deve produrre la propria forma pur conservando la libertà in rapporto all’onnipresenza del potere. Tale compito può essere realizzato solo se il soggetto prende coscienza dell’esistenza di codici normativi in rapporto ai quali, volente o nolente, deve soggettivizzarsi. La produzione della soggettività è un esercizio in cui il soggetto riflette liberamente al modo in cui può stabilire un rapporto con il
tra Kant e Husserl, ci limitiamo a segnalare la pubblicazione nel 1990 presso Il Saggiatore di E. Husserl, Kant e l’idea della filosofia trascendentale, che riprende delle parti di E. Husserl, Erste Philosophie (1923-24). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte, Martin Nijhoff, La Haye 1956. Cf. E. Fink, Studien zur Phänomenologie (1930-1939), Martin Nyhoff, La Haye 1966; P. Ricoeur, «Kant et Husserl», Kantstudien, II, 1956; G. Berger, Le Cogito dans la philosophie de Husserl, Aubier, Parigi 1941; A. L. Kelkel, «Husserl et Kant. Réflexions à propos d’une thèse récente», Revue de Métaphysique et de Morale, LXXI, 1966, pp. 54-98.
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mondo che gli si presenta sotto forma di assi normativi, siano quelli del sapere o quelli del potere. b/ Il concetto di Kunst non ha niente a che vedere con l’arte o la tecnica, poiché indica il fatto che «niente è mai dato senza essere allo stesso tempo offerto al pericolo di un’impresa che gli dà un fondamento nella costruzione e lo sottrae all’arbitrario» (IAK, 86). La Kunst è esattamente il contrario della passività originaria della sensibilità: il suo ruolo è doppio. Può sia fornire un’apparenza (Schein) al fenomeno (Erscheinung), sia dare all’apparenza il senso di un fenomeno. La Kunst è la capacità di negare il dato nella sua doppia forma di fenomeno e di apparenza. Per esempio, nel campo della moralità (IAK 87). La nozione di Kunst è fortemente legata a quella di Spielen: «La Kunst, l’arte come “abilità” e come “invenzione”, è così l’“esercizio quotidiano” di una funzione che si dà all’interno di una doppiezza originaria, quella che la discussione sul senso interno e sulla duplicazione dell’io aveva suggerito come das bestimmende Subject et das sich selbst bestimmende Subject e che ora si assimila all’ambivalenza del giocare e dell’essere giocati dello Spielen»20. Lo Spielen è un concetto importante poiché riflette lo stato «di una “persona morale” che, vincolata alle “regole giuridiche precisate” e alla universalità della legge morale, alle norme del diritto positivo e a una libertà fondatrice, è capace di una “libertà pragmatica” che ne fa il “cittadino del mondo”»21. La Kunst è essenzialmente libertà al lavoro, pericolosa perché può sempre produrre degli errori, ma gaia perché la rende indeterminabile. Ma a sostenere teoricamente questi due concetti di Kunst e di Gebrauch interviene una nozione di mondo del tutto specifica. A proposito della ripetizione delle questioni critiche nel campo dell’antropologia, Kant spiega che conoscere l’uomo significa conoscere la sorgente del sapere, il campo dell’utilizzazione del sapere e i limiti dell’intelletto. Ora sono proprio questi tre concetti che definiscono il mondo per Kant, che non è solo una totalità «al di là di ogni predicazione e alla radice di tutti i predicati» (IAK, 76), poiché possiede una struttura e un senso dati proprio dalla ripresa dei tre concetti di sorgente, campo, limite. 1/ «A differenza dell’universo il mondo è dato in un sistema di attualità che avvolge l’esistenza reale». Il mondo è un sistema di relazioni in cui l’esistenza è conservata e liberata, essendo così all’origine di ogni esistenza. 2/ Se è vero che non ci può essere che un solo universo, il mondo potrebbe esistere «in numerose copie», poiché è solo «un sistema di rapporti reali». Se è vero che quando questo sistema esiste, esclude la presenza di altri rapporti, «niente impedisce assolutamente di concepire un altro sistema in cui altri rapporti saranno definiti in altro modo». Il mondo è così il campo in cui «un sistema della necessità» è possibile. 20 M. P. Fimiani, Foucault e Kant. Critica, clinica, etica, La Città del Sole, Napoli 1997, p. 124. 21 Ibidem, p. 125.
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3/ Tuttavia, il mondo può essere solo unico, anche se l’ipotesi dell’esistenza di altri mondi è lecita, questo perché si pone come un limite invalicabile (IAK, 73-75). Quello che ci interessa non è tanto il modo in cui Kant tematizza queste tre funzioni del mondo, quanto il fatto che lo concepisce come un sistema di relazioni22. L’uomo lo coglie ogni volta come sorgente, campo o limite di quello che può e deve farne, cioè a partire dal suo uso possibile. Proprio a partire da questa nozione di mondo come sistema di relazioni, l’uomo può sviluppare un Gebrauch e una Kunst del mondo. Il mondo è una totalità che non si offre in quanto tale all’azione dell’individuo, ma che si dà come un insieme di relazioni all’interno delle quali deve situarsi, e trovare posto. La nozione di mondo che Foucault attribuisce al pensiero antropologico di Kant è evidentemente molto diversa da quella della fenomenologia per la quale il mondo è un blocco, una roccia di fronte alla quale si trova il soggetto che la deve afferrare nella sua totalità in un atto unico e globale di significazione. La nozione di totalità della fenomenologia costituisce dunque un problema per Foucault, per una ragione ben determinata. Quando si pensa in termini di totalità, il metodo usato è come un setaccio troppo largo, che lascia sfuggire troppe cose. La fenomenologia, interessandosi alla totalità del mondo, non vede tutto un insieme di relazioni finissime, sottilissime che si stabiliscono nel mondo. Fra l’altro è per questa ragione che Foucault motiva l’uso del metodo strutturalista e la critica della fenomenologia che totalizza indebitamente, nascondendo proprio in ragione di ciò una parte del reale che si tratta di ritro22 Le perplessità di Heidegger rispetto all’antropologia sono ben note: per lui la nozione di soggetto e la «sostanzializzazione dell’anima» o la «reificazione della coscienza» che ne derivano rimangono ininterrogate. Tuttavia in Sein und Zeit si trova tematizzato a proposito dell’essere nel mondo un rapporto con il mondo che non sembra molto lontano da quanto Foucault scrive su Kant: «L’in-essere, al contrario, significa un esistenziale, perché fa parte della costituzione dell’essere dell’Esserci. Perciò non può essere pensato come l’esser semplicemente-presente di una cosa corporea (il corpo dell’uomo) “dentro” un altro ente semplicemente-presente. L’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra, poiché l’“in”, originariamente, non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto. “In” deriva da innan-abitare, habitare, soggiornare, an significa: sono abituato, sono familiare con, sono solito…: esso ha il significato di colo, nel senso di habito e diligo. L’ente a cui l’in-essere appartiene in questo significato è quello che noi abbiamo indicato come l’ente che io sempre sono. L’espressione “sono” è connessa a “presso”. “Io sono” significa, di nuovo, abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. “Essere” come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso…, aver familiarità con… L’in-essere è perciò l’espressione formale ed esistenziale dell’essere dell’Esserci che ha la costituzione essenziale dell’essere-nel-mondo. L’“esser presso il mondo”, nel senso dell’immedesimazione col mondo, senso da chiarire ulteriormente, è un esistenziale fondato nell’in- essere». (M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tubinga 1927; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Adelphi, Milano 1970, pp. 77-78). L’essere nel mondo designa una maniera di abitare, una prossimità con ciò che ci è familiare, un’interazione fondamentale con un universo di segni rispetto ai quali si sente una certa coappartenenza. È esattamente in questi termini che Foucault interpreta la questione sull’essenza dell’uomo posta da Kant.
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vare e di analizzare, ovvero «dei sistemi interi di relazione che altrimenti non sarebbe possibile descrivere»23. Se Foucault critica e rifiuta la fenomenologia è dunque per un motivo preciso, che può anche aiutare a comprendere le sue oscillazioni metodologiche e teoriche. La fenomenologia non è un metodo utile nella misura in cui la funzione del cogito nasconde dei campi di relazione e non permette dunque che questi risalgano alla superficie della storia24. Per la ragione opposta si definirà come l’«enfant du chœur» dello strutturalismo. Il metodo strutturalista possiede il vantaggio fondamentale di essere un’attività filosofica, poiché è capace di dire quello che succede: «È per questo che lo strutturalismo può valere come un’attività filosofica, se si ammette che il ruolo della filosofia è di diagnosticare. Il filosofo ha in effetti smesso di voler dire ciò che esiste eternamente. Ha il compito ben più arduo e sfuggente di dire ciò che succede. In questo senso, si può parlare di una sorta di filosofia strutturalista che potrebbe definirsi come l’attività che permette di diagnosticare ciò che è oggi»25. 3. Nondimeno, non tutto si riduce a una critica incessante e a un rifiuto costante della fenomenologia, poiché ci sono anche concetti, necessità, prospettive metodologiche di cui Foucault si appropria, che non sono certamente così palesi come il rifiuto dell’interiorità del soggetto o della totalità del mondo, ma di cui non si può negare l’esistenza. Partiremo ancora una volta dall’«Introduzione» a Binswanger per analizzare una serie di articoli, saggi, scritti «letterari», in cui Foucault dà l’impressione di forgiare dei concetti, di mettere alla prova un insieme di nozioni che saranno utilizzate in seguito. È in questa «Introduzione» che l’ambivalenza del rapporto con la fenomenologia si mostra con forza nella misura in cui anche se sono presenti qui, come abbiamo già visto, i primi segni di un rifiuto di Husserl, si annuncia anche la possibilità di un’accettazione parziale di questo corpo teorico. In effetti Foucault scriveva che la fenomenologia aveva in un certo modo intravvisto la possibilità positiva di une teoria dell’espressione che non era tuttavia in misura di formalizzare a causa delle sue debolezze teoriche. Definiremo i concetti fondamentali di questa teoria dell’espressione che la fenomenologia
23 «Dopo Saussure si vedono nascere dei metodi che si presentano deliberatamente parziali. Si ricorre cioè all’eliminazione di un certo numero di campi, ed è grazie a questo occultamento che possono apparire, come per contrasto, dei fenomeni che altrimenti sarebbero rimasti nascosti sotto un insieme di rapporti troppo complessi». (M. Foucault, «Qui êtez-vous, professeur Foucault?», cit., p. 610). 24 È esattamente della funzione del cogito in relazione a una visione del mondo specifica che è questione in una discussione con Chomsky che è in realtà un dialogo tra sordi; «De la nature humaine: justice contre pouvoir», in DE, II, pp. 471-512, tr. it. di I. Bussoni e M. Mazzeo, Sulla natura umana, Deriveapprodi, Roma 2005. 25 M. Foucault, «La philosophie structuraliste permet de diagnostiquer ce qu’est «aujourd’hui»», DE, I, p. 581.
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avrebbe potuto dispiegare per vedere in seguito quale ruolo gioca nei testi di Foucault degli anni Sessanta. Bisogna subito notare che Foucault critica le nozioni di immaginazione e di immagine di Sartre, per il quale l’immagine è una designazione del reale e l’immaginazione un movimento di sostituzione dell’irreale. L’immaginazione sostituisce o, almeno, cerca di sostituire all’assenza, un lavoro che costruisce una o più immagini laddove ci dovrebbe essere una cosa, una persona, o un fatto. Restando vicinissimo alla fenomenologia sul problema dell’immagine, Sartre la definisce come una «struttura intenzionale» composta dalla coscienza – che è sempre coscienza di qualche cosa – in relazione con un oggetto trascendente la coscienza stessa. Abbiamo dunque da un lato un’intenzione immaginante e dall’altro una hyle animata da questa intenzione. Ora il problema non è tanto sapere quali sono i rapporti tra coscienza e immagine quanto comprendere il contributo dell’immagine – o dell’immaginazione – alla relazione del soggetto con il mondo. A questo proposito, Sartre opera nell’Immaginario una distinzione fondamentale: «percepire, concepire, immaginare, tali sono infatti i tre tipi di coscienza attraverso i quali ci può esser dato un medesimo oggetto»26. Ma dove si situa l’immaginazione? Sarà considerata come apprendimento o come sapere, laddove questi due termini identificano rispettivamente una conoscenza acquisita con esplorazioni successive o una conoscenza intuitiva dell’essenza dell’oggetto? Il problema di Sartre è capire se l’immaginazione si riduce alla percezione o se è la comprensione immediata e intuitiva dell’essenza dell’oggetto. Ora l’immagine è di una «povertà essenziale»27 in rapporto alla percezione. Laddove «l’oggetto della percezione esorbita costantemente dai limiti della coscienza; l’oggetto dell’immagine è sempre solamente la coscienza che se ne ha»28, poiché l’immaginazione costituisce un oggetto che non può contenere più di quanto è stato inserito. Invece la percezione non costituisce niente ma trova nel mondo gli oggetti che deve imparare a conoscere. Di conseguenza, Sartre osserva che nel mondo delle immagini non succede niente, che non ci sono eventi. Invece per Foucault, ed è questo il centro della sua critica a Sartre, l’immagine non si sviluppa sullo sfondo dell’assenza di realtà, non si immagina un oggetto perché è assente. O, almeno, è vero che l’immaginazione produce delle immagini a partire da un’assenza, ma la sostituzione del reale non è la sua funzione principale, il suo lavoro non si limita a presentificare un oggetto assente. Per Foucault il ruolo dell’immaginazione è molto più importante: «l’immaginario non è un modo dell’irrealtà, bensì un modo dell’attualità, una maniera di prendere in diagonale la presenza per farne emergere le dimensioni primitive» (IRE, 78). 26 J.-P. Sartre, L’Imaginaire, tr. it. cit., p. 19. Sul problema dell’immaginazione in Sartre, cfr. F. Noudelman, Sartre: l’incarnation imaginaire, L’Harmattan, Parigi 1996; cf. G. Durand, Les Structures anthropologiques de l’imaginaire, P.U.F., Parigi 1960. 27 Idem, p. 22. 28 Idem, p. 22.
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Se Foucault non è d’accordo con Sartre, è soprattutto perché non considera l’immaginazione come una facoltà che produce semplicemente dei sostituti della realtà. Il movimento dell’immaginazione detiene un potere formidabile: ci può far scoprire le dimensioni nascoste del reale poiché analizza l’identico. Anche per questa ragione, Foucault preferisce, per così dire, all’immagine, momento statico, blocco di lavoro finito di questo stesso lavoro, l’immaginazione, movimento che ci mette in condizione di afferrare totalmente le manifestazioni del reale. Come l’immaginazione, anche la poesia, la vera poesia, riflette sull’identico, non accumulando le analogie ma dicendo sempre la stessa cosa per dirla sempre meglio o ancora per essere comunicazione singolare di un contenuto specifico. L’espressione è dunque la maniera individuale di comunicare un contenuto che può essere universale29. A questo lavoro di definizione della funzione della facoltà immaginativa nell’espressione, corrisponde una definizione delle strutture espressive all’interno delle quali si situano i prodotti dell’immaginazione. Questa operazione era già cominciata nell’«Introduzione» a Binswanger e prenderà, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, uno spazio sempre maggiore. In un insieme di articoli sulla letteratura, Foucault analizza una serie di figure spaziali che funzionano come assi cartesiani dell’espressione, strutturando in una certa misura il linguaggio. Anche a questo proposito è possibile vedere un’influenza della fenomenologia, o piuttosto la continuazione di un lavoro cominciato da Merleau-Ponty sulla possibilità di conciliare le produzioni linguistiche individuali con una grammatica generale e universale che le renda possibili30. Tuttavia, la ricerca di Foucault va più lontano, poiché non si limita a indicare la necessità di fondare questa «ontologia» del linguaggio, ma cerca anche di definire un certo numero di strutture nel campo della pittura e della letteratura31. Alla base di questa teoria dell’espressione, c’è dunque una certa maniera molto problematica di analizzare l’immaginazione, il cui ruolo non è più quello di una facoltà i cui prodotti sono destinati a soppiantare il reale, ma invece quello di mostrare il reale che si nasconde. L’immaginazione è dunque 29 Lo stile sarà per l’appunto definito in questo testo come la capacità di singolarizzare, di individualizzare una comunicazione, come una modalità dell’espressione. Sullo stile in quanto nozione filosofica: G.G., Granger, Essai d’une philosophie du style, Armand Colin, Parigi 1968 (poi Odile Jacob, Parigi 1986); D. Combe, La Pensée et le Style, Ed. Universitaires, Parigi 1990, e soprattutto M. Frank, Stil in der Philosophie, Reclam, 1992; tr. it. di M. Nobile, Lo stile in filosofia, Il Saggiatore, Milano 1994. Su questo problema, mi permetto anche di rinviare al mio Le Style du philosophe. Foucault et le dire-vrai, Kimé, Parigi 1996. 30 Cfr. M. Merleau-Ponty, Signes, tr. it. cit., pp. 105-122. 31 Cfr. i seguenti articoli di Foucault: «Un si cruel savoir», DE, 1, p. 215 –228; tr. it. a cura di C. Milanese, «Un sapere così crudele» in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 41-54; Ceci n’est pas une pipe, Fata Morgana, 1973, tr. it. a cura di G. Almansi, Questa non è una pipa, Serra e Riva, Milano 1980; «La force de fuir», DE, II, p. 401-405; «La peinture photogénique», DE, II, p. 707-716; «Des espaces autres», DE, IV, p. 752-763; «La peinture de Manet», Les Cahiers de Tunisie, n. 149-150, 1989, pp. 61-89; tr. it. a cura di F. P. Adorno, La pittura di Manet, La Città del Sole, Napoli 1996.
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facoltà importantissima nell’economia del percorso di Foucault, poiché i suoi prodotti sono capaci di «aumentare» la presenza di ciò che è già là. In un contesto del tutto diverso, Heidegger aveva già richiamato il ruolo fondamentale che l’immaginazione gioca nella filosofia e particolarmente in quella di Kant32. La tesi di Heidegger è nota: alla base della metafisica kantiana c’è il lavoro dell’immaginazione, che Kant aveva intravvisto ma che non era riuscito a esprimere chiaramente, o meglio, di cui aveva abbandonato l’analisi. Nella sua interpretazione, Heidegger mostra due cose. In primo luogo, Kant considera l’immaginazione come lo snodo fondamentale tra sensibilità e spontaneità, tra intuizione e schematismo, tra ricettività e spontaneità. Se l’immaginazione è la facoltà che permette di unire la sensibilità e l’intelletto, rimane da capirne il come, ma anche quali sono le conseguenze di questo modo di considerare l’immaginazione. Ricordiamo anche che Heidegger comincia le sue analisi dall’Antropologia pragmatica, in cui Kant definisce l’immaginazione come una facoltà intuitiva senza presenza di oggetti, con la conseguenza che quando l’immaginazione è considerata in questo modo è contemporaneamente formatrice e creatrice. L’immaginazione è contemporaneamente una capacità ricettiva di formare – e in questo senso è vicina alla sensibilità – e una capacità creatrice di formare – e in questo senso è prossima all’intelletto. Grazie a questa doppia funzione l’immaginazione si trova a metà strada tra sensibilità e intelletto. Per Kant, inoltre, l’immaginazione designa qualsiasi facoltà rappresentativa non percettiva, cioè tutte le facoltà che pendono più dalla parte dell’intelletto che della sensibilità. In questo caso l’immaginazione è detta produttiva e ha la funzione di formare la visione di un oggetto, può cioè dare un punto di vista dell’oggetto, renderlo presente all’intelletto afferrandone un aspetto specifico. L’immaginazione è la radice stessa della sensibilità e dell’intelletto. Sulla base di questa interpretazione dell’immaginazione, Heidegger prosegue la sua lettura di Kant abbordando il problema dell’antropologia filosofica. La tesi di Heidegger è che a partire dall’incomprensione del ruolo che l’immaginazione occupa in Kant, la filosofia diviene un’antropologia filosofica. L’immaginazione è dunque centrale anche dal punto di vista dell’interpretazione di Kant, poiché è a causa della sua importanza che la filosofia prende la figura di un’antropologia. Tenuto conto della differente prospettiva in cui si situa il discorso di Heidegger rispetto a quello di Foucault, per l’uno come per l’altro l’immaginazione è una facoltà fondamentale, e per tutti e due la filosofia contemporanea si è lasciata intrappolare dall’analisi antropologica. Ma le convergenze con Husserl a proposito dell’immaginazione sono ancora più interessanti. Ritorniamo a questo testo su Binswanger e a questa frase, assolutamente fondamentale, già citata: «l’immaginario non è un modo 32 M. Heidegger, Kant und das Problem des Metaphysik, Klostermann, 1973, tr. it. a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1981, pp. 119-123.
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dell’irrealtà, bensì un modo dell’attualità, una maniera di prendere in diagonale la presenza per farne emergere le dimensioni primitive». Possiamo constatare quanto è vicina a quello che Husserl scrive nel famoso paragrafo 70 di Idee che termina su queste parole citate anche da Sartre: «Pertanto, se si amano i paradossi, si può dire (ma, se si comprende bene l’ambivalente senso del termine, può dirsi con rigorosa verità) che la “finzione” costituisce l’elemento vitale della fenomenologia, come di tutte le scienze eidetiche, che la finzione è la sorgente da cui trae nutrimento la conoscenza delle “verità eterne”»33. Si tratta evidentemente un passaggio molto problematico a causa degli avvertimenti di Husserl sulla sua comprensione possibile, sull’indicazione che in fondo si tratta di un paradosso e che il suo senso è ambiguo: tutti modi di dire cose diverse da quelle effettivamente scritte, di rendere accettabile quella che sembra essere la parte inconfessabile della fenomenologia, il suo statuto di finzione, il fatto di essere opera dell’immaginazione, e dunque, in fin dei conti, non solo più vicina alla letteratura che alla scienza, ma anche fondamentalmente irrealizzabile34. E per una volta, diciamo che Foucault è stato più “serio” di Husserl, poiché il suo uso di una idea della filosofia come finzione, o meglio della nozione di finzione in filosofia, come vedremo, è molto più produttivo di quello di Husserl. Tuttavia, prima di enunciare la possibilità esplicita che questa nozione possa generare un paradosso, Husserl spiega a chi e come il lavoro dell’immaginazione può essere utile, poiché è proprio dell’immaginazione che si tratta in questo passaggio. Attraverso questo esempio di Husserl possiamo comprendere il senso che la nozione di finzione ha in Idee; è sempre questo esempio che ci permette di spiegare come e perché Foucault può riprendere questa nozione, o meglio, il paradosso di questa frase contro la quale Husserl mette esplicitamente in guardia. In questo paragrafo, Husserl stabilisce una sorta di gerarchia tra tre facoltà in ragione della loro capacità di “presentificare” l’oggetto: autoriflessione, percezione esterna e immaginazione. L’autoriflessione è la meno potente, poiché i suoi oggetti si dissipano appena li si comincia ad analizzare. Invece, la percezione esterna permette di afferrare gli oggetti e di presentificarli in modo molto più preciso: «essa offre inoltre (…) chiari e solidi esempi individuali da cui possono prendere le mosse analisi eidetiche generali di carattere fenomenologico»35. Ma la facoltà che permette di afferrarli nel modo migliore è l’immaginazione. Il suo potere non è assolutamente paragonabile a quello della percezione: «le libere fantasie ottengono una posizione privi33 E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1913; tr. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, p. 170. Sartre cita questo paragrafo in L’Imagination, del 1936; tr. it. di A. Bonomi, L’immaginazione, Bompiani, Milano 1962, p. 141) così come Ph. Sollers in «Logique de la fiction», Tel Quel, n. 15, 1963, p. 8. 34 Idem, p. 170. 35 Idem, p. 168.
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legiata rispetto alle percezioni»36. L’immaginazione permette di staccarsi dal dato sensibile per variare infinitamente le figure sulle quali riflette. Per esempio, il geometra utilizza frequentemente l’immaginazione che gli dà «un’incomparabile libertà nella trasformazione arbitraria delle figure immaginate, nel farsi scorrere innanzi possibili figure continuamente modificate e quindi nella produzione di innumerevoli nuove formazioni»37. E come la geometria, anche la storia e l’arte, e in particolare la poesia, sono capaci di moltiplicare le forme dei modelli immaginati, diversificando la loro presentazione. L’immaginazione è dunque particolarmente potente per presentificare gli oggetti in ragione di due caratteristiche: si stacca dal dato sensibile per alternare a volontà i punti di vista sull’oggetto e, quindi, riflette sull’identico, moltiplicandolo all’infinito. Ora, tutto lascia pensare che alla base della teoria dell’espressione, mai tematizzata in quanto tale da Foucault, ci sia appunto questa maniera di intendere l’immaginazione purificata dalla sua funzione eidetica. Questa è la facoltà che “finziona” una molteplicità di punti di vista sull’oggetto offrendo all’osservatore una comprensione completa e globale dell’oggetto stesso. Ma l’immaginazione è ancora più potente, e in questo Foucault va ben al di là delle intenzioni di Husserl, perché, a suo avviso, può non solo presentificare l’oggetto stesso in tutte le dimensioni e le coordinate spaziali e temporali secondo le quali si attualizza, ma anche mettere a nudo le modalità che lo nascondono in parte. È proprio questa appropriazione dell’immaginazione «fenomenologica» e il suo dirottamento verso fini diversi da quelli previsti da Husserl a costituire la posta in gioco di tutta una serie di articoli di critica letteraria scritti tra il 1962 e il 1966 soprattutto su Tel Quel e Critique, in cui Foucault non fa altro che riprendere la questione della finzione38. In un passaggio di «Distance, aspect, origine», Foucault pone e si pone una questione esplicita: «Se il fittizio fosse giustamente per l’appunto né l’aldilà né il segreto intimo del quotidiano, ma la traiettoria della freccia che ci colpisce agli occhi e ci offre tutto quanto appare?»39. La specificità dei vari Blanchot, Laporte, Sollers, Pleynet, Robbe-Grillet, è costituita proprio da questa maniera di intendere la finzione e la ricerca di un linguaggio distintivo «in cui le cose rimangono distanti da se stesse», pura applicazione di questa necessità teorica. Un linguaggio in cui il volume delle
Idem, p. 169. Idem, p. 169. 38 Cfr. i seguenti articoli di Foucault: «Distance, aspect, origine», DE, I, pp. 272-295; «Guetter le jour qui vient», DE, I, pp. 261-268; «L’arrière-fable», DE, I, pp. 506-513; «Débat sur le roman», DE, I, pp. 338-390; «Le langage de l’espace», DE, I, pp. 407-412. Cfr. «Préface à la transgression», DE, I, pp. 233-250; «Le langage à l’infini», DE, I, pp. 250-261; «La prose d’Actéon», DE, I, pp. 326-338; «La pensée du dehors», DE, I, pp. 518-540 tradotti in M. Foucault, Scritti letterari, cit. 39 M. Foucault, «Distance, aspect, origine», cit., p. 280. 36 37
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cose non sia interiore, ma «in perpetua disinserzione [… ], un volume che avanza, o che si sottrae, che scava la sua essenza lontano e rimbalza fino agli occhi». Un linguaggio che non manifesta «della cosa né la sua presenza né la sua assenza, ma una distanza che allo stesso tempo la mantiene lontana in fondo allo sguardo e la separa incorreggibilmente da se stessa: distanza che appartiene allo sguardo […] ma che ad ogni istante si rinnova nel cuore più segreto delle cose»40. Questi autori sembrano essersi interamente dedicati al compito di creare un linguaggio che attualizza tutte le dimensioni dell’oggetto e le modalità che lo nascondono41. In un linguaggio convertito a questa esigenza, sarà possibile mostrare che «l’inventato non è mai nelle cose né negli uomini, ma nell’impossibile rassomiglianza di ciò che c’è tra di loro: incontri, prossimità del più lontano, assoluta dissimulazione là dove noi siamo. La finzione consiste dunque non tanto nel far vedere l’invisibile, quanto nel far vedere come sia invisibile l’invisibilità del visibile»42. Di conseguenza, il fittizio, non essendo né l’essenza nascosta delle cose né una sorta di trascendenza che oltrepassa il reale ma la sua pienezza stessa, corrisponderà più esattamente alla capacità di rendere visibile tutto il reale. Un altro articolo fondamentale per questa maniera di analizzare il fittizio è costituito da «Prefazione alla trasgressione», in cui Foucault discute i concetti di trasgressione e di limite e i loro rapporti: «la trasgressione non sta dunque al limite come il nero sta al bianco, il proibito al permesso, l’esteriore all’interiore, l’escluso allo spazio protetto della dimora. Essa è legata al limite, piuttosto secondo un rapporto di avvolgimento di cui nessuna effrazione da sola potrà venire a capo. Forse qualcosa di simile al lampo nella notte, che dal fondo del tempo conferisce un essere denso e nero a ciò che nega, la illumina dall’interno e da cima a fondo, le deve pertanto la sua viva luminosità, la sua singolarità lacerante ed eretta, si perde in questo spazio che si designa con la sua sovranità, e infine tace dopo aver dato un nome a ciò che è oscuro»43. Questi passaggi non sembrano dire niente di diverso da quello che era già scritto nell’«Introduzione» a Binswanger, presentando, fra l’altro, una similitudine nelle espressioni che è abbastanza sorprendente: per esempio, vi
Ibidem, p. 274. M. Foucault, «La pensée du dehors», tr. it. cit., p. 117. «Una conversione simmetrica è richiesta dal linguaggio di finzione. Quest’ultima non deve più essere il potere che senza tregua produce e fa brillare le immagini, ma la potenza che al contrario le dispiega, le alleggerisce di tutti i loro sovraccarichi, le vivifica di una trasparenza interiore che poco a poco le illumina fino a farle esplodere e le disperde nella leggerezza dell’inimmaginabile. Le finzioni in Blanchot non saranno tanto delle immagini, quanto la trasformazione, lo spostamento, l’intermediario neutro, l’interstizio delle immagini». 42 Ibidem, p. 117. 43 M. Foucault, «Préface à la transgression», tr. it. cit., p. 59. Il discorso sulla finzione trova un’ulteriore articolazione in «L’arrière-fable», cit., in termini leggermente differenti. 40 41
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si tratta di un «tragitto di freccia», mentre nel testo su Binswanger, Foucault scriveva che bisognava «prendere la presenza in diagonale». Inoltre è possibile paragonare questo passaggio con un altro ben conosciuto, scritto molto tempo dopo e che si inserisce in un contesto del tutto diverso, l’analisi della modernità: «La nuova domanda sul moderno non ha più alcun riferimento longitudinale con l’antico, bensì una relazione in certa misura “sagittale” con la propria attualità. Il discorso deve sempre rifare i conti con la sua attualità, da un lato per denominare il proprio senso, dall’altro per ritrovarvi il proprio luogo, e infine per dichiarare l’effetto che in questa attualità esso può dispiegare»44. Evidentemente non sono solo delle occorrenze testuali: la loro importanza riguarda la coerenza di un percorso filosofico. A distanza di quasi trenta anni c’è dunque un tema, l’espressione della presenza, che ritorna con una forza nuova e un impatto fondamentale sull’insieme del percorso di Foucault. Sembrerebbe quasi che l’analisi delle modalità di attualizzazione del presente abbia costituito da sempre il problema fondamentale per Foucault, svolto poi in un insieme di riferimenti, di testi, di nozioni che fa segno verso un problema maggiore della filosofia, cioè il ruolo e la funzione dell’immaginazione nei suoi rapporti con le altre facoltà intellettuali. La nozione di finzione è dunque assolutamente centrale, poiché è un concetto metodologico che Foucault discute frequentemente, soprattutto in Raymond Roussel, al cui proposito possiamo formulare tre osservazioni. In primo luogo, è qui che Foucault si occupa di spiegare chiaramente quello che intende per finzione. Tutte le figure spaziali presenti in Raymond Roussel vanno in direzione di questa maniera di intendere il linguaggio e l’espressione, come luogo di riflessione sull’identico alla ricerca di una globalità della visione, di un completamento della rappresentazione della figura45. In secondo luogo, Roussel è considerato da Foucault come l’anti-Husserl, cioè come lo scrittore che con il suo lavoro smentisce la pretesa della fenomenologia di realizzare l’essenza della filosofia stessa. Paragonando Raymond Roussel a Le parole e le cose si può tirare una conclusione: il modo di scrivere di Roussel è profondamente classico poiché il fondo della sua scrittura è costituito da quello che Foucault definisce spazio tropologico, ovvero spazio della retorica. Roussel, senza essere un retore, la utilizza come sorgente della sua scrittura, ed è proprio nella retorica che il linguaggio classico trova la sua specificità. Infatti, la teoria classica del linguaggio, secondo Foucault, si fonda sul nome, sulla necessità di nominare le cose in un modo tale che si allontana dalla ricerca del nome “appropriato”, che costituisce il limite inde passabile del linguaggio. Si può proporre un parallelo tra Husserl e Roussel:
44 M. Foucault, «Qu’est-ce que les Lumières?», DE, IV, p. 681; tr. it. «Che cos’è l’Illuminismo?», Il Centauro, n. 11-12, maggio 1984, p. 231. 45 M. Foucault, Raymond Roussel, Gallimard, Parigi 1963, pp. 96-125, 136-143, tr. it. di E. Brizio, Raymond Roussel, Cappelli, Bologna 1978, pp. 83-106 e pp. 107-136.
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Roussel scrive in piena modernità, utilizzando delle risorse espressive dell’età classica, mentre Husserl pensa nello stesso periodo di realizzare l’essenza stessa della filosofia, ma non si rende conto che questo stesso progetto è reso possibile dall’episteme a cui in fondo appartiene46. Infine, terza osservazione, è vero che Foucault si situa nettamente dal lato di Roussel, forse a causa del fatto che questi scrive a partire dallo spazio tropologico del linguaggio47, tuttavia non si tratta di una preferenza estetica ma, molto più interessante, di una preferenza dettata da ragioni di ordine metodologico. Se Foucault dimostra una debolezza per l’epoca classica è perché vi vede una maniera di utilizzare il linguaggio che permette di far apparire i lati nascosti della cosa, un linguaggio che dà una visione diagonale della realtà. Di conseguenza se la nostra ipotesi è corretta, la si può allargare al suo stesso stile che non sarebbe più dettato da una mera esigenza estetica ma da una necessità metodologica: la scrittura partecipa pienamente al processo di attualizzazione del reale. Se dunque la finzione è un concetto metodologico, è necessario vedere dove e come Foucault lo utilizza. Si può affermare che il metodo archeologico non è che un’opera di finzione nel senso che abbiamo dato a questo concetto. Certe dichiarazioni di Foucault fondano quest’ipotesi. Egli stesso dichiara che Le parole e le cose è «una pura e semplice “finzione”: è un romanzo, ma non sono io ad averlo inventato, è il rapporto della nostra epoca e della sua configurazione epistemologica a tutta questa massa di enunciati»48. E l’affermazione fatta a L. Finas nel 1977 è ancora più chiara: «Quanto al problema della finzione, è per me molto importante: mi rendo perfettamente conto di non aver mai scritto altro che delle finzioni. Non voglio però dire che ciò sia al di fuori della verità. Mi sembra che sia possibile far lavorare la finzione nella
Cfr. G. Lebrun, art. cit., pp. 42-47. Roussel ha scritto un certo numero di opere secondo un procedimento specifico. Date due frasi come «les lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard» (le lettere del bianco sulle bande del vecchio predone) e «les lettres du blanc sur les bandes du vieux billard» (le lettere di gesso sulle sponde del vecchio biliardo) tutto il racconto consiste nel percorrere la distanza che separa la p di pillard dalla b di billard. Ma è proprio qui, a causa di questa differenza infinitesimale, in questo galleggiamento del linguaggio in una zona intermedia tra segno e significato che un fatto inatteso si realizza. Lo scarto microscopico si rivela un abisso in cui si muove «tutto un brulichio semantico di differenze» (M. Foucault, Raymond Roussel, tr. it. cit., p. 20). Roussel scopre tra segno e significato «un vuoto che bisogna allo stesso momento manifestare e colmare» (Ibidem, p. 23). Un vuoto colmato dalla narrazione, ma che è per Foucault qualche cosa di più di una semplice proprietà dei segni. Il procedimento di Roussel funziona come la lama di un coltello che strappa progressivamente il linguaggio cercando in due segni che si ripetono, differenziandosi e raddoppiandosi, un senso differente da quello immediatamente visibile. Lo spazio che così si apre, «lo spazio “tropologico” in cui il “procedimento” mette radici, sarebbe allora apparentato alla maschera: il vuoto che si apre all’interno di una parola non sarebbe semplicemente una proprietà dei segni verbali ma un’ambiguità più profonda, più pericolosa forse: mostrerebbe che la parola come un viso di cartone variopinto nasconde ciò che sdoppia e che ne è isolata da un sottile spessore di notte» (Ibidem, pp. 24-25). 48 M. Foucault, «Sur les façons d’écrire l’histoire», DE, I, p. 591. 46 47
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verità, di indurre degli effetti di verità con un discorso di finzione, e di fare in modo che il discorso di verità susciti, “fabbrichi” qualche cosa che non esiste ancora, dunque “inventi” (fictionne). Si “inventa” (fictionne) della storia a partire da una realtà politica che la rende vera, si “inventa” una politica che non esiste ancora a partire da una verità storica»49. E niente sarebbe più sbagliato di considerare questa autointerpretazione come un’affermazione campata in aria. Foucault è serissimo quando dice di aver scritto solo delle finzioni, se si tiene conto che la sua nozione di finzione è quella appena definita. Soprattutto bisogna evitare di pensare che il suo scopo sia di derealizzare la storia per considerarla come un racconto: la sua intenzione è invece quella di darle più profondità. L’utilizzazione degli artifici della retorica serve in fondo a esprimere quello che resta seppellito non soltanto nelle parole ma anche nelle cose, serve a ottenere una visione diagonale delle cose, a fare del linguaggio una freccia che scava il volume del linguaggio per farne uscire tutto ciò che non si può dire ingenuamente. Tutte nozioni profondamente inscritte nel metodo archeologico e nelle definizioni degli utensili concettuali di cui l’archeologia deve servirsi per le sue analisi. A questo scopo, la definizione dell’enunciato può esserci utile per spiegare il «fare» storico di Foucault50. L’enunciato, anche se è costituito da un supporto materiale, non è tuttavia riducibile alla semplice materialità fisica dei segni. È sia l’esistenza materiale e ripetibile dei segni che l’insieme degli effetti prodotta dalla ripetizione della sua esistenza. È qualche cosa che esiste già, che non è dunque creato dall’archeologia ma che, unicamente per il fatto di essere inserito in un’altra «serie», in un’altra disposizione dell’insieme delle cose dette, fa nascere un altro senso51. L’enunciato non è dunque semplicemente un insieme di segni, quanto a partire da questi, è «ciò che fa esistere questi insieme di segni, e permette a queste regole di attualizzarsi»52. L’enunciato è allo stesso tempo prodotto e produttore, effetto della potenza del discorso e attualizzazione nel discorso di tutto ciò che lo attraversa più o meno silenziosamente. Tuttavia la sua definizione resta apparentemente ambigua, poiché, scrive Foucault, «l’enunciato è al tempo stesso non visibile e non nascosto»53. Serie fisica di segni linguistici, l’enunciato è, in primo luogo, definibile attraverso la catena significante che genera, e dunque, dagli effetti che derivano dalla sua immaterialità corporale. La descrizione di un enunciato ha il compito specifico di definire, a partire dalla puntualità dell’evento discorsivo, l’insieme delle regole che in momento storico particolare hanno condotto alla sua emergenza nel discorso. M. Foucault, «Les rapports de pouvoir passent à l’intérieur des corps», DE, III, p. 236. M. Foucault, L’Archéologie du savoir, Gallimard, Parigi 1969, tr. it. cit., pp. 145-146. 51 M. Foucault, L’Ordre du discours, Gallimard, Parigi 1971; tr. it. di A. Fontana, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, p. 30. 52 G. Deleuze, Foucault, éd. de Minuit, Parigi 1986; tr. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 15 53 M. Foucault, L’Archéologie du discours, tr. it. cit., p. 146. 49 50
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In questo senso l’archeologia è la costituzione di una superficie di iscrizione del discorso in cui il non visibile diviene non nascosto54. L’archeologia, analizzando il discorso come costituito da una serie di funzioni che entrano in relazione reciproca secondo delle modalità ogni volta differenti, può raggiungere lo scopo ricercato: ridistribuire i rapporti tra gli enunciati e ridisporli sulla superficie del discorso secondo una nuova topologia. Come scrive Deleuze: «Bisogna fendere le cose per estrarne le visibilità. E la visibilità in un’epoca, è il regime di luce e gli scintillii, i luccichii, i lampi che si producono al contatto della luce e delle cose. Allo stesso moto bisogna fendere le parole o le frasi per estrarne gli enunciati»55. Il metodo archeologico non è concepibile senza la fenomenologia, il che non esclude l’importanza di altri contributi. Il concorso della fenomenologia è tuttavia fondamentale non tanto da un punto di vista concettuale quanto di prospettiva. Quello che Foucault trova in Husserl non sono dei concetti né un certo metodo, ma piuttosto una maniera di analizzare il reale che, una volta purificata dalle scorie trascendentali, diviene operatoria. È in particolare grazie a una “cattiva” comprensione del concetto di finzione di Husserl che Foucault può pensare il fondamento stesso della sua archeologia. Con questo non si intende affermare che Foucault è un fenomenologo pentito, poiché la continuità con la fenomenologia è estremamente problematica, come abbiamo cercato di dimostrare. Inoltre l’uso della nozione di finzione corrisponde molto di più alla costruzione di una “scena” sulla quale la verità è chiamata a mostrarsi secondo certe modalità che al progetto fenomenologico. In questo senso, tale costruzione, cioè la definizione del metodo archeologico e il suo complemento genealogico, è quanto di più anti-filosofico esista. In effetti, se si costruisce una scena sulla quale far apparire qualche cosa è evidente che il problema non è genetico. Ci si interroga piuttosto sulle relazioni che esistono tra i personaggi ma non sulla loro origine, che è stato il vero problema della filosofia secondo Foucault: «Per la mia generazione, il senso non appare da solo, non è “già là” o piuttosto, “c’è già”, ma sotto un certo numero di condizioni che sono delle condizioni formali»56. Forse Foucault è stato meno filosofo di Deleuze, ma crediamo che una lettura filosofica della sua opera si imponga nella misura in cui egli ha letto, utilizzato e cercato nella filosofia i mezzi concettuali per realizzare il suo progetto. Questi «utensili» concettuali gli hanno permesso di uscire dalla filosofia quando questa è praticata come un sistema di pensiero che non ha un 54 Cf. G. Deleuze, Pourparlers, éd de Minuit, Parigi 1990, tr. it. di S. Verdicchio, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 120: «L’archeologia è la costituzione di una superficie di iscrizione. Se non la costituite il non nascosto resterà non visibile». 55 Ibidem, p. 132. Sul rapporto tra visibile ed enunciabile e una certa preminenza del secondo sul primo cfr. G. Deleuze, Foucault, cit., pp. 55-75 e M. Blanchot, L’Entretien infini, Gallimard, Parigi 1969; tr. it. di R. Ferrara, L’inifinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, pp. 35-44. 56 M. Foucault, «Qui êtes-vous, professeur Foucault», cit., p. 602.
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carattere operatorio della realtà, quando non è capace di incidere il reale per mostrarne le modalità di attualizzazione; quando, invece, ha trovato dei concetti operatori, metodologicamente validi, se n’è servito senza preoccupazioni secondarie, anche con un certo eclettismo. Deleuze diceva che il secolo sarebbe stato filosoficamente foucaultiano, ed in effetti si può riconoscere a Foucault il merito di aver capito quello che la filosofia può e deve fare ora che il tempo delle grandi costruzioni concettuali sembra definitivamente chiuso.
Il Pensiero
rivista di filosofia Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicolo 2
Logiche della filosofia
SAGGI
Logica philosophica Per una logica interale* Luigi Vero Tarca
Ich möchte nicht mit meiner Schrift Andern das Denken ersparen. Sondern, wenn es möglich wäre, jemand zu eigenen Gedanken anregen1. Ludwig Wittgenstein
Introduzione La questione dei limiti della logica È oggi dominante la convinzione che la logica abbia dei limiti costitutivi che le impediscono di trattare la totalità degli argomenti, e in particolare quelli filosofici. Su questa posizione concordano di solito, sia pure con motivazioni e soprattutto con finalità spesso diverse se non opposte, tanto pensatori di provenienza logico-scientifica quanto filosofi di area speculativa, ermeneutica, teologica etc. Di conseguenza, si conclude di solito che la filosofia, intesa come sapere generale e completo, non può assumere la logica come proprio metodo. Tra i motivi che hanno giocato un ruolo decisivo nel favorire l’imporsi di questa convinzione vi sono i paradossi che riguardano il pensiero logico; mi riferisco in particolare ai paradossi dell’implicazione e a quelli (antinomia di Russell, paradosso del mentitore2 etc.) che hanno condotto ai teoremi di limitazione dei sistemi formali (Gödel e simili). I primi mostrano che è assai * Questo scritto è dedicato a Renato Adinolfi, che non ho conosciuto in questo mondo, forse anche perché egli lo ha abitato di sfuggita, come tutti coloro le scoperte dei quali se ne stanno nel mondo vero. 1 «Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé». (L. Wittgenstein, dal Vorwort alle Philosophical Investigations – Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953; trad. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967). 2 Che d’ora in avanti chiamerò semplicemente «il Mentitore».
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problematica l’idea che il calcolo logico corrisponda per intero a quello che noi chiamiamo ragionamento; i secondi paiono addirittura «dimostrare» in maniera logico-matematica che la logica patisce dei limiti costitutivi ed assolutamente non superabili. A confermare la difficoltà di concepire una logica unitaria, vi è poi la circostanza che il metodo delle tavole di verità, automatico ed esaustivo, è applicabile al calcolo enunciativo (o proposizionale) ma non pare esserlo a quello predicativo. In questo studio presento un metodo per affrontare i paradossi logici e per estendere il calcolo tabulare (cioè quello effettuato mediante tavole di verità) alla logica predicativa. Ciò dovrebbe consentire di superare i limiti di cui si è detto, aprendo dunque la strada a una logica dotata di una portata davvero universale; una logica che perciò possiamo chiamare «interale», in quanto capace di trattare unitariamente, e quindi come un intero, la totalità dei problemi filosofici3. Il metodo dell’enunciato aggiunto
7
Quello che presento è un metodo logico per trattare tabularmente (ovvero con il calcolo effettuato mediante tavole di verità) gli enunciati universali, cioè quelli riguardanti la totalità. Ciò consente di ottenere i seguenti risultati logico-filosofici: 1) una soluzione dei paradossi dell’implicazione materiale; 2) un calcolo tabulare per la logica predicativa del primo ordine (nei limiti che verranno specificati); 3) una soluzione dei paradossi dell’implicazione formale; 4) un nuovo modo di affrontare i paradossi semantici e metalogici (il Mentitore, e quindi quelli affini, quali i paradossi di Russell, Gödel e Tarski). Quello proposto può essere chiamato metodo dell’elemento (enunciato) universalizzante, che possiamo chiamare anche elemento (enunciato) aggiunto4. Indicherò con il simbolo «U» l’elemento (enunciato) aggiunto. Esso è l’enunciato che, unito (aggiunto) a un enunciato dato (A), costituisce l’insieme totale (T) degli enunciati. Per questo l’enunciato U può essere chiamato
3 Questo metodo è da me già stato presentato nel libro Quattro variazioni sul tema negativo/positivo. Saggio di composizione filosofica, Ensemble ’900, Treviso 2006 (prima edizione provvisoria 2004), d’ora in avanti indicato con la sigla QV. La cornice filosofica di tale soluzione è presente nei miei precedenti scritti, in particolare Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova 1993; Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001; e, infine, Negazione e contraddizione, in F. Altea-F. Berto (a cura di), Scenari dell’impossibile. La contraddizione nel pensiero contemporaneo, Il Poligrafo, Padova 2007, pp. 87-118, saggio che costituisce una sorta di complemento e di integrazione del presente. 4 Con questo termine intendo riferirmi a una unione tra due enunciati che è diversa sia dalla congiunzione che dalla disgiunzione, e che per questo può assumere a volte l’aspetto della congiunzione e a volte quello della disgiunzione. Si può parlare anche di metodo dell’enunciato nascosto, o implicito, o ulteriore.
Logica philosophica. Per una logica interale
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anche complemento positivo di A: complemento, perché insieme ad A costituisce il tutto; positivo, perché è diverso dal complemento che consiste nella negazione di A. L’idea, molto semplicemente, è questa: se A è una parte, allora il tutto (T) si ottiene aggiungendo ad A la parte che resta (U) per realizzare il tutto, cioè la parte Ulteriore rispetto ad A. Esprimo la «aggiunzione» di A e di U con la seguente formula: A * U. 1. Logica dell’astratto Chiamo astratto il discorso che non include il metadiscorso. All’interno dell’ambito astratto, l’universalizzazione di un enunciato dato (A) viene ottenuta mediante la congiunzione di A con l’enunciato universalizzante U. La formula che esprime l’universalizzazione di A sarà dunque: A * U. Spiegazione «logica»: analogia tra universale e congiunzione. Se assumiamo che l’insieme di tutti i fatti è finito, allora l’universale (il tutto) è dato dalla congiunzione (finita) di tutti gli enunciati raffiguranti i fatti. Se invece l’insieme è infinito, allora, dato un enunciato riguardante un fatto particolare (A), l’universale è ottenuto congiungendo A con un enunciato corrispondente a un fatto (U) che rappresenta tutti i restanti fatti5. Così, per restare al caso del condizionale (A → B), la sua universalizzazione sarà: (A → B) ∧ U. All’interno dell’ambito dell’astratto, possiamo assumere che il valore di verità della tautologia (T), il quale è il Vero in tutte le righe, sia già di per sé riferito all’universale; sicché se A è una tautologia, la sua universalizzazione non avrà bisogno di complemento. Analogamente, una incoerenza (ovvero, in senso lato, una contraddizione: K)6, in quanto è la negazione della tautologia, è pure riferita (sia pure in negativo) al tutto, e quindi a sua volta non avrà bisogno di complemento7. Invece, se l’enunciato dato è contingente (cioè almeno una volta vero e almeno una volta falso), allora la sua universalizzazione si ottiene congiungendo ad esso l’enunciato contingente U. Insomma, in questo caso, dato un solo enunciato (A), U si comporterà esattamente come B; se invece gli enunciati dati sono due (A e B), allora U si comporterà come C, e così via. 5 Per questo possiamo chiamare «arbitrario» tale enunciato U, e «fatto arbitrario» quello da esso raffigurato. 6 Chiamo «contraddizione» (o «incoerenza») una formula che ha valore di verità Falso in tutte le righe del calcolo tabulare (la indicherò con il simbolo K). Essa viene quindi distinta dalla formula alla quale viene di solito riservato questo nome in senso stretto, e cioè la congiunzione di due enunciati che sono l’uno la negazione dell’altro (formula che peraltro è anch’essa, nel calcolo logico tradizionale, sempre falsa). Dunque, salvo apposita precisazione, quando parlo di contraddizione mi riferisco a un enunciato falso in tutte le righe della tavola di verità 7 O, se si vuole, in questi due casi (tautologia e contraddizione) l’enunciato aggiunto coincide con la tautologia (che esprime il tutto).
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1.1 I paradossi dell’implicazione materiale Soluzione
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Detto metodo consente di proporre una soluzione dei paradossi dell’implicazione materiale. Questi consistono nel fatto che, all’interno della logica enunciativa, vi sono dei condizionali che calcolati con il metodo delle tavole di verità risultano tautologici, ma corrispondono a dei ragionamenti che non possiamo accettare come validi. Gli esempi più tipici di questo paradosso sono i seguenti: (1) A→ (B → A); (2) ¬ A → (A → B). Vi è poi una variante particolarmente significativa di questo secondo paradosso, che suona: (3) ¬ A → (A → ¬ A) Questa circostanza mette in crisi la corrispondenza fra il calcolo logico enunciativo (proposizionale) e quella che possiamo chiamare la logica razionale (o naturale), e compromette dunque il valore filosofico della logica formale. In altri termini, i paradossi consistono nel fatto che il condizionale (implicazione) «normale» (→) non corrisponde a quello che possiamo chiamare «condizionale razionale», e che esprimeremo dunque con il simbolo ⇒. La soluzione che propongo consiste nell’interpretare l’implicazione razionale (⇒) come l’universalizzazione dell’implicazione materiale (→). Spiegazione intuitiva. Quando asseriamo un’implicazione – come per esempio «Se è domenica allora le scuole sono chiuse» – in qualche modo esprimiamo un enunciato universale, perché è un po’ come se dicessimo: «Tutte le volte che è domenica le scuole sono chiuse». In base a quanto sopra detto, nel caso in cui l’implicazione sia una tautologia o una contraddizione, i due tipi di implicazione coincideranno; ma nel caso in cui l’implicazione sia una contingenza, l’implicazione razionale risulterà definita dalla seguente formula: (A ⇒ B) =def. ((A → B) ∧ U). L’attribuzione dei valori di verità all’implicazione razionale avverrà dunque con il seguente metodo: si calcola innanzi tutto il condizionale materiale corrispondente; se questo risulta essere tautologico o contraddittorio, anche l’implicazione razionale risulterà tale (cioè rispettivamente tautologica o contraddittoria); se invece esso risulta essere contingente, l’implicazione razionale corrisponderà alla congiunzione del condizionale normale con l’enunciato aggiunto U. Tutto questo può essere espresso da una matrice che istituisca una corrispondenza tra il condizionale «normale» (quello materiale) e quello razionale. Tale matrice introduce, al posto dei «normali» valori del Vero e del Falso, i «metavalori» costituiti da: Contraddittorio (K), cioè sempre falso; Tautologico (T), cioè sempre vero, e Contingente (C), cioè almeno una volta vero
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Logica philosophica. Per una logica interale
e almeno una volta falso. La matrice che ne risulta sarà dunque una sorta di Metamatrice. Metamatrice Condizionale materiale A→B
Condizionale razionale A⇒B
T
A→B
K
A→ B
C
(A → B) ∧ U
Fermo restando il criterio per cui un’implicazione è razionalmente valida quando il condizionale che la esprime è tautologico, questa matrice ci consente di fornire la seguente soluzione dei paradossi dell’implicazione materiale. Affrontiamo il primo paradosso sostituendo al condizionale materiale (→) quello razionale (⇒); la formula diventa allora: P ⇒ (Q ⇒ P). In base al nostro metodo, incominciamo calcolando il condizionale materiale corrispondente a Q ⇒ P, cioè Q → P. Questo è contingente, per cui Q ⇒ P diventa (Q → P) ∧ U, ed assume quindi i valori espressi dalla tavola che segue8. P
Q
U
(Q
→
P)
∧
U
Q⇒P
V
V
V
V
V
V
V
V
V
F
V
V
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F
F
F
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V
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F
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F
F
V
F
F
F
F
Si osservi, di passaggio, che la tavola risulta composta, in verticale, di due settori. Il primo dei due è identico a quello del condizionale materiale; il secondo, invece, ha il valore Falso in tutte le righe. La formula che esprime il paradosso è quella che ha questa formula (Q ⇒ P) come conseguente e P come antecedente. Se noi ora calcoliamo il condizionale materiale corrispondente alla formula che esprime il paradosso (P → (Q ⇒ P)), vediamo che esso non è più tautologico, come illustra la seguente tabella. Si badi che, rispetto alla formulazione del paradosso sopra presentata, abbiamo sostituito A con P e B con Q. D’ora in avanti, per riassumere il senso di una tavola di verità, riporteremo di seguito alla formula i valori della colonna centrale; in questo caso: ((Q → P) ∧ U): VFVV.FFFF. 8
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P
Q
U
P
→
(Q ⇒ P)
V
V
V
V
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F
V
V
F
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F
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F
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V
V
V
F
F
V
F
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V
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F
V
F!
F
F
V
F
F
V
F
V
F
F
V
F!
F
F
F
F
F
V
F
Se questo condizionale non è tautologico, a fortiori non sarà tautologica la formula generata dalla congiunzione di questo enunciato con un ulteriore elemento aggiunto U1, cioè la formula P ⇒ (Q ⇒ P). Non essendo questa formula tautologica, il paradosso è risolto9. Come si vede, il condizionale materiale corrispondente a quello paradossale risulta tautologico nel primo settore (esattamente come quello paradossale) ma non nel secondo (quello generato dalla introduzione di U), ed è appunto questo che, rendendo contingente il conseguente del condizionale in cui consiste il paradosso, rende contingente pure la formula intera; in tal modo il paradosso resta risolto. Applicando questo stesso metodo agli altri paradossi, ugualmente otteniamo formule non tautologiche; sicché anche i paradossi sopra indicati con i numeri 2 e 3 sono risolti10. Naturalmente è necessario, affinché tale metodo risulti valido, che esso, oltre a «smascherare» i paradossi, «riconosca» come validi i condizionali che invece corrispondono a ragionamenti razionalmente corretti, quale innanzi tutto il Modus ponendo ponens (MPP). E in effetti così accade, come possiamo accertare grazie a un semplice calcolo effettuato mediante le tavole di verità. Utilizzando alcuni test paradigmatici, otteniamo insomma per il nostro metodo un responso positivo, illustrato dalla tabella che segue (per questo si può vedere QV, p. 91). Paradossi dell’implicazione materiale 1
P ⇒ (Q ⇒ P)
Primo paradosso
2
¬P ⇒ (P ⇒ Q)
Secondo paradosso
3
¬P ⇒ (P ⇒ ¬P)
Caso particolare del secondo paradosso
9 Invece la formula P ⇒ (Q → P) risulta tautologica, come del resto è giusto (si noti che i due condizionali sono diversi); per questo aspetto si può vedere QV, p. 91 e la relativa Appendice I.1.1, pp. 205-211, in particolare alla p. 207. 10 Perché ¬P → (P ⇒ Q) (2° paradosso) ha come valori: VVVV.VFVF; e il caso particolare (3°), cioè ¬P → (P ⇒ ¬P), ha come valori: VVVF.
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Logica philosophica. Per una logica interale
Ragionamenti riconosciuti corretti 4
(P ∧ Q) ⇒ P
5
((P ⇒ Q) ∧ P) ⇒ Q
Modus ponendo ponens (MPP)
6
((P ⇒ Q) ∧ ¬Q) ⇒ ¬P
Modus tollendo tollens (MTT)
7
(P ⇒ (Q ∧ ¬Q)) ⇒ ¬P
Reductio ad absurdum (RAA)
Ragionamento non riconosciuto corretto 8
P ⇒ (Q ⇒ (P ∧ Q))
Regola di aggiunzione
Ragionamenti corretti con un solo condizionale 9
((¬P ∨ Q) ∧ P) ⇒ Q
Corrisponde al MPP
10 P ⇒ ¬ ¬P 11 ¬ ¬P ⇒ P 12 (P ∧ ¬P) ⇒ Q
Pseudo Scoto
È ovvio che, quando vi è un solo condizionale, l’implicazione razionale avrà lo stesso valore della corrispondente implicazione materiale. È appunto per ciò che questo sistema, almeno quale esso è stato fin qui presentato, ripropone il problema cosiddetto dello Scoto (o dello pseudo Scoto): ex falso quodlibet (caso n. 12 della tabella precedente). Spiegazione intuitiva della soluzione A questa soluzione si può pervenire anche mediante una strada diversa; anzi, è proprio quella che ora presento la strada che ha condotto alla soluzione proposta. Tutti sappiamo che il condizionale materiale presenta dei problemi, ma di solito essi vengono attribuiti alle due righe nelle quali il condizionale risulta vero perché l’antecedente è falso; non vengono invece assunti come problematici gli altri due casi, quelli cioè nei quali l’antecedente è vero. P
Q
P
→
Q
V
V
V
V
V
F
V
F
V
V
V
F
V
F
F
F
F
F
V
F
Ora, è certo che nel caso in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso (chiamerò questa circostanza «passaggio dal Vero al Falso») il condizionale è sicuramente falso; ma è tutt’altro che evidente che, nel caso in cui sia l’antecedente che il conseguente siano veri, il condizionale debba essere vero. In effetti, constatare che è vero l’enunciato «È domenica» e che è vero anche
12
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Luigi Vero Tarca
l’enunciato «Le scuole sono chiuse» è cosa diversa dal riconoscere la verità dell’enunciato «Se è domenica allora le scuole sono chiuse»; perché il condizionale (inteso in senso «razionale») sembra includere qualcosa di più del semplice fatto che entrambi gli enunciati sono veri, dal momento che istituisce una sorta di connessione necessaria tra il primo fatto e il secondo. Questo significa che il condizionale, inteso in senso razionale, contiene qualcosa di più rispetto alla semplice constatazione della verità di entrambi gli enunciati connessi mediante il condizionale. Il condizionale, insomma, esprime qualcosa che trascende il contenuto di entrambi gli enunciati posti in connessione. Ebbene, questa «trascendenza» può essere espressa, nel calcolo tabulare, mediante un nuovo enunciato (appunto U). In effetti, riconoscere che il condizionale razionale esprime qualcosa che trascende il contenuto degli enunciati che lo compongono significa riconoscere che, eccettuato il caso in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso (nel qual caso il condizionale è sempre falso), in tutti gli altri casi il condizionale può essere sia vero che falso. Questo vuol dire che, partendo dalla tavola dei valori di verità di un condizionale materiale, bisogna raddoppiare tutte le righe, mettendo entrambe le volte Falso nel caso in cui l’antecedente sia vero e il conseguente falso, e invece una volta Vero e una volta Falso in tutti gli altri casi. Se poi, fatto questo, raccogliamo le seconde righe (quelle aggiunte) invece di alternarle alle prime, e le collochiamo tutte insieme di seguito a queste, otteniamo un raddoppio della tavola di verità del condizionale di partenza, raddoppio che nel primo settore è identico al condizionale di partenza, e nel secondo settore presenta sempre il valore Falso; ma questa è precisamente la tabella che otteniamo applicando la nostra formula che prevede l’aggiunta, mediante congiunzione, di U. 13
Risolti questi problemi, si può sensatamente sostenere che, rimandando a dopo i casi particolari della tautologia e della contraddizione, il calcolo enunciativo tabulare corrisponde a quello razionale; e il condizionale razionale corrisponde a quello che intendiamo per connessione (o implicazione) logica. Un primo, importante limite del calcolo logico è superato.
1.2 Il calcolo predicativo tabulare Questo metodo, in quanto riguarda gli enunciati universali, ci consente di trattare pure gli enunciati quantificati, e quindi in generale (con le precisazioni che indicheremo) il calcolo predicativo. Ciò che caratterizza il calcolo predicativo è la distinzione tra la proprietà (P) e il nome (m, n, …) e quindi la variabile (x, y, …); pertanto l’enunciato aggiunto consisterà in un enunciato nel quale la proprietà sarà distinta dal nome rappresentante l’oggetto. Nel calcolo predicativo esistono fondamentalmente tre tipi di enunciati: quelli singolari, quelli quantificati universalmente, e quelli quantificati esistenzialmente.
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Dal punto di vista del calcolo tabulare, gli enunciati singolari (Fm, Gm etc.) possono essere trattati come gli enunciati del calcolo enunciativo (P, Q etc.); quelli quantificati, invece, saranno trattati in base ai criteri che ora esporremo. Gli enunciati quantificati universalmente vengono «tabularizzati» nel modo seguente. La quantificazione (cioè la formula ∀x, che è proprio l’elemento che impedisce la «tabularizzazione») viene meno; la variabile (x) viene sostituita da un nome proprio (m), al quale viene naturalmente riferita la proprietà che prima era riferita alla variabile, così che la formula diventa un enunciato «tabularizzabile» (singolare, nel caso più semplice, oppure composto, negli altri casi); a questo enunciato viene quindi congiunto un enunciato identico ad esso nel quale però al nome proprio m viene sostituito il nome aggiunto u11. La formula che esprime in generale la quantificazione universale sarà dunque la seguente (essendo α una qualsiasi formula predicativa, e indicando con «n», messo in pedice, un numero di nomi pari a quelli presenti nel ragionamento): ∀xαx = αmn ∧ αu. Per quanto riguarda gli enunciati quantificati esistenzialmente si procede in modo analogo; nel senso che la quantificazione esistenziale (cioè la formula ∃x) viene meno, la variabile (x) viene sostituita da un nome proprio (m), al quale, come sopra, viene riferita la proprietà che prima era riferita alla variabile, generando in tal modo un enunciato «tabularizzabile» col quale viene disgiunto un enunciato identico ad esso nel quale però al nome proprio m viene sostituito il nome ulteriore u12. La formula che esprime in generale la quantificazione esistenziale sarà dunque la seguente: ∃xαx = αmn ∨ αu A rigore basterebbe tabularizzare il quantificatore universale, dal momento che l’esistenziale è la negazione dell’universale che gli è contrapposto nel quadrato di opposizione logica. Il nostro calcolo mostra che in effetti le colonne risultanti dall’applicazione dei due diversi metodi (l’esistenziale (a) come disgiunzione e (b) come negazione dell’universale opposto) coincidono. Ricordo, di passaggio, che circa il quadrato di opposizione vi è differenza tra la logica predicativa contemporanea e quella aristotelico-sillogistica (per questo si veda più avanti la nota 13). È possibile fornire una spiegazione intuitiva di queste formule. Ciò che vale universalmente deve valere, oltre che per un insieme particolare (finito) di oggetti (mn), anche per tutti gli altri oggetti, rappresentati dall’oggetto ulteriore u. Inoltre, l’analogia tra l’universale e la congiunzione (di cui sopra si è detto) fa sì che i diversi enunciati che costituiscono l’enunciato universale «tabularizzato» siano connessi mediante la congiunzione.
Se nel ragionamento esistono altri nomi propri, la congiunzione comprende tanti congiunti quanti sono i nomi propri, più naturalmente quello in cui figura il nome ulteriore u. 12 Anche qui, se nel ragionamento esistono altri nomi propri, la disgiunzione comprende tanti disgiunti quanti sono i nomi propri, più naturalmente quello che in cui figura il nome ulteriore u. Ma si tengano presenti anche le precisazioni introdotte in relazione al caso IV OOA. 11
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Per quanto riguarda poi l’esistenziale, è noto che esso può essere interpretato come una disgiunzione. Infatti, affermare che esiste almeno un oggetto che ha la proprietà F, nel caso di un universo di oggetti di numero finito (poniamo, per semplicità, due soli: m e n) equivale ad affermare una disgiunzione relativa a tutti gli oggetti dati; cioè, nel nostro esempio: Fm ∨ Fn. Nel caso in cui l’universo degli oggetti sia invece infinito, la disgiunzione andrà fatta tra tutti i nomi dati e un nome arbitrario (u) in rappresentanza di tutti gli altri possibili oggetti, nome che quindi sarà ulteriore rispetto a tutti quelli dati. Questo sistema consente di calcolare tabularmene le formule del calcolo predicativo. Incomincio a dimostrare questo partendo dal caso, limitato ma particolarmente significativo, dei sillogismi. Il calcolo tabulare dei sillogismi
15
Nel caso dei sillogismi abbiamo a che fare con quattro tipi di enunciati, quelli che costituiscono il quadrato di opposizione: universale affermativo (A: «Tutti gli uomini sono buoni»), universale negativo (E: «Nessun uomo è buono»), particolare affermativo (I: «Qualche uomo è buono») e particolare negativo (O: «Qualche uomo non è buono»)13. Tutti questi enunciati sono facilmente «tabularizzabili» mediante il nostro metodo. Abbiamo già visto che A, cioè (per esempio) ∀x (Fx → Gx), corrisponde a (Fm → Gm) ∧ (Fu → Gu). Il particolare negativo O ne è il contraddittorio, e quindi si può ottenere semplicemente negando A. Quanto ad E, cioè (per esempio) ∀x (Fx → ¬Gx), esso si «tabularizza» come un normale universale, e diventa quindi (Fm → ¬Gm) ∧ (Fu → ¬Gu). Infine, I è il contraddittorio di E, e si ottiene quindi mediante la semplice negazione di E. È possibile costruire una tabella che ci consente di controllare agevolmente se i calcoli effettuati con questo metodo sono in grado di distinguere tutti e soli i sillogismi corretti da quelli scorretti. Tutti i possibili schemi sillogistici sono riducibili a quattro figure, rappresentate dalla seguente tabella.
13 Si ricordi che nel sillogismo classico (aristotelico), dal momento che in esso non vi sono nomi vuoti, i rapporti tra enunciati particolari e universali sono diversi da quelli sussistenti tra enunciati universali ed esistenziali nel calcolo predicativo. In entrambe le logiche, A rispetto ad O ed E rispetto ad I sono contraddittori; sicché in questo caso per «generare» I ed O ci si può limitare a negare rispettivamente E ed A. Ma nella logica predicativa A non implica I ed E non implica O; si tratta infatti di enunciati rispettivamente indipendenti (A rispetto ad I ed E rispetto ad O); e A ed E non hanno un rapporto di contrarietà (non poter essere entrambi veri), come accade nella logica aristotelica, ma di indipendenza (almeno nell’universale espresso mediante il condizionale relativo a due sole proprietà). Per questo, l’esistenziale opposto ad A è «tabularmente» diverso dalla negazione di A, e l’esistenziale opposto ad E è «tabularmente» diverso dalla negazione di E. Questo fa sì che, per calcolare tabularmente i sillogismi, si debbano generare, oltre agli enunciati universali (affermativi e negativi) e ai loro contraddittori (le loro negazioni), anche gli enunciati esistenziali ∃xFx, ∃xGx ed ∃xHx corrispondenti alle aggiunte esistenziali necessarie a far corrispondere il calcolo aristotelico a quello predicativo.
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Logica philosophica. Per una logica interale
Figure
I
II
III
IV
Premessa maggiore
G,H
H,G
G,H
H,G
Premessa minore
F,G
F,G
G,F
G,F
Conclusione
F,H
F,H
F,H
F,H
In essa viene indicato l’ordine in cui le proprietà (F, G, H) sono presenti nelle premesse (nella conclusione, come si vede, l’ordine è fisso: F, H). Per esempio, se la prima premessa della prima figura è un enunciato universale, essa avrà la seguente forma: ∀x (Gx → Hx). Dal momento che ogni enunciato può avere la forma A, E, I oppure O, ogni figura avrà 4 possibili premesse maggiori, 4 possibili premesse minori, e 4 possibili conclusioni, pari a 64 (43) possibili combinazioni. Dato poi che le figure sono quattro, tutti i possibili schemi sono 256 (64 x 4, cioè 44). Dato che le proprietà sono tre (F, G, H), e che vi è una sola variabile (x), tutti gli enunciati sillogistici saranno riducibili a sei enunciati semplici: tre nei quali le proprietà hanno come nome m (Fm, Gm, Hm) e tre nei quali le proprietà hanno come nome u (Fu, Gu, Hu); i quali corrispondono, dal punto di vista tabulare, a sei enunciati quali P, Q, R, S, T, U. Gli universali affermativi (A) sono sei: tre «diritti» (F-G, F-H, G-H) e tre «inversi» (G-F, H-F, H-G). Anche i particolari negativi (O) saranno sei, dal momento che essi sono le negazioni degli A. Gli universali negativi (E), invece, sono solo tre, perché essi equivalgono al loro inverso14, e solo tre saranno dunque anche i particolari affermativi (I), dal momento che I è il contraddittorio (cioè la negazione) di E. In considerazione della differenza tra logica aristotelica e logica contemporanea, abbiamo bisogno anche di tre enunciati esistenziali, uno per ogni proprietà: ∃xFx, ∃xGx, ∃xHx15. Così, la tabella necessaria per calcolare i sillogismi consterà di 27 colonne: 6 enunciati semplici; 6 A (3 diritti e 3 inversi), 6 O (le loro negazioni); 3 E, 3 I (le loro negazioni), e i 3 esistenziali finali16. Dal momento che gli enunciati semplici sono sei, la tabella consterà di 64 (26) righe, esattamente come una tavola di verità che fosse composta di sei enunciati semplici; tutti gli altri enunciati del sillogismo sono composti a partire da quelli dati, e dunque non richiedono un aumento delle righe della tabella. Di tutti i 256 possibili schemi sillogistici, 24 sono validi e 232 invalidi17. Grazie ai plurimillenari studi in proposito noi sappiamo già quali sono gli uni Se nessun uomo è buono, allora nessuna cosa buona è uomo. In base al nostro metodo, l’esistenziale corrisponde a una disgiunzione; per esempio ∃xFx equivale a: Fm ∨ Fu. 16 In realtà sarebbero sufficienti 25 colonne, dal momento che nella conclusione l’ordine (F-H) è fisso, e non ci sarebbe dunque bisogno dell’universale inverso e quindi nemmeno del particolare negativo che ne costituisce la negazione. 17 Chi avesse desiderio di vedere più concretamente come si ottiene questo risultato, può vedere QV alle pp. 102 e passim, e 110 ss., con le relative appendici: II.3, p. 225; II.7, p. 232 14 15
16
110
17
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e quali gli altri; dunque ci è facile controllare se i risultati ottenuti mediante la nostra tabella coincidono con quelli noti. Il modo per decidere mediante la nostra tabella se un sillogismo è valido o no è semplice, e si basa sul criterio generale di correttezza per un ragionamento: un sillogismo è valido quando non si danno righe nelle quali tutte le premesse abbiano valore Vero e la conclusione abbia valore Falso18. Tale controllo meccanico dà un risultato assolutamente soddisfacente, nel senso che tutti i sillogismi validi vengono riconosciuti validi, e tutti quelli invalidi vengono riconosciuti invalidi (con la precisazione che subito verrà apportata). Vale la pena di osservare che, dei 24 schemi che sono validi nella sillogistica aristotelica, 9 risultano validi nella logica contemporanea solo grazie all’aggiunta delle opportune assunzioni esistenziali. Costituisce dunque una significativa «conferma indipendente» della validità del nostro sistema di calcolo la circostanza che anche in esso quei 9 schemi risultano validi solo se noi congiungiamo, alle premesse, l’assunzione esistenziale di volta in volta richiesta. Ma tra i molti altri punti che meriterebbero di essere sottolineati, ve ne è uno in particolare cui si deve qui fare cenno. Tra tutti i 232 schemi sillogistici non validi, ve ne è uno (IV OOA)19 che, calcolato con la nostra tabella, risulta valido. La spiegazione e la conseguente «rettifica» di questa apparente anomalia favorisce una messa a punto del sistema di calcolo capace di favorirne la generalizzazione consistente nella sua applicazione al calcolo predicativo in generale, e soprattutto fornisce gli strumenti per superare i paradossi dell’implicazione formale, come più avanti vedremo. La soluzione di questo caso consente infatti di precisare due punti importanti. In primo luogo, una conclusione universale può legittimamente essere interpretata come affermante l’esistenza di almeno un fatto esemplificante il suo contenuto solo a condizione che il ragionamento risulti vero anche congiungendo alla conclusione l’esistenziale relativo all’antecedente del condizionale che costituisce la conclusione. In secondo luogo, una conclusione universale può essere correttamente derivata da premesse che non ne vincolino l’antecedente «positivamente» (cioè in una maniera che rende vero l’esistenziale corrispondente all’antecedente) solo se gli (eventuali) esistenziali che figurano nelle premesse vengono costruiti con un numero di oggetti pari a tutte le proprietà presenti nel ragionamento20.
(controllo della correttezza); II.8, p. 233. Può essere utile vedere anche E.J. Lemmon, Beginning Logic (1965),trad. it. M. Prampolini, Elementi di logica, Laterza, Roma-Bari (19751), prima edizione BUL 1986 (a questa si riferiscono le citazioni), pp. 187-198, in particolare p. 191 e p. 196; ma si faccia attenzione a un grave errore riguardante le assunzioni esistenziali (nello schema II EAO manca l’assunzione esistenziale Fx), errore che risulta corretto nel mio testo QV, Appendice II.3, p. 225. 18 Naturalmente nel caso del sillogismo le premesse sono sempre due. 19 Cioè: Figura IV; prima premessa: particolare negativo (O), seconda premessa: particolare negativo (O), conclusione: universale affermativo (A). 20 Per questo si può vedere QV, pp. 111-116 e Appendice II.14, pp. 244-246.
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Logica philosophica. Per una logica interale
Spiegazione intuitiva della soluzione Anche in questo caso può essere utile indicare la via attraverso la quale si è giunti, gradualmente, alla soluzione proposta. Il punto di partenza è costituito dall’idea di «tabularizzare» il quadrato di opposizione aristotelico, cioè i rapporti tra i quattro tipi di enunciati che costituiscono i sillogismi: A, E, I ed O. Il rapporto tra A ed O, per esempio, è di contraddittorietà: essi non possono essere entrambi veri né entrambi falsi. Questo vuol dire che dal punto di vista tabulare essi possono venire considerati come due enunciati indipendenti (come P e Q) dalla cui tavola siano però state eliminate (cioè barrate) due possibili combinazioni, ovvero due righe, come mostra la tabella seguente. A
O
V
V
F
V
V
F
F
F
Allo stesso modo, si può costruire una tabella che esprima il rapporto di contrarietà tra A ed E (si badi che qui stiamo parlando della logica aristotelica, non di quella predicativa contemporanea, nella quale A ed E sono indipendenti), barrando la riga in cui sono entrambi veri, ma non quella in cui sono entrambi falsi. Così, eliminando tutte le righe «illegittime» (cioè barrate), giungiamo alla seguente tabella, che esprime i rapporti tra i quattro enunciati del quadrato di opposizione (in riferimento a due sole proprietà)21. A
E
I
O
F
F
V
V
F
V
F
V
V
F
V
F
I paradossi dell’implicazione formale I risultati sopra conseguiti ci consentono di presentare una soluzione anche per i paradossi dell’implicazione formale, che sono il corrispettivo, a livello di calcolo predicativo, dei paradossi dell’implicazione materiale: (1) ∀xFx → ∀x (Gx → Fx); (2) ∀x ¬Fx → ∀x (Fx → Gx). A renderne possibile la soluzione sono le precisazioni introdotte per risolvere il caso IV OOA. 21
Per questi aspetti si può vedere QV, pp. 96-104.
18
112
19
Luigi Vero Tarca
Perché nel caso del primo paradosso l’antecedente del condizionale che costituisce la conclusione (cioè Gx) non è né vincolato universalmente né affermato esistenzialmente nella premessa. Quindi – in base a quanto detto – al conseguente della formula (cioè a ∀x (Gx → Fx)) va congiunto l’esistenziale di Gx, cioè ∃xGx; e in tal modo la formula non risulta più essere tautologica. Quanto al secondo paradosso, l’antecedente della conclusione non solo non è vincolato positivamente nella premessa, ma addirittura vi è negato universalmente. Sicché, congiungendo al conseguente principale (∀x (Fx → Gx)) l’esistenziale di Fx, cioè ∃xFx, il ragionamento risulta scorretto. Il calcolo «paradossale» (cioè privo di aggiunte esistenziali), beninteso, è corretto; ma se si vuole che esso corrisponda al significato «normale» di un enunciato universale, si deve tradurlo correttamente, cioè aggiungere l’esistenziale. Questo vuol dire che nel calcolo bisogna congiungere alla conclusione «nel primo caso l’esistenziale ∃xGx, e nel secondo caso l’esistenziale ∃xFx; in tal modo entrambi i ragionamenti risultano invalidi, e il paradosso è superato» (QV, p. 117). Completamento del calcolo predicativo Nella misura in cui, come si diceva, il calcolo predicativo è sostanzialmente riducibile alla quantificazione universale, il metodo che consente di «tabularizzare» gli enunciati quantificati dovrebbe essere in grado di «tabularizzare» l’intero calcolo predicativo. In effetti, i controlli effettuati su un classico manuale di logica, sia pure di base, quale E. J. Lemmon, Elementi di logica, cit., hanno dato esito pienamente positivo, nel senso che tutte le sequenze ivi presentate, calcolate con il nostro metodo, risultano corrette22, con le precisazioni che ora verranno fornite. Restano infatti da approfondire, o da perfezionare in termini di formalizzazione, alcuni problemi; precisamente quello (a) delle sequenze con più di una variabile e quindi delle relazioni, nonché quello (b) dell’identità. Da ultima, ma non per importanza, la questione (c) della logica predicativa del secondo ordine. Di tutti questi problemi si dice qualcosa qui nell’Appendice A123; ma si tenga presente che, per quanto riguarda la logica predicativa del secondo ordine, essa chiama in gioco le questioni legate ai paradossi metadiscorsivi, e quindi dovrà poi essere ripensata alla luce della seconda parte del presente lavoro. Nella misura in cui il calcolo tabulare è applicabile alla logica predicativa, viene superato un limite essenziale della logica tabulare, e restano così poste le premesse per una unificazione totale del sistema logico.
22 23
Si veda QV, p. 116 e Appendice II.15, pp. 247-250. Su questi aspetti si può vedere anche QV, p. 116 e Appendice II.16, pp. 251-252.
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Logica philosophica. Per una logica interale
2. Logica del concreto 2.1 Il metadiscorso Un metodo che voglia essere davvero universale deve essere tale, oltre che in riferimento alla totalità dei fatti (e degli oggetti), anche in riferimento alla totalità degli enunciati; ovvero, se vuole essere davvero valido in relazione alla totalità dei fatti, deve essere valido anche in relazione alla totalità di quei fatti che sono gli enunciati. Un metodo universale deve dunque includere anche il metadiscorso, cioè il discorso che parla del discorso. Avendo chiamato astratto il discorso in quanto prescinde dalla dimensione del metadiscorso, chiamerò concreto il discorso in quanto comprende anche il metadiscorso. Il metadiscorso riguarda non solo il contenuto astratto dell’enunciato – ovvero quell’aspetto dell’enunciato che risulta essere vero o, viceversa, falso – ma anche tutto ciò che determina l’enunciato nel suo essere ciò che esso è, compreso dunque anche il suo valore di verità. Il contenuto, insomma, si determina astraendo da molte circostanze che peraltro contribuiscono a costituire l’enunciato, anche se non rientrano propriamente nel suo contenuto (ma caso mai, potremmo dire, nel suo metacontenuto, che è oggetto del metadiscorso). Tra queste circostanze, particolare attenzione merita il senso di un enunciato, intendendo con tale termine (senso) ciò che determina il suo essere vero o falso, e che comprende quindi anche ciò che resta vero pure nel caso in cui l’enunciato, quanto al suo contenuto, risulti falso. Per esempio, l’enunciato P – interpretato, almeno in prima battuta, come «Paolo ha vinto a tennis» – ha come contenuto la vittoria tennistica di Paolo; ma esso comprende anche un metacontenuto relativo ad altri aspetti della realtà, quali il suo riferirsi a un uomo, a uno sport di un certo tipo etc.; ma poi anche il suo essere un enunciato, il suo poter essere vero o falso, il suo essere espresso in lingua italiana etc.; e infine, in particolare, comprende un contenuto che resta vero tanto nel caso in cui l’enunciato sia vero quanto nel caso in cui sia falso. Nel nostro esempio, il senso di P comprende l’enunciato: «Paolo ha giocato una partita a tennis», il quale ovviamente è vero nel caso in cui Paolo abbia vinto (e quindi P sia vero), ma resterà vero anche nel caso in cui P sia falso perché Paolo ha perso la partita a tennis. Dal punto di vista tabulare possiamo rappresentare l’enunciato «Paolo ha giocato una partita a tennis» (che chiameremo SP) mediante una tabella di questo tipo. P
SP
V
V
F
V
Ma l’enunciato SP, in quanto enunciato «fattuale», può a sua volta essere falso. Nel nostro esempio, P potrebbe essere falso non perché Paolo ha gio-
20
21
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Luigi Vero Tarca
cato e ha perso, ma perché non ha proprio giocato alcuna partita. Anche in questo caso P risulta falso (è infatti falso che Paolo abbia vinto), benché ciò accada in un senso diverso (cioè: per un motivo diverso) da quello per il quale P risultava falso nel caso in cui Paolo avesse giocato e perso la partita. Tutto questo può venire espresso mediante la seguente tavola di verità. P
SP
V
V
F
V
F
F
Se noi adesso vogliamo interpretare SP come un enunciato vero e proprio, dobbiamo considerarlo come un enunciato «vincolato» a P, nel senso che SP sarà sempre vero quando P è vero, mentre sarà una volta vero e una volta falso quando P è falso. Questo può essere espresso tabularmente nel modo seguente24.
22
P
Sp
V
V
F
V
V
V
F
F
Vale la pena di osservare che l’enunciato esprimente il senso di P equivale a un enunciato composto risultante dalla disgiunzione tra P e un ulteriore enunciato, che chiameremo PU, il quale ci consente, aggiunto a P, di determinare i vari aspetti del metadiscorso di P e quindi il senso concreto di P25. La colonna di SP è dunque uguale alla colonna di P v PU. Per distinguere questo enunciato (PU) da un «normale» enunciato ulteriore (come Q, che avrebbe come valori di verità VVFF)26, gli assegneremo una colonna di valori di verità diversa, precisamente FVVF27. 24 Si noti, di passaggio, che tra P e il suo senso vi è un rapporto di implicazione, quello che nel quadrato aristotelico delle opposizioni sussiste tra l’Universale (A o E) e il Particolare (rispettivamente I e O). 25 In un certo senso, PU rappresenta la totalità di ciò che è ulteriore rispetto al contenuto di P, pur essendo sempre pensato in relazione a P (in quanto ne è il contenuto metadiscorsivo); perché invece, verosimilmente, l’enunciato U che viene aggiunto all’enunciato P per realizzarne l’universalizzazione rappresenta l’insieme degli enunciati indipendenti da P. 26 Caratterizzato, come sopra si accennava, dal fatto di essere indipendente da P, a differenza di quanto accade al metadiscorso che, come ora si vedrà meglio, è un momento di P concretamente inteso. 27 Si badi che questa colonna presenta, rispetto alla colonna di P (VFVF), le stesse possibilità combinatorie di quella di Q (VVFF), cioè: V-V / F-V / V-F / F-F, solo disposte in un ordine
115
Logica philosophica. Per una logica interale
SP P
PU
P v PU
V
F
V
F
V
V
V
V
V
F
F
F
Dal punto di vista tabulare i due enunciati di base (cioè P e PU) si comportano come due enunciati indipendenti (P e Q), e sono dunque semplici; però sono legati l’uno all’altro (sono, per così dire, gemelli siamesi) in quanto insieme concorrono a costituire l’enunciato concreto. È importante notare come i due enunciati di base possano essere entrambi veri, e per questo li chiameremo anche «positivi». Bisogna dunque presentare una possibile interpretazione di questi enunciati, quale per esempio quella fornita dalla tabella seguente28. +P
¬P
Paolo ha vinto la partita a tennis.
V
F
V
F
V
Paolo ha perso la partita a tennis.
F
V
V
F
V
V
Paolo ha giocato a tennis ma senza fare partita (solo palleggiando).
F
V
F
F
Paolo non ha giocato a tennis.
F
V
P
PU
V
F
F
T+P/¬P K+P/¬P
Le colonne aggiunte a destra ci mostrano come gli enunciati reciprocamente incompatibili, quelli che sono l’uno la negazione (il contraddittorio) dell’altro, siano il risultato di un’astrazione selettiva che isola le prime due righe dalle altre. La negazione, insomma, è il risultato di un’operazione astrattiva di selezione. Tale carattere compete dunque anche a quegli enunciati che di solito chiamiamo tautologia (T+P/¬P) e contraddizione (K+P/¬P). Nel nostro esempio, dunque, la tautologia viene a dire che Paolo ha giocato a tennis facendo partita (nella quale si vince o si perde), mentre la contraddizione viene a dire che Paolo non ha fatto una partita di tennis (né ha vinto la partita, né l’ha persa). Così, scopriamo che il contenuto di P inteso come enunciato «negativo» («Paolo ha vinto a tennis»), cioè incompatibile con un altro enunciato («Paolo ha perso a tennis»), è il risultato di un’operazione selettiva-escludente
diverso. È ovvio che se, dopo l’introduzione di PU, si volesse introdurre Q dotandolo di una «normale» colonna di valori, tale colonna dovrebbe essere raddoppiata, e sarebbe quindi non più VVFF bensì VVVV.FFFF. 28 Si tenga presente che l’enunciato che normalmente indichiamo con P, e che sopra abbiamo interpretato come «Paolo ha vinto a tennis», qui invece corrisponde a +P, come si chiarirà meglio in seguito.
23
116
24
Luigi Vero Tarca
rispetto a tutte le possibilità combinatorie di due enunciati di base. Il «vero» contenuto di +P (VF), cioè il suo contenuto concreto, è che Paolo ha giocato a tennis (SP = VVVF) facendo partita, cioè vincendo aut perdendo e non semplicemente palleggiando (T+P/¬P = VVFF), e ha vinto la partita. Il contenuto reale (concreto) dell’enunciato «negativo» +P29 equivale dunque alla seguente congiunzione: P ∧ SP ∧ T+P/¬P30. Concretamente inteso, dunque, +P («Paolo ha vinto a tennis», quello che noi di solito, cioè astrattamente, trattiamo tout court, o senz’altro, come P, cioè come +P-concreto31) è il risultato dell’isolamento delle prime due righe della congiunzione di P con SP, il quale è la disgiunzione tra P e PU32. Per parte sua, ¬P («Paolo ha perso a tennis», che noi di solito, cioè astrattamente, trattiamo tout court, o senz’altro, come un enunciato) concretamente inteso è il risultato dell’isolamento delle prime due righe della congiunzione di un ulteriore enunciato indipendente da P (cioè PU) con SP. Pertanto P, cioè +P concretamente inteso (ovvero VFVF), diventa davvero +P («Paolo ha vinto a tennis» = VF), cioè un enunciato incompatibile con un altro enunciato (¬P: «Paolo ha perso a tennis» = FV), solo in forza di un’operazione selettiva-astraente, la quale esclude altre possibilità che pure sono comprese nel senso stesso dell’enunciato (quale per esempio il semplice giocare a tennis, senza fare partita). La comprensione concreta di un enunciato «negativo» consiste dunque nella comprensione del fatto che esso è un astratto, cioè è il risultato di un’operazione selettiva-astraente-escludente33. Allo stesso modo, la negazione di P è in realtà ¬P, la quale a sua volta è il risultato di un’operazione astraente. È solo da un punto di vista astratto che il contenuto di +P coincide con quello di P (e P coincide con +P); perché +P è il contenuto «negativo» di P, il cui contenuto concreto34 (VFVF) si dà solo mediante il raddoppio determinato dall’aggiunta di PU. Che cosa viene dunque a dire, in verità, P (VFVF)? Esso dice che Paolo ha giocato a tennis e, se ha fatto partita, allora ha vinto. Mentre PU (FVVF) significa che Paolo ha giocato a tennis e, se ha fatto partita, allora ha perso. Come si vede, il «contenuto» di P è diverso da quello di un enunciato semplice (come siamo soliti intenderlo), per esempio perché è espresso mediante una congiunzione e un condizionale (se… allora…). Lo stesso vale per PU. Questo vuol dire che il contenuto concreto di P è diverso da quello che noi solitamen-
Chiamo «negativo» +P in quanto è inteso come negazione di un altro enunciato (¬P). Il risultato della congiunzione di P (VF) e di SP (VVVF) è P-concreto (VFVF), la cui congiunzione con T+P/¬P dà VFFF. 31 E anche sopra, quando abbiamo presentato P, lo abbiamo interpretato in questo modo. 32 L’isolamento delle prime due righe è il risultato della congiunzione della tautologia negativa (VVFF) con la congiunzione di +P e SP. 33 Qui si rimanda alla lezione di Emanuele Severino sul concetto concreto dell’astratto; il riferimento è in particolare a La struttura originaria, (1958), Adelphi, Milano 19812. 34 Cioè quello relativo a P e non anche a PU. Si badi che a livello di metadiscorso il contenuto concreto di un enunciato coincide con la sua verità (VP): P = VFVF. 29 30
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te intendiamo come contenuto di un enunciato; in effetti, il suo contenuto concreto, che appunto comprende anche PU e quindi il metadiscorso (il metacontenuto), è l’insieme delle relazioni tra P e PU, più l’operazione escludente che abbiamo già indicato e sulla quale torneremo. Il senso concreto di P (quello che resta vero anche nel caso in cui P sia falso) significa che Paolo ha giocato a tennis. Come si vede, il senso concreto di P coincide con quello di PU. Una cosa particolarmente rilevante, in questo schema, è che i due enunciati di base che concorrono a costituire il senso (quindi il metadiscorso), cioè P e PU, sono legati l’uno all’altro (il senso, infatti, è dato solo mediante la loro disgiunzione) in maniera positiva, nel senso che essi sono reciprocamente compatibili, in quanto vi è una riga (la terza) nella quale entrambi sono veri. Questo significa, tra l’altro, che la negazione, e quindi poi anche la contraddizione e la tautologia (intesa come negazione della contraddizione), sono il risultato di un’operazione selettiva-astraente-escludente rispetto al concreto costituito (per il momento) dai due enunciati di base. Per comprendere meglio il rapporto di reciproca compatibilità, ovviamente diverso da quello di reciproca incompatibilità, che caratterizza gli enunciati di base concretamente intesi, possiamo proporre un esempio leggermente diverso. Immaginiamo che P significhi (in prima battuta e quindi in maniera ancora indeterminata) «Giuseppe è sposato con Anna» e PU significhi «Giuseppe è sposato con Maria». È evidente che i due enunciati sono reciprocamente compatibili, perché è possibile che siano entrambi veri, e quindi è solo all’interno di un’assunzione «negativa» (escludente) che i due diventano reciprocamente incompatibili; per esempio all’interno dell’assunzione che il matrimonio è monogamico, come accade nella cultura cattolica, ma non in altre, come per esempio in quella islamica. Così, proseguendo con questo esempio, l’interpretazione tabulare potrebbe essere la seguente (ipotizziamo, per semplificare, che le uniche donne che Giuseppe possa sposare siano Anna e Maria). 25
P
PU
V
F
Giuseppe è sposato con Anna.
F
V
Giuseppe è sposato con Maria.
V
V
Giuseppe è sposato con Anna e con Maria.
F
F
Giuseppe non è sposato.
Le corrispondenze tra gli enunciati e le colonne di verità (in verticale) sono le seguenti.
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F
V
F
V
F
V
F
V
V
F
V
F
F
V
V
F
F
V
V
F
V
V
F
F
V
V
V
V
V
F
F
F
F
F
F
F
F
V
F
V
V
F
F
1
VF
Giuseppe è sposato solo con Anna.
2
FV
Giuseppe è sposato solo con Maria.
3
VV
Giuseppe è sposato aut con Anna aut con Maria (cioè monogamicamente).
4
FF
Giuseppe non è sposato né con Anna né con Maria.
5
VFVF Giuseppe è sposato almeno con Anna (cioè è sposato, e se lo è monogamicamente allora lo è con Anna).
6
FVVF Giuseppe è sposato almeno con Maria (cioè è sposato, e se lo è monogamicamente allora lo è con Maria).
7
VVVF Giuseppe è sposato (solo con Anna, o solo con Maria, o con entrambe)35.
8
FFVV Giuseppe non è sposato monogamicamente.
9
VVFF Giuseppe è sposato monogamicamente36.
10
VVFV Giuseppe, se è sposato, lo è monogamicamente.
11
FFFV Giuseppe non è sposato.
12
VFFF Giuseppe è sposato monogamicamente con Anna (questo è il contrario di PU).
13
FVFF Giuseppe è sposato monogamicamente con Maria (questo è il contrario di P).
3536
26
Quello che è interessante notare, di questa situazione, è che i due enunciati (P e PU) sono reciprocamente compatibili; essi diventano reciprocamente incompatibili (in particolare: contraddittori) solo in forza di una selezione astraente, che esclude determinate possibilità. Chiamerò «oppositivi» o «negativi» questi enunciati reciprocamente contraddittori; chiamerò invece «po-
35 Il senso complessivo di P-PU è dunque: «Giuseppe è sposato»; la disgiunzione dei due enunciati è infatti VVVF. Il senso autentico di P, poi, è «Giuseppe è sposato, e se lo è in maniera monogamica è sposato con Anna e non con Maria», mentre il senso autentico di PU è «Giuseppe è sposato, e se lo è in maniera monogamica è sposato con Maria e non con Anna». Si osservi che P e PU sono correlativi, cioè tali che il senso dell’uno è dato dalla sua relazione con l’altro, e viceversa. 36 Si badi che, per rendere falsa dal punto di vista tabulare la terza riga, è necessario introdurre un nuovo enunciato; per esempio SQ.
Logica philosophica. Per una logica interale
119
sitivi», come avevo anticipato, i due enunciati P e PU appunto in quanto essi non sono l’uno la negazione dell’altro, e dunque non sono la negazione di alcun enunciato. La tautologia (colonna 3), in quanto è negativa (essendo negazione della contraddizione), è a sua volta frutto di un’operazione selettiva-astraente. Essa enuncia il contenuto (comune ai due enunciati oppositivi +P e ¬P) che resta affermato tanto nel caso in cui +P sia vero (e quindi ¬P sia falso), quanto nel caso in cui +P sia falso (e quindi ¬P sia vero); ed è perciò espressa mediante la disgiunzione «selettiva» dei due enunciati negativi (oppositivi). La contraddizione (colonna 4), a sua volta, è il risultato di un’analoga operazione selettiva-astraente, compiuta sui due enunciati mediante la congiunzione. Tautologia e contraddizione presuppongono entrambe (ma in senso inverso) i due enunciati «positivi», dei quali la tautologia rappresenta il senso «oppositivo», mentre il senso «positivo» è quello espresso da SP (VVVF). Nel «concreto», Contenuto e Verità di un enunciato di base coincidono; entrambi, infatti, coincidono rispettivamente con P e PU, dal momento che sono la congiunzione dell’enunciato base (cioè +P e ¬P) con il loro senso concreto. La rappresentazione enunciativa dell’operazione astraente e il nuovo valore di verità Il senso di un enunciato viene dunque espresso mediante un enunciato (SP = VVVF) che consiste nella disgiunzione tra l’enunciato di partenza (P) e un enunciato aggiunto (PU). In generale possiamo quindi assumere che l’enunciato in cui consiste il metadiscorso (quello che parla della negazione, della tautologia, della contraddizione, del senso e della verità di un enunciato, etc.), cioè il metaenunciato, esprime le relazioni tra l’enunciato di partenza e l’enunciato aggiunto. Ebbene, se il metaenunciato viene considerato come un «normale» enunciato dotato a sua volta dei «normali» valori di verità (Vero e Falso) reciprocamente escludentisi, allora la determinazione del metadiscorso conduce a un regresso senza fine. Perché se, nel nostro esempio, SP (VVVF) è un enunciato «normale», allora anch’esso dovrà avere un senso, il quale, stante quanto sopra visto, sarà rappresentato da un nuovo enunciato (chiamiamolo SP1) dotato della seguente colonna di valori di verità: VVVV. VVVF; il quale però a sua volta dovrà avere un senso (SP2 = VVVV.VVVV. VVVV.VVVF), e così via all’infinito. Per interrompere questo regressus in indefinitum possiamo fare ricorso a 27 quella operazione selettiva-astraente di cui abbiamo parlato sopra. Noi possiamo infatti interpretare il metaenunciato non come un nuovo enunciato dotato di un suo proprio contenuto indipendente da quello dei suoi enunciati- oggetto (nel qual caso la sua colonna di valori di verità dovrebbe raddoppiare i settori, e quindi il numero di righe) bensì come il risultato di una selezione operata sugli enunciati di base (cioè gli enunciati semplici P e PU, reci-
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procamente indipendenti) e sugli enunciati composti37 che sono il risultato dell’applicazione agli enunciati di base degli operatori (esclusa la negazione, la quale, come sappiamo, si genera mediante selezione). Per esempio, come abbiamo visto, il senso di P è il risultato della disgiunzione tra P e PU. Insomma, come la «generazione» di +P non implica l’introduzione di un nuovo enunciato indipendente oltre P e PU, così anche la «generazione» di SP, inteso come il risultato di una analoga selezione (estesa questa volta a tutte le righe), non richiede l’introduzione di nuovi enunciati. Tuttavia, se il metadiscorso deve essere davvero completo, anche questa operazione selettiva deve essere raffigurata. E allora, sempre se si vuole bloccare il regressus in indefinitum, bisogna ammettere che tale operazione deve essere rappresentata da un enunciato caratterizzato da un valore di verità (che chiameremo W, e che leggeremo come «wero») diverso dai «normali» valori di verità (Vero e Falso) in quanto questi sono reciprocamente escludentisi; diverso precisamente perché di esso manca il contro-valore (quale è appunto il Falso per il Vero, e viceversa). Il nuovo valore (che chiameremo «walore») genera il metadiscorso riferendosi a enunciati di base (semplici e composti) e «accendendo», nelle righe in cui è presente, il valore di verità presente nella stessa riga degli enunciati ai quali si riferisce. Nelle righe nelle quali invece W manca, semplicemente la casella rimane vuota. Ciò che caratterizza il nuovo enunciato, dal momento che il valore di verità wero manca di un contro-valore, è che di esso manca la negazione; e in relazione a ciò possiamo parlare di una logica puramente positiva. Ogni enunciato concreto, comprendente cioè il metadiscorso, è dunque dotato di una duplice colonna di valori di verità: una con le normali combinazioni del Vero e del Falso, l’altra riservata al valore di verità Wero, presente o assente. Questo stesso problema può essere considerato anche da un punto di vista leggermente diverso; quello per il quale, stante che il senso di un enunciato esprime ciò che rimane vero anche quando l’enunciato è falso, occorre pure un ulteriore enunciato che sia vero in tutte le quattro righe richieste dagli enunciati di base; che resti cioè vero anche nell’ultima, quella nella quale entrambi sono falsi. Questo enunciato sarà, evidentemente, una tautologia (sarà, infatti, sempre vero: vero in tutte le righe); ma se tale tautologia viene intesa in senso negativo, cioè dotata di un valore Vero contrapposto al Falso, allora esisterà anche la sua negazione (la contraddizione, falsa in tutte le righe). Ora, il senso di tale contraddizione deve essere non solo vero anche quando la contraddizione è falsa (e come tale potrebbe semplicemente coincidere con la tautologia che è la sua negazione) ma anche diverso da quello della sua negazione (che è la tautologia); quindi esso sarà rappresentato da questa colonna di valori di verità: FFFF.VVVV. Anche ipotizzando che la tau37 Anche questi enunciati ottenuti applicando gli operatori (esclusa la negazione) agli enunciati semplici di base (P e PU) possono essere considerati enunciati di base; i quali, dunque, si distingueranno ora in semplici (P, PU, etc.) e composti (P ∨ PU, etc.).
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Logica philosophica. Per una logica interale
tologia sia rappresentata non da VVVV.FFFF, ma da una colonna fatta tutti di Vero (otto Vero), accadrebbe comunque che pure di questa nuova tautologia avremmo una ulteriore negazione, cioè una contraddizione di 8 righe, e così via all’infinito38. Per poter esprimere il senso (e in generale il metadiscorso) bisogna dunque che l’enunciato disponga di un modo del «dire» diverso da quello mediante il quale esso «dice» il proprio contenuto39, tanto quello proprio (P) quanto quello complementare (PU); un modo del dire che è diverso da quello astratto, prima e più che per il contenuto, per il diverso modo di essere vero, cioè per il fatto di disporre di un valore di verità (il Wero) diverso da quello oppositivo (Vero/Falso); In questa prospettiva, l’enunciato «concreto» (CP) è la sintesi del suo contenuto «astratto» (P), del suo complemento positivo (e relativo, cioè PU) e del metadiscorso (MP), inteso come il discorso wero esprimente l’operazione di selezione compiuta sugli enunciati di base e sugli enunciati composti derivati dall’applicazione, ai primi, degli operatori (esclusa la negazione). Quelli che normalmente chiamiamo enunciati sono il risultato dell’operazione di selezione (o di astrazione) effettuata sugli enunciati positivi (P e PU) per mezzo del metadiscorso. L’enunciato quale lo intendiamo normalmente (cioè +P, essendo ¬P la sua negazione) è dunque il risultato dell’operazione di selezione (indicata da W) tra tutte le possibili righe di uno dei due enunciati semplici di base. 29
CP VP P PU
SP
+P
¬P
T+P/¬P
K+P/¬P
S+P
S¬P
SP/PU
SKP
P
PU
P ∨ PU
P ∧ PU
P
PU
P ∨ PU
P ↔ PU
V
F
V
W
F W
V
W
F
W
V
W
F
W
V
W
F
W
F
V
F
W
V
V
W
F
W
F
W
V
W
V
W
F
W
V
V
V
W
V
W
V
W
V
W
F
F
F
W
F
W
F
W
V
W
W
38 Senza contare che potrebbe essere ragionevole ipotizzare, sulla base della tabella che presenteremo qui di seguito, che in realtà la contraddizione si comporti, rispetto alla tautologia, come PU si comporta rispetto a P, sicché il senso concreto di K (FFFF) sarebbe FFFF. VVVV.VVVV.FFFF, mentre il senso concreto della tautologia sarebbe VVVV.FFFF.VVVV. FFFF; cosa che richiederebbe un’ulteriore tautologia, e così via all’infinito. 39 Questa distinzione è molto vicina a quella che Wittgenstein, nel Tractatus logico- philosophicus (Routledge & Kegan Paul, London 1922), pone tra il dire (sagen) e il mostrare (zeigen) (si veda 4.022).
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Legenda
31
CP
L’enunciato P inteso concretamente.
+P
L’enunciato P «negativo», cioè contrapposto a ¬P in forza della selezione astraente. Esso corrisponde a P delle normali tavole di verità.
¬P
Il contraddittorio dell’enunciato +P.
TP
La tautologia «negativa» in quanto relativa a +P e a ¬P.
KP
La contraddizione relativa a +P e a ¬P.
V+P
La verità di P.
SP
Il senso di P. (In generale Sx si riferisce al senso della x che figura in pedice).
S+P
Il senso di +P; esso è il contenuto concreto di +P.
S¬P
Il senso di ¬P; esso è il contenuto concreto di ¬P.
SKP
Il senso della contraddizione relativa a +P e a ¬P.
Nel caso di due variabili enunciative (P e Q), avremo uno sviluppo della tabella del tipo seguente. Qui non riportiamo più la colonna del W, giacché resta sottinteso che laddove vi sia un valore di verità (V o F) vi è anche W. La parte evidenziata in grassetto rappresenta quello che chiamo l’enunciato astratto, il quale corrisponde all’enunciato (P) con i due valori di verità «oppositivi» («negativi»): il Vero (V) e il Falso (F). Esso consta dunque, per quanto riguarda P, di due sole righe; ma, per essere pensato concretamente, cioè come CP, deve essere pensato insieme al complemento (PU), il quale determina un raddoppio delle righe. In tal modo il contenuto dell’enunciato P, concretamente inteso, consta di quattro righe e di due colonne. Ciò vuol dire che quello che di solito consideriamo tout court l’enunciato P è in realtà una parte «astratta» dal contesto totale della tabella, quella parte che qui abbiamo indicato come +P, e che consta delle righe 1 e 2 della ta bella, le quali ripetono, per P, i valori V e F. È rispetto al discorso concreto che si determina la negazione di P (¬P), la quale – questa osservazione è molto importante dal punto di vista filosofico – costituisce dunque a sua volta un momento astratto del concreto P; più precisamente rappresenta l’inversione dei valori di P (il quale in tal modo resta, in realtà, trasformato in +P). Questo punto è molto importante perché mostra ad oculos come la negazione, concretamente intesa, determini sempre un raddoppio della tabella dell’enunciato di cui costituisce la negazione. Si osservi anche che allora il rapporto di contraddittorietà, quello che appunto sussiste tra +P e ¬P, è a sua volta un rapporto tra «astratti».
F
V
V
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V
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F F
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K+Q/¬Q
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+Q
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K+P/¬P
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T+P/¬P
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¬P
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F
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+P
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V
Q
PU
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S¬Q
F
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V
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V
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V
V
V
SQ/QU
V
V
V
V
V
V
V
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F
SKQ
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30
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2.2 I paradossi dell’implicazione nell’ambito del metadiscorso: contraddizione e tautologia
32
Grazie a questa tabella siamo in grado di produrre tutti gli enunciati concreti, cioè includenti i metaenunciati. Anzi, scorgiamo ora che l’enunciato, concretamente inteso, è esattamente il metaenunciato, considerato come il risultato dell’applicazione, agli enunciati di base (semplici e composti), dell’operazione di werità selettivo-astraente. Gli enunciati concreti – cioè, a questo punto, i metaenunciati – sono quelli che figurano nei settori verticali della tabella dopo il settore che contiene quelle che possiamo chiamare le colonne guida della nostra tabella (cioè le colonne di P, PU, Q, QU etc.). Utilizzando gli enunciati concreti al posto di quelli astratti siamo in grado di risolvere i paradossi relativi al metadiscorso. In particolare siamo in grado di risolvere quei casi particolari dei paradossi dell’implicazione materiale i quali, riguardando tautologia e contraddizione, sono connessi al metadiscorso, e che appunto per questo avevamo provvisoriamente accantonato. In primo luogo affrontiamo il cosiddetto problema dello pseudo Scoto (ex falso quodlibet), il fatto cioè che da un enunciato incoerente (contraddittorio) segue qualsiasi enunciato. Questo continua a valere in relazione agli enunciati negativi astratti (+P, ¬P, etc.), cioè quelli che isolano, all’interno dell’intero costituito dall’enunciato concreto, le righe nelle quali i valori dei due enunciati di base sono opposti. A questa condizione, infatti, gli enunciati coincidono con quelli della logica astratta, cioè del normale calcolo mediante le tavole di verità. Ma se noi superiamo questa limitazione (astrazione) e consideriamo, al posto degli enunciati che sono il frutto di tale isolamento, quelli «concreti» (ovvero «integrali», o «interali», in quanto relativi all’intero), allora il paradosso risulta risolto. E risolto in maniera completa, in quanto da un lato non ogni enunciato è derivabile da una contraddizione, ma dall’altro lato alcuni enunciati sono correttamente derivabili da essa: noi siamo ora in grado di distinguere i casi nei quali da una contraddizione è legittimo derivare correttamente una conclusione da quelli nei quali invece questo è illegittimo. Se noi utilizziamo +P e ¬P, come detto, il risultato non cambia: l’implicazione (+P ∧ ¬P) → Q resta tautologica, quindi vale lo scotiano ex falso quodlibet. Viceversa, se noi utilizziamo S+P (equivalente a P) al posto di +P, e S¬P (equivalente a PU) al posto di ¬P, nonché ovviamente S+Q al posto di Q, otteniamo il condizionale (S+P ∧ S¬P) → S+Q, il quale non è più tautologico; come non tautologico è pure il condizionale (S+P ∧ S¬P) → S¬Q. Risultano invece validi sia il condizionale (S+P ∧ S¬P) → S+P, sia il condizionale (S+P ∧ S¬P) → S¬P; come è giusto, dal momento che il conseguente è uno dei congiunti che costituiscono la congiunzione in cui consiste l’antecedente40. Tutto que40 Essi corrispondono, infatti, astrattamente intesi, a (P ∧ ¬P) → P; che è intuitivamente valido.
125
Logica philosophica. Per una logica interale
sto viene mostrato nell’Appendice A2, i cui risultati sono quelli qui di seguito ricapitolati (lo schema (+P ∧ ¬P) → +Q è evidentemente tautologico). Schemi non validi
Schemi validi (+P ∧ ¬P) → +Q
(S+P ∧ S¬P) → S+Q
(S+P ∧ S¬P) → S+P
(S+P ∧ S¬P) → S¬Q
(S+P ∧ S¬P) → S¬P
In questo modo risulta possibile superare anche quella forma particolarmente eclatante di paradosso logico-filosofico che nel mio libro Differenza e negazione ho chiamato «paradosso dell’implicazione logico-razionale»41; esso si riferisce alla situazione in cui l’antecedente è una contraddizione e il conseguente è la tautologia consistente nella negazione di tale contraddizione. Questo caso è particolarmente paradossale dal punto di vista logico perché, considerando tautologico un condizionale quale per esempio (P ∧ ¬P) → ¬ (P ∧ ¬P), viene a legittimare un «ragionamento» del tipo: A → ¬ A, cioè un ragionamento nel quale la conclusione costituisce la negazione della premessa42. Ciò è estremamente significativo dal punto di vista filosofico che qui si sta presentando, perché mostra in maniera lampante come in questo caso la negazione di una contraddizione (la non contraddizione) produca a sua volta una specie di contraddizione. Ma se ora costruiamo il condizionale (S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P), noi ve diamo che tale condizionale non risulta più tautologico (come si mostra nell’Appendice A3) e quindi il corrispondente ragionamento non risulta più valido: il paradosso della razionalità è risolto. Allo stesso modo risulta risolto il paradosso analogo ¬ (P ∨ ¬P) → (P ∨ ¬P), che diventa ¬ (S+P ∨ S¬P) → (S+P ∨ S¬P) (si veda l’Appendice A4). Ci sono poi i seguenti paradossi, che sono simili ai precedenti in quanto un enunciato viene derivato dalla sua negazione, ma nei quali alcune tautologie non sono generate mediante la negazione. Un caso paradigmatico è il seguente: ¬ (P → P) → (P → P). Per risolvere questi paradossi bisogna tenere presente che la nostra tabella determina un raddoppio ogni volta che un operatore viene applicato a un enunciato qualsiasi (anche a quelli semplici); nel senso che in ogni caso, quando due enunciati semplici (astratti) sono connessi mediante un operatore, essi vanno intesi come due enunciati distinti (cioè rispettivamente come
L.V. Tarca, Differenza e negazione, cit., si veda alle pp. 136-138. Viene cioè «convalidato» un ragionamento assurdo di questo tipo: «La neve è bianca e la neve non è bianca; quindi non è vero che la neve è bianca e la neve non è bianca»; formalmente corrispondente a «Le cose stanno così; quindi le cose non stanno così». 41 42
33
126
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P e PU della nostra tabella) anche nel caso in cui essi siano lo stesso enunciato (nel senso che siano astrattamente rappresentati dallo stesso simbolo). Se nella formula le variabili enunciative risultano già negate, allora il raddoppio è già avvenuto (ricordiamo, infatti, che la negazione presuppone di per sé una selezione operata su un raddoppio), e quindi non è più necessario effettuarne un altro (questo era appunto il caso degli ultimi paradossi discussi); ma se, come nei casi che stiamo trattando adesso, la negazione non è presente all’interno degli enunciati connessi mediante l’operatore, allora il raddoppio va effettuato. In tal modo la nostra formula equivale a ¬ (S+P → S¬P) → (S+P → S¬P) (corrispondente a ¬ (P → PU) → (P → PU)), la quale non risulta più tautologica, come risulta dall’Appendice A5.1. Identica è la situazione per quanto riguarda ¬ (P ↔ P) → (P → P). Tale formula corrisponde, nel nostro metodo, a ¬ (S+P ↔ S¬P) → (S+P ↔ S¬P) (equivalente a ¬ (P ↔ PU) → (P ↔ PU)), la quale a sua volta non risulta tautologica (si veda l’Appendice A5.2). È interessante osservare che in questo modo è possibile riconoscere come valido il ragionamento (S+P ↔ S¬P) → (S+P → S¬P), mentre non risulta valido il ragionamento inverso, cioè (S+P → S¬P) → (S+P ↔ S¬P) (come si evince facilmente confrontando le rispettive colonne delle Appendici A5.1 e A5.2). I risultati ora presentati sono compendiati nello schema che segue.
34
Schemi validi paradossali
Corrispondenti metadiscorsivi non validi
(P ∧ ¬P) → ¬ (P ∧ ¬P)
(S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
¬ (P ∨ ¬P) → (P ∨ ¬P)
¬ (S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
¬ (P → P) → (P → P)
¬ (S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
¬ (P ↔ P) → (P ↔ P)
¬ (S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
Schemi metadiscorsivi non validi
Schemi metadiscorsivi validi
(S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
(S+P ∧ S¬P) → ¬ (S+P ∧ S¬P)
Gli ultimi casi discussi sono estremamente interessanti, perché ci mostrano una caratteristica del nostro sistema che ha un’importanza decisiva dal punto di vista filosofico. Risulta infatti che, nel nostro sistema, nemmeno un’implicazione come P → P risulta più essere tautologica. Questo, naturalmente, non significa (come abbiamo visto) che non siano possibili tautologie, infatti per esempio (S+P ∧ S¬P) → S+P è una tautologia. Vuole però dire che ogni enunciato tautologico (negativo) diventa tale solo in riferimento ad (almeno) un altro enunciato (contingente, ovvero problematico). Cioè, per fare una tautologia è sempre necessario un altro enunciato oltre a quelli rispetto ai quali la tautologia è tale. Tale questione è evidentemente connessa a un altro fondamentale aspetto del nostro calcolo, quello per il quale la produzione di
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Logica philosophica. Per una logica interale
due enunciati contraddittori è possibile solo mediante l’introduzione della negazione. Questa, però, come si è visto, implica un raddoppio della tabella, cioè in sostanza l’aggiunta di un enunciato ulteriore. Ciò significa che per produrre due enunciati contraddittori bisogna necessariamente fare ricorso all’operatore della negazione; perché, utilizzando solo gli altri operatori, è sì possibile produrre due colonne contraddittorie, ma solo introducendo un ulteriore enunciato rispetto a quelli dati, e poi «limitando» il campo di validità a uno dei settori, cioè «astraendo»43. Insomma, il punto è che la tautologia (in quanto negazione della contraddizione) è sempre connessa alla negazione, e questa è sempre e solo il risultato di un’astrazione. Ovvero, la contraddizione è possibile solo mediante astrazione, e così anche la tautologia, in quanto venga intesa come negazione della contraddizione, è producibile solo mediante astrazione. In altri termini: la tautologia «negativa» (consistente cioè nella negazione di una contraddizione) è sempre e solo parziale, nel senso che abbraccia sempre solo una parte dell’insieme totale delle righe di una tavola di verità. Questa precisazione ci consente di risolvere anche gli ultimi paradossi dell’implicazione. Finora abbiamo considerato casi nei quali l’antecedente è contraddittorio; allo stesso modo dobbiamo ora risolvere i paradossi connessi alla circostanza che il conseguente è tautologico. Già gli ultimi casi esaminati (relativi al cosiddetto paradosso della razionalità) fungevano da anello di congiunzione tra i due tipi di paradossi, perché in essi avevamo l’antecedente contraddittorio e il conseguente tautologico. Ora possiamo notare come il nostro metodo consenta di distinguere un ragionamento quale (A ∨ ¬A) → (A ∨ ¬A), intuitivamente valido, da uno come (A ∨ ¬A) → (B ∨ ¬B), intuitivamente paradossale. Mentre nel calcolo tradizionale sono entrambi tautologici, ora il primo, diventando (S+P ∨ S¬P) → (S+P ∨ S¬P), risulta valido, mentre il secondo, diventando (S+P ∨ S¬P) → (S+Q ∨ S¬Q), risulta invalido, come mostra l’Appendice A 6. Ecco qui di seguito compendiati i risultati. Schema valido non paradossale
Corrispondente metadiscorsivo valido
(P ∨ ¬ P) → (P ∨ ¬ P)
(S+P ∨ S¬P) → (S+P ∨ S¬P)
Schema valido paradossale
Corrispondente metadiscorsivo non valido
(P ∨ ¬ P) → (Q ∨ ¬Q)
(S+P ∨ S¬P) → (S+Q ∨ S¬Q)
Questo metodo, insomma, ci consente di distinguere in generale i casi nei quali la tautologia ha le stesse variabili enunciative da quelli nei quali le variabili sono diverse. 43 Nel nostro schema, la riga terza non può mai essere falsificata, dal momento che in essa si P che PU sono veri. Per falsificarla senza ricorrere alla negazione bisogna introdurre un nuovo enunciato (poniamo Q) il quale in qualche settore risulterà falso anche in quella riga.
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2.3 I paradossi metadiscorsivi
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Questo sviluppo del nostro metodo ci consente infine di affrontare quelli che possiamo chiamare i paradossi metadiscorsivi. Si tratta di quei paradossi che scaturiscono dagli enunciati che includono, nel proprio contenuto, un riferimento ad elementi metadiscorsivi, quali il senso e, innanzi tutto, la verità degli enunciati. Assumendo qui che tutti i paradossi (compresi quelli di Russell e di Gödel) siano riducibili a una formula contraddittoria (Russell: «La classe di tutte le classi normali contiene e non contiene se stessa»; Gödel: «L’enunciato G è vero e indecidibile»44), ci limitiamo a prendere in considerazione il paradosso semantico nel quale la contraddizione si presenta nella forma più chiara ed esplicita, cioè il cosiddetto Mentitore: «Questo enunciato è falso» (riferito evidentemente a se stesso). Vediamo allora in che modo venga a presentarsi tale paradosso nella nostra tabella. Abbiamo già distinto la contraddizione, intesa come la congiunzione di due enunciati che sono l’uno la negazione dell’altro (+P e ¬P) dalla contraddizione intesa come un enunciato falso in tutte le righe. Adesso definiamo una forma particolare di contraddizione (la chiamerò autocontraddizione): quella che si realizza quando sono veri tanto l’enunciato P quanto l’enunciato «P è falso»; ovvero quando sono veri tanto l’enunciato «P è vero» quanto l’enunciato «P è falso». In particolare possiamo interpretare il Mentitore come l’enunciato che pone l’equivalenza della verità di P con la sua falsità. All’interno del nostro schema, la verità di P può essere rappresentata dal metaenunciato VP, che ha gli stessi valori di P ma differisce da P perché ne costituisce il «raddoppio»45. Più precisamente VP consiste nella congiunzione del senso di P, cioè di SP (ovvero P ∨ PU = VVVF) con PU → P. La formula di VP, dunque, è: (P ∨ PU) ∧ (PU → P), la cui colonna è appunto VFVF. In pratica, esso è identico a P, ma ne raddoppia i valori (entrando in connessione con l’enunciato aggiunto PU). Quanto alla falsità di P, cioè FP, tale enunciato, avendo valori opposti a quelli di VP (FVFV), non può essere il risultato di un’applicazione degli operatori (esclusa la negazione) agli enunciati dati (P, PU, VP); deve dunque essere inteso come il primo settore, selezionato mediante W, di un nuovo enunciato PU1, il quale avrà come colonna di valori di verità FVFV.VFVF46.
Cioè non si può dimostrare né che è vero né che è falso (cioè che è falsa la sua negazione), ma proprio ciò «dimostra» che esso è vero. 45 Un enunciato affermante la verità o la falsità di un altro enunciato (P) può essere interpretato come un metaenunciato «aletico» (MP) rappresentabile introducendo, accanto alla colonna di P, un’ulteriore colonna riportante il valore di verità di P quale esso è affermato da MP, cioè come V o come F. Per questo si veda l’Appendice A7. 46 Si ricordi che, dal punto di vista puramente positivo che caratterizza questa logica, tutti i contenuti e le proprietà – quindi anche la verità e la falsità – sono compatibili, giacché diventano incompatibili solo in forza di una selezione astraente-escludente. 44
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Insomma, i nostri metaenunciati saranno rappresentati dalla seguente tabella47. VP
FP
(P ∨ PU) ∧ (PU → P)
P
PU
PU1
V
F
F
V
F
W
F
V
V
F
V
W
V
V
F
V
F
W
F
F
V
F
V
W
V
V
V
V
V
F
F
F
F
F
V
F
V
V
V
F
V
F
F
F
PU1
Come si vede, il metaenunciato esprimente la falsità di un enunciato determina il raddoppio rispetto a quello che ne esprime la verità; e si può costituire come negazione di questo solo grazie alla selezione astraente che limita l’enunciato al primo settore. Come si raffigura, all’interno di questo schema, il Mentitore (che indicheremo con M)? In quanto è l’enunciato che pone l’equivalenza tra la sua verità e la sua falsità: (VM ↔ FM), esso sarà rappresentato dalla seguente tabella. VM
FM
M
(M ∨ MU) ∧ (MU → M)
VM ↔ FM
M
MU
MU1
V
F
F
V
F
W
F
W
W
F
V
V
F
V
W
F
W
W
V
V
F
V
F
W
F
W
W
F
F
V
F
V
W
F
W
W
V
V
V
V
V
V
W
F
F
F
F
F
V
W
V
F
V
V
V
V
W
F
V
F
F
F
V
W
MU1
47 In essa il secondo settore di PU ha valori invertiti rispetto al primo settore; ciò per consentire che i tre enunciati (P, PU, PU1) siano tra loro indipendenti, cioè presentino tutte le possibili combinazioni dei valori di verità.
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Il Mentitore, inteso come enunciato autocontraddittorio (e contraddittorio), riesce a costituirsi grazie a una selezione astraente che «isola» le prime quattro delle otto righe delle quali c’è bisogno per costruire gli enunciati necessari per il darsi del Mentitore stesso concretamente inteso. Ma quanto al suo contenuto concreto, quello cioè che si costituisce in riferimento a tutte e otto le righe e rappresentato quindi dall’ultima colonna con otto W, il Mentitore risulta wero nel suo affermare la propria autocontraddittorietà in quanto astrattamente concepito. Il Mentitore, concretamente inteso, prevede dunque quattro righe nelle quali risulta vero; bisogna allora fornire un’interpretazione della contemporanea verità e falsità di un enunciato. A tale fine bisogna interpretare il vero e il falso come due proprietà che sono compatibili, come ad esempio lo sono il freddo e il bianco dal momento che nella neve questi attributi stanno insieme simultaneamente. Allo stesso modo il vero e il falso possono stare contemporaneamente insieme in un enunciato. Per esempio si potrebbe interpretare il vero come la concordanza (identità) del contenuto enunciativo con la realtà alla quale l’enunciato si riferisce, e la falsità come la differenza tra i due. Questa differenza diventa un’opposizione incompatibile solo all’interno di un’assunzione «negativa», quale per esempio e innanzi tutto quella per la quale la differenza coincide con la negazione dell’identità. Se questo (la contemporanea verità e falsità di un enunciato) ci pare incredibile, è perché di solito noi assumiamo automaticamente l’ottica «negativa» che ci fa selezionare solo quelle righe nelle quali il metaenunciato (VP) affermante la verità di un enunciato (P) ha valori opposti a quelli del metaenunciato (FP) affermante la falsità di P. L’enunciato del Mentitore, concretamente inteso, dice dunque che esso, astrattamente inteso (cioè relativamente solo alle prime quattro righe), è autocontraddittorio (FFFF). E questo è wero. In altri termini ciò significa che l’enunciato del Mentitore, concretamente inteso, comprende anche una parte di «senso» che risulta wera. Ciò è reso possibile dall’introduzione di un senso dell’esser vero (il wero) diverso da quello che è incompatibile con l’esser falso, e che per ciò può darsi in tutti i casi, qualunque sia il valore oppositivo (V/F) dell’enunciato. Così, l’enunciato che afferma la werità del Mentitore è diverso da quello che nega in generale la contraddizione (l’enunciato sempre falso) e in particolare l’autocontraddizione (la contemporanea affermazione di VP e di FP). In questo senso il Mentitore, concretamente inteso, è diverso dall’enunciato che nega la contraddizione: la werità del Mentitore è diversa da quella della non contraddizione; ma è importante osservare che essa è diversa pure dall’autocontraddizione (e quindi dalla contraddizione): l’enunciato che afferma la werità del Mentitore è diverso sia da quello che afferma la contraddizione, sia da quello che nega la contraddizione (compresa l’autocontraddizione), sia infine da quello che nega la non contraddizione. La soluzione, diversa sia dall’affermazione dell’autocontraddittorio Mentito-
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re, sia dalla sua negazione, consiste nel rilevamento del carattere «astratto» dell’autocontraddittorietà del Mentitore. Universalizzazione del senso Il metadiscorso può essere inteso come una universalizzazione del discorso. Si potrebbe per esempio dire che il senso è quell’aspetto del discorso per il quale il suo contenuto (oscillante tra il vero e il falso) è connesso al resto della realtà (quella parte della realtà che resta stabile in entrambe le eventualità). Anche questo tipo di universalizzazione, come abbiamo visto, si produce mediante l’aggiunta di un enunciato nascosto (PU); ma, a differenza di quanto avveniva nell’ambito del discorso astratto (dove avevamo a che fare con enunciati indipendenti) all’interno del quale tale aggiunta aveva la forma della congiunzione, essa ha qui la forma della disgiunzione; infatti, come abbiamo visto, il senso è rappresentato dalla disgiunzione P ∨ PU48. Così, la formula dell’universalizzazione (UP) sarà, per quanto riguarda gli enunciati astratti: UP = (P ∧ U); e per quanto riguarda il metadiscorso: UP = (P ∨ PU). sicché la formula complessiva, sino a questo punto, potrebbe essere: UP = ((P ∧ U) ∨ PU). Siccome poi anche nel discorso concreto resta sempre una riga in cui entrambi gli enunciati di base sono falsi (pensiamo al senso = VVVF), l’universalizzazione (totalizzazione) del senso può compiersi solo mediante l’aggiunta di un ulteriore (meta)enunciato che però richiede l’introduzione del nuovo valore di verità (W); perché una tautologia che, a differenza di quella «negativa» sopra vista (la quale, occupando solo la metà delle righe, postula un raddoppio), non richieda più un raddoppio e possa quindi valere davvero per tutte le righe (quindi universalmente), deve essere contrassegnata dal valore W invece che da V. Chiamerò tautologia puramente positiva l’enunciato, che indicherò con Θ, il quale presenta il valore di verità W in tutte le righe. Così, la formula generale della universalizzazione dovrebbe essere: UP = A * U Essa, a seconda delle circostanze, può assumere varie forme, precisamente quelle illustrate dalla seguente tabella.
48 Una conferma di questo la ricaviamo dal fatto che le «concretizzazioni» della tautologia (VV) e della contraddizione (FF), intese rispettivamente come VVFF e FFVV (le righe 9 e 8 dello schema relativo all’esempio di Giuseppe), si ottengono disgiungendo Q (inteso come VVFF) rispetto alla tautologia intesa come ¬ (P ∧ ¬P), e ¬Q rispetto alla contraddizione P ∧ ¬P.
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A Discorso astratto Discorso concreto
*
U
∧
U
∨ ∧
U
Calcolo enunciativo
Fu
Calcolo predicativo
PU
Enunciato metadiscorsivo
Y
Valore di verità aggiunto
Dove Y sta a significare un nuovo valore di verità (appunto W). Così, la formula completa dell’universalizzazione di un enunciato (a partire dalla sua posizione astratta, cioè P) sarà: ((P ∧ U) ∨ PU) ∧ Y. 3. Considerazioni filosofiche
40
Nella misura in cui risolve i paradossi logico-filosofici, il metodo qui illustrato consente alla logica di esprimere in generale l’argomentazione razionale. In quanto risolve i paradossi dell’implicazione, rende possibile l’equiparazione del calcolo logico alla dimostrazione; applicando il calcolo tabulare alla logica predicativa mostra l’unitarietà del metodo logico; e infine, nella misura in cui risolve i paradossi metadiscorsivi, rende possibile un’estensione davvero universale, e quindi filosofica, del calcolo logico. La logica formale – così reinterpretata – sembra dunque tornare a presentarsi come logica tout court, idonea a trattare tutti i problemi, compresi quelli filosofici. Essa fornisce un operatore (il condizionale razionale ⇒) in grado di rappresentare effettivamente quello che noi intendiamo quando parliamo di connessione logica. Mediante esso dovrebbe risultare possibile, almeno in prospettiva, calcolare tutti i tipi di ragionamento, compresi quelli metadiscorsivi e in generale filosofici. In questo senso si mostra ora possibile una unificazione completa di logica e filosofia. Questo, lungi dal sottomettere il pensiero al regime della necessità, lo libera dal suo vincolo (che è il vincolo dell’in-negabile, e cioè del negativo)49; perché, nel momento in cui gli consente di derivare tutto, gli pone il compito, infinitamente aperto piuttosto che chiuso, di derivare tutte le determinazioni, tanto quelle logiche quanto quelle empiriche. In particolare, gli pone il compito di giustificare la stessa forma logica, la quale va ora distinta da quella – pregiudizialmente assunta come innegabile – della non contraddizione50. Questo risultato è conseguito passando dalla logica dell’astratto alla logica del concreto, passo che a sua volta può essere compiuto coerentemente solo Per questo rimando sempre alla prospettiva filosofica presentata in QV. In questa ultima sezione, di carattere filosofico in senso ampio, uso il termine «contraddizione», e le espressioni ad esso collegate, per riferirmi in generale a tutti gli aspetti di tale fenomeno, i quali naturalmente includono anche la proprietà di essere falso, da parte di un enunciato, in tutte le righe delle tavole di verità, ma non si riducono a tale proprietà. 49 50
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grazie a un pensiero puramente positivo, intendendo con questa espressione un pensiero differente tanto da quello contraddittorio quanto da quello non contraddittorio. Tale metodo dovrebbe consentirci di valutare in maniera coerente la correttezza o meno di tutti i possibili discorsi; ma a questo proposito bisogna tenere ben presente che, proprio in base a quanto detto, una dimostrazione coerente va intesa come qualcosa di diverso da una dimostrazione non contraddittoria. Sicché si potrebbe concludere: è possibile «calcolare» tutto; è possibile (e quindi doveroso) dimostrare, giustificare tutto. Questa affermazione sembra contrapporsi frontalmente a una grande acquisizione del pensiero contemporaneo, sulla quale pare realizzarsi un accordo pressoché universale, l’idea cioè che il pensiero razionale ha dei limiti costitutivi e assolutamente insuperabili, nel senso che vi sono ambiti e discorsi che non possono essere trattati con metodi logico-razionali. Ma è solo da un punto di vista negativo che i risultati qui presentati possono essere intesi come incompatibili con questa acquisizione. In primo luogo, affermare che tutto è giustificabile razionalmente è molto diverso dal negare che la razionalità (il ragionamento) abbia dei limiti. Si possono dunque ben ammettere dei limiti; solo che ora questi limiti vanno pensati, coerentemente (cioè «positivamente»), come qualcosa di anche diverso dall’esistenza di una realtà non calcolabile (non giustificabile, non dimostrabile). Il ragionare ha dei limiti nel senso che è una realtà la quale, in quanto tale, ha un «termine» nel suo de-terminarsi differenziandosi dalle (mediante le) altre entità reali. Il ragionare ha limiti così come ne hanno il mangiare, il vedere, il ridere etc.; insomma nel senso banale che, essendo appunto ciò che è, esso è per ciò stesso differente da ogni altra realtà. In secondo luogo, quando si parla di limiti della logica (o della razionalità), solitamente si sottintende che si sta parlando della logica della non contraddizione. Ma, allora, il metodo qui presentato mostra precisamente come – se si vuole ottenere una logica completa, cioè filosofica, quindi interale – si debba andare al di là del principio di non contraddizione; tant’è vero che la logica filosofica viene portata a compimento mediante l’introduzione di un nuovo valore di verità (il Wero), differente da quelli che definiscono la non contraddizione, cioè il Vero e il Falso intesi come reciprocamente incompatibili. Dunque il metodo qui presentato conferma l’esigenza di andare oltre la logica della non contraddizione. Solo che normalmente questo viene inteso nel senso che allora il pensiero filosofico, se vuole compiersi, e cioè evitare il regresso all’infinito, deve fare proprie delle asserzioni contraddittorie. Questo esito può assumere la forma della rassegnazione (potremmo chiamarlo nichilismo passivo), oppure quella dell’accettazione entusiastica (e allora potremmo chiamarlo nichilismo attivo). In entrambi i casi resta fermo l’assunto che il discorso filosofico, cioè interale, consta necessariamente di enunciati contraddittori. Oppure, se si vuole evitare questo esito, si conclude che il discorso filosofico, se vuole portarsi al di là della contraddizione, deve
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presentarsi come un discorso non logico (mistico, o di altro genere), e quindi in fin dei conti non razionale. Il metodo qui presentato mostra invece come la logica filosofica debba sì andare al di là della logica della non contraddizione, ma anche come essa possa fare ciò in una maniera diversa sia da quella che riduce il discorso filosofico a enunciati contraddittori, sia da quella che fa della filosofia un discorso che almeno in qualche misura rinnega la logica e la razionalità. Ciò è possibile mostrando come ogni forma di contraddizione sia il risultato di una operazione astraente-selettiva, ovvero limitando la logica della non contraddizione, ma ammettendola appunto come un caso particolare della logica filosofica generale. Questa limitazione della non contraddizione, a sua volta, è resa possibile dall’analoga limitazione della negazione, la quale si basa sul pensiero filosofico della pura differenza, il quale mostra come sia possibile un pensiero differente da quello negativo, a condizione appunto che si distingua la differenza dalla negazione (ivi compresa la negazione dell’identità)51. Il discorso filosofico, cioè interale, pur andando al di là della logica della non contraddizione, resta dunque perfettamente razionale e logico; anzi, riesce ad essere tale proprio grazie al fatto che, considerando dal di fuori (in quanto limitata e parziale) persino la logica negativa della non contraddizione, può finalmente presentarsi come davvero universale. La logica negativa è limitata – e va quindi distinta dalla logica in generale, quella di cui qui si è cercato di tratteggiare il profilo – in quanto «non può» fondare il suo stesso fondamento, cioè la non contraddittorietà stessa. Ma questo «non può» va ora inteso, correttamente, nel senso che ogni tentativo di fondare in maniera non contraddittoria la logica della non contraddizione risulta essere contraddittorio. Se si pone come orizzonte trascendentale (universale) della logica quello «negativo» della non contraddizione, allora effettivamente vi sono degli enunciati (per esempio il Mentitore) che danno inevitabilmente luogo a una contraddizione. In particolare, poi, risulterebbero contraddittori sistemi capaci di dimostrare enunciati affermanti la propria (del sistema) non contraddittorietà (il riferimento qui è ai teoremi di Gödel). Quello che bisogna sempre tenere presente, in casi come questi, è che tutte le espressioni che presentano il limite della logica nella forma negativa di una impossibilità («Un sistema non può fondare (dimostrare) la propria incontraddittorietà», «Vi sono enunciati veri ma non dimostrabili», e simili) vanno ora intesi, più esattamente, nel senso che essi affermano il carattere contraddittorio di determinate situazioni: dire che un sistema non può dimostrare la propria incontraddittorietà significa dire che, nel momento in cui lo facesse, diventerebbe contraddittorio. Ma questo non equivale a dire che allora un Per gli aspetti filosofici qui implicati si possono vedere, oltre a QV e Differenza e negazione…, cit., anche i miei saggi Dare ragioni. Un’introduzione logico-filosofica al problema della razionalità, Cafoscarina, Venezia 2004 (in particolare la parte terza), e Tutto diverso dalla negazione, in Aa.Vv., L’identità in questione. Prospettive filosofiche, numero monografico di «Teoria», XXVI/2006/1 (terza serie I/1), Edizioni ETS, Pisa, pp. 113-135. 51
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sistema che sia davvero non contraddittorio non può dimostrare la propria incontraddittorietà? Ebbene, se si ammette che l’incontraddittorietà non può essere dimostrata in maniera incontraddittoria, allora nemmeno questo peculiare tipo di incontradddittorietà (quello relativo all’opposizione tra la contraddittorietà e la non contraddittorietà) può essere dimostrata; sicché non si può nemmeno escludere la possibilità che un sistema non contraddittorio possa essere a sua volta contraddittorio. Così, più adeguata è una formulazione che vincoli questi limite ai sistemi negativi52: «Un sistema negativo può dimostrare la propria incontraddittorietà solo in maniera contraddittoria». Questa considerazione mostra tutta la sua importanza in relazione alla circostanza, appena richiamata, che vi può essere una logica diversa da quella della non contraddizione ma nello stesso tempo diversa da quella contraddittoria, se con «logica contraddittoria» si intende una logica che consente di dimostrare due enunciati i quali sono l’uno la negazione dell’altro in via definitiva (cioè senza ammettere la possibilità di due diversi rispetti relativamente ai quali i due enunciati risultano compatibili). La soluzione dei paradossi semantici (o metadiscorsivi), che tradizionalmente viene ottenuta limitando l’autoriferimento (si pensi, come esempio eminente, alla teoria ramificata dei tipi di Russell) viene qui ottenuta limitando la negazione. Come ho spiegato in QV53, le antinomie scaturiscono dall’autoriferimento negativo, cioè dalla compresenza di due distinte condizioni: l’autoriferimento e la negazione. La tradizione filosofica, basandosi sul presupposto dell’universalità della negazione – presupposto a sua volta fondato sull’in-condizionatezza (in-negabilità) della negazione (la negazione è innegabile perché la negazione della negazione è a sua volta una negazione) – dà per scontato che, appunto ferme restando la negazione e la non contraddizione, i paradossi si possano risolvere solo rinunciando alla totalità (universalità) e quindi limitando l’autoriferimento. Ma il prezzo da pagare è elevato, perché comporta la rinuncia al pensiero filosofico (integrale, totale). Il presente studio mostra che è vi è una via per superare i paradossi salvaguardando il discorso filosofico, precisamente quella che mette in questione la negazione. Naturalmente questo passo va compiuto in una maniera diversa da quella che nega la negazione (negandola, infatti, la riaffermerebbe); esso, infatti, consiste nel limitare, determinandola, la negazione. La logica «negativa» (o logica della non contraddizione) è un momento – effetto di un’operazione selettiva – della logica puramente positiva. Del resto, credo che si possa sostenere che ciò che i teoremi di Gödel dimostrano è appunto che la logica della non contraddizione, ove fosse posta come totale (universale), produrrebbe contraddizione. Questa interpretazione è diversa da quella, assai ricorrente, in base alla quale Gödel avrebbe di-
Essendo «negativo» un sistema per il quale ogni enunciato comporta automaticamente il darsi della sua negazione. 53 QV, pp. 53-83; in particolare alle pp. 58-59. 52
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mostrato che vi sono degli enunciati veri ma non razionalmente dimostrabili. Per capire ciò bisogna comprendere che adottare una logica diversa da quella della non contraddizione è cosa diversa dall’adottare una logica della contraddizione. Abbiamo visto che il valore di verità W (wero) è diverso da quello della tautologia intesa come negazione della contraddizione. Il principio logico-filosofico universale è insomma qualcosa di diverso da tutto ciò di cui vi è negazione; e questo è espresso appunto da un valore di verità diverso dal valore di quella verità (V) che si oppone (negandolo) al Falso (F). La «vera» (wera) tautologia si differenzia dalla negazione di qualsiasi cosa, e in particolare dalla negazione della contraddizione. La logica tradizionale (astratta, e negativa) identifica, confondendoli, due tratti che caratterizzano la tautologia. La tautologia, infatti, è definita da due proprietà distinte. La prima è il fatto che essa è sempre vera (vera in tutte le righe); la seconda è che è la negazione della contraddizione. Chiamerò «tautologia positiva» quella definita dalla prima caratteristica, e «tautologia negativa» quella definita dalla seconda caratteristica. Nella logica dell’astratto le due proprietà sono poste come equivalenti, e i due tipi di tautologia vengono perciò identificati. La nostra logica consente (e impone) di distinguere questi due aspetti. La «wera» tautologia universale ha sì la proprietà di essere sempre wera in tutte le righe della tabella, ma proprio per questo va distinta da qualsiasi enunciato di cui si dia la negazione. Perché in questo caso essa sarebbe solo il risultato di un’astrazione, e quindi rappresenterebbe solo la metà di uno schema che presenterebbe, nel settore successivo, righe nelle quali essa risulterebbe falsa (cessando in tal modo di essere una tautologia). Il fatto che la tautologia positiva sia diversa dalla negazione della contraddizione conferma che la logica filosofica è diversa da quella della non contraddizione. La logica della filosofia (della totalità, o dell’intero) è diversa dalla logica «negativa» della non contraddizione; la verità filosofica va distinta dalla negazione della contraddizione. La logica puramente positiva, essendo diversa da ogni logica negativa, differisce sia dalla logica contraddittoria, sia da quella non contraddittoria, sia pure da quella che si basa sulla negazione della non contraddizione. Ciò può essere espresso in altri termini dicendo che dal punto di vista filosofico ogni negazione è un’autocontraddizione; nel senso appunto che qualsiasi enunciato che pretenda di esprimere l’universale (la tautologia universale), ma nello stesso tempo si presenti come negativo (tale cioè che vi è un enunciato che ne è la negazione), viene ad essere contemporaneamente vero e falso in qualche riga. Ogni enunciato di base (semplice) è compatibile con ogni altro enunciato; l’insieme degli enunciati di base semplici è rappresentato infatti da P e da PU. E tuttavia, all’interno di una determinata limitazione selettiva, si può dire che due enunciati concreti sono incompatibili. La negazione viene superata, e tuttavia anche conservata (come per Hegel); ma viene conservata come una eventualità del discorso logico, piuttosto che come una sua necessità (a differenza di Hegel). Voglio dire che l’operazione selettiva che genera due
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enunciati reciprocamente contraddittori è solo una delle possibili applicazioni dell’operazione selettivo-astraente che definisce l’attività logico-razionale. Altre operazioni di questo genere, cioè pure esse logico-implicative, sono possibili, anche se operano selezioni diverse da quelle che producono negazioni (+P e ¬P); risultato di siffatte operazioni è, per esempio, un ragionamento come (A ∧ B) → B. Il vero calcolo logico, dunque, è quello che «deriva» (giustifica) le determinazioni concettuali che sono presenti nel ragionamento e lo costituiscono. Esso, lungi dall’imprigionare tutto il pensiero con il vincolo della necessità (la «negativa» non contraddizione), lo libera pure da questo ultimo legame e si assume il compito di giustificare ogni momento della stessa forma logica (le determinazioni logico-semantiche). L’interesse della logica si amplia, passando dal campo oppositivo della vero/falsità a quello del senso e del significato. In particolare va sottolineato il fatto che il calcolo logico-filosofico deve «giustificare» le assunzioni di falsità e le negazioni che introduce: deve rendere ragione di esse. Di solito ci si ritiene esonerati dal «giustificare» gli aspetti negativi del discorso (negazione, falsità, dubbio54 etc.), appunto perché si sottintende che il negativo, in quanto innegabile (giacché il non-negativo, in quanto negativo del negativo, è a sua volta negativo) è autoevidente. Ma la logica interale (cioè filosofica) – in quanto deve giustificare tutto – deve «giustificare», cioè «derivare», anche ogni forma di negativo. In tal modo la logica qui presentata può considerarsi come il fondamento della logica filosofica. Restano da esplicitare i rapporti che essa possiede con gli enunciati e i ragionamenti concretamente presenti nella storia del pensiero.
54 Per questo aspetto è utile tenere presente Über Gewißheit di L. Wittgenstein (Basil Blackwell, Oxford 1969); trad. it. di M. Trinchero, Della certezza Einaudi, Torino 1978.
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Appendici A1 COMPLETAMENTO DEL CALCOLO PREDICATIVO 46
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Punto (a): espressioni con due variabili e relazioni. Le espressioni con più variabili in linea di massima vengono trattate nel modo seguente. A partire dal solito criterio (ai quantificatori universali si fa corrispondere la congiunzione e a quelli esistenziali la disgiunzione) in prima battuta a ogni variabile si fa corrispondere un diverso nome (x = m; y = n, etc.) con i relativi nomi aggiunti (m1, n1 etc.)1. Così, per esempio, una formula come ∃x∀yFxy ├ ∀y∃xFxy diventa (in prima battuta) ((Fmn ∧ Fmn1) ∨ (Fm1n ∧ Fm1n1)) → ((Fmn ∨ Fm1n) ∧ (Fmn1 ∨ Fm1n1)), la quale risulta, giustamente, tautologica. Non risulta invece tautologica, e di nuovo giustamente, la formula inversa ∀y∃xFxy ├ ∃x∀yFxy, la quale viene tradotta, in prima battuta, con ((Fmn ∨ Fm1n) ∧ (Fmn1 ∨ Fm1n1)) → ((Fmn ∧ Fmn1) ∨ (Fm1n ∧ Fm1n1)). Perché, se per esempio interpretiamo ‘F’ come la proprietà di «essere padre di…», la prima formula dice che se esiste qualcuno che è padre di tutti allora ognuno ha un padre (e questo è corretto); mentre la seconda dice che se ciascuno ha un padre allora vi è qualcuno che è padre di tutti (e questo è scorretto). Bisogna però tenere presente che nella logica predicativa due variabili distinte possono essere riferite anche a uno stesso oggetto. Per questo, a rigore, l’insieme completo delle possibili combinazioni deve prevedere anche il caso in cui le due variabili si riferiscono allo stesso oggetto (per questo le formulazioni precedenti erano da considerarsi «in prima battuta»; esse infatti erano incomplete in quanto non contemplavano questa possibilità). In tal modo sarà per esempio possibile riconoscere come tautologica una formula quale ∃xFx ├ ∃x∃y (Fx ∧ Fy), la quale può essere tradotta così: (Fm ∨ Fn) → ((Fm ∨ Fn) ∧ (Fn ∨ Fm)). Grazie all’introduzione di più variabili risultano poi calcolabili anche i ragionamenti che contengono formule esprimenti relazioni, come per esempio la formula Rxy. Così, un ragionamento come «Tutti i cavalli sono animali;
1 In considerazione del fatto che diverse variabili possono riferirsi a uno stesso oggetto, qui anche per i nomi aggiunti è preferibile usare le consuete lettere con l’indice numerico in pedice (m1, n1, etc.) invece della lettera «u» sopra utilizzata.
Logica philosophica. Per una logica interale
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quindi tutte le teste di cavallo sono teste di animali» (cfr. Lemmon, Elementi di logica, cit., p. 145) può essere tradotto nella seguente formula calcolabile e giustamente tautologica (dove F = essere cavallo; G = essere animale; Hxy = x è testa di y): ((Fm → Gm) ∧ (Fm1 → Gm1)) → (((Fm ∧ Hnm) → (Gm ∧ Hnm)) ∧ ((Fm1 ∧ Hnm1) → (Gm1 ∧ Hnm1))). Si possono così calcolare anche le proprietà delle relazioni. Per esempio, la formula ∃x∃y Rxy ├ ¬ (∀x∀y(Rxy → Ryx) ∧ ∀x∀y(Rxy → ¬Ryx)) dice che, se una relazione vale comunque, allora essa non può essere simmetrica e asimmetrica (cfr. Lemmon, Elementi di logica, cit., p. 201). Tale formula, tradotta nel seguente modo: (Rmn ∨ Rm1n ∨ Rmn1 ∨ Rm1n1) → ¬ (((Rmn → Rnm) ∧ (Rm1n → Rnm1) ∧ (Rmn1 → Rn1m) ∧ (Rm1n1 → Rn1m1)) ∧ ((Rmn → ¬Rnm) ∧ (Rm1n → ¬Rnm1) ∧ (Rmn1 → ¬Rn1m) ∧ (Rm1n1 → ¬Rn1m1))), risulta essere tautologica. Punto (b): identità. In questo caso, data un’identità di oggetti (a = b), qualsiasi enunciato che contenga uno dei due nomi (a) viene semplicemente posto come logicamente equivalente allo stesso enunciato nel quale si sostituisca il secondo nome (b) al primo (a). Così, una formula come a=b├b=a diventerà (Fm ↔ Fn) → (Fn ↔ Fm), la quale risulta evidentemente tautologica. In tal modo risultano calcolabili anche altri tipi di ragionamento, quale per esempio «Solo Paolo (m) e la guardia al cancello (n) conoscevano la parola d’ordine; qualcuno che conosceva la parola d’ordine rubò il fucile; quindi o Paolo o la guardia al cancello rubò il fucile» (cfr. Lemmon, Elementi di logica, cit., p. 181), la cui valutazione presuppone l’assunzione dell’identità di m ed n. Tale ragionamento è corretto, e può essere tradotto nella seguente formula (F = conoscere la parola d’ordine; G = rubare il fucile): ((Fm ∧ Fn) ∧ (Fo → (((Fo ↔ Fm) ∧ (Go ↔ Gm)) ∨ ((Fo ↔ Fn) ∧ (Go↔ Gn )))) ∧ ((Fm ∧ Gm) ∨ (Fn ∧ Gm) ∨ (Fo ∧ Go))) → (Gm ∨ Gn), la quale, calcolata tabularmente, risulta essere tautologica. Punto (c): logica predicativa del secondo ordine. Per quanto riguarda questo punto si può ipotizzare di estendere il metodo dell’elemento aggiunto alle proprietà. Così, una formula come ∀F∃xFx (la quale potrebbe esprimere il fatto che ogni proprietà è esemplificata) potrebbe venire formulata nel modo seguente (dove evidentemente U è la proprietà ulteriore o aggiunta):
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Luigi Vero Tarca
(Fm ∨ Fm1) ∧ (Um ∨ Um1). Analogamente, una formula come ∃F∀xFx (la quale potrebbe esprimere la proprietà ontologico-trascendentale dell’essere) potrebbe venire formulata nel modo seguente: (Fm ∧ Fm1) ∨ (Um ∧ Um1). A2 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE MATERIALE: ANTECEDENTE CONTRADDITTORIO (S+P ∧ S¬P)
P PU Q QU
→
S+P
→
S¬P
→
S+Q
→
S¬Q
V
F
V
F
V
F
F
V
V
V
F
V
V
V
F
F
V
V
F
F
F
V
V
F
V
V
V
V
V
F
V
V
F
V
V
V
V
V
V
V
V
V
F!
F
F
V
F
F
F
F
V
F
V
F
V
V
V
F
F
V
F
V
F
V
V
F
V
F
V
F
V
V
F
V
V
F!
F
V
V
F
V
F
V
F
V
V
V
F
V
V
V
V
V
F
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
F
V
V
V
V
F
F
V
F
V
F
F
F
V
F
V
F
F
V
F!
F
F!
F
F
F
V
F
V
F
A3 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE RAZIONALE 49
P
PU
(S+P
∧
S¬P)
→
¬
V
F
V
F
F
V
V
F
V
F
F
V
V
V
V
V
V
V
F!
F
F
F
F
F
V
V
(S+P
∧
S¬P)
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Logica philosophica. Per una logica interale
Si noti, a questo proposito, che, se il condizionale non risulta tautologico così, a maggior ragione esso non risulterà tautologico nell’ipotesi che l’introduzione della negazione (quella presente nel conseguente) determini un raddoppio. Perché in questo caso il raddoppio dell’antecedente sarebbe FFVF.FFVF (esso, infatti, nel secondo settore resta identico al primo), mentre il conseguente sarebbe VVFV.FFVF (esso infatti nel secondo settore inverte i valori rispetto al primo): il secondo settore risulterebbe tautologico, ma il primo resterebbe non tautologico. A4 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE RAZIONALE P
PU
¬
(S+P
∨
S¬P)
→
V
F
F
V
V
F
V
V
F
V
F
F
V
V
V
V
V
F
V
V
V
V
V
F
V
F
F
F
F!
F
(S+P
∨
S¬P)
A5.1 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE RAZIONALE P
PU
¬
(S+P
→
S¬P)
→
(S+P
→
S¬P)
V
F
V
V
F
F
F!
V
F
F
F
V
F
F
V
V
V
F
V
V
V
V
F
V
V
V
V
V
V
V
F
F
F
F
V
F
V
F
V
F
Si noti che a rigore anche la negazione determinerebbe un raddoppio; ma se non è tautologica la formula senza raddoppio, a fortiori non lo è quella con il raddoppio, dal momento che il raddoppio aggiungerebbe un settore nel quale i due (antecedente e conseguente) risultano uguali, ma il primo settore resterebbe identico a quello di questa tabella, dunque non tautologico.
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Luigi Vero Tarca
A5.2 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE RAZIONALE 50
P
PU
¬
(S+P
↔
S¬P)
→
V
F
V
V
F
F
F!
F
F
V
V
F
F
V
F!
F
V
V
F
V
V
V
V
V
F
F
F
F
V
F
V
V
(S+P
↔
S¬P)
A6 PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE MATERIALE: ANTECEDENTE TAUTOLOGICO → (S+P ∨ S¬P)
→ (S+P ∨
V
V
V
V
V
V
F
F
V
V
V
V
V
V
F
F
V
V
V
V
V
V
F
V
F
F
V
F
V
V
V
F
F
V
V
V
F
V
V
F
V
V
V
F
V
V
F
V
V
V
F
V
V
F
V
F
V
F
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
V
F
V
V
V
V
F
V
F!
F
F
F
F
V
F!
F
F
F
F
V
F!
F
F
F
F
F
V
F
F
F
P
PU
Q QU
V
F
V
F
F
V
V
V
V
F
(S+P ∨ S¬P)
S¬Q)
A7 I METAENUNCIATI ALETICI MP è il metaenunciato aletico avente come contenuto la verità o la falsità dell’enunciato oggetto P. La colonna di CP indica quale dei due valori
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Logica philosophica. Per una logica interale
di verità (V/F) MP attribuisce a P. Così, quando il valore di CP e quello di P coincidono, MP è vero; quando invece i due valori si oppongono, MP è falso. P
CP
MP
V
V
V
F
V
F
V
F
F
F
F
V
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Ma i valori di verità possono essere due: V e F. Dato che VP determina un raddoppio rispetto a P, esso deve essere di quattro righe. Delle prime quattro, però, esso può utilizzarne solo le prime due, dal momento che nelle seconde due il valore è F, mentre evidentemente a VP deve corrispondere, in CP, il Vero; per questo, il raddoppio di VP rispetto a P deve essere fatto su quattro righe nelle quali tutte il valore di CP deve essere Vero; cosa questa che richiede una tabella di otto righe. A sua volta, a FP deve corrispondere sempre, in CP, il valore Falso. Per rendere possibile questo, la tabella di otto righe deve riportare il Vero in quattro righe e il Falso nelle altre quattro.
P
CP
MP
VP
V
V
V
V
FP
F
V
F
F
V
V
V
V
F
V
F
F
V
F
F
F
F
F
V
V
V
F
F
F
F
F
V
V
Se noi completiamo le colonne di VP e di FP – ripetendo identico nel secondo settore, per VP, i valori del primo settore (in tal modo VP coincide con P) e invece mettendo nel primo settore, per FP, valori invertiti (cioè uguali a quelli di VP) – otteniamo due colonne formalmente uguali a quelle che caratterizzano VP de FP nella tabella che abbiamo utilizzato per rappresentare il Mentitore, con la sola differenza che i due differenti settori di FP sono qui in ordine invertito: VFVF.FVFV invece di FVFV.VFVF.
Verità Contraddizione Riduzione Vincenzo Vitiello … stiamo parlando di «cose» che non possono non eccedere (e che devono farlo) l’ordine della determinazione teorica, del sapere, della certezza, del giudizio, dell’enunciato in forma di «Questo è questo», e, più generalmente e essenzialmente, l’ordine del presente o della presentazione. J. Derrida
1. Verità parziali e verità totale Si danno verità parziali? Strana domanda. Non sono, forse, parziali tutte le verità delle scienze? La verità che vale nell’ambito della fisica non ha pretesa di validità in biologia, né la verità della storia vale in matematica. E non bisogna attendere lo sviluppo delle scienze moderne, frutto, appunto, della loro specializzazione – id est: particolarizzazione – per dar prova concreta dell’esistenza di verità ‘parziali’, se già Aristotele insegnava che non bisogna chiedere alla matematica di persuadere, né alla politica di dimostrare. Eppure la domanda s’impone. Il fatto stesso che si parli di molte verità ‘parziali’, rinvia ad un comune concetto di verità: sarà pur vero che la verità della matematica non è quella della storia, resta il fatto che nominiamo verità e l’una e l’altra. È solo un nome la verità che diciamo comune? Un nome unico che ci portiamo dietro per tradizione? Ammettiamolo; ma per ammetterlo dobbiamo pure esaminare cos’è il ‘comune’ che attribuiamo alle diverse verità; e questo esame non appartiene a nessuna delle singole verità. Non appartiene alla matematica, né alla storia, non alla fisica, né alla biologia considerare se ciò che consente di chiamare ‘verità’ le molte verità è solo un nome, o non piuttosto un concetto, ovvero un elemento intrinseco a tutte le verità. Ma anche questa verità che deriva dall’esame di ciò che consente di chiamare verità tutte le verità è solo una verità parziale, se non riesce ad includere nella propria determinazione della verità anche se stessa. Abbiamo così raggiunto la ‘definizione’ della verità ‘totale’. Che non è la definizione di tutto ciò che è accaduto, accade ed accadrà nel mondo; è solo la definizione della ‘forma’ della verità, di ciò che rende vera la verità – ogni verità: anche quella, anzi: primariamente quella che definisce la ‘forma universale’ (‘interale’) della verità.
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Vincenzo Vitiello
La natura ‘arcontica’ (Aristotele) della verità s’impone comunque. Le molte scienze che delle diverse verità si prendono cura, saranno sì tra loro pari, ma lo sono nello spazio pre-disposto da quell’unica scienza che ha cura di quell’unica verità che, definendo l’esser-vero, rende vere le molte e diverse, e perciò parziali, verità, di cui esse, le molte e diverse, e perciò parziali, scienze, si prendono cura. Le singole scienze vivono nello spazio della scienza dell’Intero; le verità parziali vivono della vita della verità totale. La scienza di questa verità la cultura europea ha chiamato: filosofia. Il primo atto di questa scienza arcontica – la prima originaria manifestazione del suo ‘potere’ – è l’esclusione dal suo territorio della contraddizione. La contraddizione non può essere vera – non può costituirsi come principio di verità – in quanto non è in grado di includere sé in se stessa. Infatti, per includere sé in se stessa, la verità-contraddizione dovrebbe dirsi in un dire contraddittorio; e cioè: la verità che definisce la verità come contraddizione dovrebbe contraddire la verità definita contraddizione. Perché, se la verità che definisce la verità contraddizione non fosse a sua volta contraddittoria, allora la contraddizione sarebbe subordinata alla non-contraddizione. La verità-contraddizione sarebbe per, in virtù di una verità incontraddittoria. Ma poniamo pure che la verità che definisce il vero come contraddizione sia pur essa contraddittoria, in tal caso, essendo entrambe le verità, la definiente e la definita, contraddittorie, la contraddizione non avrebbe contraddizione, sarebbe assolutamente identica a sé. La contraddizione della contraddizione nega la contraddizione. Non intendo con ciò ripetere la tesi ben nota che la negazione della negazione dà come risultato l’affermazione: – x – = +; dico qualcosa di diverso, e forse più complicato, all’apparenza, e cioè che la negazione della negazione proprio perché è negazione (id est: che la contraddizione della contraddizione proprio perché è contraddizione) non lascia spazio ad altro che alla negazione (che alla contraddizione), e pertanto la negazione (la contraddizione) è stretta nella morsa mortale dell’identità con se stessa: ed è questa identità del negativo con sé che è il positivo. La negazione della negazione non dà luogo a…, non produce affermazione, bensì è affermazione. Il positivo non è il risultato della negazione del negativo, ma la condizione stessa del negativo, che la negazione della negazione ribadisce. Eppure, questa scienza presuntuosa, che si pone al vertice del sapere, e mostra nell’atto stesso di porsi la sua ‘potenza’ arcontica negando la n egazione, la contraddizione, col semplice mostrare che da sé non si esce – Aristotele l’ha detto con una frase breve quanto efficace: «anche del non-essere d iciamo che è non essere», esplicitando così l’assoluta signoria dell’«è» –, è anche molto umile. Nel termine stesso da lei scelto per definirsi – philo-sophia – v’è il senso non del possesso della verità, ma del desiderio di essa. Questa scienza che ricerca la verità e i principi (archaí) della verità, è zetouméne epistéme, sapere che ricerca anzitutto se stesso.
Verità Contraddizione Riduzione
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Strana situazione: la scienza della verità che include in sé la verità di sé stessa – è una scienza che non si possiede, se è in cerca di sé. E una scienza che si possiede non possedendosi. Quale contraddizione! 2. Pensare è giudicare? Pensare è giudicare, è predicare qualcosa intorno a qualcosa: tì katà tinós. Il nome «Socrate» da solo non dice niente, potendo significare tutto – il filosofo greco, o il gatto di mia zia – e nulla – per chi non mai ha sentito questo nome. «Socrate» dice qualcosa se vi si aggiunge, ad esempio, che è «uomo», o «filosofo», o «calvo». Ma, come si fa a distinguere tra i vari predicati di «Socrate»? Se «Socrate» è «uomo», «filosofo», e «calvo», ne segue che «uomo», «filosofo», e «calvo» dicono tutti il medesimo? Chiaramente no – come non dicono lo stesso «Socrate» e «Callia», pur essendo entrambi calvi. Quale rapporto v’è allora tra il «soggetto» e il «predicato»? Se non è di medesimezza, è di alterità. Ma che tipo di unione è quella tra termini che si dicono diversi, ed insieme identici? Perché se è vero che Socrate ed «esser calvo» non sono lo stesso, dacché anche Callia, che non è Socrate, è detto «calvo», è pur vero che dico di Socrate che è calvo. Non solo: dire di Socrate che è calvo, comporta dire qualcosa di… di ciò che prima d’esser detto «calvo», o «uomo», o «filosofo», non dice niente. Il giudizio per porsi esige due enunciati: l’enunciato-soggetto e l’enunciato-predicato, ma il soggetto non è prima del giudizio. Il giudizio: «Socrate è calvo» dice, allora, anzitutto questo: che «Socrate» non è «Socrate» prima d’esser detto «calvo». Suona palesemente paradossale questa affermazione; ma solo perché abbiamo scelto il predicato «calvo»; se avessimo detto al posto di «calvo», «uomo», l’evidenza del paradosso sarebbe scomparsa. L’evidenza, non il paradosso. Perché, se «Socrate» è – è qualcosa e non niente – solo nel giudizio in cui predico di lui l’esser «uomo», questo comporta che «Socrate» e «uomo» sono lo stesso, ovvero che tutto «Socrate» è (consiste, sta) nell’esser-uomo. Ma anche Callia è uomo. E allora, come sta la «cosa»? La cosa del giudizio – s’intenda. Non sembra difficile trovare la soluzione. Il predicato «uomo» (scegliamo questo perché il più «comprensivo») non dice tutto Socrate, ma di Socrate soltanto qualcosa. Ovvero: Socrate è più ampio di «uomo», il soggetto più esteso del predicato. Invero non solo il soggetto è più esteso del predicato (Socrate è uomo, filosofo e tante altre cose ancora), anche il predicato è più esteso del soggetto («calvo» – prendo qui non a caso il predicato meno comprensivo – si dice non solo di Socrate e Callia, ma di tanti altri uomini ancora). Come si vede, è vero che prima del giudizio non v’è il soggetto, ma questo non significa che predicato e soggetto sono tutt’uno; il soggetto è definito da un insieme di predicati, dei quali nessuno si esaurisce in un unico soggetto. Soggetto e predicato sono in una rete di relazioni, per cui il giudizio è sempre un giudizio di giudizi, ovvero ogni singolo giudizio è reale solo in
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Vincenzo Vitiello
una rete di relazione che è la struttura della logica sillogistica. Perciò per formulare un giudizio – per pensare – è necessario conoscere la grammatica e la sintassi logica, le regole, cioè, della connessione dei logoi. Platone – non è male fermarci alquanto sulla prima formulazione di questa grammatica – ne ha fornito un esempio che ha fatto storia, l’esempio della comunione dei generi (koinonía tôn genôn). I generi che Platone nomina sono cinque: l’essere, il moto, la quiete, l’identico e il diverso; a noi ne bastano tre: l’essere, l’identico e il diverso. Essere si dice di identico e di diverso, pur non essendo né identico né diverso. Se essere fosse identico, allora predicandosi di diverso, renderebbe identico il diverso. Ma essere non è identico, solo si partecipa a identico; né è diverso, solo si partecipa a diverso. Mantenendo la sua alterità rispetto ad entrambi, essere può predicarsi di entrambi senza ingenerare confusione. Peraltro anche identico, che non è diverso, si partecipa a diverso, dacché questo in tanto è diverso da identico, in quanto è identico a sé; e lo stesso va ripetuto per diverso, che pur essendo opposto a identico, si partecipa a questo, perché identico è identico in quanto diverso da diverso. La soluzione così prospettata presenta varie difficoltà, una in particolare sulla quale dobbiamo subito soffermarci (sulle altre torneremo più tardi). Questa: se l’essere non è identico, ma si partecipa a identico – e così riguardo a diverso – le ipotesi sono due: o identico «è» già prima che ad esso si partecipi l’essere, ed in tal caso avremmo non un essere soltanto, ma due: l’essere che si partecipa e l’essere che è già prima della partecipazione – l’essere di identico, come di diverso – e che rende possibile la partecipazione. Questa prima ipotesi va scartata sia perché rende superflua la soluzione prospettata – se c’è essere prima della partecipazione perché la partecipazione? –, sia perché ci fa ricadere nel problema a cui la partecipazione intendeva dare risposta – se essere «è» identico ed «è» diverso, come poter distinguere identico da diverso e diverso da identico? –. Non resta, dunque, che l’altra ipotesi, secondo la quale identico, e così diverso, non sono prima che essere venga ad essi partecipato; e sono, oltreché essenti, l’uno identico e l’altro diverso perché assieme ad essere si partecipano ad essi l’identità e la diversità, quella ad identico, questa a diverso. Si ribadisce in tal modo quanto già prima affermato, e cioè che soggetto e predicato non sono mai soli, ma sono in una rete di relazioni, ovvero che il giudizio è in senso proprio sillogismo. Tutto risolto? Non direi. In questa ipotesi di soluzione il giudizio tende a scomparire per implosione. Perché, se nel caso di identico e diverso è possibile ‘salvarli’ come sog getti di giudizio, affermando che essi sono in quanto ad essi si partecipa essere (e, conseguentemente sono l’uno identico e l’altro diverso, in quanto insieme (háma, simul) alla partecipazione di essere ad essi si partecipa l’identico e il diverso che ‘sono’ per la partecipazione di essere), nel caso di essere non sembra che il soggetto sia ‘salvabile’, perché non c’è neppure il predicato che al salvataggio dovrebbe provvedere. Per parteciparsi essere dovrebbe essere, ed essere per partecipazione, ma non c’è essere prima della partecipazione.
Verità Contraddizione Riduzione
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In breve, ripiegata su se stessa la partecipazione implode. Chiaro che, se cade ‘essere’, cade l’intero edificio. La soluzione platonica non funziona. Non funziona perché non si può far dipendere totalmente il soggetto dal predicato. Il soggetto deve avere un suo proprio, autonomo ‘significato’, ‘prima’ di quelli che gli vengono attribuiti dal predicato. Ne discende che il giudizio – l’unione di predicato e soggetto – non è all’origine del pensare. Prima del pensare che si esprime nella forma della predicazione, v’è un pensare puramente significante, nominale. Al quale il giudizio deve ‘adeguarsi’, dacché non tutti i predicati convengono al nome. La convenienza o, all’opposto, la non-convenienza del predicato al nome, definisce la verità e la non-verità (falsità) del giudizio. Come esempio di un pensiero pre-categoriale, puramente significante, di un pensare cioè che non si realizza distinguendo vero da falso, Aristotele cita l’euché, la preghiera. Molti altri esempi possono farsi di espressioni di pensiero cui non s’attaglia la distinzione vero/falso, come il comando, o ancora l’imposizione del nome – è però significativo che Aristotele abbia fatto riferimento alla preghiera. 3. Semantica e apofantica La distinzione di due livelli di discorso – il semantico e l’apofantico, il dire precategoriale e il dire categoriale – muta profondamente la struttura del giudizio. Se il soggetto è di per sé (kath’autó) significante, e se è sulla base del suo autonomo significato che gli si può attribuire un predicato e non un altro – se il nome «Socrate» indica il filosofo, allora il predicato «ragione» gli conviene, non se con esso indichiamo il gatto di nostra zia… –, ne consegue che il primo compito della logica consiste nell’individuare il significato proprio del soggetto. Il significato. E se il nome ha molti significati? In tal caso bisogna vedere qual è il significato-base, a cui i molti significati possono correlarsi. E, se questo significato-base non c’è, allora vi sarà sì il suono, ma non la voce significante. Una molteplicità indistinta di significati è un non-significato. Condizione necessaria del giudizio è quindi la determinatezza del significato del soggetto. Necessaria ma non sufficiente. Perché si possa formulare un giudizio è necessario, una volta determinato il significato del soggetto, stabilire la convenienza del significato-predicato col significato-soggetto. Per stabilire tale convenienza Aristotele ricorre al principio di non contraddizione (pnc). Ricapitolando: il giudizio apofantico, il giudizio, cioè, che al significato espresso dal soggetto connette il significato proprio del predicato, presuppone 1) la determinatezza del soggetto e 2) il pnc come principio di connessione dei due enunciati. La ‘giustificazione’ del pnc come principio di connessione dei due enunciati sta in questa semplice osservazione: che, ove non si rispettasse questo principio, il giudizio stesso verrebbe meno, cadendo uno dei due enunciati che lo costituiscono. Se dico bianco è nero, il predicato toglie il soggetto, il giudizio nega se stesso.
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Da quanto detto emerge che due sono i principi fondamentali della teoria aristotelica del giudizio: quello di determinazione e l’altro di non-contraddizione. E, se il pnc è la colonna su cui si regge la logica del giudizio, il principio di determinazione è il terreno su cui la colonna è piantata. Questa affermazione – l’affermazione, cioè, che il pnc si radica e trova sostegno nel principio di determinazione – non è punto confutata dalla tesi che soltanto il pnc dimostra la determinatezza del soggetto (del giudizio). La dimostrazione della determinatezza del soggetto presuppone e non pone la determinatezza. Invero l’antecedenza del fatto alla sua dimostrazione è tratto essenziale della teoria dell’apofansi. È il predicato, infatti, che deve ‘convenire’ al soggetto e non viceversa, dacché il significato-soggetto è ‘prima’ del significato-predicato (la phásis precede la katáphasis: il phánai pareggiato al thigeîn, al ‘toccare’: Met., IX, 10, 1051b 24-25). Invero non si tratta di ‘convenienza’, bensì di appartenenza. Il verbo greco hypárchein, e le sue derivazioni, tà hypárchonta, impiegati da Aristotele, indicano che i significati espressi dai predicati in tanto convengono al soggetto in quanto sono compresi in esso, gli appartengono in proprio. I significati-predicati derivano dal significato-soggetto (questo dice il verbo hypárchein, che indica un principiare da…). I significati-predicati esplicitano ciò che è nel significato-soggetto. In breve: predicatum inest subjecto. Ma vi è modo e modo di essere-nel soggetto: altro è dire: Socrate è mortale, uomo, zôon lógon échon, animale che ha linguaggio; altro dire: Socrate è calvo. Nel primo caso il giudizio semaínei hén, fa segno all’essere del soggetto, ne dice l’ousía, nel secondo il giudizio semainei kath’henós, dice, significa una qualità o proprietà del soggetto. Il primo semaínein ‘mostra’, è rivelativo del soggetto qua talis, il secondo ‘di-mostra’, ricava qualcosa da qualcosa, un particolare dal tutto. Di qui l’ambiguità dell’ousía, che è una categoria-non-categoria, un significato-predicato che coincide di tutto punto col significato-soggetto. Comunque sempre nel giudizio apofantico sono presenti nome e verbo, soggetto e predicato, come due distinti enunciati, sia quando il predicato significa solo qualcosa del soggetto, che quando significa l’intero essere del soggetto, l’ousía. Ma in che modo si dà, nel giudizio, il soggetto in totalità? Vale a dire: è possibile ‘contraddizione’ nel giudizio che dice, significa, il soggetto in totalità? 4. Totalità e pnc A prima vista non pare che il giudizio che dice la totalità del soggetto possa esser retto dal pnc. Il soggetto non può essere totalità se da esso si esclude qualcosa, ed il pnc è per sua natura escludente: esclude da A non-A. Peraltro se non si esclude da A non-A, tutto si confonde e si nega: andare a Megara è starsene a casa sono il medesimo. La negazione del pnc comporta la negazione del principio di determinazione (perciò sopra si diceva che solo il
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pnc consente la dimostrazione della determinatezza del soggetto del giudizio, sebbene questa determinatezza sia condizione dell’applicabilità del pnc). A meno che non s’intenda che la determinazione della totalità è interna e non esterna alla totalità, ovvero che la totalità è determinata al suo interno. Nella totalità sono compresi sia l’andare a Megara che il restarsene a casa, pur essendo i due in contraddizione tra loro. E ciò che nella totalità non è compreso, non è compreso perché non-è, e se non-è neppure può opporsi a qualcosa, tanto meno a quel qualcosa che comprende ogni qualcosa, la totalità. Ma la contraddizione sopraggiunge alla determinazione, non le appartiene*. Vale a dire: il rapporto tra la determinazione (singolare) e la totalità (l’universale) precede logicamente il rapporto tra le determinatezze (i singoli): in tanto una determinatezza può opporsi ad altra determinatezza in quanto anzitutto «è». Non è vera dunque la celebre affermazione di Spinoza, ripresa da Hegel, secondo la quale omnis determinatio est negatio. Questa vale nel rapporto ‘orizzontale’ degli essenti tra loro, non nel rapporto ‘verticale’ di ciascun essente con l’essere. Con ciò la contraddizione non è negata (contraddire la contraddizione, negare la negazione è restare nella contraddizione e nella negazione – come già sopra si diceva), anzi accolta – ma accolta accanto alla determinazione che non implica, rectius: che non è contraddizione. La determinazione dell’ousía dell’ente, ovvero dell’essere in totalità, è la determinazione data dall’accoglienza di tutte le determinazioni, nessuna esclusa. L’ousía di Socrate non consiste soltanto nell’essere zôon lógon échon, ma è costituita da tutti gli hypárchonta, da tutto ciò che le appartiene in quanto da essa principia. La calvizie non è meno presente nell’ousía di Socrate del suo esser mortale e uomo e razionale. Così dicendo, rispondiamo ad una possibile obiezione, e cioè che noi si è passati dall’essere singolo e determinato (di Socrate, nell’esempio) alla totalità, con un ‘salto’, senza mediazione alcuna – posto che mediazione ci sia. Invero mediazione c’è, e c’è sin dall’inizio, sin nella definizione del singolo, sin nell’affermazione della determinatezza e del suo principio. Perché non v’è, non vi può essere determinazione se non nella totalità e per la totalità. E ciò sia che si accetti, sia che si respinga il principio spinoziano-hegeliano dell’omnis determinatio est negatio. Infatti, se si accetta questo principio, allora in tanto è possibile determinare qualcosa in quanto si nega tutto quello che il qualcosa non è – anche se si omette la più piccola negazione la cosa che s’intende determinare resta, per quell’aspetto, indeterminata. Ma, anche se non si accetta detto principio, la determinazione del qualcosa implica la determinatezza propria della totalità, dal momento che la determinazione è tale per rapporto diretto ad essa, all’essere in totalità che nulla esclude e tutto accoglie. La determinazione * Questo il punto che marca la ‘novità’ della Onto-Logica di Tarca sin da Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova 1993, approfondita e ampiamente articolata, anche riguardo ai suoi risvolti ‘pratici’, in Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città Del Sole, Napoli 1999.
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anche della più minuscola determinatezza avviene per il rapporto che questa ha con quella determinatezza che è l’accoglienza di tutte le determinatezze, la totalità. Socrate e l’universo coincidono? È questo che si vuol sostenere? Sì, ma non solo nel senso che il singolo s’estende all’universale, bensì anche nel senso opposto che l’universale si contrae nel singolo, e questo uno actu. E cioè: coincidono l’universo e il granello di sabbia, l’universo e il punto geometrico, il tutto esteso e la figura che non ha estensione, e la figura che non ha figura. Coincidono essere e nulla. Perché se la determinatezza del singolo è data dalla relazione del singolo con la onniaccogliente totalità, allora il singolo, per essere, deve essere in relazione con tutte le cose singole che costituiscono la totalità, quindi anche con tutte le relazioni che le cose singole hanno con lui. Ma, per essere in relazione con le relazioni che le cose singole, tutte, hanno con lui, deve anzitutto porsi nelle infinite prospettive dalle quali le altre cose singole si rapportano a lui; vale a dire: per osservare le altre cose singole dalla propria prospettiva deve essere anche tutte le altre prospettive, altrimenti mai si porrà in relazione con queste, ma solo in relazione alla propria relazione con queste relazioni. In altri termini: il singolo essente deve essere la propria prospettiva e tutte le altre, la propria visione del mondo e l’intero mondo delle altrui visioni del mondo; deve essere una prospettiva sul panorama – la propria – ed il panorama stesso. Deve guardare gli altri con i suoi occhi, e – simul – se stesso con gli occhi altrui. Deve essere se stesso e l’altro da sé, se stesso e non se stesso – simultaneamente. A questo livello il pnc non vale. A questo livello non ci sono più due enunciati – nome e verbo, soggetto e predicato. Ma neppure ce ne è uno solo. A questo livello non c’è più determinazione. O, meglio, la determinazione c’è, ma in quanto tolta – meglio ancora: nel suo toglimento. 5. Breve pausa. Epimenide, Cervantes, Borges 61
Krêtes aeì pseûstai (Cretesi sempre mentitori). Così Epimenide cretese. Aggiungeva, rincarando la dose, ch’erano kakà thería, gastéres argaí (bestie cattive, solo ventre, pigri: D-K, B, 1). Ma solo la prima parte dell’invettiva ha avuto gran fortuna presso filosofi e logici. Narra Miguel de Cervantes Saavedra nel suo capolavoro, Del Ingenioso Cavallero Don Quixote de la Mancha (Parte Seconda capitolo LI), che il proprietario di una terra divisa da un fiume aveva stabilito questa legge ferrea: chiunque attraversava il ponte che congiungeva le due rive, doveva dichiarare sotto giuramento dove intendeva andare e a quale scopo. Se diceva il vero, lo si lasciava passare, se il falso lo si impiccava alla forca posta su una delle rive. Accadde che un forestiero dichiarasse che era suo intento passare il ponte per essere impiccato a quella forca. Ora, se lo si faceva passare, lo si costringeva al falso, e quindi doveva essere impiccato; impiccandolo, però, si riconosceva che aveva detto il vero, e quindi non lo si poteva impiccare.
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Rivaleggiando con i paradossi dei filosofi, Jorge Luis Borges ‘pensò’ questa finzione: […] due barattieri… nel mezzo della sconfinata pianura russa si salutarono: «Dove vai Daniel?» disse uno. «A Sebastopoli» disse l’altro. Allora Moshe lo guardò fisso e poi esclamò: «Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vai a Sebastopoli perché io pensi che tu vai a Niznij-Novgorod, ma la verità è che tu vai davvero a Sebastopoli. Tu menti Daniel! (da: Evaristo Carriego, di J. L. Borges).
Tre diversi esempi di paradossi che esito a definire ‘logici’, rinviando tutti e tre a ciò che è oltre il linguaggio, a ciò che è al di là del detto e del dire. Solo perché si pone l’affermazione di Epimenide in relazione al fatto che è pronunciata da un cretese, essa appare di necessità non vera. Pronunciata da un ateniese non ci sarebbe contraddizione. La domanda da porre è allora questa: perché giudichiamo l’affermazione di Epimenide in base alla cittadinanza di chi la pronuncia? Cosa legittima questo rinvio? Perché l’affermazione: – la somma degli angoli interni di un triangolo rettangolo equivale ad un angolo piatto – non mi porta a chiedere se a pronunciarla è un ateniese o un egiziano? Forse perché la si può dimostrare senza uscire da essa? Ma lo stesso deve dirsi della proposizione: i cretesi mentono sempre. Tra cretesi e mentire – stando alla proposizione – non c’è contraddizione. La proposizione di Epimenide, però, è una proposizione fattuale, empirica, mentre quella matematica è puramente ‘di ragione’. La prima esige un controllo d’esperienza – e questo la smentisce –, la seconda no. Ma chi decide della distinzione tra empirico e razionale? Il fatto o la ragione? La risposta non è dubbia: la ragione. Perché se è vero che non v’è di necessità contraddizione tra cretese e mentitore, è però possibile che la contraddizione vi sia. Nel caso della proposizione matematica, invece, la contraddizione non solo non v’è, ma anche non può esserci. Perché spendere tante parole per dire una cosa tanto ovvia? Perché questa ‘ovvietà’ c’insegna qualcosa, e cioè che la ragione è spinta a guardare fuori di sé, a rinviare ad altro da sé – all’esperienza – per i suoi limiti. Non dal détto essa ricava la contraddittorietà della proposizione di Epimenide, ma da ciò che resta fuori del détto, e che la ragione chiama in causa non potendo decidere da sola della sua validità. La ragione riconosce la sua impotenza rispetto al fatto. Sin dove riconosce la sua impotenza? Se ci fermiamo al primo esempio, il riconoscimento della propria impotenza si arresta ben presto: una volta acclarato che chi pronuncia l’enunciato sui cretesi è un cretese, la ragione può ben dire che la proposizione non può essere vera; può però esser falsa. La ragione ritorna, sicura di sé, nel suo dominio. Il secondo esempio scalza questa sicurezza. La ragione non ha bisogno di uscire da sé – di rinviare ad altro: non è necessario che il forestiero si presenti chiedendo di attraversare il ponte al fine d’essere impiccato –, può ben
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figurarsi la situazione nell’atto stesso di formulare la legge. Né il riferimento all’esperienza l’aiuta ad uscire dall’impasse. Resta comunque bloccata. Se ne rende conto persino Sancho Panza, che posto dai suoi finti sudditi e veri burloni davanti al dilemma, decide alla fine secondo… «misericordia»! Ma l’impotenza della ragione non ha bisogno d’essere ‘logicamente’ dichiarata, né basta il rinvio all’esperienza. Nessuna ‘ragione’ è in grado di ricavare mediante argomentazioni, dimostrazioni, deduzioni e induzioni, rinvii all’esperienza recente o remota, che Daniel mente. Niente e nessuno può provare che Moshe ha visto giusto. Lo dirà solo il futuro. Peraltro affatto influenzabile dal presente. Se, per dimostrare la falsità del suo ‘plagiario’, Cervantes muta – nella seconda parte del Quijote – la destinazione del viaggio del Cavaliere dalla triste figura, vuoi che Daniel non possa decidere di recarsi a Niznij-Novgorod, per mostrare a Moshe che mentiva per davvero quando gli aveva detto di recarsi a Sebastopoli! 6. Ripresa: identico/diverso
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Abbiamo parlato dei limiti della ragione. Chiediamoci, ora, più determinatamente, sin dove s’estende il potere del pnc. La risposta è già in Aristotele: Sin dove si estende il potere del principio di determinazione. Là dove non c’è determinazione non c’è pnc. Ma, coincida o non il dominio del primo principio con quello del pnc, la domanda che ora dobbiamo porci è sin dove s’estende il dominio del principio di determinazione, ovvero: se questi è davvero ‘principio’ – principio da cui tutto principia, inoltrepassabile principio. Non possiamo appellarci ad Aristotele, ricordando che, in un punto decisivo del IV della Metafisica, la ‘potenza’ (dýnamis) è detta aóriston, indefinita; non possiamo, in quanto quel passaggio è decisivo sol perché è all’inizio di un’argomentazione che si conclude con la nota tesi – il vero Grundsatz dell’edificio aristotelico dell’epistéme – che l’atto, la determinatezza determinata dell’ousía, è ‘prima’ della potenza (ib., libri IX e XII). L’aóriston è per il determinato, e non viceversa. La dýnamis ha spazio solo nella determinatezza dell’essere. Nelle determinatezze plurali delle ousíai, costituenti la totalità dell’essere, non a caso definite tautà aeí. Così Aristotele. E di necessità, dovendo rispondere a Platone, come sopra s’è detto. Ma la conclusione ‘aporetica’ segnalata alla fine del § 4, ci induce a tornare di nuovo a Platone, alla koinonía tôn genôn, per mostrare quanto ancora da essa possiamo apprendere. Quanto da essa ha preso Hegel (sin nella elaborazione dell’architettura della Scienza della logica). Torno su due dei cinque generi della koinonía: identico e diverso. Si è già detto che identico per esser tale dev’essere diverso dal diverso, e anche il diverso per essere tale dev’essere identico a sé. Ma questa reciproca partecipazione l’abbiamo interpretata secondo la logica del principio di determinazione. E cioè: il parteciparsi del diverso all’identico e dell’identico al diverso non
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ha tolto le distinte determinatezze di identico e diverso, piuttosto le ha rese più ‘salde’. Questo, però, soltanto perché si è guardato alla loro partecipazione senza porre in questione il punto di partenza: ovvero la distinzione delle due determinatezze. Non si è considerato che la partecipazione dell’identico al diverso e del diverso all’identico muta la natura di entrambi. L’identico non è tale prima della partecipazione del diverso, esso si costituisce nell’atto in cui il diverso gli si partecipa. Identico è solo per la diversità dal diverso, e parimenti diverso è solo per la partecipazione dell’identità dell’identico. E questo significa che l’identità chiusa in se stessa, l’identità solo identità, non è; così come non è il diverso chiuso in sé, il diverso solo diverso. Identico è tale nel togliersi come identico e nel porsi come diverso dal diverso; diverso è tale nel togliersi come diverso e porsi come identico al diverso. I due termini – identico e diverso – sono ora indisgiungibili. L’uno è l’altro, l’altro è l’uno, in un essere altro dell’uno e uno dell’altro, che non ha dietro di sé nulla. Non c’è mai un istante in cui identico non sia diverso e diverso non sia identico. La permanenza dell’identico come tale nella sua diversità dal diverso, è solo un’astrazione: l’astrazione da quanto avviene del diverso che è tale solo nell’identità con sé. I due – identico e diverso – sono indisgiungibili, perché si tolgono a vicenda. La logica dell’essere che lascia l’identico nella sua identità opposta al diverso, pur dopo averlo posto come diverso dal diverso, si può costituire soltanto perché arresta il movimento della partecipazione che dall’identico passa al diverso, considerando il movimento opposto dal diverso all’identico come altro, separato movimento. Ma, per esprimerci col linguaggio di Hegel, allora la dialettica dell’essenza mostra la sua necessità quando nega la separatezza dei due movimenti**. La loro unità oppositiva può ben essere espressa con quell’enunciato che si legge nell’introduzione della Scienza della logica, secondo cui l’andare innanzi è propriamente un retrocedere al fondamento e all’originario: a ciò che è sin dall’origine. Identico e diverso conseguono la loro ‘verità’ nel non-essere quel che sono, essendo quel che non sono. Come si anticipava al termine del § 4, la determinazione e dell’identico e del diverso, è solo nell’esser-tolta. Quel che a questo punto va evitato con cura è il rischio di trasformare – hegelianamente – la negazione della negazione in posizione. Di trasformare
** La dottrina dell’essere, pur evidenziando la diversità dell’identico e l’identità del diverso, mantiene l’esteriorità dei due – identico e diverso –, che la dottrina dell’essenza, invece, supera e toglie, ‘interiorizzando’ la diversità dell’identico all’identico e l’identità del diverso al diverso; la dottrina del concetto ha, infine, il compito di connettere i due diversi rapporti, facendo dell’essenza – l’interno – la radice dell’esterno, cioè delle distinte determinazioni dell’essere. L’articolazione complessiva di questa struttura ha la sua prima delineazione formale nella successione delle tre «riflessioni» (setzende, äußere, bestimmende), che si trova all’inizio della Wesenslehre. Ma il principio fondamentale che regge questa struttura è espresso nella forma più pregnante nella Vorrede della Fenomenologia dello spirito: «la forza dello spirito è grande solo quanto la sua estrinsecazione, la sua profondità profonda sol quanto esso osa diffondersi e perdersi nel suo esplicarsi».
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il duplice movimento della doppia negazione in un essere: nell’essere del movimento. Questa trasformazione è possibile, perché si osservano i due movimenti – dall’identico al diverso e dal diverso all’identico – come un unico movimento. Si conferisce, cioè, ad esso una determinatezza che non ha: il movimento dal diverso all’identico non ‘continua’ quello dall’identico al diverso, ma lo nega: è un movimento opposto. Seguire questi due movimenti, che non sono due, né uno, è possibile solo dall’interno di ciascuno dei due. Insomma non è dato uno sguardo panoramico sulla totalità del movimento, perché… semplicemente perché questa totalità non c’è. La verità è sempre e solo parziale, limitata, finita. Mettersi dall’altra parte non è uscire dalla finitezza, ma ritrovarsi in altra. Ancor qui il rischio è di assolutizzare la finitezza. Così negandola nell’atto di affermarla. Ma negandola definitivamente. 7. Elogio del mentitore
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Do una mia versione dell’aporia – non del paradosso, dell’aporia – del mentitore: «io, uomo, dico che tutti gli uomini mentono». Cosa dice questa affermazione? Dice che il linguaggio dell’uomo parla sempre in universale, anche quando afferma che è limitato e finito. Il linguaggio come il pensiero. Detto il limite, pensato il limite – contra l’affermazione di Wittgenstein (Tractatus, Vorwort) i due, pensiero e linguaggio, son uno e medesimo –, il limite è con ciò stesso e per ciò stesso varcato. Il mentitore lo sa, ed allora si esprime contraddicendo il suo dire, esibendo il suo «io» come negazione della totalità, e la totalità come negazione del suo «io». Il mentitore trascina sé nella proposizione non per affermare l’identità di sé con quello che dice-pensa, ma giusto il contrario: per esibire la discordia. Per far ‘sentire’ la dissonanza tra cogito e sum, la loro reciproca contraddizione. Essi si negano a vicenda. Il mentitore dice-pensa il limite del suo dire esibendo la sua inscienza del limite. Dice-pensa di non saper – potere – pensare-dire il limite. Il mentitore ci porta al margine estremo della grammatica e della sintassi del pensiero tradizionale. Egli esibisce il limite di questa grammatica e di questa sintassi. Ma se non vogliamo restare nell’aporia, fermi in essa, così elevando l’aporia a verità suprema, a universale e definitivo Standpunkt del pensiero; se vogliamo essere all’altezza dell’insegnamento del mentitore, allora… – allora dobbiamo far tesoro dell’impotenza del pensiero, della kenosi della ragione, e apprendere a pensare non per sviluppi, incrementi, accrescimenti, ma per riduzioni, decrementi, impoverimenti. Non un pensiero ‘debole’, bensì un pensiero kenotico, non un pensiero ‘povero’, ma che s’impoverisce, si riduce, un pensiero che parla a se stesso in seconda persona, perché non sa chi parla e pensa in lui, un pensiero che piega la trascendenza dell’altro su di sé, e in modo tale da non poter escludere che quello che dice-pensa dell’altro non
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sia proprio se stesso. Un pensiero aperto alla possibilità del possibile, anche l’estrema: la possibilità che il possibile non sia possibile. Così il pensiero sottrae a se stesso anche l’ultima salvaguardia. Es-posto totalmente al mistero dell’essere, può ripetere con Kant: Ich, oder Er, oder Es (das Ding), welches denkt, gleich X. Termina qui la filosofia? Termina ed inizia. Termina l’Analitica e inizia la Dialettica. Termina la filosofia della terza e della prima persona, la filosofia dell’«è» e del «sono», la filosofia della necessità e della realtà, e inizia la filosofia della seconda persona, la filosofia del «tu» (non del «tu» che sta di fronte all’«io», ma dell’«io» che parla a sé stesso in seconda persona: «tu» a se stesso***) la filosofia della possibilità possibile. Che può iniziare – può: senza necessità alcuna – solo dopo che la filosofia della necessità (nella quale la filosofia della realtà è destinata a riconoscersi) è giunta alle sue estreme conseguenze. Ma questo è altro discorso.
*** È un caso che nel formulare l’imperativo categorico Kant parli in seconda persona: «Handle…»?
Kant, Hegel, Frege e la priorità del proposizionale Francesco Berto
1. Prospetto La semantica modellistica è dominata dall’idea che i significati delle espressioni subenunciative possano essere, in generale, determinati prima e indipendentemente dai nessi proposizionali che li legano, e che sono espressi dall’enunciato. Nel presente scritto tratterò di alcune celebri critiche a questo aspetto della teoria standard del significato. Avremo a che fare con la soluzione fornita da Frege al problema del nesso proposizionale – soluzione la quale implica che si debba partire dal «contenuto giudicabile» espresso dall’enunciato nella sua interezza, per giungere al concetto designato dal predicato; con certi argomenti di Quine contro il «mito del museo». Tutto ciò dovrebbe suonare a ogni filosofo del linguaggio come una storia già molte volte sentita, e io non farò proprio nulla per smentire quest’impressione. Quel che risulterà nuovo, e forse sorprendente, sarà infatti scoprire che la storia ha avuto una cospicua anticipazione nell’idealismo di Kant e di Hegel. Vedremo, ad esempio, che la spiegazione freghiana della natura del nesso proposizionale ha il suo antecedente in quei brani della deduzione metafisica e della deduzione trascendentale delle categorie della prima Critica, in cui Kant asserisce esplicitamente la priorità semantica del giudizio sul concetto. E, così, inizieremo a scoprire un’interessante vena sotterranea che scorre dall’idealismo tedesco ad alcune fra le più note acquisizioni dei padri della filosofia analitica contemporanea. 2. Il paradigma dell’etichettatura Il primo passo nella costruzione di una semantica di tipo modellistico per un linguaggio L consiste nell’assegnazione di denotazioni alle espressioni subenunciative. Nel caso più semplice (quello, poniamo, di una semantica estensionale per un linguaggio elementare o del primo ordine), si considera
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una struttura ontologica che ha per dominio un insieme non vuoto U di individui. Un modello M per il linguaggio è una coppia ordinata «U, I» dove U è appunto il nostro insieme ed I è una funzione di interpretazione, ossia una funzione che assegna denotazioni a espressioni del linguaggio: determina quali enti devono denotare le costanti individuali, a quali funzioni, proprietà o relazioni devono riferirsi (ossia, estensionalmente: quali operazioni o insiemi di enti, o di n-ple ordinate di enti, devono significare) le costanti funtoriali e predicative di L. Non è quindi molto importante considerare che, ad esempio, possa occorrere una funzione differente per le variabili (ossia che si debbano considerare differenti assegnazioni di valori alle variabili, entro la stessa interpretazione ovvero entro la realizzazione di uno stesso modello); né importa molto che si possa imporre più struttura e complessità ontologica sui modelli, avendo a che fare con interpretazioni intensionali (che assegnano direttamente intensioni alle espressioni subenunciative, con funzioni da mondi possibili a estensioni o come insiemi di mondi possibili) piuttosto che meramente estensionali. Dacché i successi della semantica model-theoretic hanno conquistato la logica, la procedura consiste sempre nella specificazione di un modello che determina la struttura del dominio o dei domini rilevanti, di una funzione di interpretazione per le costanti descrittive del linguaggio, di assegnazioni per le variabili. Segue la caratterizzazione ricorsiva della verità. Segue l’esplicitazione delle relazioni inferenziali di presupposizione, conseguenza logica, etc. Il congegno di derivazione tarskiana non può partire se non sappiamo prima come ottenere indipendentemente il riferimento delle espressioni subenunciative, dei sintagmi nominali e dei predicati, per poi calcolare vero-funzionalmente le condizioni di verità degli enunciati1. Questo è l’ordine di spiegazione semantica bottom-up. L’idea fondamentale intorno alla relazione semantica fra linguaggio e mondo sembra qui il paradigma dell’etichettatura, il quineano mito del museo: «gli oggetti esposti sono i significati e le parole sono le etichette»2. Naturalmente la semantica modellistica e vero-condizionale è ben più che una catena di montaggio di etichette – anzi, si potrebbe dire che il principio più profondo da cui essa stessa muove è la concezione dell’enunciato come unità semantica fondamentale. La richiesta che l’enunciato abbia un ruolo privilegiato
1 Questo vuol dire che, quando ciò non ha luogo, il congegno – almeno, nella versione standard della teoria – non parte, appunto perché presuppone la corrispondenza fra i termini singolari e gli oggetti denotati, e fra i predicati e gli insiemi che costituiscono le loro estensioni. Ad esempio, la valutabilità degli enunciati è compromessa quando abbiamo a che fare con termini non denotanti. Il logico classicista dispone di metodi per venire a capo del problema (ad esempio il trattamento russelliano delle descrizioni definite, magari combinato con l’atteggiamento eliminativista di Quine verso i nomi propri), ma tutti sanno quanto essi possano risultare innaturali. Da simili problemi sono sorte logiche alternative, come le logiche libere. 2 W.V. Quine, Word and Object, MIT Press, Cambridge, Mass., 1968, trad. it. Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970, p. 60.
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segue dallo slogan della 4.024 del Tractatus: «Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è vera»3. Una teoria del significato centrata sulla nozione di verità è anzitutto una teoria del significato degli enunciati; essi sono, appunto, quelle configurazioni linguistiche intorno alle quali ha senso parlare di verità. D’altra parte, come ricorda Marconi, l’idea traskiana di «veroin-L» si è imposta come modello dell’analisi semantica Non […] nel senso […] per cui essa costituisce un metodo per esplicitare sistematicamente le condizioni di verità degli enunciati di un linguaggio; ma piuttosto in forza dell’apparato referenzialista che essa mette in campo. Per un certo periodo, l’analisi semantica di un linguaggio venne più o meno identificata con la sua interpretazione semantica, nel senso che della connessione delle espressioni semplici del linguaggio con le loro denotazioni in un dominio; e la teoria semantica venne identificata con la teoria della denotazione o (come si dice più spesso) con la teoria del riferimento. […] Vengono qui dimenticati non solo Frege, ma anche il Tractatus con la sua nozione di senso della proposizione, e prevale invece l’idea che specificare il significato sia specificare la denotazione4.
3. La teoria causale del riferimento Secondo Wittgenstein, chi pensa all’etichettatura come al modo paradigmatico in cui si istituisce la relazione fra segno e designato ha un’immagine primitiva del modo in cui funziona il linguaggio, oppure ha in mente un linguaggio più primitivo del nostro, come quello del gioco linguistico con «mattone», «pilastro», «lastra», «trave». «Chi descrive in questo modo l’apprendimento del linguaggio», sostiene Wittgenstein, ha in mente tipicamente i sostantivi, anzi pensa anzitutto «ai nomi di persona, e solo in un secondo tempo ai nomi di certe attività e proprietà; e pensa ai rimanenti tipi di parola come a qualcosa che si accomoderà»5.
3 L. Wittgenstein, Logisch-philosophische Abhandlung, «Annalen der Naturphilosophie», 14 (ed. riv. con trad. ingl. Tractatus logico-philosophicus, Routledge & Keagan Paul, London 1922), trad. it., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1998, p. 45. 4 D. Marconi, La filosofia del linguaggio. Da Frege ai nostri giorni, Utet, Torino 1999, pp. 48-49. 5 Cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford 1953, trad. it., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, pp. 9-10. La versione fornita da Davidson in Teorie del significato e linguaggi apprendibili è: «all’inizio impariamo nomi e predicati applicabili a oggetti fisici di media grandezza commestibili o tali da suscitare il nostro amore, e che si trovano in primo piano nella nostra sfera sensibile o nel nostro interesse; l’apprendimento avviene mediante un processo di condizionamento che chiama in gioco l’ostensione. Poi vengono appresi predicati complessi e termini singolari per oggetti che non necessariamente sono già stati osservati» (D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, Oxford University Press, Oxford 1984, trad. it., Verità e interpretazione, il Mulino, Bologna 1994, p. 48).
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A detta di molti interpreti6, Wittgenstein non contesta affatto che vi siano tipi di parola il cui significato può consistere nello stare per oggetti – in cui la relazione di riferimento è l’aspetto semantico fondamentale – o che la competenza lessicale abbia un ineliminabile aspetto referenziale. Di solito abbiamo qui in mente i casi più semplici, ossia espressioni come «questo è rosso», o «Wittgenstein è un filosofo»: non potremmo dire di comprendere ciò che qui si dice, se non sapessimo a cosa si riferiscono i sintagmi nominali. Il problema sorge quando questa particolare concezione semantica viene, per così dire, ipostatizzata e presa come il paradigma del significato. I «rimanenti tipi di parola», infatti, spesso non si accomodano. I sintagmi nominali tipicamente acontestuali come i nomi propri sono i più ben disposti verso la spiegazione atomistica bottom-up. Ma già con gli indicali, il cui significato è certamente incomprensibile prescindendo dal riferimento, è decisivo il ruolo del contesto. Inoltre, i sintagmi subenunciativi nominali possono riferirsi anche a insiemi di individui, e possono farlo in modo distributivo o collettivo. Possono riferirsi a entità astratte, azioni, eventi sostanze, etc. Indubbiamente dire che il significato è la relazione all’oggetto di per sé non ci compromette su ciò che l’oggetto è. Ma se tutto ciò che è qui in giuoco fosse l’affermazione che il significato dei sintagmi nominali consiste nel riferimento a un denotato, non avremmo detto gran che. Qualcosa del genere accade anche con la famosa teoria causale del riferimento Kripke-Putnam, basata sull’idea del battesimo iniziale, di solito in circostanze pubbliche o comunque intersoggettive, e sulla disposizione dei parlanti a usare la parola col riferimento che vi hanno ereditato (la «catena causale», appunto)7. Di sicuro, non si tratta con ciò di muovere un’obiezione alla teoria – anche perché, com’è noto, lo stesso Kripke non ha mai inteso presentarla come una teoria in senso stretto, come «un insieme vero e proprio di condizioni necessarie e sufficienti per il riferimento»; bensì, come un’immagine del funzionamento del linguaggio, che vuol essere «migliore di quella fornita dalle proposte tradizionali», e segnatamente «di quella fornita dai fautori della teoria descrittivista»8. Anzi, per Kripke non si tratta neppure di definire la relazione di riferimento (la quale sembra rimanere un primitivo semantico non suscettibile di una caratterizzazione indipendente), bensì di
Cf. ad es. L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Feltrinelli, Milano 1977. «Nasce qualcuno, un bambino; i suoi genitori lo chiamano con un certo nome. Ne parlano ai loro amici. Altre persone lo incontrano. Attraverso discorsi di vario tipo, il nome si diffonde come una catena, di anello in anello…». «Ha luogo un battesimo iniziale; un oggetto può essere denominato mediante ostensione, oppure il riferimento di un nome può venir fissato mediante una descrizione. Quando il nome «viene trasmesso da un anello all’altro», il ricevente del nome deve, secondo me, aver l’intenzione di usarlo con lo stesso riferimento di colui dal quale l’ha appreso» (S. Kripke, Naming and Necessity, Basil Blackwell, Oxford 1980, tr. it. Nome e necessità, Boringhieri, Torino 1982, pp. 89 e 93-94). 8 Op. cit., pp. 89 e 95. 6 7
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chiarire aspetti del suo funzionamento9. D’altra parte, già con i nomi comuni, i nomi di sostanze e specie, e cioè con le espressioni che, per usare il lessico tradizionale, designerebbero concetti, come «acqua», «tigre», «uomo», «scapolo», «rosso», le cose si fanno più arzigogolate. Se accettiamo l’idea del designatore rigido, i nomi propri saranno espressioni la cui intensione è una funzione a valori costanti, ossia che abbina a ogni mondo possibile, come estensione, lo stesso individuo. Ma quando questo schema viene esteso ai nomi comuni – magari nella speranza, come direbbe Wittgenstein, che i rimanenti tipi di parole siano «qualcosa che si accomoderà» – si producono strane situazioni come la seguente. Se «tigre» ha un’intensione a valori costanti, il riferimento di «tigre» non può tuttavia coincidere con l’estensione dell’espressione, perché naturalmente non vi è ragione di credere che l’insieme delle tigri esistenti in un certo mondo m sia lo stesso dell’insieme delle tigri esistenti in un cert’altro mondo n, per ogni m e n. Chi tratta «tigre» come un designatore rigido, si riferisce tuttavia a qualcosa come al concetto della tigre10. E qui, come nel caso di molte altre espressioni subenunciative (i termini concettuali), il privilegio della cerimonia battesimale va drasticamente ridimensionato: I battesimi non sono più popolari tra gli oggettivisti; e giustamente, perché non è possibile far dipendere il riferimento di una parola da una singola cerimonia battesimale. [Nel] caso di nomi di specie e di sostanza naturale […] la portata normativa dell’etichettatura è perduta senza che essa sia sostituita da nessun’altra pratica istitutiva di norme: l’onere di porre la norma semantica si distribuisce tra svariate pratiche referenziali. Quanto alla fissazione della norma d’uso attraverso la fissazione del riferimento, propria di certe forme di esternismo metafisico, eventi del genere sono assai rari: forse solo i nomi di nuove specie appena scoperte, o quelli di certi artefatti (e, in passato, i nomi scientifici delle specie) sono introdotti mediante qualcosa come una cerimonia battesimale. Per la maggior parte delle parole di una lingua naturale, non ci sono né battesimi, né procedimenti per ricondursi ad essi. Ci sono soltanto usi, più o meno autorevoli11.
Applichiamo il predicato «… è una tigre» sulla base di certe teorie, che convogliano informazioni sulla specie, e se sorge una disputa ricorriamo alla miglior teoria a disposizione. Sono in gioco relazioni semanticamente rilevanti con altre espressioni subenunciative. «Le analisi filosofiche di concetti come il riferimento, formulate in termini completamente diversi che non menzionino il riferimento, è molto probabile che non funzionino»; «lo schema che ho delineato non si può dire che elimini la nozione di riferimento; al contrario, considera come data la nozione di aver l’intenzione di usare lo stesso riferimento» (op. cit., p. 91 e p. 94). 10 Cf. P. Casalegno, Filosofia del linguaggio. Un’introduzione. La Nuova Italia Scientifica, Roma 1977, p. 249 e n. per il rilievo di queste difficoltà. 11 D. Marconi, Lexical Competence, MIT, Press, Cambridge, Mass. 1997, tr. it. La competenza lessicale, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 120 e p. 154. 9
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4. «Nur im Zusammenhange eines Satzes bedeuten die Wörter etwas» Nel paradigma dell’etichettatura, la definizione ostensiva è l’atto originario con cui, indicando un «questo» e dandogli un nome, si istituirebbe la relazione fra segno e significato. Contro il privilegio dell’ostensione, Wittgenstein sostiene nelle Ricerche filosofiche che il significato si determina in generale non con l’atto ostensivo di un oggetto, ma solo in funzione dell’uso interno al linguaggio. L’indicazione di un «questo» è essa stessa un atto che va interpretato: La definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – della parola, quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio. […] Per essere in grado di chiedere il nome di una cosa, si deve già sapere (o saper fare) qualcosa. […] Anche se un processo simile si ripetesse in tutti i casi, dipenderebbe comunque dalle circostanze – vale a dire da ciò che accade prima e dopo l’indicare – il dire: «ha indicato la forma e non il colore» [ossia, in generale: l’interpretazione dell’atto ostensivo stesso]12.
L’ostensione presuppone la padronanza delle regole, e la capacità di fare una mossa nel gioco: Il denominare non è ancora una mossa nel gioco linguistico, così come il mettere un pezzo sulla scacchiera non è ancora una mossa nel giuoco degli scacchi. Si può dire: col denominare una cosa non è fatto ancora nulla. Essa non ha nemmeno un nome, tranne che nel giuoco. Questo, tra l’altro, Frege intendeva dicendo: soltanto nel contesto della proposizione una parola ha significato13.
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Wittgenstein menziona il famoso e controverso principio del contesto di Frege, che figura anche come titolo di questo paragrafo. Per inciso, non v’è accordo fra gli studiosi su come il principio vada inteso, anche all’interno del pensiero freghiano. È il secondo canone indicato nell’Introduzione ai Fondamenti: «Cercare il significato delle parole, considerandole non isolatamente ma nei loro nessi reciproci»14, perché soltanto negli enunciati le parole hanno un significato. Nella Nota introduttiva alla quarta sezione de La struttura logica del linguaggio, dedicata alla questione dei contesti del discorso, Andrea Bonomi sostiene che il principio del contesto in Frege, negando un significato autonomo ai termini subenunciativi, sembra contraddire il principio di L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., pp. 25-28. Op. cit., p. 37, ultimo corsivo mio 14 G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch-mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Koebner, Breslau 1884, tr. it. I fondamenti dell’aritmetica. Una ricerca logico-matematica sul concetto di numero, in Id. Logica e aritmetica, Boringhieri, Torino 1965, p. 219. Ad esempio, un problema interpretativo è che Frege sembra aver accantonato il principio negli scritti successivi, il che ha prodotto la questione di come rapportarlo alla classica distinzione fra Sinn e Bedeutung. 12 13
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composizionalità, che è essenziale alla ricorsività della semantica. Quest’ultimo, dice Bonomi, esige infatti «significati autonomi per i vari costituenti d’enunciato». Tuttavia, il contrasto diviene apparente, e anzi il principio del contesto si pone «non tanto come un’alternativa al principio di funzionalità […] quanto come una sua integrazione», se teniamo presente che il primo «può valere solo nel caso delle lingue naturali», mentre il secondo «si applica in modo diretto solo alle lingue formalizzate»15. Il problema, tuttavia, è che nella model-theoretic semantics, della quale potremmo prendere come paradigma i lavori di Montague, l’assegnazione di significati a termini individuali e predicati antecedentemente all’interpretazione degli enunciati vuole valere come un modello valido per le lingue naturali. Ma l’originaria teoria di Tarski era stata pensata come un metodo per esplicitare sistematicamente le condizioni di verità per enunciati di linguaggi formali; e Tarski, com’è noto, escludeva (anche se per altre ragioni, ossia per la questione del predicato di verità) l’applicabilità della procedura al linguaggio ordinario. In seguito alle successive estensioni del metodo tarskiano, i manuali di semantica presentano oggi tale procedura come un modello esplicativo del funzionamento del linguaggio ordinario. Ed è proprio questo che va qui messo in questione. A mio parere (e quali che fossero le convinzioni di Frege in proposito)16, il principio del contesto può avere – e certamente, nella strategia wittgensteiniana, ha – un proficuo uso olistico. Nel caso dei nomi propri («Wittgenstein»), il cui uso è più acontestuale, e che, come si diceva sopra, meglio si prestano alla strategia bottom-up, potremmo spiegare il significato (Bedeutung) indicando il portatore (Träger) del nome. Ma ciò che facciamo, anche quando ci affidiamo a un atto ostensivo, manifesta già una conoscenza proposizionale, è espresso da qualcosa di simile a un enunciato completo: «questa persona è Wittgenstein». L’unità semantica minimale con cui possiamo fare una mossa nel gioco linguistico è l’enunciato. E, ovviamente, perché la procedura abbia successo dobbiamo saper già distinguere le persone da altri tipi di oggetti, da eventi, azioni, etc. Ne segue che, come ammettono i linguisti, «prima di cercare di identificare esattamente la denotazione delle parole (o morfemi), dovremmo cercare di fare qualche passo avanti verso una plausibile caratterizzazione del contenuto semantico degli enunciati»17. È il tipo di argomentazione portato avanti, com’è noto, anche da Quine. Non possiamo arrivare direttamente al significato dell’espressione subenunciativa, perché questo è determinato solo entro il background dell’uso interno agli enunciati: 15 Cf. A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, pp. 403-405. 16 Ad es. secondo Mariani in Frege «il Principio del Contesto non ha nulla a che fare con l’olismo (in nessuna delle sue forme), e nemmeno con l’idea che un sistema assiomatico costituisca una definizione implicita» (M. Mariani, Introduzione a Frege, Laterza, Bari 1994, p. 58). 17 G. Chierchia e S. McConnell-Ginet, Significato e grammatica, Muzzio, Padova 1993, p. 76.
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Persino l’apprendimento sofisticato di una nuova parola è di solito una questione di apprendimento contestuale – perciò di apprendimento, per esempi e analogie, dell’uso degli enunciati in cui la parola può comparire. È stato dunque appropriato […] trattare gli enunciati e non le parole come le totalità il cui uso viene appreso18.
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La priorità semantica del proposizionale si esprime nella concezione freghiana del nesso predicativo. Frege, infatti, rifiuterebbe proprio quell’idea dell’odierna semantica estensionale, per cui i predicati sono interpretati come denotanti insiemi (di individui, coppie, n-ple ordinate) e che è dominato dal paradigma dell’etichettatura. Se il predicato esprimesse un mero insieme, il giudizio sarebbe la giustapposizione di due oggetti: l’oggetto-individuo, subjectum e l’oggetto-insieme, praedicatum. Per fare l’esempio freghiano di Concetto e oggetto: se nell’enunciato «2 è un numero primo» riteniamo che il soggetto e il predicato designino oggetti, non spiegheremo il nesso predicativo e l’unità proposizionale. Non riusciremo a comprendere la differenza fra il significato di un enunciato e una coppia ordinata di oggetti: «2, numero primo». Anzi, aggiunge Frege, se tentassimo di esprimere quel nesso dicendo qualcosa come: «2 cade sotto il concetto numero primo», ma ritenessimo di aver a che fare con un nesso esterno ai relata, avremmo ora a che fare con tre oggetti (il numero 2, la relazione del cadere sotto un concetto da parte di un oggetto, e il concetto numero primo), e avremmo solo spostato il problema: «in qualsiasi modo li mettiamo insieme – afferma Frege – non otteniamo alcun enunciato»19. Naturalmente, Frege non poteva qui (per ragioni di cronologia) confrontarsi con la teoria russelliana delle relazioni esterne, eppure l’aporia che egli sviluppa somiglia all’argomento del regresso di Bradley, ossia a una variante del «terzo uomo»20. La concezione isolazionista del significato non è in grado, infine, di rendere conto proprio dell’aspetto dell’enunciato, per cui esso è l’unità dei suoi costituenti, e non semplicemente un legame estrinseco a essi. Un enunciato della semplice forma «A è B» non si limita a menzionare A e B,
18 W.V.O. Quine, Parola e oggetto, cit., p. 23. Sulla stessa linea Davidson in Interpretazione radicale: «i fenomeni a cui dobbiamo rivolgerci sono gli interessi e le attività extralinguistiche al cui servizio si trova il linguaggio, un servizio che può essere svolto dalle parole solo nella misura in cui queste si trovano incorporate negli enunciati (oppure, occasionalmente, costituiscono esse stesse gli enunciati). Ma allora non c’è speranza di dare una spiegazione fondazionale delle parole prima di averne data una degli enunciati» (D. Davidson, Verità e interpretazione, cit., p. 195). 19 Cf. G. Frege, Über Begriff und Gegenstand, «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie», 16, 1892, tr. it. Concetto e oggetto, in A. Bonomi (a c. di), La struttura logica del linguaggio, cit., p. 386. 20 Cf. F.H. Bradley, Appearance and Reality, Clarendon Press, Oxford 1893, tr. it. A pparenza e realtà, Rusconi, Milano 1984, libro I, cap. 2.
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ma dice che A è B. Eppure, la teoria delle relazioni esterne non può sostenere teoreticamente questa differenza. Non lo può, perché se la relazione è un terzo oggetto esterno ai relata, occorrono altre relazioni che la leghino ai relata stessi, ed essendo queste a loro volta esterne, procederemo all’infinito21. Il significato del predicato dev’essere invece un concetto e, com’è affermato da Frege in Funzione e concetto, «ciò che in logica è chiamato concetto […] è una funzione il cui valore è sempre un valore di verità»22. Ora, la funzione di un ente insaturo, e la saturazione di F(x) da parte di un argomento è (pur oscuramente) concepita da Frege come una sorta di processo dinamico, di determinazione di un significato attraverso l’assegnazione di un argomento alla funzione. Questo vale anzitutto per le funzioni in generale: L’argomento non appartiene alla funzione, ma insieme alla funzione forma un tutto completo; infatti, la funzione di per sé sola è incompleta, ha bisogno di completamento, è insatura. […] l’argomento è […] un tutto in sé conchiuso, cosa che invece la funzione non è23.
Ma il «tutto completo» non è l’esito di un processo che comincia con la fissazione delle parti che lo compongono. Inversamente è proprio la funzione, la parte insatura, ciò che si ottiene a partire dal «tutto completo». Ciò che Frege ci propone è un’astrazione mediante sostituzione: otteniamo la funzione designata da «2 ⋅ x3 + x» considerando relazioni di somiglianza strutturale, o di forma, fra espressioni come «2 ⋅ 13 + 1», «2 ⋅ 43 + 4», «2 ⋅ 53 + 5», etc. Si sostituiscono certi numerali, mentre resta ferma la struttura comune (Dummett parla in proposito, per l’appunto, di patterns). Ma mentre quelle espressioni 21 Su questo punto si è soffermato F. Perelda, nel contesto di una critica pregnante alla concezione atomistica del significato. Secondo Perelda, «ciò che è comune a tutte le proposizioni, prescindendo dalla specificità dei costituenti, consiste in questo: che i costituenti sono connessi. Questo è il significato essenziale della proposizione, poiché è perciò, e non per altro, che essa differisce da una lista di termini giustapposti». (Hegel e Russell. Logica e ontologia tra moderno e contemporaneo, Il Poligrafo, Padova 2003, p. 163). Ora, «se due termini sono congiunti da una relazione, ma questa è altra da essi [ossia è esterna], allora devono esservi ulteriori relazioni che legano i termini con quella prima relazione, e poi altre ancora, che connettono queste coi loro relata, e così via, all’infinito» (p. 136). Sicché, l’unità proposizionale è infinitamente rinviata, e dunque non è mai veramente posta. Di qui viene, secondo Perelda, la necessità di riabilitare proprio la tesi idealistica-olistica delle «relazioni interne» contro cui si era schierato Russell. D’altra parte, lo stesso Russell aveva avuto presente il problema fin dal tempo dei Principles of Mathematics: «Una proposizione possiede una certa unità (unity) indefinibile, in virtù della quale essa risulta un asserto; e nell’analisi questa si perde in modo così completo, che nessuna enumerazione dei costituenti vale a restaurarla, anche se menzioniamo essa stessa come costituente. Si ha in questo fatto, bisogna confessarlo, una grave difficoltà logica, poiché è difficile non credere che un tutto non debba essere costituito dai suoi costituenti» (B. Russell, The Principles of Mathematics, Cambridge University Press, Cambridge 1903, tr. it. I principi della matematica, Longanesi, Milano 1988, p. 633). 22 G. Frege, Funktion und Begriff, conferenza tenuta il 9/1/1891 alla Jenaische Gesellschaft für Medizin und Naturwissenschaft, Hermann Pohle, Jena 1921, tr. it. parz. Funzione e concetto, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, cit., p. 420. 23 Op. cit., pp. 414-415, corsivi miei.
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denotavano un oggetto (un numero), dunque ciò che per Frege è un ente saturo e sussistente per sé, la funzione che se ne astrae, come abbiamo sentito, «è incompleta, ha bisogno di completamento, è insatura», anzi «in ciò […] risiede la fondamentale differenza fra le funzioni e i numeri». Perciò egli preferisce la notazione «2 ⋅ ( )3 + ( )», in cui si vede ad oculos che manca qualcosa: «l’espressione di una funzione deve sempre indicare uno o più posti che sono destinati a essere riempiti dal segno dell’argomento». La costitutiva mancanza di una completa determinazione ontologica si manifesta nella forma dell’espressione, che è l’«essenza della funzione»24. Questa procedura di astrazione sostituzionale si applica ugualmente per quel tipo particolare di funzione, che è il concetto, ossia il significato del predicato dell’enunciato. Frege dice: Gli enunciati dichiarativi possono pensarsi come scomponibili in due parti di cui una è in se stessa conchiusa, l’altra ha bisogno di completamento, è insatura. Così, per esempio, l’enunciato «Cesare conquistò la Gallia» si può scomporre in «Cesare» e «conquistò la Gallia». La seconda parte è insatura, contiene un posto vuoto: solo quando questo posto viene riempito da un nome proprio, appare un senso conchiuso25.
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È per questo che, fin dall’Ideografia, Frege aveva introdotto anzitutto i «contenuti di un giudizio possibile», per poi definire gli altri tipi di significato nei termini di quelli26. Nell’Ideografia, tuttavia, i due valori della se mantica freghiana non erano ancora distinti. Sicché ora, e cioè in relazione agli scritti del Frege cosiddetto maturo, possiamo chiederci: che tipo di significato è il concetto o funzione? È il Sinn o la Bedeutung? La questione riceve una risposta in Concetto e oggetto. Qui è del tutto esplicito che il concetto è la Bedeutung del predicato o termine concettuale. Frege afferma: «Il concetto, come intendo io la parola, è predicativo», e abbina quest’affermazione a una nota in cui precisa: «è cioè la denotazione di un predicato grammaticale»27. Ciò può suonare strano, perché in Funzione e concetto Frege aveva distinto una funzione dal suo decorso di valori, sostenendo che due funzioni come ad esempio «x(x – 4)» e «x2 – 4x» sono differenti, pur avendo lo stesso decorso di valori, nel senso che associano sempre allo stesso argomento lo stesso valore. Ci si potrebbe aspettare, allora, che un predicato esprima una funzione i cui valori sono valori di verità (la funzione essendo il Sinn) e denoti il decorso di valori di quella funzione (il decorso di valori essendo la Bedeutung). Ora, un decorso di valori nel senso freghiano non è esattamente l’estensione di una Cf. op. cit., pp. 414-415. Op. cit., p. 421. 26 Cf. G. Frege, Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reinen Denkens, Nebert, Halle 1879,tr. it. Ideografia. Un linguaggio in formule del pensiero puro, a imitazione di quello matematico, in G.Frege, Logica e aritmetica, cit., pp. 103 ss. 27 G. Frege, Concetto e oggetto, cit., p. 374. 24 25
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funzione enunciativa nel senso standard, tuttavia le assomiglia molto. Nell’odierna semantica intensionale un predicato n-ario è interpretato assegnandogli come intensione una funzione da mondi possibili a insiemi, e quindi come estensione in ciascun mondo possibile l’insieme di n-ple ordinate pescato dalla funzione in quel mondo possibile. Per Frege, invece, il decorso di valori di una funzione n-aria che ha come valori il Vero o il Falso (ossia appunto, quelle funzioni che Frege chiama concetti, o relazioni quando siano poliargomentali) è una successione di n+1-ple ordinate, in cui l’ultimo membro di ciascuna n+1-pla è un valore di verità. Ad esempio il decorso di valori della funzione designata da «x è un uomo» sarebbe qualcosa come: «Socrate, Vero», «Napoli, Falso», «Varenne, Falso», «Napoleone, Vero»,…, mentre, nell’idea standard della cosa, l’estensione di «x è un uomo» è semplicemente l’insieme degli uomini. Nonostante la differenza con l’usuale estensione, tuttavia, dal punto di vista dell’ontologia freghiana si tratta sempre di oggetti. Il decorso dei valori, come l’insieme, è un oggetto, un ente «saturo», non un concetto – e lo stesso vale per i valori, e dunque anche per il Vero e il Falso, gli strani oggetti freghiani di cui gli enunciati completi dovrebbero essere i nomi. Se quindi la Bedeutung del predicato fosse il decorso di valori, ciò riavvicinerebbe in certo modo la posizione freghiana a quella dell’odierna semantica: il predicato denota un oggetto. Invece, per Frege è il concetto, che è funzione, a essere la Bedeutung. Il predicato designa questo ente insaturo, che per Frege non è e non può essere an sich un «tutto in sé conchiuso». Ma se un predicato denota una funzione, qual è il suo Sinn? Non vi è nulla di chiaro in proposito negli scritti pubblicati da Frege, sicché occorre andare a scavare nel Nachlass. La risposta si trova nell’Introduzione alla logica ed è del massimo rilievo: qui Frege sostiene che «anche la parte insatura del pensiero la concepiamo come un senso, e precisamente come il senso della parte dell’enunciato che resta una volta tolto il nome proprio»28. Il Sinn di un predicato è dunque un pensiero incompleto: è una parte del pensiero espresso dall’enunciato, in cui funge da predicato. Ed ecco perché occorre invertire l’ordine di spiegazione semantica: l’enunciato precede il predicato, perché il senso del predicato, essendo un pensiero incompleto, non è comprensibile se non a partire dal senso dell’enunciato dal quale si astrae. 6. L’oggettività del giudizio in Kant e Hegel Ebbene, tutto ciò esibisce una strettissima parentela fra Frege e Kant. Il tipo di inversione semantica qui prodotto da Frege è lo sviluppo di ciò che era già stato anticipato nell’idealismo kantiano: la comprensione della 28 G. Frege, Nachgelassenen Schriften und wissenschaftlicher Briefwechsel, a cura di H. Hermes, F. Kamartel e F. Kaulbach, Meiner, Hamburg 1969, tr. it. Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli 1986, p. 318.
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priorità esplicativa del giudizio sul concetto – priorità tale che per Kant solo a partire da un esame delle forme del giudizio è possibile identificare le categorie, ossia i concetti puri dell’intelletto. L’ascendenza dell’idealismo di Kant sulla teoria freghiana della priorità del proposizionale, per quanto ne so, è stata colta per la prima volta da David Bell29, ed è ampiamente sfruttata da R.B. Brandom. L’interpretazione brandomiana dà a Kant alcuni colpi di pollice, che l’avvicinano alla propria posizione neopragmatista: la priorità va al contenuto proposizionale espresso dall’enunciato perché solo con l’enunciato possiamo fare una mossa nel gioco linguistico, ossia asserire alcunché, dunque occorre affermare la «priorità pragmatica del proposizionale»30. Tuttavia, non abbiamo bisogno qui di impegnarci col neopragmatismo brandomiano per cogliere come uno degli aspetti centrali della cosiddetta deduzione oggettiva, o aspetto oggettivo della deduzione trascendentale delle categorie nella prima Critica, è il rilievo che l’unità del contenuto d’esperienza si mostra nel legame (Verbindung) dell’oggetto coi suoi attributi, colle sue proprietà, e questo legame si esprime nel giudizio. Le categorie, dice Kant, sono i «concetti di un oggetto in generale», e possono avere validità oggettiva proprio in quanto si presentano anzitutto nel giudizio: «le categorie non sono altro che proprio queste funzioni di giudicare»31. Perciò, già prima di impegnarsi nella deduzione trascendentale, nel contesto della cosiddetta deduzione metafisica delle categorie, Kant aveva avvisato che il «filo conduttore» per pervenire ai concetti puri dell’intelletto, che evita alla filosofia trascendentale di dover andare rapsodicamente alla ricerca di essi, è il principio che pensare è giudicare: «I concetti dunque si fondano sulla spontaneità del pensiero», ma, dice Kant, «di questi concetti l’intelletto non può far altro uso se non in quanto per mezzo di essi giudica»: Noi possiamo ricondurre a giudizi tutti gli atti dell’intelletto, in modo che l’intelletto, in generale, può essere rappresentato come una facoltà del giudicare. Esso infatti, secondo ciò che s’è detto sopra, è una facoltà di pensare32.
Hegel biasimava il modo in cui Kant aveva tratto le singole categorie dalle forme del giudizio, ritenendo che tale derivazione fosse accidentale e sostenendo, ad esempio nell’ambito della Seconda posizione del pensiero rispetto all’oggettività nell’Enciclopedia, che Kant se l’era «cavata a buon mercato» assumendo come belle e pronte le divisioni della logica tradizionale, senza
Cf. D. Bell, Frege’s Theory of Judgement, Blackwell, Oxford 1979. Cf. R.B. Brandom, Making It Explicit, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1994, pp. 79-80. 31 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Hartknoch, Riga 1781, tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Bari 19958, p. 108 e p. 116. 32 Op. cit., pp. 89-90. 29 30
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dedurle l’una dall’altra33. Tuttavia, egli vedeva nella deduzione trascendentale delle categorie e nella nozione kantiana di sintesi a priori il «merito immortale» di Kant34. In Fede e sapere Hegel afferma che in tale nozione è espressa «la vera e propria idea della ragione», e ciò avviene perché il giudizio sintetico a priori è quello su cui si fonda l’autentica validità oggettiva del pensiero: Come sono possibili giudizi sintetici a priori? Questo problema non esprime se non l’idea che, nel giudizio sintetico, soggetto e predicato, l’uno particolare, l’altro universale, il primo nella forma dell’essere, il secondo nella forma del pensare – che questo eterogeneo è nello stesso tempo a priori, cioè assolutamente identico.
E quest’idea «la si scorge dove l’unità originariamente sintetica dell’appercezione appare per la prima volta nella deduzione delle categorie», e tale unità è «l’assoluta identità originaria dell’autocoscienza, che pone a priori assolutamente da sé il giudizio»35. In Kant, com’è noto, abbiamo il problema supplementare dell’intuizione: poiché l’intuizione è solo sensibile e l’intelletto, che è essenzialmente la facoltà del giudizio, è soltanto discorsivo, esso riceve i suoi contenuti, per così dire, di seconda mano. L’intelletto ha il suo oggetto solo perché anzitutto il molteplice dell’intuire gli è fornito dalla sensibilità (mentre un intelletto divino, intuitivo, non avrebbe bisogno di categorie unificanti il sensibile, perché l’oggetto gli sarebbe dato di prima mano, già bello e pronto)36. D’altra parte, contro la tradizione empiristica di Locke e Hume che aveva parlato di una formazione dei contenuti d’esperienza anteriore alla loro combinazione
33 Cf. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), hrsg. von Friedhelm Nicolin und Otto Poeggeler, Band 33 della Philosophische Bibliothek, Meiner, Hamburg 19697, tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari 1989, pp. 52-53. 34 «Il concetto, che Kant ha stabilito nei giudizi sintetici a priori, – il concetto di un diverso che è insieme inseparabile, di un identico che è in se stesso una indivisa differenza, appartiene a ciò che v’ha di grande e d’immortale nella sua filosofia» (G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Gesammelte Werke, Hamburg, Meiner (in Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft – hrsg. von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften), voll. 11 (1978) e 12 (1981), tr. it. Scienza della logica, Bari, Laterza 19944, p. 225). «Appartiene alle vedute più profonde e giuste che si trovino nelle Critica della Ragione, che quell’unità, la quale costituisce l’essenza del concetto, sia stata conosciuta come l’unità originariamente sintetica dell’appercezione, come unità dell’Io penso, ossia della coscienza di sé. – Questa proposizione costituisce la cosiddetta deduzione trascendentale della categoria» (op. cit., p. 659). 35 Cf. G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen, oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivität in der Vollständigkeit ihrer Formen, als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, «Kritisches Journal der Philosophie», vol. II, 1 (1802), tr. it. Fede e sapere, in Id., Primi scritti critici, Mursia, Milano 1990, pp. 139-141. 36 «Poiché nessuna rappresentazione, tranne la sola intuizione, si riferisce immediatamente all’oggetto, così un concetto non si riferisce mai immediatamente ad un oggetto, ma a qualche altra rappresentazione di esso (sia essa intuizione o anche già concetto). Il giudizio dunque è la conoscenza mediata di un oggetto, e però la rappresentazione di una rappresentazione del medesimo» (I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 89).
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in giudizi, Kant insiste sul fatto che solo in quanto il contenuto è pensato dall’intelletto esso diviene un vero oggetto d’esperienza37. E pensare, come abbiamo sentito, è giudicare: «il giudizio non è altro che la maniera di ridurre conoscenze date all’unità oggettiva dell’appercezione», ed è quindi «un rapporto valido oggettivamente». Chi afferma: «i corpi sono pesanti», insiste Kant, non rapporta soltanto le proprie rappresentazioni soggettive, non intende affatto dire: «quando porto un corpo, sento un’impressione di peso». Egli intende dire: «esso, il corpo, è pesante»38. Hegel concorda pienamente con Kant su questo punto. Giocando sull’etimologia di «Urteil», egli presenta il giudizio come la divisione (Teil) originaria (Ur-) del concetto. Ma ciò naturalmente non vuol dire affatto che i costituenti dell’enunciato, che esprime il giudizio, siano presupposti a questo: al contrario, nella logica soggettiva – sia nella trattazione estesa della grande Logica che nella Enciclopedia – egli insiste sempre sul carattere oggettivo e non psicologico del concetto in quanto si pone come giudizio. Il § 167 dell’Enciclopedia, ad esempio, si oppone alla concezione per cui «il giudizio viene ordinariamente preso in senso soggettivo, come un’operazione e forma, che si trova solo nel pensiero consapevole di sé», ossia «come se io attribuissi a un soggetto un predicato». E Hegel, al pari di Kant, osserva che «a quel preteso senso meramente soggettivo del giudizio […] contraddice l’espressione del giudizio, che è invece oggettiva: «la rosa è rossa», «l’oro è metallo» ecc.: non sono già io che attribuisco ad essi qualche cosa»39. La grande Logica precisa queste osservazioni, riaffermando sulla scia di Kant la priorità del proposizionale. È solo quando si presuppone la significanza indipendente del soggetto e del predicato che si possono porre problemi quali quello dell’oggettività del giudizio, perché in questa considerazione isolata i costituenti del giudizio «non sono che determinazioni della rappresentazione»:
37 In Making It Explicit Brandom afferma: «La tradizione prekantiana assumeva per certo che l’ordine adeguato nella spiegazione semantica cominciasse con una dottrina dei concetti o termini, divisa in singolari e generali, il cui significato poteva essere colto indipendentemente dal, e prima del, significato dei giudizi. Riferendosi a questo livello basilare dell’interpretazione, una dottrina dei giudizi spiega quindi la combinazione dei concetti in giudizi, e come la correttezza dei giudizi risultanti dipenda da ciò che è combinato e da come lo è. […] Kant rifiuta ciò. Una delle sue basilari innovazioni è l’asserzione che l’unità fondamentale della coscienza e della conoscenza, il minimo coglibile, è il giudizio. […] Perciò per Kant qualunque discussione di contenuto deve cominciare con i contenuti dei giudizi, perché qualunque altra cosa ha contenuto solo nella misura in cui contribuisce al contenuto dei giudizi» (pp. 79-80). 38 Cf. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., pp. 115-116, corsivi miei. 39 Cf. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., p. 166. Ascoltiamo la stessa cosa, detta in termini wittgensteiniani: «Quando diciamo, e intendiamo, che le cose stanno così e così, con quello che intendiamo non ci fermiamo a un punto qualsiasi prima del fatto: bensì intendiamo dire che questa cosa così e così – sta – in questo modo così e così» (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 62).
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Secondo questa considerazione soggettiva soggetto e predicato vengon quindi considerati ciascuno come già dato per sé fuori dell’altro, il soggetto come un oggetto che sarebbe, anche se non avesse questo predicato, il predicato come una determinazione universale che sarebbe, quand’anche non convenisse a questo soggetto. Col giudicare è quindi connessa la riflessione, se questo o quel predicato che si ha in testa possa e debba essere apposto all’oggetto, che è là fuori per sé; il giudicare stesso consiste solo in ciò che solo per mezzo di esso viene unito un predicato col soggetto, in modo che, se questa unione non avesse luogo, il soggetto e il predicato rimarrebbero pur nondimeno ciascuno per sé quello che è, il primo un oggetto esistente, il secondo una rappresentazione nella nostra testa. – Il predicato, che viene apposto al soggetto, gli deve però anche convenire, vale a dire, dev’essere in sé e per sé identico con esso. Con questo significato dell’apporre vengon tolti daccapo il senso soggettivo del giudicare e l’indifferente sussistenza esteriore del soggetto e del predicato. Quest’azione è buona; la copula indica che il predicato appartiene all’essere del soggetto, e non gli vien soltanto unito esteriormente40.
E poco oltre, trattando dei diversi tipi di predicazione, Hegel avvisa che «quando a proposito del sussumere [scil. il significato del soggetto sotto quello del predicato] si pensa a una relazione estrinseca del soggetto e del predicato», ossia si pensa che il significato dei costituenti l’enunciato sia presupposto all’enunciato stesso, ciò accade perché si è ancora nella prospettiva del «sopraccennato giudicare soggettivo, dove si parte dallo star per sé di entrambi i termini»41. Ebbene: il principio del contesto, nel Frege dei Fondamenti, ha esattamente la stessa funzione anti-mentalistica o anti-psicologistica. Una delle ragioni per cui secondo Frege dobbiamo cercare il significato delle parole solo muovendo dal contesto dell’enunciato, è che altrimenti dovremmo assumere come significati delle parole le immagini mentali – e così facendo, violeremmo il primo canone dei Fondamenti: distinguere il logico dallo psicologico, dal soggettivo, che non hanno ruolo in semantica42. Ma il superamento del mentalismo, prima che dalla teoria freghiana del nesso proposizionale, era stato promosso dalla teoria kantiana del giudizio. Come per Kant «l’intelletto non può far altro uso [dei concetti] se non in quanto per mezzo di essi giudica», così per Frege non si può arrivare al concetto, che è il significato del termine predicativo, se non partendo dall’enunciato completo – ciò che nell’Ideografia aveva chiamato, per l’appunto, «contenuto giudicabile»:
G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 708. Op. cit., p. 712. 42 Dice Bonomi: «Si prendano i contesti in cui Frege enuncia le tre formulazioni del principio [scil. del contesto]. Ora in tutti e tre i casi, ciò che preme a Frege è differenziare nettamente il significato di un’espressione dalla «rappresentazione» psicologica che a essa si accompagna», (A. Bonomi [a cura di], La struttura logica del linguaggio, cit., p. 406). Sulla stessa linea A. Kenny, Frege. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2003, p. 57. 40 41
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Non credo […] che la formazione dei concetti possa essere anteriore al giudizio, perché ciò presuppone un’esistenza indipendente del concetto [l’«universale che sarebbe, quand’anche non convenisse al soggetto» di Hegel]: penso invece che il concetto è formato mediante analisi di un contenuto giudicabile43.
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Dunque, quest’inversione nell’ordine di spiegazione semantica in Kant e in Frege ha la medesima anima: in Kant, dobbiamo partire dai giudizi per arrivare ai concetti; in Frege, dobbiamo partire dall’enunciato per isolare il predicato – e cioè l’espressione che designa il concetto, significato insaturo – come il pattern che resta costante al variare dei termini che designano argomenti per quella funzione. Ma il motivo per cui dobbiamo così procedere, nel Frege che ha sviluppato la nozione di contenuto giudicabile dell’Ideografia distinguendo Sinn e Bedeutung, è che il Sinn del predicato, la cui Bedeutung è appunto il concetto, può essere compreso solo come un momento del Sinn dell’enunciato, perché il Sinn di quella Bedeutung è un momento semantico del pensiero che l’intero enunciato esprime. E perciò, solo invertendo l’ordine di spiegazione semantica possiamo trattare il contenuto proposizionale per ciò che esso è: l’unità dei suoi costituenti, e non la loro mera giustapposizione. Come Frege afferma in Concetto e oggetto: Non tutte le parti del pensiero possono essere conchiuse, ma almeno una deve in qualche modo essere insatura, ovvero predicativa, altrimenti le parti non si connetterebbero l’una con l’altra44.
Notiamo anche qui la prossimità della posizione di Hegel, nella sua teoria generale del giudizio, nella dottrina del concetto della grande Logica. Nonostante la trattazione del concetto («concetto» nel senso stretto della Sezione prima, coi suoi tre momenti di universalità, particolarità e individualità) preceda quella del giudizio, Hegel avvisa subito che solo il «giudizio è la determinatezza del concetto, posta nel concetto stesso». Sicché, la precedente considerazione delle determinazioni del concetto per sé «era piuttosto una riflessione soggettiva, ovvero una soggettiva astrazione»45: Il giudicare è pertanto […] il determinarsi del concetto per se stesso […] Il giudizio si può quindi chiamare la prima realizzazione del concetto, in quanto la realtà indica in generale l’entrare nell’esistere come un essere determinato. […] Il 43 G. Frege, Wissenschaftlicher Briefwechsel, a cura di G. Gabriel e H. Hermes, Meiner, Hamburg 1976, tr. it. parz. Alle origini della nuova logica, Boringhieri, Torino 1983, p. 135. 44 G. Frege, Concetto e oggetto, cit., p. 386. Le affermazioni un po’ immaginose di Frege sulla «saturazione» o «insaturazione» dei significati, come è stato notato (cf. il cap. IV di E. Picardi, La chimica dei concetti. Linguaggio, logica, psicologia 1879-1927, il Mulino, Bologna 1994) richiamano esplicitamente il linguaggio della chimica. Il concetto è come una molecola insatura, con una valenza libera, e quindi tende a combinarsi a qualcos’altro per formare il «tutto in sé conchiuso». 45 Cf. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 705.
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giudizio contiene dunque primieramente quei due per sé stanti, che si chiamano soggetto e predicato. Quel che sia ciascun di essi, non si può propriamente ancora dire; sono ancora indeterminati, perché devono esser determinati solo mediante il giudizio46.
Per quanto riguarda l’ulteriore determinazione del soggetto e del predicato si è fatto osservare che essi hanno propriamente da ottenere la determinazione loro soltanto nel giudizio47.
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Op. cit., pp. 705-706. Op. cit., p. 710.
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Perché una logica? Per la verità? Ma perché una verità logica? Perché la verità è logica, o perché la logica è vera? Queste domande hanno un torto evidente. Non che non debbano essere poste: debbono, anzi, e sono state effettivamente poste. In certa maniera, si potrebbe forse dire che la filosofia ha a che fare oggi proprio con la posizione di queste domande. È il caso però di dire: oggi, poiché la filosofia ha avuto invece a che fare, al suo inizio, con quelle domande a cui la risposta ha potuto appunto essere stata: che la verità è logica, e che il logos è vero. Ma, in realtà, quelle non erano domande. Quando Parmenide giunse al cospetto della Dea, all’incrocio in cui si separarono le strade del mito e della filosofia, non aveva domande, non era nella posizione di chi domanda. Ascoltò, piuttosto, un mythos, e apprese dalla Dea benigna il cuore immobile della ben rotonda verità, la cui legge logica si sarebbe imposta alla parola della filosofia – cioè del sapere dell’Occidente. La Dea chiese a Parmenide (fr. 7, v. 5) di «giudicare secondo il logos», e da allora la filosofia, scienza della verità, giudica secondo il logos. Giudica secondo il logos nel Sofista di Platone, e lo fa, nonostante il parricidio, per percorrere la via vera del pensiero parmenideo, non per abbandonarla. Per distendere la rivelazione parmenidea in un discorso, non per cancellarne la verità. Solo infatti se l’essere è articolato, solo se può dire il non essere nella forma del diverso, il logos può essere vero (e non falso). E la verità del logos consisterà appunto nel riprodurre nel giudizio l’articolazione dell’essere, le relazioni fra i generi dell’essere, separando e riunendo nel giudizio ciò che è separato o riunito nell’ente. Questa è poi la base della dottrina del giudizio così come la espone Aristotele, in stretto rapporto con il Sofista platonico: «Il vero è l’affermazione di ciò che è realmente congiunto e la negazione di ciò che è realmente diviso; il falso, è, invece, la contraddizione di questa affermazione e di questa negazione» (Metafisica, VI, 4, 1027b 20). Essere nel vero, spiega più avanti Aristotele (IX, 10, 1051b, 1 e ss.), consiste nel giudicare separate le cose che sono separate,
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e unite le cose unite. E, nel giudizio vero, le cose saranno unite perché sono unite in realtà, o separate perché sono separate in realtà. È infatti nell’ente e nei suoi significati che trova fondamento la verità dell’essere che si manifesta nel giudizio. Se il vero e il falso non sono nelle cose ma solo nel pensiero, se l’essere come vero consiste in «un’affezione della mente» (VI, 4, 1027b 27), cionondimeno l’essere, in quanto è, è vero, si manifesta cioè nella sua verità. La manifestazione dell’essere è la verità dell’essere, che è compito del logos raccogliere, dire e cioè articolare nel giudizio. Ma proprio perciò la verità dell’essere è più ampia del giudizio. Di questa maggiore ampiezza c’è naturalmente traccia tanto nel Sofista platonico quanto nella Metafisica di Aristotele. Nel Sofista, la comunione dei generi, la koinonía tôn genôn, deve comunque riservare all’essere uno statuto privilegiato rispetto agli altri generi, per i quali solo si dà contrario, a differenza dell’essere che non ha contrario (se non nel punto contraddittorio in cui viene posto per essere negato), ma ha lui solo la capacità di ospitare i contrari1. Nella Metafisica, invece, il farsi manifesto dell’essere che precede e rende possibile l’articolazione del giudizio è colto in un atto semplice, intuitivo, che è tanto poco un enunciare (phanai) nel senso dell’affermare qualcosa intorno a qualcosa (kataphasis) da potersi presentare come un puro toccare la cosa, un perfetto thiggein (Metafisica, IX, 10, 1051b 20 e ss.). Nell’uno e nell’altro caso, la verità dell’essere eccede il giudizio, e si manifesta quindi o nella contraddizione o nel silenzio. L’una e l’altro sono quindi costretti a sopportare l’onere di una certa, muta eloquenza: a mostrare, senza poter dire, una verità più ‘antica’ del logos. La verità più antica è però anche la verità più ‘moderna’: quella nel cui orizzonte si colloca il pensiero dopo Hegel. Con Hegel, la filosofia ha infatti scoperto quanto limitata fosse la regione del giudizio. Che il sillogismo dovesse divenire il luogo della verità non significava naturalmente che un solo giudizio non basta, dovendo essere collegato ad altri giudizi, ma che la mediazione in cui si compie la verità riguarda il lato del giudizio non più di quanto riguardi la cosa stessa, e che dunque la verità di Parmenide, la concorde identità di pensiero ed essere, non poteva lasciar sussistere la minima distanza. In tal modo, però, essa non trovava neanche, al suo culmine, più alcuna concorde misura. Hegel credeva ancora che in tal modo il logos della filosofia fosse condotto al suo inveramento, mentre invece veniva condotto al suo dissolvimento. La storia del logos fa precipitare il logos nella storia. In una storia più ampia del logos, in un accadere che quindi avrà bisogno, per essere pensato, di un pensiero più originario ma non più meramente concordante o corrispondente. In tutti i tentativi di Heidegger di pensare l’essenza della verità, sarà perciò costante l’idea di una costitutiva insufficienza della logica: l’idea che la filosofia debba lasciarsi catturare dal «vortice di un inter1 Questa capacità, questa dynamis, fornisce la definizione dell’ambito dell’essere in 247e 4, cioè prima che si avvii l’analisi della koinonía, possibile solo sul suo fondamento.
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rogare più originario»2, e dirigersi verso un’apertura più fondamentale che non può perciò non essere priva di determinatezza logica. Ma: e se «il rifiuto di una logica filosofica non [fosse] altro che il punto di approdo estremo della stessa logica del principio di non contraddizione»?3 La logica del principio di non contraddizione è quella logica in cui fu sigillata da Parmenide la verità dell’essere. Se ora il rifiuto della logica, il suo finale rinchiudersi nel silenzio o rendersi alla contraddizione (e l’una e l’altra cosa con opposti sentimenti: ora di reverenza ora invece di delusione, ora entusiasti ora invece tragici e dolenti), non foss’altro che una conseguenza di questa stessa logica, sarebbe forse aperta la via non già per rifiutare in generale il carattere originario, fondamentale e universale della logica filosofica, ma per limitare la portata logica di quella conseguenza. Orbene, questo è precisamente il primo, decisivo passo del lavoro filosofico di Tarca: dimostrare come la compagine logico-metafisica della filosofia sorga tutta intera dal principio di non contraddizione (dalla logica che da tal principio è governata), e ne dipenda fin nelle estreme propaggini nichilistiche del nostro tempo. Il passo successivo consisterà nel mostrare come, in generale, è proprio l’assunzione coerente del principio di non contraddizione a comportare il naufragio della filosofia, cioè di una comprensione universale della realtà. L’afasia del pensiero contemporaneo sarebbe dunque coerente con la logica profonda del principio. Questa dimostrazione può essere presentata brevemente nel modo seguente: se il principio di non contraddizione pone come condizione di sensatezza di qualunque proposizione logicamente ben formata la possibilità della vero-falsità, ossia la sua negabilità, allora delle due l’una: o è esso stesso negabile, al pari di ogni altra proposizione, e dunque non può valere come principio, oppure è innegabile e può valere come principio, a condizione però che tale principio non abbia portata davvero universale, non potendo valere per se stesso in ragione della sua propria innegabilità. Sia che l’innegabilità si riveli negabile, sia che la negabilità si riveli innegabile, il progetto di una logica philosophica universale (interale) sarebbe inficiato dalla contraddizione, o protetto solo a condizione di espungere l’autoriferimento. Il terzo e ultimo passo, che è oggetto del saggio di Tarca incluso in questo fascicolo, consisterà infine non nel rinunciare ad una comprensione logica universale della realtà, a motivo del naufragio, ma nell’approntare per essa una logica diversa dalla logica negativa della non contraddizione, che in particolare sia capace di costituirsi come un metadiscorso completo – cosa che, come s’è visto in breve, la logica della non contraddizione non è in grado di fare.
M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, (1929), La Nuova Italia, Firenze 1979, p. 26. L. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La città del Sole, Napoli 2001, p. 93. 2 3
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A tale scopo, occorrerà mostrare che se la logica formale è affètta da limiti costitutivi, ciò dipende solo ed esclusivamente dal suo carattere negativo (ossia dall’essere ogni formula ben formata esposta alla possibilità della sua negazione, vale a dire alla vero/falsità), e che è possibile (e quindi doverosa)4 una logica davvero universale, che trascenda il regime negativo degli enunciati. Al centro di questa proposta sta la dimostrazione che la negazione, il cuore della logica formale standard da cui si generano tutti i suoi paradossi, «è il risultato di un’operazione astrattiva di selezione». Perché però una simile logica sia davvero universale, occorrerà che anche l’operazione astrattiva di selezione la cui esplicitazione rende possibile la rappresentazione del senso concreto dell’enunciato, di là dal suo contenuto negativo, sia anch’essa detta enunciativamente. Tarca perciò scrive: «Per poter esprimere il senso (e in generale il metadiscorso) bisogna dunque che l’enunciato disponga di un modo del “dire” diverso da quello mediante il quale esso “dice” il proprio contenuto»5. Quest’affermazione pone però più di un problema: che cosa significa infatti che «bisogna che l’enunciato disponga», con quel che segue? Com’è possibile che l’enunciato dica allo stesso tempo in modi diversi? E perché occorre che tutto ciò che può essere inteso a partire da un certo enunciato appartenga attualmente al senso di quell’enunciato? E come è possibile dimostrare che ciò di cui c’è bisogno sia anche effettivamente dato con il contenuto ordinario dell’enunciato, dal momento che non rientra necessariamente negli atteggiamenti (o nelle presupposizioni) propri del parlante? Che cosa giustifica la tesi che ciò che viene esplicitato dall’analisi logico-semantica di un enunciato sia anche ciò che l’enunciato effettivamente dice, dal momento che nessuno lo dice? E se invece bisogna assumere che ‘qualcuno’ lo dice, ad esempio il logico in sede di analisi, cosa promuove questa sede logica a verità di quell’originario contesto pratico in cui l’enunciato è stato detto e ha funzionato senza bisogno di essere esplicitato (e senza bisogno di essere detto ‘interamente’, giacché forse non è necessario che tutto il senso di un enunciato sia un ‘enunciabile’)? D’altra parte, vi possono essere delle buone ragioni logiche per preferire il prodotto dell’analisi di un enunciato alla sua primitiva formulazione linguistica, ma come è possibile che queste ragioni giustifichino l’analisi logica stessa, se non a prezzo di una petizione di principio? Ancora: se fosse necessario che l’enunciato disponga di un diverso modo del dire, in cui trovi posto tutto ciò che nell’ordinario modo di dire non trova invece posto, non dovrebbe trovarvi posto anche questa stessa necessità, per evitare che essa sia detta in un discorso ulteriore? Ma anche la necessità di
4 La doverosità di questa possibilità non è argomentata nel saggio in questione, ma si può far riferimento a L. V. Tarca, Quattro variazioni sul tema negativo/positivo. Saggio di composizione filosofica, Ensemble ’900 editore, Treviso 2006, e in particolare alla Quarta variazione: «La pura legge dell’esistenza». 5 Cfr. L.V. Tarca, Logica philosophica. Per una logica interale, infra, p. 28.
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questa necessità dovrebbe allora essere rappresentata enunciativamente, se non si vuole che la fondazione sia astrattamente separata dal contenuto fondato, se cioè la fondazione deve essere autofondata. In questo modo, però il diverso dire dell’enunciato avrà necessariamente un contenuto infinito, la cui esplicitazione non potrà mai essere completata. L’aporia dell’esplicitazione totale sembra porsi anche con riguardo alla differenza tra la logica negativa e la logica puramente positiva, di cui la prima non è, nella reinterpretazione fornita da Tarca, che una porzione limitata (astratta). Questa differenza non può essere infatti intesa negativamente, per non essere catturata dal magnete della negazione. Anzi: poiché se non potesse essere intesa negativamente sarebbe pur sempre affètta dalla negazione, tale differenza può anche essere intesa negativamente (cioè astrattamente), ma può anche essere intesa diversamente. Come determinare ora positivamente questa diversa possibilità? Qualunque passo ulteriore nel senso della sua determinazione non potrà escludere che esso possa essere inteso negativamente (oppure potrà escluderlo?): bisognerà quindi che ogni volta, ad ogni passo, si ripresenti a titolo di mera possibilità la possibilità di intendere diversamente, cioè positivamente. Bisognerà cioè ribadire sempre nuovamente, ad infinitum, la diversità possibile (ed anzi, a ben vedere, neppure propriamente bisognerà, poiché questa necessità suona qui troppo forte ed esclusiva, e invece non può mai essere esclusa – ma ecco che la negazione si ripresenta – la possibilità che un tale intendere diversamente non si dia affatto). In breve, si può dire anche così, che la differenza positiva differisce positivamente dalla differenza negativa. Poiché però in nient’altro consiste la differenza positiva se non in questo positivo differire dalla differenza negativa (oppure consiste in altro?), e poiché il modo negativo di determinare questa differenza positiva deve essere posto qui fuori gioco, non si dirà di aver determinato positivamente questo positivo differire (senza riaprire di nuovo e ulteriormente la questione della sua determinatezza) se non a condizione di prestare alla logica e al suo dire un sostegno esterno: l’ausilio, prezioso ma purtroppo muto, dell’intuizione. Che cosa sia questa differenza positiva deve cioè mostrarsi da sé, dal momento che il dire che la concerne dice solamente che essa appunto consiste in nient’altro se non in questo suo positivo differire dalla differenza negativa. Lo stesso dicasi della necessità che qui si insinua, per cui la differenza positiva, per esser davvero tale, cioè positiva, per non consistere in un «nient’altro che» (o, di nuovo, può consistere in altro?), per essere quindi la determinazione che è, deve poter essere intesa anche negativamente, ossia non può non essere intesa anche negativamente. La necessità espressa in quel «deve» appena corsivizzato deve però essere distinta dalla necessità negativa (dal «non poter non», anch’esso corsivizzato), sotto pena di reintrodurre altrimenti il negativo nel cuore della logica philosophica: ma che dire ora di quest’ultimo dovere, di quest’ultimo corsivo? Non si apre anche qui un regresso ad infinitum?
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Il fatto è che la logica philosophica di Tarca consiste in generale in una reinterpretazione del senso logico dell’enunciato6 la quale è per definizione solamente possibile – e cioè: non escludente altre interpretazioni, e non escludente neppure che altre interpretazioni siano escluse, ivi compresa l’interpretazione escludente nei confronti dell’interpretazione positiva. Ciò significa che vi è una distanza fra «l’essere» (di un enunciato, come di qualsiasi altro fatto) e «l’essere inteso come» (di quell’enunciato, come di qualsiasi altro fatto). Quel che un enunciato dice può infatti essere inteso come risultato di un’operazione escludente, ma proprio perché può così essere inteso, può anche essere inteso diversamente. E anche a voler ora includere onnialeticamente nel senso di questo enunciato l’una e l’altra possibilità, questo è ancora un modo in cui l’enunciato può essere inteso: la distanza dall’enunciato del luogo in cui si colloca la sua interpretazione positiva non è diminuita, ed anzi rimane incolmabile (e perciò negativa) in linea di principio7. Questa distanza è in effetti quella in cui si colloca in generale l’interpretazione logica dell’essere dell’ente: poco importa se quella logica sia soltanto negativa o anche positiva¸ interale, nel senso definito da Tarca. L’«essere inteso come» compare peraltro fin dalle origini della filosofia, se con filosofia s’intende il giudizio logico sulla verità dell’ente. Paradigmaticamente, questo «come», e la distanza che comporta, compare proprio in quel libro della Metafisica di Aristotele in cui si pone il principio di non contraddizione a fondamento della scienza dell’ente come tale. Nell’ente come tale, dunque nell’ente colto nella sua determinata identità di ente, trova ancora fondamento la rivelazione parmenidea della verità identica (ancor prima che incontraddittoria) dell’essere: questa stessa rivelazione si continua anche nei postremi tentativi di rettifica e inveramento filosofico della logica, in cui viene sì in questione la non contraddittorietà, non però anche l’identità dell’ente, che ne è lo stabile, intrepido cuore. E la differenza che si scava fra l’identità e la non contraddittorietà, per cui l’identità della determinatezza non viene meno, anche se viene meno la negazione della determinatezza contraddittoria, restituisce maggiore spicco a quei luoghi liminari che l’annodarsi della sintassi logica aveva messo ai margini. Non potendo infatti essere intesa a partire dalla negazione della negazione, l’identità deve essere colta per dir così sul fatto, rifulgere immediatamente solo ed esclusivamente a partire da 6 Reinterpretazione condotta sino al punto da richiedere l’attribuzione di un valore di verità (la ‘werità’) differente dai valori di verità vero/falso, cui l’enunciato è ordinariamente connesso, per il fatto che è privo di contro-valore (non si dà ‘non-werità’). Come accade però che questa privazione non sia una negazione? Poiché questa interpretazione della negazione come mera privazione non è nuova nella storia della metafisica, ma anzi costituisce il suggello dell’onto-teologia della tradizione, non è forse ingiustificato il sospetto che la logica philosophica di Tarca finisca col mettere capo, volens nolens, a una sorta di prototypon trascendentale, per dirla con le parole di Kant che su di esso appuntò la sua critica. 7 Lo si può vedere anche così: la sede logica comporta una distanza fra il fatto (qualsiasi fatto) ed il principio su cui si fonda – a meno che ciò che vale per principio non sia solo un altro fatto. In tal caso, però, non ha nessuna ragione per valere come la verità di quel fatto.
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sé (mentre d’altra parte deve riuscire contraddittoria la pretesa di non opporla – non opporla soltanto – alla sua contraddizione). Proprio però l’ingiustificabile ma necessario (cioè provvidenziale) soccorso dell’intuizione, in forza della quale soltanto è possibile non semplicemente ragionare relativamente all’identità dell’ente, ma proprio porre assolutamente una siffatta identità, e per dir così porre lo stesso porre della logica e aprire in questo modo il suo spazio, arma il dubbio circa la genesi di questo stesso spazio. Bisogna quindi risalire indietro, fino al primo passo con il quale s’è proposto di interpretare l’attuale divorzio fra logica e filosofia – divisa tra le limitazioni che in ambito analitico, per i buoni rapporti con la logica formale, si accettano volentieri, e le contraddizioni che in ambito continentale, per i pessimi rapporti con la logica formale, apertamente ci si accolla – di interpretarlo come l’esito coerente e radicale della contraddittorietà fondamentale della logica della non contraddizione. Questo passo va riconsiderato non perché poco conseguente o francamente inesatto, ma casomai al contrario proprio perché esatto. Proprio perché non fa che reiterare l’interpretazione logica dell’ente che è qui in questione, e reiterare insieme anche la distanza dalla quale, in quanto interpretazione soltanto possibile, essa si colloca. Il dubbio infatti riguarda proprio le ragioni di quell’equivalenza, in forza della quale la considerazione filosofica della genesi dello spazio logico dell’identità dell’ente (il vortice dell’interrogazione più originaria, di cui per esempio parlava Heidegger) riesce, entro questo stesso spazio e per il fatto di volerlo revocare in questione, contraddittoria. Questa riuscita, per cui quella considerazione ripugna alla logica, si fonda su una sua rigorizzazione enunciativa8, che proprio perciò ne tradisce l’intenzione, trasferendola sul terreno della logica, e facendola in questo modo equivalere a un enunciato (o a una somma di enunciati) governato proprio dalla logica su cui è elevato il dubbio, e portata l’interrogazione. Si noti che qui non si sostiene affatto che questo trasferimento non sia possibile. Si sostiene invece che proprio questa possibilità, la sua fondatezza logica, rende la logica cieca verso la considerazione che ne interroga la genesi. Con l’aggravante che una simile possibilità, proprio perché fondata – come s’è visto – solo come possibilità, deve pur tuttavia lasciar sussistere accanto ad essa ciò rispetto a cui deve pur confessare la propria cecità. Questo luogo-accanto non può, dunque, essere negato. E non perché sia, come la negazione, innegabile, dal momento che negare la negazione significherebbe ancora essere risucchiati nella spirale del negativo: questo sarebbe infatti ancora un modo per definire logicamente questo luogo, prestandogli una fisionomia che necessariamente lo attiri verso uno dei due poli (negativo/ positivo) che definiscono il dominio della logica9. Questo luogo-accanto non 8 In questo modo mi sembra sia istituito il confronto con il pensiero contemporaneo nei capitoli quarto e quinto di L.V. Tarca, Differenza e negazione, cit. 9 La complicazione ulteriore per cui nella logica philosophica di Tarca i due poli non sono soltanto l’uno il negativo dell’altro, sotto pena di compromettere la positività del positivo, non
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può essere negato perché sta prima dell’istituzione della negazione. E sta prima della negazione (della sua polarizzazione negativa) perché sta prima anche della sua determinazione identica di luogo. Ma cosa vuol dire qui «prima»? Prima dell’identità, prima dello A = A non vi è che il puro e semplice A. Il quale non ha naturalmente alcun essere dicibile, se il dire è appannaggio dell’identità. Ora però, se è venuta in questione proprio la prerogativa dell’identità con cui l’ente si profila nell’ambito del dire, è chiaro che s’è già solo per questo insinuata quella distanza per cui l’essere (logicamente) dicibile dell’essere non è l’essere tout court, e la dicibilità è già un certo modo di intendere – e, appunto, di dire – l’essere. Questa distanza quasi impalpabile può essere mostrata anche solo considerando che se lo A prima di A = A, cioè l’essere prima della sua (logica) dicibilità, non è che una vuota astrazione, se tra A e A = A non vi è differenza alcuna, tuttavia una vuota astrazione non è pari a nulla. L’astratto è infatti pur sempre qualcosa: l’altro termine del concreto, come l’implicito lo è dell’esplicito. Ora, se pure il puro e semplice A è pari a nulla, dal momento che non si vede come e dove possa produrre una qualche differenza, lo è però solo a condizione che l’assenza di differenza sia pareggiata, fatta identica al nulla. Ma questa è per un verso una condizione solo logica, e cioè di nuovo la condizione con la quale si ribadisce (e ribadisce soltanto) che è in sede logica che si considera la cosa; per altro verso ne è la sua sottilissima trasgressione (sottilissima è per altro, come subito sotto diremo, il modo in cui appare in questa sede), poiché qui, dopotutto, deve pur esserci un fare: quel fare identico, quell’identi-ficare in forza del quale ciò che è annullato (l’astratto, l’implicito) è reso pari al nulla10. Col che però non s’è data risposta alla domanda? Cos’è quell’A, che sta prima di A = A? Cosa significa che sta prima? S’è visto in quale sottilissima maniera possa risiedere nello spazio logico dell’identità, ma questo non significa che non abbia alcuno spessore e che sia affatto privo di parole, fuori dal ne modifica la norma veramente fondamentale, ossia l’esigenza di pensare tanto il positivo quanto il negativo sotto il regime dell’identità, per cui tutto quel che si dirà del positivo lo si dirà perché il positivo sia appunto tale. In questo modo, peraltro, si ripropone daccapo l’aporia, già notata nel testo, generata da tutto ciò che è richiesto perché appunto il positivo sia tale (l’esigente congiuntivo qui corsivizzato contiene in nuce tutta la difficoltà). E dunque: pensare l’identità del puro positivo comporterà la necessità di distinguerlo dal negativo del negativo, e la necessità di distinguere questa necessità dalla necessità negativa, e quella distinzione dalla distinzione negativa. Ma nell’uno e nell’altro caso la distinzione o rinvierà all’infinito, oppure sarà arrestata dalla grazia ingiustificabile e priva di parole di un’intuizione. 10 Forse anche Tarca intende rinunciare a questa forza, perché il suo essere non è tale di contro al nulla – benché l’essere incondizionatamente tale, e cioè identico, non stia per lui senza l’imporsi di determinate condizioni, e sia perciò dotato comunque di una certa forza. Tarca ritiene che l’essere abbia un significato diverso dal significato negativo, ma ritiene anche che tale diversità possa essere ‘identificata’, il che a parer nostro riesce aporetico; altra cosa sarebbe invece se la diversità dell’essere rimanesse celata nell’indifferenza. Che la differenza sia in-differente, lo si direbbe allora nel duplice senso per cui non farebbe differenza rispetto all’identità e non si costituirebbe tuttavia come identica a sé, essendo appunto nella differenza.
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discorso, misterioso e ineffabile. Questo A è invece, ad esempio, il discorso genealogico, interessato a mostrare le operazioni costitutive dello spazio logico dell’identità: come queste affondino nel mythos o come vengano emergendo da regioni (materiali, ad esempio, corporee, sensibili, vissute) ancora prive di forma logica. Un simile logos vale come A solo perché non è semplicemente vero a norma della verità logica di cui intende circoscrivere il valore, ma non è per questo meno una possibile pratica della parola. È (logicamente) indicibile che vi siano altre modalità di discorso che si mantengano in rapporto con la verità, ma questo è piuttosto una difficoltà della logica, una sua costitutiva debolezza, che non una deficienza di quelle altre modalità. Le domande che abbiamo posto all’inizio interrogano proprio questa possibile alterità, e trovano la loro ragione nel fatto che la via di Parmenide, dell’identità di pensiero ed essere, è stata ormai percorsa fino in fondo, e non può più portare la filosofia oltre se stessa. Parmenide, osservavamo all’inizio, non proveniva dalla domanda circa la forma logica della verità, e proprio perciò poteva veder sorgere questa forma e lasciarsi condurre da essa. Oggi invece (ma è un ‘oggi’ esteso quanto la consapevolezza che lo abita) a condurci è proprio la domanda che Parmenide non poteva formulare. Che si provi a corrispondere a questa domanda per lo più nella forma di un esercizio critico e decostruttivo che porti allo scoperto quel che era prima della rivelazione della dea vale meno per il contenuto delle ‘storie’ che in questo modo vengono raccontate, e più per l’indicazione che la dimensione entro cui la filosofia viene invitata a inoltrarsi ha comunque la forma di un prima. Ma ora è proprio il senso di questa forma, non il suo contenuto, ad essere oggetto della domanda, poiché «prima» non può più essere una determinazione logica, e neppure, ovviamente, una determinazione cronologica, anche solo per la buona ragione che la successione cronologica è anch’essa scandita logicamente, secondo la regola per cui ciascuna determinazione di tempo ha una precisa ed univoca identità temporale. Cos’è allora prima? E come è possibile farne esperienza, se l’esperienza si declina, entro tutta la storia della filosofia, al presente? Si può dire che nessuna domanda che la filosofia abbia posto nel corso del ’900 ha potuto evitare di incrociarsi con tale questione. E in qualunque modo essa ha potuto essere istruita, o debba ancora esserlo, non è stato possibile farlo e non sarà possibile farlo se non a condizione di segnare, anzi di sentire i limiti del concetto e della forma logica riguardo al tempo. E forse, anche se non saranno più i semata, i segni raccolti dal logos logico di Parmenide (fr. 8, v. 2), l’intero, l’ingenito, l’imperituro a indicare ancora la via di una possibile esperienza dell’eterno, non ogni via sarà per questo perduta.
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Decostruzione del ‘logos’ Ernesto Forcellino Heidegger ha dichiarato esplicitamente l’assenza di ogni metalinguaggio […]. Questo non vuol dire che la lingua sia monologica o tautologica, ma che tocca sempre a una lingua richiamare l’apertura eterologica che le permette di parlare di un’altra cosa e di rivolgersi all’altro. J. Derrida
1. Più d’una lingua Questa breve riflessione prende avvio da una sorta di ‘parola d’ordine’, arrischiata da Derrida in due passaggi di differenti scritti, e incentrata su di una possibile e – superfluo rimarcarlo – paradossale, contraddittoria definizione dell’atto decostruttivo. Cosa è, infatti, ‘decostruzione’? a rigore, non avrebbe senso, nessun senso ultimativo, qualsiasi riposta. Quest’ultima dovendo infatti essa stessa, per dir così, decostruirsi in actu exercito, segnalare la propria cancellazione nel medesimo istante del suo inscriversi e scriversi1. Ma, invero, appare compromessa, e fin dall’inizio, la domanda medesima, se alla pratica decostruttiva appartiene precisamente la questione intorno all’origine e ai limiti dell’interrogativo intorno all’essere della cosa. Non si tratta d’una ‘cosa’, anzitutto, quando è chiamata in causa la decostruzione, se non piuttosto dell’inesausto differimento della sua presenza, e per ciò stesso, del differimento mai intermesso della risposta. Rispetto alla domanda, la pratica decostruttiva ne raddoppia, per così dire, le implicazioni, interrogandosi a propria volta su ciò che eccede lo spazio della questione, su ciò che resta sempre più di una questione. Palese dunque l’arrischio di questo gesto, e prevedibile il ricorso ad una definizione ambigua, plurivoca, mai del tutto risolvibile entro un’unica determinazione di significato. Peraltro, anzitutto, si pratica la decostruzione (senza per ciò stesso ipostatizzarne contraddittoriamente lo statuto), ed è in tale esercizio, come questo esercizio medesimo, che appare possibile lasciar affiorare, ponendole al contempo in questione, le strutture 1 «Toute phrase du type “la déconstruction es X” ou “la déconstruction n’es pas X” manque a priori de pertinence, disons qu’elle est au moins fausse», J. Derrida, Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, p. 392.
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sedimentate, le differenti stratificazioni che formano l’elemento discorsivo, la stessa ‘discorsività filosofica’ all’interno della quale si articola e determina il pensare come tale. Detto altrimenti: ne va qui del ‘logos’ medesimo – e dunque della appartenenza alla ‘tradizione’ della filosofia tout court – ossia della determinazione logica del dire/pensare e della legittimità e legalità interne alla sua cogenza veritativa. Ma – dopo questi giri di parole che non a caso denunciano il segno costitutivo dell’esitazione – veniamo alla frase di Derrida: Si j’avais à risquer, Dieu m’en garde, une seule définition de la déconstruction, brève, elliptique, économique comme un mot d’ordre, je dirais sans phrase: plus d’une langue2.
Più d’una lingua, dunque. Si tratta, come rileva lo stesso Derrida, d’una definizione ellittica, che non risolve più di quanto non complichi, prestandosi insomma, come si diceva (e non poteva essere altrimenti) alla propria stessa decostruzione. Le appartiene insomma anche una buona dose d’ironia, e tuttavia non è una definizione formulata incautamente, si segnala anzi con una urgenza affatto singolare, ed in ultimo lascia effettivamente intendere, nei suoi molteplici strati di significato, la posta in gioco di questa pratica, il carattere ‘spaesante’ del suo esercizio. Certo è una definizione in cui si evidenzia un arrischio – per le ragioni prima avanzate – ma al contempo vi si rivela uno spessore cui Derrida stesso non intende rinunciare, se ricorre ad essa ancora un’altra volta, e in un testo importante, non foss’altro perché incentrato sulla decostruzione di chi decostruisce, anzi, sulla decostruzione della lingua propria, sulla ‘autobiografia’ del linguaggio. Quanto alla decostruzione, si legge ne Le monolinguisme de l’autre, che la sua: seule définition jamais risquée, la seule formulation explicite fut un jour, il vaut mieux rappeler ici, «plus d’une langue»3.
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Ora, di là da ogni intento di fedeltà alla ‘lettera’ derridiana, proviamo a porre in questione questa formula, a scavare, per così dire, nei suoi differenti strati semantici. Più d’una lingua4. 1) Ad un primo livello di lettura questo può rinviare alla strutturale molteplicità dei linguaggi, alla trama sempre differente dei J. Derrida, Mémoires pour Paul de Man, Galilée, Paris 1988, p. 38. «Se mai dovessi arrischiare, e Dio me ne salvi, una sola definizione di decostruzione, ellittica, economica come una parola d’ordine, rinunciando alla frase, direi: più di una lingua», trad. it., J. Derrida, Memorie. Per Paul de Man, a cura di G. Borradori e V. Costa, Jaca Book, Milano 1995, p. 31. 3 J. Derrida, Le monolinguisme de l’autre ou la prothèse d’origine, Galilée, Paris 1997, p. 2 [Inseratum]. 4 Seguiremo ora una scansione proposta da J. Grondin (cfr. J. Grondin, la définition derridienne de la déconstruction, in ‘Archives de philosophie’, 62 [1999], pp. 5-16) modificandone tuttavia radicalmente contenuti ed esiti. 2
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discorsi, alla insufficienza d’una lingua unica cui necessita – entro la pratica decostruttiva – la continua contaminazione con l’altro, si tratti di altri registri di discorso, o di altri contesti linguistici. È la vocazione plurale, non ‘riduzionista’ che caratterizza la decostruzione, la sua apertura all’altro, appunto, la sua costitutiva ‘ospitalità’. Insieme vi traspare la messa in questione del registro univoco del discorso (il linguaggio della metafisica, ad esempio), in favore dell’assenza d’origine unica, o d’una originarietà che si tiene, per dir così, alle spalle dell’esercizio di scrittura, che la precede come lo sfondo sempre mancato e mancante, destinando per ciò stesso alla continua disseminazione dei ‘logoi’, degli invii della lettera. Ma se è così, allora l’interpretazione può affacciarsi verso un secondo livello di lettura, può forse toccare uno strato di senso più profondo. Più d’una lingua: questo può significare ora – sottolineando stavolta il carattere d’eccedenza celato nell’espressione – 2) la costituiva ‘finitezza’ del linguaggio, l’esperienza della sua indigenza, del suo fine mancato, appunto. Secondo un ‘topos’ che Derrida non ha smesso mai di frequentare, potremmo qui richiamarci alla difettività che attraversa ogni ‘voler dire’, ed insieme sottolineare il carattere per ciò stesso ‘autoritario’ e selettivo della lingua (che nondimeno riconsegnerebbe, con Hegel, alla superiore veracità del linguaggio). In tal senso la decostruzione si presenta come quel tentativo di scardinamento dell’ordine univoco ed ‘universalizzante’ del discorso – del linguaggio in quanto tale – per lasciar trascorrere e presagire tra le fibre della lingua, nei suoi strappi, l’alterità che non giunge alla parola. Ci muoviamo qui, allora, sul luogo della decostruzione della sintassi e della grammatica del linguaggio, dell’effetto di presenza che inevitabilmente si cristallizza nel detto e nella idealità dei significati. In luogo della sua imposizione, può allora intravedersi un altro luogo, l’alterità assente sottratta al ‘voler dire’ appunto: l’altro dal linguaggio (lo si chiami poi indicibile o illeggibile, oppure ‘Silenzio’… con tutti i rischi retorici che vi si annidano). Rispetto al primo senso dell’espressione – in cui s’installa la moltiplicazione delle lingue ed il favore della molteplicità, dacché una sola lingua ‘non è mai abbastanza’ – la seconda opera invece, per dir così, in senso ‘sottrattivo’. All’eccedenza dell’altro rispetto al linguaggio fa da riflesso la constatazione che finanche una sola lingua appare ora ‘di troppo’. Ma pure questa decifrazione non sembra del tutto soddisfacente: senza adeguate cautele e precisazioni, in effetti, essa si presta a molte obiezioni, non foss’altro perché un siffatto ‘altro’ dal linguaggio sembra conversare in maniera fin troppo evidente con quel che lo nomina ‘altro’, con il linguaggio stesso insomma che dice dell’altro, come un’ombra proiettata dal suo stesso esercizio, un suo ‘prodotto’, per ciò stesso condizionato da una movenza ‘identificante’: l’altro dal linguaggio è identificato in quanto altro e così dialetticamente risolto e annullato, come un fantasma retrospettivo. Ed allora proviamo di nuovo a leggere la definizione, cercando di toccarne uno strato ulteriore, e se possibile ancor più profondo. Più d’una lingua: potremmo segnalare questo terzo piano come quello in cui traluce 3) il non-detto ‘del’ e ‘nel’ dire. Forse quel che resta intrascrivibile (e, perciò stesso, inevitabil-
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mente trascritto e, meglio, inscritto). A questo strato di senso può essere attribuita l’oscillazione essenziale, il ‘contraccolpo’ che si produce fra la lingua e ciò che in essa ‘avviene’ nell’istante medesimo del suo accadere. Si tratta appunto dell’evento stesso della lingua, di ciò che in essa si sedimenta non già come determinazione e fissità del detto, ma piuttosto come quel che c’è già, fin dall’inizio – costitutivamente prima – rispetto all’articolazione definita dei significati. E questo perché, ancora con Derrida, «la parole dit toujours autre chose encore que ce qu’elle dit»5. 2. Dell’Altro
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Tutto ciò potrebbe dar luogo alla possibilità che nella lingua – non altrove che nella lingua – si nasconda, permanga in latenza, dell’altro che non si risolve nella (né si ‘identifica’ con la) lingua stessa, che rinvia ad altro, appunto, e che resta indisponibile e anzi continuamente si cancella nella tracciatura dei nomi6. Il che, però, non sembra chiudere del tutto i conti con l’altrove (con il «non-altrove-che…»), perché forse lascia in sospeso – mi sia consentito questo gioco di parole – l’essere-altrove di questo ‘non’. Soprattutto, il suo paradossale ‘essere-altrove’ rispetto ad ogni rovescio o declinazione negativa, rispetto al precipitato logico che ne disdice la differenza vincolandola alla forma – ‘logica’, appunto – della negazione. Se si vuole, può essere accostato, questo ‘non’, al senso della provenienza, al venire-da (ek) cui non corrisponde necessariamente alcun termine ‘relativo’, alcuna forma di correlazione. Non il nulla o l’assenza in quanto correlati, per negazione, della presenza e dell’essere, piuttosto il Non inderivabile cui si può alludere segnalando la sua ‘alterità’ rispetto ad ogni ‘negativo’ pensato a partire dal ‘positivo’ che nega.
J. Derrida, Mémoires pour Paul de Man, cit., p. 56. In un breve testo risalente al 1992 ma pubblicato per la prima volta nel numero speciale di Le Monde apparso in occasione della sua morte, Derrida rimarca ulteriormente, e con decisione, l’irriducibilità della decostruizione ad una sua remissione esclusiva entro l’orizzonte del linguaggio, come se non fosse proprio l’Altro, la presenza assente dell’Altro, a segnare per contro la provenienza e l’urgenza stessa del decostruire: «[…]sono sempre al contempo stupito ed irritato davanti all’assimilazione così frequente della decostruzione con – come dire? – un «omnilinguismo», un «panliguismo», un «pantestualismo». La decostruzione comincia dal contrario. Io ho cominciato con il contestare l’autorità della linguistica e del linguaggio e del logocentrismo. Dal momento che tutto è cominciato per me (e ha continuato a farlo) da una contestazione della referenza linguistica, dell’autorità del linguaggio, del «logocentrismo» – parola che ho ripetuto in maniera martellante – come è possibile che si accusi così spesso la decostruzione di essere un pensiero per il quale non c’è che linguaggio, non c’è che testo, in senso stretto, e nessuna realtà? È un controsenso incorreggibile, apparentemente»; J. Derrida, Qu’estce la déconstruction?, in ‘Le Monde’, 12/10/2004, p. III. 5 6
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Pura alterità del ‘Non’, allora, in quanto non accompagnato da altro7. Alterità che non è una ‘cosa’. Che è lo stesso ma insieme non-è lo stesso8. Verrebbe da affermare, al riguardo, che ‘oltre’ – al di là o al di qua di… – quel che è detto, non c’è nient’altro, salvo il fatto che proprio l’aggiunta di questo ‘niente-altro’ – ancora un gioco di parole, come a congetturare l’evento in cui si interpone insieme l’alterità di questo niente – finisca per segnalare una sporgenza, uno slittamento mai del tutto consumabile entro l’economia e la messa in atto dei discorsi. Provando a declinare la questione anche in altro modo, diremmo che la stessa impossibilità di significare che questa alterità non-è una ‘cosa’ non equivale, per ciò stesso e di necessità, all’affermazione che l’alterità medesima è dunque una ‘cosa’. Tale equiva- 100 lenza, infatti, potrebbe darsi solo a condizione d’aver già da sempre deciso e presupposto l’equivalenza intorno alla quale pure si tratterebbe di decidere. Allo stesso modo, se risulta contraddittorio per il pensiero riconoscere validità all’affermazione che c’è ‘qualcosa’ di non-pensato, da ciò tuttavia non segue necessariamente che ‘tutto è pensato’. Qui forse s’apre piuttosto lo spazio sfuggente dell’indecidibile, ed è proprio su questo piano che potrebbe entrare in gioco la suddetta ‘sporgenza’ del niente-Altro del e dal linguaggio, nel linguaggio. Questa alterità, ‘nella’ e ‘della’ lingua, fa atto di presenza
7 Ma, sotto questo profilo, occorrerebbe altresì comprendere come la stessa ipotesi di ‘assolutezza’ dell’alterità e della differenza vada sottratta al regime della pura e semplice opposizione. Essendo infatti l’alternativa fra una differenza e alterità relative o assolute essa per prima ‘relativa’, vale a dire governata dalla maniera stessa in cui la logica dell’identità – ossia proprio lo ‘schema’ che andrebbe per contro decostruito – tratteggia l’alternativa medesima e i termini della relazione. 8 Alterità che non è una ‘cosa’. Ossia ‘qualcosa’ che non sia riducibile, secondo necessità, ad una ‘cosa’, intendendo quest’ultima in base alla determinazione dell’identità: ‘qualcosa’ e questa cosa determinata, di cui dico ‘che è’ secondo la declinazione dei suoi predicati (l’enticità dell’ente). Il che non significa che si voglia qui contrapporle, ad esempio, la determinata determinatezza del ‘questo’, ossia l’irriducibile determinatezza della ‘cosa’ che sfugge per contro alle molteplici declinazioni dei significati (alla predicazione dei suoi attributi), ché anch’essa invero non si proietta altrimenti che come un’ombra riflessa dei significati medesimi, come il loro rovescio negativo, governato pertanto dalla medesima logica che ne guida l’apprensione. Già l’idea della pura singolarità di questa cosa presuppone insomma la sua assunzione entro lo schema ‘logico’ del dire/pensare, e ricade in una ben determinata ed identificata concettualizzazione dell’essere dell’ente. È qui pertanto rigettata l’idea stessa che possa presentarsi in un contenuto – un ‘significato’ – precedente il linguaggio (per esempio secondo il modo dell’intuizione già data e anticipatamente pensata). Non s’intende però neanche sostenere in queste pagine una sorta di ‘monologica’ autoreferenzialità del linguaggio, ma giusto il contrario: la sua finitezza, il suo dipendere, per così dire, da altro, senza che quest’altro assuma la figura d’un ente già da sempre determinato dal linguaggio stesso, dalla sua ‘grammatica’ e secondo la sua ‘logica’ (universalizzante e generalizzante), appunto. Nel che è insieme implicito, tuttavia, come anche l’affermazione stessa dell’altro non possa a propria volta comportare che oltre e al di là (o al di qua) del linguaggio si dia, appunto, un’altra cosa. Piuttosto, forse, ‘avviene’, si dà (sottolineando il carattere impersonale di tale accadere) la ‘differenza’ dell’evento stesso, non riducibile al dire pur essendo ciò a partire da cui e di cui il linguaggio, tuttavia, dice. Come un al di qua del dire e del segno che ‘indica’ provenienza e che, al suo fondo, non è tout court risolto nel segno, nel linguaggio.
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assentandosi, come se la parola dicesse sempre altro di là dal suo stesso ‘voler dire’, però senza alcuna disposizione proiettiva e intenzionale – mantenendosi anzi indifferente al ‘voler dire’ – e lo ‘dicesse’ altresì tacendo o disdicendo (ma anche negando, violando l’interdetto)9. Vi si segnala indubbiamente una ulteriorità, una sorta di nascosta plusvalenza del dire – dell’evento del dire – rispetto al detto, ma, al contempo, ciò lascia che si acutizzi la finitezza d’ogni discorso, e l’impotenza del linguaggio, già incontrata al secondo strato di lettura. Può rivelarsi, questa stessa impotenza – in cui forse resterebbe inscritto l’essere stesso del dire – non come l’Altro, bensì come l’unica traccia, l’unico ‘segno’ possibile dell’Altro nel dire? Ma in tal modo accade come se si producesse una sorta di disorientante mise en abîme: giacché l’Altro forse si adombra nel dire, ma in forma d’altro, dunque in forma di altro dall’Altro. Lasciando così intendere come l’alterità non sia solo dell’Altro rispetto alla ‘traccia’ – di cui non possiamo tuttavia neppure sapere se sia o non sia traccia dell’Altro – ma anche di quest’ultima (della traccia), e dunque dell’altro, rispetto alla propria stessa ‘immagine’ e ‘figura’, ossia rispetto alla sua (possibile) figura di traccia dell’Altro. È ciò che resta propriamente indeciso e – si può azzardare – indecidibile. Forse proprio questo resto d’indecisione, questo scarto dell’indecidibile, ‘può’ essere il luogo dal quale si traccia l’alterità, dove si taglia in due il dentro e il fuori nel loro precario equilibrio e punto d’incrocio. Sicché all’indecidibile non spetterebbe soltanto il luogo dell’abisso che si schiude fra gli estremi di questa oscillazione, ma piuttosto l’abisso ulteriore fra di essi e un’alterità tale da non esser più neppure il loro stesso altro. Si tratta dunque d’una alterità che pare duplicarsi, e poi ancora duplicarsi, in un labirinto le cui infinite 101 vie di fuga trapassano in vertigine. Ed inoltre, ciò finisce per consegnarci al paradosso d’un eccesso (più d’una lingua) al quale sembra d’essere vicini solo nel medesimo istante in cui la lingua, per così dire, si riduce e si sottrae, viene meno a sé. C’è dell’Altro nel dire che la lingua stessa non risolve (tuttavia, come è palese, occorrerebbe che in primis tale affermazione venisse ‘decostruita’). Però attraverso questo Altro sembra ora annunciarsi non già un’infinita promessa di disvelamento, non l’ermeneutica feconda inclinata verso una sempre più prossima intelligibilità, ma appunto la sua strutturale impotenza. Con Heidegger: la ‘Geworfenheit’, la gettatezza essenziale – o la ‘gravezza’ spaesante della sua stessa materia – che punteggia d’impossibilità ogni poter-essere significante, che denota un resto irriducibile e indisponibile. Una costi9 Questo rinvio ad altro del linguaggio, finisce così per ‘alterare’ anche la lingua propria. Si rivela insomma come ciò che fa anche della propria lingua – anzitutto della propria lingua – la lingua dell’altro, che viene dall’altro (il fondo dis-propriante del proprio). Sicché per ogni lingua si potrà sempre esser ‘richiamati’ alla revoca del suo possesso, alla ritrazione che ne intacca la trasparenza, e dire: «Sì, non ho che una lingua, e non è la mia», J. Derrida, Le monolinguisme de l’autre…, cit., p. 13 (trad. it. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro. O la protesi d’origine, a cura di G. Berto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 7).
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tutiva dipendenza (da altro). E questo fin dall’inizio – s’è detto – come una sorta di presupposto non-posto. Come il rinvio ad un ‘essere’ originariamente disidentificato, senza di sé – e senza parole10. Si rammenti che prima, nell’avanzare alcuni dubbi sulla seconda lettura della definizione derridiana, si sospettava una sorta di complicità previa fra il linguaggio e la supposta irriducibilità dell’Altro. È dall’interno del linguaggio, beninteso, che si riflette l’alterità dell’essere rispetto alla determinazione ‘identificante’ da cui è affetto ogni dire. Ossia: sempre stando nel linguaggio si scorge la differenza fra ‘logos’ dell’identico (Hegel, ancora) e ‘dis-identità’ dell’Altro. La differenza fra identità e differenza. Fra l’essere e la compromissione ‘ontica’ della parola che dice l’essere, per usare ancora il lessico di Heidegger. Ma ora proprio l’‘insistenza’ (Inständigkeit), lo stare-nel linguaggio e nel ‘logos’, si mostra tale da render tangibile questa sorta di oscillazione fra dentro e fuori (il ‘contraccolpo’ cui prima ci si richiamava), ossia la differenza fra declinazione ‘ontica’ ed identificante del dire/pensare e alterità dell’essere. Se torniamo a soffermarci su quanto già prima si osservava, risulta che l’alterità dell’essere resta comunque ‘relativa’ al dire dell’ente – è identificata all’interno del linguaggio – ed in questo ancora risolve e consuma la propria differenza. Ad esser chiamato in causa è qui pur sempre l’‘altro’ dell’essere, un altro detto dal linguaggio e dunque ‘dentro’ di esso. E tuttavia, lo ‘stare’ nel linguaggio – come l’essere gettato nella sua ‘situazione’, cui anche si faceva riferimento – sembra precedere la stessa forma diadica dell’altro e del medesimo. Vale a dire: sembra ‘esser-prima’ (è presupposto, appunto, ma presupposto ‘assoluto’) della stessa determinazione dell’‘altro’ e del ‘medesimo’. Inscritto nell’evento primario dell’esser-gettato – o, appunto, al modo dell’‘essere-in-situazione’ (Befindlichkeit: sentirsi-situato) – questo ‘stare’ marca per ciò stesso la propria costitutiva alterità da quel medesimo ‘altro’ detto e posto dal linguaggio, ossia ‘dentro’ la ‘logica’ e la grammatica 102 pre-costituita del dire. O a dir meglio: non è rubricabile né sotto la figura dell’altro né sotto la figura del medesimo, per tracciarsi piuttosto – nella sua non-posta presupposizione – come il ‘frammezzo’ (Zwischen) e l’avvenire, l’alterità essenziale ‘da cui’ è possibile – non meno che ‘impossibile’ – e l’altro e il medesimo. Ma tentiamo a questo punto un confronto più esplicito con la riflessione heideggeriana. Da quanto detto si può desumere che la ‘cosa’ del pensiero: die Sache des Denkens, non s’incontri altrove che sul luogo in cui l’eventualità dell’evento coincide con la sua revoca, col suo rifiuto, senza mai corrispondere all’ente presente del disvelato. È la ‘stazione dell’in-stante’: Augenblickstätte – il transito indiscernibile che sta fra eventualità dell’evento e disvelatezza, e che è appunto il puro ‘dispropriarsi’ della ritrazione (Enteignis, sempre secondo il vocabolario di Heidegger). Per un verso, allora, tale diniego è pur sempre ‘detto’ come istante fra eventualità dell’evento e disve10
E, si potrebbe aggiungere, senza promessa di parole dell’Altro, per l’Altro.
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latezza dell’appropriazione. È l’accadere stesso dell’evento appropriante. Ed infatti le espressioni ‘tautologiche’11 con le quali più volte Heidegger segnala questo accadere: «è presente l’esser-presente», «das Ereignis ereignet», sollecitando l’urgenza di un dire che sottragga terreno alla inevitabilità ‘categoriale’ della logica proposizionale dell’essere e dell’‘identico’, continuamente rammentano la piega indecidibile d’una siffatta differenza. Solo che, per altro verso, proprio in quanto ‘detto’ e proprio in quanto ‘in-pensiero’, l’istante della differenza si mostra pur sempre ‘dislocato’ rispetto all’evento (all’altro). Come disvelatezza – in altri termini – si profila al modo d’uno scarto ulteriore e quindi di una ‘dis-detta’ rispetto all’eventualità essenziale dell’evento (Wesung des Seyns), alla sua condizione e possibilità pura. In ‘figura’ d’altro, essa è già presa in una differenza strutturalmente differita. Cercando di violare l’orizzonte logico-grammaticale della forma proposizionale – mediante ciò che per essa non è che vuota tautologia – come in un controbalzo (Gegenschwung), nell’istante stesso in cui il dire differenzia, rimanda allo stesso (das Selbe – tautós), e nell’istante medesimo in cui – in revoca e sottrazione – retrocede sullo stesso, trascorre nella differenza (Unter-schied). È in questa sorta d’inavvertita oscillazione, o di ‘passaggio sospeso’ – in cui avviene (meglio: si essenzia – ‘west’) – la prassi stessa del dire, che la sua destinazione ‘logico-significante’ forse potrà incespicare, subire una ‘inapparente’ battuta d’arresto, sottraendosi ad ogni determinazione d’essere: perché ‘in sé’ non c’è, piuttosto nientifica e non ‘significa’ niente (accade, ma ‘non-è’ determinatamente questo – Accade come un ‘anonimo’ e ‘impersonale’ niente). Come quell’accadere che non è una ‘cosa’ eppure ‘c’è’, che non ‘identifica’ alcuna 103 differenza eppure differisce, fa differenza e differenzia in ragione, verrebbe da dire, del suo stesso in-differente esser-dato, del suo puro ‘che’ (Daß) e ‘che c’è’ (es gibt – il y a). 3. A è A? Certo, è qui reiterato il problema che nel dire/pensare l’Altro (e parimenti nel dire l’impossibilità di dire/pensare l’Altro) o dire/pensare la differenza in quanto differenza (la differenza pura, in un certo senso) così come nel dire la sua impossibilità d’esser detta/pensata, è già implicato, di fatto, il dire/pensare dell’identico e dell’identità. Ossia: l’esser-altro dell’Altro, dunque l’identità dell’Altro, così come l’identità con sé della differenza in quanto differenza. Ne discenderebbe che non c’è Altro né differenza, se non piuttosto il loro immediato tradursi nel ‘logos’ in cui essi stessi sono detti e pensati: come Altro, come differenza. Tuttavia, a tal riguardo va forse rilevato come il fatto
11 Ma che, rammentando le osservazioni di Derrida, consegnano insieme la lingua ad una possibile apertura ‘eterologica’.
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‘evidente’ (phaneròn) che l’Altro non si dia12 e che per fare segno di sé debba necessariamente esser detto/pensato nel linguaggio che lo dice, questo ‘fatto’, appunto, non è altrimenti detto che a partire dal ‘logos’ medesimo. Che l’altro e la differenza ‘siano’ come tali solo nel linguaggio in cui si dicono e l’Altro e la differenza, è insomma detto/pensato unicamente dal linguaggio stesso, e dunque entro quella medesima ‘logica’ che in tal modo – negando l’Altro e la differenza nell’identità – finisce solo per ribadire e per ciò stesso confermare se stessa, la sua ‘verità’. Solo che col negare l’Altro e la differenza, essa ne nega sì la figura immessa entro lo schema logico/significante, ma non annulla per ciò stesso e secondo rigida consequenzialità il problema dell’Altro e della differenza. Declinandosi secondo il modo della presenza, del far presente e render presente l’identità come verità del giudizio – secondo la sua espressione formale: A è A – diviene in ultimo esplicita, per così dire, la pregiudiziale retroflessione dell’atto sulla potenza, o la neutralizzazione della possibilità pura (il puro e semplice ‘A’) da parte della potenza ‘attuale’ esplicitata secondo la legalità logica dell’identico (A è A). Ma in tal modo è lo statuto stesso del vero e rivelarsi come dipendente dalla pro-posizione dell’identità, di modo che l’evento e pura possibilità di ‘A’ finisce per mostrarsi ‘veramente’ tale solo in conseguenza della sua posizione nel giudizio: A è A. Unicamente ponendo il presupposto secondo cui ‘A è A’, ed in cui ‘A’ è posto in presenza ed es-posto come essente presente, appare poi possibile affermare che comprendere A come A, assumerlo come A, corrisponda alla sua esplicazione ‘secondo verità’. 104 Verità è dire di A che è A, dunque la verità stessa risulta come tale fondata sul presupposto dell’identità. Dell’identità che dice l’esser presente (a sé) di A. Ma è possibile decostruire la proiezione ed il ‘necessario’ destino della presenza? Forse sì, ma a condizione che si comprenda come ciò che investe di senso e al contempo dona a tale destino il proprio stesso elemento, la sua stessa necessità – tracciandosi pertanto come il suo costitutivo ‘da pensare’ – sia al contempo quanto nella presenza medesima del presente non si presenta, o quel che nell’apparire di ciò che viene in presenza, differisce dal presente che appare. E sul luogo di questa ‘inter-dizione’ (Ver-sagung, ancora con Heidegger), o di questo evento sospeso, sarà forse possibile ‘congetturare’ (erdenken) anche una diversa declinazione del vero. Segnalo per ora la questione soltanto come indice di un cammino da percorrere: Tale differente declinazione della verità potrebbe situarsi, per così dire, al punto d’incrocio o nel ‘frammezzo’ che disdice la forza necessitante dell’identico, e tuttavia nel luogo stesso – e dove, altrimenti? – in cui l’identico si contrassegna, si de-signa e si dà in figura (in ‘A è A’, ad esempio). Sicché se in ‘A è A’ l’evento o il puro ‘Daß’, il puro ‘che/A’ è lasciato a sé, a fronte 12 Così come risulta vano segnalare l’impossibilità di nominare l’Altro, non foss’altro perché tale avvertimento comporta già da sempre la sua nominazione e, per la differenza, la sua identificazione.
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del ribadirsi della legge d’identità, potremmo allora provare a dire che – nel giudizio medesimo – ‘A’ (alterità che non è una cosa, si rammenti) è posto in condizione di non-identità e non equivalenza, o nella differenza rispetto alla propria stessa identità. Ed allora questa medesima differenza rinvia parimenti ad ‘A’ – ad Altro – ma, per così dire, dal suo diniego. Solo che questo non vuole semplicemente alludere al fatto che l’immagine significante, il segno attuato e signi-ficato di A in A è A, sia semplicemente differente da ‘A’, né che ‘A’, il puro ‘A’, mai non sia catturato dalla (sua) identificazione significante (dalla sua figurazione ‘logica’), ma anzi che proprio ‘A’, proprio il puro ‘che’ (di) ‘A’, nella designazione dell’identità resta inapparente, e così nella differenza rispetto a sé e con sé stesso. C’è, si dà ‘qualcosa’ nella determinazione che ne designa l’identità, ma tale determinazione non risolve ciò di cui è (forse) immagine e figura. È possibile che si diano al contempo l’identità – lo schema ‘logico’ di ‘A’ (ossia: ‘A è A’) – e A (il puro ‘che/A’), l’uno ripiegato sull’altro, l’uno riflesso sull’altro nella reciproca coappartenenza, essendo tuttavia al medesimo istante nella non-identità, nella differenza (nella loro relazione e ad un tempo senza relazione alcuna, senza-riflessione). Infine possiamo dire/pensare (e vedere) la determinazione logica di ‘A’, ma insieme comprendiamo (e sentiamo) come con essa non si dia ‘a vedere’ unicamente tale determinazione, così come c’è, si dà, il ‘che’, il puro Daß (‘A’), ma esso non-è ancora, mentre al contempo non-è più, ciò che noi diciamo/pensiamo (e vediamo) in figura, nell’immagine (logica) che ‘appare’. Fra ‘non-ancora’ e ‘non-più’, fra ‘essere’ e ‘non-essere’, niente, o un nien105 te, o chissà, il niente stesso, qui ‘avviene’ ritraendosi (il niente nell’essere e dell’essere). Si potrebbe allora affermare che è in vista di una ‘fenomenologia dell’inapparente’ che questo percorso intende muovere13. Dirà Heidegger nel suo ultimo seminario, tenuto a Zähringen (1973): «Così intesa la fenomenologia è una via che conduce dinanzi a…, e fa si che ciò dinanzi a cui arriva si mostri. Questa fenomenologia è una fenomenologia dell’inapparente (Phänomenologie des Unscheinbaren)». M. Heidegger, Seminare, Klostermann, Frankfurt am Main 1977, p. 137 (trad. it. Seminari, a cura di F. Volpi e M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 179). È possibile intendere questo essere ‘inapparente’ non già secondo un’accezione privativa, ma piuttosto – di là da ogni determinazione ‘negativa’ e ‘positiva’ – come la modalità stessa del suo evento, il suo proprio tratto manifestativo, scorgendone in tal modo la paradossale ‘fenomenicità’. Su questo ‘essere’ non farebbe presa la determinazione dei significati e, lasciato al fondo – (Ab-)Grund – di ogni dire, vi corrisponderebbe il modo della possibilità: possibile non più e non meno che impossibile, e impossibile perché possibile, possibile perché impossibile. E ancora: il rinvio all’inapparente rispetto all’apparire (e nell’apparire, lasciando risuonare nell’inapparente una duplice accezione: relativa al luogo dell’apparire e al simultaneo ‘velarsi’ di questo medesimo luogo) pone dunque in questione il fatto che si debba affermare – secondo necessità – che nell’apparire di ciò che appare, appare anche l’apparire medesimo, e ciò secondo la medesima forma – e nella ‘identità’ – di ciò che appare. O, di nuovo secondo la logica dell’enunciazione: se pure si limitasse il problema di ciò che precede la forma dell’enunciazione unicamente ad un contesto pre-enunciativo, come tale già disposto linguisticamente (e logicamente) e dunque nel logos necessariamente inverato, si sarebbe per ciò stesso destituita la questione dell’altro di ogni problematicità? Permane qui pur sempre il sospetto che anche in quest’ottica operi un esercizio retrospettivo, in forza del quale si finisce per proiettare surrettiziamente sull’altro 13
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Al fondo del dire/pensare, al fondo del vedere, sembra così permanere dell’altro, come un altro luogo o una traccia situata al punto cieco dello sguardo (e dove, letteralmente, non c’è niente da vedere). A questo luogo indecidibile potrebbe appartenere il darsi altrimenti, o ‘l’altrimenti stesso’, della verità. In tal modo, la determinazione stessa dell’identità (ancora: ‘A è A’) – che è tradizionale legge del vero – si presta ad esser decostruita, smarrisce la sua stessa ‘proposizione’ di fondamento. Non è dunque a partire dall’identità che la dimensione differenziale di questo ‘niente’ – o di ciò che prima è anche stato definito puro ‘che’ – Daß – avviene, ma costitutivamente ‘prima’: l’evento o il puro e semplice ‘A’ prima di ‘A è A’ e ciò, beninteso, in base ad una antecedenza sottratta al vincolo cronologico del ‘prima’ e del ‘poi’. E tuttavia l’avvenire stesso di questa pura antecedenza neppure potrà essere assunto a partire dalla differenza. Rispetto all’evento iniziale di questo prima (‘A’), il passaggio – possibile non meno e non più che impossibile – all’identità con sé (‘A è A’), oscilla piuttosto nel frammezzo inapparente del puro differire, 106 che per ciò stesso sembra restare in sé in-differente. Indifferente all’identità e alla differenza, ma al contempo – e in maniera essenziale – non-identico all’identità. Ma altresì non-identico alla differenza, se quest’ultima continua ad essere intesa in base alla fermezza ‘logica’ dell’identità con sé, e come differenza fra identità differenti. Né a partire dall’identità, né a partire dalla differenza. Da niente – ma con infinite cautele – verrebbe allora da dire: ex nihilo. Questo scarto o frammezzo è forse congetturabile come il luogo stesso della ‘différance’, assecondando il gioco ‘inaudito’ secondo cui essa non si traccia che nel significare identificante (A è A), e tuttavia in sé – e ‘a partire da sé’ – non fa segno, non significa niente (il significare essendo, appunto, il proprium dell’identità ‘avvenuta’, in atto). Non significa niente neanche la differenza stessa, dunque. Allo stesso modo in cui si è soliti dire – d’un evento ritenuto, alla lettera, ‘insignificante’ – che con esso non accade propriamente niente, un niente avviene in questo stacco, un irriducibile passaggio ‘sospeso’, si diceva prima, in cui, forse, trascorre e insieme ritira il suo passo la ‘materia’ stessa del pensiero (e così la differenza fra essere e pensiero). Come un ‘niente’, ancora, cui corrisponde solo il suo subitaneo ‘essenziarsi’ (Wesung, con Heidegger), passare e trascolorare: cioè davvero una tonalità, davvero il ‘colore’ o la Stimmung latente del logos, della ‘logica’ stessa, obliata eppur nascostamente ‘situata’ nella stessa formalizzazione logica della negazione.
stesso il profilo identificante articolato secondo la nostra esperienza logico-linguistica dell’altro (e dunque dell’identico). Resterebbe al riguardo ancor sempre da chiedersi in ragione di quale ‘legge’ intrinseca del vero, di quale ‘fondamento’, si debba necessariamente assumere che è linguaggio – logos – o già da sempre disposto verso di esso, tutto ciò che traduciamo in linguaggio e decliniamo pertanto secondo i dettami della sua logica. Sicché, per tornare all’esempio formale che ha accompagnato queste riflessioni: pur volendo ammettere che ‘A’, il puro e semplice ‘A’, si traduce in ‘A è A’, resta il fatto che ciò non implica, di necessità, che dunque la verità di ‘A’ è ‘A è A’, che dunque ‘A è A’.
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E forse, ancora, con i suoi vuoti, le sue interruzioni, il suo collocarsi fra gli interstizi e gli ‘accidenti’ inavvertiti del discorso, la decostruzione è presa nella pratica che ripete e che ‘abita’ in maniera affatto spiazzante questa ‘situazione’, ove quel che è presente nella lingua rinvia al ‘che’ dell’essere, all’alterità dell’evento che accade al modo dell’assenza, ma d’una assenza che tuttavia può differire da ogni costellazione relazionale. Non la ‘cosa’ resa oggetto dalla parola e fatta oggetto di parola, di scrittura; non la ‘cosa’ che in tal modo è posta e «sta di contro a…», ma anzi l’evento pre-positivo di questo stesso porre, la situazione o l’esser-gettato di questo ‘stare’ in presenza e che – fuori da ogni successione cronologica e da ogni determinazione ‘relativa’ – avvenendo ‘prima’, differisce dall’esser-presente. Su questo luogo sfuggente ed utopico è possibile che s’intreccino i tre fili della trama che siamo andati brevemente percorrendo, se anche l’appello ‘disseminale’ alla pluralità delle lingue e della decostruzione potrebbe infine ritrovarsi presso il luogo comune della (in)differenza, entro lo spazio in cui la decostruzione stessa si misura con la propria possibilità in quanto impossibile, e nella ‘con-divisa’ distanza dall’Altro. Distanza dalla indisponibile verità dell’essere, privo di qualsiasi pienezza, e che paradossalmente non ha essere né verità, è sottratto ad ogni potenza d’origine, ancor sempre infondato. Tale luogo sarebbe ciò a partire da cui è possibile e/o impossibile che vi sia 107 evento (l’evento del linguaggio, l’evento dell’altro: l’altro in quanto evento): l’avvenire dell’evento, che tuttavia non può essere pensato sotto una qualche categoria, neppure sotto la semantica e la categoria data di evento. Per ciò stesso tale luogo non può coniugarsi in oggetto, in una rappresentazione o sotto il governo d’un ordine, fosse pure quello dell’evento, o dell’identità con sé dell’avvenire. Quanto a questo luogo e a questa provenienza dell’eventualità essenziale o dell’‘essenziarsi’ (Wesung), certo non può esser detto ‘cosa sia’, dal momento che la questione stessa del ‘che-cosa-è’ attiene ad un ambito, quello dell’ontologia, il quale è piuttosto esso medesimo preceduto dalla eventualità essenziale dell’essere, dalla differenza ‘essenziantesi’ nel silenzioso appello dell’Altro. È dunque possibile fare esperienza di una figura affatto singolare: essa si sfigura nell’istante medesimo del proprio prender figura, non è ancora linguaggio né parola, né segno, non ricade nella disponibilità d’un soggetto agente (non attiene all’ambito già attuato dell’umano). Non s’inscrive nello spazio della presenza, né in quello dell’assenza, articolandosi al di là d’ogni logica binaria, oppositiva o dialettica. Ci si richiama allora ad un ‘luogo’ che, come tale, varrebbe per esser l’indizio d’una possibile apertura la quale tuttavia non dischiude nulla più di quanto al contempo non sigilli in diniego. Non schiude a nulla più di quanto non receda in nulla. Reiterando la distanza dell’alterità. Quella medesima distanza che, tuttavia, sembrerebbe ostinatamente esigere un supplemento d’argomentazione, ancora un’ultima parola, e più – o ‘meno’ – d’una lingua.
LETTURE
Il «sogno» di Socrate nel Teeteto: problemi, aporie, possibili soluzioni* Franco Ferrari
1. Le difficoltà che l’interprete del Teeteto deve affrontare sembrano in 109 un certo senso raggiungere il loro culmine nella sezione finale del dialogo in cui viene discussa la terza definizione di episteme, secondo la quale la conoscenza (o sapere) è «opinione vera accompagnata da ragione (o definizione)» (alethes doxa meta logou)1. È noto che all’interno di questa sezione si trova la famosa dottrina del «sogno» che presenta problemi formidabili, sia per quanto riguarda la paternità, sia sotto l’aspetto del significato e della consistenza filosofica, sia infine per quanto concerne il grado di adesione ad essa che si può attribuire a Platone. Come spesso accade nei dialoghi, anche a proposito della concezione del sogno non è affatto facile definire con precisione la posizione di Platone. È vero che Socrate confuta questa dottrina; tuttavia, come alcuni studiosi hanno osservato, gli strumenti adottati in questa confutazione non appaiono sempre adeguati dal punto di vista teorico. Spesso la confutazione assume i tipici caratteri dell’argomento ad hominem, e proprio per questa ragione conserva una validità parziale e in ogni caso non può veramente venire universalizzata. Più di una volta Socrate sembra addirittura ricorrere a vere e proprie fallacie logiche, di cui Platone è certamente consapevole. Inoltre, alcuni passaggi della dimostrazione di Socrate si servono di concezioni che Platone difficilmente potrebbe condividere, o, per converso, rifiutano posizioni che sembrerebbe invece del tutto naturale considerare «platoniche». Si pensi, per fare un esempio, alla mancata distinzione tra la nozione
* Testo presentato al Colloquio internazionale sul Teeteto di Platone tenutosi a Lisbona nell’ottobre 2003. La versione portoghese è stata pubblicata con il titolo O «sonho» de Sócrates: problemas, aporias, possíveis soluções nel volume degli atti del colloquio: J. Trindade Santos (ed.), Do Saber ao Conhecimento. Estudos sobre o Teeteto, Centro de Filosofia de Universidade de Lisboa, Lisboa 2005, pp. 103-110. 1 Tht. 201 C-D. La parte di testo dedicata alla discussione di questa definizione si estende fino a 210 B.
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110 di «tutto» (pan) come somma delle parti, e quella di «intero» (holon) come totalità formale, irriducibile alla somma delle parti costitutive. Come ha mostrato recentemente Bruno Centrone, Platone dimostra altrove di essere ben consapevole di questa distinzione, ma nel Teeteto non sembra avvalersi di tale consapevolezza2. Si tenga infine presente che né all’interno della presentazione della dottrina del sogno, né nel corso della discussione che segue, Platone fa esplicito riferimento alle forme intelligibili. Tuttavia, sia nel primo che nel secondo contesto, non mancano allusioni, neppure troppo velate, ad esse. È probabile che l’esito aporetico del dialogo (e quindi anche della terza definizione di episteme) sia da mettere in relazione proprio alla mancata introduzione, o meglio al mancato utilizzo, delle idee. Senza forme intelligibili – entità stabili, auto-identiche e unitarie – la conoscenza non può attuarsi e ogni tentativo di definirla è destinato inevitabilmente al naufragio3. D’altra parte, secondo una procedura ermeneutica abbastanza diffusa nei dialoghi, Platone non rinuncia ad accennare a possibili vie di soluzioni, ad alludere a teoremi che potrebbero risolvere le difficoltà in questione, a sbarrare esplicitamente la strada a determinate concezioni, ai suoi occhi inaccettabili4. Scopo di questo contributo è appunto quello di fare un po’ di chiarezza intorno alle tesi filosofiche più significative e consistenti che possono venire ragionevolmente ricavate da una lettura spregiudicata (ma non per questo arbitraria) del «sogno» di Socrate. 2. Il contesto è noto. Socrate «corre in soccorso» (boethein) a una strana dottrina che Teeteto ricorda in modo vago e generico. Sulla base di questa dottrina la conoscenza (episteme) non è altro che «opinione vera accompagnata da ragione»5. Il sogno rappresenta lo strumento del soccorso operato 111 da Socrate. Lo schema presenta significative analogie con situazioni simili
2 B. Centrone, Il concetto di «holon» nella confutazione della dottrina del sogno (Theaet. 201d8-206e12) e i suoi riflessi nella dottrina aristotelica della definizione, in G. Casertano (a cura di), Il Teeteto di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2002, pp. 139-55, spec. 143 ss. 3 Questa mi sembra l’interpretazione corretta del dialogo nel suo complesso: senza le idee, evocate solo attraverso vaghi accenni ma mai introdotte in forma diretta, non è possibile definire l’evento conoscitivo. Rimando al classico studio di F.M.D. Cornford, Plato’s Theory of Knowledge, Routledge and Kegan Paul, London 1935. Sulla medesima linea cfr. H.F. Cherniss, The Philosophical Economy of the Theory of Ideas, ora in R.E. Allen (ed.), Studies in Plato’s Metaphysics, Routledge and Kegan Paul, London 1965, pp. 1-12, spec. 6-7. 4 Cfr. M. Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone. Esercizi di avviamento al pensiero filosofico, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 1991, e C.H. Kahn, Plato and the Socratic Dialogue. The Philosophical Use of a Literary Form, Cambridge University Press, Cambridge 1996. 5 Traduco provvisoriamente logos con «ragione», che è anche la traduzione più diffusa: G. Casertano, Le definizioni socratiche di episteme, in Id. (a cura), Il Teeteto di Platone…, cit., pp. 87-117, spec. 110 ss. Nella parte finale del dialogo, a partire da 206 C, Socrate presenta tre differenti sensi in cui si può intendere il vocabolo nel contesto della dottrina del sogno. Cfr. sotto § 4.
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incontrate nella prima parte del dialogo (si pensi alla prima definizione di conoscenza come aisthesis, sensazione, chiarita e approfondita attraverso il ricorso alla dottrina segreta di Protagora sul divenire universale). Il nucleo della teoria del sogno è in estrema sintesi il seguente. Gli elementi primi (ta prota stoicheia) sono inconoscibili (agnosta), in quanto privi di logos, vale a dire non soggetti a definizione, discorso proposizionale, o quantomeno predicativo. I nessi (syllabai), prodotti dall’unione di questi elementi, risultano, invece, conoscibili, in quanto intorno ad essi si può produrre una definizione proposizionale, o almeno un intreccio di nomi (symploke onomaton), ciascuno dei quali dovrebbe corrispondere a uno degli elementi costitutivi dell’intero. La conoscenza come «opinione vera accompagnata da ragione» si riferisce perciò ai composti, mentre delle realtà primarie non si può avere conoscenza in senso proprio. Secondo la dottrina del sogno gli elementi primari sono solo nominabili, in possesso cioè di un nome, e percepibili (aistheta). Dal punto di vista epistemologico, questa teoria sembra delineare una concezione asimmetrica della conoscenza: gli elementi sono inconoscibili, i composti formati da essi sono invece conoscibili. Esattamente questa asimmetria viene smontata dalla confutazione condotta da Socrate: se il composto equivale alla somma delle sue parti costitutive, se cioè l’intero (holon) e il tutto (pan) risultano tra loro identici, e si riducono sostanzialmente alla sommatoria delle parti (ta panta), allora all’intero deve spettare il medesimo statuto di conoscibilità o di inconoscibilità che spetta agli elementi. Se, viceversa, il composto non è la somma delle parti costitutive, ma rappresenta un unico eidos, che deriva dagli elementi che lo costituiscono (ex ekeinon hen ti gegonos eidos), ed è in possesso di una «forma peculiare» (mia idea), che lo rende diverso dagli elementi» (heteron de ton stoicheion)6, allora questo composto non può avere parti, visto che il possesso di parti equivarrebbe, per un composto, a identificarsi con la loro somma. Tuttavia, se è privo di parti, il composto non sarà in realtà più tale, cioè «composto», bensì qualcosa di molto simile a un elemento, e come tale anch’esso «inconoscibile» (205 E). In entrambi i casi, cioè sia nell’ipotesi dell’equivalenza tra l’intero e le sue parti costitutive sia nell’ipotesi che l’intero risulti irriducibile ai suoi componenti, la confutazione di Socrate mira a spezzare l’asimmetria epistemologica e a ripristinare una stretta simmetria. Vale tuttavia la pena chiedersi se un’epistemologia così strettamente simmetrica corrisponda veramente al punto di vista di Platone. Si direbbe di 112 no, almeno se si prende a modello l’epistemologia che emerge dalla versione standard della teoria delle idee. In tale ambito, viene postulata una sorta di asimmetria epistemica tra i partecipanti, che possono risultare solo oggetto di opinione (doxa) ma non di conoscenza (episteme), e le idee, di cui i parteci6 Tht. 203 E. Cfr. su questo passo il commento ad locum di T. Chappel, Reading Plato’s ‘Theaetetus’, Academia Verlag, Sankt Augustin 2004, p. 219.
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panti sono in qualche modo «costituiti», sia pure non nel senso elementaristico del termine. Le idee sono perfettamente conoscibili (pantelos gnosta), probabilmente per mezzo di una proposizione definitoria (il famoso logos tes ousias), mentre i particolari che di esse partecipano risultano solo «opinabili» (doxasta). Come si vede, l’epistemologia platonica sembra articolarsi secondo uno schema asimmetrico, in cui la condizione di conoscibilità (ossia la perfetta trasparenza epistemica) non è immediatamente trasferibile dai principi (le idee) ai principiati (i particolari)7. Il fatto è che, per dirla con le parole di Aristotele, le idee platoniche sono principi (archai) delle cose non in quanto «elementi» (stoicheia), bensì in quanto «generi», vale a dire non in senso materiale (kata hylen), bensì formale (kata eidos)8. Rimane comunque assodato che senza ricorrere alla concezione delle idee un modello asimmetrico della conoscenza, come quello postulato implicitamente (e poi criticato) da Socrate nel Teeteto, non sembra davvero proponibile. 3. Un altro problema importante implicato nella dottrina del sogno concerne la natura ontologica delle entità che sono chiamate in causa. Gli individui ontologici di cui parla il sogno sono o troppo «austeri», troppo «monistici» (gli elementi), oppure troppo «generosi», troppo articolati (i composti)9. Nel primo caso, questi individui sono così austeri che nulla intorno ad essi si può dire: l’essere, il questo, il sé, il ciascuno, sono tutte determinazioni che non possono aggiungersi agli elementi, pena l’introduzione dell’alterità e lo smarrimento della loro assoluta ipseità (202 A-B). Nel secondo caso, l’eccessiva articolazione dei composti, i quali finiscono per identificarsi con la somma delle parti, comporta l’assenza di un principio di unità-identità che ne preservi l’ipseità ontologica: ogni ente si identifica con la somma delle sue parti- predicati, vale a dire con gli attributi che lo definiscono. Gli elementi (austeri e monistici) del sogno presentano molte analogie 113 con l’«uno che è uno» della prima ipotesi del Parmenide10. A differenza di quest’ultimo (che, oltre che inconoscibile, risulta anche indefinibile, non percepibile e neppure opinabile), gli stoicheia del Teeteto sono percepibili e nominabili; in entrambi i casi, comunque, Platone sembra alludere ai problemi e alle aporie che conseguono a un monismo predicazionale radicale, un
7 Ho discusso in maniera più approfondita questi temi nei due saggi contenuti nel IV volume dell’opera Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 2000: Teoria delle idee e ontologia, pp. 365-91 e Conoscenza e opinione: il filosofo e la città, pp. 393-419. 8 Arist. Metaph. III 3. 998b8-11. 9 Ricavo la distinzione tra individui austeri e individui generosi da M.M. McCabe, Plato’s Individuals, Princeton University Press, Princeton 1994, pp. 97 ss. e passim. 10 Prm. 137 C-142 A. Cfr. F. Ferrari, Platone, ‘Parmenide’, introduzione, traduzione e note, Bur, Milano 2004, spec. p. 262 nota 110.
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monismo per il quale una determinata entità è solo ciò che è e nient’altro11. Un’entità di questo tipo non può venire conosciuta, definita, delimitata e differenziata dalle altre. Nel sogno di Socrate essa può almeno venire nominata e percepita, mentre nella deduzione di Parmenide non possiede onoma e non può essere oggetto di aisthesis. D’altro lato, un composto di elementi che si riduce alla somma delle sue parti costitutive risulta privo di un principio di identità e di unità (per l’ontologia platonica auto on, essere identico, e hen on, essere uno, sono nozioni sostanzialmente equivalenti). Esso finisce per assomigliare a un insieme di predicati (le sue parti costitutive), senza riuscire ad essere «qualcosa» (hen ti), vale a dire un’entità dotata di una qualche forma di unità. Sembra a questo punto inevitabile porsi il seguente interrogativo: esiste una terza via tra il singolarismo assoluto (troppo austero) e la molteplicità priva di unità (eccessivamente generosa)? In altre parole: esiste un’unità ontologica che sia costituita di parti (predicati, attributi), ma che non si esaurisca completamente in esse? Nella sezione conclusiva del Teeteto questa terza possibilità, sebbene non venga veramente presentata in modo diretto, è ventilata da Socrate con una certa enfasi. Si tratta dell’ipotesi relativa all’esistenza di un certo insieme, pensato come una totalità prodotta dagli elementi, ma non identica ad essi, cioè non riconducibile in toto ad essi: ex ekeinon hen ti gegonos eidos, idean mian auto hautou echon, heteron de ton stoicheion. Questa totalità risulterebbe composta da elementi (ex ekeinon), ma contemporaneamente sarebbe anche diversa da questi elementi costitutivi (heteron ton stoicheion), perché in possesso di un’unica forma (idean mian echon), cioè di una regola formale di composizione che la rende irriducibile ai suoi elementi compositivi. L’identità ontologica di una realtà di questo genere non viene data dalla composizione delle sue parti costitutive, bensì dalla struttura che regola la relazione formale tra queste parti. L’identità dunque non è prodotta dalla composizione degli elementi (identity as composition), ma dalla struttura formale nella quale questi elementi vengono articolati (identity as structure)12. Si tratta di una posizione tutt’altro che eccentrica rispetto al nucleo dell’on- 114 tologia e della logica di Platone. Per rendersene conto basterebbe pensare allo statuto logico-ontologico delle idee, così come sembra emergere dalle discussioni contenute soprattutto nei cosiddetti dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista e Filebo). Almeno a partire dal Parmenide Platone sembra infatti valutare la consistenza dell’ipotesi in base alla quale ogni forma intelligibile
11 Sulla nozione di predicational monism rimando al bel libro di P. Curd, The Legacy of armenides. Eleatic Monism and later Presocratic Thought, Princeton University Press, P Princeton 1998. 12 Sulla differenza tra identity as composition e identity as structure è fondamentale la monografia di V. Harte, Plato on Parts and Wholes. The Metaphysics of Structure, Clarendon Press, Oxford 2002.
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permane unitaria e ontologicamente stabile, pur presentando al proprio interno una struttura articolata, connessa al principio della partecipazione intra- eidetica. In verità, un simile approccio non è affatto estraneo ai dialoghi precedenti al Parmenide (come dimostra l’accenno alla partecipazione o comunanza reciproca delle idee contenuto in Resp. 5. 476 A); non c’è dubbio, tuttavia, che il motivo della partecipazione delle idee e i problemi ad esso collegati (primo fra tutti la questione del rapporto tra identità ontologica e molteplicità predicativa) acquistano una rilevanza centrale, almeno nell’opera scritta, solo a partire da un certo momento. Del resto, Aristotele sembra alludere a questo ordine di problemi quando si chiede per quale ragione l’uomo, la cui definizione comprende «animale» e «bipede», debba essere un’unità e non una molteplicità13. Egli sembra rivolgersi proprio a Platone (e ai Platonici) quando si domanda «che cosa è, allora, che rende l’uomo un’unità, e per quale ragione egli è un’unità e non una molteplicità, per esempio animale e bipede, soprattutto se esistono, come affermano alcuni [i Platonici], un animale in sé e un bipede in sé? Perché dunque l’uomo non è queste due cose?»14. Il sogno di Socrate lascia dunque aperta la possibilità di individuare un tipo di entità che sia, dal punto di vista ontologico, «omogenea» (monoeides), «semplice» (asyntheton) e «indivisibile» (ameriston), ma contemporaneamente, dal punto di vista logico-predicativo, anche articolata, vale a dire «composta» di parti che ne costituiscano la struttura predicativa. Si tratta, insomma, di pensare all’intero come a un individuo complesso che sia composto di parti, senza però collassare in esse. Solo in questo modo l’intero (to holon) sarebbe un vero e proprio individuo metafisico, e non una semplice collezione di parti. È appena il caso di ricordare che la risposta aristotelica a questo genere di problemi consiste nel richiamo alla teoria della sostanza (ousia) come forma (eidos). La sostanza, intesa come forma individuale, fa sì che un composto non sia semplicemente un mucchio (soros), ma una totalità organizzata, sul model115 lo della sillaba; la forma, ossia la norma funzionale che regola la composizione degli elementi, rappresenta la causa per cui una certa materia è disposta in un modo determinato, ad esempio le lettere A e B formano la sillaba BA, o il fuoco e la terra formano la carne. Questo qualcosa non è un altro elemento, ma la causa per cui questa data cosa è carne o sillaba: si tratta naturalmente della sostanza che è infatti «causa prima dell’essere» (aition proton tou einai)15. 4. Prima di affrontare la questione centrale dell’intero dialogo, vale a dire il tema della «conoscenza» (episteme), è il caso di tornare brevemente sul rapporto tra unità e molteplicità nella costituzione logico-ontologica degli enti. Si 13 Arist. Metaph. VII 12. 1037b11-14. Cfr. il commento ad locum di M. Frede - G. Patzig, Il libro Z della ‘Metafisica’ di Aristotele, trad. it. Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 374 ss. 14 Arist. Met. VIII 6. 1045a14-20. 15 Arist. Met. VII 17. 1041b11-27. Fondamentale il commento di M. Frede - G. Patzig, op. cit., pp. 468 ss.
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tratta di uno dei temi più scottanti dell’intera filosofia platonica. Nella prima parte del Filebo Socrate spiega che la compresenza di unità e molteplicità nelle cose sensibili può essere considerata alla stregua di un truismo, ossia di una banalità intorno alla quale non può sorgere disaccordo. Il contrasto nasce invece quando si prendono in esame le forme intelligibili. Esse sono senz’altro «monadi» o «enadi», cioè realtà unitarie e incomposte, come deve risultare dalla loro stessa natura ontologica. Tuttavia possono presentare al loro interno un’articolazione di tipo numerico che le rende in qualche modo molteplici16. Senza volere scomodare la famosa e misteriosa teoria dei «numeri ideali», di cui parla Aristotele nei suoi resoconti sulle cosiddette «dottrine non scritte» di Platone, mi sembra che la contemporanea unità e molteplicità di ciascuna forma intelligibile possa benissimo essere interpretata alla luce della struttura della diairesi di generi e specie spesso evocata nei dialoghi tardi (Fedro, Sofista, Politico), e più in generale alla luce della questione del rapporto tra unità ontologica e molteplicità predicativa. L’idea di uomo, come si è visto, appartiene al genere animale e alla specie bipede; di qui la definizione di uomo come «animale bipede». Naturalmente il sistema classificatorio può dare conto delle definizioni di realtà naturali, ma non di idee-valori, come ad esempio la giustizia, che infatti presenta una definizione particolare. Veniamo finalmente alla questione della conoscenza. Nella dottrina del sogno la conoscenza sembra pensata quasi unicamente come un fatto di natura discorsiva, se non proprio definitoria. Gli elementi primi sono inconoscibili perché di essi non si può predicare nulla, trattandosi di entità incomposte. La possibilità di parlare intorno a qualcosa, vale a dire di predicare di esso un qualsiasi carattere (la struttura del legein ti kata tinos, per usare una celebre formula aristotelica), è incompatibile con la totale austerità ontologica degli elementi. La conoscenza di qualcosa sembra infatti identificarsi con la capacità di fornirne un logos, vale a dire, di enumerarne o passarne in rassegna gli elementi (he dia stoicheiou diexodos), oppure di coglierne la differenza 116 specifica (diaphora)17. Si tratta, in ogni caso, di una conoscenza che ha a che fare con una struttura proposizionale e predicativa, quando non addirittura definitoria. Un sapere pre-o-non-proposizionale, connesso alla dimensione della visione diretta o del «contatto», non sembra davvero trovare spazio nel ragionamento di Socrate18. È noto, tuttavia, che nei dialoghi si trovano passi in cui Platone sembra descrivere la conoscenza delle idee come se si trattasse di un evento intuitivo,
Plat. Phil. 14 C-18 D. Cfr. V. Harte, op. cit., pp. 177 ss. Thet. 207 C e 208 E. Sul significato di questa nozione di logos (e di quella esposta in 206 D) cfr. K. Dorter, Form and Good in Plato’s Eleatic Dialogues, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1994, pp. 113-18 e A.M. Ioppolo, Platone, ‘Teeteto’, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. LXIII ss. 18 Lo studioso che negli ultimi anni ha invece posto l’accento sul carattere immediato e non proposizionale del sapere in Platone è F.J. Gonzalez, Nonpropositional Knowledge in Plato, «Apeiron» 20 (1998) pp. 235-84. 16 17
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immediato, diretto, non riconducibile alla forma della proposizione definitoria. In generale, ritengo che le allusioni a esperienze immediate di contatto o visione diretta delle idee, indubbiamente presenti nei dialoghi, costituiscano metafore e immagini con le quali Platone intende indicare la fine del processo conoscitivo, il punto terminale di un lungo percorso dialettico, il telos immanente (e non trascendente) delle procedure confutatorie (elenchos), definizionali (logos tes ousias) e fondazionali (logon didonai) nelle quali si articola la dialettica19. Ma volendo conciliare le due prospettive, quella intuizionistico-immediatistica (in base alla quale la conoscenza delle idee è simile a un contatto o a una visione diretti) e quella definizionale (per la quale il sapere intorno alle idee ha a che fare con la capacità di fornire sia la definizione essenziale, il logos tes ousias, sia il rendiconto fondazionale, cioè il logon didonai), si può osservare che la compresenza di queste prospettive si spiega in riferimento alla natura stessa delle forme, che è insieme metafisica e logica. Dal punto di vista metafisico, ogni idea è un individuo primo e assoluto, semplice, incomposto e indivisibile; in questo senso, è oggetto di un contatto immediato e intuitivo. Viceversa, dal punto di vista logico, l’idea è anche quell’entità che esprime paradigmaticamente il senso (Sinn), cioè la descrizione, di un determinato predicato, con il quale essa si identifica. Mentre singoli particolari del tipo a, b, c, possono essere F (cioè aF, bF, cF), senza tuttavia identificarsi con il senso del predicato F, l’idea di F (F-in sé) è l’unica entità che con F si iden117 tifica del tutto, vale a dire che esaurisce senza resti il senso del predicato20. Ma evidentemente il «senso» di F può venire restituito da una descrizione, cioè da qualcosa di molto simile a una definizione proposizionale. Quanto appena detto dovrebbe spiegare, in una prospettiva conciliatoria, per quale ragione Platone alluda alla conoscenza delle forme intelligibili sia in termini intuitivi e immediati (l’idea come individuo ontologico primo e irriducibile), sia in termini proposizionali (l’idea come portatore trasparente del senso di un predicato). 5. Le considerazioni or ora svolte non devono tuttavia farci dimenticare che delle idee nel Teeteto (e in particolare nella dottrina del sogno) non si parla esplicitamente. Esse potrebbero agire sullo sfondo di certi argomenti, venire forse evocate in forma allusiva in altri; ma non vengono mai direttamente chiamate in causa. E questa assenza è il probabile motivo dell’esito aporetico con cui si conclude l’esame della teoria del sogno e con esso l’intero dialogo.
19 Ho recentemente tentato di dimostrare la natura procedurale e operazionale della dialettica (la quale non si distingue dalla noetica) nel saggio L’infallibilità del logos: la natura del sapere noetico in Platone (a partire dalla «linea»), «Elenchos» 27 (2006) pp. 425-40. 20 Cfr. F. Ferrari, Questioni eidetiche, «Elenchos» 24 (2003) pp. 93-113, spec. 105 ss., e M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Torino 2003, pp. 150-63.
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L’aporeticità non deve tuttavia scoraggiare l’interprete del nostro dialogo. Allusioni e accenni a «vie d’uscita» che conducano dall’aporia all’euporia probabilmente non mancano all’interno del sogno e della discussione che segue. Ho cercato in questa sede di individuarne qualcuno. Sulla base di quanto detto, si possono allora proporre alcune considerazioni di ordine generale relative alla posizione di Platone, così come essa emerge, in forma diretta o indiretta, dagli argomenti del sogno. Una conoscenza che si esaurisca nella semplice ripetizione di un nome non è una vera e propria conoscenza. La conoscenza, per risultare tale, deve includere un momento di natura proposizionale (e fondazionale: logos significa sia definizione che ragione), deve cioè dire di qualcosa (l’oggetto della conoscenza) qualcosa che sia diverso dal semplice nome. Ciò significa che la conoscenza deve rivolgersi a entità in qualche modo «complesse», o comunque dotate di relazioni intrinseche con altre entità. Questa complessità non deve tuttavia essere tale da determinare lo smarrimento dell’unità e dell’auto-identità dell’oggetto conosciuto. La conoscenza deve dunque rivolgersi a entità che sono sì complesse, ma non tali da risultare identiche alla somma delle loro parti, vale a dire non tali da esaurirsi in queste parti costitutive. Si deve dunque trattare di entità che sono insieme unitarie e semplici (dal punto di vista ontologico), e complesse e strutturate (dal punto di vista logico-predicativo). La nozione di identità ontologica che sta alle spalle di questa posizione ha, dunque, a che fare con la struttura piuttosto che con la composizione. Come si vede queste possibili «vie d’uscita» alle aporie del sogno vennero effettivamente esperite da Platone in quei dialoghi che sembrano una sorta di prosecuzione del Teeteto: il Parmenide, il Sofista, il Filebo e proba- 118 bilmente anche il Timeo21. Questo non significa, però, che tutte le aporie del Teeteto conoscano una soluzione nella filosofia di Platone. E neppure che le soluzioni qui ventilate si debbano considerare definitive. Mi pare tuttavia che anche l’esito aporetico del Teeteto, così come quello dei cosiddetti dialoghi socratici, vada considerato come un elemento di una strategia filosofico- comunicazionale complessiva, la quale ha per scopo la costruzione di un sapere oggettivo, universale e utile all’uomo e alla città22.
Rimando ancora al volume di V. Harte, op. cit., pp. 129 ss. Questo saggio, insieme ad altri già pubblicati o in corso di pubblicazione, propone i risultati ancora provvisori di una ricerca sul Teeteto destinata a culminare nella nuova traduzione commentata del dialogo per la collana «Classici Greci e Latini» della casa editrice Bur. 21 22
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Anno 2007 | Volume XLVI | Fascicoli 1-2
Fascicolo 1: Il Dio dei filosofi? Saggi C. SINI, Il Dio dei filosofi; M. CACCIARI, Imago Dei; P. CODA, La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino; A. FABRIS, Fiat voluntas tua; C. COVINO, La grazia del messia; V. VITIELLO, Religione e nichilismo. Letture F. P. ADORNO, All’origine dell’archeologia. Foucault di fronte alla fenomenologia. Fascicolo 2: Logiche della filosofia Saggi L. V. TARCA, Logica philosophica. Per una logica interale; V. VITIELLO, Verità Contraddizione Riduzione; F. BERTO, Kant, Hegel, Frege e la priorità del proposizionale; M. ADINOLFI, Non ogni via è perduta: dall’identità all’indifferenza; E. FORCELLINO, Decostruzione del ‘logos’. Letture F. FERRARI, Il «sogno» di Socrate nel Teeteto: problemi, aporie, possibili soluzioni.
ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-61-2 Inschibboleth edizioni - Roma www.inschibbolethedizioni.com