Il Pensiero, XLV, 1-2, 2006
 9788885716605, 8885716601

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Il Pensiero rivista di filosofia Anno 2006 | Volume XLV | Fascicoli 1-2

Del Tempo * Unamuno - Zambrano - Celan Massimo Adinolfi Massimo Cacciari Giuseppe Cacciatore Bernhard Casper Enrico Cerasi Pedro Cerezo Galán Pina De Luca Félix Duque Federico Italiano Bruno Minozzi Juan M. Navarro Cordón Francesco Tomatis Eugenio Trías Vincenzo Vitiello

Il Pensiero

rivista di filosofia Riedizione 2016 in occasione dei 60 anni della rivista. Comitati e direzioni attuali Rivista diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi. Comitato scientifico internazionale: Massimo Cacciari, Félix Duque, Jean-François Kervégan, Thomas Rentsch, Volker Rühle, Carlo Sini, Hans Vorländer. Direzione scientifica: Piero Coda, Florinda Cambria, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Enrica Lisciani-Petrini, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Luigi Vero Tarca. Redazione: Alessandro Apruzzese, Michele Capasso, Ernesto Forcellino, Giulio Goria, Davide Grossi, Lucilla Guidi, Chiara Maggese, Anna Parente, Giacomo Petrarca, Filippo Silva. Anno 2006 | Volume XLV | Fascicoli 1-2 Comitati e direzioni nel 2006 Direzione scientifica: Massimo Adinolfi, Massimo Cacciari, Piero Coda, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Félix Duque, Enrica Lisciani-Petrini, Luigi Vero Tarca. Segreteria di redazione: Domenico Grimaldi. © 2006, Eredità Lugarini. Editore: Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli. © 2017 - riedizione, Vincenzo Vitiello. Editore: Edizioni Inschibboleth - Roma. Il numero riportato sul margine esterno del testo corrisponde al numero di pagina dell’edizione originale. ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-60-5 Registrazione: Tribunale di Rieti, n. 3/2015; precedente registrazione: Tribunale di Rieti, n. 2/1978. Deposito legale: febbraio 2017. Proprietario della testata: Vincenzo Vitiello. Editore: Inschibboleth società cooperativa - Roma. Direttore responsabile: Francesco Cundari. Curatore della riedizione in occasione dei 60 anni della rivista: Giuseppe Pintus. Impaginazione: Inschibboleth società cooperativa. Sede della pubblicazione: Rieti. Indirizzo per la corrispondenza: Inschibboleth società cooperativa, Via G. Macchi 94, 00133, Roma Italia, e-mail: [email protected], [email protected], web: www.inschibbolethedizioni.com. La riedizione è stata resa possibile grazie al contributo di:

Si ringraziano gli studenti del Liceo Classico Azuni e del Liceo Scientifico Marconi di Sassari per la collaborazione nella revisione dei testi.

Il Pensiero

rivista di filosofia Anno 2006 | Volume XLV

INDICE

Anno 2006 | Volume XLV | Fascicolo 1 Del Tempo

Presentazione

p. 11

Saggi Massimo Cacciari, La morte del tempo

» 15

Bernhard Casper, Tempo e tempo messianico. Per una ­dimensione » 23 fondamentale dell’accadere religioso Vincenzo Vitiello, Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza » 35 cristiana del tempo Félix Duque, Il tempo del desiderio

» 45

Massimo Adinolfi, Del tempo. Una passione senza misura

» 57

Ricerche Francesco Tomatis, Inizio e parola di Dio

» 77

Enrico Cerasi, L’umanità di Israele. Note sulla teologia della s­ toria di Karl Barth » 85 Problemi e discussioni Bruno Minozzi, La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò »

101

6



Indice

Anno 2006 | Volume XLV | Fascicolo 2 Unamuno - Zambrano - Celan »

115

Vincenzo Vitiello, Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno. «No me mueve, mi Dios, para quererte el cielo que me tienes prometido» »

119

Pedro Cerezo Galán, Il vuoto e la parola. Il nichilismo e l’esperienza della parola in Miguel de Unamuno »

133

Juan Manuel Navarro Cordón, Unamuno e il problema della metafisica. Del sentimiento trágico come Critica »

159

Félix Duque, Dio davanti agli occhi. Il Sacro nascosto

»

181

Eugenio Trías, Poetizzare il sacro. Un dialogo con il pensiero di María Zambrano »

193

Giuseppe Cacciatore, María Zambrano: Ragione poetica e storia »

205

Pina De Luca, Un canto di frontiera

»

219

»

231

Al lettore Saggi

Letture Federico Italiano, Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

Il Pensiero

rivista di filosofia Anno 2006 | Volume XLV | Fascicolo I

Del Tempo

Premio di Filosofia Viaggio a Siracusa Sezione Riviste Filosofiche

Presentazione

Posto che la filosofia abbia «compiti», quale il compito suo riguardo al tempo? Basta descriverne la fenomenologia, mostrando e spiegando i diversi modi in cui esso si articola nelle diverse forme dell’attività umana, e nelle diverse culture, o non deve interrogarsi sulla necessità della sua articolazione interna, e sull’origine di tale articolazione? È sufficiente – è solo un esempio – distinguere apocalittica, messianesimo ed escatologia in base al diverso ruolo che giuocano passato, presente e futuro? O non si resta, in tal modo, sulla soglia della filosofia, incapaci di porre le domande essenziali? Ma v’è scelta tra fenomenologia e genealogia? La descrizione del ‘fatto’ non conduce inevitabilmente alla domanda sul Grund, sul fondamento e ragione del fatto? Che poi si risponda, e si possa rispondere, è altra questione. Diversamente da quanto anche grandi filosofi hanno sostenuto – un nome solo tra tutti: Wittgenstein –, riteniamo la domanda ‘misura’ del pensiero, non la risposta. Tra queste domande, v’è quella relativa al rapporto tra «tempo e linguaggio»: cosa comporta dire il tempo per il tempo stesso? Riflettendo su tempo e narrazione, Thomas Mann osservava che mentre in musica v’è un unico tempo, quello «reale» che essa riempie (erfüllt), svolgendolo e variandolo, nel racconto, invece, i tempi son due, quello reale che esso ‘occupa’, narrando, e quello che racconta, il tempo narrato. Questi due raramente coincidono. «Un pezzo di musica intitolato “Valzer di cinque minuti” dura cinque minuti – in questo e in nient’altro consiste il suo rapporto col tempo. Un racconto invece, il cui contenuto abbracciasse un periodo di cinque minuti, potrebbe durare mille volte tanto in virtù d’una straordinaria coscienziosità nel riempire questi cinque minuti» (Der Zauberberg, Fischer, Frankfurt/M. 1996, pp. 741-742). C’è da chiedersi se ai due tempi del narrare e all’unico tempo della musica non soggiaccia altro tempo: il tempo vuoto che musica e narrazione ‘riempiono’. Senza questo tempo ‘vuoto’ – che precede le scansioni del suo riempi-

4

12

5

Presentazione

mento: passato, presente, futuro – non si darebbe né l’unico tempo musikalisch-reale, né il doppio tempo del narrare e del narrato. Eppure di questo ‘tempo vuoto’, indistinto, di questo terzo tempo che invero è primo, non si ha esperienza che indiretta, attraverso l’unica articolazione del linguaggio musicale e/o la doppia articolazione del linguaggio della parola. Prossimo al tempo narrato, è il tempo della visione e dell’immagine, per la comune origine del «significato» (icona del verbo) e della «figura» (icona della visione) dal gesto originario in cui l’animale-uomo in-scrivendosi nello spazio simul lo circo-scrive. Talché, come nella narrazione il tempo narrato rinvia al tempo narrante, così il tempo-immagine rinvia al tempo dell’immaginare, ed entrambi a… A cosa, a quel terzo tempo, che è primo? Invero dietro l’icona e il gesto che la ‘pro-duce’ si profila più che un tempo-non-tempo, o tempo ‘vuoto’, uno ‘spazio’, anch’esso vuoto – che tanto ricorda la chôrha del Timeo. Al limite della fenomenologia del tempo della visione e del verbo, appena varcata la soglia del territorio notturno delle origini, qualcosa appare, confusamente, o come in sogno, un’immagine-non-immagine, dicibile solo in un nóthos loghismós, in un discorso ibrido: il tempo-spazio, o spazio-tempo, che è al di qua del tempo e dello spazio. Il tempo della vita, il tempo del desiderio, dell’istante, del movimento, rinvia oltre il tempo, alla fine del tempo ed all’origine. Ma questo oltre è, resta, indissolubilmente legato al tempo. Solo perché se ne ha esperienza nel tempo – nel tempo della musica, del linguaggio e dell’immagine, della vita? v. v.

William Hogarth, 1764, 26X32,5 cm.

6

SAGGI

La morte del tempo* Massimo Cacciari

Al primo sguardo, dal foglio di Hogarth sembra emergere la figura del Tempo, che una lunga tradizione ha già consacrato. Kronos è «un vecchio brutto, sporco, tardo», alato secondo il detto «volat irreparabile tempus», che sta «in mezzo di una ruina»1, e cioè in mezzo a quanto la sua falce ha guastato, distrutto, consumato. Tutte le cose preda del Tempo giacciono a terra; un’invincibile forza di gravità le ha tradotte ‘quaggiù’. Tutti i ‘valori’ del mondo si sono rivelati mortali prodotti del Tempo, non sono alla fine che trofei di ­Kronos. Ed è appunto secondo l’iconologia tradizionale della vanitas vanitatum2 che Hogarth li rappresenta: il borsello stracciato e vuoto dell’avarizia, l’ornato arco di Amore, la corona spezzata, i simboli caduti dell’Arte e della Guerra (la tavolozza e il fucile), la campana incrinata, che non potrà più chiamare nessuno. Sulla sinistra della composizione, proprio ai piedi della pietra sepolcrale, un documento con grande sigillo – un atto notarile di straordinaria importanza – avvisa della bancarotta della Natura («Nature Bankrupt»); il sigillo poggia su un libro aperto all’ultima pagina: «exeunt omnes» – la commedia è finita, «all the world’s a stage», «quella scena che è la terra intera»3 (Shakespeare ‘traduce’ Plotino!) ha finalmente terminato la sua dira cupido di finzioni, apparenze, idoli, sogni, contese. «The Times» bruciano – il foglio dello stesso Hogarth (un’incisione del 1762) ripete nel microcosmo l’ekpírosis che, nel macrocosmo, è rappresentata sull’insegna, posta emblematicamente al centro dell’acquaforte, di quella che un tempo doveva essere stata un’allegra * Da Dimensioni del tempo (a cura di U. Curi), Milano, 1987, pp. 71-78 (testo riveduto). 1 Sono parole della Iconologia del Ripa. Naturalmente in tutto questo saggio abbiamo tenuto presente le analisi warburghiane sul tema, dal Panofsky al Wind, al Wittkower. Molto importanti i saggi raccolti in numerosi voll. dell’«Archivio di filosofia» diretto da E. Castelli (in particolare: Apocalisse e insecuritas, 1954; Il tempo, 1958; Tempo ed eternità, 1959; Rivelazione e storia, 1971; Ermeneutica e escatologia, 1971). 2 Cf. A. Veca, Vanitas, Bergamo, 1971. 3 Plotino, Enn., III, 2, 15.

7

16

8

Massimo Cacciari

taverna: «Alla fine del mondo». Ciò che rimane della taverna, la struttura di legno cui è appesa l’insegna, è identica alla forca dell’impiccato che si ­intravvede sullo sfondo. ‘Le pendu’ rappresenta l’unica figura umana dell’opera – egli è l’ultimo uomo. Ma la catastrofe non coinvolge soltanto i segni dell’uomo, i suoi presunti eterni valori, la sua casa e la sua terra, bensì colpisce anche i più luminosi abitanti del cielo: un sonno mortale spegne i cavalli del sole e fa tramontare l’ultimo, pallido quarto di luna. Sole e luna emettono l’ultimo raggio, che illumina ancora un istante la desolazione del Tempo. Il tema della ‘morte del sole’4, che tanto spazio avrà nelle angosce dell’immaginario contemporaneo, trova qui, forse, la sua prima espressione. Sedlmayr, che ci ha dato un magistrale saggio su quest’opera di Hogarth5, ma in una prospettiva affatto opposta alla mia, cogliendone esclusivamente un’ispirazione diabolico-profana (una «deprimente» testimonianza dell’assenza di centro e della perdita di luce, caratteristiche, per l’autore, com’è noto, dell’avventura disperata dell’arte contemporanea) – Sedlmayr vede nel Testamento del Tempo la rappresentazione del carattere trapassato del tutto. Tutto qui è già-stato, «non esiste più futuro, nulla muterà più». Ma se qualcosa è già-stato, come dirà il Mefistofele di Goethe, è come se mai fosse esistito: la sua esistenza non era che mera parvenza, se ora essa è nulla, non è. Il passato è «ein dummes Wort» per dire non-ente. E nulla, infatti, sono gli enti che qui si rappresentano come trofei del Tempo. Ciò che il tempo ha consumato è, in realtà, nulla – il tempo non può distruggere che nulla. L’azione di Kronos non fa che manifestare ciò che necessariamente costituisce la quintessenza dell’ente, così come qui si rappresenta, il suo non essere che nulla. Il tempo non può che decretare la morte del mortale, l’esser-nulla del nulla. Queste considerazioni vanno tenute ben presenti per comprendere, come vedremo, nel suo complesso, l’allegoria dell’opera (per spiegarne, cioè, il vero tema: che è la morte del Tempo). Per ora, diciamo che in essa non si manifesta semplicemente il già-stato, il già-finito, bensì quell’istante apocalittico, quel chronos apokalypseos in cui le cose si disvelano come nulla: la candela che brucia «The Times» è ancora accesa; la pipa del Tempo fuma ancora; un estremo raggio ‘precipita’ ancora dal carro del Sole. È l’istante in cui ogni cosa esala l’ultima scintilla della sua parvenza di realtà; essa è, sì, ridotta al fumo che la vanifica, ma questo fumo sta ancora, per così dire, nell’ambito del mondo come rappresentazione. In questo contesto possiamo definire un primo livello di lettura dell’opera. E ad esso corrisponde un ‘primo stadio’ del dissolvente humour di Hogarth, rivolto alle immagini e alle figure del Sublime. Tutti i segni che nell’iconologia tradizionale rappresentano la vittoria dell’Immortalità giacciono qui a terra insieme a quelli tipici della vanitas vanitatum: nulla risparmia il ­Tempo. The Bathos, il titolo dell’acquaforte, significa in greco profondità, 4 5

Cf. M. Sgalambro, La morte del sole, Milano, 1982. H. Sedlmayr, La morte del tempo, «Archivio di filosofia», 1973, pp. 25 ss.

La morte del tempo

17

abissale profondità, ma in inglese soltanto sentimentalità e pateticità. Le cose sublimi destano qui il riso che usualmente suscitano paccottiglie sentimentali, oscure e confuse allegorie. Un unico turbine afferra tavolozza e campana insieme a vecchie spazzole, pipe e bisacce sfondate. L’ironia nei confronti della propria stessa composizione (dedicata «ai commercianti di quadri oscuri», indicata come esempio della rovina cui vanno incontro i temi più sublimi, allorché vengono trattati in modo profano, assurdo, osceno – tutto ciò si legge nella didascalia del foglio) comprende in sé quella rivolta all’idea stessa di un Sublime nelle cose del mondo, capace di non finire preda della ruota vorace del tempo. Nessuna cosa al mondo può afferrarsi al ciuffo proteso in avanti sulla fronte del Tempo, per cogliere quella che costituirebbe la opportunità suprema: sfuggire al tempo stesso. Questo sarebbe il kairòs per eccellenza – questo kairòs sarebbe virtus suprema poter afferrare. Hogarth ha qui caratterizzato Kronos stesso con il segno del Kairòs (il fanciullo della scultura di Lisippo, dalle caviglie alate, che si trasformerà nella Fortuna o Occasio latina, nella Femmina nuda in difficile equilibrio su sfere o ruote, o galleggiante sull’infido mare, di tante immagini medievali e rinascimentali), per renderne evidente da un lato l’inflessibilità dell’opera (egli colpisce come il Caso, assolutamente inappellabile, il suo decreto è indiscutibile e irreversibile), e, dall’altro, per mostrare la vanità dell’idea che si dia una virtus (una techne) capace di resistervi: ovvero, che qualcosa si dia di Immortale. Rimane, sì, bene in vista, sulla fronte di Kronos il segno del fuggitivo, breve e decisivo istante, del baleno divino, Kairòs, ma chi mai potrebbe più afferrarlo ora che l’unico uomo è impiccato? Il tempo ha distrutto la possibilità stessa del Kairòs, o, meglio, se ne è impossessato: il Kairòs si è trasformato in un suo segno, in sua proprietà, e dunque destinato a morte come tutte le proprietà del tempo. D’altra parte, ‘confondere’ Kronos e Kairòs comporta un’altra, decisiva conseguenza: essendo Kairòs l’opposto esatto dell’Aiòn, dell’Evo, del tempo allorché esso riceve, per così dire, l’impronta dell’essere, e si compie, assumendo l’aspetto di grande, unitaria Epoca, Kronos impossessandosi degli attributi del Kairòs, viene a trovarsi come questi nell’impossibilità di consistere su alcunché. La sedes rotunda della Fortuna diviene quella stessa del Tempo. In questa ‘furia del dileguare’ può bensì darsi l’attimo dell’eu-kairìa, ma mai nessuno potrà coglierlo: il tempo che ‘offre’ quell’attimo è la stessa forza che ci impedisce di raggiungerlo. Fino a quest’ultimo atto, a questa fin de partie, che il foglio di Hogarth disvela: «exeunt omnes». Ma ecco il ‘maraviglioso’, tra i protagonisti che escono è il Tempo stesso, è questa figura del Tempo come Kairòs, del Tempo opposto all’Aiòn, in tutte le sue possibili accezioni. «Finis» pronuncia il Tempo di sé; la sua falce ha la lama spezzata; la clessidra che gli sta accanto ha finito di contare il trascor­ rere del Tempo stesso. Il rotolo che la sua mano ancora debolmente trattiene è il suo testamento: «lascio perciò ogni cosa in mio possesso (non a Dio:

9

18

10

11

Massimo Cacciari

queste sono le parole cancellate!), ma al Caos, che nomino mio solo erede». Cloto, Lachesi e Atropo sottoscrivono l’atto come testimoni. Come è pensabile questo movimento – ironico, nella sua quintessenza – per cui il principio sommamente distruttore, la forza che tutto annichilisce, consuma alla fine se stessa, pone necessariamente alla fine anche se stessa come nulla? Quali problemi o enigmi ci interrogano dall’opera di Hogarth? È qui che qualsiasi interpretazione iconologica (la quale, a partire da Sedlmayr, ne corregga e arricchisca i motivi) deve integrarsi con una Er-örterung propriamente filosofica. Già lo abbiamo sottolineato: più nessun simbolo di Aiòn-Ewig è rintracciabile nella composizione di Hogarth. Più precisamente: in essa appare crollato quel ‘regno di mezzo’, quell’intermedio mundus imaginalis, quella dimensione ‘angelica’ dell’essere, per cui il Nunc Stans divino, l’Hodie, comunica con il nunc fluens della creatura, con il suo dies6. L’in-stans, l’attimo di questa composizione è esclusivamente quello che di un soffio (il fumo della pipa) precede la morte della luce, le tenebre del Caos. Con Caos soltanto ‘comunica’ questo tempo – esso, cioè, non ‘viene’ da Dio e non ‘va’ a Dio, ma trascorre da nulla a nulla: riconsegna al nulla cui appartengono le vane parvenze delle cose. Kairòs del tempo era l’improvviso sopraggiungere di Dio in nobis, la ‘confluenza dei due mari’ che sospendeva-interrompeva la catena del mero dis-correrre degli infiniti nyn che il tempo ‘ritaglia’ – ‘confluenza’ che tutta l’iconologia cristiana aveva essenzialmente còlto nella Natività («Guardai nell’aria e vidi l’aria colpita da stupore; guardai alla volta del cielo e la vidi ferma; immobili gli uccelli del cielo»: Protovangelo di Giacomo, 18.2). La Vergine Odeghítria dell’icona mostra nel Bambino proprio tale Kairòs, che per grazia, katà chárin, ci ha ‘sorpresi’, e ancora deve tornare a ‘sorprenderci’, «come un ladro di notte», per ricondurre a sé finalmente e perfettamente l’intera creazione. In Hogarth irrompe, invece, la kenosis più radicalmente concepibile di tutto intero questo universo di idee e tradizioni: il loro oscuramento, il loro abbandono è tanto più disperato, in quanto del tutto consapevole (il nome di Dio cancellato sul testamento di Kronos). L’apocalisse non reca né nuovo cielo né nuova terra, ma disvela la nullità dell’ente come tale, meglio: la sovranità assoluta del Nulla sull’ente. Il «non più tempo» dell’Apocalisse significa l’instaurarsi del regno dell’Hodie – qui invece l’assoluta disperazione sulla possibilità di poter mai afferrare l’‘occasione’ di arrestare la rovina del tempo. Ma se il tempo è nell’essenza consumo, come può salvarsi dal consummatum est? Se il tempo è relativo unicamente alla caducità e mortalità dell’ente, se il tempo si esprime esclusivamente come la freccia che condanna ogni ente al degrado e alla morte, come potrà la sua stessa dimensione ‘sopravvivere’ alla fine del ‘consumabile’? Un tempo che non conosce non solo attimo, in-stante, epoché, ri-creazione, ma neppure indugio – un tempo che rotola sulla sfera

6

Cf. H. Corbin, Temple et contemplation, Paris, 1980.

La morte del tempo

19

dell’Occasio – è un tempo che divora se stesso. Nella Quinta del Sordo Goya vide questa ‘follia’ del Tempo: un Kronos rinsecchito ormai anche nel corpo (a differenza di quello di Hogarth: qui il corpo del Tempo è ancora vigoroso: esso, infatti, non è invecchiato con le cose che divorava, non è fluito via con le cose che faceva dis-correre, ma, improvvisamente, si è trovato senza più nulla, spossessato. Aveva preparato un testamento in cui lasciava a Dio le sue creature – ma nulla più vi è da riconsegnare al creatore – e in quest’attimo gli si rivela che dal nulla e non da lui esse provenivano), un Kronos – quello di Goya – che lotta disperatamente per sopravvivere, còlto nell’attimo in cui divora il suo ultimo figlio. Gli occhi ne dicono la follia – grandi, neri occhi sbarrati sul nulla che ormai incombe: per sopravvivere il tempo è vorace, sempre più follemente vorace, contro i suoi stessi figli – per sopravvivere distrugge ciò che soltanto ne può assicurare la continuità. Lo stesso principio che ne determina l’esistenza, ne decreta anche la morte. ‘Follia’ è quella del Tempo che, per vivere, consuma e distrugge: un rincorrere forsennato la propria stessa fine. Un impulso di morte che si esprime in disperata e cieca volontà di vita. E qui può forse liberarsi un nuovo riso oltre quello ‘diabolico’ che a­ bbiamo incontrato nel primo livello del testo hogarthiano (il riso chimico-corrosivo, quell’ironia che Hegel criticherà nella Romantik): un risus paschalis che smaschera questa follia del tempo, che ne mette a nudo il meccanismo auto-­ distruttivo. Un riso che non è più quello puramente luttuoso dei carnevali e dei giochi del Goya (e di tanto Hogarth, prima), Lemuria più che Carnevale, ma il riso di chi inizia a poter vedere in questa stessa immagine di Kronos edax, divorante, vorace, irreversibile, un’apparenza, una maschera, un buffone7. Non più noi soltanto buffoni-burattini del Tempo, non più soltanto noi ‘folli’ perché costretti a contarne gli interminabili nyn (secondo le chiare simbologie dei tanti Zeitglockentürmen medievali) – ma il Tempo buffone, lui un buffone o un ‘incantatore’ o un sinistro folle. Non è questo riso che urge, quasi, in noi di fronte al foglio di Hogarth? Quella stessa concezione del mondo, che finisce necessariamente con l’erigere il tempo a Sovrano assoluto, ne decreta anche un termine insuperabile. Esaltandolo a unico Signore del mondo, l’ha costretto nei termini della rappresentazione, l’ha imprigionato ai ‘tempi’ del consumo dell’ente. Quella stessa concezione che pone l’ente come nulla consegnandolo integralmente alla ‘furia del dileguare’, finisce necessariamente con l’annihilatio del tempo stesso. Si badi: bisogna attraversare que- 12 sta ‘furia’, occorre sfidarne la corrente. Il Tempus edax svela, nella sua opera, la natura di mera idola dei valori del mondo. Il Tempus edax rivela la verità (secondo un antico adagio, infinite volte variato nel Medioevo e nella Rinascenza), appunto per questo: che disvela la non-Verità dei pretesi Immortali 7 Sul tema del Carnevale, del riso, ecc. rimando al mio Memoria sul carnevale, in Ch.F. Rang, Psicologia storica del carnevale, trad. it., Venezia, 1982, e alla bibliografia (da Klein al Bachtin al Barroja) ivi discussa.

20

13

Massimo Cacciari

e Immutabili dell’uomo. È possibile raggiungere l’istanza del ‘riso’ che inizia a liberarci dal folle distruggere del Tempo, soltanto comprendendo la verità anti-idolatrica che esso contiene. L’apocalisse ha due facce8: quella distruttiva (che Hogarth e Goya rappresentano, il primo nella forma della dissolvente ironia, il secondo nei colori del più inesorabile lutto: non esiste rappresentazione più disperata dell’apocalisse di quell’altro dipinto della Quinta del Sordo, dove un cane, sommerso fino al capo negli indistinti elementi del Caos, spia verso l’alto, spia al silenzio e all’assenza che il Caos è) – e quella che disvela una forza ri-creante. Di questa seconda nulla sappiamo da Hogarth – se non che essa stessa risulterebbe, nella sua autenticità, inconcepibile senza aver attraversato fino in fondo, fino all’ultimo giorno, fino a quel «exeunt omnes», quella prima. Ma perché il tempo sia, perché sia concepibile un tempo non condannato a morte, nato per morire, è necessario ‘liberarlo’ dalla concezione che ne ha fatto il Sovrano assoluto. Se l’ente è come nulla, se ogni cosa non è che alimento del tempo, il tempo non sarà che morente. Se l’ente può avere un suo tempo, se è concepibile un tempo di quest’ente, proprio di quest’ente finito, di questa finita creatura, il tempo non può ridursi al movimento dell’inesorabile degradazione, del progressivo spegnimento di ogni energia, all’irreversibile morte del sole. In altri termini: un tempo che non conosce in-stanti, attimi in cui la sua energia si ri-crea, in cui si ricrea l’energia degli enti, alla cui posizione esso è relativo, necessariamente conduce alla sua stessa «finis». Il tempo del mero consumo è vorace di se stesso. E se non si darà mai p ­ ossibilità ri-creativa in vita, nemmeno sarà concepibile ‘resurrezione’, apokatastasis, ‘dopo’. Se il nostro tempo ‘apparente’ non è che distruzione e consumo, cioè rivelazione della nullità dell’ente, come potrebbe, e perché mai dovrebbe, questo nulla ‘resuscitare’? L’idea stessa di resurrezione è i­ndistricabilmente connessa a quella del possibile irrompere di attimi ri-creativi nello stesso tempo della creatura: sono questi attimi che disvelano come l’ente non sia soltanto il movimentum dell’essere-consumato. Qualsiasi ‘religiosa’ idea di resurrezione è impotente consolazione dell’irreversibile mortalità dell’ente, se non riesce a mostrare, nella stessa vita dell’ente, la possibilità dell’istante, per così dire, ek-tropico. Se, in qualche modo, la forma del ri-creare non è ‘quaggiù’ mostrabile-concepibile, allora ogni cosa, e il tempo di ogni cosa, non sono che fuggevoli apparenze, follie, di cui attendere con ansia la fine. Ed ecco, allora, l’indicibile speranza che nel foglio di Hogarth (e nello sguardo del cane di Goya) si custodisce: che lucida intervalla spezzino il trascorrere e il dis-correre, la ‘chiacchiera’ del tempo del semplice consumo – che la stessa forza che il sogno, a volte, possiede di far ri-fluire il tempo, di comporre origine e méta, di concentrarne le diverse dimensioni in immagini simultanee, sia raggiungibile, sia definibile anche nel tempo ‘apparente’ del 8 Cf. Aa. Vv., Apocalisse e ragione, «Hermeneutica», 1983, con saggi di C. Bo, M. Cacciari, P. Grassi, I. Mancini, L. Sartori e altri.

La morte del tempo

21

giorno: Tagestraum. Non questi sogni, ma i sonni della ragione generano mostri. E mai la ragione è più addormentata di quando esalta come invincibili le opere di Kronos, di quando è chronolatrica. Il diurno sogno della ragione invita a liberarci dal sinistro incanto che i fenomeni dell’irreversibilità hanno sempre suscitato – sottrae ad essi ogni Necessità, li interpreta statisticamente. E neppure il tempo scorrerà secondo una freccia, in un senso: la distinzione, sulla base della definizione di diverse misure di entropia, di un prima da un dopo, non implica una direzione del tempo. L’ordine ‘normale’ del nostro sistema, isolatamente considerato, non può pretendere a nessuna posizione di universale Legge. Esso non rappresenta che uno degli ordini possibili. Altri sono compiutamente immaginabili. La mens tuens è potente abbastanza da immaginare ordini irreversibili eppure non entropici, ordini ektropici eppure non meccanici, ‘capovolgimenti’ – a gambero, quasi con musicali procedimenti! – della freccia del tempo, tempi istantanei, stratificazioni del tempo che si danno simultaneamente9. Il tempo morente ha consumato ciò che meritava di esserlo – anzitutto: se stesso, il tempo che «volat irreparabile», che non conosce ‘sosta’, il tempo del movimentum impaziente che tutto attende, richiede, consuma. Ma questo tempo è uno degli infiniti possibili. La sua morte ci libera dal suo incanto, dalla sinistra profezia che la sua fine fosse la Fine. Ciò non libera dal tempo, secondo quel movimento ek-statico che significa soltanto disperazione di poter mai concepire il tempo se non sotto l’aspetto di Kronos vorace, ma libera il tempo verso altre figure – in generale: lo libera al suo possibile aprirsi all’attimo che ri-crea (precisamente questo è ciò che Nietzsche intendeva con «dionisiaco»). De-ciderci, con Hogarth, dal vecchio mondo del tempo morente, non è allora, necessariamente, consegnarci al Caos presentito da Goya, ma aprirci a questi altri possibili ordini dell’imaginatio, che la forza immaginativa della mens tuens sa costruire, nel momento stesso che ‘ride’ della pretesa inviolabile necessità del tempo dell’assoluta entropia. È il riso del Nous contro la ‘gravità’ di Ananke10. Il crollo dei presunti Immutabili, che cercavano ‘religiosamente’ di consolarci dell’assoluta sovranità di questa figura del tempo, rende possibile quella forza: di essa il kreatürliches Denken è capace – essa davvero non appartiene alla ruota di Issione: la capacità, cioè, di porre-in-immagine, di costruire rigorose immagini di ordini, fisico-matematici altrettanto quanto artistico-musicali, irriducibili al chiuso anello dell’orizzonte sensibile e all’‘incanto’ che il suo spazio ha suscitato – ordini che questo spazio contengono in sé come null’altro che uno degli infiniti compossibili.

9

Ho sviluppato tutti questi temi nel mio Icone della Legge, Milano, 1985. Cf. L. Chestov, Athènes et Jérusalem, Paris, 1938.

10

14

Tempo e tempo messianico Per una dimensione fondamentale dell’accadere religioso Bernhard Casper

1. Cosa è tempo? Per il pensiero filosofico, la difficoltà nel render ragione di cosa sia tempo, consiste con ogni evidenza nella circostanza già chiaramente rilevata da Agostino: che ciò che vi è di più noto nella nostra esperienza si sottrae al contempo ad ogni intenzione di esprimerla. «Cosa, dunque, è ‘tempo’? se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più»1. Palesemente la ‘cosa’ non può essere esibita secondo l’unità di un atto linguistico giudicativo, a meno che essa non venga per ciò stesso privata di quel che ha di più proprio, ossia di quel sottrarsi che resiste ad ogni presentazione conchiusa, di quel trascorrere che sfugge ad ogni intenzione conoscitiva ordinatrice, e che tuttavia appunto così identifica il proprium del tempo in quanto tempo. Ora è però questo il senso del pensiero filosofico – almeno secondo le modalità in cui esso si è sviluppato fin dalla Grecità classica – vale a dire: rendere accessibile non soltanto tò òn hê ón2 ma guidare insieme il pensiero su di un eidénai – come afferma la prima proposizione della metafisica aristotelica – su di un sapere che, conformemente al significato originario del greco e­ idénai, è al contempo un vedere. Tale sapere può tuttavia rivelarsi vero sapere se è sufficientemente ampio ed esaustivo, totalizzante. Può esser sapere solo in quanto sapere sovrano, così come mostra la fine del libro Lambda della Metafisica: l’ente può esser ben governato solo se uno è il sovrano, ossia il noûs3. Ma d’altra parte ciò si dà soltanto nel caso in cui, nel suo essere, l’ente da governare in maniera sovrana si trovi in un esser-già-così, in un passato compiuto. Vale a dire: solo se l’essere dell’ente si lascia comprendere nel Agostino, Confessioni, XI, 14,17. Aristotele, Metafisica, 1003a 21. 3 Ivi, 1076a 3-5. 1 2

15

24

16

17

Bernhard Casper

suo eîdos in quanto tò tí ên eînai, come peraltro la Metafisica di Aristotele afferma in maniera del tutto esplicita4. E il medioevo si è conformato a tale comprensione dell’essere dell’ente: esse rei… nihil aliud est nisi definitio5. Solo che nella misura in cui deve esser vera, questa definitio dev’essere per ciò stesso compiuta. Ma se, in questo contesto intenzionale, viene posta la domanda quid est tempus? allora – se non si vuol perdere la cosa che qui il pensiero persegue – diviene inevitabile il naufragio del pensiero stesso. Oppure – questa l’alternativa – il pensiero deve tentare di inserire la comprensione del tempo entro un orizzonte generale di precomprensione dell’essere inteso come un alcunché di compiuto, che già sta dinanzi, come un ên eînai. È – come sembra – quel che si è verificato nella Grecità classica. Giacché tanto nel Timeo platonico quanto nella Fisica di Aristotele – in cui sono sviluppati paradigmi di comprensione del tempo validi ancora per noi oggi – il tempo – ancorché con differente accentazione – è sempre inteso come immagine in movimento e numerica dell’eternità6. Al cospetto dell’Aión che sempre permane, nel ­Timeo si mostra ‘Chrónos’ come sua immagine che procede secondo il numero. Nella Fisica di Aristotele ‘Chrónos’ viene determinato come arithmós kinéseos katà tò próteron kaì hýsteron7. Ma la kínesis è il movimento che ha luogo nell’unico essere. E quest’ultimo coincide con l’aeí, congiuntamente all’Aión del mondo inteso come chrónos ápeiros che, in quanto tale, è immortale e divino8. Anche la descrizione del tempo offerta da Agostino nel Libro XI delle Confessiones si svolge ancora entro tale contesto, sebbene qui il divenire e trascorrere dell’essere nel tempo sia dispiegato interamente a partire dall’esperienza interiore dell’uomo mortale. Agostino mostra la precarietà d’essere in relazione all’essere di quell’ente – l’uomo, appunto – che, rispetto a tutti gli altri enti, insieme è e non è. La lacerazione fra expectatio e memoria – che il pensante che compie il cammino interiore si mostra incapace di recuperare nell’unità di un permanente «est» – diviene immagine dell’essere dell’uomo in generale: ecce distentio est vita mea9. Ma, appunto, la meditazione di Agostino sul tempo si mantiene fondamentalmente entro il medesimo ambito di pensiero delineato dalla Grecità classica. L’enigma del fenomeno del tempo si rivela degno di riflessione nel chorismós fra essere finito ed eterno, nel chorismós fra l’effimero e l’imperituro. E da ultimo ci si potrebbe chiedere

Ivi, 1032b 1-2. Cfr. A. Zimmermann, Art. Sein; Seiendes, III. Mittelalter, in: J. Ritter / K. Gründer (Hgg.), ‘Historisches Wörterbuch der Philosophie’, Bd. 9, Basel 1995, Sp. 186-197; qui: Sp. 186. 6 Platone, Timeo, 37d 6-7. 7 Aristotele, Fisica, 219b 1-2. 8 Cfr. Cael 283b 26ss. Sulla interpretazione preclassica greca del tempo cfr. l’opera fondamentale di M. Theunissen, Pindar. Menschenlos und Wende der Zeit, München 2000, e la mia recensione nella «Philosophischen Rundschau» 2002, pp. 97-104. 9 Agostino, Confessioni, XI, 29,39. 4 5

Tempo e tempo messianico

25

se non rientri ancora in tale contesto anche la Fenomenologia della coscienza interiore del tempo di Husserl. Giacché questa fenomenologia necessita comunque della unità trascendentale della coscienza perché il tempo possa esplicarsi in quanto ciò che accade secondo ‘protenzione’ e ‘ritenzione’10. Non vi è dubbio, comunque, che questa concezione fondata sulla interpretazione greco-classica del tempo sia rimasta un fondamento essenziale per lo sviluppo delle scienze in occidente ed in particolare per il dispiegarsi delle scienze oggettivanti nella modernità. Le scienze moderne presuppongono sempre una unità dell’essere già data che occorre dominare, conformemente alla coincidenza di scientia e potentia, sebbene tale unità accada in un movimento calcolabile e quindi, a rigore, questo medesimo movimento calcolabile – da intendere in modo analitico-causale – sia il campo d’una ricerca sempre in fieri, mai conclusa. In base a questa tendenza, il tempo dev’essere inteso necessariamente anche come tempo universale: un ‘poter-esser-raggiunto’ di ogni ente in un movimento onnicomprensivo, assunto, di principio, entro una mathesis universalis. Sicché il tempo si mostra, di fatto, come forma dell’intuizione trascendentale e necessaria di tutte le scienze oggettivanti. Tuttavia in fisica, a partire da Einstein, l’idea di un tempo universale v­ enne abbandonata. Il tempo in tale contesto è assunto soltanto come il tempo corrispondente ad un singolo sistema inerziale11. Questo mutamento di ­paradigmi mi sembra significativo. Vi si deve almeno far cenno, anche se qui non sarà possibile svolgerlo ulteriormente nelle sue implicazioni essenziali. 2. Tempo e storia Attraverso il confronto con le scienze oggettivanti – dopo Kant e l’idealismo tedesco della metà del diciannovesimo secolo – la scoperta del proprio della storia umana in quanto storia della libertà ha tuttavia portato alla con­ seguenza che anche la domanda del pensiero intorno al tempo in quanto tempo potesse esser posta in maniera del tutto rinnovata. Significativo al riguardo appare il fallimento di Hegel, nel tentativo di concepire la storia ­umana come il procedere e dispiegarsi d’un unico, seppur dialettico, movimento. Ovviamente lo storico – che è tale in senso proprio soltanto a partire dal diciannovesimo secolo – indirizza la sua critica contro questa costruzione hegeliana della storia. Egli si oppone alla «mediatizzazione» della storia dell’accadere umano che si dia all’interno di un’unica ed universale successione, concepibile in maniera puramente logica. Poiché, proprio in questo

10 Cfr. in particolare i §§ 36-39 in: E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», Bd. 9 (1982), Tübingen, 19802, pp. 63-71. 11 Cfr., al riguardo, K. Maizner, Absolute Zeit, in: J. Mittelstraß (ed.), Enzyklöpädie Philosophie und Wissenschaftstheorie, Stuttgart, 1996, vol. 4, p. 831 e sgg.

18

26

19

Bernhard Casper

modo, l’essenza umana come tale verrebbe annientata. Non è possibile qui esporre in maniera dettagliata come nel pensiero del secondo e del tardo Schelling, nel pensiero di Kierkegaard, di Dilthey e del suo interlocutore Yorck von Wartenburg ma anche, in maniera differente, nell’opera di Bergson, siano state infine poste le premesse per una nuova comprensione del tempo12. Essa si è espressa in un primo tempo nel Neokantismo, ­attraverso l’espediente della differenziazione fra scienze della natura e scienze della cultura, ed è infine venuta chiaramente alla luce, in maniera pensante, con Heidegger, nelle pagine di Essere e tempo. Il tempo diviene qui non più un qualcosa di unicamente cronologico-cronometrico e, dunque, concepito nel suo dispiegarsi come un continuum unico. Piuttosto esso viene senz’altro inteso come storia umana. Quest’ultima, tuttavia – come ha forse per la prima volta osservato Schelling nell’ultima lezione della sua filosofia della Mitologia – in nessun modo può essere colta ricorrendo ad una «scienza razionale». «Con la scienza razionale è impossibile una filosofia della storia reale»13. E questo perché la scienza razionale ha come proprio oggetto sempre e soltanto il possibile già compiuto e già presente dinanzi, ossia, in senso schellinghiano: l’idea, ciò che è già intuito a priori. È questa la ragione per cui essa resta una filosofia negativa. Trova il proprio limite in ciò che di fatto avviene positivamente e indeducibilmente a partire da se stessa, ossia provenendo (‘advenendo’) ex nihilo. A voler esprimere la cosa secondo il lessico della filosofia della mitologia: essa trova il proprio limite nel «Dio attivo», che si mostra primariamente come il Dio effettivo e redentore. E «nessuna alterigia che voglia spacciarsi per filosofica» ci può «trattenere dall’accettare con gratitudine di ricevere, immeritatamente e per grazia, ciò che mai possiamo conseguire altrimenti»14. Se, per Hegel, l’esistenza dev’essere ingrata, per potere essere pensiero15, al contrario per l’ultimo Schelling il vero pensiero si radica proprio nella relazione alla gratitudine; e ciò perché tempo ed essere avvengono in una inanticipabile originarietà. Oggetto d’un tale sapere è – come Schelling afferma nelle ultime pagine di questa celebre lezione ventiquattresima – non già l’universale, ed in tal senso la ‘ragione’, bensì l’Io, l’individuo, la ‘personalità’ che reclama una persona al suo cospetto16. Franz Rosenzweig, che dapprima – come storico e allievo del ­Neokantismo sud-occidentale tedesco – al pari di altri brillanti allievi di Friburgo nel secondo decennio del ventesimo secolo (fra questi Heidegger), si trovò coinvolto

12 Cfr., al riguardo, P. Hünermann, Der Durchbruch geschichtlichen Denkens im 19. Jahrhundert, Freiburg, 1967. 13 F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie, Darmstadt 1957, Bd. I, S.568, Anmerkung I; trad. it., col titolo: Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, di L. Lotito, Bompiani, Milano 2002, p. 613. 14 Ibidem. 15 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der Philosophischen Wissenschaften, Fassung von 1830, Hamburg, 1959, S. 45. 16 F.W.J. Schelling, Philosophie der Mythologie (e Anm. 12), cit., I, S. 569 [trad. it., p. 615].

Tempo e tempo messianico

27

nella assillante domanda intorno alla storicità della storia, nella sua opera geniale La stella della redenzione – senza dubbio stimolato dallo studio del pensiero schellinghiano – ha tentato di riflettere sulla storia intendendola in quanto tempo che, ogni volta in maniera originaria, aperta, accade fra gli uomini e, al contempo, fra gli uomini e Dio. Nei suoi successivi ‘Prolegomena’ alla Stella, ossia nel saggio «Il nuovo pensiero» – anticipando in maniera sui generis il ‘linguistic turn’ – egli concepisce il nuovo pensiero, che si impegna ‘seriamente’ con la storia, come pensiero linguistico. Quest’ultimo si mostra tuttavia differente da un pensiero idealistico-metafisico per il fatto che ha bisogno dell’altro e, il che è lo stesso, perché prende sul serio il tempo17. Ma cosa significa prender sul serio il tempo, ossia entrare in rapporto con la realtà effettiva del tempo assunta nella sua interezza, e dunque non limitata da pregiudizi e falsificata da preclusioni? Per il pensiero di Rosenzweig è fondamentale il fatto che, con ogni evidenza, il tempo in cui qualcosa accade differisce dal tempo che «accade in quanto esso stesso accade»18. Il tempo assunto come tempo in cui qualcosa accade, può essere inteso come lo spazio-orizzonte del numerus motus, l’immagine numerica dell’eternità; tempo che pongo davanti a me in una distanza estetica, come la aprioristica rete relazionale di ciò che accade in movimento. Per contro, gli uomini possono vivere il tempo che «accade in quanto esso stesso accade», soltanto in quanto se stesso; ed esso viene esplicitato mediante il «bisogno dell’altro», quell’altro – ‘cosa’ o ‘persona’ – di cui mai aprioristicamente dispongo. Prendere sul serio il tempo – nella misura in cui esso stesso accade – significa per il parlante e dunque per il pensante: «dover attendere ogni cosa, essere dipendente da ciò che è proprio dell’altro»19. Prendere seriamente il tempo come quel che accade fra me stesso e l’altro significa allora riconoscere continuamente l’impotenza rispetto ad ogni potere della ragione; impotenza di fronte all’altro inteso come altro uomo, nel suo esser se stesso. Ma sono altrettanto impotente – pur con tutta la capacità di comprensione razionale e sistematica di cui posso disporre – al cospetto delle «cose» da esperire nel loro darsi originario. Rosenzweig ha concepito il proprio pensiero, sotto questo profilo, come «pensiero esperente»20. Di fatto, attraverso di esso, egli si incontra con una fondamentale esigenza dell’empirismo così come del fallibilismo.

17 Cfr. F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften (= GS), hg. V.R. u. A. Mayer, Den Haag/Dordrecht, 1976-1984, 3, p. 151 e sgg. 18 Ivi, p. 148. 19 Ivi, p. 151. 20 Cfr. il mio studio «Was kann erfahrendes Denken heißen?», in: W. Schmied Kowarzik (ed.), Franz Rosenzweigs «neues Denken». Internationaler Kongress Kassel 2004, Freiburg, Alber 2006, pp. 737-753. Una traduzione italiana è in corso di pubblicazione presso la casa editrice Morcelliana: B. Casper, Essere ed evento. Rosenzweig e Heidegger.

20

28

21

Bernhard Casper

È opportuno osservare come anche Husserl – il quale inizialmente condivideva le medesime esigenze dell’empirismo21 – nella sua più tarda filosofia si trovò alle soglie d’una tale fenomenologia dell’esperienza22. Nel suo anno di studi friburghese (1928/29) il giovane Emmanuel Lévinas si era dedicato alla conoscenza della Stella della redenzione di Rosenzweig ma, sotto la guida di Husserl, aveva anche intensamente approfondito lo studio della sua fenomenologia. A tal riguardo furono importanti per lui le prime «Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo»23, raccolte da Edith Stein e da lei stessa editate con Martin Heidegger, e che certo entravano in contrasto con le prospettive che aveva guadagnato a partire dalla fenomenologia husserliana dei dati ‘hyletici’ e delle sintesi passive per un verso e, per altro verso, con la quinta Meditazione cartesiana, che introduce nel pensiero fenomenologico la differenza fra corpo proprio (Leib) e mero corpo fisico (Körper). In quel periodo Lévinas prese anche parte alla traduzione francese delle Meditazioni cartesiane. Certo Lévinas non ha mai fatto mistero della circostanza che, oltre a Husserl, erano state determinanti per il suo cammino successivo anche la ­scoperta heideggeriana della temporalizzazione (Zeitigung) dell’esserci in Essere e tempo e la tesi esposta nelle lezioni del semestre invernale 1928/29 sulla Introduzione alla filosofia, secondo cui il luogo della verità non è costituito dalla proposizione, bensì dall’esserci24. Quel che per Lévinas ne derivò fu niente meno che una nuova comprensione del tempo, con la quale si distanziò da Husserl e sotto un certo rispetto – come più tardi apparve manifesto – anche da Heidegger. Se, per Husserl, l’analisi intenzionale «è condotta sulla base del principio fondamentale che ogni cogito come coscienza è invero intenzione, nel senso più ampio, del suo inteso, ma che questo presunto è in ogni momento più (con un più di presunto) di quel che in ogni momento singolo c’è di esplicitamente inteso»25, Lévinas, per parte sua, approfondisce ulteriormente tale prospettiva riguardo all’intenzionalità in quanto «più d’intenzione», attraverso la

21 Cfr., il mio studio al riguardo, M. Wälde, Passivität, passive Synthesis, in: J. Ritter / K. Gründer (edd.), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. 7, Basel, 1989, pp. 164-168; qui, p. 165. 22 Si veda, a tal proposito, l’osservazione di Husserl: «sotto questo rispetto, nell’empirismo risiede la tendenza verso uno scoprimento scientifico del mondo della vita abitualmente familiare e dunque non conosciuto scientificamente». Le opere di Husserl saranno citate da: Husserliana. Edmund Husserl. Gesammelte Werke, Den Haag, 1950 e sgg. (abbreviato con la sigla Hua); qui, cfr.: Hua 6, p. 449. 23 Cfr. E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins, in: «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», Bd. 9, Jg. 1928, Tübingen, 19802. 24 M. Heidegger, Einleitung in die Philosophie (Gesamtausgabe, Bd. 27), Frankfurt a.M. 1996, p. 109. In conversazioni private Lévinas era solito affermare: «andai a Freiburg per cercare Husserl. Ma trovai Heidegger». 25 Hua I, p. 84. Trad. it., E. Husserl, Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 19973, p. 75.

Tempo e tempo messianico

29

distinzione fra una intenzionalità «oggettivante» e una intenzionalità «transitiva». Essa si manifesta come l’«intenzionalità transitiva dell’incarnazione»26. Il prender sul serio la corporeità (Leibhaftigkeit) dell’intenzionalità, ossia l’esser dipendente dell’atto intenzionale dalla sua «sensation» – che è sempre la sensazione di un singolo uomo mortale – conduce Lévinas a concepire la costitutiva irraggiungibilità, nella ritenzione, del tempo vivente27. L’impressione originaria in quanto ultimo fondamento di legittimità di ogni divenir-cosciente, proprio come tale, non è raggiungibile ‘idealmente’. Si mostra piuttosto come «la non-idealità per eccellenza. L’imprevedibile novità dei contenuti che sorgono all’interno di questa fonte di ogni coscienza e di ogni essere, è creazione originaria (Urzeugung), passaggio dal nulla all’essere […]»28. In ragione di ciò, per il pensare e per l’esperire si dà effettivamente qualcosa di assolutamente nuovo. Pensare ed esperire si mostrano originariamente come «interamente passività, ricettività di un ‘altro’». Il conoscere può per questo essere inteso soltanto come «ritenuta di una pienezza che si sottrae»29. Ne deriva, per quanto attiene alla coscienza del tempo, che questa si costituisce sempre attraverso il gioco fra protenzione e ritenzione. Ma anche che prima d’un siffatta coscienza del tempo, il tempo stesso è diacronia, incontro an-­ archico con l’altro da me, ritenzionalmente irraggiungibile. Se questo vale per ogni serio conoscere, anche per quello scientifico-naturale (per il quale conta non restare presso di sé bensì uscire da sé per pervenire a ciò che autonomamente «è reale ed effettivo») allora l’istituirsi di questa relazione che costituisce il tempo giunge ad una forma ancora più elevata là dove il ‘neutro’ altro mi viene incontro in quanto altro uomo: l’Altra e l’Altro. In tal caso la relazione del «concernermi» (Mich-angehens) si intensifica come rapporto di «assignation», di appello (Vorladung), la quale presenta una «rectitude de relation plus tendue que l’intentionalité»30: un «concernermi» 22 più diretto, più teso rispetto ad ogni altra tensione dell’intenzionalità. Ciò che si manifesta nell’accadere dell’incontro – e pertanto nell’essere del tempo – è l’ineludibilità dell’ingiunzione a rispondere, l’inaggirabilità dell’essersituati-­nella-responsabilità: «responsabilité sans choix, une communication sans phrases et mots»31. Ma in questi istanti dell’incontro ‘responsivo’ con l’altro uomo in quanto altro, si compie – a voler adoperare la terminologia rosenzweighiana – non già il tempo inteso come tempo in cui qualcosa avviene, bensì «il tempo che

26 E. Lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1974 (in seguito abbreviato con la sigla EDEHH), p. 143. Trad. it. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza. Con Husserl e Heidegger, a cura di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 162. 27 Cfr., al riguardo, in particolare il trattato Intentionalité et Sensation del 1965, in: EDEHH, cit., pp. 145-164 [trad. it., pp. 165-186]. 28 Ivi, p. 155 [trad. it., p. 178]. 29 Ibidem. 30 EDEHH, p. 229 [trad. it., p. 268]. 31 Ibidem.

30

Bernhard Casper

accade in quanto esso stesso accade». Accade il tempo in quanto storia che avviene fra gli uomini. E pertanto in tale situazione originaria, accade «il linguaggio originario»32 o, come anche ci si potrebbe esprimere, il linguaggio prima di ogni altro linguaggio. 3. Tempo messianico

23

Ma che ne è, in tale accadere originario, del tempo stesso, r­ itenzionalmente irraggiungibile sulla base di una arché di cui ci si possa insignorire? Può essere in generale pensato e venire al linguaggio, se linguaggio e pensiero intendono sempre ‘fissare’ qualcosa? Si potrebbe al riguardo ricorrere alla risposta degli antichi: si tratta qui dell’aeì ón, dell’essere eterno, o – secondo la formulazione del cristiano Boezio – si tratta della interminabilis vitae simul tota et perfecta possessio33. Si potrebbe, per altro verso, rispondere al modo di taluni interpreti di Derrida: non si tratta di nient’altro, ancora una volta, che di nuove unità di senso, le quali tuttavia costantemente e reciprocamente si relativizzano e si negano, giacché non è rintracciabile alcun ‘Aleph’ che stia a fondamento di ogni ‘differimento’ di significato, di ogni differance. Le analisi levinassiane del tempo diacronico continuamente ‘eveniente’ – tempo della responsabilità nei riguardi della storia che accade fra gli uomini – non seguono semplicemente una di queste due linee di risposta. Esse piuttosto rivelano per un verso, anzitutto, che l’atto della «intenzionalità» incarnata, transitiva e ‘responsiva’, dev’essere inteso come «passivité plus ­passive que toute passivité»34: una passività che sia più passiva di ogni passività nel senso dello schema potenza/atto. Ma tale atto, per altro verso, si mostra come ­transitività, ossia come un interrogante, desiderante oltrepassarsi, che possiamo indicare, con la proustiana «recherche du temps perdu»35, come ­ricerca d’un immemorabile tempo perduto, ove, in realtà, si potrebbe rimanere. «Nessun ricordo», nessuna memoria, «potrebbe seguire la traccia di tale passato. Si tratta di un passato immemoriale (passé immémorial)»36. E tuttavia in ogni esperienza primordiale dell’esser-chiamati-alla-responsabilità si mostra, secondo una maniera mai prefissabile, la «traccia»37 di questo «passé immémorial», di questo «profondo passato, mai abbastanza passato»38.

Ivi, p. 262. Boezio, De consolatione philosophiae V, 16. 34 EDEHH, p. 271 [trad. it., p. 260]. 35 Ivi, p. 156 [trad. it., p. 178]. 36 Ivi, p. 198 [trad. it., p. 228]. 37 Per la comprensione del concetto di «traccia» in Lévinas, cfr. EDEHH, pp. 187-202 [trad. it., pp. 215-233]. 38 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-délà de l’essence (abbr. AQ), La Haye, 1974, p. 134. Il passo riprende una citazione da una poesia di Paul Valery. 32 33

Tempo e tempo messianico

31

Allo stesso modo, in ogni atto di risposta che chiama alla responsabilità verso l’altro – e che può accadere soltanto attraverso l’«unicità dell’Io»39 – si mostra un oltrepassarmi verso un futuro che non è raggiungibile mediante nessuna ritenzione e che dunque scardina ogni protenzione anticipante: «un futur jamais assez futur, plus lointain que le possible»40. Nell’evento diacronico dell’incontro, l’esserci mortale responsabile nei confronti dell’altro diviene fecondo. Questa fecondità si palesa come misura decisiva dell’umano. In virtù della fecondità godo prima di tutto di un «tempo infinito». Solo che questa infinita, per me interminabile e sempre rinnovatesi chance di fecondità, si mostra insieme anche come la «rimessa in questione della verità che essa promette»41. Ma questo significa che «la verità» dell’incontro diacronico con l’altro – tempo che accade in quanto esso stesso accade – esige insieme un tempo infinito e «un tempo sul quale potrà apporre il sigillo (un temps qu’elle pourra sceller) – un tempo compiuto», ossia un tempo giunto alla sua verità e attuazione compiute, «un temps achevé»42. Nella frase successiva Lévinas nomina questo «temps achevé» «le temps messianique», il tempo messianico, in cui la mera perpetuità (le perpétuel) «si muta in eterno». Questo «trionfo messianico è il puro trionfo»43. Esso non conosce più né ‘se’ né ‘ma’. Ma questa eternità del tempo messianico è una «nuova struttura del tempo» o è una «vigilanza estrema della coscienza messianica?» È questa la domanda che Lévinas pone alla fine del suo primo capolavoro, senza ­rispondervi, giacché essa avrebbe condotto al di là «dei limiti di questo libro»44. E tuttavia, anche se tale domanda resta aperta, le accurate analisi sul tempo della storia umana che avviene in quanto diacronia – e che insieme vuol esser anche diaconia45 – forniscono un aiuto di gran rilievo al fine di comprendere il significato costitutivo del «tempo messianico» per l’accadere della relazione religiosa. Esse infatti consentono di scorgere come, mediante il reciproco temporalizzarsi degli uomini nel loro essere-nel-mondo, non siano in gioco soltanto nessi di significato fra loro slegati e disposti in maniera caleidoscopica, bensì – nascostamente – già da sempre «il tempo interamente compiuto», nel quale soltanto si potrebbe veramente «essere» insieme: il trionfo del «regno della giustizia», «l’escatologia della pace messianica»46.

EDEHH, p. 196 [trad. it., p. 225]. E. Lévinas, Totalité et infini (abbr.: TI), La Haye 1974, p. 232 e sgg. Trad. it. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, a cura di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2004. 41 TI, p. 416 [trad. it., p. 295]. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ibidem. 45 Riguardo al fatto che la relazione diacronica è sempre anche «diaconia», cfr. EDEHH, pp. 194-197 [trad. it., pp. 223-226]. 46 TI, p. 21. 39 40

24

32

25

Bernhard Casper

Esso si mostra come ciò che stato implicitamente compreso per primo ed esplicitamente inteso per ultimo, secondo che Lévinas afferma alla fine del suo secondo capolavoro: «ogni cosa si mostra e si rende dicibile nell’essere in virtù della giustizia»47. Questa affermazione – con la quale, per dir così, Lévinas fa proprio e al contempo oltrepassa l’antico concetto scolastico secondo cui quod primo ­intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens48 – diviene ancor più chiara attraverso le analisi del tempo inteso come tempo che accade ‘responsabilmente’ fra gli uomini. E senza dubbio – se si presta attenzione al ricorso, in essa, della parola «giustizia» – tale affermazione potrebbe ben trovarsi già in Platone. Cosa di cui, peraltro, lo stesso Lévinas mai ha fatto mistero. Nell’ambito della storia del pensiero, va tuttavia rilevato come questa riflessione sia stata preceduta dalla comparsa di opere molto importanti per la fenomenologia della relazione religiosa quali la «Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo» (1919) di Hermann Cohen e la già citata «Stella della redenzione» di Franz Rosenzweig (1921). Ma è anche possibile trovare un legame fra questa scoperta del tempo messianico negli ignoti abissi d’ogni tempo e le riflessioni di Walter Benjamin intorno al concetto di storia. Chi si dispone nei confronti della storia con atteggiamento pensante lascia che gli altri «si sfianchino con la prostituta “C’era una volta” nel bordello dello storicismo», e «rimane padrone delle sue forze: maschio abbastanza da scardinare il continuum della storia»49. Chi si pone verso la storia con atteggiamento pensante – attraverso la domanda intorno al senso dell’accadere del tempo fra gli uomini in quanto tali – si trova in ultimo toccato dal pensiero estremo di un «arresto messianico dell’accadere» della storia50. Si trova, pensando, nello ‘shock’ dell’estremo ‘qui ed ora’ del suo «presente come quell’‘adesso’, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico»51. Per questo l’angelo della storia – che volge il suo sguardo alle macerie e ai fallimenti della storia trascorsa – su queste stesse macerie non può chiudere le proprie ali, giacché una tempesta che spira «dal paradiso» glielo impedisce52. Ma proprio questo sospinge l’angelo della storia sempre oltre, verso un futuro che non corrisponde al tempo che – inteso soltanto nel senso del numerus motus del movimento – sopraggiunge indifferente. «[…] per gli ebrei il

AQ, p. 207. T. d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, qu. I, art. I. 49 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in: Id., Gesammelte Schriften I-2, hg. V.R. Tiedemann / H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1980, pp. 690-704; qui, p. 702. Trad. it., W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Botola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 51. 50 Ivi, p. 703 [trad. it., pp. 51-53]. 51 Ivi, p. 704 [trad. it., p. 57]. 52 Ivi, p. 698 [trad. it., pp. 35-37]. 47 48

Tempo e tempo messianico

33

futuro non diventò un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia»53. Ma oltre a ciò, questo tempo messianico dovrebbe anche trasformare ogni fallimento della storia umana in una temporalità redenta, per esprimerci in maniera concisa e un po’ ambigua. Dovrebbe conciliare e riparare ad ogni ingiustizia che già viene compiuta. Ma è mai possibile? esso dovrebbe redimere ogni tempo rimosso, che voleva accadere ma che non poté accadere, e che in tal modo ha cristallizzato la storia fra gli uomini e gli uomini stessi ha tenuto prigionieri54. Dovrebbe redimere tutto il tempo che ha fallito e che ha condotto alla schiavitù e alla morte. Giacché altrimenti un tale tempo messianico non sarebbe realmente il «puro trionfo». Dovrebbe esistere sempre con la straziante consapevolezza di un tempo irredento. Così, chi comprende la temporalizzazione del tempo che accade fra gli uomini in maniera pensante, giungerà infine alla celebre frase scritta da Adorno a conclusione dei Minima Moralia: «La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica»55. In relazione con i fatti presentati dalla storia delle religioni e con i molteplici metodi operanti all’interno delle scienze religiose ritengo che – a partire dal contesto ‘fenomenico’ del tempo messianico – sia possibile conseguire un punto di vista utile per intendere il significato centrale della festa e delle liturgie in tutte le religioni. Nel contesto biblico vi appartengono anzitutto la festività del sabato e quella del giubileo56. Attraverso la messa in risalto del «tempo nel tempo» viene simbolicamente festeggiato il senso di tutto il tempo. Nella storia politica – a partire dal presente nascosto del «tempo messianico in ogni tempo» – vien fatta luce sull’istanza che sempre di nuovo abbiano luogo rivoluzioni nella storia umana. Il che getta luce anche sul carattere idolatrico proprio dell’imporsi assoluto dei Totalitarismi. Quanto al dialogo fra Ebraismo e Cristianesimo dopo la catastrofe dell’Olocausto, mi pare che le analisi sulla relazione fra tempo e tempo messianico possano fornire un aiuto decisivo in vista di un reciproco avvicinamento «per la gloria del regno dei cieli». Ma in particolare mi pare che anche le teologie cristiane attraverso un tale relazionarsi al tempo, che accade esso stesso diacronicamente – e che insieme vuol esser ‘diaconia’ – possano trovare, nel ventunesimo secolo, nuove Ivi, p. 704 [trad. it., p. 57]. Per il significato del fenomeno freudiano della ‘rimozione’, si vedano le analisi di M. Merleau-Ponty in Phénoménologie de la perception [1945], Paris, Gallimard 1961; trad. it., di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965. 55 Th. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt a.M. 1982, p. 333. 56 Cfr. S. Mosès, Le don et la dette selon les sources bibliques, in: Id., Le don et la dettes. Textes réunis par M.M. Olivetti, Padova, 2004, pp. 361-369. 53 54

26

34

Bernhard Casper

categorie, per portare al linguaggio e così comprendere in maniera nuova il mistero della fede incarnato in Cristo – di cui, alle origini del cristianesimo, si è fatto parola ricorrendo agli strumenti della metafisica greca. Giacché «i problemi teologici vogliono esser tradotti in problemi umani e quelli umani essere sospinti fin verso la dimensione teologica»57. (Traduzione dal tedesco di Ernesto Forcellino)

57

F. Rosenzweig, GS 3, p. 153.

Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo Vincenzo Vitiello

1. La sintesi di tempo ed eternità non è altra dalla sintesi di corpo e spirito, che è l’uomo – questa equazione, posta e ragionata da Kierkegaard nel III capitolo de Il concetto dell’angoscia1, dice del tempo l’essenziale. Per profondità e novità d’analisi queste pagine – poche ma dense – possono stare accanto a quelle del libro XI delle Confessiones di Agostino. Kierkegaard inizia criticando la logica di Hegel, che fa uso dei concetti di passaggio, mediazione, negazione, senza però darne ragione. È che il concetto di passaggio non appartiene all’ambito della logica, ma a quello della realtà, più precisamente della «libertà storica» (CA, p. 102). Questa critica richiama alla memoria quanto Adolf Trendelenburg aveva scritto, pochi anni prima, nelle Logische Untersuchungen2 e cioè che la deduzione hegeliana del divenire è una falsa deduzione, in quanto nel puro essere e nel puro nulla, identici nella loro assoluta vuotezza, non si trova la differenza che accende l’opposizione necessaria al divenire. Hegel, dunque, aveva introdotto surrettiziamente (stillschweigend) nella Logica concetti di origine sensibile, come appunto il movimento (Bewegung), che implica spazio e tempo. Invero la somiglianza tra la critica di Kierkegaard e quella del Trendelenburg è più apparente che reale. Trendelenburg, infatti, nell’esaminare le prime categorie della Logica hegeliana, aveva trascurato l’essenziale, e cioè – come 1 Ho presente la trad. it. di C. Fabro, cf. Il concetto dell’angoscia – La malattia mortale, Sansoni, Firenze 1953. Nelle citazioni indicherò la pag. direttamente nel testo preceduta dalla sigla: CA. 2 Cf. A. Trendelenburg, Logische Untersuchungen, Berlin 1840, III ed. ampliata, Leipzig 1870, rist. anast. Olms, Hildesheim 1964, Erster Band, III: Die dialektische Methode, pp. 36129. Le obiezioni del Trendelenburg suscitarono le critiche di K. Werder, Logik. Als Commentar und Ergänzung zu Hegels Wissenschaft der Logik, Berlin 1841, rist. anast., Gerstenberg, Hildesheim 1977, p. 41 e passim, e di K. Fischer, System der Logik und Metaphysik oder Wissenschaftslehre, Stuttgart 18523, pp. 137-164 e 194-204. La replica di Trendelenburg non si fece attendere: Die logische Frage in Hegel’s System. Zwei Streitschriften, Leipzig 1843. Il concetto dell’angoscia venne pubblicato nel 1844, a ridosso di queste polemiche.

27

36

28

Vincenzo Vitiello

Hegel si era preoccupato di precisare – che l’essere non passa nel nulla, né il nulla nell’essere, ma entrambi übergangen sind, sono passati3. Vale a dire: non c’è mai un istante in cui è possibile cogliere l’essere come tale, e il nulla come tale, prima del divenire; essere e nulla sono già da sempre nel divenire; pensare l’uno è pensare l’altro, e pertanto il divenire è terzo concetto solo per la logica dell’intelletto, che divide e non sa unire se non a posteriori, non per la logica della ragione che ha il divenire come primo concetto. La apriorità della sintesi hegeliana di essere e nulla dice che la «deduzione» del divenire è la dimostrazione della «indeducibilità» del divenire da altro. Se non si comprende che il problema hegeliano dell’Anfang, dell’inizio, è la dimostrazione che inizio non si dà, che tutto è già da sempre iniziato – e questo appunto dice la vuotezza di essere e nulla presi fuor della sintesi –, la Logica hegeliana, e con la Logica il Sistema tutto, resta un libro chiuso. Ove se ne volesse l’esplicita indicazione, basta aprire la Phänomenologie des Geistes, ove Hegel – contra Schelling – dice a chiare lettere che «La forza dello spirito è grande tanto quanto la sua estrinsecazione, la sua profondità profonda per quanto esso osa nell’esporsi diffondersi e perdersi»4. Ora, questo aspetto della Logica hegeliana è del tutto chiaro a Kierkegaard. La sua critica a Hegel è, su questo punto, giusto il rovescio della critica del Trendelenburg. Kierkegaard non sostiene affatto che essere e nulla restano, a causa della loro vuota astrattezza, immobili l’uno di contro all’altro; dice, bensì, che il flusso del concetto logico rende indistinguibili i termini della sintesi, talché il divenire hegeliano non è tempo, in quanto in esso non v’è modo di distinguere passato presente e futuro. Tutta la difficoltà di intendere e spiegare il «tempo» sta in ciò, che in esso l’indivisione è insieme divisione, il movimento non-movimento, la mediazione immediatezza, la negazione affermazione – e viceversa. A testimoniare la superiorità della dialettica anti­ ca sulla moderna, Kierkegaard rinvia al Parmenide platonico (CA, nota 2 di pp. 102-105): il molto giovane Socrate obietta a Zenone, dinanzi al venerando e terribile Parmenide: che c’è da meravigliarsi se l’uno è insieme con i molti, e il simile col dissimile? Questa comunione l’abbiamo costantemente sotto gli occhi. Taumastón, stupefacente, sarebbe se l’uno in quanto uno fosse molti, e il simile in quanto tale fosse dissimile (Parmenide, 129a-b). Platone oltre Hegel – dunque. La cosa merita d’essere approfondita. 2. Hén ei hén – uno se (è) uno: la prima ipotesi formulata da Parmenide riguarda l’uno in sé, da tutto ab-solutus (137c-142a). Anche dall’essere, dacché altro è dire «essere», altro «uno», come attesta il fatto che essere si dice

3 Cf. G.F.W. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, 5-6, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, I, p. 83. 4 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (= PhG), Hrsg. J. Hoffmann, Meiner, Hamburg 19526, p. 15.

Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo

37

anche del molteplice. Questa considerazione dell’uno in sé s’impone anche ove si ritenga che non c’è «cosa» che non sia in relazione ad altro, dacché, per essere in relazione, ogni termine – quale esso sia, l’uno come l’essere, o altro che si pensi – deve avere una sua proprietà, o carattere: come, altrimenti, potrebbe entrare in relazione con altro? Ma, quale il carattere dell’uno in sé? Esso non può avere né centro né periferia, non può essere tutto, né parte, non può aver luogo, né tempo – sarebbe altrimenti molteplice e non uno. Il perno logico intorno a cui ruota tutta la I ipotesi è questo: l’uno come tale non ha spazio né tempo; l’uno come tale è áneu schématos, senza figura (137d). Ápeiron, dice Platone, e noi aggiungiamo: A-ídion – sottolineando la radice «vid», presente anche nel latino «videre». Non avendo figura, è chiaro che nulla può dirsi dell’uno in sé. La seconda ipotesi considera hén ei ésti: l’uno se è (142b-155e). Uno di contro, di fronte a essere. E, in quanto tale, determinato, e cioè partecipe di una qualche figura: schématos tínos metéchein (145b). Ancor qui domina nell’argomentazione, svolta dal Parmenide platonico, lo spazio-tempo. È bene insistere su questo punto – fondamentale per comprendere, in seguito, l’analisi di Kierkegaard –, e cioè che la possibilità del pensiero si radica nell’immagine, nella figura. In breve: il pensiero è schematico, o non è. Pensa in figure, o non pensa affatto. Pensando in immagine, il pensiero pensa il tempo come spazio. Vale a dire: pensa sì le distinzioni del tempo, i mére chrónou, passato, presente, futuro, ma non il «passaggio» dall’uno all’altro. Di qui la conseguenza che uno è insieme giovane e vecchio, e più giovane di sé e più vecchio di sé – a seconda del luogo prospettico (dello Standpunkt) da cui lo si osserva. Se la I ipotesi ha un esito meramente negativo: dell’uno in sé non può dirsi nulla, la II ha un esito affatto positivo, in quanto di esso può dirsi tutto. Tutto e il contrario di tutto. Ma si badi: tutto e il contrario di tutto non configurano qui un pensiero contraddittorio, un pensiero, cioè, che vive nella e della contraddizione. Ben al contrario ogni contraddizione è tolta – la contraddizione come tale è tolta – ove si consideri ciascuna affermazione dal suo Standpunkt, dalla prospettiva dalla quale è fatta. Pertanto affermare che uno è «più giovane» e «più vecchio» (o «più piccolo» e «più grande») di sé non determina contraddizione, dacché uno non in quanto «più giovane» di sé è «più vecchio» di sé, non in quanto «più piccolo» di sé è «più grande» di sé. Uno è certamente più giovane ed insieme (háma) più vecchio di sé, ma sotto diversi rispetti. La diversità dei rispetti impedisce di considerare le argomentazioni della II ipotesi in contrasto con il principio di non-contraddizione, che a questo punto è opportuno citare: «Tò autò háma hypárchein te mè hypárchein adúnaton tô autô kaì katà tò autó»5. Ma, se il più giovane non è in quanto tale più vecchio, se il più piccolo non è in quanto tale più grande, tì thaumastón? La domanda-obiezione di 5 «È impossibile attribuire e insieme non attribuire lo stesso allo stesso e secondo lo stesso», Met., IV, 1005b 19-20; corsivo mio.

29

30

38

Vincenzo Vitiello

Socrate ritorna. E trova risposta solo nella terza ipotesi (tò tríton: 155e-157b), nella quale Platone tratta del «passaggio» dall’uno in sé all’uno che è (all’uno in relazione), dall’uno ápeiron e aídion, áneu schématos, all’uno che ha figura, che partecipa della immagine. Ovvero: del «passaggio» dalla quiete al movimento. È di per sé evidente che questo «passaggio» non è movimento: se il passaggio dalla quiete al movimento fosse movimento, la quiete sarebbe già passata nel movimento prim’ancora di passarvi (di qui la tesi hegeliana, che nega la possibilità stessa di concepire qualcosa che non sia già movimento, divenire, passaggio); e neppure è quiete, questo passaggio: se lo fosse, lascerebbe la quiete nel suo stato, non la porterebbe al movimento. È quindi un passaggio che, per non essere movimento, non passa, un «passaggio-nonpassaggio». Uno strano mutamento, se, come afferma Platone, «l’uno, sia che stia in quiete sia che si muova (eíper hesteké te kaì kineîtai), muterà verso uno dei due stati, perché solo in questo modo potrà fare entrambe le cose; e, mutando di stato, muta istantaneamente (metabállon d’exaíphnes metabállei), e quando cambia di stato non sarà in nessun tempo (en oudenì chróno), non si muoverà e non sarà in quiete (oudè kinoît’àn tóte, oud’àn staíe)» (156 e 3-7), quindi non avrà spazio, visto che né si muove, né sta fermo. Non è questo il thaumastón, lo stupefacente, l’áxios thaumázein, ciò che è degno di destar meraviglia? Questo passaggio-non-passaggio, che né divide né unisce (oúte diakrínetai oúte sugkrínetai: 157a 6), che quando cambia stato non è in nessuno stato, che avviene in un istante, exaíphnes, e in uno strano frammezzo, un frammezzo senza luogo, átopon metaxú? Perché Kierkegaard è tanto interessato a queste pagine del Parmenide platonico? Perché in esse è custodito il thaumastón del tempo. Meglio: della temporalità.

31

3. Palese la relazione tra la diade tempo-eternità in Kierkegaard e la diade kinesis-stasis nel Parmenide platonico. Affatto esplicito, poi, il riferimento dell’exaíphnes, reso con Oejeblik, batter d’occhio (nettamente separato dal latino momentum, che, deriva da movere e indica semplicemente il «passare») all’Invisibile (CA, p. 109), all’aídion, all’áneu schématos della I ipotesi. Kierkegaard insiste su questa relazione, rammentando il paolino «en atómo kaì en rhipê ophtalmoû» della I Corinzi (15.52): il mondo trapasserà in un istante e in un batter d’occhio. Tò exaíphnes, l’Oejeblik, l’istante, apre alla comprensione dell’eternità, che non è la sempressente durata, l’imperituro flusso eracliteo ove neppure è possibile distinguere, come s’è detto, passato presente e futuro. L’eternità, a cui si apre l’istante, si prospetta anzitutto come futuro, come l’Incognito, l’incognito che è di fronte a noi, e che al nostro sguardo, che si proietta innanzi, si sottrae. Sottraendosi, l’eternità-futuro si piega sullo sguardo, e lo piega, lo volge indietro. L’eternità è un futuro già da sempre stato, quindi non meno passato che futuro. E non passato distinto da futuro, se è futuro già da sempre stato, e, per lo sguardo mondano, passato sempre ancora da venire, passato

Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo

39

che è futuro. Nell’eternità le distinzioni scompaiono: eterno è il presente, il presente che non passa, perché ogni passare è già da sempre in esso, consummatum, perfezionato, cioè compiuto. «Il concetto fondamentale del cristianesimo – Kierkegaard ricorda ancora Paolo – è tò pléroma toû chrónou (Ga, 4.4)», la plenitudo temporis, la pienezza, qui nel senso di compiutezza, del tempo (CA, p. 112). Ma l’Oejeblik non è «atomo» del tempo, bensì dell’eternità. Meglio: «è il primo riflesso dell’eternità nel tempo» (CA, p. 110). Nell’istante eternità e tempo si toccano: l’istante, l’Oejeblik, è la luce del lampo che squarcia la nera notte, mostrando Cielo e Terra, divisi, ed è insieme il batter d’occhio che vede questa divisione di Cielo e Terra. Tò exaíphnes è il «terzo» – tò tríton – che congiunge, dividendo. Rapportando la Terra al Cielo. Qui il «salto», la novità del tempo, che congiunge l’altro al medesimo, separandoli: perché l’altro, il lampo che squarcia la nera notte dell’indistinto flusso dell’accadere eracliteo, non è opera della Terra, non viene dal tempo, dal corpo, ma da «fuori»; e tuttavia appare, il lampo, solo allo sguardo del corpo, come istante che taglia il flusso del tempo animale, corporeo. Tò exaíphnes non è Terra né Cielo, non è corpo né anima, è lo spirito che trasforma il tempo in temporalità, l’indistinto fluire della natura nella distinzione del tempo storico. Ricorderei, qui, un Autore certo ignoto a Kierkegaard, e da lui molto distante, il napoletano Vico, che narrando l’uscita dei Terrae Filii, dei Gegeneîs, già non più bestie e non ancora uomini, dall’ingens sylva della natura, parlò del lampo e del tuono che i pii bestioni avvertirono come cenni degli dèi6. Il riferimento a Vico si ferma qui, alla notazione che il salto da natura a storia, ovvero: la trasformazione del tempo in temporalità, non avviene naturalmente, ma per un accadimento esteriore, per un’irruzione dal di fuori. L’istante è la «possibilità» della natura d’essere toccata, colpita dall’evento esterno. Ma il terzo che porta il tempo indistinto della natura alla distinzione della temporalità non «salva» l’uomo se non condannandolo, rendendolo cioè consapevole della sua peccaminosità. Nell’istante del lampo l’uomo conosce l’infinita distanza che separa Cielo e Terra. Diviene consapevole della sua miseria, che la sua natura è «più bassa di quella dell’animale» (CA, p. 110). Ed è questa consapevolezza che lo «salva». L’uomo è salvato non dalla congiunzione, ma dalla separazione. Chiara la presenza del concetto paolino della Legge causa determinante il sorgere della coscienza del peccato7. Ed è solo questa presenza che spiega l’affermazione di Kierkegaard che i Greci (quindi anche l’autore dell’exaíphnes) «non compresero, nel senso più intimo, il concetto di spirito, e perciò non compresero neanche, nel senso più intimo, la sensualità e la temporalità» (CA, p. 109, nota 1). Non avendo il concetto del corpo come peccato, non potevano capire il tempo come redenzione, 6 Cf. G. Vico, Principj di Scienza Nuova (1744), in Id., Opere, 2 voll., ed. A Battistini, Mondadori, Milano 19992, I, cpv. 377. 7 «[…] tèn hamartían ouk ègnon ei mè dià nómou» (Rm, 7.7).

32

40

Vincenzo Vitiello

la temporalità dello spirito. Di qui anche la concezione greca dell’eternità come «passato»: e a sostegno di questa affermazione possiamo citare il tautà aeí – «sempre le stesse cose, se l’atto è prima della potenza» (eíper próteron enérgheia dynámeos: Met., IV, 1072a 8-9) – che sigilla il pensiero aristotelico. Di contro, nel pensiero cristiano l’eternità si presenta allo sguardo terreno, al battito d’occhio, all’Oejeblik, come futuro: l’éschaton, l’ultimo, portato alla vista nella sua invisibilità, conosciuto sì, ma come sovranamente incognito. Éschaton ed insieme tò pléroma toû chrónou. Come spiegare questa identità di assoluti differenti? Questa identità di plenitudo temporis e futuro? Di Tutto e parte? Come può l’eterno essere futuro? Ancora qui è Paolo che domina: l’exaíphnes di Platone è letto da Kierkegaard alla luce del nûn kairós dell’Epistola ai Romani (8. 18). L’avvento di Cristo, il presente di Cristo, muta l’intera storia, l’intero tempo: non solo il futuro, bensì anche il passato. Il passato innocente dei Gentili e colpevole degli Ebrei è ora sotto lo stesso destino: la redenzione futura. La Legge non è negata, è redenta (Rm, 3.31: nómon histánomen). È, o non – piuttosto – può essere? La drammatica, anzi tragica certezza paolina della storia come redenzione – per la quale l’iniziale condanna di una parte di Israele ha come fine la salvazione dei Gentili, dopo la quale tutto Israele sarà redento (Rm, 11) –, questa tragica certezza non è di Kierkegaard. Il nûn kairós di Kierkegaard resta legato al batter d’occhio, all’Oejeblik, del tempo mondano. È, e resta, tò exaíphnes, la visione del lampo che squarcia la notte e rivela l’infinita distanza tra Cielo e Terra. Visione redentrice, perché angosciata. Perché legata alla peccaminosità del corpo, e del mondo, del tempo mondano. La temporalità spirituale non scioglie l’anima dal corpo, anzi nella distanza la lega ancor più fortemente. Cerchiamo di spiegare questo punto, addentrandoci nel mistero della temporalità.

33

4. Torniamo all’intermezzo platonico. Si è letto: tò exaíphnes oúte diakrínetai oúte sugkrínetai. L’istante né divide, né congiunge. Perché divide congiungendo, e congiunge dividendo. Meglio: in quanto divide congiunge e in quanto congiunge divide – questo il suo téras, il suo prodigio, per il quale è áxios thaumázein, degno di destare meraviglia. Cerchiamo di capire cosa avviene e come avviene. Le divisioni del tempo – i mére chrónou – non debbono cadere nello spazio. Il passato non resta dietro il presente, il presente, accadendo lo nega. Lo cancella. Ma, attuandosi, il presente si estende, prende spazio, si dà figura, traccia la linea che lo separa dal passato e dal futuro. Cancella la figura del passato disegnando la propria, che comprende insieme se stesso e le sue ramificazioni. Ogni presente ridisegna l’intero tempo, cancellando le precedenti figure. La temporalità è questo cancellare disegnando, questo disegnare che cancella. Ove il futuro invisibile, il futuro della plenitudo temporis, è solo l’invisibile, l’infigurato, l’aídion, che, con incessante peccato,

Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo

41

l’uomo – fratello in Cristo – porta a figura, a visione. La peccaminosità, iscritta nella natura umana, è questo legame che incatena l’anima al corpo, dacché l’atto stesso che lo scioglie lo riannoda. Kierkegaard avverte tutta la sofferenza della spiritualità umana redenta solo nel peccato. Angoscia è questo: essere spirito nella carne. Ma in questa angoscia, nel nûn kairós di questa angoscia è anche la redenzione del tempo nella temporalità. Dico: nella temporalità, quindi nel mondo – non, non ancora almeno, nell’éschaton del pléroma toû chrónou. 5. Érchetai hôra kaì nûn estin (Gv, 5. 25). Viene l’ora ed è adesso. Hôra è il tempo della vita eterna – nûn il tempo, l’«adesso», in cui coloro che odono la voce del Figlio di Dio vivranno in eterno. Commentando questo passaggio del Vangelo di Giovanni, Agostino distingue due redenzioni, la presente, dell’anima, dalla futura, quando anche i corpi risorgeranno (De Civitate Dei, L. XX, cap. VI). Ma decisiva è la prima: senza la redenzione dell’anima, non vi potrà essere resurrezione dei corpi. L’«adesso» del cristiano decide dell’ora. Il nûn è kairós, l’adesso è propizio per questo, che in esso si decide dell’ora, della vita eterna. Il tempo cristiano, la temporalità dello spirito è questa dialettica tra hôra e nûn. Che può essere diversamente interpretata. Decisiva, per tutto l’Occidente cristiano, l’interpretazione dettata da Paolo, dalla quale discende anche la concezione del tempo e della storia tipica dell’Occidente. È un nodo problematico sul quale bisogna fare chiarezza. 6. Dichiarando la sua preferenza per la parola profetica, la parola che educa ed insegna, la parola rivolta agli altri, la parola della comunità e della storia, rispetto alla glossa, la parola inusuale ed estranea, la parola del singolo in rapporto solo con Dio e chiuso in se stesso, Paolo nella I Lettera ai Corinzi (cap. 14) piega il presente al futuro, il rapporto verticale alla dimensione orizzontale della comunità (ekklesía). Beninteso, Paolo non nega affatto la glossolalia per la profezia, sa bene che senza la prima la seconda neppure è possibile, ma la prima è per la seconda, in vista di questa. Il fine del presente è il futuro. La hôra della vita eterna è il futuro da conquistare – rectius: da meritare. Certo, da meritare nel nûn kairós, nell’istante propizio, nell’adesso in cui s’ode he phonè toû huioû toû theoû, la voce del Figlio di Dio; ma il fine è l’éschaton: l’eternità che da sempre è, ma che per noi, mortali e peccatori, è ancora futuro. Le due redenzioni di Agostino seguono il medesimo schema temporale. La renovatio cristiana è questo tempo duale, questo tempo proiettato in avanti. La grande svolta di Hegel, il suo sforzo di portare il cristianesimo dalla religione alla filosofia, non toglie il primato del futuro, ancorché accolga il futuro, come il passato ed il presente nella hôra non più avvenire, ma attuale. Si faccia attenzione a questo: Hegel non subordina affatto la hôra al nûn, ben al contrario assorbe completamente il nûn nella hôra. Rendendo attuale, presente la hôra, Hegel è attento a distinguere il presente che ha in sé l’intera

34

42

Vincenzo Vitiello

storia – tutte le dimensioni del tempo, i mére chónou – dal presente che passa8. Bisogna tener distinta la secolarizzazione hegeliana della storia, dalle successive secolarizzazioni dei vari storicismi ad essa succeduti. Se questi dissolvono la hôra nella molteplicità dei nûn, la filosofia hegeliana della storia, per contro, assorbe nel presente che non passa, nella parousía dell’Assoluto, ogni nûn. Non li nega, beninteso, li subordina alla hôra. Vale a dire: Hegel distingue la storia formale della coscienza – id est: la storia della forma-coscienza, che è lo spazio aionico d’ogni accadimento, passato, presente, futuro – dalla storia «materiale» dei fatti storici. In tal modo l’intera storia è redenta, oltre ogni male e peccato. È questo il cristianesimo filosofico di Hegel, l’assunzione del male nella totalità del bene, la riduzione del male a visione intellettualistica e parziale, sopra cui s’innalza il pensiero della ragione per il quale la Vita eterna ha in sé come le singole vite le singole morti, parimenti. Non a caso lo spirito assoluto è definito memoria (Erinnerung) e calvario (Schädelstätte) e, in quanto tale, realtà (Wirklichkeit) e verità (Wahrheit: PhG, p. 564). Gli storicismi che a questa grande filosofia sono succeduti o hanno negato il male nel relativismo più cieco e contraddittorio, o, al meglio, hanno visto nel male uno strumento di bene. Ma in tutte queste filosofie, nelle assolutistiche non meno che nelle relativistiche, è la dialettica della temporalità cristiana che viene meno. In tutte, infatti, è annullato il senso della peccaminosità della natura e della storia umana.

35

7. Al cristianesimo filosofico di Hegel, che interpreta la Croce come il compimento della conciliazione (Versöhnung) tra il divino e l’umano, il tempo in cui la storia umana scopre in sé la propria essenza divina, Kierkegaard oppone un cristianesimo religioso, aspro, incentrato sulla «infinita distanza qualitativa» tra Dio e l’uomo9. L’opposizione tocca le radici del cristianesimo: la redenzione hegeliana del peccato eleva la carne allo spirito, l’imitatio Christi kierkegaardiana kenotizza lo spirito alla carne. Ho lógos sárx eghéneto (Gv, 1.14) è l’imperativo religioso del pensatore cristiano. «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt., 11.28). Chi pronuncia queste parole non è un signore, un uomo potente, un principe o re; l’invitante è il figlio di un falegname e di una «Vergine disprezzata» (EC, p. 98 e ss.). Umile e sofferente lui stesso. L’amico dei peccatori, sottolinea Kierkegaard citando sempre Matteo (11.19: EC, p. 77). La salvazione cristiana si compie nel luogo stesso del peccato. Se il peccato è l’abbandono e il distacco da Dio, allora si toglie il peccato – in senso cristiano: lo si prende su di sé, non lo si supera, lo si sopporta bensì – non altrimenti che umiliandosi all’infinito. Non il trionfo dello spirito che ha il calvario come memoria, ma la sofferenza

8 Cf. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Werke in zwanzig Bänden, cit., 12, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1970, p. 105. 9 S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo (= EC), trad. it. di C: Fabro, Studium, Roma 1971, p. 186.

Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo

43

attuale, nella carne e della carne. Se, per riprendere la propositio XV del Proslogion, il Signore, ancor più che id quo magis cogitare nequit, è quiddam maius quam cogitari potest, allora l’uomo gli si può accostare solo prendendo coscienza del suo essere quiddam minus quam cogitari potest. Pertanto al cristiano non è dato altro fare che ridurre se stesso, umiliarsi, svuotarsi, ma con la coscienza che la sua umiliazione non colma la distanza da Dio, ché la sua stessa kenosi è allontanamento, che la carne che s’umilia resta carne. Il peccato che si confessa resta peccato. L’asperità, e la grandezza, del cristianesimo di Kierkegaard, sta in ciò, nel sostare ai piedi della Croce senza guardare «oltre». Kierkegaard sa che il tempo non si cancella se non nel tempo. Sia ben chiaro: non è la negazione dell’altro, dell’oltre, dell’éschaton – se così fosse, in che Kierkegaard, il cristianesimo di Kierkegaard, si differenzierebbe dai cristianesimi secolarizzati del nostro tempo? –; è il bisogno di non piegare il presente al futuro, la glossolalia alla profezia, il nûn kairós all’espansione del tempo storico. Di non annegare la singolarità della sárx nell’universalità del lógos. Ma questa singolarità non è un atomo; sotto un certo aspetto è più universale del lógos, perché nel suo fondo giace quell’unità del Sacro, quell’Uno che è Uno, quell’Uno, a cui pure l’essere è inadeguato, che è prima ancora della distinzione tra Cielo e terra, lógos e sárx. Nella singolarità della carne, nel corpo del peccato, è l’unità del Padre che, nella medesimezza col Figlio, è oltre il Figlio, e che l’uomo può esperire solo attraverso la Parola del Figlio, che come tale, Parola del Silenzio, è già distante dal Silenzio. Perciò il cristianesimo non è una dottrina (EC, p. 166), ma un esercizio. Nulla che possa tramandarsi: «ogni generazione ha il compito di ricominciare da Cristo» (EC, p. 167). Redimendo il peccato nel peccato, dacché pur appesa alla Croce, la carne resta carne. Ai piedi di questa Croce Kierkegaard invita a fermarsi. È il grande tema dell’arresto (EC, p. 81). 8. Grande tema, perché sconvolge la concezione tradizionale del tempo. La concezione occidentale del tempo. Spezza, infatti, il nesso antico tra tempo e movimento (cf. Aristotele, Phys., IV, capp. 10-14). «In rapporto con l’Assoluto non c’è che un solo tempo: il presente». Questa frase, che si legge in Esercizio di cristianesimo (p. 126), potrebbe ben stare in un testo di Hegel. Ma avrebbe significato opposto. Perché nella hegeliana filosofia della storia il presente è la hôra, nella riflessione di Kierkegaard è il nûn. Ma non quello che è accolto nella hôra, il «momento» (da movere, appunto), bensì il nûn nel quale tutta la hôra si contrae. All’espansione del tempo del cristianesimo storico Kierkegaard oppone la sua contrazione in un punto. Sia ben chiaro: la contrazione dell’eterno presente della storia nell’istante, l’implicatio della hôra nel nûn kairós del rapporto con l’Assoluto, non comporta la semplice sostituzione del nûn alla hôra. Non si tratta di scambiare parti e ruoli. Il nûn kairós in cui tutta la storia si raccoglie e si concentra, resta, nella sua istantaneità, momento, resta nel flusso della storia mondana, umana, resta insieme agli altri momenti, e cioè: prima e dopo

36

44

Vincenzo Vitiello

di essi; ma non è più questo essere-insieme che conta; conta l’esperienza, meglio: l’esercizio (áskesis del corpo, e nel corpo, e dal corpo), l’esercizio che in ogni momentum È l’éxaiphnes, l’istante, l’Oejeblik, nel quale viene decisa l’intera storia, la hôra che non passa, tutta l’eternità. Qui davvero l’éxaiphnes taglia la storia e l’eternità – non perché divide il tempo e l’eterno in passato presente e futuro, ma perché de-cide, separa l’eternità e il tempo prima di Cristo e dopo Cristo. Perché sospende eternità e tempo all’istante di questa decisione. In questo essere, il momentum, istante, exaíphnes, Oejeblik, lo stare insieme dei molti «momenti» cambia carattere. Ciascuno conta non per il suo essere prima o dopo l’altro, ma per il suo essere in rapporto con l’Assoluto. È qui aperta la possibilità di intendere lo stesso flusso storico diversamente, non nel senso della compagnia, ma di uno stare accanto che non vale per l’orizzontalità della successione – e quindi per il suo esito: il successo –, ma per la verticalità del rapporto unico, assoluto, ab-solutus, da tutto sciolto, con l’Assoluto, con ciò che è da tutto sciolto, sciolto dal suo stesso esser-sciolto, se è Assoluto, Ab-solutus, non per sé, ma per noi, non tê phúsei ma pròs hemâs. Rapporto ab-solutus, s’è detto, e pertanto da nulla garantito. Rapporto che si radica nell’angoscia.

37

9. Kierkegaard ci ha dato di questo tempo un’immagine oltretragica che ha la bellezza di un’icona di Andrej Rublev, ove la più alta spiritualità è impregnata di materia, e materia deperibile: legno, polvere d’oro e/o d’argento, colore. L’immagine di Abramo che si avvia, nella più completa solitudine, estraniatosi anche da Sara, al Moriah10. I tre giorni in cui è misurato il tempo mondano del suo viaggio sono un solo giorno e tutta l’eternità. Sono l’istante, l’Oejeblik, nel quale ciò che accade – la figura, l’immagine, di ciò che accade – è superato infinitamente dal suo senso. Anche la mano dell’Angelo che arresta il braccio di Abramo è, rispetto al senso del tutto, immagine e solo immagine. Carne pur esso, carne legata al peccato. Il senso è solo nel Silenzio che tutto abbraccia. Quello che ciascuno esperisce, quando ciò gli accada, portandolo alla parola nella sua lingua, nella sua glossa – forse con la sua preghiera – accanto alle altre parole, ma non con esse. Se qualcosa di troppo v’è in questo racconto-immagine, è la certezza di Abramo che ciò che gli sarà tolto gli verrà restituito: «un nuovo Isacco» (TT, p. 138). Questa certezza proietta Abramo oltre l’istante. Non riconosce il valore del nûn kairós nel nûn – nel mistero del Silenzio che è al fondo del nûn. Ma questa certezza cancella l’angoscia. Cancella il peccato. Cancella l’infinita distanza qualitativa. Cancella l’immediatezza di una mediazione che lascia gli immediati nella loro immediatezza. Uniti solo nella distanza infinita che li separa. 10 Cf. S. Kierkegaard, Timore e Tremore (= TT), in Id., Timore e Tremore e La ripresa, trad. it. di F. Fortini e K. Montanari Gulbrandsen, Comunità, Milano 19713, pp. 36, 46 e passim.

Il tempo del desiderio Félix Duque

Non sempre i grandi pensatori hanno turbato la sonnolenza mentale del bravo borghese con intricate e cabalistiche formule sull’essere e il nulla. Talora si sono consentiti brusche irruzioni nella vita quotidiana, sermoneggiando così: «O giovane (ripeto) ama il lavoro; ricusa i piaceri non per sottrarti ad essi, ma per averne sempre davanti allo sguardo (im Prospect) solo quanto è possibile! Non attutire con un godimento precoce la sensibilità per il piacere! La maturità degli anni, la quale non può mai far rimpiangere la perdita di un qualsiasi godimento fisico, ti assicurerà con questo sacrificio un capitale di contentezza, che è indipendente dal caso o dalla legge di natura»1. A tutta prima, questi del vecchissimo Kant sembrano, invero, i consigli di una zia zitella o di un pio e lamentoso barbogio. Se, però, vi si presta attenzione, si avverte in queste parole qualcosa di inquietante. In fondo qui si parla del tempo (e di questo, Kant qualcosa sapeva): l’esercizio continuo del godimento logora. Ma a Kant non interessa sottolineare il logorio del corpo (col risultato prevedibile della morte per abuso), quanto l’indebolimento del piacere, in cui propriamente consiste il godere. Quella continuità, infatti, tende alla soppressione della ricettività, sfumando, sino ad annullarli, i confini tra l’emittente e il recettore. D’altronde notiamo che godendo non siamo più aperti all’altro, in quanto siamo noi stessi l’altro: una dissolvente contraddizione. Perciò è giocoforza posporre artificiosamente il godimento, dilazionandolo, ritardandolo. Il piacere è tolto e conservato insieme (aufgehoben) dalla e nella sua rappresentazione: è mantenuto a distanza, sul limite. La mano non palpa né accarezza la cosa dilettevole, la ritrae: nega l’esistenza della cosa, ne trasforma violentemente l’aspetto, insomma l’elabora. E non penso soltanto alla conversione della cosa naturale in prodotto (diciamo: l’albero in tavola), ma a qualcosa di più brutale ed insieme più raffinato, che Kant chiama, poche righe prima del testo citato, Cultura. È la cultura mediante la quale il pittore 1

I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, § 63 (Ak. VII, 237).

39

46

40

41

Félix Duque

sottrae l’anima e la vita alla povera sposa di The Oval Portrait plasmandone le fattezze umane nel quadro; il medesimo processo col quale l’impazzito Hoffmann assiste impotente alla morte di Antonia, rapita dal suo stesso, incessante canto. La cultura allontana la cosa, rendendola indisponibile oggetto di desiderio. L’intervallo tra il godimento frustrato e il possesso della cosa è il tempo futuro: l’ambito del possibile. La conoscenza di ciò che potrebbe essere stato un godimento, senza esserlo ora, è un ricordo: tempo passato. Nel presente s’incrociano il dolore dell’assente e la speranza del futuro. Nel presente fa atto di presenza una rappresentazione, un’immaginazione suscettibile d’esser comunicata. Il piacere è individuale, perché il suo godimento non si dà nel tempo, ma si attua nell’istante. I desideri, invece, sono compatibili, comunicabili. Il desiderio accomuna, non conosce fallimento. Cioè: fallisce per (perché siamo) noi. Propongo che questa espressione venga presa alla lettera: il desiderio stabilisce un taglio nel continuo magmatico godimento-desiderio e dolore-distruzione che chiamiamo vita. Gli animali si integrano e disintegrano in questo continuum. Soltanto l’uomo ha tempo, non per il desiderio, ma grazie ad esso. Se soddisfa i suoi desideri, uccide il tempo. Fortunatamente, c’è sovrabbondanza di desideri, per cui, soddisfatto uno, altri ne vengono ad ondate. Sorgono così tempi slegati, eterogenei. V’è, però, un’altra possibilità ancora, più raffinata: desiderarsi attraverso lo stesso desiderio, e cioè: mantenere i desideri a distanza da uno «stesso» (invero lo «stesso» si genera in questo contenimento). Guardare i desideri in prospettiva. Vederli come un orizzonte che ci assedia, e al quale resistiamo… finché non si fallisce: quando il sacrificio dell’istante non s’è convertito in capitale di soddisfazione (Zufriedenheit: la pace nell’appaciarsi dei sensi). Ma capitale di cosa? Cosa si è capitalizzato attraverso la dilazione del godimento? Abbiamo guadagnato, ovviamente, la nostra medesimezza: la nostra estraneità rispetto al mondo e alla vita. Adesso possiamo dire: Io. È che uno sente desideri, e meglio sarebbe dire: appetiti. Ci sono cose che lo reclamano, lo appetiscono (appare ora nella proposizione in forma di complemento oggetto). L’appetito è impersonale, dissolve. Niente di più ridicolo di colui il quale esige dal macellaio carne buona, perché egli è molto «esigente», piacendogli le cose buone. Le cose buone sono tali nel gusto, nell’essere gustate. Perciò, quando dico: «desidero tal cosa», sto in fondo sottraendo alla cosa il suo proprio peso, considerando di essa solo la sua rappresentazione come possibilità di riparare ad una mancanza. Solo che non pongo nel desiderio la forza necessaria per appropriarmi della cosa, ma lascio essere il suo esangue fantasma, l’orma che la sua mancanza lasciò in me. La cosa, nel desiderio, brilla per la sua assenza. È puro luccichio, parvenza (Schein). La cultura si afferra a questo luccichio e, così, ordisce spazio e tempo comuni, dacché quel che riluce e illumina crea comunità. Il sole sorge per tutti. Perciò posso andare, da questo luogo oltre e dire: «desidero tal cosa». Qui c’è imperium, sicurezza del godimento, passaggio all’azione assimilatrice, negatrice dell’oggetto. Perciò

Il tempo del desiderio.

47

gli uomini di comando e di potere – non diciamo se il comando concerna le armi, ovvero: la possibilità di anticipare la morte – disprezzano gli uomini di cultura, sognatori inerti, tessitori di desideri. È tuttavia evidente che se non ci fosse tale tessitura, tale ordito di desideri, non esisterebbero cose da dominare, o, all’inverso, da distruggere. Abbiamo, dunque, appetiti animali, desideri umani, volontà personali. Volendo, possiamo dire che dapprima siamo «esso», poi «io», infine «super-io». Solo nel secondo caso c’è tempo e convivenza. Si muore dalla voglia di provar piacere, perché per ciò manca sempre tempo. Avanza tempo, invece, al saggio – o lo si crede – per pensare e ordire scorribande e inquietudini per gli uomini. Il desiderio è l’occhio del ciclone in cui si riassume la nostra vita. Gli stoici (e Kant lo era, sebbene fosse molt’altro ancora) furono molto sottili nel distinguere tra desiderio e appetito, che linguaggio e vita confondono (e ci sarebbe da chiedersi donde viene questa confusione). Cicerone ci racconta che secondo la dottrina stoica: «libido sit earum rerum, quae dicuntur de quodam aut quibusdam, quae kategorémata dialectici appellant»; laddove «indigentia rerum ipsarum est»2. Nella libido le cose divengono predicati: sono elevate a linguaggio e rappresentazione. Ogni desiderio è in fondo voglia di vedere e voglia di parlare. Per contro la indigentia è brama delle cose stesse. L’uomo, in quanto uomo, non brama nulla, di tutto facendo teatro. Talché non s’ha da dire che noi realmente desideriamo il sesso, il mangiare e il denaro. Nel sesso, ciò che davvero desideriamo (pudicamente coprendolo con l’enigma della procreazione) è la costatazione cosciente – e nel tempo – di una sommersione nell’inconscio che sta molto al di qua del tempo. Desideriamo l’impossibile vita nell’esser morti; la vita, controllata ed effimera, della mortalità: ch’io viva, abbandonando l’essere per fondermi con chi, prima, mi era estraneo. Qui il tempo desidera essere istante. Ma è sempre troppo tardi per «quello», troppo tardi perché l’Io decidente e determinante veda la continuità della carne. Questo astratto abbandono, questo residuo vinto dall’inaccessibilità dell’istante, è l’«ora». Il presente puntiforme è il dono di una disfatta: nunc stans. Ora è già: lo spazio nel quale si fugge dal corpo, fluido. Nel mangiare, nell’ingerire l’estraneo (e non nell’estensione superficiale del con-tatto dermico), si pretende riempire un buco, riparare ad una perdita: essere se stesso a ­costo di un equilibrio precario tra acquisizione (che tuttavia non si riesce ad essere) e desiderio (che già non si è). Non la fame e la sete, ma il dire e il vedere, che ho fame e sete generano passato e futuro. Sesso e alimento sono oggetto di brama e appetito. Il denaro invece nessuno l’appetisce (come ci rammenta una nota osservazione dei verdi ecologisti). Il denaro in sé è flusso e corrente universale: il corso in cui si mescolano il tempo, il lavoro e il linguaggio degli uomini. Oggetto purissimo di desiderio, il denaro dà valore

2

Cicerone, Tusculanae Disputationes, IV, 21.

42

48

43

Félix Duque

alle cose: ­conferisce loro un peso esclusivamente umano, il peso della società civile. Per questo genera l’irreversibile corrente del tempo: nunc fluens. Per il sesso c’è l’individuo, salvato proprio sul margine stremo della sua caduta e rovina: è l’individuo che resta, che residua dal naufragio orgasmico; per il mangiare, la difficile convivenza dell’eterogeneo: la coscienza della vita. Ma solo per il denaro c’è oikonomía: regolamento e ritmo del commercium comune di appetiti e aggressioni; e in questa scansione c’è società. Individuo, vita, comunità: tre astrazioni per uno stesso desiderio. Dunque, come s’è detto, non si desiderano realmente i corpi altrui, gli alimenti, il denaro e gli onori. Se ne desidera il possesso, si desidera, cioè, dimostrare al mondo chi comanda qui. Perciò, l’Io è il risultato ed il referente del desiderio, che però sta da sempre alla sua base, quale presupposto. Né termina qui la cosa. La trionfante ascesa dell’Io avviene parallelamente all’assottigliamento e all’indebolimento della cosa desiderata. Giacché quel che l’Io realmente desidera è la rappresentazione della cosa, il suo luccichio e non la sua opaca interiorità (che reca con sé i cattivi ricordi della sua animalità faticosamente negata); la tendenza ultima, l’ultima ratio del suo desiderio è riconoscere se stesso nel desiderio, cancellando l’alterità. Ed è per questo che Hegel, con franchezza, ci traccia una vera escatologia del desiderio: dalla Begierde (l’appetito animale, nel quale non c’è chi dica «io») allo Zeichen (il segno, col quale l’uomo può giocare arbitrariamente, ad libitum). Diversi gradi di purificazione: dalla distruzione fisica dell’oggetto da parte del vivente (assimilazione per ingestione) alla distruzioni dei propri agenti del desiderio a favore di un terzo (procreazione); quindi, formazione esterna (Formieren) dell’oggetto attraverso il lavoro dello schiavo, il quale in tal modo consegue la sua interiore formazione (Bildung). Ed infine, nell’ambito del linguaggio, passaggio dal vuoto interiore della cosa, convertita in nota e sostituto dell’altro (simbolo), alla sua piena metamorfosi attraverso il ricordo e la memoria, a servizio del libero arbitrio. Alla fine la cosa è un mero segno, e in essa io desidero me stesso: Selbstbefriedigung: autosoddisfazione. A questo è giunta la Zufriedenheit, la contentezza o conformità che Kant augurava al giovane quando più non lo sarà? Non sembra, invero, che questa prospettiva, o Prospect, mirante alla dilazione dei piaceri, risulti molto efficace, né molto soddisfacente. È una sorta di onanismo, o vano narcisismo, un meccanismo di compensazione. Forse, per star dietro a stoici e idealisti, ci siamo imbrogliati con i nostri stessi dati. E di imbroglio, in effetti, si tratta, di un’insidia. Una via d’uscita che, lo dico in anticipo, mi dà l’idea di una fuga in avanti. Seguiamola attentamente. L’Io non entra direttamente in possesso delle cose che appetisce. Di fatto, una tale immediatezza lo disgusta: mano, vista e bocca mantengono, invece, la distanza: sono in mano nostra, invece, le ben più educate e raffinate rappresentazioni, docilmente convertite, oggi, ben oltre i segni, in simulacri (modelli di una realtà mai stata, o rimedi di una realtà già da sempre stata?). Invero, cos’è che abbiamo in mano? Rispondiamo: si tratta di una metafora. Ma, al di là di q ­ uesta, che ne è della nostra mano carnale, del nostro corpo? Come

Il tempo del desiderio.

49

perseguendo un esacerbato noli me tangere, adesso stesso vado sfiorando con le dita tasti lievemente rugosi. L’idealizzazione della realtà smaterializza la stessa membrana osmotica: In carne enim ambulantes non secundum c­ arnem militamus3, secondo il divino dettato dell’Apostolo delle genti. Riduco all’imprescindibile l’interscambio con l’esterno, perché mi limito (o, meglio, mi limitano) a indicare il punto critico del piacere che non sta né nella cosa né nell’Io ma nel loro tramite. È lo stesso transitus, puro e semplice, che provoca la voluttà, avverte, non senza eccitazione, Sant’Agostino4. È che nella transizione smetto d’esser io: sono come al bordo, al margine di me stesso. Gli occhi fuoriescono, la pelle è percorsa da brividi. Né dentro, né fuori. Non nel necessario (il mio Io), non nel reale (le cose), non nel possibile (le rappresentazioni). Lo strano scenario dove mi trovo – sottile come la lama di un coltello – ben potrebbe denominarsi con-tingenza, co-tangenza, o contatto: il che è, ma potrebbe bene non essere, senza che niente succeda. La cosa ­abbandonata dalla mano dell’Io. Pura ombra. E tuttavia, qui non c’è né fusione né confusione. Il piacere viene, imminente. Quando si realizza, ci sarà un continuum: non pelle in contatto, ma carne e dunque, infine, liquefazione, flusso. Ma anche non ci sarà. Talché alla fine, non c’è mai autosoddisfazione (di qui la tanto cinicamente vituperata tristezza della carne). Come nel mendace momento della morte, prima del piacere sono a tu per tu con la mia ­ansia, senza l’oggetto, e dopo mi sento legato ad un oggetto di un piacere morto. Il mio corpo e il corpo: spogliati del Desiderio. L’uno, rovina; l’altro, monumento. Per questo il Santo prova disgusto per dover riparare giornalmente, col mangiare e il bere, le ruinae corporis5: ché ruina è perdita, ­consumo. Tale riparazione i­mplica riconoscere, anche se con fastidio, che la verità – la verità del mio corpo, almeno – è fuori, nell’alimento. Confessione che questo corpo, che dico mio, è già altro. Sempre lo fu. Non lo si appella, come le altre cose, corpus, al neutro? E tuttavia Sant’Agostino sente nell’anima il pungolo dell’indigenza, talché ciò che desidera davvero, è che Dio distrugga insieme il mangiare e il ventre – corpo e corpi –, che uccida l’indigenza con la sazietà e che infine faccia del corruttibile corpo un incorruttibile eterno. La soddisfazione del desiderio consisterà allora nella negazione assoluta del Desiderio? Il timore delle perdite (da ultimo, il timore della morte, del transitus perfetto nell’esteriorità) si vince con la Morte? E se non nello Zero Assoluto, in che consisterà questa societas mirifica? Sarà, come ci vien detto nella Città di Dio, simile alla vita della spugna del mare, permeata, attraversata da parte a parte dalla Divinità, senza però confondersi con lei? Vero è che il flusso non esce, non va fuori: penetra per tutti i pori dell’anima. Pura passività. Mirava a questa l’ansia di possesso e di dominio? Ad una viscosità onnipervasiva, di tutto piena?

San Paolo, II Co, X, 3. Sant’Agostino, Confesiones, X, 31. 5 Ibidem. 3 4

44

50

45

Félix Duque

Ma c’è dell’altro ancora: i desideri, è noto, sono intermittenti. Non appena viene appagato uno, altro ne sorge. E se così non fosse, sarebbe anche peggio, perché allora non ci sarebbe che la ristagnante palude della noia. Di modo che l’intelletto, stanco di volgersi al medesimo, tenta di andarsene per la tangente, in quanto, come ben vide San Tommaso: «nihil finitum desiderium intellectus quietare potest. Quod exinde ostenditur quod intellectus, quolibet finito dato, aliquid ultra molitur apprehendere»6. Rileviamo, sin da ora, l’equiparazione di beatitudo e quies. Pienezza, quiete, sazietà: è questo l’ambito metaforico di quanti sospirano per la morte del ventre. Ma proseguiamo: l’unico modo per uscire da questo processo all’infinito è la rinuncia, di colpo, ad ogni desiderium, ossia: ad ogni desiderio visto, rappresentato. Di nuovo, la vista. Ricordiamo Cicerone: «desiderium libido eius, qui nondum adsit, videndi»7. La brama di vedere, quindi, non s’appaga che con la visio beatifica della sostanza infinita. Tale è il desiderium naturale Dei. Questa soluzione, però, è nel fondo una dissoluzione. Perché non altro si ottiene con tale aliquid ultra che la negazione radicale della protoscissione costituita dall’aliquid (alius quid). Non i corpi luminosi vogliamo vedere, bensì la luce incorporea. Ma non si dissolve, insieme con i corpi visti, l’occhio che li vede? Muoiono insieme tempo e desiderio, quando la concupiscentia è risvegliata in noi dalla ricezione di un movimento che procede da un bene nondum ­habitum, e che ci porta a seguire la sua attuazione8. Mettiamo da parte lo spinoso problema teleologico che la rappresentazione dell’oggetto ci muove perché esso ci manca. Sembra che, stufi del fatto che la rappresentazione universale viva del ricorso dei suoi infiniti referenti – la si conosce: la noiosa ripetizione dell’identico –, ne usciamo in vista del «Signori, qui non si muore». Abbandoniamo quindi i beni per il Bene. Un Bene di cui anche le sostanze separate (Intelligenze angeliche ed astrali) non sanno socraticamente altro che è sconosciuto: «scium divinam substantiam sibi esse ignotam»9. L’unico che è degno d’esser conosciuto è sconosciuto, e perciò si tende invano verso di lui. L’uomo – o almeno alcuni uomini – sembra più fortunato, grazie all’atto di redenzione di Gesù Cristo. Gli è riservata la visio beatifica: vedere Dio facie ad faciem10. Evento certo difficile da spiegare, dato che la vista – anche quella spirituale – è l’organo della differenza e non dell’unione. San Tommaso suppone che noi immediate eum videbimus11. Una visione senza medium interposto, quindi. L’unica visione spirituale che conosciamo di tal tipo è la reflexio in seipsum, il che non è qui possibile senza cadere nel panteismo. Si dirà che qui si tratta di un’assimilazione massima

San Tommaso, Summa contra gentes (= SCG) III, c. 50. Tusculanae Disputationes, IV, 21. 8 San Tommaso, Summa theologica, 1ª-2ae, q. 23, a. 4, Resp. - Cf. Cicerone, Tusculanae Disputationes, IV, 11-12. 9 SCG III, c. 50. 10 I Cor, 13, 12. 11 SCG III, c. 51. 6 7

Il tempo del desiderio.

51

a Dio, videntes eum illo modo quo ipse videt seipsum12. Ma, poiché partecipare mediante le sue sole forze all’essenza riflessiva di Dio è impossibile per l’intelletto umano, è necessaria, allora, un’azione graziosa di Dio stesso. Ed è per questa azione che noi lo vediamo come Egli si vede. E giacché vedersi è vivere, e vivere è godere in sé e di sé, ne consegue che: «In ipsa enim divina visione esse hominis beatitudinem, quae vita aeterna dicitur»13. Come dirà Machado: stia bene, sia felice, chi lo vede. Felice, ma non soddisfatto, ché qui non si ha l’attuazione di alcun desiderio, ma una irradiazione divinamente attiva del desiderio, consistente, come sappiamo, nel far propria una situazione insieme con le sue circostanze. Qui non c’è aspirazione a comprendere ma ad essere posseduto. E posseduto grazie ad una previa manipolazione. Poiché Dio è visto per mutationem intellectus creati14: con questo mutamento si concede di fatto all’intelletto – possiamo ancora chiamarlo umano? – la lux gloriae, per la quale si coglie in atto… la luce stessa. Sicché un ente mutato dall’azione di un Altro vede per questa stessa azione l’Altro. Azione, medio ed oggetto oltrepassano colui che vede. Questi vede un Se-stesso che non è egli stesso; e non lo vede a partire da sé, ma dalla sommità di se stesso: dal vertice dell’intelletto umano, causa materiale, mero supporto o luogo della visio Dei. In ogni caso, appare chiaro che tale intelletto è assolutamente fuori di sé per l’assoluta occupazione del suo territorio: come, appunto, la spugna nel mare. E cosa si riuscirà a vedere lì? Non certo la luce corporale, che sarebbe come un sogno della vera luce, quantunque di tal sogno non cessa il brillare nelle superfici né vengono sottratti i colori alle cose. Ascoltiamo Sant’Agostino: la vera luce penetra ovunque: non si trova in essa la distinzione tra ­fondo e superficie. Non ammette differenze né distinti. Dissolvente universale, nella sua assoluta dissipazione porta tutto, paradossalmente, ad unità (ma gli arabi non avevano scoperto lo zero): «Ipsa est lux, una est et unum omnes, qui vident et amant eam»15. Invero, essa è ipseità (poiché in nulla differisce da  Sé): e gli esseri plurali che la vedono e l’amano (ma che può voler dire «amare la luce»?) si vedono immediatamente ridotti ad una cosa sola, neutra: unum. Le intelligenze fortunate non sono questa e quella: tutte coincidono nel solo vedere… che non c’è nulla da vedere, perché la luce lascia vedere, ma non si lascia vedere (a meno che «luce» non sia termine analogico; ma allora non sapremmo che farcene di una così grande reciprocità). E questo è ciò che le sostanze separate sanno da sempre e intorno a cui eternamente girano: si sa che non si può sapere di sapere. Si vede che non c’è nulla da vedere. Né possiamo noi penetrare al di là del velo di Maya, perché non siamo più che unum. Si vede il fuori: l’esteriorità stessa. Davanti a questa vertigine, è logico pensare che, almeno per la nostra carne, è proibito sporgersi all’esterno. Ibidem. SCG III, c. 52; cf. c. 53. 14 SCG III, c. 53. 15 Conf. X, 34. 12 13

46

52

47

Félix Duque

Onde evitare questo inconveniente, l’altra grande possibilità sarebbe – invertendo allegramente l’ironica interpretazione hegeliana del velo della fine del capitolo terzo della Fenomenologia – negare l’interiore, pretendere di vedere il mondo come se l’uomo, l’artefice-lavoratore, non esistesse, e ­nemmeno altri uomini, altri occhi. Voler vedere il mondo nel suo puro aspetto, nel suo darsi a vedere. Suo desiderio è giungere ad esser sciolto, sganciato dal mondo, di star fuori, libero all’Augenlust, al piacere della vista. Simia philosophi, il puro osservatore è solo spettatore (mi chiedo cosa avrebbe pensato in merito Ortega y Gasset con i suoi molteplici saggi intitolati «El espectador»). Tutto gli scorre via, tutto gli è distante. E paradossalmente, proprio perché non offre la minima resistenza a ciò che appare, di tutto reclama con pari forza l’attenzione. Stupito davanti allo spettacolo ch’egli stesso ha contribuito a creare (contributo ora dimenticato), l’occhio attraversa, come il fanciullo Amahl di Rabindranath Tagore, tutti i venti. Vede per il piacere di vedere, non per intendere qualcosa, né per intendersela con qualcosa o qualcuno. Si consegna, dissoluto, al mondo in cerca di qualcosa sempre nuovo, perché ciò che ha accanto lo stanca. Curiosità si dice in tedesco, appropriatamente, Neugier: «brama di novità». Perciò è incapace di starsene quieto in un qualche luogo: l’occhio, ansioso, vive del mutamento di quanto gli viene incontro. Questa brama frivolamente teorica è responsabile di ogni futura Zerstreuung, dissipazione. Vagabondaggio e dispersione portano con sé mancanza di radicamento, carenza di stabilità. Questo occhio partecipa di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Sta ovunque; invero, non sta da nessuna parte. Ho evitato sin qui di chiamare in causa il sempre suggestivo Heidegger. Aggiungiamo qualcosa ancora, vi ritorneremo su tra breve. In castigliano, ­«deseo» è derivato – non lo si direbbe, a tutta prima – dal latino volgare ­desidium, che a sua volta discende dal classico desidia: un abbandono, un mantenersi tranquillo, inattivo, «stando in attesa». Tutto si muove per l’occhio che sta fermo, o così questo si figura. In realtà sta dietro ad uno spettacolo senza capo né coda, nel quale tutto vale, e nel quale alla fine niente si respinge. Tutto spazio e niente tempo. Ma, forse la critica non è da farsi. Infatti, perché qualcosa si presenti come nuovo è necessario che ciò che è caduco si allontani, avendo esaurito le sue possibilità di piacere. E, inversamente, perché il nuovo sia piacevole deve presentare qualcosa in comune con l’antico, qualcosa che attragga: deve connettersi in modo adeguato con quanto l’ha preceduto e a sua volta servire da pretesto per nuove connessioni e nuove congiunture. E quanto all’occhio, c’è bisogno che in esso abiti uno spirito leggero, danzante, capace di dire sì all’incessante variazione, piegando i suoi desideri in forma di volatile insetto nell’aere del visto. Tutto ciò, a quel che sembra, appare per nulla edificante al nostro filosofo. Ed è chiaro che con esso non si costruisce nulla, al contrario, si insegna a praticare il nomadismo. Può darsi che le nostre radici siano aeree, e si nutrano dei venti cangianti del cielo, sebbene conservino sempre un emozionato riguardo per l’imperfetto futuro: il nero seno della terra.

Il tempo del desiderio.

53

È forse cosa difficile, tanto è lontana, sentire una curiosità per davvero. Heidegger non si ferma su queste distinzioni. Augenlust è per lui la forma impropria del «rapportarsi alle» cose, pari alla chiacchiera, forma degradata della parola. E quando questo occhio mobile qual piuma al vento16 si allea con la bocca libera di dir tutto, con la chiacchiera, il risultato inquietante è l’«ambiguità» (Zweideutigkeit)17. Ambiguità avvertita in ogni caso dal filosofo: per l’uomo della strada, invece, è chiaro che quanto non ha nulla di occulto è, tautologicamente, il vero Illuminismo, e che ci sono gli occhi proprio per osservare tutto, dal sacro all’immondo. E che tutto si può dire significa che tutto è alla nostra portata, e questo è la vera Democrazia. Sicché tutto, adesso, sembra come se fosse ben inteso, ben detto e ben connesso. In una parola: deciso. Ragion per cui non restano che passatempi: modi per uccidere il tempo (questo tempo generato dagli stessi desideri, s’aggiunga). Tutti stanno a ciò che accade, e ciò che ad essi accade. Per contro coloro che dubitano, i Zweifelnde di Hölderlin han chiaro solo questo: Und keiner weiss, wie ihm geschieht. (E nessuno sa, come gli accada)18.

Al modo stesso delle sostanze separate di San Tommaso, i tardivi, quelli che vengono dopo la guida degli dèi, sanno solo che c’è bisogno di un nuovo inizio, sebbene ancora no. I poeti educati dalla natura, si sentono soli: il loro desiderio si tinge di tristezza. Quello in fondo non è che la proiezione di questa. Tuttavia, essi, a loro volta, presentono la natura: Sie scheinen allein zu sein, doch ahnen sie immer. (Sembrano esser soli, ma la presentono sempre)19.

Ma anche nel mondo interpretato dall’ambiguità la gente non fa altro che presagire (un presentimento che, mirando a quanto è dietro, è, invero, un post-sentimento), ossia: non altro che sospettare che ciò che accade (a chiunque) «si veda venire», ridicola scimmiottatura dell’attitudine del poeta ­davanti al Sacro: … Ich harrt und sah es kommen. (Ho atteso e l’ho visto venire)20.

In italiano nel testo. Seguo da lontano, senza curarmi della fedeltà ad litteram, i suggerimenti di Sein ud Zeit (= SuZ), Tübingen 197212, §§ 37-38, pp. 173-180. 18 F. Hölderlin, Germanien, 2a str., v. 27, in Id., Sämtliche Werke und Briefe (= SWB), Hg. von Jochen Schmidt, DKV, Frankfurt/M. 1992, 1, p. 335. 19 Wie wenn am Feiertage, 2a str., v. 17, SWB 1, p. 239. 20 Ibidem, 3ª str., v. 19. 16 17

48

54

49

Félix Duque

È che in tutto il mondo si sente dire, come rileva Machado, «conosco già il segreto: tutto è nulla». Incluso, si suppone, chi lo dice. Nessuno, in fondo, è interessato a nulla, e nulla desidera. Si può desiderare qualcosa, solo perché il nuovo che si insegue è già stato definito, da sempre. Il presente è cosa del passato; è passato, già da sempre, dato che tutti hanno «presentito e previsto», per sentito dire, le stesse cose di tutti gli altri. Sicché nulla, in fondo, accade, e la pretesa «brama di novità» è in realtà qualcosa «senza novità», qualcosa di già definito. Nel mondo conosciuto, interpretato, l’ambiguità ci seduce attraverso ramificazioni capillari, senza fine; sono le piccole nullerie di cui Sant’Agostino nelle Confessiones si scusava. Ma, son vere nullerie? O non saranno, invece, queste «piccolezze» l’ultimo peccato, l’unica caduta di cui si possa accusare l’uomo: l’oblio dell’oblio, l’indigenza della mancanza d’indigenza? L’unica mancanza è la sensazione che non manchi nulla. Solo che questa caduta appaga, dona tranquillità; è l’impressione di pace (Zufriedenheit) che Kant promette al giovane per quando cesserà d’esser tale, per quando sarà maturo. Vale a dire, quando i desideri saranno solo un ricordo, e non ci saranno più né pene né dimenticanza. O, meglio, quando sarà rimossa… la propria medesimezza, il proprio fondo: alla fine non ci resta che una superficie dura, rugosa, impenetrabile. Insomma, è l’uomo stesso che rinnegando il suo fondo, si sbarra il cammino, ingannandosi con racconti e spettacoli. Questo inganno è un imboscata, un’insidia: questo è il termine che rende esattamente il carattere radicale della caduta, in Heidegger: essere per se stesso verfänglich, insidioso. Tuttavia, proprio Heidegger rileva in un enigmatico inciso: «chi in modo autentico è “sulle tracce” di qualcosa, non ne parla»21. Cosa può voler dire questo? Ricordiamo che desiderium è stato definito brama di vedere ciò che ancora non esiste. Ma, come possiamo anticipare il futuro, se non sperando di vedere il ricorso di qualcosa che è stato ed ora manca, ma che ha lasciato la sua traccia in noi, marcandoci con la sua assenza? Se seguiamo il ricorso di questa traccia giungeremo in una strana regione, nella quale né ci ritorna il passato (perché la cosa sulle cui tracce andiamo è già stata) né ci si presenta il futuro (perché essa ancora non è). Ciò che lì vediamo è, in effetti, che «ancora non»: il nondum ciceroniano. Non-dum: «non… mentre», «non… durante tutto il tempo in cui qualcosa è». Tutto il tempo dell’essere? Alcune parole, venerabili e terribili, corrono, irresistibili, alla mente. Il tópos hyperouránios è costituito nel fondo, secondo che Platone narra attraverso la maschera di Socrate al bello e ­desiderato Fedro, di una achrómatós te kaì aschemátistos kai anaphès ousía: di una «sostanza che è senza colore alcuno, senza figura e intangibile»22. (Così è la vera Verità, l’òntos ón). Perciò chi è davvero sulle tracce della Verità non ne parla. Non parla di Quello, dell’óntos ón: della morte che ancora non è libido, della 21 22

SuZ § 37, p. 173. Platone, Phaidr. 247 c.

Il tempo del desiderio.

55

libido che ancora non è desiderio, del desiderio che ancora non è nome, del nome, infine, che ancora non è, che non torna ad essere altra volta, e per sempre, morte. Non parla dell’unum. Una volta, quando era ancora giovane e presumibilmente custodiva nel suo cuore l’ardente liaison adultera con una bella alunna di stirpe (Geschlecht) ebrea, provando così – anch’egli – piaceri proibiti, un docente, presto innalzato al rango di princeps philosophorum, si congedava da Marburg parlando di logica e di Leibniz. Tra le molte altre cose che allora disse, una brillava per forza: il Dasein, insisteva, non è l’uomo, bensì il suo essere. Un essere che non ha l’eguale quanto al modo d’essere. Un essere che si dà sempre in questa o quella guisa (Weise: si tratta del medesimo termine, preso dal germanico dalle lingue romanze alla fine della latinità). E tuttavia, questo che si dà è neutro (in fin dei conti, si tratta di das Dasein): «Diese Neutralität besagt auch, daß das Dasein keines von beiden Geschlechtern ist» («Questa neutralità significa anche che il Dasein non è nessuno dei due sessi»)23. Ancora non lo è, possiamo aggiungere, quantunque esso, il Dasein, stia ardendo dal desiderio di vedere questo che nondum adsit. Perché il Dasein non è mai l’esistente, ma la «prima fonte», l’Urquell, dell’interna possibilità di ogni esistenza (si rammenti Schelling e fondo di Dio che lotta per l’esistenza). In esso si cela la possibilità della «dispersione fattica [faktische Zerstreuung; si ricordi Sant’Agostino e il suo terrore davanti al fluire delle cose, F.D.] nella corporeità, ed infine nella sessualità». Questo Dasein non è, certamente, il singolo, egoista e ingannevole, sebbene da questo a suo modo provenga, mascherato da se stesso, così coperto che gli accade di dimenticare la dimenticanza, rimanendo sordo a questa incolore, incorporea e silenziosa Verità: che il Dasein è la metaphysische Isolierung des Menschen: «l’isolamento metafisico dell’uomo»; ciò che impedisce a ciascuno d’esser l’altro. Non il Weder-noch, il «né… né», risultato dell’impantanamento nell’ontico, ma il Noch-nicht der faktischen Zerstreutheit, ossia: l’«ancora-non», il nondum della dispersione fattica. E però, come non volere essere l’Altro, senza tuttavia lasciar d’esser uno, lo stesso? Senza essere insieme io stesso – niente di meno –, irridendo così il campanilistico conatus spinoziano, secondo il quale ciascun essere vuole perseverare nel suo essere? Solo nel suo? Nulla di più falso di questa restrizione nei limiti di ciascuno, compresi quelli di Spinoza (se è vero che nessuno conosce ciò che un corpo può, e innanzitutto il proprio corpo, totalmente attraversato dal desiderio). Vogliamo essere tutto il nostro corpo, essere in tutto il corpo, permearlo completamente prendendo parte a tutte le sue metamorfosi, come accade nell’unica tentazione davvero patita da Sant’Antonio secondo il racconto di Flaubert. Non solo vorremmo essere durante il tempo, ma anche vorremmo essere tutto il tempo, farci temporalmente eterni. Abbiamo voluto essere, in definitiva, la contraddizione che già dall’inizio, pace 23 Metaphysische Anfangsgründe der Logik (SS 1928). Gesamtausgabe 26, 172 s. I successivi riferimenti s’inquadrano bene in questo testo.

50

56

Félix Duque

Heidegger, siamo essenzialmente: tò tí ên eînai, ciò che era essere. L’essere del tempo. L’essere del desiderio. Dai rifiuti dell’esistenza. Ne La chute di Camus l’anonimo che parla dice con noncuranza: «Lei già lo sa, la vita e i suoi crimini». (Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Vitiello)

Del tempo. Una passione senza misura Massimo Adinolfi

Da Aristotele a Heidegger Nel corso su I problemi fondamentali della fenomenologia, Heidegger delinea con grande chiarezza in quale modo intenda avvicinarsi alla problematica della temporalità [Temporalität] dell’essere: muovendo anzitutto dalla comprensione ordinaria del tempo, per ritrovarvi a suo fondamento la temporalità originaria che costituisce l’orizzonte della comprensione dell’essere. L’interpretazione del tempo offerta da Aristotele (e anche quella di Agostino, che «concorda con Aristotele anche per una serie di determinazioni essenziali»1) viene seguita per la ragione che essa dice «l’essenziale di ciò che, all’interno della comprensione ordinaria, si può affermare su questo fenomeno» (223). Il confronto con Aristotele è reso dunque necessario non già dal fatto che dall’interpretazione aristotelica del fenomeno dipende l’intera tradizione della filosofia, quanto piuttosto dal fatto che Aristotele «per la prima volta e per lungo tempo, ha portato al concetto in modo univoco la comprensione ordinaria del tempo, così che la sua concezione corrisponde al concetto naturale di esso» (223). Nello schema che espone i tratti essenziali della concezione aristotelica, reperibili in Fisica, 4, capp. 10-14, troviamo anzitutto che il tempo è κινήσεοως τις, qualcosa di connesso al movimento; che vi è connesso in quanto è un numerato del movimento; che è un numerato connesso al movimento in quanto il movimento si dispone secondo il precedente e il successivo, κατὰ τὸ πρότερον και ὔστερον; che la coesione, la continuità (συνέχεια) del tempo è assicurata dall’ora, τὸ νῦν, in riferimento al quale sono intese le altre determinazioni temporali; che il numerato suppone l’atto del numerare, cioè l’anima 1 M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia (Klostermann, 1975), Il Melangolo, Genova 1988, p. 222. Nel seguito di questo paragrafo, ci limiteremo a fornire nel testo il riferimento al numero della pagina dell’ed. it.

51

58

52

53

Massimo Adinolfi

che numera, così che il tempo, il quale è «in certo qual modo ovunque», è ­tuttavia solo nell’anima; che «la prima e eminente misura di ogni movimento è la rotazione (κυκλοφοριά) del cielo esterno. Tale movimento è un movimento circolare. Il tempo è così in un certo senso un circolo» (227). L’approfondimento interpretativo del concetto aristotelico i cui tratti sono stati appena richiamati conduce in particolare a: 1. vedere movimento, continuità e grandezza, cioè i fenomeni ai quali il tempo in quanto tale è connesso, in termini ontologico-formali, in modo da non pregiudicarli in senso spaziale; 2. vedere l’ora come ciò che è ad un tempo sempre identico e sempre diverso τὸ γὰρ νῦν τὸ αὐτὸ ὅ ποτ᾿ ἧν – τὸ δ᾿ εἷναι αὑτῷ ἕτερον, di maniera che se il tempo è continuo grazie all’ora, sia anche diviso κατὰ τὸ νῦν. In questo modo, «ciò che costituisce volta a volta il suo esser-ora è il suo essere altrimenti» (237); 3. pensare l’ora non come parte o limite del tempo ma come numero e passaggio. Il che vuol dire: l’ora non ha natura di punto, στιγμή, ma si estende secondo la sua propria continuità dimensionale. È del tutto accidentale per la natura dell’ora che in un ora cessi il movimento (o anche che inizi), poiché l’ora, in quanto tale, si estende già sempre verso un ‘non-ancora’ e un ‘non-più’. In virtù di questa estensione, che appartiene al tempo come tale, il tempo è il contenente. Il che non significa che il tempo sia un contenitore, come una scatola o un bicchiere; significa piuttosto che a differenza del limite che appartiene essenzialmente a ciò che limita, il tempo non appartiene a ciò che nel tempo è numerato, e si estende sempre «al di fuori» di ciò che proprio perciò è nel tempo. Avendo colto nella trattazione aristotelica del tempo ciò che «corrisponde alla comprensione prescientifica ordinaria di esso» Heidegger si propone di offrirne la fondazione muovendo dal tempo originario, da cui dovranno quindi scaturirne le strutture essenziali2. Assumersi un tale compito significherà perciò: «chiarire in che modo l’“ora” in quanto “ora” ha un carattere di passaggio; in che modo il tempo in quanto “ora”, “poi”, e “allora” contiene l’ente e, in quanto contiene ciò che sussiste, è ancora più oggettivo e sussistente di ogni altro sussistente (intratemporalità); in che modo il tempo è essenzialmente numerato e ad esso appartiene il fatto di essere sempre svelato» (245). Tuttavia, tutti questi chiarimenti ai quali Heidegger attende non possono mettere sulla via auspicata del ritorno al tempo originario se, per ipotesi, nella compagine delle «determinazioni caratteristiche del tempo» che devono fungere da prima base fenomenica per l’interpretazione del fenomeno non fossero inclusi caratteri che appartengono indubbiamente al tempo, che sono reperibili nella sua comprensione ordinaria, e che compaiono, sia pure oscurati, nello stesso concetto aristotelico di tempo. L’analisi ontologica di 2 Nonostante sia più corretto tradurre κατὰ τό πρότερον και ὕστερον nei termini del precedente e del successivo, Heidegger propende per la traduzione in termini di ‘prima’ e ‘dopo’ per mostrare non una difettosa circolarità nella definizione, ma come l’accesso stesso al fenomeno del tempo volgarmente inteso non possa non essere determinato da una temporalità più originaria.

Del tempo. Una passione senza misura

59

Heidegger sarebbe in tal caso viziata, in specie se i caratteri trascurati fossero poi in grado di riorientare l’intera comprensione del fenomeno. Ora, è proprio quello che a quanto pare accade. Nel περὶ χρόνῳ del quarto libro della Fisica, qualcos’altro, oltre a ciò che Heidegger mette in chiaro, c’è. Ed emerge anzitutto in rapporto all’essere nel tempo (τὸ ἐν χρόνῳ εἶναι), in quanto esso non significa solo che tutto ciò che è, è contenuto nel tempo, ma anche, più banalmente, che si consuma e invecchia. Nessuno, nota A ­ ristotele, diviene col tempo giovane e bello, ma tutto «patisce qualcosa col tempo» πάσχει τι ὐπὸ τοῦ χρόνου. Lo ἐν contenente è in realtà uno ὐπὸ: uno star sotto, un soggiacere al tempo. E l’essere ὐπὸ τοῦ χρόνου non ha a che fare solo con l’essere misurato, con τὸ μετρεῖσθαι, con l’estendersi dimensionale del tempo, ma anche con una passività fondamentale, con τὸ πασχειν, e infine con la corruzione, φθορά. Nella ripetizione heideggeriana questo aspetto affatto ordinario del fenomeno, legato al suo carattere estatico, non viene ripreso. In particolare, non viene ripreso il seguente passo: «Ogni mutamento (μεταβολὴ) è per natura estatico (ἐστατικόν). Ma nel tempo tutte le cose si generano e si corrompono […] È chiaro perciò che il tempo sarà, per sé, causa di distruzione piuttosto che di generazione […] Una prova sufficiente è che nulla si genera senza che sia in qualche modo mosso e agisca (ἄνευ τοῦ κινεῖσθαι πως αὐτὸ καὶ πράττειν), mentre si distrugge anche se nulla è mosso (μηδὲν κινούμενον)» (Δ, 13, 222b 17-24). Di cosa sia prova il fatto che ogni cosa col tempo si distrugge, anche quando nulla si muove ed è mosso, lo vedremo poi, tornando a nostra volta su questo passo aristotelico. Ma intanto può essere già osservato questo, che qui si tratta anzitutto della realtà del tempo, che il tempo è reale quanto è reale la distruzione delle cose ad opera del tempo (in assenza di ogni altro movimento che non sia il mutamento temporale), che il tempo si trova perciò ad essere non una vuota forma in senso kantiano, un mero principio d’ordine dei fenomeni, ma qualcosa che è piuttosto dell’ordine materiale dell’effetto. Ci deve essere un’efficienza del tempo, per il cui effetto anche quando nulla è mosso, purtuttavia si corrompe3. Ma nella pagina aristotelica dell’altro emerge anche, in secondo luogo, in relazione all’ora. È vero infatti che Aristotele scrive in Δ, 11, 220a 21, che «in quanto l’ora è limite, non è tempo, se non per accidente (ᾕ μὲν οὔν πέρας τὸ νῦν, οὐ χρόνος, ἀλλὰ συμβέβηκεν), ma questo non può essere inteso come Heidegger lo intende, che cioè l’ora «non è mai, per sua essenza, un limite, ma passaggio e dimensione», poiché Aristotele non dice che l’ora non è limite, ma che, per quanto è limite, l’ora non è tempo. E d’altronde in Δ 13, 222a 11 l’ora è esplicitamente assunto come «limite del tempo» (πέρας χρόνου ἐστίν). L’ora, che orienta secondo Heidegger la comprensione aristotelica del tempo (e, via Aristotele, dell’intera tradizione) non ha dunque solo

3 Ciò potrebbe tuttavia essere inteso più semplicemente così, che non può darsi che nulla si muove, proprio perché patisce la spinta del tempo.

54

60

Massimo Adinolfi

l’ampiezza della dimensione e la natura del passaggio, ma anche la potenza del limite, e questa potenza non appartiene all’estensione del tempo, non è tempo4. Heidegger non sottopone ad alcuna particolare sollecitazione la seguente osservazione di Aristotele: «E dal momento che l’ora è fine e principio del tempo (τὸ νῦν τελευτὴ καὶ αρχὴ χρόνου), ma non dello stesso tempo, ma fine del passato e inizio del futuro – come il cerchio che nello stesso punto è in qualche modo concavo e convesso – così anche il tempo sarà sempre in principio e alla fine (ὀ χρόνος ἀεὶ ἐν ἀρχῇ καὶ τελευτῇ). Per questo motivo esso sembra essere differente. L’ora infatti non è principio e fine della stessa parte […]. E non vi sarà certo estinzione del tempo, giacché esso sarà sempre nel principio (καὶ οὐχ ὑπολείψει δή· αἰεί ἐν ἀρχῇ)» (Δ, 13, 222a 34 - 222b 7). Nella disamina heideggeriana l’essere ἐν ἀρχῇ del tempo (del tempo, non solo di una sua porzione) non viene preso in considerazione. Πάθος

55

Inizio e irreversibilità, ovvero πάθος del tempo e potenza dell’ora: in quel che segue, proveremo a fondare la comprensione dell’essere temporale sui due caratteri che l’analisi offerta da Heidegger lascia sostanzialmente da parte, muovendo peraltro dall’ipotesi che essi siano intimamente connessi. Nel corso del ’27, compare in effetti la domanda: «come mai la comprensione ordinaria del tempo conosce questo fenomeno solo come una serie irreversibile di ora?» (260), ma non si dà ragione del perché la serie degli ora, che è la forma generale restituita dalla comprensione ordinaria del tempo secondo Heidegger, debba apparire come una serie irreversibile. Bisogna dunque domandare: cosa, nei singoli ora e nella loro estensione in serie, dice la loro irreversibilità? È del tutto evidente che noi abbiamo ordinariamente esperienza del tempo come di ciò che passa e non torna più, ma in nessun modo il carattere dell’irreversibilità che appartiene a questa esperienza sembra poter essere fondato soltanto sull’interpretazione del tempo come serie di ora. Se la serie di ora è irreversibile è perché è una serie temporale, ma essa non è temporale perché è una serie di ora. In questo modo si fa chiaro che la serie di ora, in quanto tale, non dice nulla della sua intima stoffa temporale. Ed è del tutto evidente che come non dipende dal carattere seriale, così non dipende dal carattere supposto puntuale dell’ora, o dal suo carattere cinetico, il fatto che il tempo passi e non torni più: né la natura del punto né quella del movimento e in generale nessuna determinazione spaziale o solo formale implica essenzialmente l’irreversibilità5. 4 Il passo al quale qui mi riferisco è in Δ 13, 222a 14: l’ora, «divide in potenza (διαιρεῖ δὲ δυνάμει)». 5 In Sein und Zeit, § 81, l’irreversibilità è quel carattere del tempo fondato sulla originaria temporalità dell’Esserci che «nonostante ogni livellamento e coprimento» si manifesta nella

Del tempo. Una passione senza misura

61

Ma allora dove essa è contenuta? Cosa, nel tempo, l’annuncia? E cosa significa l’essere-contenuto, qui? Noi diciamo che essa è contenuta nell’inizio, ἐν ἀρχῇ. Prima di provare a giustificare questa asserzione, lasciamo però che intervenga un ulteriore chiarimento. Non ogni concezione del tempo mantiene fermo il carattere della irreversibilità. Qui però non si tratta di concepire il tempo, ma di un più fondamentale avvertire, che appartiene alla comune esperienza di esso: ciò che Aristotele chiamava appunto πάσχειν ὑπὸ τοῦ χρόνου. Questo πάθος costituisce l’autentica base fenomenica che precede qualunque concezione del tempo. Noi patiremmo il tempo anche qualora dessimo dimostrazione del fatto che in realtà esso non scorre, non passa, ­oppure ritorna. È significativo che nella Fisica aristotelica l’idea che il tempo sembri essere un qualche cerchio (ὁ χρόνος αὐτὸς εἶναι δοκεῖ κύκλος τις, Δ, 14, 223b29), che esso sia misurato dal giro regolare del cielo, che numera il tempo in quanto esso è appunto il quante volte di ciò che nel giro del cielo ritorna, non impedisca affatto di pensare che il tempo è, per sé e cioè essenzialmente, ciò che spinge fuori (ἐκστατικόν) e corrompe. Ma ciò dipende dal fatto che non è nel giro che si fa esperienza della spinta estatica del tempo, benché il giro misuri il tempo. Tre lune non dicono affatto che ciò che dura da tre lune è invecchiato, eppure ciò che dura da tre lune e la luna stessa patiscono un invecchiamento. La luna torna: in ciò che torna e per ciò che misura non c’è alcun πάθος, poiché ciò che torna non è spostato dall’estasi temporale. L’estasi del tempo è così una passione senza misura, che nessun giro di luna può misurare. (E, aggiungo, che nessuna ipotesi meramente teorica potrebbe cancellare: se anche fosse un’illusione, essa precederebbe comunque la teoria che ne dimostrasse l’illusorietà; e la spinta di quella precedenza sarebbe comunque patita). Il tempo, nell’inizio Il tempo sta nell’inizio. Abbiamo prelevato questa affermazione dalla Fisica aristotelica. Nel passo sopra citato (Δ, 13, 222a 34 - 222b 7), è vero infatti che Aristotele si riferisce anzitutto al fatto che, in ogni ora, una porzione di tempo cessa mentre un’altra porzione di tempo comincia. Ma è vero pure che in conclusione Aristotele non scrive che il tempo sta sempre nell’inizio (di un certo intervallo di tempo) così come sta sempre nella fine (di un altro intervallo di tempo), ma più radicalmente che il tempo non verrà meno poiché si mantiene sempre, come tale, nell’inizio. Non si tratta dunque del fatto

sua rappresentazione ordinaria, benché non si capisca come possa in essa presentarsi. (In verità, non è chiaro neppure perché non possa essere anch’esso coperto e livellato). In ogni caso, Heidegger ne dà conto, sul fondamento dell’essere-per-la-fine dell’Esserci, ed esclude che il tempo possa presentarsi autenticamente come «un passare “in sé”». In quel che segue, proveremo invece a presentarlo come un simile passare, fondandolo nell’inizio.

56

62

57

Massimo Adinolfi

che sempre nuovamente un nuovo tempo inizi, perché altrimenti sarebbe ancora vero che sempre nuovamente anche finisce. Si tratta invece proprio di ciò, che il tempo stesso non viene meno perché è contenuto tutto intero nell’inizio: καὶ οὐχ ὑπολείψει δή· αἰεὶ γὰρ ἀρχῇ. Ma come deve essere ora intesa e può essere giustificata questa affermazione? In che modo potremo dire che il tempo inizi realmente ed effettivamente, visto che in ogni ora sembra piuttosto che inizi sempre e soltanto una parte di tempo? Dell’idea che il tempo inizi, si occupa in particolare Fisica Θ, dove si dimostra l’eternità del movimento sulla base dell’eternità del tempo. E che il tempo non abbia inizio, e che non abbia fine, e sia in questo senso eterno, lo si dimostra così: «il tempo non può esistere né essere pensato senza l’ora (ἀδύνατόν ἐστιν καὶ εἴναι καὶ νοῆσαι χρόνον ἄνευ τοῦ νῦν), ma l’ora è un certo mezzo (τὸ δὲ νῦν ἐστι μεσότης τις, Θ, 1, 251b 19-20)», e dunque, stando l’ora sempre in mezzo, a principio e alla fine di qualcosa, avrà sempre necessariamente del tempo da ambo i lati (ἀνάγκη αὐτοῦ ἐπ'αμφότερα εἶναι ἀεί χρόνον, Θ, 1, 251b, 26). A causa della natura intermedia dell’ora, nella dimostrazione non c’è più alcuna asimmetria fra ἡ ἀρχή e ἡ τελευτή, fra principio e fine. Dove c’è l’una c’è l’altra. Ma questo può significare molte più cose di quante appaiono a tutta prima. Può significare infatti che il tempo non ha inizio e in questo senso è eterno, come vuole Aristotele, ma anche che l’inizio non ha la natura intermedia dell’ora, o che l’ora non ha soltanto natura intermedia, o che il tempo, nell’inizio, eccede la μεσότης dell’ora. Ovviamente, poiché nel corso del tempo l’ora dimostra per dir così ad ogni istante la propria μεσότης, non potremo costruire un’ipotesi speculativa sulla natura dell’ora andando contro i fenomeni, proprio mentre difendiamo un approccio ‘fenomenologico-materiale’ al tempo, che cioè lo assuma nel suo stesso effettuarsi prima, problematicamente prima di ogni im-presa concettuale. Bisognerà dunque che sia un carattere primario, e primariamente avvertito, della stessa esperienza del tempo a richiedere di pensare altrimenti la natura dell’inizio. Ma noi abbiamo già visto che l’irreversibilità, che costituisce il πάθος del tempo, non è contenuta nell’ora (e che nel semplice ora non può ritrovarsi effettivamente l’inizio). Orbene, il carattere di cui siamo in cerca è appunto l’irreversibilità temporale. Parleremo dunque del πάθος del tempo per intendere appunto ciò, che col tempo non altro patiamo che l’inizio, il suo spostamento, e che il tempo non è patito nell’ora che semplicemente passa, ma nell’ora che inizia. Anzi: che è iniziata. Si dà tempo (irreversibile) solo se il tempo inizia. Se però l’ora è μεσότης, non è in questa medietà che accade l’inizio. D’altra parte, non è nell’ora, ma più precisamente nel tempo che si fa esperienza del tempo. È vero infatti che questo è aristotelicamente l’impossibile (ἀδύνατόν ἐστιν): un tempo senza ora; ma è vero anche che non c’è un ora senza tempo, poiché non c’è ora se non nel tempo. L’essere nel tempo non è dunque l’ora, ma ciò in cui l’ora è, l’essere-in-cui-dell’ora. Τὸ νῦν e τὸ ἐν χρόνῳ εἴναι non dicono il medesimo. Per essere nel tempo non basta

Del tempo. Una passione senza misura

63

essere ora, bisogna che l’ora sia (stata) nel tempo6. L’essere (stato) dell’ora, in virtù del quale esso è posto nel tempo, è l’essere proprio dell’inizio. Che non c’è ora se non nel tempo vuol dunque dire che prima (all’inizio) dell’ora c’è l’inizio. L’inizio procura all’ora il suo essere (stato) nel tempo. Che non c’è tempo senza ora vuol dire invece che anche l’ora dell’inizio è (stato)7. Infine che prima dell’ora c’è l’inizio, e che l’ora dell’inizio c’è stato, dice l’irreversibilità del tempo. Dice il πάθος per cui nel tempo l’ora è sempre spostato, per cui col tempo (ὑπὸ τοῦ χρόνου), l’inizio non torna più. Tutte queste proposizioni devono ora essere bene intese. Appartiene certo alla nostra esperienza ordinaria che il tempo scorra, che nello scorrere del tempo nulla torna, che «nessuno diviene col tempo giovane e bello», che in ogni impresa ci troviamo sempre nella μεσότης dell’ora, che la nostra vita comincia quando il tempo è già iniziato. Quel che però in quelle proposizioni si dice è di più, è che il tempo stesso esiste e può essere pensato solo nell’inizio e a partire dall’inizio, ἐν ἀρχῇ. Il vero ἀδύνατον è questo: che vi sia tempo e non vi sia inizio, poiché solo là dove c’è inizio c’è tempo. L’inizio, ossia: quella condizione che c’è (stata), ed alla quale il tempo non può giungere, non può risalire, perché se così fosse non sarebbe più inizio, ma risultato – né il tempo sarebbe più τὸ ἐκστατικόν. Se poi si pensasse che il tempo non si piega in circolo, e tuttavia gli ora che si succedono nel tempo sono sempre diversi, se cioè si pensasse che non occorre che l’inizio sia condizione dell’irreversibilità temporale, poiché per essa basta l’essere-sempre-altrimenti degli ora – se così si pensasse, si dovrebbe semplicemente domandare: donde l’essere-­semprealtrimenti degli ora? Che gli ora siano sempre diversi, questo non è infatti ciò che spiega, ma ciò che anzi va spiegato. E se essi sono diversi, è appunto perché il tempo ha inizio8. In Δ, 11, 219b12, Aristotele scrive: τὸ γὰρ νῦν τὸ αὐτὸ ὅ ποτ’ ἧν – τὸ δ’ εἶναι αὺτῷ ἔτερον. Il che s’intende così, che l’ora è sempre lo stesso preso formalmente, mentre è sempre altrimenti quando sia riguardato insieme al suo contenuto. Ogni ora del tempo è identico ad ogni altro nella sua qualità di ora, ma è diverso per ciò che in quell’ora accade. Ma preso formalmente, l’ora non ha nulla dell’accadere del tempo9. L’ora sempre uguale 6 Metto tra parentesi il participio passato, lo ‘stato’, per questa ragione, che senza di esso la proposizione in questione si risolve in una mera tautologia; l’essere stato, che è stato nel tempo, è invece presente in essa, e tuttavia come ciò che non vi può essere scritto. Ma su questa differenza temporale in seno all’identità che come tale non si lascia scrivere in essa tornerò alla fine. 7 Qui la parentesi significa: l’ora dell’inizio è anch’esso, come ogni ora, un ora nel tempo (e questo è il lato in cui si ritrova l’identità formale, della tautologia); che quest’ora sia stato non impegna però a pensare che è stato nel tempo, ma a pensare il modo d’essere di questo ‘stato’. Anche qui, rinvio a quanto provo a dire più avanti, sul tempo dell’inizio. 8 Ma poi: da dove sarebbe condotta la comparazione tra un ora e l’altro? In quale ora si ritroverebbero, per essere comparati? È evidente allora che non è comparando un ora e l’altro che concludiamo alla loro diversità, ma la diversità è l’esperienza stessa che noi facciamo del tempo in ogni ora, in quanto è nel tempo. È dunque l’essere-nel-tempo che in ogni ora viene patito, e che costituisce in se stesso la diversità dell’ora. 9 In generale, sembra proprio che a prendere formalmente qualunque determinazione temporale la si priva di tempo. Ad esempio: il passato non può essere mai stato presente qua

58

64

Massimo Adinolfi

non è l’ora temporale, che sta nel tempo. Viceversa, l’ora sempre diversa che sta nel tempo, deve la sua diversità anzitutto e fondamentalmente al fatto di stare nel tempo – e al fatto che vi sta in quanto il tempo sta nell’inizio. La diversità, qui, non è una proprietà del contenuto o una categoria della riflessione, ma il modo stesso in cui accade quel che nel tempo succede. Prima di venire prima

59

Che il tempo stia nell’inizio non vuol dire però che l’inizio non stia nel tempo. Pensare l’inizio è solo il tema della filosofia. Il suo problema, è pensare insieme che il tempo sta nell’inizio, e che l’inizio sta nel tempo. E dunque, invece di affrettarci a recidere il nodo in cui si aggrovigliano queste due proposizioni, dobbiamo piuttosto provare a mantenere i due capi grazie al cui intreccio si costituisce l’essere del tempo. Se pensassimo soltanto che ogni inizio è nel tempo, poiché vi è ogni ora, cancelleremmo il problema dell’inizio e sottrarremo alla spinta estatica del tempo il suo πάθος. Se invece sottraessimo l’inizio al tempo, cancelleremmo l’essere nel tempo dell’ora che pure nell’inizio inizia (anzi: è iniziato). In termini più sbrigativi: senza l’inizio il tempo non è tempo, dunque vi è un inizio del tempo. D’altra parte, però, se l’inizio non è nel tempo, ciò che inizia non è il tempo, dunque l’inizio del tempo inizia nel tempo. Cerchiamo di mettere a profitto questa proposizione, assumendola come filo conduttore per una più rigorosa determinazione della compagine dell’inizio. Che l’inizio ci si presenti come una compagine significa che l’inizio non è una determinazione semplice. Dobbiamo quindi escludere anzitutto che basti pensare semplicemente che esso stia prima. Questa è poi la buona ragione di Agostino, nelle Confessioni: a chi domandasse con impertinenza cosa facesse o abbia mai potuto fare Dio prima della creazione, se per caso se ne sia stato ozioso senza far nulla prima di creare, bisogna rispondere negando la pertinenza di quel prima: non c’è alcun prima, prima della creazione, poiché la creazione è creazione dell’ordine del prima e del dopo. Ma qui sta anche il torto di Agostino, il quale mantiene la precedenza del Deus creator, ma assegna al tempo in cui Dio precede tutti i tempi la determinazione semplice dell’hodie – «l’hodiernus tuus aeternitas [est]10 –, in cui tutti i tempi, il passato, il presente e il futuro, sono simultaneamente compresenti. Questo significa che quel che succede nel tempo non trova nel suo inizio alcuna ragione per succedere (il che rende per converso inutile pensare l’inizio), e significa pure, in maniera conseguente, che quel che succede non è affatto successivo all’inizio di Dio, ma solo a Dio presente, totus praesens. L’inizio è ciò in virtù passato, e così il futuro, qua futuro. Se dunque presente è sempre solo il presente, e se né il futuro né il passato passano (ma passeranno o sono passati), in che modo il tempo potrà passare? 10 S. Agostino, Confessioni, libro XI, § 13.

Del tempo. Una passione senza misura

65

di cui il tempo succede, ciò in virtù di cui ogni ora è nel tempo; l’inizio di Agostino è invece ciò in virtù di cui nulla realmente succede, ma tutto è – fuori del tempo, nell’eternità di Dio. Perché l’inizio sia inizio del tempo, cioè della successione irreversibile degli ora, esso dunque non può accadere, come la creazione di Agostino, hodie: quando dunque ac-cade l­’inizio? È sin troppo evidente che la domanda non può avere in risposta l’indicazione di un ora determinato. Questa evidenza è stata forse sufficiente ad Aristotele per escludere che il tempo avesse inizio, e ad Agostino per pensare che la creazione avvenisse in un misterioso ora senza tempo. La domanda chiede invece di pensare la struttura stessa dell’accadere, in quanto essa sta nell’inizio, e perciò succede. Orbene, quel che propriamente all’inizio accade, è appunto che il tempo succede. Col dire ciò, intendiamo anzitutto riservare l’accadere all’inizio, e poi indicare, nel succedere, l’essere di ogni ora nel tempo: non semplicemente il suo essere ‘in mezzo’, secondo la μεσότης aristotelica, ma il suo essere dopo, poiché l’ora non si fa mai presente come quel che viene prima. Si deve infatti dire così, che, quando succede, l’ora che succede viene sempre prima di venire prima. E non si tratta di un ritardo del sapere, per cui solo in un ora successivo si sa che l’ora precedente è venuto prima, ma dell’anticipo che costituisce l’accadere stesso dell’ora, per ciò che esso è appunto un accadere temporale11. In questo modo si vede anche che non c’è prima l’accadere dell’inizio e poi quel che succede, poiché l’accadere prima (di venire prima) appartiene al succedere stesso dell’ora. Quel che accade è quel che succede: non c’è alcun accadimento che preceda quel che succede, ma quel che succede reca in sé lo ‘stigma’ di questa precedenza, l’accadimento stesso dell’inizio, per il fatto di venire dopo, e proprio perciò sempre prima di venire prima. In altre parole, il venir dopo e il venir prima non coincidono: non accadono nello stesso tempo. Non vi è un ora in cui l’ora venga al tempo stesso dopo l’ora che precede e prima dell’ora che segue. Questo ‘tempo stesso’, questa coincidenza dell’ora con l’ora che sta in mezzo tra il prima e il dopo (e che pure essa è) non c’è. L’ora che viene dopo viene prima di venire prima: è quindi proprio in quanto è nel tempo e viene dopo, che l’ora non può non accadere prima di venir prima, in anticipo sul proprio tempo. Questo anticipo non gli appartiene in quanto è, per esempio, già sempre fissato nella mente di Dio, ma proprio in quanto è nel tempo, tra il prima e il dopo, benché l’anticipo stesso che proprio perciò gli appartiene non stia in un tempo determinato tra il prima e il dopo, e non stia perciò sulla linea del tempo. Ripetiamo: quel che dunque succede, quando accade, è l’ora, il quale accade perché viene ora, cioè dopo, poiché succede, cioè prima di venire prima. Il dopo, e il prima di prima dispongono l’ora nel tempo, e indicano che quel che accade, quando accade, è appunto quel che succede. La natura 11 Non si tratta di un ritardo del sapere, ma di ciò per cui il sapere è in ritardo. Ma anche su questo torno più avanti.

60

66

Massimo Adinolfi

intermedia dell’ora, la μεσότης di Aristotele, che avrebbe potuto soddisfare solo una considerazione presuntamente ‘obiettiva’ del tempo, non nascondeva soltanto l’asimmetria fondamentale fra il prima e il dopo, ma anche quella precedenza fondamentale che l’ora manifesta in se stessa. L’ora dell’inizio non è così un ora speciale, un ora diversa da ogni ora, come ad esempio l’ora agostiniana della creazione, ma è quel tratto dell’ora che all’ora appartiene in anticipo su se stesso, ancor prima di venir prima, per il solo fatto di succedere nel tempo. L’inizio del tempo inizia nel tempo, dicevamo. Si potrebbe dire ora: l’ora che inizia non fa a tempo ad accadere, non ha il tempo di accadere che già succede. L’ora è così in due: osservato lungo la linea di successione, sulla quale viene fatto equivalere a un punto (non c’è tempo senza ora), l’ora è preceduta da tutti i punti che vengono prima e al tempo stesso seguita da tutti i punti che vengono dopo; osservato invece in quanto accade, l’ora non si trova semplicemente nel tempo stesso tra ciò che precede e ciò che segue, poiché non è lì che propriamente accade quel che succede, ma prima di esso: accade prima, all’inizio, quel che succede dopo. A dividerli non c’è un ora, il tempo stesso rispetto al quale gli ora si dispongono κατὰ τὸ πρότερον καὶ ὕστερον. A dividerli non c’è un ora, poiché l’ora stesso è diviso: prima, quando accade; dopo, quando succede – con l’avvertenza che ‘quando’ non indica affatto, nelle due proposizioni, due ora diversi, ma che l’essere stesso dell’ora è in due. Proprio perciò, gli riesce di accadere, ed è presente come quel che succede. Materia, potenza

61

In questo modo riprendiamo peraltro la tesi, sopra riferita, di ­Aristotele, secondo cui l’ora «divide in potenza» (διαρεῖ δὲ δυνάμει): la riprendiamo contro Aristotele stesso, così da farle esprimere non solamente l’aspetto superficiale, patente e formale dell’ora, ma insieme anche la sua dimensione profonda, latente e materiale. La tesi di Aristotele significa infatti: è sempre possibile assumere un ora determinato sulla linea del tempo in modo che segni il punto finale o iniziale di questo o quell’intervallo di tempo. L’ora signata, potremmo dire, è l’ora che, riportata sulla linea del tempo, lo divide ogni volta in avanti e indietro. Ma qui chiede di essere pensata, senza essere ridotta a esanime possibilità logica, la δύναμις del tempo stesso, che, nell’ora, non fa ancora segno alcuno e che mai perciò potrà essere riportata su quella linea. Quella δύναμις costituisce la prima materia temporale, la πρότη ὔλη di qualunque segno cronologico. Non meraviglia dunque che Kant chiedesse di avere riguardo, nella rappresentazione della linea del tempo, non già al tracciato della linea quanto al tracciare stesso, proprio come Bergson chiederà di non confondere il movimento con la sua traiettoria. Tuttavia, cosa significano quelle richieste? Se osservassimo l’atto stesso del tracciare, non vedremmo il tempo più di quanto lo vediamo nella linea tracciata. È chiaro perciò che il

Del tempo. Una passione senza misura

67

movimento che conduce dal tracciare al tracciato non può essere tracciato, ed è quindi un movimento di altra natura rispetto al movimento di cui invece si può seguire il tracciato: per questo Aristotele doveva osservare non solo che il tempo è «qualcosa del movimento», ma che c’è tempo «anche se nulla è mosso». Anche se nulla è mosso – ossia: anche se non si può segnare nulla, anche se nulla è tracciato –, prima ancora di disporsi sulla linea, la pura materia del tempo, che precede ogni movimento e da cui ogni movimento proviene, ­accade. Che accada anche quando nulla è mosso significa che, senza avere una forma, non è tuttavia una materia inerte. Questo è poi, metafisicamente parlando, il rilievo che merita la maggiore considerazione. Ad esso vorremmo dedicare un brevissimo giro di considerazioni, non ovviamente con la pretesa di risolvere alcunché, ma con l’intenzione di indicare almeno un orizzonte. La tradizione del pensiero si è sempre cimentata con il problema dell’inizio. Le occorreva però di pensare che nessuna delle determinazioni che appartengono a ciò che è iniziato fosse ascrivibile all’inizio, e in generale che l’inizio non fosse assolutamente determinato, perché altrimenti: donde la sua determinazione? Questo significava anche che non doveva possedere neppure la determinazione di inizio, perché anche di questa si sarebbe potuta domandare donde l’avrebbe ricevuta o come avrebbe potuto darsela. L’inizio sprofondava così in una preoccupante indeterminatezza, con in più l’onere di dover fronteggiare la mossa dialettica di prendere la sua indeterminatezza come la sua essenziale determinazione. Si poteva certo dire che il ‘prendere come’ che vòlta l’indeterminatezza in determinazione dell’inizio ha pure esso inizio: non può dunque avere l’ultima parola. Tuttavia non poteva bastare di pensare l’inizio senza determinarlo come tale, e non solo perché si faceva avanti il sospetto che in questo modo il pensiero si dava un compito impossibile, ma perché anche l’esigenza di non determinare l’inizio come inizio doveva far mostra di appartenere non già al pensiero che ne ragionava, ma all’inizio stesso, senza neppure fare che da quest’ultima istruzione l’inizio ricevesse una previa collocazione di là da ogni possibile pensiero. Non potendo l’inizio essere legato all’iniziare, non potendo essere raggiunto come inizio a partire dall’iniziato, non potendo essere determinato come inizio ‘per noi’, l’inizio doveva trovarsi a non essere in sé e per sé inizio, e ad essere invece un passo prima di essere inizio. Si comprende dunque come la questione dell’inizio sia stata per lo più interpretata su un registro scandito dai motivi teo-­logici della trascendenza e della negatività. Seguendo i quali, tuttavia, non v’era modo alcuno di materiare questo prima, assicurandogli così uno statuto che fosse indipendente dalla – o meglio: indifferente alla – forma che il pensiero gli prestava. L’essere senza di sé dell’inizio assumeva così, nonostante ogni avviso contrario, una dimensione essenzialmente ‘logica’, quella dimensione cioè in cui il pensiero può muoversi solo mettendo sull’avviso che il prima di cui ragiona e di cui ha bisogno non ha ovviamente un senso cronologico, ma, appunto, logico. Poiché però la dimensione logica non può

62

68

63

Massimo Adinolfi

neppure essa stare all’inizio, lo statuto di quel prima in cui abita l’inizio prima di essere inizio si faceva oltremodo aporetico: essendo raggiunto solo logicamente, in una dimensione nient’affatto originaria. Orbene, la ‘materia temporale’ dell’inizio, la πρώτη ὔλη, fonda nella ‘cosa stessa’ del tempo la sua possibilità. L’inizio è prima, non però in termini puramente logici o meramente cronologici. Esso è prima poiché viene prima di venir prima – che è quel che accade e si dà effettivamente a vedere quando il tempo succede. L’inizio è in anticipo su se stesso non per un’esigenza meramente logica, ma per la sua stessa natura temporale di inizio. Questo anticipo, che lo costituisce, non ha nulla dell’anticipazione logica e non va pensato come la pura forma dell’inizio, poiché si tratta invece della sua stessa natura materiale. L’inizio è una materia: nulla di determinato12, ma nulla anche che debba la sua indeterminatezza all’operazione con la quale il pensiero astrae da tutte le altre determinazioni. In quanto materia prima, l’inizio non potrebbe possedere altra potenza che la δύναμις τοῦ πάσχειν – e d’altra parte, in quanto è all’inizio, non può non essere attiva, efficiente. Ma è la stessa dottrina aristotelica della potenza che può metterci in condizione di affrontare l’aporia. A proposito della potenza passiva, Aristotele afferma infatti che «è, nel paziente medesimo, il principio di mutamento passivo ad opera di altro o di sé in quanto altro» (Metafisica, Θ, 1, 1046a 12-13), ma è chiaro che riguardo alla materia prima, alla πρώτη ὔλη temporale, la distinzione sé/altro, che come tutte le distinzioni suppone un principio formale e attuale, non può avere pertinenza alcuna. Non può esserci un altro rispetto alla materia prima, senza che la materia prima si determini rispetto ad esso (e non sia più, per questo, l’indeterminata πρώτη ὔλη). Non c’è dunque un altro per opera del quale muti la materia del tempo, né essa si muta da sé, perché un sé ancora non c’è. C’è però il mutamento stesso, il modo della costituzione passiva dell’ora che succede nel tempo, a partire dal fatto che esso (quello stesso ora, non un altro) accade. Si deve allora dire, con un’espressione non prevista nel vocabolario della metafisica classica, che la πρώτη ὔλη è causa sui, o piuttosto al contrario che la causa sui è πρώτη ὔλη, visto che non è in senso proprio né una causa né un sé, e che non c’è potenza più attiva di questa potenza passiva che è all’inizio di ogni attività. Si può forse dire anche così: la πρώτη ὔλη è l’alterità stessa: non però l’altro platonico, l’ἔτερον che siede, al cospetto degli altri generi, nel consesso della κοινονία τῶν γενῶν, e di cui Platone può ben dire che è, e che è identico a sé proprio in quanto diverso dal diverso, ma l’altro che non è, né è identico. Questo altro non è da pensare come, ad esempio, una specie di argilla cui un demiurgo dovrà dar forma, ma come l’inizio stesso che accade, il mutamento 12 «Chiamo materia ciò che, di per sé, non è alcunché di determinato, non è una quantità né alcun’altra delle determinazioni dell’essere [Λέγω δ’ ὕλην ἣ καθ’ αυτὴν μήτε τὶ μήτε ποσὸν μήτε ἄλλο μηδὲν λὲγεται οἷς ὥρισται τὸ ὄν]», Aristotele, Metafisica, Z, 3, 1029a 20.

Del tempo. Una passione senza misura

69

che prende solo dopo, quando succede, lo ‘stato’ di ciò che è ora, ed è perciò (ed è ormai) identico – benché peraltro esso accada proprio quando succede, e tuttavia non al tempo stesso. L’alterità di cui qui si tratta è insomma la spinta materiale del tempo che viola sin dall’inizio l’intima puntualità di ogni ora. Da e verso l’istante L’interpretazione ‘materiale’ dell’ora che accade risalta in particolare quando essa venga avvicinata all’ἐξαίφνης platonico. Siamo nel Parmenide, e la questione è la μεταβολή dall’uno ai molti – come anche dal simile al dissimile, dalla quiete al movimento. Se prima l’uno è in quiete, e poi l’uno è in moto, quando accadrà che dalla quiete l’uno passi al moto? A questa domanda Parmenide comincia col rispondere stabilendo che «non esiste alcun tempo in cui è possibile che contemporaneamente qualcosa non sia né in movimento né in quiete [Χρόνος δέ γε οὐδείς ἔστιν, ἐν ᾦ τι οἶόν τε ἅμα μήτε κινεῖσθαι μήτε ἑσταίναι]» (156d6). Ciò detto, per pensare la μεταβολή dalla quiete al moto occorre proprio porre qualcosa che non sia già in quiete o in moto. Il mutamento non può avvenire nel tempo in cui ciò che muta è già determinato nel suo stato come ciò che è in quiete oppure in moto. Come potrebbe ciò che è in quiete mutare di stato e mettersi in moto mentre è in quiete, o come potrebbe ciò che è in moto mutare di stato e mettersi in quiete mentre è in moto? Qualunque interpretazione del mutamento di stato che lo assegni ad un tempo determinato urta contro questa difficoltà. Il mutamento di stato non avverrà dunque nel mentre di un certo stato, cioè nello stesso tempo in cui l’uno si troverà in quiete oppure in moto, ma istantaneamente, poiché «la stessa natura dell’istante è qualcosa di incollocabile che si trova in mezzo tra il moto e la quiete, non essendo in nessun tempo [ἡ έξαίφνης αὕτη φύσις ἄτοπός τις έγκάθηται μεταξὺ τῆς κινήσεώς τε καὶ στάσεως, ἐν χρόνῳ οὐδενὶ οὖσα]» (156d6-e1). Parmenide fa anche attenzione a che l’istantaneità dell’istante non venga concepita come il luogo in cui avviene il mutamento: non dice infatti che il mutamento avviene nell’istante, ma dice che avviene a partire dall’istante e verso l’istante: ἐκ… εἰς. Non dice neppure che l’uno, mutando, muta istantaneamente, ma che, mutando l’uno, l’istante muta «[τὸ ἓν] μεταβάλλον δ’ εξαίφνης μεταβάλλει», (156e5): l’istante non è il luogo del mutamento, senza essere il mutamento stesso. L’istante dunque non ha luogo, è ἄτοπός, non si trova lungo la linea di χρόνον, non è una determinazione di tempo. È il puro da-a, ἐκ… εἰς. Di questo ‘scalino’, di questa materia interna all’εξαίφνης che si svolge dall’ἐκ all’εἰς non resta tuttavia traccia nell’interpretazione ‘istantanea’ dell’istante, che contrae in un punto inesteso quel mutamento. Non potendo essere disteso nel tempo, l’istante viene pensato come un punto senza estensione. Se la difficoltà sorgeva perché, nel mutamento da uno stato all’altro, ciò che muta viene a trovarsi prima, ἐν ἑνὶ χρόνῳ (156c2), in uno stato, e poi, in un altro

64

70

65

Massimo Adinolfi

tempo, in un altro stato, e mai invece nel mutamento stesso, l’istante in cui avviene il mutamento non potrà distendersi in un prima e dopo. Non rappresentabile, non numerabile, l’εξαίφνης riceve lo spicco di un’ἀκμή, la decisività del καιρός: puntuale e tempestivo, riesce a tenere insieme, in una volta sola, predicati opposti, che insieme non possono stare senza contraddizione: uno e molti, quiete e movimento, simile e dissimile, grande e piccolo. Solo se essi stanno insieme, è possibile pensare il mutamento: appena cadono l’uno fuori dell’altro, l’uno prima e l’altro dopo, svanisce la possibilità di pensare il mutamento di stato: quando infatti avverrebbe? Pensare il mutamento, è pensare l’εξαίφνης; pensare l’εξαίφνης, è pensare insieme, contratti in un unico punto, quiete e moto; pensare insieme quiete e moto, è pensare la contraddizione. Quel che dunque si suppone qui è che per pensare il mutamento di stato i predicati opposti debbono stare insieme nell’εξαίφνης, e che dell’essere insieme, ἅμα, non è possibile se non un’interpretazione ‘logica’ – l’esito di questa interpretazione essendo poi la pura contraddizione. Vale infatti la domanda: in che modo è ancora possibile dire che l’istante sia tempo? Platone dice che la μεταβολή avviene in nessun tempo, ἐν χρόνῳ οὐδενὶ, ma questo non può significare che nulla ha da fare l’istante col tempo, a meno di non intendere che tempo è solo χρόνος, solo ciò che si determina lungo la sua linea di successione. Se invece l’istante è tempo, in virtù di cosa lo è? L’interpretazione istantanea dell’εξαίφνης cancella il tempo perché le occorre di pensare che ciò che muta sia al tempo stesso in quiete e in moto, simile e dissimile, grande e piccolo, ma questo ‘al tempo stesso’ non ha nulla del tempo. Questa interpretazione logicizza l’istante, perché non trova nessuna interpretazione dell’ora dell’istante che consenta di pensare l’insieme nella sua intrinseca natura temporale, senza tuttavia distenderlo in una serie cronologicamente determinata di ora, ma svolgendolo nella sua natura atopica da-a, ἐκ… εἰς. Di ciò è forse segno anche il fatto che l’istante viene pensato come ciò che è ad un tempo in quiete e in moto, mentre Platone pensa l’istante come ciò che, non essendo né quiete né moto è potenza di divenire insieme e l’uno e l’altro e permette all’uno di divenirlo: «Quando cambia di stato [l’uno] non sarà in nessun tempo, non si muoverà e non sarà in quiete [ὅτε μεταβάλλει, ἐν ουδενὶ χρόνῳ ἂν εἴη, οὐδὲ κινοῖτ’ ἂν τότε, οὐδ’ ἂν σταίη]» (156e6-7). Nessun tempo, in quanto è il tempo di una μεταβολή – che è come dire: in quanto è tempo, poiché non c’è tempo in cui, anche se nulla si muove, qualcosa tuttavia non si corrompa e distrugga – nessun tempo cade in un tempo determinato. La materia del tempo, ciò di cui il tempo è fatto, è δύναμις τοῦ πάσχειν, il mutamento, nel senso che s’è detto, prima di ogni determinazione. Il tempo riceve altresì la sua determinazione da ciò, che, in esso, ciò che muta è in quiete oppure in moto, e mai è l’una e l’altra cosa nello stesso tempo. Ciò tuttavia non significa che il mutamento accade in un puntualissimo istante di cui è richiesta solo la forma logica contraddittoria e nessuna natura temporale, ma che la φύσις ἄτοπος del tempo non ha determinazione alcuna. Di nuovo, però: non dobbiamo pensare che l’istante di tempo non può avere determi-

Del tempo. Una passione senza misura

71

nazione alcuna, perché ciò renderebbe impossibile pensare il mutamento. Piuttosto: poiché il tempo è mutamento, non ha determinazione alcuna. Se dunque l’εξαίφνης è ciò a partire da cui e verso cui ciò che è in moto s’acquieta e ciò che è in quiete si mette in moto – insomma: lo ἐκ e lo εἰς che ne costituiscono l’atopica natura di mutamento –, c’è qui una materia temporale che si svolge dall’uno all’altro, e che non si dà a vedere sulla punta dell’istante, nella forma logicamente concisa dell’ora. E poiché esso viene prima di venir prima, essendo il da-cui di ogni accadere, bisogna domandare: come allora si dà a vedere? O forse questa materia non potrà ritrovarsi soltanto dal lato di ciò che è visto, di ciò che è percepito, e dovrà piuttosto essere patita prima di ogni percepire? Inizio, per esempio, a scrivere. Accendo il computer; mentre il sistema lancia i programmi autoinstallanti, ordino le carte sulla scrivania, poi apro qualche libro, do una rapida scorsa alle ultime cose che ho stampato. Apro quindi un documento word, con l’impostazione di pagina che uso sempre, attivo il Font per i caratteri greco antico, e comincio. Da dove inizio? Non inizio da nessuna delle cose che sono nel tempo. Non inizio dallo spazio bianco della pagina, non inizio dai primi pensieri ordinando i quali ho fatto le prime cose che faccio al mattino, quando mi siedo alla scrivania: non inizio neppure da queste prime cose. Se guardo ad esse non troverò mai l’inizio, ma sempre solo l’essere nel tempo. Eppure è in esse che l’inizio va cercato, poiché dove altrimenti dovrebbe esserlo? Ma, d’altra parte, come potrebbe starvi? Come potrebbe essere l’inizio una cosa che sta come ciascuna di queste cose: la scrivania, il libro, il computer, il file? E d’altra parte, è solo perché si tratta di scrivere, che io posso incontrare nella mia ricerca dell’inizio la scrivania il libro il computer il file. Se non si trattasse di scrivere, nulla di tutto ciò potrebbe emergere e spiccare. Ciò che fa emergere l’una e l’altra cosa all’inizio dell’atto di scrittura è dunque questo stesso atto. Ma neanche questo atto riesce poi ad essere veramente l’inizio: in primo luogo perché non è che ci sia di qua l’atto dello scrivere e di là, ovunque stia questo di là, la scrivania il libro il computer il file; e in secondo luogo perché anche l’atto di scrittura, come già quelle cose, prende titolo di inizio dal mio stesso cercarlo. Se lo raggiungo come inizio, prima di esso inizio starà il mio cercarlo e raggiungerlo. Ora, queste considerazioni sembrano sottrarmi l’inizio, ma non possono spingermi sino a dire che io inizio a scrivere quando cerco l’inizio dello scrivere e in questa ricerca. Né con simili complicazioni intendo negare che c’è modo, di fatto, di rispondere alla domanda su quando, al mattino, inizi a scrivere. E non è vero neppure che per questo ci sia bisogno di mettersi d’accordo prima su ciò che s’intende per inizio – per esempio, la composizione della prima parola piuttosto che la battitura della prima lettera sulla tastiera del computer. Di fatto, questo bisogno non c’è, poiché è sempre già soddisfatto, in tutti i casi ordinari in cui mi si domanda, o io stesso mi chiedo, quando ho iniziato a scrivere.

66

72

67

Massimo Adinolfi

Quel che però non posso non chiedermi, è ora cosa significhi che in linea di fatto io faccio esperienza dell’inizio, benché considerazioni di principio mi sottraggano questa esperienza. Significa forse che l’ordine di fatto precede la considerazione di principio, e che dunque quest’ultima è in ritardo e viene dopo? Ma cosa significano qui precedenza e ritardo? Come devono essere interpretati? Dal momento che la considerazione di principio elevata mette in dubbio che l’inizio stia in ciò che è cronologicamente prima, se il ritardo di ciò che è di principio significasse semplicemente che prima inizio a scrivere e poi mi domando quand’è che ho iniziato a scrivere, perdendomi in un nugolo di considerazioni sempre più circolari di cui non riesco a vedere non solo l’inizio, ma neanche la fine – se il ritardo fosse così semplicemente inteso, in termini strettamente cronologici, si sarebbe deciso che le considerazioni di principio non hanno invero alcun valore principiale, ma sono affatto destituite di fondamento. Lungi però dall’essere una effettiva messa in questione della considerazione di principio, questo sarebbe soltanto un modo per ribadire come un mero fatto, che della considerazione di principio si vuol vedere appunto solo il fatto che viene dopo. Solo elevando indebitamente il fatto a principio, il principio decadrebbe cioè a mero fatto. D’altra parte, a meno di non obliterare il tempo, considerando semplicemente illusoria la nostra esperienza dell’inizio, il venir meno dell’inizio nei circoli della riflessione deve mantenere il senso di ciò che viene in ritardo rispetto all’inizio13. E la precedenza di ciò che viene prima e di cui faccio effettivamente esperienza non sarà una precedenza meramente cronologica, ma questo non significa che abbia il valore di una mera presupposizione logica. Che dunque io inizi a scrivere, accade in un prima né piattamente cronologico né puramente logico. Questo prima dalla cui atopica natura inizio, è prima non perché precede le cose tra le quali non trovo l’inizio, ma perché anticipa la sua stessa determinazione di inizio, di maniera che la riflessione, che di fatto si costituisce dopo, non può raggiungerlo per principio. Questo prima ha dunque una precedenza di fatto rispetto alla considerazione di principio, poiché non è un presupposto logico, e una precedenza di principio rispetto all’ordine di fatto, poiché non è disposto secondo l’ordine del tempo. Non è difficile rintracciare in questa duplice indisponibilità e dislocazione lo ἐκ e lo εἰς dell’εξαίφνης, il suo più proprio (cioè assolutamente improprio) μεταξύ. Lo ἐκ da cui inizio, e lo εἰς verso cui oriento la mia comprensione dell’inizio. Il tempo e l’anima, la materia e il segno, ma in maniera tale che né il tempo sarà semplicemente compreso nell’anima, né l’anima sarà semplicemente contenuta nel tempo. Non solo cioè lo ἐκ che all’inizio conferisce tempo, né solo lo εἰς che lo comprende in un’unica figura, ritmo o concetto, ma l’uno e l’altro Questo significa che qui non si tratta del circolo ermeneutico, in cui non c’è alcun vero inizio, ma dell’essere in ritardo dell’intero circolo. (Che non c’è vero inizio è confermato e contrario da ciò, che il tempo a cui è sottratto l’inizio si sporge come non dovrebbe oltre di sé, fuori del tempo. Questo accade anche al circolo ermeneutico: tutto ciò che è preso nel circolo, soggiace al tempo, ma non il circolo stesso). 13

Del tempo. Una passione senza misura

73

insieme, di modo che l’inizio non è mai assegnabile, poiché per assegnarlo occorre comprenderlo nello εἰς, il quale però non può comprendere mai lo ἐκ della propria provenienza. Così, in ciò che succede, il tempo accade. Accade dall’inizio, prima di venir prima, cioè ora, ma in un ritardo incalcolabile sul proprio tempo. Un r­ itardo che l’anima («e nell’anima l’intelletto») che per natura numera, πέφυκεν ἀριθμεῖν ἤ ψυχὴ (Δ, 14, 223a 25), non potrà che patire. Aeternitas Sentimur et experimur nos aeternos esse14. Non c’è parola che riesce più estranea alla nostra esperienza di questa. C’è tuttavia nella pagina di Spinoza una radice nascosta, che accomuna l’esperienza del tempo e l’esperienza dell’eterno, a cui si può forse guardare perché quella proposizione venga compresa non dirò nella sua giusta luce, ma in una luce che può schiudersi ancora sulla natura del tempo. Per eternità, spiega Spinoza nell’ultima definizione della prima parte, l’ottava, «intendo la stessa esistenza in quanto la si concepisce seguire necessariamente dalla sola definizione della cosa eterna». Quanto invece alla durata temporale, essa è, secondo la quinta definizione della II parte, «un’indefinita continuazione dell’esistere», indefinita poiché «non può in alcun modo essere determinata mediante la stessa natura della cosa esistente», cioè mediante il suo concetto. L’esperienza dell’eternità è dunque l’esperienza di ciò che si determina nell’esistenza in base al suo concetto, e al contempo l’esperienza dell’impotenza del concetto a determinare ciò che dura nel tempo. Non c’è esperienza dell’eternità del concetto che non esperisca anche i limiti del concetto riguardo al tempo. È dunque nella luce dell’eternità, sub specie aeternitatis, che il concetto rivela la sua impotenza. Di questa impotenza il concetto fa continuamente esperienza – si potrebbe dire anzi che non c’è esperienza del concetto che non abbia questo carattere, e che perciò l’eternità costituisce una species dell’esperienza, un aspetto dell’esperienza delle cose che sono nel tempo che mostra non il limite di queste stesse cose – che ci rimane sconosciuto, poiché esso non è contenuto nel concetto di alcuna cosa15 – ma il limite del concetto. Limite che può essere soltanto ‘patito’ e di cui non si può avere il concetto, poiché il concetto – o, spinozianamente, l’idea – è, al pari di ogni altra cosa, un modo tra i modi, e dunque anche di esso si dovrà dire che non può contenere nel proprio concetto (nell’idea ideae) il proprio stesso limite. Ora, se c’è una cosa che nell’Ethica di Spinoza manca, che non sta scritta da nessuna parte e che in verità non può essere scritta è il ‘punto’ in cui i

B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata, parte V, scolio della prop. XXIII. «Finché dunque poniamo mente soltanto alla cosa stessa e non alle cause esterne, non potremo trovare in essa nulla che possa distruggerla» (Ethica, parte III, prop. IV, dimostrazione). 14 15

68

74

69

Massimo Adinolfi

modi finiti procedono dall’infinita, eterna natura di Dio. Quando accade che l’eterno si modifica nel tempo: in quale tempo? Eppure questo ‘tempo’ fa la sua comparsa nel testo. Per esempio nel corollario alla proposizione VIII della parte II: «Da qui segue che, fino a quando le cose singolari non esistono se non in quanto sono comprese negli attributi di Dio…; e quando le cose singolari si dicono esistere non soltanto in quanto sono comprese negli attributi di Dio, ma in quanto si dicono anche durare»16. Questo ‘tempo’ è del tutto fuori luogo: non è che le cose esistono negli attributi di Dio fino a un dato tempo, e poi prendono ad esistere nella durata. Questo tempo, il quamdiu in cui rimane la sostanza e l’ubi in cui si presenta il modo, non può essere determinato come tale. Ma proprio in luogo (e nel luogo) di questa impossibile determinazione, sta la conoscenza vera e adeguata delle cose singolari in quanto procedono (quando?) da Dio. La natura di questa conoscenza verrebbe perciò fraintesa, se non si vedesse che essa sta in luogo di quel procedere: in luogo di ciò che peraltro non vi può stare. È dottrina costante in Spinoza che la conoscenza vera è conoscenza delle cose singolari, in q ­ uanto seguono «dall’eterna necessità della natura di Dio». Questo seguito non può certo avere un senso cronologico, ma non riesce ad avere neppure un ­senso squisitamente logico (e difatti una deduzione logica della res singularis non c’è). La successione cronologica abbasserebbe la sostanza a modo, ma la pura deduzione logica farebbe semplicemente scomparire l’esistenza contingente del modo nell’eternità della sostanza. La conoscenza vera, di terzo genere, che percepisce le cose sub specie aeternitatis, non si stacca allora da questo mondo né vanta una vista sovraumana: percepisce invece l’impotenza del concetto, l’impossibilità di far seguire nel tempo o anche nel concetto le cose da Dio. Che le cose accadono, questo è infatti ciò che accade prima. Percepirle in Dio non significa concepirle ‘in presa diretta’, proprio mentre si svolgono a partire da Dio, perché non è così che si svolgono – e non perché si svolgano allora in altra maniera, o non si svolgano a partire da Dio (dall’inizio), ma perché non ci può essere il tempo stesso di questa presa diretta, né ci può essere un concepire, che accompagni passo passo quello svolgimento, il concepire essendo esso stesso uno svolto. L’impotenza del concetto, il suo limite, non indica allora un difetto, colmabile o incolmabile che sia: indica piuttosto la posizione, cioè l’es-posizione, del concetto nella sostanza. Indica l’ἐκ di cui il concetto è lo εἰς. Il concetto è spinozianamente un modo dell’attributo pensiero, e l’attributo è l’espressione dell’essenza della sostanza, la quale tuttavia non è (soltanto) pensiero, ma precede il pensiero per esporsi in esso. C’è identità e differenza,

16 «Hinc sequitur, quod, quamdiu res singulares non existunt, nisi quatenus in Dei attributis comprehenduntur, earum esse obiectivum sive ideae non existunt, nisi quatenus infinita Dei idea existit; et ubi res singulares dicuntur existere, non tantum quatenus in Dei attributis comprehenduntur, sed quatenus etiam durare dicuntur, earum ideae etiam existentiam, per quam durare dicuntur, involvent» (Ethica, parte II, propr. VIII, corollario).

Del tempo. Una passione senza misura

75

ma non logicamente, poiché ciò che qui si differenzia nell’identità non ha una posizione logica (né cronologica), ma una posizione autenticamente temporale: la posizione di ogni es-posizione. Noi potremmo scrivere anche così: lo ἐκ e lo εἰς appartengono allo stesso ora, che proprio perciò non è lo stesso tempo. Se A è A è l’espressione di una verità eterna del pensiero, della verità eterna stessa, non è a partire da essa (né in questa forma) che la sostanza ­accade, ma prima. Quella verità (ogni verità, la verità stessa) è esposta, spostata rispetto all’inizio. Il limite del pensiero è all’inizio, è cioè il puro e semplice A. Ma A non va pensato come il residuo logico che l’identità non riesce a risolvere in sé, bensì come la materia eterna del pensiero a partire da cui (ἐκ) il pensiero inizia. A non segna così una differenza rispetto ad A è A, poiché non fa segno alcuno (i segni vengono dopo). Come lo ἐκ non differisce dallo εἰς, così A non differisce dall’identità, senza tuttavia essere identico all’identità stessa. A può così essere segnato solo in A è A, come in-differente all’identità. L’indifferenza non è un nome ‘logico’, poiché ciò che essendo indifferente non fa differenza si riduce logicamente all’identità. L’indifferenza è invece il nome eterno dell’accadere dell’inizio, da cui siamo esposti. E farne esperienza, percepire il mondo in Dio, sub specie aeternitatis, ha il significato di far crescere un pensiero del limite che non lo esperisca più in termini di fine, di essere-per-la-fine, ma lo pensi invece come inizio. Un pensiero senza contrari – proprio come l’amor intellectualis17 – poiché non c’è modo a partire dall’inizio, di pensare la sua fine (mentre ogni accaduto, in quanto accaduto, è già finito). Come potrebbe infatti accadere la fine? Come potrebbe la fine essere un accadimento, qualcosa che inizia? Davvero allora l’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte come la potenza che contrasta la vita; davvero la sua sapienza è meditatio vitae, poiché la vita non ha contrari e non può essere contrariata. Davvero sentiamo e sperimentiamo di essere eterni, perché benché la nostra vita patisca il tempo e non riesca ad essere un tutto, tuttavia ad essa la morte non può strappare nulla.

17 «In natura non si dà nulla che sia contrario a questo amore intellettuale, ossia che possa eliminarlo», Ethica, parte V, prop. XXXVII.

70

RICERCHE

Inizio e parola di Dio Francesco Tomatis

1. La parola nel prologo di Giovanni Sulla traccia della grande interpretazione che Schelling, nella sua ultima filosofia, diede del prologo di Giovanni e in specifico dei suoi primi versetti, cercherò di approfondirne ulteriormente il significato, indicandone alcuni punti di riflessione possibile. Un aspetto non indifferente dell’incipit del prologo, innanzitutto riscontrabile ad un primo sguardo formale, è che dopo che nel primo verso, divisibile in tre sottoversetti, sono indicate tre caratterizzazioni del lógos, queste stesse sono poi richiamate o ribadite nel secondo versetto. Inizia il prologo: «en archê ên ho lógos» (Gv 1, 1/a), «kaì ho lógos ên pròs tòn theón» (Gv 1, 1/b), «kaì theòs ên ho lógos» (Gv 1, 1/c): «nell’inizio era la parola, e la parola era presso il Dio, e Dio era la parola». Questi tre momenti del lógos, immediatamente nel versetto successivo, vengono ricapitolati: «oûtos ên en archê pròs tòn theón» (Gv 1, 2): «questa era nell’inizio presso il Dio». Proprio quel lógos che è Dio, lo stesso, era nel principio presso il Dio. Nel secondo vengono ribaditi esattamente i tre momenti detti nel primo versetto. Sorge allora un dubbio, almeno un interrogativo: non sarebbe stato sufficiente iniziare il prologo dal secondo versetto? Non avrebbe già detto contenutisticamente tutto, tutti i tre momenti scanditi nel primo versetto? O, viceversa, non sarebbe stato meglio non ribadire sinteticamente nel secondo quello che nel primo versetto già ampiamente era stato illustrato? Se l’autore del prologo ha fatto questa scelta, non è certo dovuto ad una ricerca di ridondanza. La motivazione e la questione è ben più profonda. I tre momenti devono essere scanditi, perché occorre sì comprenderli nella loro unitotalità, nella loro complessività, nella loro simultaneità ed eternità, ma per fare tutto ciò devono anche essere distinti innanzitutto logicamente. Nella prima parte del primo versetto abbiamo semplicemente il lógos nel principio, en archê, eternamente (ên) nel principio o nell’inizio eterno, ­aionico. Nella seconda parte abbiamo eternamente (ên) il lógos presso il Dio,

71

78

72

Francesco Tomatis

pròs tòn theón; non semplicemente presso Dio, ma presso il Dio, che per antonomasia è il Padre. Nel terzo momento abbiamo eternamente (ên) il ­lógos che è Dio; il lógos è eternamente divino, ma non è tò theòs, il Dio, bensì theòs, Dio. Nella terza parte viene designato il lógos che, dal punto di vista dogmatico, è Figlio, cioè si distingue quella persona della Trinità che non è il Padre, il Dio, eppure è altrettanto divino quanto il Padre e quanto lo Spirito, quindi è come loro Dio. Il lógos è Dio, però non è il Padre né è il Dio in assoluto, unico e comprendente in sé le tre persone trinitarie. Ricapitolando, il lógos è sempre, era eternamente, in tre distinguibili condizioni, le quali benché possano esser dette distintamente vanno colte anche simultaneamente, e, nonostante e perché siano coglibili in una sola visione d’insieme, occorre comprenderle nelle loro caratteristiche differenziate. Il lógos, dunque, era eternamente prima di Dio, in principio, nell’eterno inizio immemorabile e indistinguibile, purissimo e imprepensabile, in un’identità indifferenziabile iniziale, eternamente abissale e indubitabile. Il lógos, anche, era eternamente presso il Dio, nel seno del Padre, nella sua prossimità, allorquando Dio è Padre, cioè creatore del Figlio e attraverso di lui di tutta la creazione, come proprio altro; ciò da quando Dio è Dio, da quando il Dio è il Dio, il Dio e anche il Padre e il Creatore, cioè dall’eternità, dalla quale il Dio origina se stesso, si autoorigina. Il lógos, infine, era eternamente dopo il compiersi della generazione-cre-atio trinitaria, che lo distingue e caratterizza personalmente come Dio, Dio Figlio di Dio. Simultaneamente, inoltre, quel lógos eternamente era Dio in quanto Figlio e nell’inizio eterno e presso il Dio il Padre eterno. 2. La parola di Dio si fece carne

73

Cercherò di richiamare altri passi del prologo o neotestamentari per approfondire ulteriormente, più dogmaticamente che esegeticamente, questa distinzione: i tre momenti presenti nel primo versetto. Un passo dell’Apocalisse, 19, 13, credo possa ulteriormente dire qualcosa a proposito della presenza eterna del lógos nel principio, prima ancora di dirne la sua divinità, e prima ancora di dirne la sua relazione al Dio, al Padre. In tale passo, relativamente al cavaliere dell’apocalisse, al Cristo che torna nella parousía, viene detto che porta un nome che solo lui conosce. Porta infatti scritto in fronte un nome che nessuno conosce eccetto lui stesso: «échon ónoma gegramménon hò oudeìs oîden ei mê autós» (Ap 19, 12). Questo nome è «ho lógos toû theoû», verbum dei, «la parola del Dio» (Ap 19, 13). Il lógos che è nel principio, en archê, nell’inizio eterno, prima ancora che possa accennarsi che sia presso il Dio, che possa dirsi che è Dio, è la parola del Dio, o anche di Dio, non cambia qui l’interpretazione. Ciò che è s­ concertante è che questo nome lui solamente lo conosca. E ciò ci fa presumere – ad una

Inizio e parola di Dio

79

riflessione perlomeno filosofica – che nemmeno il Padre sappia che il lógos abbia questo nome, cioè che nemmeno il Padre sappia che il lógos sia la parola di Dio. Solo il lógos conosce il nome che porta scritto in fronte, che lo dice lógos del Dio; nel lógos en archê nemmeno il Padre sa che propriamente il lógos sia la parola di Dio, che sia la sua parola, la parola del Dio: ho lógos toû theoû. C’è un momento della vita stessa divina, in cui il Dio stesso ignora la propria espressione, e all’inizio, eternamente nell’inizio. Nella sua interpretazione del prologo giovanneo, Schelling richiama anche Eb 1, 3. L’espressione «charaktèr tês hypostáseos autoû» indicherebbe che il lógos, la parola, il Figlio è figura, espressione, conio originale, la primissima forma, che poi dà impronta a ogni altra forma, a ogni altra espressione, a ogni altra parola: la primissima espressione della stessa ipostasi, che Schelling identificherebbe con l’arché, non con l’ousía trinitaria. Rispetto all’ousía trinitaria, alla sostanza comune alle tre persone trinitarie, per cui si dà homoousía, uguaglianza di ousía, per poterla comprendere radicalmente nel suo essere non una semplice identica ousía, cioè una t­ autoousía, una riaffermazione dello stesso, dell’identico – e come tale non può essere pensata, perché il Dio cristiano è un Dio trinitario – occorre pensare questa arché in quanto sovrasostanziale, in quanto al di là dell’ousía, nel suo eterno “era”. Non che la si voglia pensare cronologicamente, come un precedente di Dio; ma comunque la dobbiamo logicamente pensare, per poter pensare fino in fondo il dogma cristiano della Trinità, il mistero trinitario, il mistero che la Trinità è a se stessa. Possiamo, inoltre, caratterizzare il secondo momento in cui il lógos è ­presso il Dio con la stessa espressione di Gv 1, 18, in cui viene detto che l’unigenito Dio è nel seno del Padre: «monogenès theòs ho òn eis tòn kólpon toû patròs». È nel seno del Padre, pronto alla generazione, ma non ancora generato: è presso il Dio, non ancora compiutamente altro. È già altro, ma è ancora presso il Dio, nel seno del Padre: la generazione non è ancora compiuta. A compiuta generazione avremo l’altro nella sua alterità, il Figlio che è altro in quanto medesimamente al Padre divino, cioè in quanto è Dio, theòs, secondo la terza parte del primo versetto. Eppure l’altro da Dio che è nel seno del Padre, pronto per essere generato, rispetto al Padre sarà colui che ne fa l’esegesi, ciò che lo dice, che lo rende visibile. Dio nessuno lo ha mai visto; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, questi lo ha narrato: «theòn oudeìs eóraken pópote monogenès theòs ho òn eis tòn kólpon toû patròs ekeînos exegésato» (Gv 1, 18). Il Figlio unigenito fece-è l’esegesi del Padre. Infatti il Dio il Padre è invisibile, nessuno lo ha mai visto. Il Figlio invece è vita e luce degli uomini, zoè e phôs (Gv 1, 4-5); quindi è egli a fare l’esegesi del Padre, a tirarlo fuori dall’invisibile, a narrarlo in parole, portarlo alla luce, farlo vivere per gli uomini. Il Figlio, nel suo rapporto col Padre, è parola, vita, luce, che illumina il Dio invisibile. Il Figlio è icona del Padre, immagine del Dio invisibile: «eikón toû theoû toû aorátou» (Col 1, 15).

74

80

75

Francesco Tomatis

La capacità espressiva del Padre da parte del Figlio avviene anzitutto attraverso il divenire eterno dello stesso lógos, e in tre momenti diversi della sua vita. Il lógos, se è luce per il Padre invisibile, lo è perché è vita, ed è vita perché è in movimento, in divenire: eterno divenire, tuttavia divenire. Ma non solo è in divenire eterno, il Figlio; bensì assume, questo stesso soggetto, questo stesso lógos, un divenire mortale, un divenire temporale: «kaí ho lógos sàrx egéneto», «e la parola divenne carne» (Gv 1, 14). Dicendo che il lógos divenne carne, fu fatto carne, si sta sempre riaffermando la stessa divinità del lógos. Proprio attraverso l’affermazione che il lógos si fece carne abbiamo l’attestazione della sua divinità. Proprio nel momento in cui si afferma il suo incarnarsi temporalmente, il suo divenire mortale, viene ribadita la sua divinità. Il verbo stesso ce lo suggerisce: egéneto. È attraverso il Figlio, il lógos, che tutto è stato fatto. In Gv 1, 3: «pánta di’ autoû egéneto», è detto addirittura che tutto attraverso di lui è stato fatto. Tutta la creazione, tutto ciò che il Dio creatore ha voluto liberamente, è stata fatta attraverso questo altro da Dio che è il lógos, il quale egli stesso si fa carne, si fece carne. Il farsi carne è una caratterizzazione della sua divinità, divina a tal punto da essere la parola visibile, la vita rivelata attraverso cui il Dio creatore può fare tutto: il lógos, appunto, pánta di’ autoû egéneto. Si pensi al ricorrere nuovamente di tale verbo in Gv 1, 17: «he cháris kaì he alétheia dià Iesoû Christoû egéneto». La grazia e la verità attraverso Gesù Cristo è stata fatta, ha avuto origine, è divenuta. Quel lógos, eternamente essere (ên) ed eternamente in divenire, in divenire eterno (in distinguibili momenti: en archê, pròs tòn theón, theòs), Dio vivente eternamente, si fece mortale, divenne carne (sàrx egéneto), decise – lui stesso – di farsi carne e di posare la sua tenda in mezzo a noi, in noi: «kaí ho lógos sàrx egéneto kaì eskénosen en hemîn» (Gv 1, 14). Il lógos diviene mortale, e senza cessare di essere in eterno e di divenire eternamente, per propria libera decisione. La decisione di farsi mortale è del lógos stesso, perché tutto è stato fatto attraverso di lui. Ed è proprio nel prendere liberamente ed autonomamente questa decisione di divenire mortale, che il lógos rivela la sua divinità, rivela l’homoousía, l’uguale natura divina con il Padre. Il Figlio decide liberamente di farsi mortale fino in fondo, sino all’estrema kénosis, alla svuotamento totale di tutta la sua divinità e persino umanità, attraversando, abitando, calcando usque ad mortem l’heteroousía, la diversità di essenza o natura, divenendo mortale sino alla morte più atroce, in croce, innocente e abbandonato. Ma proprio per questo rivela e riafferma la propria divinità, il suo essere e divenire eterno, nella sua capacità divina di libera decisione, benché effettuata in negativo, per non assoggettarsi alle potenze solamente mondane, lontane dal Dio nel nostro mondo caduto, disperatamente e prepotentemente atee. Nel farsi mortale il lógos rivela di aver uguale natura divina con il Dio, il Padre. Allora in questo senso, l’homoousía presuppone l’heteroousía, l’identità divina presuppone la diversità e alterità. Come sapeva Atanasio, uno stesso non può essere homoousios a se stesso, solo tautoousios. L’homoousía presuppone l’alterità dell’heteroousía.

Inizio e parola di Dio

81

Nel terzo momento del primo verso del prologo di Giovanni abbiamo l’affermazione della divinità del Figlio, del suo essere una caratterizzata persona. Ma persona così caratterizzata, così autonoma e così divina, da poter liberamente scegliere di incarnarsi in una vita mortale e in ciò rimaner divino, e mostrare la propria unità al Padre, la propria homoousía con il Padre proprio attraverso la negatività, la mortalità, attraverso l’heteroousía. L’homoousía trinitaria presuppone l’heteroousía, l’identità presuppone la differenza. Ma non solo l’identità presuppone la differenza, perché in questi termini il discorso potrebbe limitarsi al rapporto tra Padre e Figlio. L’identità presuppone l’alterità, la differenza, tuttavia l’identità e la differenza presuppongono a loro volta l’arché, il principio o inizio eterno in cui era il lógos prima ancora che il Dio fosse il Dio, prima che si potesse dire che Dio fosse Dio, cioè Dio Padre, generatore, creatore. Identità e alterità di Dio-Trinità, del Deus-­Trinitas, presuppongono eternamente – cioè senza posizione alcuna – tale arché. 3. L’altro, il non altro, l’egli stesso Se Dio è l’assoluto soggetto di tutta la realtà, se il Dio è il Creatore, cioè colui che liberamente pone tutta la creazione, da sé come altro di sé, per affermare questa propria libertà, soggettività, ipseità, deve presupporre un’alterità, cioè il lógos che lo esprime, nei confronti del quale Dio esercita il proprio atto di libertà, ponendolo simile a sé ma altro da sé, diverso da sé ma libero come sé: il proprio atto di generosa libertà, cioè l’atto d’amore di Dio. Parola di Dio potremmo tradurla allora con amore di Dio. Il lógos è propriamente il purissimo atto d’amore di Dio, quell’atto così puro che è privo di potenzialità, è puramente atto, enérgheia, tutto dedito altruisticamente al proprio amore. Ma ciò Dio non può esserlo immediatamente, perché Dio non sarebbe Dio se fosse immediatamente e puramente atto d’amore. Infatti Dio non sarebbe libero creatore, piuttosto sarebbe il Dio aristotelico, l’atto puro, al massimo oggetto d’amore, causa finale dell’amore delle creature, ma non liberamente autore di amore. Il Figlio è quindi in un certo senso necessario al Padre. Eppure l’altro da sé, l’altro di Dio che è il lógos, non potrebbe essere altro del Dio, non potrebbe essere l’altro del Dio davvero unico, l’unico, ­davvero soggetto assoluto di tutta la realtà creata, se non si presupponesse l’arché in cui il lógos è eternamente. Perché se noi presupponessimo al Dio, al Dio Padre, al Dio creatore il Figlio, il lógos, come proprio necessario presupposto per esercitare e per attualizzare la propria volontà libera d’amore, ecco che questo altro precederebbe Dio e Dio non sarebbe più Dio e ci sarebbe un altro Dio prima di Dio: il Figlio avrebbe pari autorità del Padre. La caratteristica del Figlio è l’identità, in quanto qualità eterna, divina, con il Padre. Ma è anche vero che il Figlio non sceglie di essere Figlio, mentre il Padre sceglie di essere Padre. Il Padre sceglie liberamente di essere Padre con atto altruistico di amore. Il Figlio è atto puro, non ha potenzialità tale da potersi scegliere in quanto Figlio. Potrà scegliere o meno se rivolgere

76

82

77

Francesco Tomatis

la propria attualità, la propria azione verso o contrariamente alla volontà del Padre, ma non potrà non esser Figlio, questo è per lui una necessità, una necessità fattuale: il trovarsi ad esser Figlio. Se noi vogliamo pensare per un verso l’assoluta inizialità di Dio, il fatto che Dio sia soggetto assoluto e quindi potenziale creatore, generatore del Figlio e creatore di tutto il creato, non possiamo presupporgli il Figlio come proprio altro, altrimenti Dio non sarebbe più inizio, non sarebbe inizio eterno, puro atto di libertà. Eppure al tempo stesso se vogliamo concepire Dio come Dio cioè libera scelta d’amore, scelta dell’essere, scelta del bene, dobbiamo presupporgli quest’alterità nei confronti della quale egli compia la propria scelta. Precisamente: non siamo noi a presupporre qualcosa, cioè di fatto a porla, bensì la troviamo presupposta: un eterno prius imprecedibile e indubitabile, imprepensabile e inesorabile, infinito e incomprensibile, ineliminabile e immemorabile. Ma allora l’alterità da Dio, che non può essere precedente a Dio come un’altra identità da Dio, non potrà che pensarsi come ce l’ha suggerito Giovanni: nella arché. L’arché non è altro che l’assoluta indeterminatezza, l’indifferenza immemorabile, il presupposto non posto, l’imprepensabile e indubitabile e inconcettualizzabile prius, secondo Schelling; per usare u ­ n’espressione felicissima di Cusano non è altro che il non aliud, il non altro. L’inizio o principio o arché o prius assoluto potremmo indicarlo cusanianamente come non aliud. Uno e trino assieme, il non altro è non altro che non altro. È dicibile non aliud ciò che può definire se stesso includendo in sé ogni altra definizione possibile, che quindi lo presuppone, anche la possibilità che Dio sia Dio cioè sia ipse. Il non altro, al di là della definizione teologico-­ negativa, lo si può affermare positivamente come l’egli stesso, come fece Porfirio interpretando un’espressione della seconda ipotesi del Parmenide di Platone relativa all’uno: «tò autò touto», l’egli stesso. Dio per essere l’egli stesso, quel soggetto assoluto che liberamente può porre tutta la creazione, deve presupporre logicamente a sé la non alterità, in cui quindi è già pensabile e l’ipseità di Dio e l’alterità da Dio, cioè il lógos, il lógos en archê, prima ancora che il Dio sia il Dio, sia ipse, e quindi gene­ ratore in quanto Padre del Figlio e creatore attraverso il Figlio, che ne è primissima immagine ed esegesi ed espressione, di tutta la creazione. Il lógos, che possiamo intendere come l’amore di Dio, è già presente nell’arché, nell’inizio aionico dicibile come non aliud, presente en archê come ho lógos toû theoû, parola di Dio: nel principio era la parola del Dio – ma come parola di Dio che Dio stesso ignora ancora essere la propria parola. 4. L’alterità trinitaria e il pensiero dell’inizio Il pensiero dell’archê avviene comunque e sempre a partire dal lógos. È il lógos che è la prima immagine, la figura primissima, in assoluto, che si dia del principio della realtà tutta. Il prologo di Giovanni, il cui primo versetto ne è

Inizio e parola di Dio

83

il prologo in cielo, si permette di svolgere questi voli da aquila nel cielo più etereo proprio perché ha visto il lógos, e l’ha toccato e vi ha vissuto insieme. Espressioni come arché, non aliud, inizio aionico non sono quindi presupposti posti, ma partono comunque dall’esperienza del lógos. L’esperienza del lógos fattosi carne è tale che se teo-logicamente la si pensasse come semplice relazione tra due termini, tra l’umano e il divino, tra il Figlio e il Padre, tra il Figlio fatto di carne e il Padre invisibile, se si giocasse solo fra questi due termini, per forza uno dei due termini fagociterebbe l’altro. O il Figlio il Padre, e allora sulla croce morirebbe Dio, tutto intero, oppure il Figlio sarebbe fagocitato dal Padre, e allora sarebbe mera dókesis, apparenza. A posteriori, dopo l’esperienza vivente del lógos fattosi carne, possiamo pensare l’archê per comprendere fino in fondo la radicalità del rapporto di alterità presente nella Trinità cristiana. Il lógos, la parola di Dio è l’alterità, l’altro – di Dio. Uguale e diverso, l’altro di Dio, come sarà perfettamente il Figlio rispetto al Padre, generato da sé, non creato ex nihilo. Ma l’altro presuppone il non altro, prima dello stesso e dell’identità. Perché in quanto non altro che non altro, Dio è se stesso, autò toûto, egli stesso. Dio cioè è in-transitivamente egli stesso, Signore dell’essere e di ogni altro, in quanto autooriginatosi dalla propria immemorabile non-alterità, dicibile solo imprepensabilmente dalla parola che, facendosi carne, può parlare di Dio, rivelarlo, in quanto eternamente parola di Dio già in principio, nell’indifferenza puramente attuale dell’inizio in cui Dio non è Dio ma non altro che non altro. L’ipse, lo stesso, è tale sul presupposto di un aliud rispetto a cui si sceglie. Ma è anche inizio eterno, perché tale altro non è altro che non altro, cioè lui stesso. Infatti l’altro, non altro dall’altro, presuppone il non altro. Lo stesso se stesso per eccellenza, l’assoluto soggetto impredicabile e Signore dell’essere, non è se stesso senza l’altro. L’egli stesso non è egli stesso senza l’altro. Ma qual è l’altro senza di cui l’egli stesso non è egli stesso, se tale egli stesso non è null’altro che egli stesso, se cioè l’egli stesso è il non altro? L’altro del non altro non sarà che lo stesso, lo stesso non altro, lo stesso in quanto non altro. L’altro di Dio è il lógos en archê, la parola-alterità (di Dio – prima di Dio) nel non altro prima ancora che il non altro possa pensarsi come Dio, prima che Dio sia Dio, prima, cioè, che lo stesso, l’egli stesso che È i­n-transitivamente, potest l’essere cre-azione-creatura – e che potest, che può-è egli stesso, autò toûto, in quanto non è nient’altro che lui stesso, cioè in quanto non altro: ipse et non aliud. Ma allora Dio si rivela lui/egli stesso solo nella vita e nella luce del lógos che in lui stesso gli mostra questa interiore alterità e non alterità appropriativa di sé a sé. L’ipse per eccellenza stesso, per essere se stesso, ha bisogno (in-necessariamente) dell’altro, lo vuole, in quanto Dio è scelta di essere, di bene, di amore. Ma questo altro non può precederlo come ipseità diversa: può solo presupporsi en archê, nel principio in cui Dio non è Dio stesso, ma non aliud, se stesso in quanto non altro che non altro, e in cui è già presente il lógos,

78

84

79

Francesco Tomatis

l’altro (di Dio) nel non altro, perché l’altro, in quanto non è altro che altro, presuppone il non altro, in cui la parola è puro atto immemorabile d’amore. La parola di Dio, ho lógos toû theoû è l’amore di Dio, l’atto puro del suo altruistico amore. Dio per amare, cioè per essere se stesso, scelta del bene, scelta d’amore, sospende la propria assoluta identità e impredicabile soggettività-signorilità alla non-alterità immemorabile da cui emerge l’unicità di ‘egli stesso’ generoso creatore solo nella parola che già vi vede immemorabilmente prima di essere Dio e che, come Dio, tiene in seno, in pectore, pura e silente parola d’amore, e generosamente-altruisticamente la genera come proprio Figlio: identico e altro, autonomo e divino, eterno e libero, l’altro di Dio, la parola d’amore di Dio, diventata libera persona, cioè non altro che lo stesso Dio in quanto prima forma e carattere e parola dell’atto purissimo in cui Dio non è egli stesso Dio ma non altro che non altro cioè in-differenza aionica quietamente ex-plosiva. Dio è inizio eterno; ma anche scelta del bene, scelta di bene, di essere amore. Tuttavia Dio non può essere amore senza l’altro, benché l’altro da amare non possa precedere Dio. L’altro deve essere parimenti essere, come Dio, ma non può esserci un essere che preceda l’essere Dio. Allora Dio si apre all’altro, liberamente ma anche necessariamente per amore, solo se l’altro, divino come Dio, presuppone un prius di Dio, l’inizio o non altro che Dio, rispetto a cui Dio è Dio, e in cui l’altro è già presente come altro di Dio prima che Dio sia Dio. Il Padre è il Dio, tutto ed eterno, essere pieno: non può essere preceduto da nulla, è inizio eterno, libertà di decidere di essere Padre. Tuttavia non è il Padre senza il Figlio, di cui è appunto il Padre. Il Padre sceglie liberamente l’altro, di amarlo, di volerlo, di generarlo. Ma allora il Padre è tale solo alla perfetta nascita del Figlio. Il Figlio è l’altro di Dio, l’altro voluto per amore dal Padre. Egli non è libero di esser Figlio, si trova già Figlio, almeno intenzionato dal Padre, in quanto il Figlio è il purissimo atto d’amore del Padre, pura attualità d’amare. Ma dove trova il Padre la possibilità dell’altro, del Figlio, se egli è inizio eterno, realtà assoluta, uni-totalità? Il Padre è propriamente Padre, cioè se stesso, l’egli stesso, non solo in quanto inizio eterno, ma anche in quanto scelta, libera scelta di essere Padre. Il Padre, quindi, non solo necessita del Figlio, sul quale soltanto non potrebbe fondare la propria identità, in quanto generato da lui, da lui voluto come suo altro, ma anche di un prius rispetto a cui scegliere, che sia egli stesso senza essere lui stesso, cioè il non altro, definizione negativa di sé. Nel non altro, en archê, il Figlio è già lógos del Padre, parola, atto puro d’amore di Dio prima che Dio sia Dio, lui/egli stesso.

L’umanità di Israele. Note sulla teologia della storia di Karl Barth Enrico Cerasi

«L’Antico Testamento, preso in se stesso, considerato come una cosa in sé, non esiste: è un’astrazione giudaica [eine jüdische Abstraktion]»: così Karl Barth nel secondo volume Kirchliche Dogmatik1. Che cosa esiste, allora? Forse il solo Nuovo Testamento? Aveva ragione, dunque, chi, all’indomani del Römerbrief, lo accusò di marcionismo2? In realtà, proprio il testo che stiamo considerando, poche pagine più avanti aggiunge una considerazione che dovrebbe togliere ogni dubbio in merito: «Strettamente parlando, [il Nuovo Testamento] non è nient’altro né niente di più che l’Antico Testamento. Ma esso lo dice altrimenti perché si esprime a partire dal compimento che ha avuto luogo. Ormai, la forma ha trovato il suo contenuto perfetto e la questione la sua risposta»3. Anche il Nuovo Testamento, per sé preso, ossia considerato come un semplice documento di storia delle religioni, «non esiste», è un’altra astrazione che, in analogia alla prima, potrei qualificare come «ecclesiale». Il Nuovo Testamento è identico all’Antico, «non è nient’altro né niente di più» di esso. Ma si esprime altrimenti, parla un linguaggio differente. Un linguaggio differente, va da sé, non in senso glottologico ma in senso teologico. Barth, nel volume della Kirchliche Dogmatik da cui ho tratto queste considerazioni, si esprime in questi termini: l’Antico Testamento rap-presenta il «tempo dell’attesa» (die Zeit der Erwartung), mentre il Nuovo Testamento «il tempo del ricordo» (die Zeit der Erinnerung). Cosa intende dire con queste strane affermazioni? Ricordo e attesa sono le due fondamentali modalità di rapporto al tempo autentico, all’evento del 1 K. Barth, Die Kirchliche Dogmatik I/2, EVZ, Zürich 1938 I/2 p. 98. (D’ora in avanti la Kirchliche Dogmatik sarà simbolizzata con KD). 2 Così ad esempio A. Jülicher, in quegli anni professore di esegesi a Marburgo: «in Barth troviamo il semignostico Marcione con il suo radicale dualismo del tutto o nulla, con la sua rabbia contro l’intermedio» (A. Jülicher, Un moderno interprete di Paolo, ora in J. Moltmann, Le origini della teologia dialettica, ed it. a cura di M.C. Laurenzi, Brescia 1976, p. 126). 3 KD I/2 p. 115.

81

86

82

Enrico Cerasi

pléroma toû chrónou che è il «tempo della rivelazione», ossia Cristo stesso. Gesù Cristo è l’evento della rivelazione: ecco l’assioma fondamentale della teologia barthiana. Già nel Römerbrief questo, in qualche modo, era acquisito4. Ma ora, nella Kirchliche Dogmatik – e si tratta, a mio avviso, della conquista decisiva5 –, ciò significa che la rivelazione avviene nel tempo; che essa ha un tempo reale, realissimo: ha un passato, un presente e un futuro; il suo compiersi è accompagnato dallo svolgersi di attesa e ricordo. Ma, sostenendo che la rivelazione ac-cade nel tempo, che è essenzialmente temporale, Barth non intende relativizzarla. Al contrario, il teologo di Basel intende sostenere che solo questo tempo, il tempo della rivelazione, è il tempo reale, perché solo in esso passato, presente e futuro sono qualcosa di diverso da estasi perennemente inquiete, sfuggenti, irrimediabilmente scisse, come a suo dire avverrebbe per il nostro tempo, il tempo decaduto. «Il tempo che Dio ha per noi va dunque considerato, a differenza del nostro tempo che passa, un tempo eterno. Il tempo che Dio ha per noi deriva dunque dal fatto che egli ci diviene presente in Gesù Cristo: Deus praesens. Ma Gesù Cristo significa ugualmente presenza umana e temporale. Ogni istante dell’evento Gesù Cristo è un istante del tempo: presente, passato e futuro, così come la nostra vita una successione di istanti. ‘La Parola è stata fatta carne’ significa anche: ‘La Parola è stata fatta tempo’ [‘Das Wort ward Fleisch’ heißt auch: ‘Das Wort ward Zeit’]»6. Ripeto: mentre la condizione del tempo decaduto, il tempo di cui ogni mortale ha esperienza, è caratterizzato dalla perenne inquietudine, dalla drammatica scissione di passato, presente e futuro che condanna il nostro essere (che è essere-nel-tempo, radicale finitezza) alla costante minaccia del nulla, il tempo della rivelazione è, al contrario, un tempo in cui passato e futuro sono con-tenute nel presente7. 4 Cfr. la discussione tra Barth e Bultmann, nei primi anni ’20. Nella Prefazione alla terza edizione del Römerbrief è proprio la determinazione dello pneuma Christou ciò che divide i due. Per Barth, come del resto per Bultmann, si tratta appunto di discernere, nella Epistola ai Romani come negli altri scritti canonici, la presenza dello «spirito di Cristo». Ma per Bultmann ciò è possibile solo a patto di distinguere lo pneuma Christou dagli «altri spiriti»; per Barth invece lo spirito di Cristo è «la crisi in cui tutto si trova» (K. Barth, Prefazione alla terza edizione ora in J. Moltmann, Le origini della teologia dialettica, cit., p. 184). Sulla questione dell’ermeneutica in Barth, anche in relazione a Bultmann, cfr. A. Aguti, La questione dell’ermeneutica in Karl Barth, Bologna 2001. 5 G. Bof individua nel passaggio dalla a-storicità (o meta-storicità) che a suo avviso caratterizzava la fase dialettica della teologia barthiana degli anni ’20 alla sottolineatura della «rilevanza storica degli scritti degli anni ’30 una questione dirimente per comprendere la svolta della teologia barthiana (cfr. G. Bof, Saggio introduttivo a K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, ed. it. a cura di G. Bof, Cinisello Balsamo 1990, p. 17). Su questo Bof rimanda a E. Genre che scrive a sua volta: «Non esiste dunque più un ‘fra’ i tempi, rivelazione ‘e’ storia, rivelazione ‘e’ ragione umana: c’è posto soltanto per una decisione che ci situa nel tempo» (E. Genre, Introduzione a K. Barth, Volontà di Dio e desideri umani, ed. it. a cura di E. Genre, Torino 1986, p. 8). 6 KD I/2 p. 55. 7 È interessante che Bouillard, uno dei più acuti e precoci interpreti di Barth, proprio su questo punto ponga delle domande essenziali: «Mais est-il vrai, comme il semble le penser,

L’umanità di Israele

87

L’alterità tra Dio e l’uomo, come si vede, non è meno radicale che nel Römerbrief. Se la grande scoperta di quel testo (nella sua seconda edizione) era la kierkegaardiana «assoluta differenza qualitativa» tra Dio e l’uomo, essa non è affatto oggetto di retractatio nella Kirchliche Dogmatik8. Si può e si deve ancora dire che il contenuto della rivelazione è l’assoluta differenza qualitativa; ma ora non si tratta più di spiegarla ripetendo l’adagio per il quale finitum non capax infiniti; ora, molto più rigorosamente, si tratta di affermare che l’eternità di Dio è un tempo in cui passato, presente e futuro non si scindono tra loro, non sono esposti alla dissoluzione e al nulla, mentre il tempo dell’uomo (non il tempo creato da Dio, che era salvo da tale scissione, ma quello che consegue al peccato umano: è di esso che si tratta) è, al contrario, il tempo della scissione, della diastasi, della rovina. Tutto ciò non può essere rubricato nel numero delle «intemperanze giovanili», degli eccessi espressionistici, come amava dire von Balthasar9. Qui siamo già nell’opera della maturità. E in un testo di molto successivo a quello appena citato Barth afferma: «Cosa significa che noi abbiamo del tempo se, in ultima istanza, dobbiamo affermare il contrario: che non abbiamo alcun tempo, che non disponiamo di fatto né di passato né di futuro, e ancor meno di presente, che non è che un passaggio da un’oscurità all’altra? Il carattere mostruoso di questa ­situazione [Das Ungeheuerliche dieser Situation] può essere taciuto o rimosso ma, quando se ne abbia coscienza, non può più essere negato. Ed è escluso di poterlo spiegare opponendo l’uomo a Dio, la creatura al Creatore, il tempo all’eternità»10. L’infinita differenza qualitativa, insomma, rimane, solo che ora, al contrario di quanto aveva sostenuto nel Römerbrief, il tempo della rivelazione non è un semplice istante, non è un mero punto di tangenza, ma una vera e propria storia. Dio è stato fatto carne significa: l’eternità è stata fatta tempo, assumendo in sé il tempo umano, il tempo decaduto, ma senza perdere nulla della propria essenza eterna. que le temps que nous avons et connaissons par nous-mêmes, indépendamment du Christ, n’est que cette succession, cette fuite et cet évanouissement perpétuel?» (H. Bouillard, Karl Barth. Parole de Dieu et existence humaine. Première partie, Paris 1957, p. 273). Per Bouillard non è affatto vero che la temporalità umana sia vittima di questa scissione, di questa prossimità alla dissoluzione. Ciò nonostante il teologo francese individua bene la tesi di Barth quanto scrive: «Le temps est la forme d’existence (Existenzform) de l’homme» (ivi p. 270). 8 Così dichiarò lo stesso Barth a proposito del suo debito nei confronti di Kierkegaard, a Copenaghen, nel 1963: «Ciò che ci attrasse, ci rallegrò e ci ammaestrò in lui, era quella sua critica così impietosa nella quale lo vedevamo colpire a morte quella speculazione in cui tutta la differenza qualitativa fra Dio e l’uomo spariva […]. Certamente altre albe, con le loro nuove domande e risposte, dovevano imporsi a noi e anche a me, e tuttavia ritengo di essere rimasto fedele durante tutta la strada che poi ho percorso fino ad oggi alla sveglia che allora avevamo sentito da Kierkegaard» (K. Barth, Kierkegaard oggi, ed. it. a cura di A. Aguti, «Humanitas» 6/2000, p. 983). 9 «Il secondo Römerbrief va preso anche in quest’ottica: esso – dal punto di vista metodologico assolutamente comprensibile – è un espressionismo teologico» (H.U. von Balthasar, Karl Barth, trad. it. di G. Moretto, Milano 1985, pagg. 97-98). 10 KD III/2 p. 622.

83

84

88

85

Enrico Cerasi

Per questo Antico e Nuovo Testamento, in quanto testimonianza delle due estasi (passato e futuro) del presente eterno della rivelazione, non differiscono quanto a contenuto ontologico. Proprio perché il tempo della rivelazione è il tempo autentico, il tempo privo di scissioni, il prologo e l’epilogo temporale che lo accompagnano non soffrono di alcuna diminutio. Il tempo compiuto è presente, in qualche modo, sia nel tempo che lo attende sia in quello che lo ricorda. «Il tempo compiuto [Die erfüllte Zeit] comporta un prologo temporale molto preciso e che gli è interamente subordinato. Ma non è il tempo ante Christum natum a rappresentare, come tale, questo prologo ma uno specifico frammento di questo tempo, cioè una storia particolare che vi si svolge», ossia la storia dell’elezione di Israele11. Analogamente il tempo compiuto comporta un epilogo temporale che non è il tempo post Christum natum in generale ma la storia della convocazione della comunità cristiana raccontata dal Nuovo Testamento. L’evento del farsi tempo dell’eternità, dunque, proprio in quanto autentica temporalità – al contrario del nostro tempo decaduto – è un presente che con-tiene il proprio passato e il proprio futuro; ma questi non coincidono con la storia umana in generale ma nella storia de-terminata dell’elezione di Israele e della convocazione della comunità cristiana. In questa storia particolarissima è contenuta la storia universale di tutte le nazioni, di tutte le genti, di tutto il genere umano. Si noti: il legame tra il Cristo e la storia raccontata dall’Antico e dal Nuovo Testamento non è, dunque, un nesso «analitico» ma «sintetico»12. È necessario che Cristo si riveli perché questo nesso appaia. Se non si rivela, nulla di quella storia è in grado di esprimere il suo significato profondo. Ma, se si rivela, possiamo comprendere come ogni pagina della Sacra Scrittura sia una testimonianza di Cristo; e quindi, come ogni pagina dell’Antico Testamento era la testimonianza dell’attesa, così ogni pagina del Nuovo è testimonianza del ricordo di Cristo. Ma entrambe, attesa e ricordo, con-tengono la presenza reale dell’Atteso e del Ricordato, che è lo stesso Gesù Cristo. «L’espressione ‘prima della Rivelazione’ applicata alla sua attesa non designa un periodo in cui essa non sarebbe ancora; ugualmente, l’espressione ‘dopo la Rivelazione’ applicata al suo ricordo non designa un periodo in cui essa non sarebbe più. L’attesa e il ricordo autentici della Rivelazione sono delle testimonianze della Rivelazione, differenti, certo, ma omogenee e concordanti nel loro contenuto obiettivo. In questa testimonianza, ‘passato’ e ‘futuro’ sono delle grandezze presenti»13. Il tempo reale – in opposizione al tempo irreale, al tempo astratto KD I/2 p. 77. Gli aggettivi «analitico» e «sintetico», inizialmente usati da Barth nell’accezione data loro dalla filosofia, in particolare kantiana, sono diventati via via dei «termini tecnici» del teologo per designare, rispettivamente, un metodo in accordo o in disaccordo con la teologia della rivelazione. «Sintetico», per Barth, è il metodo che parla, cercando di aderirvi, a partire dall’evento della Rivelazione; «analitico» il procedimento, erroneo, che cerchi di dedurre la Rivelazione a partire dalla historische Geschichte. 13 KD I/2 p. 77. 11 12

L’umanità di Israele

89

dell’umanità decaduta – è tutto lì, dall’elezione di Israele alla convocazione della comunità cristiana, dal terminus a quo al terminus ad quem dell’evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Di qui il nesso strettissimo che lega Israele e la Chiesa: la loro comune appartenenza alle estasi temporali del tempo della rivelazione. Nell’ultimo seminario universitario, tenuto subito dopo il suo contestato pensionamento, Barth ribadirà questi concetti: «L’alleanza di Dio con l’uomo non consiste né unicamente nella storia di Israele, né unicamente nella storia di Gesù Cristo: come storia dell’agire divino, essa consiste nella sequenza dell’una e dell’altra e quindi della loro unità»14. Salta agli occhi come queste affermazioni non solo smentiscano qualsiasi accusa di «marcionismo» ma, forse, rischino di andare anche troppo in là, ossia di perdere la differenza tra ante e post Christum natum15. Ma non è questa l’intenzione di Barth. La differenza tra Israele e la chiesa, tra il popolo eletto e la comunità convocata, rimane. Proprio in questo tempo, nel quale le chiese cristiane sono, giustamente, così sensibili non solo al dialogo ecumenico ma anche al confronto interreligioso, sarà utile tornare su questa differenza. Per comprenderlo bisognerà notare innanzitutto come la storia di Israele sia sì testimonianza dell’unica rivelazione di Dio ma della rivelazione in quanto velata. La storia che va dall’elezione di Israele alla convocazione della comunità cristiana – passando per Pasqua, il suo punto centrale (Pasqua sospende la linea dell’attesa: ma proprio perché la sospende la rende per altri versi possibile) – è appunto la storia del dis-velamento di Dio. Nell’ultimo ­seminario, Barth tornerà su questo punto. «L’oggetto della teologia evangelica è Dio nella storia delle sue azioni: in essa egli annuncia se stesso. Ma in questa storia egli è quello che è. In essa egli ha la sua esistenza e la sua essenza, e dà prova dell’una per mezzo dell’altra: senza alcuna precedenza o dell’una o dell’altra! Egli dunque, il Dio dell’Evangelo, non è né una cosa, un fatto, un oggetto, né un’idea, un principio, una verità o una somma di verità ovvero la personificazione di una tale somma – a meno che con ‘verità’, presa nel senso del termine greco alétheia, non si intenda l’essere di Dio nella storia del suo

K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, cit., p. 75. Nel § 69 della Kirchliche Dogmatik, con il quale si apre il capitolo XVI: «Gesù Cristo, il testimone veridico» Barth, dopo aver mostrato la differenza tra Gesù Cristo considerato nel suo «ministero profetico» e ogni altro profeta veterotestamentario, afferma l’identità tra la storia di Israele nella sua «totalità e coerenza» e Gesù Cristo quale unico rivelatore e mediatore. Così come per Cristo, anche per quanto riguarda la storia di Israele «nella sua totalità e coerenza» si può dire che ogni suo atto, ogni suo avvenimento, sia testimonianza dell’azione di Dio. Non solo: come Cristo, anche la storia di Israele, nella sua particolarità, ha un significato universale, ossia per tutte le nazioni. Infine – mirabile dictu! – non si può nemmeno contestare alla storia di Israele («nella sua totalità e coerenza») un carattere «mediatore», perché in essa – se è vero quanto si è affermato – Dio e uomo coesistono nella stessa storia. È innegabile che queste affermazioni siano molto prossime alla identificazione di Israele e della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, soprattutto se non prende alla leggera l’affermazione per la quale la storia di Israele («nella sua totalità e coerenza») avrebbe un carattere mediatore. 14 15

86

90

87

Enrico Cerasi

disvelamento»16. La verità è dunque a-létheia, dis-velamento. Come va inteso questo concetto? Sappiamo bene l’enfasi che esso assume nella filosofia di Heidegger. Da parte mia, vorrei notare come nella teologia di Barth questa declinazione della parola alétheia assuma un senso che, a mio avviso, è in grado di fornire una determinazione differente ma non meno persuasiva di quella heideggeriana. Converrà, a tal fine, analizzare il § 34 della Kirchliche Dogmatik. Siamo nell’ambito della Gottes Gnadenwahl, della dottrina dell’elezione gratuita. Dopo aver esposto l’elezione di Gesù Cristo, nel duplice senso del genitivo (Gesù Cristo è il soggetto e l’oggetto dell’elezione eterna di Dio: questa la fondamentale tesi barthiana17), viene esposta non già l’elezione dell’individuo (fu questo, per Barth, l’errore di Agostino e del calvinismo) ma l’elezione della comunità18. Contestualmente all’elezione di Gesù Cristo, Dio elegge la sua comunità. Se l’elezione di Gesù Cristo è l’eterna decisione di Dio di auto-­ determinare se stesso come il Dio che ama il mondo nella libertà, l’elezione della comunità ne è la prima eco infra-temporale. «Compresa nell’elezione di Gesù vi è dunque anche un’altra elezione: l’elezione di tutti gli altri uomini che Dio incontra in questo cammino e nessuno ne è escluso. Però, contraria-

K. Barth, Introduzione alla teologia evangelica, cit., p. 60. Cfr. i contributi della prima parte di S. Rostagno (ed.), Barth contemporaneo, Claudiana, Torino 1990. Afferma Gherardini – uno dei maggiori studiosi italiani di Karl Barth –: «Ché l’originalità di tale dottrina [dell’elezione divina] sta proprio qui: non tanto in una generica risoluzione cristologia dell’elezione, quanto nella tesi secondo la quale Cristo è il Dio che elegge e l’uomo eletto. Non per nulla, a quella della comunità e dell’individuo, Barth premette l’elezione di Cristo» (B. Gherardini, Riflettendo sulla teoria dell’elezione in Karl Barth, ivi, p. 109). Va aggiunto – e non mi pare secondario – che secondo Barth Gesù Cristo non è solo il Dio che elegge e l’uomo eletto – ossia il soggetto e l’oggetto dell’elezione – ma anche l’uomo eletto e l’uomo riprovato. 18 Barth coglie in maniera acutissima il collegamento tra la dottrina della predestinazione così come formulata da Agostino e l’individualismo moderno quando scrive: «L’evoluzione che ha portato a questa concezione si riflette nella dinamica del pensiero occidentale che, a partire dall’antichità e attraverso il Rinascimento, ha condotto alla scoperta e alla valorizzazione dell’individuo, proprie dei tempi moderni. In un momento come l’attuale (in cui queste cose sono rimesse in discussione con tanta passione) è importante riconoscere l’elemento di verità che tale evoluzione ha permesso di mettere in evidenza e non mancheremo di farlo per quanto ci riguarda. Bisogna tuttavia riconoscere che il movimento del pensiero occidentale di cui stiamo parlando ha contribuito, come fattore problematico, a dare il suggello di assioma all’idea che la dottrina della predestinazione dovesse trattare esclusivamente del fondamento eterno della relazione tra Dio e l’individuo. Non è un caso che Agostino, il grande padre della dottrina classica della predestinazione, è stato l’uomo al quale dobbiamo un nuovo genere letterario: l’autobiografia cristiana. Certo, questo fatto non spiega di per se stesso il pathos che caratterizza la sua dottrina della predestinazione; tuttavia non si arriverebbe a comprendere la sostanza di quest’ultima astraendo dal famoso «Dio e l’anima» delle Confessioni che in seguito ha avuto una influenza così notevole, sia secondo una visione cristiana sia in una prospettiva laica. La dottrina agostiniana della predestinazione risponde, come abbiamo già visto, a questo interrogativo: perché, tra le persone che ascoltano la Parola di Dio, gli uni credono e gli altri non credono?» (K. Barth, La teoria dell’elezione divina. Dalla Dogmatica ecclesiale, ed. it. a cura di A. Moda, Utet, Torino 1983, p. 636). 16

17

L’umanità di Israele

91

mente alla dottrina classica della predestinazione, la Sacra Scrittura […] non è affatto preoccupata a interessarsi subito a tutti questi altri uomini eletti in Cristo […]. Tiene conto innanzitutto di un’elezione intermedia e mediatrice, il cui soggetto è sempre Dio in Gesù Cristo ed il cui soggetto è l’umanità: gli uomini però non sono qui considerati come individui particolari bensì come comunità. […] Per dirla in breve, questo termine designa la comunità umana che, in maniera provvisoria e particolare, forma il cerchio naturale e storico dell’uomo Gesù»19. Il vero specchio di Dio, dunque, non è la staticità, relativa, del cosmo (anche se Barth non manca di citare anche le «luci del cosmo» come riflesso dell’unica verità), né l’anima razionale dell’individuo, ma la dinamicità (per altro anch’essa relativa) della storia. È nella storia umana di cui abbiamo ­parlato, la storia che va dall’elezione di Israele (terminus a quo) alla convocazione della comunità cristiana (terminus ad quem), che l’elezione di Gesù Cristo trova il proprio riflesso, la propria, necessaria ek-stasi. Questo si intende con l’espressione, biblica, di «corpo di Cristo». Gesù Cristo, secondo la testimonianza della Scrittura, non può essere solo: deve essere il Signore della sua comunità (il vecchio Barth preferiva il termine Gemeinde a Kirche)20, sì che è quest’ultima, in prima istanza, a essere l’eco, il riflesso, la rappresenta­ zione dell’evento irrappresentabile della rivelazione. La storia umana è, essenzialmente, la storia della comunità. In altre parole, se l’evento della rivelazione possiede un terminus a quo e un terminus ad quem, il primo, come si è detto, porta il nome di Israele e il secondo quello di chiesa. Entrambi, Israele e la chiesa, sono forme dell’uno: dell’unica Gemeinde eletta contestualmente all’elezione di Gesù Cristo21. Israele e la chiesa, quindi, sono il terminus a quo e il terminus ad quem del movimento dell’unica comunità, eletta contestualmente, ma subordinatamente, all’elezione di Gesù Cristo. Fin qui – per il tema che ci interessa – KD II/2 ribadisce quanto avevamo appreso da KD I/2.

19 Ibid., p. 470. Sul tema della comunità come elemento caratterizzante la dottrina di ­ arth, ho cercato di riflettere in Singolo o comunità. Per un confronto tra Kierkegaard e Barth, B in «Notabene. Quaderni di studi kierkegaardiani» 3/2000. 20 «A quanto consta, Lutero pensò talvolta di rinunciare, una volta per sempre, al termine ‘Chiesa’, per sostituirlo con quello di ‘Comunità’. L’attuazione di questa intenzione avrebbe avuto un’importanza incalcolabile, e non solo per la Chiesa luterana! La proposta è interessante da molti punti di vista. La realtà designata come ‘Chiesa’, nella professione di fede, è così concreta, che la parola che la esprime dovrebbe evocare questo carattere concreto in chi la ascolta o la legge. Il termine latino «Ecclesia» rispondeva, in origine, a questa realtà. La parola francese ‘église’ non la esprime più da molto tempo. E il termine nordico «Kirche», «Kerk», «Church», sul cui significato gli studiosi non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo, non la esprime affatto, al giorno d’oggi. La parola ‘Comunità’ (congregatio) evoca invece ancora una nozione concreta» (K. Barth, La Chiesa, ed it. a cura di B. Gherardini, Roma 1970, p. 51.) 21 «La comunità è eletta (come rappresentazione di Gesù Cristo, come indicazione del giudizio e della misericordia divina compiuta in lui) per servire, davanti al mondo intero, la promessa divina che reclama l’udienza e la fede dell’uomo. La comunità tutta intera (Israele e la chiesa) è chiamata a questo servizio» (K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., p. 474).

88

92

89

Enrico Cerasi

Ma nel volume II/2 c’è di più. Israele, proprio in quanto terminus a quo del divenire della a-letheia, dà forma all’umanità in quanto oggetto dell’elezione divina. Israele è chiamato ad ascoltare («Ascolta, Israele!…», secondo la formula tipica del Deuteronomio), a seguire, a corrispondere alle parole ascoltate. «È l’umanità di tutta quanta la comunità di Dio che si manifesta nella sua forma israelita; anzi, l’umanità dell’uomo come tale, quell’umanità con cui Dio ha concluso la sua alleanza eterna. L’uomo non può che seguire Dio; però gli è realmente consentito di seguirlo»22. Israele è perfetta icona dell’umanità perché rappresenta la realtà diversa da Dio alla quale l’Eterno, creando il mondo, ha voluto legarsi. Israele rap-presenta il mondo, l’uomo, ciò che Dio ha creato per pura grazia; Israele rappresenta l’umanità. Solo rispecchiandosi in Israele l’uomo conosce se stesso. Non solo. A Israele, proletticamente, è dato di ascoltare la promessa di Dio, la promessa con cui l’Eterno annuncia di voler essere il Dio del suo popolo. Tramite Israele, per mezzo della sua elezione, l’umanità è fatta oggetto della promessa divina. Se la storia della salvezza è il riflesso dell’elezione di Dio, Israele è chiamato a dare inizio a questa storia. L’alleanza stipulata da Yhwh con Israele sul Sinai è il terminus a quo di una storia che ha un significato e un’intenzione universali perché deve prefigurare e rispecchiare l’evento dell’elezione eterna di Gesù Cristo. Per questo, ripeto, possiamo parlare, con Barth, di Israele come icona dell’umanità. È in Israele e per suo tramite che l’umanità è oggetto dell’elezione di Dio. Ma vi è un secondo senso per il quale si deve dire che Israele è l’autentica icona dell’umanità. Per l’uomo aprirsi alla rivelazione significa anche, e in ­prima istanza, accettare la crisi, la sentenza di morte pronunciata da Dio su un’umanità che, assurdamente, ha violato i limiti fissatigli. Non vi sono due parole, non vi sono due volontà di Dio: la sua unica volontà è Gesù Cristo, tramite il quale Dio vuole la salvezza di tutti. Ma quest’unica volontà, il cui contenuto e scopo è grazia, è nella sua forma giudizio, ossia crisi del finito in quanto separato da Dio23. «La funzione di Israele consiste nel mostrare ciò che accade all’uomo allorché ascolta: non può che rappresentare il campo improduttivo, le pietre, i cardi ed i rovi del campo in cui cade la semenza della Parola; l’inizio senza seguito; il presente senza futuro; la questione senza risposta; l’occasione mancata. In questo modo Israele punisce se stesso»24. Se Israele rappresenta l’umanità, questa, in Israele, si dimostra assurdamente K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., 524. Sul rapporto fra evangelo e legge, grazia e giudizio cfr. K. Barth, Evangelo e legge, tr. it. in Id., Volontà di Dio e desideri umani, cit., pp. 147-171. Sulla proposta di considerare la legge come forma dell’evangelo si è aperto – soprattutto in seguito alle obiezioni di parte luterana – un ampio dibattito. Il saggio senz’altro più importante sul rapporto Barth/Lutero è quello di G. Ebeling, Barths Ringen mit Luther in Id., Lutherstudien, III, Tübingen, 1985, pagg. 428573. Secondo Ebeling la questione del rapporto tra legge ed evangelo è uno degli aspetti centrali del confronto teologico, ricco di tensione, di Barth con l’eredità luterana: si vedano in particolare le pp. 466-468 e 561-567, ma tutto l’ampio saggio documenta questa tesi. 24 K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., p. 526. 22 23

L’umanità di Israele

93

ribelle alla promessa di grazia ricevuta. Dio ha posto l’uomo come compimento della creazione – ma l’uomo si è separato da Dio, non ha accettato la grazia. Questo è l’uomo: e questo è Israele! Certo, Israele – e con esso l’umanità intera – può corrispondere all’alleanza, quest’ultima non essendo affatto qualcosa di assurdo, di impossibile, tale che per accoglierla necessiterebbe di qualche straordinaria disposizione. Dio ha creato uno specchio in grado di specchiare e non di distorcere la propria immagine! Il comandamento dato da Dio all’uomo non è affatto qualcosa di impossibile! Sarebbe assai difficile credere alla bontà di Dio, al suo amore, se così fosse. Ma, di fatto e inspiegabilmente, Israele – e in esso e con esso l’umanità intera – non corrisponde all’alleanza, non accoglie la promessa: non accetta il giudizio, la crisi, la morte, che ne rappresenta l’inevitabile forma. «Israele ha trasgredito la legge non compiendo la sola opera che gli era comandata: l’opera della fede»25. Nella mancanza di fede di Israele, nel suo peccato, è dunque l’umanità in quanto tale che viene a rappresentazione. C’è tuttavia un problema. L’obbedienza della fede, che pure rappresenta la risposta normale dell’uomo a Dio26, ciononostante non dipende dall’uomo e quindi nemmeno da Israele («come se il fine cui Dio intende far pervenire l’uomo eletto potesse e dovesse essere il coronamento degli sforzi di quest’uomo»27). Se il peccato è l’assurdo, la possibilità impossibile28, la fede però è (ma Barth non usa quest’espressione) la necessità impossibile, perché anch’essa è assolutamente indisponibile all’uomo. L’uomo deve, l’uomo è chiamato a credere, proprio per divenire ciò che in verità già è; ma è incapace di compiere quest’opera. «Chi crede? Considerando le cose partendo dall’uomo bisogna rispondere: nessuno. Crederà colui che la misericordia di Dio chiamerà e condurrà dall’incredulità generale alla fede»29. Nella ribellione,

Ivi, p. 534. «Per essere più precisi bisognerebbe dire: la natura umana, così come Dio l’ha creata, non è suscettibile che di giustizia. Ciò che è suscettibile anche di peccato, non è creato da Dio. Non bisogna ricadere nella nozione greca, al fondo pagana, del libero arbitrio» (K. Barth, Réalité de l’homme nouveau, Labor et fides, Genève 1964, p. 113.) Anche questo punto è stato notato da H. Bouillard che scrive: «Il faudrait donc admettre que la foi est incluse dans la notion d’homme réel» (H. Bouillard, Karl Barth. Parole de Dieu et existence humaine, première partie, cit., p. 243). Barth, è vero, non arriva fino a questo punto, eppure nota come la Scrittura non definisca rigidamente i confini temporali entro i quali l’uomo ha la possibilità di credere. 27 K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., p. 548. 28 Barth usò in varie occasioni questa definizione apparentemente ossimorica. In occasione di un pubblico dibattito, in Francia, così si espresse: «Ora, la Bibbia ci racconta che questa storia è iniziata con la disobbedienza. Ciò significa che la creatura è riuscita a realizzare questa possibilità impossibile: il peccato» (K. Barth, Réalité de l’homme, cit., p. 110). E, alla richiesta di maggiori spiegazioni, aggiunse: «Certo, tutto ciò che diviene reale corrisponde a una possibilità. Ma qui non possiamo parlare di una possibilità propriamente detta, cioè di una possibilità data da Dio alla creatura. La possibilità di peccare è una possibilità al di fuori della creazione, al di fuori della realtà (divina, ché non ce n’è un’altra) e dunque – se lo prendete con un po’ di humor – al di fuori della possibilità» (ivi, p. 111). 29 Ibid., p. 556. 25 26

90

94

91

Enrico Cerasi

questa paradossale condizione, questa possibilità impossibile diventa visibile, si manifesta di fronte a Dio, agli uomini e allo stesso Israele. Questo significa che Israele è il terminus a quo che, in sé, non ha alcuna capacità di procedere verso il terminus ad quem. In Israele l’umanità si mostra incapace di compiere la storia dell’alleanza, di rispecchiare l’elezione di Gesù Cristo. Se la filosofia hegeliana è uno dei più rilevanti tentativi di fondare l’intrinseca virtù dinamica dell’ente in quanto ente30, la teologia barthiana muove da una constatazione opposta: l’ente in quanto ente non ha alcuna capacità di auto-trascendersi31. Se è solamente «per fede» che l’uomo può procedere verso l’unico fine che gli è stato assegnato (II Cor. 5, 7), il cammino, paradossalmente, inizia solo una volta giunti al terminus ad quem di esso. La negatività del peccato, invece, non dà luogo ad alcuna dialettica, nel senso hegeliano del termine. La historische Geschichte che è l’umanità in quanto tale è priva di reale teleologia32. Perché il terminus a quo fosse in grado di

30 Nei famosi §§ 80-81 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche Hegel scrive: «Il pensiero, come intelletto, se ne sta alla determinazione rigida e alla differenza di questa verso altre: siffatta limitata astrazione vale per l’intelletto come cosa che è e sussiste per sé. Il momento dialettico è il sopprimersi da sé di siffatte determinazioni finite e il loro passaggio nelle opposte» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, traduzione, prefazione e note di B. Croce, glossario e indice dei nomi a cura di N. Merker, Roma-Bari 19892, p. 96). 31 Scrive Scilironi: «Da tutte queste considerazioni ci pare di poter trarre la seguente conclusione: la relazione Dio-uomo è una relazione asimmetrica, reale, non necessaria, non conosciuta ma soltanto riconosciuta dall’uomo» (C. Scilironi, Relazione, opposizione e dialettica in Karl Barth, in «Studia patavina – Rivista di scienze religiose», Anno XXVII [1980] 1, p. 138) Questa configurazione dell’opposizione Dio/uomo si configura, per Scilironi, in alternativa all’opposizione dialettica e segnatamente alla dialettica hegeliana: «il processo barthiano è l’esatto opposto di quello hegeliano» poiché per Hegel «il negativo ha valore fondante, per Barth fondante è il positivo; per Hegel la sintesi è necessaria e realizza la scomparsa del finito nell’infinito, per Barth invece la sintesi non è necessaria e non identifica gli opposti, ma costituisce il finito (il negativo) nella sua positività (l’uomo nuovo) in virtù della grazia. In Barth non vi è alcuna situazione in cui l’uomo sia parte «attiva» (positiva) per virtù propria» (ivi, pag. 133).La tesi di una distanza tra Barth e la dialettica hegeliana è stata esposta varie volte anche da Mancini, specialmente in Novecento teologico. Bonhoeffer Bultmann Barth (Vallecchi, Firenze 1977). Del parere opposto, invece, J. Taubes, Teodicea e teologia: un’analisi filosofica della teologia dialettica di Karl Barth, in Id., Messianismo e cultura, ed. it. a cura di E. Stimilli, Garzanti Milano 2001, che considera la teologia barthiana come un capitolo fondamentale della storia della dialettica. Questa dipendenza è stata sostenuta, da un punto di vista teoretico, da V. Vitiello, The Otherness of God: Schleiermacher and Barth, in S. Sorrentino (ed), Schleiermacher’s Philosophy and the philosophical Tradition, The Edwin Mellen Press, Lewiston-Queenston-Lampeter 1992. 32 «Una storia che noi non possiamo né vedere né intendere non è una storia «storica» [historische Geschichte]. La «storia» [Historie] è una storia accessibile all’uomo, osservabile, percepibile e concepibile da lui. Oggettivamente è uno svolgersi di fatti creati; è un accadimento preceduto e seguito da altri accadimenti equivalenti, con i quali si lascia ordinare in uno schema unico. Soggettivamente è la raffigurazione di tale accadimento nel contesto delle creature» (KD III/1, EVK, Zürich 1945, pag. 84). Barth è molto attento nel distinguere tra Historie e Geschichte: mentre la prima si riferisce alla sequenza di fatti osservabili e storiograficamente ordinabili, la seconda è la storia nel suo rapporto a Dio. Ciò che Barth vuole sostenere è l’impossibilità di una pura Historie, che corrisponde all’impossibilità, per l’uomo, di sottrarsi al

L’umanità di Israele

95

­dialettizzarsi nel terminus ad quem, esso dovrebbe avere la capacità di negare se stesso, di porre da sé il proprio opposto. Israele, e in esso e con esso l’umanità intera, dovrebbe accettare la propria morte per poter rinascere. Ma è proprio questa capacità che l’umanità, in Israele, dimostra di non avere. Israele, che è chiamato ad ascoltare, dimostra continuamente la propria incapacità di ob-audire. Torna alla mente la paradossale dialettica del Römerbrief. «Noi non siamo soltanto quello che siamo, ma per mezzo della fede siamo anche quello che noi non siamo. Quello che, invisibile nella «passione infinita» (Kierkegaard), visibile soltanto come un vuoto, si introduce nella vita di tutti i giorni, quello che da parte della concepibilità umana può sempre e dovunque soltanto essere negato […] questo è l’uomo nuovo, il soggetto del predicato «credere». Non io sono questo soggetto in quanto esso, come soggetto, come quello che è, è assolutamente al-di-là, è il radicalmente altro nei confronti di tutto quello che io sono. Eppure io sono questo soggetto, in quanto quello che egli fa, il suo predicato, la fede, consiste appunto nella posizione dell’identità tra lui e me»33. Noi siamo ciò che non siamo! La fede è proprio la posizione dell’identità tra questi due sensi del nostro essere. A mio avviso, il rapporto tra Israele e chiesa, nella Kirchliche Dogmatik, è analogo al rapporto del cristiano con se stesso, illustrato nel Römerbrief. Israele in quanto terminus a quo del movimento della storia della rivelazione, ossia in quanto dà forma alla comunità di Gesù Cristo che riceve la promessa dell’elezione, è quello che non è. Israele – nella sua «totalità e coerenza», ossia escatologicamente (così mi sembra di poter tradurre la locuzione citata) – è ciò che, nella historische Geschichte, non mostra di essere. La chiesa – l’essere del suo non-essere – è la forma dell’uno – dell’unica comunità che è l’icona temporale dell’elezione di Gesù Cristo in quanto giunto al terminus ad quem del proprio movimento. Nella chiesa, quindi, Israele in quanto terminus a quo in cammino verso il terminus ad quem è giunto a se stesso. «La Chiesa è là dove, presso i giudei come presso i pagani, la promessa incontra la fede, avendo questa promessa condotto l’uomo a credere in essa. Credere significa: riporre la propria confidenza nella misericordia di Dio così come essa è attestata all’uomo, al giudeo come al pagano, da parte di Dio stesso, nella sua promessa»34. rapporto con Dio, sì che una storiografia che si limitasse alla Historie sarebbe necessariamente astratta. Invece Barth non nega la possibilità, sia pure eccezionale, di una pura Geschichte, come nel caso del racconto della creazione e della resurrezione di Cristo. In questi due casi la storia umana, orizzontale, scompare completamente. 33 K. Barth, L’Epistola ai Romani, ed. it. a cura di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1989, p. 125. 34 K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., p. 528. Ma la fede – ripeto – è a sua volta il segno dell’azione dello Spirito. Barth era così profondamente convinto di questa tesi, già agostiniana, da riuscire ad esprimerla anche con il linguaggio della preghiera. «Noi sappiamo bene che solo una cosa può rallegrarti e farti onore: il desiderio sincero del tuo Spirito, la ricerca sincera della tua verità, la sete sincera della tua assistenza e della tua guida. Ma sappiamo bene che tutto ciò è già il frutto della tua opera in noi» (K. Barth, Preghiere, trad. it. di E. Pons, Claudiana, Torino 1987, p. 55).

92

96

93

Enrico Cerasi

Nella Chiesa, quindi nel suo (non) essere, Israele – e in esso e con esso l’umanità – trova anche la propria conferma. «Attraverso la predicazione apostolica del buon annuncio, portato dalla parola del Cristo stesso, Dio conferma che ha eletto Israele; parimenti Israele conferma di essere stato eletto, conferma la sua identità con il popolo passato di cui ed a cui Isaia ha parlato e ciò precisamente mediante l’atto di disobbedienza che costituisce la sua incredulità»35. «Mediante la preesistenza della Chiesa in Israele che annuncia l’uomo nuovo, anche l’elezione di Israele si trova confermata in maniera positiva; la Chiesa non modifica la vocazione speciale di Israele: l’illumina e la spiega; mostra che la storia di questo popolo è dominata da un capo all’altro dalla volontà paterna di Dio»36. «Questo discorso ci porta a considerare la preesistenza della Chiesa in Israele; la fede e di conseguenza la Chiesa sono già il fine e di conseguenza la ragion d’essere della elezione di Israele; per questa ragione la promessa divina non è solamente stata intesa in Israele, ma occasionalmente ha trovato la fede»37. Israele, dunque, che nella chiesa ha trovato il proprio compimento e la propria negazione, non può divenire un passato, se per «passato» si intende qualcosa che più non sia, qualcosa che venga annullato dal trascorrere nel terminus ad quem. Israele, nel suo terminus ad quem, cioè nella Chiesa, è divenuto un perfectum: è compiuto in esso. L’alleanza di Dio, insomma, non è mai venuta meno, non perché il popolo eletto l’abbia confermata ma solo perché Dio è fedele. La formazione dello Stato di Israele – che Barth conosceva, quando scrisse il citato § 69 della KD – è in qualche modo un segno della pertinenza di queste considerazioni. Questo è quanto Barth intende sostenere. Ma, con ciò, non si giunge alla identificazione di Israele e chiesa? La tesi della pre-esistenza della chiesa in Israele (sia pure non per «merito» di Israele ma per la sola grazia di Dio), non riduce la chiesa a semplice figura della fede? Nel passo citato, almeno, sembrerebbe proprio di sì. Lo rammento: «la fede e per conseguenza la chiesa sono già il fine e per conseguenza la ragion d’essere della elezione di Israele». E – se Israele è a sua volta figura dell’umanità – non si rischia di dar ragione all’obiezione di Bouillard, che scorgeva nell’antropologia barthiana la pre-supposizione della fede come condizione normale, come costante antropologica? Le domande si affollano. A rafforzarle contribuisce la constatazione che ciò che nella chiesa (ossia nel sopraggiunto terminus ad quem) diventa un perfectum non è Israele in quanto popolo che rifiuta la grazia di Dio. Questo Israele è proprio ciò che è destinato a scomparire. Dio perdona l’uomo peccatore ma non il peccato. E Israele – in quanto si identifica con il peccato – non è perdonato, ma è destinato appunto a scomparire, annientato dalla grazia di Dio. Di questo, in fondo, parla la cifra del «resto di Israele»: non è possibile K. Barth, La teoria dell’elezione divina, cit., p. 556. Ivi, p. 574. 37 Ivi, p. 530. 35 36

L’umanità di Israele

97

identificare l’Israele giunto alla fede e l’Israele che non vi è giunto. L’Israele che diviene un perfectum nella chiesa è Israele in quanto attesa del Messia. È l’Israele quale appare – come dicevo all’inizio – alla luce dell’erfüllte Zeit, del tempo compiuto. Ma non tutto Israele (come anche Barth sapeva benissimo) attende il Messia! O meglio: Israele non attende solo il Messia!… Che rapporto c’è, allora, tra questi due volti del popolo eletto? In maniera assai caratteristica, Barth afferma di Israele: «Può condannarsi, caricarsi di colpe, soffrire e farsi soffrire, ma non può cambiare nulla al fatto che il Redentore vive anche per lui; può subire la sorte che si è attirato optando come ha fatto, ma non può soffrire in maniera eterna; può glorificare la morte, ma non può renderle il potere che le è stato tolto. Un Giudeo per l’eternità? Certamente no, perché il Giudeo non può rendersi eterno, né eternizzare il suo destino; nella morte e nella resurrezione di Gesù, il Messia giudeo, un limite è stato posto all’eternità di Israele dalla misericordia divina (così come è stato posto ad ogni analoga forma di eternità)»38. Barth, in ultima istanza, intona il suo caratteristico soli Deo gloria. Il peccato umano non può avere l’ultima parola, non può essere eterno, altrimenti avrebbe ragione di Dio, della sua grazia, della sua onnipotenza. Se Dio non trionfasse sul peccato, quest’ultimo sarebbe già una negazione dell’esclusiva eternità di Dio. Dio dunque, per fedeltà nei propri confronti (prima ancora che per fedeltà alla creatura), non può che vincere il male, non può che liberare Israele dalla contraddizione nella quale si era posto. Ma cosa è andato perso, nel processo della grazia, nella storia della salvezza? La «possibilità impossibile» del peccato, l’assurdità della chiusura umana alla grazia, certo! Con ciò l’umanità non viene affatto diminuita perché la possibilità del peccato (che in verità è una impossibilità, una «possibilità impossibile») non ne faceva in alcun modo parte. Se il processo della grazia, la storia di Gesù Cristo, toglie quella impossibile possibilità, con ciò non è affatto negata, nemmeno in parte, la natura umana. L’uomo è libero, certo. Ma l’uomo, per Barth, non ha altra libertà, non ha altra natura, che quella di stare con Dio. L’antropologia ­barthiana è assolutamente esplicita in merito. «Se il fatto che un uomo in mezzo a tutti gli altri sia l’uomo Gesù non è un fatto indifferente, incidentale e secondario, ma è ontologicamente decisivo; se essere uomo significa essere assieme a quest’uomo che è l’Altro vero e assoluto che ci è posto di fronte; se essere uomo significa essere posti concretamente a confronto con ­quest’uomo che è uguale a noi, pur essendo diverso per la pienezza della maestà divina – allora vuol dire che essere con Dio non è una delle tante caratteristiche dell’uomo, ma la determinazione fondamentale, non è qualcosa di derivato e alterabile, ma la determinazione originaria e immutabile dell’essere dell’uomo»39. Essere uomo – per l’antropologia teologica di Barth – significa essere, originariamente e inalterabilmente, in compagnia di Dio (mit Gott zusammen 38 39

Ivi, p. 571. KD III/2, p. 162.

94

98

95

Enrico Cerasi

sein). Né il peccato umano, per quanto grave, ha mai potuto, nemmeno per un istante, alterare questa struttura fondamentale (Grundform). Ciò nonostante la storia della salvezza è, dice Barth, una storia reale. Nonostante il peccato non abbia potuto nemmeno per un istante rompere il legame fondamentale dell’uomo a Dio, l’uomo è stato davvero riconciliato a lui. Che qui non vi sia alcuna difficoltà è dovuto al fatto che – lo ripeto – per Barth la riconciliazione va intesa come liberazione dell’uomo dall’autocontraddizione nella quale si era p ­ osto. Eppure la domanda si pone: è ancora «umana» questa umanità redenta? Tale questione non va posta in senso morale ma ontologico, come appare più chiaramente se ci riferiamo ad Israele. Israele è il popolo che ha ricevuto la promessa ma che si è chiuso ad essa. Tutto Israele è sottoposto a queste due determinazioni. La contraddizione, insomma, è totale. Nella chiesa, tuttavia, Israele trova il proprio compimento, la propria verità. Con questo – nonostante le diverse intenzioni di Barth – non si sta dicendo che ciò che viene conservato, col sopraggiungere del terminus ad quem, non è il terminus a quo ma qualcosa d’altro rispetto ad esso? Per essere più precisi: ad essere conservato non è il solo terminus ad quem, la sola chiesa? Lo ripeto: Barth non afferma questo e non lo avrebbe mai concesso. Per lui, ciò che viene conservato è il terminus a quo in quanto libero dalla contraddizione. Ciò che viene tolto è il contraddirsi, non il ciò che si contraddice. Ad essere tolto, negato, è Israele in quanto peccatore, non Israele in quanto uditore della promessa. E Israele in quanto uditore della promessa è il contenuto di cui Israele in quanto peccatore è la forma. Ma si può davvero isolare contenuto e forma della contraddizione? Si può davvero separare Israele quale appare alla luce del pleroma, del tempo compiuto, da Israele quale appare nella historische Geschichte? Barth non intende affatto negare la realtà della storia di Israele, la sua concretezza, al contrario. Se così fosse, ne andrebbe della realtà della storia della salvezza, che è l’assioma da cui muove l’intera riflessione barthiana. Ma la storia di Israele è reale solo nel movimento che lo porta dal terminus a quo al terminus ad quem, dall’antico al nuovo eone, dal vecchio Adamo al nuovo. Tuttavia, ciò che appare alla luce del nuovo non è più il vecchio quale appariva all’inizio del processo. L’Israele libero dalla contraddizione della sua disobbedienza – quale appare alla luce della chiesa – non è lo stesso Israele quale appariva, almeno a parte hominis, prima di questo avvento. Ma allora – ripeto – non finisce per apparire solo la chiesa? Non è mia intenzione sfruttare queste considerazioni in senso critico; noto soltanto che se queste considerazioni fossero giustificate, ne andrebbe della temporalità della storia della salvezza. Vorrei però tornare al brano da cui abbiamo preso le mosse: «L’Antico Testamento, preso in se stesso, considerato come una cosa in sé, non esiste: è un’astrazione giudaica»40. Ora,

40

KD I/2, p. 98.

L’umanità di Israele

99

forse, siamo in grado di comprendere un’ulteriore affermazione che si trova in quello stesso paragrafo, e che, a mio avviso, è emblematica della teologia della storia di Barth. «Noi abbiamo potuto discernere nell’Antico T ­ estamento una testimonianza esplicita dell’attesa, una linea escatologica precisa. Nel Nuovo T ­ estamento, ce n’è ben di più»41. Che cosa si intende, in questo caso, con «escatologia»? Significa che Israele e la chiesa, che sono le estasi storico-­ terrene del tempo compiuto, ossia dell’evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, possono essere compresi solo alla luce di quell’evento, come suo riflesso. Lo stesso va detto della storia umana generale, prima e dopo Cristo, 96 che non è altro che un ulteriore riflesso di quella storia. Barth disegna cerchi concentrici, al cui centro sta la storia determinata di cui abbiamo parlato in queste pagine. In questo senso, tanto la storia dell’umanità quanto quella di ogni singolo essere umano, hanno un carattere integralmente escatologico.

41

KD I/2, p. 125.

PROBLEMI E DISCUSSIONI

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò Bruno Minozzi

1. Gli eccessi polemici di Gentile nei confronti del positivismo Giovanni Gentile conduce una dura, e a tratti virulenta e anche verbalmente eccessiva polemica contro il positivismo italiano, sulla rivista la «Critica», tra il 1903 e il 1914, in numerosi saggi, raccolti poi ne Le origini della filosofia contemporanea in Italia1. La nascita del positivismo italiano è da Gentile fatta risalire a Pasquale Villari e a Carlo Cattaneo, giudicati due uomini d’ingegno, ma estranei agli studi filosofici, e tutti rivolti a raccomandare la positività e l’aderenza al fatto sempre e dovunque, così che per essi l’oggetto della filosofia coincide in definitiva con quello delle scienze naturali. Si tratta di una Unphilosophie, direbbero i Tedeschi, giacché il positivista dorme del sonno dei concetti, più precisamente è «un sonnambulo, che passa innanzi al mondo della filosofia, che è la realtà dei vigilanti, dormendo»2. Gentile prosegue la sua rassegna, indagando Salvatore Tommasi, medico, fisiologo e clinico insigne, ma sostenitore di un materialismo che più ingenuo non potrebbe essere; Aristide Gabelli, che negli studi pedagogici invita la metafisica a trarsi da un canto e a lasciar posto alla scienza; Nicola Marselli, valente scrittore di cose militari, un transfuga dello hegelismo napoletano vagheggiante un rigido monismo materialistico; Cesare Lombroso e i suoi seguaci, autori di «errori funesti, che propagarono con tanta fortuna pel mondo»3. Il posto centrale è però da Gentile accordato a Roberto Ardigò, com’è giusto, trattandosi del riconosciuto caposcuola del positivismo italiano.

1 La prima edizione è del 1917; una seconda edizione si ebbe nel 1925; Le origini della filosofia contemporanea in Italia sono state infine riprodotte, a cura di V.A. Bellezza, nei volumi XXXI-XXXIV delle Opere di G. Gentile, Sansoni, Firenze 1957. Ai positivisti è dedicato il vol. XXXII. Ci riferiamo sempre a quest’ultima edizione. 2 Ivi, p. 12. 3 Ivi, p. 154.

97

102

98

Bruno Minozzi

Diversamente da come fa con i pensatori menzionati e con gli altri di cui ancora si occupa, quando considera Ardigò, Gentile si sofferma sugli elementi biografici, sull’ordinazione sacerdotale di Ardigò, sulla sua nomina a canonico della cattedrale di Mantova, sulla sua attività d’insegnante, nonché sulla crisi religiosa, sull’abbandono della veste talare e della fede cattolica, che trasforma il pio uomo di Chiesa in un propugnatore del libero pensiero. E basandosi sui documenti lasciati dal medesimo Ardigò, Gentile si reputa autorizzato ad affermare che Ardigò non attraversò nessuna crisi, non dovette sostenere e superare nessuna lotta interiore, perché non aveva mai avuto una vera fede, perché la sua non era mai stata effettiva religione. Ardigò sarebbe stato religioso al pari di tanti altri canonici, per i quali il sacerdozio è una professione come un’altra, a cui si è avviati dalla famiglia nei primi anni, e in cui si rimane per forza d’inerzia e per rispetto umano. Dinanzi al problema religioso, conclude Gentile, la situazione di Ardigò «è quella di un cieco nato di fronte alla questione dei colori»4. Queste valutazioni di Gentile hanno di che sorprendere, perché pretendono di penetrare il segreto di un’anima e dimenticano che soltanto Dio, come ammonisce Kant, è scrutator cordium; del resto, esse sono state di regola severamente giudicate e definite arbitrarie e superficiali. Ma ciò che maggiormente preme osservare è che da esse Gentile prende le mosse per arrivare, con una sommaria analisi, a riporre l’essenza della filosofia di Ardigò nell’ateismo5. In quest’illazione si confonde vita vissuta e filosofia e si mostra di disconoscere che si può essere tiepidi (ancorché non nulli) credenti e accordare grande posto nella filosofia alla religione, come può anche capitare che si sia uomini di ardente fede senza per questo speculare con una qualsiasi profondità intorno alla religione. Oltre all’accusa di ateismo, che è quella capitale, Gentile muove ad Ardigò l’imputazione di professare un assurdo fenomenismo integrale, contestando la necessità di riconoscere l’esistenza di qualche cosa situata al di là dell’esperienza, e suo indispensabile fondamento. Una tale necessità era stata in precedenza concordemente ammessa, convenendo su ciò Locke, Hume, Kant (con la cosa in sé) e lo stesso Spencer (con l’Inconoscibile). Soltanto Ardigò si ostina ad adeguare la realtà all’esperienza, che per lui equivale alla sensibilità, quasi che il concetto di fenomeno non fosse correlativo al concetto di noumeno, di modo che chi pone il primo deve porre il secondo: il dato fenomenico (per noi) ha senso unicamente se distinto dall’essere delle cose (in sé). Infine, la relatività della logica e della conoscenza umana, asserita da Ardigò, il quale insiste nel proclamare che il fatto è divino e il principio è umano, passa sopra il non trascurabile particolare che una tale relatività non può non essere affermata se non a condizione di avere valore incontrovertibile, ossia

Ivi, p. 266. La conclusione ultima di Gentile non potrebbe essere più perentoria: «L’ateismo dell’Ardigò si può infatti considerare come la chiave di volta di tutta la sua filosofia; la quale pertanto viene ad essere una filosofia soltanto come negazione della filosofia» (ivi, p. 268). 4 5

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò

103

di pretendere di essere necessaria e assoluta. Il fatto può essere divino, solamente se il principio è anch’esso divino. La conclusione di Gentile ha il tono dell’irrisione: «Va, va, povero untorello, diceva a Renzo il monatto; non sarai tu quello che spianti Milano! L’Ardigò, come un povero untorello qualunque, resta in quel piano inferiore del pensiero, dove il crudo dommatismo della certezza immediata, concentrandosi nella contemplazione delle cose, nella loro apparente materialità e nella loro moltitudine incomposta, disconosce e nega quell’atto, che solo lega in un volume… quanto per l’universo si squaderna: che è l’assoluta eterna attività dello spirito»6. È vero che all’ultimo momento Gentile sembra fare qualche concessione ad Ardigò, dichiarando che la sua opera ha pur avuto un significato, quello di sbaragliare il decrepito e degenerato platonismo alla maniera di Terenzio Mamiani, risorto in Italia in reazione al kantismo, ma la concessione si riduce a ciò: che una non-filosofia abbatte un’altra non-filosofia7. La taccia d’asprezza e di parzialità, per questa sua considerazione del positivismo in generale, e di Ardigò in particolare, era stata rivolta assai per tempo a Gentile, che aveva replicato che egli aveva preso di mira non le persone, bensì le dottrine. Ma in prosieguo di tempo Gentile deve essersi reso conto di certi eccessi della sua polemica, giacché nella prefazione alla 2ª edizione delle Origini della filosofia contemporanea in Italia dice di mantenere immutati i suoi giudizi, ma di avere alquanto smorzato il tono di alcune sue espressioni8.

99

2. I problemi dell’ateismo e dell’integrale fenomenismo di Ardigò Non francherebbe la spesa di riandare a queste ormai remote vicende della filosofia italiana, se non si potesse mostrare, da una parte, che Ardigò non merita le accuse che gli vengono rivolte da Gentile e, dall’altra, che le sue dottrine (oltre, s’intende, a difficoltà e a insufficienze radicali) contengono spunti felici e motivi preziosi, che preme segnalare, anche per la corrispondenza che hanno nelle tematiche di molteplici indirizzi filosofici dell’Ottocento e del Novecento. E incominciando dall’accusa dell’ateismo, è da dire – se con codesta parola s’intende designare l’ateismo assertorio, il quale si assegna l’o- 100 nere di stabilire dimostrativamente che Dio non esiste – che d’ateismo in Ardigò non c’è traccia. Per quanto nel nostro maggior pensatore del posi-

Ivi, p. 298. Per debellare il platonismo, dice Gentile, ci voleva «questa non-filosofia rozza, primitiva, forte della sua inconsapevolezza ed ingenuità, potente della sua stessa barbarie» (ib., p. 311). – A sua volta Ardigò denuncia i «falsi presupposti del rinascente fatuo idealismo, che si regola, non colla logica dei fatti propri della Scienza, ma colla logica dell’immaginazione propria della Poesia» (I presupposti massimi problemi, pp. 111-12). Gli scritti di R. Ardigò sono stati pubblicati col titolo di Opere filosofiche dall’editore Angelo Draghi a Padova dal 1883 al 1918 in 11 volumi. Il saggio testé citato è contenuto nel vol. XI. 8 Cfr. vol. XXXI, p. IX. 6 7

104

Bruno Minozzi

tivismo abbondino le incoerenze e le contraddizioni, sarebbe inverosimile che egli cadesse in un’inconseguenza tanto grave come quella di sostenere, da un lato, la relatività della conoscenza umana, e di pretendere di dimostrare, dall’altro, l’inesistenza di Dio, ossia della massima realtà noumenica che sia dato concepire. Del resto, gli scritti di Ardigò provano a sufficienza che egli si propone tutt’altri compiti, e cioè di demolire le rappresentazioni di Dio che s’incontrano nelle religioni, di fornire una spiegazione naturalistica dell’origine della religione, di costruire una morale che faccia completamente a meno dell’idea di Dio e che sia pertanto indipendente dalla religione, insieme alla quale tradizionalmente si è voluto mandare unita. La nozione di un Dio creatore, sostiene Ardigò, sorge dalla raffigurazione antropomorfica della produzione degli oggetti, esemplificata dalla fabbricazione degli utensili da parte degli artigiani; non è Dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo che ha creato Dio a sua immagine; p. es., la trinità cristiana è una proiezione all’esterno dell’uomo delle tre facoltà che si attribuiscono all’anima umana, rappresentazione, appetito e volontà; la religione trae la sua scaturigine dalla paura, come suggerisce l’antico detto primos in orbe deos fecit timor; Dio, se interviene nella morale per garantire all’uomo la sua felicità ultraterrena, vi entra a sanzionare il trionfo dell’egoismo9. La religione è un fatto determinato, comparso in un’epoca particolare e destinato a scomparire in un’altra, con l’elevarsi della civiltà. Certamente Ardigò respinge, come un vacuo retaggio metafisico e teologico, l’Inconoscibile di Spencer, il quale nei Primi Principi aveva sostenuto che il conflitto tra la religione e la scienza era sorto, perché la scienza, anziché restringersi al campo del fenomenico, aveva osato invadere il terreno del noumenico, che ad essa è interdetto, e perché la religione, invece di attenersi al mistero, aveva preteso di sapere, e che la loro riconciliazione poteva ottenersi a condizione che la scienza si astenesse dal pronunciare parola sulla Causa suprema delle cose e lasciasse in disparte l’Assoluto, e che la religione si appagasse di una pura nozione simbolica del Potere che sta a fondamento di tutto, evitando di darsi dommi determinati, professioni precise di fede, che appartengono all’infanzia delle credenze. Per Ardigò questo compromesso è vano, è una resa alla metafisica, che per di più non mantiene quel che di specifico ha la religione, giacché afferma non che Dio è mistero, bensì che il mistero è Dio10. La circostanza che Ardigò respinga il noumeno di Kant e ­l’Inconoscibile 101 di Spencer, a cui sostituisce il semplice ignoto, non implica, come reputa Gentile, che Ardigò disconosca la distinzione del fenomeno e dell’altro dal fenomeno (anzi, è sua esplicita asserzione che il concetto del relativo e quello dell’assoluto s’implicano a vicenda), ma importa che la formuli diversamente. Intanto, l’ignoto è destinato a rimanere inesauribile, perché l’esperienza, La morale dei positivisti (in Opere filosofiche, vol. III, pp. 117-41 e 307-8). Cfr. L’inconoscibile di H. Spencer e il positivismo (vol. II, pp. 351-52), e L’inconoscibile di H. Spencer e il noumeno di Kant (vol. VIII, pp. 95-102). 9

10

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò

105

essendo successiva, non può mai essere in tutta la sua estensione attuale, e per ogni ignoto che diventa noto, ne sorge dietro di esso un altro, in una vicenda che non avrà mai fine. C’è poi un concetto, che fornisce il legittimo termine correlativo del fenomeno, ed esso è quello dell’indistinto psicofisico originario, giacché ogni fenomeno, dovendo, come dice la parola, apparire, si manifesta inevitabilmente come fisico oppure come psichico, così che l’indistinto medesimo non sarà mai per mostrarsi in ciò che è. Ora, questo concetto dell’indistinto, è senza dubbio gravato da molte difficoltà (è positivamente indefinibile, giacché qualsiasi definizione che se ne fornisse lo renderebbe distinto, e quasi non bastasse, contiene dentro di sé i distinti, e oltre il vero e proprio indistinto c’è il relativamente indistinto, appaiato al relativamente distinto; più in generale, esso lascia la filosofia di Ardigò al bivio tra la risoluzione naturalistica e quella psicologistica), ma nondimeno con la sua presenza fa sì che non si possa rimproverare al suo teorizzatore di ammettere (per dirla con Kant) un apparire senza una cosa che appaia. In definitiva Ardigò viene a dire che l’altro dal fenomeno è omologo al fenomeno; un assunto non molto dissimile compare in Martinetti. 3. Come la filosofia può seguitare ad esistere dopo l’avvento dello specialismo scientifico Giova a questo punto portare il discorso sull’idea di filosofia propria di Ardigò, per esaminarla in certi suoi risvolti che Gentile trascura sinanco di menzionare, certo com’è che quella del maestro del positivismo nostrano è una non-filosofia. Dopo l’affermazione dell’autonomia della scienza e la nascita dello specialismo scientifico, si pone la questione di come la filosofia possa ancora esistere. Da principio, dice Ardigò, filosofia equivalse ad investigazione scientifica in genere e designò il complesso delle nozioni che dalla ricerca si ottenevano, nozioni che, crescendo, furono un po’ per volta ordinate nelle discipline della logica, della metafisica, della fisica, dell’etica, le quali, pur distinguendosi tra loro, seguitarono a formare un solo tutto, designato sempre con lo stesso nome di filosofia. Ma in età moderna la fisica si separò da quell’intero unitario, in grazia del suo metodo induttivo, e il suo esempio fu seguito da molte discipline, dando così luogo al grande albero delle scienze sperimentali. Si deve pertanto reputare che la filosofia è destinata a scomparire? Ci sono in proposito due orientamenti fondamentali, quello dei naturalisti non filosofi, che vuole l’eliminazione pura e semplice della filosofia, 102 e quella dei filosofi non naturalisti, che pretende la conservazione inalterata e intera della vecchia filosofia. Entrambi gli orientamenti sono sbagliati; la posizione da assumere è quella di ritenere che la filosofia, come stette in passato sempre collocata a capo del campo scientifico, così vi starà sempre in avvenire: «Perché e in qual modo? Una cognizione determinata è la soluzione di un problema presentatosi prima insoluto alla mente. La soluzione di

106

Bruno Minozzi

un problema ne fa subito sorgere un altro, e ciò senza termine… La filosofia è il concepimento del problema scientifico, di cui la scienza speciale è la soluzione»11. Quest’assunto di Ardigò, che rifiuta di arrendersi alla scomparsa della filosofia determinata dall’avvento dello specialismo scientifico, merita di essere tenuto in grande conto, come comprovano anche i riscontri, ora prossimi, ora remoti, ma comunque significativi, che trova in parecchi e diversi orientamenti di pensiero. James descrive il processo con cui negli ultimi secoli le scienze positive si sono separate dal tronco della filosofia, la quale in precedenza costituiva il complesso del sapere, asserisce che i progressi hanno avuto luogo in forma stabile e sostanziale unicamente nelle scienze, e si chiede se per caso si ha da prestare orecchio alla richiesta di licenziare la filosofia, perché remota dalla vita, insuscettibile di applicazioni pratiche, dommatismo aprioristico, e risponde che la proposta è insensata, perché la scienza altro non è che filosofia specializzata, il cui metodo ha bisogno di essere teoreticamente elaborato. «La scienza stessa, dice James, non è che un ramo del tronco filosofico. Fino a che determinate questioni sono suscettibili di risposte conclusive, tali risposte sono chiamate scientifiche, e ciò che si chiama oggi filosofia non è che il residuo di questioni che non hanno ancora avuto risposta»12. Se per James la filosofia è il residuato delle questioni non risolte dalla scienza, per Schlick la filosofia può addirittura conservare l’appellativo di regina delle scienze, quantunque in un significato interamente differente da quello in cui codesto titolo onorifico le fu in tempi lontani conferito. Secondo Schlick l’insieme delle scienze, in cui sono da includere anche gli enunciati della vita di tutti i giorni, esaurisce il sistema delle conoscenze. Le scienze 103 trattano delle verità degli enunciati, verità che si accertano mediante l’osservazione o esperienza immediata. Il procedimento risolutivo di ogni problema sensato si conclude immancabilmente con la verificazione, che pone in presenza di un determinato stato di cose, il quale consente di stabilire la verità, oppure la falsità, di qualsiasi enunciato. All’infuori di questo non si dà un altro esame o controllo della verità, e di conseguenza, non c’è alcuna sfera di verità che possano chiamarsi «filosofiche». La filosofia, anziché costituire un sistema di proposizioni, consiste di un complesso di atti, con i quali si determina e si chiarisce il senso degli enunciati. Così riguardata, la filosofia certamente non è una scienza; «tuttavia, dice Schlick, è qualcosa di così significativo e grande, 11 Il compito della filosofia e la sua perennità (vol. IV, pp. 263-64). La relazione di dipendenza di quest’assunto dalla tesi dell’indistinto originario e del distinto che da quello deriva, è di palmare evidenza, e del resto è espressamente indicata dallo stesso Ardigò: «La scienza speciale è il distinto mentale preceduto costantemente da un indistinto, che è l’oggetto della filosofia, ed ha quindi con essa una relazione come di posteriore ad anteriore» (ib.). 12 W. James, Introduzione alla filosofia, tr. it. di M. Malatesta, Bocca, Milano 1945, p. 12. E più distesamente e chiaramente: «È evidente che se ogni progresso fatto dalla filosofia, ogni problema per il quale vien scoperta la soluzione esatta, è messo in conto della scienza, non potranno restare, nel dominio della filosofia, che dei problemi non risolti e soltanto tale residuato costituirà la filosofia» (ivi, p. 20).

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò

107

da meritare d’ora in poi, esattamente come un tempo, l’onore di regina delle scienze. Infatti non è per nulla detto che la regina delle scienze debba essere, a sua volta, una scienza… Il contenuto, l’anima e lo spirito della scienza naturalmente hanno la loro base (in ultima analisi) nel senso effettivo delle sue proposizioni. L’attività filosofica della determinazione dei significati è perciò l’alfa e l’omega di tutta la conoscenza scientifica»13. Per quanto l’orientamento di pensiero di Jaspers sia toto caelo differente da quelli del positivismo, del prammatismo, del neoempirismo, a cui appartengono gli autori sinora menzionati, nondimeno anche in esso si rinviene il problema di salvaguardare l’esistenza della filosofia dalla minaccia di dissoluzione a cui modernamente si trova esposta, il che si può ottenere soltanto rendendola condizione preliminare per la fioritura della stessa scienza. ­Jaspers riconosce che nel nostro tempo la scienza ha raggiunto un’importanza addirittura sbalorditiva; insieme alla tecnica, essa determina il destino del mondo. Ma nonostante il fatto incontestabile che la scienza influenzi sempre maggiormente il contegno delle singole persone e dei popoli, essa seguita, oggi come ieri, a dipendere da impulsi che non possono essere stabiliti scientificamente. Per questa ragione, la scienza, se è lasciata a se stessa, decade e s’immiserisce. La filosofia non è una scienza accanto alle altre, ma può fornire alla scienza la guida di cui essa ha bisogno, anche se ciò non è da intendere nel senso che le imponga direttive e disposizioni. «La filosofia, conclude ­Jaspers, agisce efficacemente piuttosto con stimoli e incitamenti sulla originaria volontà di sapere, con le idee che danno lume alla mente e conducono alla scelta di ciò che è da fare oggetto d’indagine, col senso di stupore e di sorpresa determinato dal valore e dal significato delle singole conoscenze per una visione generale della realtà»14. Il limite di Ardigò consiste in ciò, che egli non si attiene coerentemente a questa considerazione della filosofia come concepimento di problemi di cui la scienza fornisce le soluzioni, ma ristabilisce due ordini di problemi e di 104 soluzioni, l’uno filosofico, l’altro scientifico, e correlativamente due specie di saperi, quello della filosofia e quello delle scienze. Avendo dato il bando alla metafisica e adottato il metodo induttivo, la filosofia è diventata essa stessa scientifica, e se si differenzia dalle scienze naturali, costituisce a sua volta un complesso di vere e proprie scienze, che vanno accompagnate con l’attributo di filosofiche. Ardigò s’inoltra tanto su questa strada, che suddivide la filosofia in scienza generale, a cui conferisce il nome di Peratologia (la quale è parente prossima, se non della metafisica, dell’ontologia, da cui Ardigò voleva rifuggire) e in scienze speciali, articolate queste in Psicologia (con le rela­tive discipline della Logica, della Gnostica e dell’Estetica) e della Sociologia (tripartita nelle discipline dell’Etica, della Diceica e dell’Economica)15. Ma ­questo 13 M. Schlick, La svolta della filosofia, tr. it. in Il Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino 1969, pp. 259-60. 14 K. Jaspers, La mia filosofia, tr. it. di R. De Rosa, Einaudi, Torino 1971, p. 126. 15 Cfr. La filosofia nel campo del sapere (vol. X, p. 9).

108

Bruno Minozzi

ritorno all’impostazione tradizionale, che riconduce Ardigò in prossimità di Comte e di Spencer, da cui avrebbe voluto differenziarsi, non sopprime la felicità del suo spunto iniziale nel raffigurare in maniera nuova i rapporti tra la filosofia e la scienza16. 4. Il superamento dell’atomismo psicologico Sostenendo Ardigò che i ritmi fondamentali dell’esperienza (la cosa e l’azione, la simultaneità e la successione, ecc.) sono collegati al funzionamento del cervello e da esso determinati, commenta Gentile che per Ardigò la rappresentazione della realtà dipende dal cervello nella stessa maniera in cui la forma e la grandezza dei maccheroni dipendono dalla macchina con cui si produce la pasta, e discorre beffardamente di una concezione della logica come il buco dei maccheroni17. Al di là dello scherno, sorge il problema 105 di come conciliare due serie di affermazioni, a prima vista estremamente contrastanti, che negli scritti di Ardigò s’incontrano, la prima di suono crudamente materialistico, la seconda dichiaratamente ostile nei confronti del materialismo. Un’asserzione del primo tipo è, p. es., la seguente: «Il pensiero si produce nel cervello come il lampo nelle nubi, come la fosforescenza in una sostanza, che, stropicciata, si fa luminosa»18. Ardigò polemizza però, ogni volta che gliene è fornita l’occasione, contro il materialismo, definendolo schietta metafisica, al pari dello spiritualismo, e va da sé che egli è obbligato dall’indole generale della sua filosofia a comportarsi in tal modo. Che cos’è, infatti, la materia? Nient’altro che un astratto mentale. In proposito Ardigò la pensa come Berkeley, da cui si allontana però per il motivo che, per lui, un astratto mentale è anche l’anima, laddove il filosofo irlandese respinge la sostanza materiale, ma lascia sussistere la sostanza spirituale (la «mente», lo «spirito», da distinguere con ogni cura dalle «idee»).

16 Da quanti sottolineano la precarietà della filosofia, in contrapposizione alla solidità della scienza, si ricorda ad ogni istante la molteplicità e il conflitto delle filosofie e l’unicità e l’interno accordo del sapere scientifico, ma in questa ordinaria veduta, secondo Ardigò, c’è molto d’indebito e di contestabile. Esiste, infatti, una molteplicità di dottrine contrastanti anche nella scienza, la quale nel processo della sua costituzione provvede tuttavia a correggersi, e ne edifica altre nuove e più resistenti. A nessuno viene più in mente oggi, allo scopo di mettere sotto accusa la fisica, di ricordare la dottrina di Aristotele sulla quinta essenza e sul suo eterno movimento circolare, la dottrina di Galileo degli ignicoli come causa del riscaldamento dei corpi, e la dottrina di Newton della luce come fluido; tutte dottrine posteriormente abbandonate. Di contro, c’è un processo verso l’unità anche nella filosofia e quindi non è lecito, per deriderla, mettere continuamente in campo le sue molte e contrastanti teorie, quasi che essa fosse sempre allo stesso punto. «Il vero si è insomma che succede per la filosofia quello che succede per tutte le altre scienze», è il commento finale di Ardigò in L’idealismo della vecchia speculazione e il realismo della filosofia positiva (vol. IX, p. 83). 17 Le origini della filosofia contemporanea in Italia, cit., XXXII, pp. 276-79. 18 La scienza sperimentale del pensiero (vol. VI, p. 353).

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò

109

Ora, la conciliazione tra i due motivi in Ardigò non c’è, e ciò ha consentito ai suoi critici di accusarlo, se non proprio di materialismo, di biologismo, di negazione implicita di quella psicologia, della cui elevazione al rango di scienza Ardigò va tanto fiero. Nondimeno, questa conciliazione avrebbe potuto esserci, e in pieno accordo con quell’empirismo, che è l’ispirazione profonda di tutta la riflessione filosofica di Ardigò. Il concetto, che di tutto deve stare a base, è quello del fatto, e il fatto è la sensazione, ripete ad ogni piè sospinto Ardigò, che tuttavia non trae sempre le conclusioni che da codeste asserzioni immancabilmente discendono. E la conclusione che presentemente interessa è che il cervello, i visceri, l’organismo, sono, a loro volta, complessi di sensazioni, constano di dati visivi, tattili, uditivi, e di altri dati ancora, per cui, entro il sentire complessivo, si distinguono da certe altre sensazioni. Le emozioni, i sentimenti, i pensieri sono compresi nell’esperienza alla stessa maniera in cui vi rientrano tutti gli elementi di cui può con senso essere umanamente pronunciata parola. La dipendenza del pensiero (di ciò che nel linguaggio ordinario si dice tale, che non è tutto il pensare, giacché anche il sentire è pensare) dal cervello si sarebbe potuta interpretare nella maniera in cui s’interpreta la dipendenza della vista dei colori dalla presenza della luce, che è anch’essa un avvertimento sensoriale. Tutto il rimanente si sarebbe potuto addebitare al linguaggio popolare, di cui la filosofia può seguitare a fare ampio uso, insieme a quello suo tecnico (Leibniz, p. es., si è avvalso largamente di questo diritto). Se Ardigò avesse percorso questa strada, si sarebbe ulteriormente avvicinato all’empiriocriticismo di Mach e di Avenarius, a cui è già per certi riguardi prossimo19. Illustrando la formazione dei concetti del Me e del Non me, Ardigò so- 106 stiene che sono entrambi costituiti da sensazioni, e che non esiste nessun Me spirituale, come prova la circostanza che una medesima sensazione può indifferentemente far parte ora del Me e ora del Non me, e suffraga questo assunto con l’esempio della malinconia, dello stato d’animo del pessimismo, anche intensissimo, che si può reputare provocato da chissà cosa mai, e invece è magari prodotto da un bottone dei calzoni troppo stretti, cosicché, slacciati i calzoni, svanisce completamente quella visione pessimistica dell’universo e del destino dell’uomo. Di qui la conclusione: «Non l’anima, ma un bottone dei calzoni»20. Gentile ne prende lo spunto per discorrere della «dimostrazione loculenta» della distinzione dei dati psichici e dei dati fisici, fornita dalla «dolorosa storia dei calzoni d’un positivista»21. Certamente ci si può scandalizzare 19 Ardigò, che rivendica la sua originalità nei confronti di Comte e di Spencer con un’insistenza soverchia, e quindi un po’ sospetta, sottolinea all’occasione anche la sua indipendenza dagli empiriocriticisti, e con pieno diritto, giacché qui ha dalla sua la precedenza temporale. Cfr. Il quadruplice principio della gnostica (vol. X, pp. 208-10). 20 Il vero (vol. V, p. 380). 21 Op. cit., pp. 294-95. E Gentile aggiunge: «Veramente l’Ardigò non avrebbe ragione di distinguere l’anima da un bottone dei calzoni, visto che essa è una cosa fra le cose che la circondano» (ib.).

110

Bruno Minozzi

per la banalità dell’esempio, sentirsi urtati dalla sua elementarità a vederlo comparire in una concezione della psicologia che si presenta come scientifica; nondimeno è lecito soggiungere alcune riflessioni. E la prima riflessione è che Ardigò dice in un linguaggio schietto, piano, volutamente popolare, quel medesimo che tante correnti della psicologia contemporanea asseriscono con locuzioni tecnicamente elaborate e talvolta iniziatiche. Ciò che conta è il tipo della spiegazione, ed esso è quello dominante, che ricorre quando si riconduce, p. es., l’orrore del nulla, la paura della morte, alla paura infantile del buio, o si rende ragione della fede in Dio Padre mediante il genitore terreno, da cui il bambino dipende. E la seconda riflessione è che la banalità che si riscontra nell’esempio è insita nelle cose stesse, non è qualcosa di soggettivo; banale è il mondo medesimo, da cui si vogliono bandite la metafisica e la religione e ridotta l’arte ad intrattenimento. Ardigò, in questo caso come in parecchi altri, è un testimone della banalità del moderno. Comunque sia di ciò, la psicologia di Ardigò contiene anche qualcosa di assai migliore, qualche motivo indovinato, di cui Gentile tace, e che conviene, per la sua importanza, indicare. Ardigò aderisce all’empirismo caratteristico della filosofia inglese del Settecento e dell’Ottocento, ma dissente dall’associazionismo psicologico professato dai suoi maggiori esponenti, da Locke a Hume, a John Stuart Mill. Secondo la prospettiva associazionistica è da ritenere, dice Ardigò, che «le idee si presentino, si intrattengano, si incontrino nella mente come le persone sulla piazza del mercato, e cioè accostandosi più o meno le une alle altre, ma conservando ognuna la propria individualità»22. 107 Questo pregiudizio è di solito denominato da Ardigò l’«enadismo», e con vocabolo più comune (di cui talvolta anche l’autore fa uso) si potrebbe chiamare l’atomismo psicologico; ed è dall’enadismo che è fatto discendere lo scetticismo di Hume, il quale da esso è tratto a contestare il principio di causalità. Se, infatti, l’esperienza presenta tanti dati ciascuno a sé stante o collegati tra loro soltanto accidentalmente, è evidente che la causalità, la quale esige la relazione necessaria, non può sussistere e va ridotta a semplice abitudine. Ardigò compie qualche tentativo di ristabilire il valore della causalità, dopo aver sostituito alla pretesa legge dell’associazione delle idee quella che egli chiama la «legge della confluenza mentale», la quale asserisce la solidarietà di tutti i fatti psichici, che si comportano come tanti membri di un unico ritmo23. Per questo lato Ardigò è da avvicinare alla psicologia della Gestalt. 5. Lo psicologismo logico In fatto di logica Ardigò professa il più drastico psicologismo, riconducendo i principi logici, a partire da quelli d’identità e di non contraddizione, a 22 23

I tre momenti critici della gnostica della filosofia moderna (vol. X, p. 64). L’unità della coscienza (vol. VII, p. 252).

La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò

111

schemi astratti della psiche, «non a priori o innati, ma empirici, ossia formazioni contingenti lungo la vita in dipendenza dalle stimolazioni dell’ambiente e dalle disposizioni organiche, onde si elaborano le sensazioni conseguenti a dette stimolazioni»24. Un dato di una certa ritmicità non può non fondersi con un altro dato della medesima ritmicità: questo è il principio d’identità; un dato non può fondersi con un altro dato di una ritmicità opposta: questo è il principio di non contraddizione. Tale principio si riferisce ai coesistenti; se invece si tratta di successivi, si ha il principio della ragione sufficiente. Il loro carattere è quello di presentarsi come imperativi, costringendo il pensiero a comportarsi come essi dettano e ad affermarsi come vero. Quest’ultimo punto non è stato scorto da John Stuart Mill, a cui Ardigò costantemente si richiama quand’è questione di logica, e di conseguenza, Mill non è riuscito a spiegare la necessità con cui i principi si offrono alla mente: ci sono legami risolubili e legami irresolubili, gli assiomi supremi della logica appartengono al novero dei legami della seconda specie. La logica, con tutti i suoi principi, non è la causa, ma l’effetto delle cognizioni già possedute, delle idee che si raggruppano in generalità, le quali dipendono dagli incontri che hanno luogo nella mente, dalle disposizioni del pensante, dalla loro forza e vivacità: «E insomma non è l’uomo che domina il suo pensiero, ma è il pensiero, che la natura gli insinua suo malgrado, che domina lui»25. Questo è l’esito della filosofia di Ardigò, per il quale formazione naturale 108 è il sole e formazione naturale è la logica. E contro un tale esito si reputa di avere pronta l’obiezione decisiva: Relatività della logica umana? Ma non relatività della stessa teoria di quest’indole relativa della logica, la quale, a ben vedere, si distrugge da se stessa. Lo psicologismo logico conduce immancabilmente allo scetticismo, che è una teoria la quale contesta le condizioni a cui deve obbedire qualsiasi teoria per potersi presentare. Husserl combatte lo psicologismo, non nella formulazione di Ardigò (il quale fuori d’Italia è pressoché ignorato), ma in quella di parecchi pensatori, tra cui spicca John Stuart Mill, che è la massima fonte, in argomento di logica, di Ardigò. E benché lo psicologismo di Mill sia molto più moderato di Ardigò, le critiche di Husserl possono essere indirizzate in qualche maniera anche contro gli assunti di Ardigò, come prova la loro consonanza con le riserve che adduce Gentile26.

Il positivismo nelle scienze esatte e nelle sperimentali (vol. XI, p. 127). Relatività della logica umana (vol. III, p. 454). 26 Husserl eccepisce all’interpretazione del principio capitale della logica, quello di non contraddizione, fornita da Mill, che essa riduce quella che si è sempre presa per una legge assolutamente esatta e valida senza eccezioni ad una ipotesi vaga, approssimativa, inesatta, come soltanto può essere «una generalità empirico-psicologica», e che il medesimo accade per tutte le altre leggi della logica (Ricerche logiche, tr. it. di G. Piana, Alberto Mondadori, Milano 1968, vol. I, p. 100). Una volta messa la logica sul terreno dei fatti, come fa Ardigò, si domanda Gentile: «Quale necessità può competere ad un fatto? E chi può dire che in un altro mondo, diverso da quello a cui appartiene di fatto la nostra logica, non s’abbia, o non si avrebbe, a ragionare 24 25

112

Bruno Minozzi

Per lungo tempo sembrò che questa confutazione dello psicologismo fosse definitiva e che l’interpretazione psicologistica della logica fosse destinata a non ricomparire più nella filosofia. Ma successivamente è apparso che questa liquidazione era troppo perentoria per essere attendibile e che, anzi, le critiche che si erano compiute erano gravate di presupposti e non immuni da sviste ed errori27. Il conflitto tra psicologismo e formalismo è tanto poco 109 definitivamente risolto, che di recente si sono avute significative riprese dello psicologismo, anche se si tratta di uno psicologismo assai diverso da quello propugnato nell’Ottocento in Inghilterra da John Stuart Mill e da Spencer, in Francia da Comte, e in Italia da Ardigò, che è la traduzione in sede di logica di un positivismo imperante in ogni campo del sapere.

altrimenti?» (Sistema di logica come teoria del conoscere, in Opere, ed. cit., V, pp. 17-18). Ma nel Sistema Gentile mostra di apprezzare la coraggiosa consequenzialità di Ardigò, anche se è una consequenzialità che porta in un baratro, senza dubbio per la ragione che le posizioni rigorose sono preferibili a quelle compromissorie, perché, come dicevano gli Scolastici, si giunge più speditamente alla verità dall’errore che dalla confusione. 27 Quanto sia complessa la questione dello psicologismo è mostrato da M. Heidegger in Logica. Il problema della verità, tr. it. di U.M. Ugazio, Mursia, Milano 1986, pp. 23-84. La critica di Husserl allo psicologismo presuppone la dualità platonica di intelligibile (o di ideale) e di sensibile (o di reale), la difficoltà di superare la distanza abissale che li separa, e comporta l’errore di pretendere che l’ideale (il contenuto della proposizione) giunga all’atto (del giudizio), con cui non ha niente da spartire. Queste sorprendenti posizioni furono da Husserl abbandonate subito dopo le sue Ricerche logiche. Per parte sua, lo psicologismo si guardò bene dal ritenersi confutato. Le riflessioni di Heidegger suggeriscono che nemmeno in tema di logica Ardigò doveva essere fatto oggetto di una sommaria liquidazione, come quella cui fu sottoposto ai primi del Novecento.

Il Pensiero

rivista di filosofia Anno 2006 | Volume XLV | Fascicolo 2

Unamuno - Zambrano - Celan

Al Lettore

Figure eminenti della cultura europea di lingua spagnola, Miguel de Unamuno (1864-1936) e María Zambrano (1904-1991) hanno vissuto due diverse stagioni del secolo XX, troppo presto definito «breve», se ancora non riusciamo a lasciarcelo alle spalle. Unamuno conobbe solo i prodromi della tragedia che funestò l’Europa, e che la Zambrano visse sino in fondo, quantunque da lontano: per sottrarsi alla dittatura di Franco, era emigrata in America latina. D’altronde anche Unamuno aveva conosciuto la sofferenza dell’esilio, negli anni di Primo de Rivera. Spiriti liberi non avrebbero potuto ‘pensare’ e ‘scrivere’ in un clima d’oppressione politica. Non furono filosofi ‘monastici’, ma neppure filosofi ‘politici’. La loro partecipazione alla polis fu di natura eminentemente filosofica e letteraria. Solo che la loro ‘filosofia’ non fu mai ‘astratta’, o solo razionale. Furono pensatori ‘estetici’ – ma non nel senso, comune e banale, che si occuparono di letteratura e d’arte, Unamuno scrivendo, oltreché saggi filosofici, opere di teatro e di narrativa, di poesia, raggiungendo in questo ambito forse i più alti risultati, e Zambrano ponendo a tema principe delle sue meditazioni il rapporto tra poesia e filosofia, privilegiando – pur questo s’è detto – la prima sulla seconda. Non in questo senso li abbiamo definiti «pensatori estetici», ché lo furono anche quando – se non maggiormente quando – s’occuparono di etica, di religione, di metafisica, perché i loro pensieri nascevano dal «cuore», come s’esprimeva Unamuno, o dalle «viscere», las entrañas, come diceva, più icasticamente, la Zambrano. Pensavano e scrivevano con la mente e col corpo. Pativano la loro scrittura non meno di quanto l’agissero. Praticarono forme diverse di pensiero e di linguaggio, oltre la filosofia e nella filosofia stessa, perché sentivano che l’essenziale era di là dai «significati», di là dalle «idee»; era nella passione che dava ‘colore’ alle loro parole. Era nel ‘tono’ più che nella ‘figura’ della voce. Non furono filosofi dell’arte. Furono filosofi estetici. In quanto tali profondamente ‘religiosi’ (nel significato che a religione dette Lattanzio, non in quello di Cicerone), come testimoniano le loro opere maggiori: Del sentimiento trágico de la vida e El hombre y lo divino. Una grande distanza però li divideva, proprio su questo

5

118

6

Al Lettore

terreno: il cristianesimo di Unamuno era tutto incentrato sull’immortalità non tanto dell’anima, quanto del ‘soggetto’ Miguel de Unamuno, del suo «haïssable moi», la religione di María Zambrano, invece, certo non ignara della passione di Giobbe e dell’amore del Dio cristiano, era più vicina al sentimento cosmico della pietas pagana, ai misteri di Eleusi, che non al cristianesimo di Paolo. Il fascicolo si chiude con una Lettura poetica, doppiamente poetica: Federico Italiano, poeta, legge Paul Celan, il poeta contemporaneo che ha maggiormente provocato – e subito – le letture dei filosofi. Un hors-d’œuvre ­servito alla fine anziché all’inizio del banchetto? Non proprio. Un filo sottile, eppure tenace, unisce al corpo maggiore del fascicolo questa conclusione. Lo indico con un esempio, un solo esempio: «tierra tierra tierra tierra» – grida, non dice, un verso di Unamuno; «Waldwasen, uneingeebnet, / Orchis und Orchis, einzeln», sospira un distico di Celan. Grido e sospiro, ma non sono parole, son cose, parole che si son fatte cose: terra, prato, orchidee. Italiano legge Celan passando attraverso i significati delle parole, e pur le metafore, attraverso la cultura, la storia, la geografia, e pur l’organico, per vedere oltre: dove l’arco è preghiera, il ciottolo cuore, il verderame vecchiezza. Porta, così, non la pietra a concetto, ma il concetto a pietra. Restituisce Celan a Celan. La poesia alla poesia. v. v.

SAGGI

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno. «No me mueve, mi Dios, para quererte el cielo que me tienes prometido» Vincenzo Vitiello

1 Al no poder ser Cristo maldijiste de Cristo, el sobrehombre en arquetipo, hambre de eternidad fue todo el hipo de tu pobre alma, hasta la muerte triste. A tu aquejado corazón le diste la vuelta eterna, así quierendo el cipo de ultratumba romper, ¡oh nuevo Edipo! víctima de la Esfinge a que creíste vencer. Sintíendote por dentro esclavo dominación cantaste y fue lamento lo que a riso sonó de león bravo; luchaste con el hado en turbulento querer durar, para morir al cabo libre de la razón, nuestro tormento1.

Il «tu» di questo sonetto, scritto a Salamanca il 18 novembre del 1910, è il pensatore al quale Miguel de Unamuno era legato da profonda affinità – del sentire prima e più ancora che del pensiero. Per essa il poeta-filosofo poté giungere alla radice esistenziale, vitale, del pensiero del filosofo-poeta. Così dicendo, respingo ogni e qualsiasi «lettura» che voglia consegnare U ­ namuno

1 «Non potendo essere Cristo, hai denigrato / Cristo, il superuomo nel suo archetipo; / fame d’eternità fu tutta l’ansia / della tua povera anima, triste fino alla morte. // il tuo cuore angosciato hai circuito / in eterno ritorno, volendo così il cippo / d’oltretomba spezzare, oh nuovo Edipo, / vittima della Sfinge che credesti // di vincere. Ti sentivi dentro schiavo / e hai cantato il dominio. Era lamento / quel tuo riso selvaggio di leone. // Hai lottato col fato in turbolento / voler durare, e alfin sei morto, libero / dalla ragione, nostro tormento»: Miguel de Unamuno, Poesie (= P), trad. it. con testo a fronte, Introduzione e commento di R. Paoli, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 90-91.

7

120

8

9

Vincenzo Vitiello

al passato. Al passato del cattolicesimo controriformistico e controrinascimentale – di cui pure tessé l’elogio –; al passato di un pensiero contrario alla ragione moderna – la ragione di Descartes e Spinoza, degli illuministi e di Kant, e di Hegel –, contro cui pure si scagliò con aspra polemica; al passato di una cultura che alla libertà dei moderni opponeva il principio medievale dell’obbedienza alla Chiesa di Roma, che pure non mancò di esaltare. È che Unamuno è stato, in religione, più moderno dei modernisti, critici della tradizione cattolica, e, in filosofia, più in sintonia col suo tempo di tanti filosofi dell’attualità e dell’esistenza storica, saggisti più che pensatori, felici diagnostici del quotidiano, quando non interpreti dell’ovvio. A quella «lettura» che intende collocare Unamuno al passato, neppure una pensatrice del valore di María Zambrano seppe sottrarsi, non completamente, almeno, forse per eccessiva devozione al suo minor Maestro. Risulta difficile, infatti, accettare la sua affermazione che Unamuno «non trovò posto in questo mondo moderno in cui ebbe il destino di nascere», anche se mitigata dalla successiva che «solo la figura di un patriarca dell’Antico Testamento avrebbe potuto raccogliere fedelmente la sua ansia, la sua grande passione, il centro della sua persona». Peraltro la Zambrano stessa presto si correggeva, osservando che la passione di Unamuno non era passione di immortalità: «L’immortalità è al di là della vita, mentre lui voleva essere immortale al di là e al di qua, nell’eternità e nel tempo»2. E questo non è un tratto che approssima Unamuno a Nietzsche? Che significa voler esser immortale nell’eternità e nel tempo se non fare dell’eternità una durata temporale infinita? Non sono nostre deduzioni, quelle che qui presentiamo, per coerenti e incontrovertibili che possano essere o pretendere d’essere; sono le tesi che Unamuno stesso espone nel Sentimento tragico della vita, quando parla del Paradiso e della vita eterna. Che non può essere vita in quiete, vita senza movimento, sviluppo, perfezionamento. La vita, se è vita – afferma –, deve sempre avere una mèta da conseguire. E questo vale non solo per gli uomini, sì anche per Dio. «Che tutti gli esseri giungano a godere di Dio – scrive –, presuppone che Dio giungerà a godere di tutti gli esseri, e la visione beatifica sarà dunque reciproca, e Dio si perfezionerà nell’esser meglio conosciuto, poiché si alimenta di anime e di esse si arricchisce»3. Sarebbe, se non proprio impossibile, certamente ben arduo dire in che si distingue l’eternità di Unamuno da quella non dico di Hegel – che pur mantiene nell’unità di tempo ed eternità la distinzione, essendo questa la forma assoluta, l’intemporale presente, in cui quello, il tempo, che mai non cessa, si svolge4 –, ma di uno «storicista» alla Dilthey, tanto elogiato

2 M. Zambrano, Unamuno, Fundación María Zambrano, 2003, trad. it. di Claudia Marseguerra, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 187. 3 M. de Unamuno, Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos (= ST), trad. it. di M. Donati, SE, Milano 2003, pp. 214-215. 4 Cf. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Meiner, Hamburg 19526, VIII: Das absolute Wissen.

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

121

– e pour cause – dal buon Ortega y Gasset5, di uno storicista che al tempo assegna una durata infinita. Ma v’è di più: Unamuno di tanto riduce l’eternità al tempo, da concepire la stessa beatitudine eterna in termini mondanamente umani: «Non è la felicità eterna – si chiede, e la domanda è solo retorica, volta a rafforzare la tesi, non a porla in forma di dubbio – un’eterna speranza con un eterno nucleo di dolore, affinché la beatitudine non affondi nel nulla?» (ST, p. 216). La vita paradisiaca – in altri termini – è solo una versione, migliorata, della vita su questa terra. Conseguentemente non può esser priva del corpo. «Che diletto è quello di chi riposa? […] senza corpo come è possibile il diletto? L’immortalità dell’anima pura, senza alcun genere di corpo, non è vera immortalità» (ST, p. 207). Il corpo – grande tema nietzschiano, così come la volontà. Unamuno li condivide entrambi. Invero in lui, come in Nietzsche, non sono due temi, ma uno e medesimo. Se si tiene ferma questa unità, s’intende che Unamuno non può essere detto pragmatista, perché il suo volere è ben oltre la prassi e la storia, è il corpo stesso in quanto atomo di volontà, monade dotata di forza che non vuol cessare di esistere. Volontà di volere, perché desiderio, passione, diletto e dolore, amore e sofferenza. Tutto tranne che ragione. Perché la ragione vincola, ed il volere pretende libertà. Perché la ragione, anche quella che si proclama ab-soluta, da tutto sciolta, non è principio di sé, se è necessitata a seguire principi che non sono meno vincolanti e trascendenti perché suoi. La volontà è libera anche nei confronti di sé, la ragione no6. La modernità di Unamuno è qui. Tutta qui. È la modernità della metafisica moderna del volere. È la modernità di Nietzsche. Perciò a Unamuno non basta, come non bastava a Nietzsche, subordinare la logica alla volontà, come lo strumento al fine. Unamuno intende umiliare la ragione, azzerarla. Neppure come strumento vale. Almeno non in sé. Se e quando la volontà l’usa, può anche essere utile, ma sarebbe grave errore ritenerla strumento o mezzo necessario. È all’interno di questo contesto di pensieri che va intesa l’esaltazione dell’obbedienza alla Chiesa. E valga quest’unica citazione: «Il vero peccato, forse il peccato contro lo Spirito Santo, per il quale non esiste remissione, è il peccato di eresia, quello di pensare autonomamente. Si è già sentito dire qui, nella nostra Spagna, che essere liberale, vale a dire eretico, è peggio che essere assassino, ladro o adultero. Il peccato più grave è non obbedire alla Chiesa, la cui infallibilità ci difende dalla ragione» (ST, p. 72) Qui non parla la Spagna tenebrosa degli autos de fé e dei roghi, dei Gesuiti e dell’Inquisizione, parla il moderno sprezzatore della ragione, dei suoi limiti e della sua inefficacia ad operare nel mondo. Nella condivisione della condanna di ­Galilei e Darwin, operata dalla Chiesa di Roma, nell’esaltazione del pontefice che 5 Cfr. J. Ortega y Gasset, La ragione storica (Lisbona 1944), in Id., Metafisica e ragione storica, a cura di A. Savignano, Sugarco, Carnago (Varese) 1994, p. 334, e 364. 6 In merito cf. M. Heidegger, Nietzsche, 2 Bde, Neske, Pfullingen 19612, II, pp. 300-301.

10

122

Vincenzo Vitiello

decretò ­l’infallibilità papale, non s’ode la voce del difensore della Scolastica e della sua teologia, se questa teologia viene respinta come «cristianesimo svigorito», e la pretesa di dar fondamento razionale ai dogmi è da religione declassata a pretesa filosofica: «ormai non si tratta più di far accettare il dogma, ma la sua interpretazione filosofica e tomista». La critica colpisce la filosofia come tale, la moderna non più della medievale; la già difesa Controriforma cade sotto gli stessi colpi inferti alla Riforma. Scrive: «Non basta credere che ricevendo l’ostia consacrata si riceve il corpo e il sangue di Nostro Signor Gesù Cristo; bisogna passare per tutto l’argomento della transustanziazione e della sostanza separata dagli accidenti, rompendo con tutta la concezione razionale moderna della sostanzialità» (ST, p. 75). Come è potuto accadere ciò? Col venir meno della fede, vale a dire con il depotenziamento della volontà. E qui è palese il circolo vizioso, non dell’argomentare di Unamuno, ma della cosa stessa: ché al depotenziamento della volontà ha contribuito e contribuisce certamente la ragione, ma questa in tanto s’è imposta, in quanto la forza della volontà era precedentemente scemata. Tutto l’argomentare si regge sulla opposizione irriducibile di vita e ragione, definita, questa, «potenza sconfortante e dissolvente» (ST, p. 93). Anche questo è un tema tipico della nostra modernità – modernità, dico, e non contemporaneità, dacché risale a Cervantes7, ben prima che a Nietzsche. 2 C’è da chiedersi, a questo punto, a quale sentire religioso dà voce il Sentimento tragico della vita. Unamuno – questo è ciò che immediatamente appare – non ama Dio, ma se stesso8. Dio è per lui l’assicurazione della propria vita futura – assicurazione, espressa talora con la forza dell’ossimoro: 11

[…] Sufro yo a tu costa, Dios inexistente, pues si Tú existieras existiría yo también de veras9.

E la fede? Solo un mezzo di «consolazione». Unamuno traduce il credo quia absurdum di Tertulliano in: credo quia consolans (ST, p. 91). Un ­abisso 7 Sul tema rinvio a V. Vitiello, «Il Don Quijote e il Faust. Per un’interpretazione dell’alessandrinismo moderno», «Il Pensiero», 2004/2, pp. 33-62. 8 «Ciò che l’uomo cerca nella religione, nella fede religiosa, è di salvare la propria individualità, di eternizzarla, e questo non s’ottiene né con la scienza, né con l’arte, né con la moralità. […] E abbiamo bisogno di Dio, non perché ci insegni la verità delle cose, o la loro bellezza, o garantisca la moralità con pene o castighi, ma perché ci salvi, perché non ci lasci morire del tutto. […] Se l’anima umana è immortale, il mondo è economicamente o edonisticamente buono; in caso contrario è cattivo» (ST, pp. 276-277, corsivo dell’A.). 9 Io soffro a tue spese, / Dio inesistente, ché, se Tu esistessi / allora esisterei anch’io davvero. (P., p. 74).

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

123

separa la fede di Unamuno dal Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, l’abisso del moi haïssable, origine, fine e centro della sua fede. Unamuno non vuole negarsi in Dio, vuole lui farsi Dio. Estendersi, espandersi sino all’essere di Dio. Ed in questa espansione continuare ad essere «io», io con la sua singolarità, il suo corpo, la sua felicità. Ed ha il coraggio di dirlo senza ambiguità e tentennamenti – di questo bisogna dargli atto. Ma accompagna al coraggio di esprimere la propria egocentrica fede una cieca, e triste, irrispettosa polemica contro il più alto sentire religioso di uno Spinoza, citato con ammirata condivisione, quando afferma che «unaquaeque res, quatenus in se est, in suo esse perseverare conatur»10, ma aspramente criticato nella sua pagina più alta, dove, anticipando il concetto kantiano dell’autonomia del volere morale, dice che «beatitudo non est virtutis premium sed virtus ipsa». Ma leggiamo la critica di Unamuno: Niente di più triste, niente di più desolante, niente di più antivitale della felicità, della beatitudo spinoziana, che consiste nell’amore intellettuale per Dio, che non è altro se non l’amore stesso di Dio, l’amore con cui Dio ama se stesso (proposizione XXXVI). La nostra felicità, vale a dire la nostra libertà, consiste nel costante ed eterno amore di Dio verso gli uomini. Così dice lo scolio a questa proposizione XXXVI. E tutto questo per concludere, nella proposizione finale di tutta l’Ethica, nel suo coronamento, che la felicità non è il premio della virtù, ma la virtù stessa. Quello che dicono tutti! In sostanza che da Dio veniamo e a Dio torniamo; che tradotto in linguaggio vitale, sentimentale, concreto, significa che la mia coscienza personale scaturì dal nulla, dalla mia incoscienza, e al nulla tornerà.

Per poi concludere: contro Spinoza e la sua dottrina della felicità non c’è che un argomento inconfutabile: l’argomento ad hominem. Fu felice, Baruch Spinoza, mentre per far tacere la sua intima infelicità dissertava della felicità stessa? Fu libero? (ST, pp. 94-95).

Unamuno accusa la ragione – in questa comprendendo anche la teologia, la ricerca del fondamento razionale della fede – d’essere sofistica e ­avvocatesca (cf. ST, p. 89). Non credo di commettere ingiustizia ripiegando su di lui l’accusa. Cosa di più avvocatesco e sofistico di questo argomento ad hominem? A  parte l’arroganza di chiedere – retoricamente perché la risposta l’ha già data – se Spinoza fu felice. Che fosse libero – beh, questo Spinoza l’ha dimostrato con tutta la sua vita!

10 Cf. ST, p. 15. Il testo dell’Ethica edito da G. Gentile e rivisto da G. Radetti (Sansoni, Firenze 1963) riporta diversamente la proposizione VI della III Parte, citata da Unamuno, e cioè non: «quatenus in se est», bensì «quantum in se est».

12

124

Vincenzo Vitiello

Alla religione di Unamuno, tutta incentrata sull’haïssable moi, manca il sentire religioso che caratterizza la più elevata tradizione cristiana: il sentire di Agostino – «Vere tunc tibi adtendit, quando ipsum queris, non quando per ipsum aliud queris»11 –, di Angelus Silesius – «Uomo, se ancora rendi grazie a Dio per questo o quello, non sei ancora libero dai limiti della tua debolezza»12 –, di Kant – «Tutto, anche ciò che è più elevato, si rimpicciolisce nelle mani degli uomini, quando essi ne impiegano l’idea per il loro utile»13. Invero talora anche l’animo di Unamuno s’apre ad altro sentimento, più puro, del rapporto con Dio, e da questo si giudica, senza mentire a se stesso. Gli accade in poesia – e, vedremo, la cosa non è senza perché. Querría, Dios, querer lo que no quiero; fundirme en Ti, perdiendo mi persona, este terrible yo por el que muero y que mi mundo en derredor encona. Si tu mano derecha me abandona, ¿qué será de mi suerte? Prisionero quedaré de mí mismo; no perdona la nada al hombre, su hijo, y nada espero. «¡Se haga tu voluntad, Padre!» – repito – al levantar y al acostarse el día, buscando conformarme a tu mandato, pero dentro de mí resuena el grito del eterno Luzbel, del que quería ser, ser de veras, ¡fiero desacato!14

3 13

Tutto quello che leggiamo in Nietzsche e Unamuno sul primato del volere e sul corpo, lo troviamo già in Paolo – ma con segno inverso. Per Paolo non l’ascolto della legge ha valore, ma la sua messa in opera: ou gàr hoi akroataì

11 Commento al Salmo 76, 1-2, in Agostino, Commento ai Salmi, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori, Milano 19892, p. 236. 12 Angelus Silesius, Il Pellegrino cherubico, trad. it. con testo tedesco a fronte a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Edizioni paoline, Cinisello Balsamo (Milano), I, n. 91, p. 123. 13 I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blosse Vernunft, W, VI, Vorrede zur ersten Auflage, pp. 7-8; trad. it. con testo tedesco a fronte, di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 55. 14 «Vorrei, Dio, volere quello che non voglio; / fondermi in Te, perder la mia persona, / questo terribile io per cui muoio / e che il mio mondo tutt’intorno m’assale. // Se la tua mano destra m’abbandona / che sarà della mia sorte? Prigioniero / resterò di me stesso; non perdona / il nulla all’uomo, suo figlio, e nulla spero. // «Sia fatta la tua volontà, o Signore»| / mi ripeto sempre all’alba al tramonto / cercando di ubbidire al tuo volere, // eppure dentro di me risuona il grido / dell’eterno Lucifero, che voleva / essere, essere davvero, fiero oltraggio!», cit. da M. Zambrano, Unamuno, cit., pp. 100-101.

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

125

nómou díkaoi parà [tô] theô, all’hoi poietaì nómou dikaiothésontai (Rm, 2.13) – non gli ascoltatori della legge sono giusti davanti a Dio, ma coloro che attuano la legge saranno giustificati. Non il conoscere, ma l’agire vale. La parola stessa è azione. Paolo non scrive trattati, ma lettere per istruire le prime comunità di credenti nella fede, per costruire, correggere, rafforzare nella fede le prime chiese. Perciò esalta il valore edificante della profezia, del parlare agli altri nell’ekklesía, per e-ducarli, sulla glossolalia che è rapporto diretto, interiore dell’anima con Dio (I Co, 14). Del pari, Paolo esalta, contro gli gnostici, il valore del mondo e del corpo. Uno dei pilastri della sua predicazione è la resurrezione dei corpi: speíretai sôma psychikón, egheíretai pneumatikón (I Co, 15.44) – si semina corpo psichico, si risorge corpo spirituale. Ma ciò perché si semina in debolezza, en asthenía, si risorge in potenza, en dynámei (I Co, 15.43). È questo il punto fondamentale: per Paolo il corpo vale non per sé, ma come luogo di accoglienza del divino. La polemica antignostica non porta Paolo alla rivalutazione del mondo come tale, ma del mondo in quanto creato da Dio. Del pari, il potere della profezia, privilegiata rispetto alla glossolalia, da questa deriva. Il potere dell’uomo è solo per il potere di Dio, dal potere di Dio. La fede dell’uomo riposa nella fede di Dio: ek písteos eis pístin (Rm, 1.17) – dalla fedeltà di Dio all’Alleanza deriva la fede dell’uomo15, e così la giustizia, l’esser giusto, la giustificazione. In sé il corpo non ha valore alcuno, come non ha valore la scienza umana ed il potere umano, che sono follia ed impotenza per la Croce. E solo accettando sino in fondo l’inscienza dell’uomo e l’umana impotenza è possibile accogliere in sé la sapienza e la potenza di Dio. Paolo si dichiara insieme l’ultimo uomo e termine d’imitazione per i pisteúontes, i credenti, perché come uomo si è completamente svuotato di sé, e in questa e per questa kenosi è stato investito da Dio, invaso da Dio. Tutto quello che Paolo attribuisce a Dio, Unamuno – in ciò totalmente nietzschiano – attribuisce, nel Sentimento tragico della vita, a sé, all’io, al suo minuscolo io, che pretende estendersi all’universo e a Dio, ed anzi, con questa pretesa, si è già esteso. Possiamo dire sinteticamente: se Paolo eternizza il tempo, portando l’eterno nel tempo, Unamuno temporalizza l’eternità, estendendo il tempo all’eternità. E tuttavia… E tuttavia se ci fermassimo a questo, commetteremmo ingiustizia nei confronti dell’opera sua più nota. Ci sono pagine del Sentimento tragico della vita, nelle quali l’haïssable moi cede ad un più profondo sentire. Pagine nelle quali Unamuno narra la sua kenosi – e questa esperienza è tanto più importante e significativa, quanto meno è stata voluta, programmata. Un’esperienza che si è imposta da sé, sorta da un’aporia della ragione che si è tramutata in disperazione del volere, o, meglio, dell’anima tutta, ché investe il cuore e la mente, insieme. Per chiarire questo punto, dobbiamo di nuovo tornare a Nietzsche, al problema nietzschiano. 15 Così Karl Barth: «Dem Glauben enthüllt sich, was Gott aus Treu enthüllt» («Alla fede si svela ciò che Dio per fedeltà rivela»): Römerbrief, EVZ, Zürich 1940, p. 16.

14

126

Vincenzo Vitiello

4

15

Riprendiamo la critica di Nietzsche a Paolo, quella che tocca il carattere più proprio del messaggio paolino, il suo carattere operativo. La parola di Paolo – questo il nocciolo dell’obiezione nietzschiana – perde alla fine il suo valore performativo, in quanto si subordina al suo contenuto dottrinale. Paolo non ha la libertà della scepsi che caratterizza la reale, effettiva signoria del volere sul conoscere, dell’agire sul sapere16. Là è libero l’agire, il volere, dove nessuna dottrina lo condiziona, dove il sapere è solo il mezzo che la volontà volta a volta si sceglie per realizzare i suoi scopi. Ma l’obiezione si piega sul suo autore. Quando Nietzsche oppone a Paolo la superiorità della scepsi sulla verità, sul contenuto dottrinale, non dubita, non pratica la scepsi, ma oppone dottrina a dottrina, verità a verità: la verità della scepsi a quella della fede. Verità e non scepsi – ribadisco – dacché non un singolo determinato esercizio del dubbio, occasionalmente messo in opera da Nietzsche, è superiore alla dottrina paolina della fede, ma la scepsi qua talis, la scepsi in universale. La contraddizione performativa di Nietzsche è evidente. E Nietzsche non poteva non accorgersene. E se ne accorse. Lo testimonia la conclusione del suo itinerario di pensiero, che smentì l’iniziale affermazione del primato del volere e dell’origine illogica del logos (comprendendo in questo ragione e linguaggio)17. Dopo aver cercato di disarticolare la sintassi del discorso epistemico tradizionale, fondato sulla logica d’Aristotele, accostando elementi eterogenei ed allontanando somiglianze e affinità, senza però teorizzare altro o altri principi, ma praticando altre forme di linguaggio, dall’aforisma alla poesia, al parlare profetico – alla fine Nietzsche tornò al linguaggio tradizionale della dissertazione e del saggio18. Tornò a parlare aristotelice, prima di saltare, per un ultimo tentativo di redimersi dall’«umano, troppo umano», al di qua del linguaggio e della coscienza. Unamuno si trovò davanti al medesimo problema: se vita e ragione, prassi e logica son tanto distanti e, se accostati, contrastanti, com’è possibile portare a parola questo contrasto? A parola e a coscienza. O v’è una forma di coscienza che non ha bisogno della parola? E in tal caso, perché scrivere il Sentimento tragico della vita e non agire soltanto? Chi rispondesse, dicendo che lo scrivere è pur esso un agire, e che altro è l’atto logico – l’azione dello scrivere –, altro il suo contenuto – l’affermazione della potenza sconfortante e dissolvente della ragione –, per cui scrivere del potere negativo della ragione è già liberarsi da esso, mostrerebbe soltanto di non aver capito la domanda. Infatti, anche la distinzione tra l’atto della ragione ed il suo contenuto rientra Cf. F. Nietzsche, Der Antichrist, in Id., Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe (= KSA), Hrsgg. G. Colli und M. Montinari, dtv/de Gruyter, München/Berlin-New York 1988, 6, § 54. 17 Cf. F. Nietzsche, Ueber Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne, KSA, 1, pp. 873-890. 18 Cf. F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, KSA, 5, e gli scritti successivi. 16

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

127

nel contenuto dell’atto logico, per cui la stessa liberazione della ragione (l’atto dello scrivere) si fonda sul contenuto della ragione, smentendo così la pretesa ‘indipendenza’ della vita dalla ragione. L’aporia a cui conduce l’argomentazione di fondo del Sentimento tragico della vita è innegabile ed evidente. Unamuno non la cela affatto. Non cerca conciliazioni o, peggio, compromessi, per dirimere il conflitto tra ragione e vita, vita e ragione. Al contrario, intende fare di questo conflitto «la condizione della nostra vita spirituale» (ST, p. 103). Questo significa: Unamuno non si propone di sciogliere l’aporia, ma di farne esperienza sino in fondo, di giungere alla radice dell’aporia della ragione, che non è nella ragione ma nel volere: nella debolezza del volere, nell’impotenza della volontà. Il sentimento tragico della vita porta a parola questa impotenza vitale. Il suo nome è disperazione. La religiosità di Unamuno si è fatta più pura e sofferta. La disperazione libera in qualche modo dall’«io», dall’«io voglio», dall’io che vuole vivere in eterno; libera dalla volontà di vita e di eternità, perché proprio questa volontà cade nel vortice della disperazione. La disperazione non dipende dal volere, che dalla disperazione rifugge; tanto meno dalla ragione, se «uno stesso principio può servire a uno per agire, e a un altro per astenersi dall’agire» (ST, p. 122). Dipende da altro – e ciò che qui nominiamo «altro» non è un maschile, o un femminile, un Dio o una Dèa, è un puro, semplice neutro: l’ignoto «da cui» della volontà e della ragione, della brama di vita e del desiderio di morte; l’«ek» dell’ek-sistenza, l’origine, che ci vincola e pervade. La disperazione è il primo, fondamentale, essenziale momento dell’esperienza religiosa: il momento del passivo riconoscimento della nostra passività. Di quella passività che attraversa e domina tutt’intera la nostra esistenza: passività presente non meno nell’agire che nel patire. Passività, quindi, che pervade anche il nostro riconoscimento della nostra passività. In queste pagine del Sentimento tragico della vita Unamuno è prossimo a scoprire il senso vero del peccato originale, del peccato prima del peccato, prima del peccare – lui che del cattolicesimo aveva elogiato la «non angosciosa preoccupazione per il peccato» (cf. ST, p. 69), contro l’opposto atteggiamento del protestantesimo, per lui attossicato dal veleno della ragione. Prossimo a scoprire, ma non tanto da riuscirvi. È che per affrontare il problema del peccato originale ab imis è necessario entrare in un ambito, al quale Unamuno era e si sentiva sommamente estraneo, quello della teologia trinitaria, dalla quale soltanto è possibile ricavare qualche dilucidazione sulla radice non umana, ma divina del peccato. Rammento il giovanneo di’autoû panta eghéneto kaì chorìs autoû eghéneto oudè hén (Gv, 1.3) – da Lui è nata ogni cosa, e senza di Lui niente. L’autós qui evocato è il Lógos, non causa, ma condizione di possibilità del peccato19.

Sul tema rinvio a V. Vitiello, Il Dio possibile, esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002, P. I, III: La Trinità, il negativo e il male, pp. 73-97. 19

16

128

17

Vincenzo Vitiello

Per non avere avuto la forza speculativa di affrontare tale ambito di problemi, Unamuno rilegge l’esperienza religiosa in termini umani, troppo umani. La debolezza del volere e della ragione, la malattia sacra dell’uomo, la disperazione è interpretata in termini puramente psicologici, per cui tutto si riduce al racconto del «passaggio», che è invero un «salto», da questa alla compassione, all’amore, alla carità, alla speranza, alla fede. Invano si cerca una ragione di questo «passaggio» o «salto», del come e del perché avviene, quando avviene (ché certo non avviene sempre, né in tutti). L’alta retorica del Sentimento tragico non cela il carattere di moraleggiante parenesi di questa narrazione, nella quale accade d’imbattersi nella tesi che l’io e la sua brama di vita sono in Dio, come sua idea, parte minuscola della Coscienza Universale, e di leggere, insieme, che Dio è bisogno dell’io, creazione dell’io. Per cui è giocoforza riconoscere che l’idea dominante nel Sentimento tragico della vita è e resta quella dell’io voglio, del moi davvero haïssable per quella sua ostinazione nel voler durare, così come è, usque in aeternum. Contro il suo più profondo intento Unamuno finisce col teorizzare l’espe­ rienza della disperazione, l’esperienza della debolezza. Teorizza l’aporia, più che viverla – come s’era proposto. Ma quel che non gli riesce ­riflettendo en philosophe, gli riesce pensando da poeta. La parola del poeta è ciò che dice: l’aporia del rapporto-non-rapporto ragione/vita; è la sua passività, la sua impotenza; è la contraddizione in cui si dibatte, la disperazione che soffre. Nella sua prova più alta Unamuno non invoca, non prega, non parla da uomo a Dio, osa di più, molto di più. Mette in scena il dramma di Cristo. Un Cri­sto lacerato, doppio, non figlio di Maria, la Vergine Madre, ma di Maddalena, una Maddalena ospite di pie suore, che il suo figlio di terrestre, umanissimo peccato d’amore, accolsero come dono di Dio, come figlio di Dio. Questo Cristo – yacente de Santa Clara (Iglesia de la Cruz) de Palencia – presto nominato da Unamuno Cristo español, tutto terreno – ese Cristo de mi tierra es tierra –, è e non è Cristo. ¡Oh Cristo pre-cristiano y post-cristiano, Cristo todo materia, Cristo árida carroña recostrada Con cuajarones de la sangre seca, el Cristo de mi pueblo es este Cristo, carne y sangre hechos tierra, tierra, tierra! Y la pobras Franciscas del convento en que la Virgen Madre fue tornera – la Virgen toda cielo y toda vida, sin pasar por la muerte al cielo vuela – cunan la muerte del terrible Cristo que no despertará sobre la tierra, porque él, el Cristo de mi tierra es sólo tierra, tierra, tierra, tierra… cuajarones de sangre que no fluye,

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

129

tierra, tierra, tierra, tierra… ¡Y tú, Cristo del cielo, redimos del Cristo de la tierra20!

Il grido che chiude questa poesia non sorpassa l’aporia, non supera la contraddizione che su di sé si flette, dacché il Cristo invocato – el Cristo del cielo – non altra redenzione ha promesso che la perfezione, il compimento, la consummatio in unum: egò en autoîs kaì sú [páter] en emoì, hína ôsin teteleioménoi eis hén (Gv, 17.23) – io in loro e tu in me, affinché siano resi perfetti nell’uno. O, con le parole di Paolo: hótan dè élthe tò téleion, tò ek mérous katarghethésetai (I Co, 13. 10) – quando verrà il perfetto, ciò che è composto di parti (quod ex parte est) verrà rimosso. El Cristo del cielo – il Cristo di Grünewald, che incielandosi scolora nella luce del Padre – il Cristo che qui Unamuno invoca, cancellerà l’opera stessa da lui compiuta, la creazione, tà pánta, che – ricordiamolo – di’autoû eghéneto? Rammento ciò che Paolo annuncia ai fratelli di Corinto: ho kairòs sunestalménos estín – il tempo si è contratto –, parághei tò schêma toû kósmou toútou – passa (praeterit) la figura di questo mondo – (I Co, 7, 29, e 31). El Cristo de la tierra è, dunque, destinato alla fine? El Cristo de la tierra – non Unamuno. Non Unamuno soltanto. Tutti noi. Solo in questo e per questo fratelli di Cristo. Del duplice Cristo: de la tierra y del cielo. Ma l’Unamuno del Sentimento tragico della vita non osa queste domande. Non sopporta patire per molto tempo l’aporia; alla fine vuole risolverla. Cita Paolo: «Sarà tutto in tutti» dice l’Apostolo. Ma lo sarà in modo diverso in ognuno o nello stesso modo in tutti? Dio sarà tutto anche in un dannato? Non è forse nella sua anima? E anche nel cosiddetto inferno? E in che modo? (ST, p. 216).

Non sono domande. Sono già risposte. Invero aveva già risposto sin nel I capitolo del Sentimento tragico della vita (p. 18) alla domanda che, unica, in quest’opera, l’inquieta e l’angoscia: alla domanda che riguarda non l’inferno e le sue pene, ma il nulla, la morte senza resurrezione, dei corpi, dell’io, del singolo, determinatissimo io di Miguel de Unamuno – Cristo de la tierra, anch’egli. Il grido della poesia – ¡Y tú, Cristo del Cielo, redimos del Cristo de la tierra! – è allora il grido dell’io che vuole liberarsi dell’io? di Miguel de Una20 «Oh, Cristo pre-cristiano e post-cristiano, / Cristo tutto materia, / Cristo carogna arida e incrostata / di sangue secco coagulato: il Cristo / della mia gente è questo Cristo, carne / e sangue fatti terra, terra, terra. // Le umili francescane del convento / dove fu portinaia la Madre Vergine / – la Vergine tutta cielo e tutta vita / che senza toccar morte al cielo vola – / cullan la morte del tremendo Cristo / che non si sveglierà sopra la terra / perché Egli, il Cristo di mia terra, è solo / terra, terra, terra, terra… / coaguli di sangue che non scorrono, / terra, terra, terra, terra… / E tu, Cristo del cielo, / redimici dal Cristo della terra!» (P, pp. 166-167).

18

130

Vincenzo Vitiello

muno che vuole redimersi da Miguel de Unamuno, e che col grido e nel grido si è già redento? La poesia consente questa domanda. 5

19

La poesia. Solo la poesia? María Zambrano ha giustamente insistito sull’unità dell’opera di U ­ namuno, saggista, filosofo, romanziere, novellista, drammaturgo, poeta. E si tratta, ha scritto, di una «unità anteriore alla realizzazione delle sue opere» e «di natura distinta rispetto alla cosa generata» (op. cit., pp. 63 e 64). C’è da chiedersi, però, perché Unamuno ha sentito il bisogno di esprimersi in forme così diverse, e più ancora qual è la natura di questo bisogno. La ricchezza d’ingegno e di cultura è certo la precondizione di questa multiforme attività letteraria, ma non spiega la scelta, la decisione di impiegare tanta varietà di mezzi espressivi. Alla base v’è un’esigenza in senso proprio filosofica. Torniamo sull’esito fallimentare dell’esperienza nietzschiana della scrittura. L’abbandono di quelle forme di linguaggio estranee alla tradizione epistemica dell’Occidente – l’aforisma, il parlare profetico, l’intuizione poetica – che pure erano state intenzionalmente tentate per superare la distanza tra io e mondo, pensiero ed essere, parole e cose, ed il ritorno alla forma «aristotelica» della dissertazione, provano che quella distanza non poteva essere superata con un atto di volontà. Nonché essere dominus del mondo, il soggetto, l’io – l’io penso e l’io voglio – non era signore neppure di se stesso. Il fondamento d’ogni sapere e volere era solo una X, in sé inafferrabile. Al più poteva cogliersi nella pluralità delle opere. Ma era solo un presupposto scorgere nelle opere l’esplicazione dell’io, del Sé. Un presupposto che neppure Hegel era riuscito a provare, se dall’«assoluto contraccolpo in se medesimo» della setzende Reflexion non si esce se non con un atto d’arbitrio21. Non so quanto Unamuno avesse presente l’esperienza nietzschiana del linguaggio e la sua tragica conclusione – tragica perché ha condotto Nietzsche al salto finale nella follia; so però ch’egli prese il problema giusto nel punto in cui Nietzsche l’aveva lasciato cadere. Ma, a differenza di Nietzsche, lui non abbandona niente. Fa esperienza nel presente dell’anello del ritorno. Non di tutte le cose, che non gli era possibile, ma di tutti i linguaggi, gli stili. Per non cedere alla disperazione, riempì il vuoto dell’io dei mille colori del mondo, delle apparenze. Ovvero facendo appello all’esigenza di uscire dall’indeterminato. Sul tema, oltre al paragrafo sulla «riflessione ponente» della hegeliana Wissenschaft der Logik (G.W.H. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, 5-6, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1969, II, pp. 25-29), cf. D. Henrich, «Hegels Logik der Reflexion», in Id., Hegel im Kontext, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1975, spec. p. 128, e V. Vitiello, La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano 1994, cap. I: «“L’assoluto contraccolpo in se stesso”: la riflessione in Hegel», spec. p. 216, nota 11. 21

Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno.

131

Di qui la pluralità delle forme discorsive impiegate, senza che mai l’una prevalesse sino a impedire l’uso delle altre: il saggio, la narrazione, il dramma, la poesia – che per lui, don Miguel de Unamuno, sono soltanto segni o tracce, spesso contrastanti, non della verità, dell’essere, del mondo, ma della loro mancanza. Ogni forma del dire è, in sé, manchevole. ­Im-perfetta, ­in-compiuta. La contraddizione vita/ragione penetra in ogni termine della contraddizione, è contraddizione della contraddizione. María Zambrano ha visto in ciò la caduta del sogno creatore di don Miguel: «inventare, estrarre dai più profondi abissi del suo senso, da quel pozzo “delle oscure caverne del senso”, la parola bianca, pura come il cristallo, nata dal fondo più misterioso del suo sogno, libera, evidente, realtà viva per chiunque. […] Non ha raggiunto la semplicità: è rimasto il conflitto, i conflitti, in bella vista» (op. cit., pp. 73 e 75). A parte la parola bianca, pura come un cristallo, che ho qualche difficoltà a concepire come programma e mèta di Unamuno, mi sembra di poter dire che la Z ­ ambrano non pare essersi resa conto che proprio il «fallimento» da lei descritto – la non raggiunta semplicità, la permanenza del conflitto, dei conflitti – rappresenta il risultato più alto di Unamuno, che può ben ripetere con l’antico: bene navigavi, naufragium feci. A maggior ragione mi sento di contestare la successiva affermazione, in certo modo conclusiva, della Zambrano: Figlia del fallimento dei generi, della poesia perché non riesce a essere vera creazione, figlia del fallimento del suo pensiero, unico specchio adatto alla figura umana, alla sua umana nudità, la tragedia sarebbe stata espressione del suo pensiero tragico, del suo tragico cristianesimo, del suo romanzo suicida, della sua personale esistenza, della sua irriducibilità. // Ma non la fece mai. Forse non gli era possibile (ib., p. 73).

Unamuno la sua tragedia l’ha scritta. Ma non è una singola opera. Il vero teatro – tragico – di Unamuno è l’insieme delle sue opere. E i suoi veri personaggi sono: filosofia, romanzo, poesia, drammaturgia, anche teologia – per i quali possiamo ben ripetere quanto la Zambrano ha detto riferendosi ai personaggi e ai pensieri descritti ed esposti nella sua vasta opera narrativa, teatrale, poetica e saggistica, e cioè che «ancor prima che nascano […], è lui, Unamuno, a essere posseduto da loro» (ib., p. 65). Ma la scena in cui si svolge la tragedia resta in ombra, è l’ombra. Odi la voce, le voci degli attori, ma il luogo che tutti li accoglie – la vita pura? – non viene mai direttamente rap-presentata. È l’altrove che, pur quando nominato, resta altro. L’altrove che ti disloca. Una X che chiede sempre altra voce, altro nome, altro personaggio ed altra forma di parola, scrittura, linguaggio – per poi sottrarsi, negarsi a questa come alle altre tutte.

20

132

Vincenzo Vitiello

«Freilich, ist es seltsam die Erde nicht mehr zu bewohnen»22 – cantava in quel medesimo torno di tempo Rainer Maria Rilke. Non senza nostalgia. Anch’egli per gli dèi della casa, i Lari23. Che poi non tutti i personaggi della tragedia di Unamuno siano di eguale statura, e che non tutti gli attori recitino parimenti bene – è naturale. Il teatro si regge su queste disparità. E quello di Unamuno non fa eccezione. Va pertanto messa da parte la domanda su quale Unamuno – il filosofo o il drammaturgo, il romanziere o il poeta – sia il migliore Unamuno. Non ho nascosto la mia predilezione per il poeta; ma so bene che non è possibile apprezzare il poeta, senza il romanziere, il saggista, il drammaturgo; senza il filosofo. Senza il Sentimento tragico della vita – anche se mi è difficile celare il mio disappunto quando leggo che «non bisogna prendere troppo alla lettera, se non come effusione lirica, o meglio retorica, le parole del nostro celebre sonetto: «No me mueve, mi Dios, para quererte / el cielo que me tienes prometido» (ST, p. 72).

22 «Certo, è strano non abitare più la terra»: R.M. Rilke, Duineser Elegien, in Id., Werke, 6 Bde, Insel, Frankfurt/M. 19822I, Bd. 2, Die erste Elegie, p. 443. 23 Cf. la lettera di R.M. Rilke a Witold von Hulevicz, in Id., Briefe aus Muzot, Hrsg. R. Sieber Rilke und Carl Sieber, Insel, Leipzig 1936, p. 335.

Il vuoto e la parola. Il nichilismo e l’esperienza della parola in Miguel de Unamuno Pedro Cerezo Galán

Si è soliti definire Unamuno ‘spirituale’, annoverandolo fra quelli che – secondo le sue stesse parole – «ragionano col cuore, (perché) non tollerano la tirannia della scienza né quella della logica» (I, 1141)1, a differenza del tipo intellettuale, analitico e ragionatore. Lo si prende perfino come esempio, nella Spagna contemporanea, di homo religiosus, in costante lotta col mistero, al modo di Giacobbe con l’angelo, oppure come un uomo duplice, ad un tempo psichico e ‘pneumatico’, in conflitto con se stesso (I, 1226). Ed è a motivo di ciò che si è visto nell’agonismo la forma mentis unamuniana, in accordo con l’esperienza ontologica radicale del sentimento tragico della vita. Agonia è, come si sa, la passione di una vita che è in punto di morte, che sta letteralmente morendo, ma insieme si afferra alla vita, insomma: è la passione di una vita che si sforza di resistere all’assalto della morte. Donde viene questo impulso della vita a credere in se stessa, ossia ad affermarsi e ad aderire a sé? Tale agonismo si riflette, del resto, nello stile unamuniano, irto di paradossi, come il linguaggio della passione, di questa passione agonica della vita, che non si rassegna a morire, anche quando si sente tutt’uno con la morte. Si direbbe che nel gioco delle antitesi, nel chiasmo o intreccio dei contrari, nell’ossimoro di vita/morte, facendo della morte vita quando oramai la vita già si consegna alla morte, nella permanente antitesi di ri-nascita nel dis-facimento, si esprime la parola dell’agonia. Ma sappiamo anche, grazie alle fondamentali analisi di Carlos Blanco Aguinaga, che oltre e sotteso all’Unamuno agonico, esiste un Unamuno contemplativo, amante della tranquillità e della solitudine, inabissato nel silenzio e nella quiete, che si libera del tempo e della storia, nelle strane estasi, che siano esse del tutto o del nulla2.

1 Le opere di Unamuno saranno citate dalla edizione delle Opere complete, Madrid, Escelicer, 1966. 2 «Questo Unamuno, come vedremo, è per un verso ‘positivo’, nel suo affidarsi a Dio e all’idea dell’eternità, e per altro verso ‘negativo’, nella sua resa calma e rassegnata all’idea del Nulla

21

134

22

Pedro Cerezo Galán

Che rapporto hanno queste estasi con l’agonia della parola? Se la parola agonica è un palpito di coscienza nel tempo – «la pena di vivere sopportando il Tutto, tremando al cospetto del Nulla» (VI, 246) –, cosa è in gioco nelle parole «il tutto» o «il nulla»? come si intrecciano nella parola agonica il chiarore e l’ombra, il senso e il non-senso? E posto che l’agonia e il paradosso siano un intreccio di contrari, annunciano forse queste estasi il superamento dell’agonia, che, sia nella consumazione di una vita trasfigurata nella morte o nella consunzione, non è altro che morte, morte, morte? Alludono forse queste estasi, siano esse del compimento o della consunzione, alla coincidentia oppositorum, oppure rinviano alla vita del tutto o al nulla? Allude forse la parola del paradosso alla parola estrema del mito? Sono alcune delle questioni che guidano il presente saggio. Insomma, da quale sorgivo segreto scaturisce l’esperienza unamuniana della parola? Ci sono, per così dire, due situazioni originarie di scontro della parola con il vuoto: la prima parola, che sorge nell’abisso della tenebra, senza alcun antecedente, come la libertà pura del fiat lux, che istituisce il senso del mondo; e, in contrappunto, l’ultima parola, quella che sfida la morte, il nulla annichilente, come l’abisso del non-senso. Si dà una qualche connessione, implicazione, fra le due parole, fra il nulla creatore, possibilitante, e l’altro nulla, annichilente, che si annuncia nella morte? Secondo Unamuno, l’Unamuno contemplativo, la risposta risiede nel simbolo cristologico, nel Verbo della creazione e della incarnazione; nel gran mito, a suo avviso, dei tempi moderni, di una libertà che si eleva sull’abisso del nulla, che si svuota di sé per farsi mondo e si impegna con la sua opera fino a compiere il senso di questa commistione e svuotamento, nel corpo a corpo con la morte. 1. L’esperienza del nichilismo

23

Per iniziare, rileviamo quanto c’è di più ovvio ed evidente. L’esperienza spirituale di Unamuno ebbe il suo periodo d’incubazione nella crisi di fine secolo, che rese manifesto il malessere della cultura borghese, dipendente dall’impossibilità di conciliare le grandi attese riposte nel trionfo della scienza e dell’industria con le esigenze vitali della finalità e del senso dell’esistenza. Egli aveva vissuto, provenendo dal positivismo trionfante, «la fatica del razionalismo», come lui stesso la chiama, ossia: la stanchezza di una cultura intellettualistica che aveva prodotto il disincanto del mondo e lo ­s-radicamento dell’esistenza dalla sua tradizionale placenta di credenze. Tale cultura, incapace di giustificare se stessa dinanzi alla vita e di fondare la portata delle sue speranze, portava con sé un amaro raccolto di scetticismo e pessimismo. Il sentimento etico e poetico veniva, in tal modo, esiliato dal mondo, e lascia-

e della inutilità di ogni sforzo» (L’Unamuno contemplativo, Barcelona, Laia, 1975, p. 121).

Il vuoto e la parola

135

va, come segno del suo vuoto, uno stato morboso di inquietudine, disorientamento e vana agitazione. Era il decadentismo di fine secolo. Inizialmente Unamuno subì la tentazione di inserire questo decadentismo nel novero d’un atteggiamento estetizzante nei confronti della vita, impegnandosi – in accordo con Max Nordau – a criticarlo con estremo vigore: E questa miseria morale si è ridotta a mere formule, portando alla luce dottrine profondamente immorali. Gli uni seguono le chimere dissennate (nelle quali c’è, tuttavia, molto che è oro puro) del povero Nietzsche e del suo ‘superuomo’ (magnifica illusione qualora la si comprenda in maniera corretta); altri falsificano l’heroworship, il culto degli eroi di Carlyle, che sebbene avesse in sé un che di malato, almeno lo spingeva ad aver fede nei popoli eroici; altri scadono nel dilettantismo arbitrario di Renan, altri ancora in diverse fantasie ancor più insane. Se il lettore esamina con attenzione tutti questi fenomeni patologici della nostra fin de siècle – ai quali va aggiunto un soi-disant misticismo da ubriachi e morfinomani – riconoscerà che tutto ciò si deve all’oblio della dignità umana. (I, 974).

Ma poi, quando poté penetrare il fondo della crisi di fine secolo, comprese che si trattava di un fallimento della cultura dell’Occidente nei suoi fondamenti metafisici ed etici, e che la scienza, al pari della ideologia del progresso, altro non era che un surrogato vano e arrogante, che aggravava ancor di più il malessere della cultura. Egli stesso si era scagliato con piglio critico contro il dio logico della tradizione metafisica occidentale, contro lo spettro degli ideali progressisti e contro le utopie secolarizzate con le quali aveva riempito il suo vuoto la modernità illuminista. E neppure poté risparmiarsi l’esperienza annichilente del vuoto, che segna la sua crisi spirituale del 1897. Il crollo dell’antropoteologia moderna, così come la grande illusione del razionalismo, lasciava scorgere, in ultimo, il vuoto d’un mondo privo di fondamento: E la famosa maladie du siècle, che si annuncia in Rousseau e denuncia meglio di ogni altro l’Obermann di Sénacour, non era né è altra cosa dalla perdita della fede nell’immortalità dell’anima, nella finalità umana dell’universo. (VII, 284).

Unamuno chiama apertamente le cose con il loro nome. Il «male del secolo» non è altro che il nichilismo. Nel suo primo libro di Poesie del 1907, è facile rinvenire testimonianze di questa coscienza nichilista universale: «Tu anche morirai, morirà ogni cosa! / e nel silenzio infinito / dormirà per sempre la speranza» (VI, 174). Da qui scaturisce la questione capitale, che avvolge e condiziona l’esistenza: «Può esserci finalità, la dove, in ultima istanza, trionfa la morte? Perché dare senso e valore ad un mondo condannato al nulla?» Se moriamo del tutto, perché tutto? Perché? È il perché della sfinge? È il ‘perché?’ che corrode il midollo della nostra anima, è il perché dell’angoscia che ci offre l’amore della speranza. (VII, 134).

24

136

Pedro Cerezo Galán

Ogni intento di rispondere teoreticamente a questa domanda pre-suppone già la ragione come chiave del mondo. Però per Unamuno, come per Nietzsche, è la ragione della ontoteologia classica e dell’antropoteologia moderna ad essere andata a picco. Ciò che la storia dell’Occidente ha esperito è che la ragione non può ‘giustificare’ la vita, allorché quest’ultima si confronta con l’abisso del nulla. A tal riguardo c’è un testo molto significativo. Nel saggio «Il sepolcro di Don Chisciotte», premesso alla Vita di Don Chisciotte e Sancho, dopo aver fatto ad un amico l’apologia di una crociata idealista, donchisciottesca, contro la menzogna e la codardia morale, nella quale era impegnato lo stesso Unamuno in quel tempo, riceve dall’amico (che altro non è che la voce dell’amico interiore), questa secca risposta: Tutto quel che mi dici va molto bene; va bene, non va male: però, non ti sembra che invece di andare a cercare il sepolcro di Don Chisciotte e riscattarlo da baccellieri, curati, barbieri, canonici e duchi, dovremmo piuttosto andare a cercare il sepolcro di Dio e riscattarlo da credenti e miscredenti, da atei e deisti che lo popolano e, lanciando grida di altissima disperazione, sciogliendo il cuore in lacrime, sperare che Dio resusciti e ci salvi dal nulla? (III, 59).

25

Terribile paradosso: il sepolcro di Dio è vegliato dai credenti e dagli atei d’ufficio, vale a dire: da tutti coloro i quali per diversi e opposti motivi – come nella leggenda del «grande Inquisitore» di Dostoevskij – non vogliono che torni. Gonzalo Soberano, nella sua dettagliata e ben documentata ricerca su Nietzsche in Spagna, ha mostrato, con ampia comparazione di testi, che l’intento, il tono e lo stile di questa crociata donchisciottesca del saggio preliminare sono pienamente zarathustriani3. Se le cose stanno così – come credo – il testo finale con il consiglio dell’amico, il buon amico interiore, segnala, al contempo, una affinità e una distanza di Unamuno nei riguardi di Nietzsche: «tutto quel che mi dici va molto bene, va bene, non va male» – si noti il tono decrescente nell’apprezzamento e nell’entusiasmo dell’amico – però decisivo non è il sepolcro di Don Chisciotte bensì quello di Dio stesso. Al modo di Nietzsche, Unamuno imposta giustamente la questione in tutta la sua radicalità, che non è etica né politica, bensì ontologica: la morte di Dio, e con esso la tentazione quietista di abbandonarsi passivamente al nulla oppure di annichilire attivamente, compulsivamente, un mondo privo di senso. Si impone, dunque, un’evidenza storica: Unamuno ha vissuto e voluto affrontare il fenomeno del nichilismo. È per questo che la sua parola suona alle nostre orecchie come l’ultima risonanza, con accento spagnolo, della sensibilità romantica, in un tempo già ghermito dall’ombra lunga del nichilismo. Tuttavia, 3 «Si potrebbe dire – conclude G. Soberano – che questo portabandiera evangelico che è qui Unamuno, risulta una replica, consapevole o meno, di Zarathustra, che s’incammina per città e campagne circostanti, in cerca di amici che lo seguano fino alla sua montagna. Questa montagna, in Unamuno, è – con reminescenze cristiane e giacobee – una stella che annuncia un sepolcro-culla» (Nietzsche en España, Madrid, Gredos, 2004, p. 297).

Il vuoto e la parola

137

al contempo, con una rettifica fondamentale. La posizione unamuniana, a partire dalla crisi spirituale del 1897, è ben nota: bisogna resuscitare Dio, è questo il grido ossessivo di tutta l’opera di Unamuno, ma non mediante un discorso restaurativo, ricadendo nella metafisica ontoteologica o nella fede dogmatico/positiva, ma mediante la rigenerazione della parola simbolico/religiosa. Al centro di questa agonia, lo si vede invocare, una ri-nascita in spirito e verità, con una parola nuova, libera dai vincoli necessitanti della logica; per aprire, dal fondo della disperazione, un cammino creativo e un barlume di speranza. E così, in quel cataclisma spirituale del 1897, smuovendo così profondamente la propria interiorità, si incontrò con una parola intima, celata sotto l’alluvione del suo iniziale scientismo, una parola che iniziò ad emergere, come il sangue dalla ferita: la parola della poesia4. 2. La parola/mito Ricordava Ortega che «fra il 1790 e il 1830 predominano in Europa il poetico e il politico» (OC, VIII, 39)5. Sono le due radici della cultura romantica che, tardivamente, fioriscono come un timido fiore nell’anima desolata di Unamuno. Il poetico significa anzitutto, per Unamuno, fede nella parola creatrice, la parola che crea il senso dal nulla. «Ed è una parola che pensa, sogna, crea da se stessa» (VI, 948). Il politico, impegnato nell’azione trasformatrice della parola. Se il poetico discopre un orizzonte di mondo, la politica lo incarna e lo pone in opera. «Che la politica è poesia e la storia è dramma. E tutto il resto… letteratura accademica!» (VII, 819). E non a caso invoca la libertà in termini quasi religiosi, come l’incarnazione di un destino eroico: Scendi dal cielo, sacra Libertà, fatti carne nel seno della Terra, e fra dolore e sangue un giorno radioso nascerai per noi intera6.

Fra il poetico e il politico, o a dir meglio, al fondo di essi, come loro ter­ reno di coltura, c’è il misterioso e l’enigmatico, un ordine di realtà che pertanto non si lascia penetrare o sondare dalla ragione raziocinante, quella del calcolo e della misura: e reclama, per questo, la parola sperimentale del poeta e l’azione del profeta/politico. Questi tre tratti ci consentono di identificare

4 Unamuno è stato un poeta tardivo, a partire dal 1907. Ma le sue poesie mostrarono che la maggior parte delle sue intuizioni erano di origine poetica ed erano incise in versi nella sua memoria viva. Si mostrava in tal modo la priorità fondamentale della parola poetica sulla parola del saggista e perfino dell’agonista. 5 José Ortega y Gasset, Obras Completas (= OC), Madrid, Revista de Occidente, 1966. 6 «Baja del cielo, Libertad sagrada, / házte carne en el seno de la Tierra, / y entre dolor y sangre un día hermoso / nos nacerás entera» (VI,207).

26

138

Pedro Cerezo Galán

la nuova parola di Unamuno, a partire dai tre saggi del 1900 – «L’ideocrazia», «La fede» e «All’interno» – nei quali si mostra, per la sua opera, in linea con il secolo, accanto a quella di Kierkegaard e Carlyle, la crescente influenza di Nietzsche7. I tre saggi sono una appassionata denuncia del dogmatismo intellettualista e, per converso, la proclamazione di una fede nella libertà e nella parola creatrice. Perché tieni conto che solo l’avvenire è regno della libertà, perché è così che qualcosa si cala nel tempo, e resta avvinghiato alla sua catena. (I, 950).

Tanto l’ideoclastia o l’atteggiamento del frantuma-idee nella sua critica all’«Ideocrazia» – perché l’unica «idea viva» è l’uomo, ogni uomo –, quanto la nuova fede nella vita e nel suo potere rigenerante, così come si mostra nel saggio «La fede», oppure nell’esercizio dell’interiorità creatrice che viene proposta in «All’interno», presentano inequivocabili tracce nietzscheane. La svolta è radicale: dalla verità logica o razionale, Unamuno salta, al modo di Kierkegaard e Nietzsche, alla verità esistenziale o poetica: Idee vere o false, dite? Tutto quel che eleva e intensifica la vita si riflette in idee vere, che sono tali in quanto ne sono il riflesso, e in idee false tutto ciò che la deprime e la svilisce (…) (I, 958).

27

È la creazione della fede, non di una fede morta e pietrificata in dogmi, ma di «una fede viva, perché la vita è continua creazione e consumazione e, pertanto, morte incessante» (I, 962). Vita come energia creatrice, fede nella fede come adesione al fondo creatore della vita e verità come sostegno della vita, formano la nuova trama di un atteggiamento antiintellettualista e antipositivista, insomma: poetico, che vuole rinvenire una nuova parola, fedele all’istinto della vita. Questa sarebbe la parola originaria della libertà creatrice. Unamuno non ebbe a dubitare, come il Faust di Goethe, chiedendosi se al principio fu la parola, il senso, la forza o l’azione. Al principio era la parola, che al medesimo tempo è vita e forza e azione. La parola ‘Accadimento’, che

7 Nel 1896, Unamuno confida al suo amico Pedro Mújica di star leggendo Nietzsche, fra gli altri autori che definisce dell’«anarchismo trascendentale». Dall’inizio del secolo, e specialmente fra il 1904 e il 1907, si percepisce una intensa presenza di Nietzsche nell’opera unamuniana. L’affinità stilistica è ben nota nell’inclinazione a pensare con tutto il corpo e ‘col martello’, così come nell’aria diretta, provocatoria e ‘con-vissuta’ dei suoi saggi. Condividono persino un medesimo stile esistenziale, ribelle e anarchico. Quanto alla tematica, ci sono evidenti analogie relativamente a questioni come l’idea di creazione, credere/creare, la necessità della finzione per la vita, la virtù che dona, l’eternità/istante. Gonzalo Soberano dà un ampio saggio di tali affinità e corrispondenze senza mancare di segnalare anche le loro profonde differenze, in relazione al cristianesimo (Nietzsche in Spagna, cit., pp. 282-286). Balza agli occhi, in effetti, la radicale differenza del cristianesimo passionale di Unamuno in confronto all’anticristianesimo di Nietzsche o, per dirlo simbolicamente, nella decisione per il Crocifisso o per Dioniso, rispettivamente: la vita come trasfigurazione nella morte o come eterno ritorno.

Il vuoto e la parola

139

scaturisce dal vuoto, senza precedenti ragioni, in quanto atto di libertà, e si dirige fuori, verso il vuoto, come un lampo di luce. Una parola che non ha bisogno d’essere specchio del mondo per aver senso, ma ‘lampada’ meravigliosa che lo illumina da sé, ossia che produce da sé i suoi archetipi. «Poetare è generare» (dichten ist zeugen) – diceva Novalis, la luce vitale che genera le forme, o come dice Valle Inclán, «la luce è il verbo d’ogni bellezza»8. Al che Unamuno può aggiungere: «e ciò che crea è la parola e non l’idea» (VI, 948); vale a dire, non l’eidos bensì il pneuma o alito vivificante, «ché se l’idea è idea, la parola è spirito» (id.). Ed è risaputo che ci si rappresenta lo spirito come vento igneo di libertà, che nel suo volo tutto travolge e trasforma. Ebbene, questa parola creatrice e trasformatrice non è altro che mito. Già Nietzsche aveva rimarcato che l’orizzonte di ogni cultura viva è costellato di miti. Mito è la leggenda nella quale si raccoglie e rammemora l’evento originario. Nel mito risuona, dunque, la parola istituente, quella che fonda il senso e il valore e, al contempo, la parola che dischiude i sentieri della storia. Il mito è tanto rivelazione poetica quanto fondazione politica. «Ogni parola, se è viva – dice Unamuno – è un fatto vivo, ed ogni fatto vivo è parola» (IV, 455). Dietro l’apparente tautologia, con il suo effetto retorico di reiterazione, si riafferma l’intuizione che la parola, se è veramente parola, e non un mero flatus vocis, vivifica e, in quanto tale, produce effetti, genera fatti e azioni, così come vale anche la reciproca, che ogni azione, in quanto fonda e trasforma, è già parola, ossia, racchiude un senso per la vita. Il mito è, dunque, la parola viva, sempre sul punto di significare e, al medesimo tempo, l’azione insorgente, potere attivo dagli effetti inesauribili. Nómina/númina, i nomi sostantivano e sostanzializzano, pensa Unamuno: sono la cosa stessa in persona. «Nominare è conoscere, e per noi, è fare la cosa, farla nostra» (I, 117). Ed ogni cosa effettiva porta il suo nome, come scrigno del suo senso. I nomi custodiscono potenze numinose e, all’inverso, andrebbe detto: numina/nómina, ogni potenza, in quanto si fa valere e produce effetti, è di per sé significativa. Il senso è la primaria e radicale necessità della vita umana, alla quale corrisponde la funzione del mito. Henry Bergson ha ben colto la forza animatrice del mito, nella sua funzione di preservare la vita contro gli effetti dissolutivi e inibitori derivanti dall’eccesso di riflessione9. La mitopoiesi agisce sulla coscienza del limite, e cioè: sulla esperienza della precarietà dell’esistenza, condannata a un tempo di frammentazione e di smarrimento e forata dalla cavità della morte. Ma questo significa che l’esperienza originaria della parola, così come la registra il mito, è sempre circondata da un alone d’ombra. Creiamo senso perché ne abbiamo bisogno per poter vivere, per proiettare nel tempo e a ritroso quello che aspiriamo ad essere, per aprire un orizzonte di valori e preservarlo contro il potere devastatore del tempo e La lampada meravigliosa, in Opere scelte, Madrid, Aguilar, 1958, p. 688. Le deux sources de la morale et de la religion, in Œuvres, Ed. du Centenaire, Paris, Puf, 1970, p. 1150. 8 9

28

140

Pedro Cerezo Galán

della morte. Così come ha mostrato Leszeck Kolakowski, all’esperienza del non-senso, dell’assurdo e del fallimento che sembrano annunciare la rovina definitiva, la caducità universale, il mito replica con il rinnovamento della vita e con la sua fondazione di senso e valore, con la sua fede nella totalità e pienezza della vita. Si tratta, insomma, della «necessità di vivere il mondo dell’esperienza come pieno di senso»10. Di modo che il mito ristabilisce il vincolo con il sacro originario ed in ultimo produce «atti per l’affermazione di valori»11, necessari per il sostentamento della vita. Il mito sorge, pertanto, dalla congiunzione del sentimento, in quanto esperienza di ciò che è veramente e ultimamente necessario, con l’immaginazione creatrice o fabulazione costruttiva, che dirime i modi della soddisfazione e gratificazione simbolica del desiderio. Si comprende così come Unamuno possa scrivere che «i grandi pensieri provengono dal cuore» (III, 880), non appartengono all’ordine logico o epistemico, che è esplicativo, ma piuttosto all’ordine autotelico di dare finalità umana all’universo, ossia di «concepirlo» (nel senso forte di generare), in accordo con le esigenze intrinseche (di senso e felicità) del cuore umano. Dare finalità umana all’universo presuppone, pertanto, un re-incantamento poetico ed etico del mondo, inteso come mondo ‘significante’, o in permanente atto di significazione, in accordo con una Coscienza universale. È, dunque, l’istinto d’animazione, per utilizzare l’espressione vichiana, l’artefice del mito, vale a dire: la proiezione dell’anima – le sue aspirazioni, esigenze e sogni – nella sostanza universale, divenuta essa stessa anima, come specchio dei suoi propri abissi interiori. Fantasticherie mitologiche! – si dirà. Né come altra cosa li stiamo pensando. E tuttavia: forse che la fantasticheria mitologica non contiene una sua verità? La fantasticheria e il mito non sono forse rivelazioni di una verità ineffabile, di una verità irrazionale, d’una verità che non può esser provata? (VII, 260).

29

Forse sarebbe più giusto parlare di una verità ‘del cuore’ che appartiene all’ordine morale, e perciò non può esser provata, ma si verifica nell’atto stesso di porsi in opera. Il mito non è una via di fuga per dare un taglio, con un «bel rischio» – come nel platonismo – alle aporie e inquietudini della ragione, bensì la parola che sopporta tutto l’ordine di significazione vitale. «Tutto il resto è ragione, e vivere la verità – scrive Unamuno con accenti che ricordano Nietzsche – è più profondo che avere ragione» (I, 958), perché la vita di un io non è un caso singolare spiegabile in base ad un ordine razionale, ma una poesia del tempo, che necessita di un principio interiore d’ispirazione, per insufflargli senso:

10 11

La presencia del mito, Madrid, Cátedra, 1990, p. 14. Ibidem, 17.

Il vuoto e la parola

141

La tua vita è, al cospetto della tua coscienza, la rivelazione continua, nel tempo, della tua eternità, lo sviluppo del tuo simbolo: scopri te stesso operando. Avanza, dunque, nelle profondità del tuo spirito, e scoprirai ogni giorno nuovi orizzonti […]. Quando la vita è profonda diviene poesia di ritmo continuo e ondeggiante. Non incatenare il tuo fondo eterno, che si dispiega nel tempo, ai suoi fuggitivi riflessi. (I, 948).

Il ricorso al «fondo eterno» rovescia una impostazione meramente ‘temporalistica’. C’è un punto-istante, l’eternità nel tempo, nel quale quest’ultimo si concentra su di sé, nella sua pura interiorità, e quanto più profonda sarà la condensazione nel suo centro originario, tanto più alta è la sua proiezione nell’avvenire del senso. «Si ha fede solo nell’avvenire, solo nella libertà» (I, 950). Non sarà forse questa la conversione, nell’uomo interiore, di ciò che Unamuno aveva chiamato in precedenza «le chimere dissennate (nelle quali c’è, tuttavia, molto che è oro puro) del povero Nietzsche e il suo ‘superuomo’ (magnifica illusione qualora la si comprenda in maniera corretta)»? 3. Il simbolismo cristologico Ma, se la poesia o il mito sono la voce della primaria incoscienza che ­ recede la riflessione cavillosa, la religione è l’altra poesia della restaurazione p del senso dopo il disinganno critico. «Il mondo vuol essere ingannato, mundus vult decipi – ripete Unamuno –, o con l’inganno di ciò che precede la ragione, che è la poesia, o con l’inganno di ciò che avviene dopo di essa, che è la religione» (IV, 497), sentenza che fa il paio con la nietzscheana «la vita ama la finzione», vive del farsi illusioni e arma di esse il proprio destino. «E quanto alla religione – afferma Unamuno – essa scaturisce da una mitologia, e mito vuol dire parola» (IV, 497). La parola/mito originaria sfocia così in una parola poetico/religiosa. La religione, per Unamuno, è una parola di salvezza, che crea senso, un senso integrale, da e contro il nulla, e che al contempo vivifica. La religione è la potenza animatrice del mondo, dal momento che trae alimento dalla reciproca implicazione di verità e vita – una verità viva, attiva, capace di giustificare la vita, allo stesso modo in cui una vita è presa dal desiderio di scrutare il mistero, e non di ottundersi all’ombra di un credo dogmatico. La religione unamuniana transustanzializza poeticamente ed eticamente il mondo, facendone un mondo ‘significante’, da e per la coscienza, in contrapposizione al disincanto oggettivista della tecnoscienza. Di qui la ragione per cui essa non è contemplazione, bensì lotta per la pienezza di senso della vita. La mia religione è cercare la verità nella vita e la vita nella verità, pur sapendo che non c’è possibilità di rinvenirla finché vivrò: la mia religione è lottare inces-

30

142

Pedro Cerezo Galán

santemente e instancabilmente con il mistero; la mia religione è lottare con Dio dal sorgere dell’alba fino al calar della notte. (III, 260).

Alla fine del Sentimento tragico della vita, partendo dalla classificazione valoriale di Croce delle sfere dello spirito, insieme alla logica, l’estetica e l’etica come discipline normative, Unamuno attribuisce alla religione l’«economia trascendente», il grado dell’«edonico trascendentale», nella misura in cui riguarda un valore di salvezza, di autoaffermazione della coscienza individuale: Ma questo grado economico non è, al fondo, altro che l’insorgenza del religioso. Il religioso è l’economico o l’edonico trascendentale. La religione è un’economia o un’edonistica trascendentale. Quel che l’uomo cerca nella religione, nella fede religiosa, è salvare la sua propria individualità, eternizzarla, cosa che non si consegue né con la scienza, né con l’arte, né con la morale. Né scienza, né arte, né morale hanno bisogno della nostra fede in Dio, ciò che esige Dio è la religione. (VII, 295-6).

31

Edonica, in quanto relativa alla eudaimonia dell’uomo, ossia alla soddisfazione dell’interesse trascendentale nella autoaffermazione e preservazione della sua coscienza, il che introduce anche una esigenza universale come l’eternizzazione della vita e della coscienza. Si può facilmente notare che il mito che persegue il cuore di Unamuno, come il centro della significazione viva della sua opera, è l’elemento cristologico, la memoria di una Parola mediante la quale il mondo stesso è stato fatto, e che, a propria volta, dimora in esso o si rende presente in esso per condurlo al suo compimento nella apokatástasis o anacefaleoisis, ossia nella finale ricongiunzione in Dio, attraverso Cristo, di ogni creatura. È risaputo che il mistero cristologico agisce come il centro simbolico di tutto l’idealismo tedesco. Ma in Unamuno non si tratta di portare a compimento una conciliazione speculativa, al modo della logica hegeliana, bensì, al contrario, una ri-creazione ‘cordiale’ ed esistenziale del simbolismo cristologico, come fuoriuscita poetica dal discorso onnicomprensivo della ragione. Anche come alternativa all’‘oltreuomo’ nietzscheano, al quale Unamuno contrappone l’«intra-uomo» cristiano12, il cui archetipo è Cristo.

12 Curiosamente, nella prima citazione di Nietzsche, in un appunto precoce del Diario intimo (1897), e con un tono sufficientemente provocatorio, traspare la differenza tra i due archetipi – l’oltreuomo e l’intra-uomo – annunciando una linea di continuità nella sua opera: «Il sopra-uomo, Übermensch. È il cristiano. “Siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli”. Il povero inventore del sopra-uomo è idiota, nuovo Nabucodonosor. Il naturalismo sfocia nell’indiarsi, nell’unico di Max Stirner, il sopra-uomo di Nietzsche, finisce nel nichilismo. Egoismo e nichilismo sono cose che finiscono per identificarsi» (VIII, 800). È molto suggestiva l’indicazione di G. Soberano secondo cui la fusione del sopra-uomo e dell’intra-uomo è individuata da Unamuno nella figura cristiana di Don Chisciotte (Nietzsche en España, cit., p. 298).

Il vuoto e la parola

143

Perché questo uomo futuro, questo sopra-uomo di cui parlate è altra cosa dal perfetto cristiano che, come farfalla futura, dorme nelle cristiane larve o crisalidi di oggi? Sarà altra cosa dal perfetto cristiano questo sopra-uomo qualora rompa il bozzolo gnostico in cui è imprigionato ed esca dalle tenebre mistiche nelle quali aborre il mondo, il mondo di Dio, ed in cui forse rinnega la vita, la vita comune? Allora la natura diverrà grazia. (I, 965).

Come si comprende, l’interrogativo è puramente retorico. Per Unamuno, un cristianesimo liberato dalla veste intellettualistica gnostico-platonica, dall’odio per la carne, e riconciliato con il mondo, è seme di una futura rinascita dell’uomo, ossia di un oltre-uomo. Questo ideale cristiano è l’espressione del Verbo incarnato, e della promessa di un Dio per l’uomo. «Allora – conclude Unamuno – la natura diverrà grazia», vale a dire: sarà cancellata la frontiera che separa il naturalismo e il ‘soprannaturalismo’, perché la carne sarà già trasfigurata e l’idea umanizzata: La fede cristiana si fonda nel Cristo del Vangelo, e non in quello della teologia, si presenta a noi e ci conduce così al Dio vivo, cordiale, irrazionale o, se volete, sovrarazionale o intra-razionale, il Dio dell’imperativo religioso, e non il sommo concetto astratto costruito dai teologi. (I, 965)

È questa, insomma, la religione della parola creatrice, che per eccesso di vita si eleva sull’abisso, per produrre il mondo dal nulla, ma è anche la religione della parola fatta carne, impegnata nella sua opera fino alla contesa con la morte, per dar prova che il suo senso trasforma la propria morte in fonte di vita. Si tratta dell’unico mito capace di sostenere nel suo sforzo la parola agonica, sul margine stesso del nulla, del rischio della sua caduta e­ ntropica nella dissoluzione o nella disperazione. Cristo significa, per Unamuno, la coincidentia oppositorum, la sintesi finale della vita e della morte, del finito e dell’infinito, dell’eterno e del tempo. La fede in questa parola salva l’agonismo dalla tentazione del quietismo e dal potere devastatore della morte: Molto spagnolo Molinos, certo – replica Unamuno – e non meno spagnola questa paradossale espressione di quietismo o ancor meglio di nichilismo – giacché lui stesso, altrove, parla di annichilamento – però non meno, se non forse più spagnoli i gesuiti che lo combatterono, armando i tribunali del tutto contro il nulla. Perché la religione non è anelito d’annichilirsi, ma di totalizzarsi, è anelito di vita e non di morte. (VII, 238).

4. «La brama di più vita» Il mito, a propria volta, in quanto azione paradigmatica, che fonda senso, è progenitore della metafisica, di quel sapere che eccede e trascende il dato. Non si tratta di una metafisica come sistema esplicativo di ragioni, bensì della meta-fisica come ordine giustificativo del senso. Per questo Unamuno la

32

144

33

Pedro Cerezo Galán

chiama met-antropica (VII, 292), in quanto riflette su e si prende cura del destino umano. Per il primo Unamuno positivista, la fisica è il regno del determinismo, ma nella meta-fisica, ossia nell’ordine del noumenico, ha inizio, in senso proprio, la libertà. «Il più metafisico è forse il più poetico» (III, 380), dice uno dei personaggi di un ‘autodialogo’ di Unamuno, perché l’enigma del nostro destino – «chi sono io, che ne sarà di me» – stupisce e, al contempo, stimola ad interrogare e cercare, liberando così il cuore umano dalla schiavitù della logica. «O viceversa – replica l’altro – tutto è poesia. E la suprema poesia corrisponde a questa infinita libertà di sognare quel che non sarà» (ib.) ossia: creare senso in contrapposizione alle evidenze fattuali o empiriche, e contro il vincolo della necessità: il tempo, lo spazio e la logica. È il mito di una libertà trascendentale, creatrice, che produce il senso dal nulla (da ogni precedente determinazione) e lo assicura contro il nulla del suo annichilimento. In molteplici occasioni Unamuno ha fatto riferimento a questa simbiosi del poetico, del politico e del religioso come stigma della sua filosofia. Lo confessa in maniera molto esplicita in una lettera a Juan Zorilla Sanmartín: «Io non sento la filosofia se non poeticamente, né la poesia, se non filosoficamente. E, prima di tutto e soprattutto, religiosamente». Si rinviene in tal modo, nella sua opera, una strana circolarità fra mito e metafisica. Da un lato, il mito cristologico è la fonte d’ispirazione della ‘metantropica’ unamuniana; ma dall’altro, la filosofia unamuniana si presenta come un sapere esperienziale – le riflessione sulla tragedia della vita – che va incontro alla fede religiosa cristiana e si sente in accordo con essa. Metafisica non intellettualistica, ma piuttosto volitiva, esigenziale. Chiaramente, essa si articola non mediante l’artificio dei concetti – come è proprio di ogni metafisica raziocinante – ma pratico/volitivamente, facendo pensare al sentimento. «Nel punto di partenza, nel vero punto di partenza – quello pratico, non teoretico – di ogni filosofia, c’è un ‘perché?’» (VII, 126). La questione non è, dunque, perché c’è mondo ma per cosa c’è. Ed ogni «per cosa» rinvia all’anima e al suo destino personale, là dove si pone in gioco il senso del mondo. Unamuno annoda ora espressamente le due questioni racchiuse nel nichilismo: la perdita della convinzione nella immortalità dell’anima e nella mancanza di finalità dell’universo. Ma, al contempo, la volge all’inverso, nel momento stesso in cui mostra la loro interna connessione e solidarietà. Detto sommariamente: «se l’anima umana è immortale, il mondo è economicamente ed edonisticamente buono; e se non lo è, è cattivo» (VII, 296). Giustamente, Unamuno riconosce che tanto Leibniz come Schopenhauer hanno saputo impostare la questione metafisica alla luce di questa ‘edonica trascendentale’: Tutto l’ottimismo metafisico, come quello di Leibniz, o il pessimismo d’eguale ordine, come quello di Schopenhauer, non hanno altro fondamento. Per Leibniz, questo mondo è il migliore, perché concorre a perpetuare la coscienza e con essa la volontà, perché la coscienza accresce la volontà e la perfeziona, perché il fine dell’uomo è la contemplazione di Dio; e per Schopenhauer questo mondo è il

Il vuoto e la parola

145

peggiore dei mondi possibili perché concorre a distruggere la volontà, perché l’intelligenza, la rappresentazione, annulla la volontà, sua madre. (VII, 255).

Ma, al contempo, entrambi hanno sbagliato nell’impostare la questione perché si sono mantenuti nell’ordine di una metafisica intellettualistica, attenta all’ordine della ragione. Sarebbe quindi il caso di interpretare ­Unamuno come il rovescio di Leibniz e Schopenhauer, trasposti nell’ordine ‘cordiale’. Leibniz soffocò la volontà, la libertà del volere, in un ordine di ragioni immutabile e necessario. Schopenhauer, al contrario, perché non conobbe la volontà personale, ma solo quella cosmica e vitale, la soffocò in una natura cieca, e fece ricorso, per liberarsene, a tutto il potere critico e ascetico della ragione. Se c’è, dunque, teleologia, questa non sarà razionale bensì volitiva, cordiale, pratica; e se la ragione teoretica disinganna la volontà, dovrà alimentare la sua aspirazione con la voce animatrice della fabulazione mitopoietica e con la fede morale. Al pari di Nietzsche, Unamuno si è opposto con analoga ostinazione tanto all’ottimismo metafisico della teologia naturale quanto al pessimismo passivo e alla volontà di vendetta di Schopenhauer, basandosi sul fatto che entrambe le posizioni annullano l’impegno pratico della coscienza. In tal modo, à rebours di Leibniz e di Schopenhauer, Unamuno s’imbattè in un kantismo sui generis, insieme poetico ed etico, e con un esplicito fondo religioso. In tal modo, Unamuno rompe con una metafisica razionalistico-causale per accostarsi ad una «metafisica vitalista della sostanza» (VII, 241), intendendo la parola ‘sostanza’ nel senso di coscienza attiva e realizzativa, che fa essere, affermandosi contro il nulla, e quindi secondo un’accezione che rinvia, in ultima istanza, all’ordine della volontà. Non bisogna lasciarsi ingannare dalla parola «coscienza», frequente nell’opera unamuniana, e che niente ha a che vedere con il senso moderno, cartesiano, di un atto di rappresentazione. «Coscienza e finalità – afferma Unamuno – sono al fondo la medesima cosa» (VII, 116), dunque la coscienza è fondamentalmente volitiva, propositiva di fini; più ancora, autoteleologica, perché in ogni proporre e volere un fine, la coscienza si pone, vuole e afferma se stessa come fine. «La libertà è per noi – replica il liberale Unamuno – un ‘per cosa’, una finalità. Libertà affinché io sia me stesso. O meglio, per diventare me stesso. Ché già Pindaro diceva ‘divieni ciò che sei’» (VII, 1016). Ma, cosa significa questo «se stesso», in cui la libertà incontra il cardine del suo volere? In un breve saggio del 1906, che reca il significativo titolo «Il segreto della vita», Unamuno affronta in un modo provocatorio il problema della libertà umana. Comincia mettendo in relazione la libertà non tanto con il progetto di vita, che ognuno, più o meno riflessivamente, traccia in base alle circostanze, bensì con il compito, singolare e unico – lo si chiami vocazione o destino – di ciò che l’io interiore sente come il segreto del proprio essere. Tale segreto è la cifra della vera personalità. Tuttavia questo ego absconditus – come il ‘carattere intelligibile’ kantiano, con cui condivide alcuni aspetti – va scoperto in maniera ardua e dolorosa, dal momento che Dio lo ha posto nel

34

146

Pedro Cerezo Galán

profondo dell’anima, dice Unamuno, con «la vanga affilata della tribolazione» (III, 878). Accanto all’idea kantiana del duplice mondo: quello fisico, visibile o fenomenico e quello invisibile o noumenico, ossia il mondo interiore dello spirito, Unamuno si riferisce, in termini affatto singolari, alla necessaria in-versione dello sguardo per accedere alla libertà trascendentale: E se fosse possibile capovolgere il mondo e metterlo sottosopra, e portare alla luce le tenebre, trasferendo nell’oscurità ciò che emana luce, e dar suono a quel che tace, lasciando in silenzio quel che ha voce, avremmo allora davvero modo di comprendere e sentire quale povera e miserabile cosa sia ciò che chiamiamo legge, e dove alberga la libertà, e quanto lontano da dove la cerchiamo. (III, 879-880).

35

Sembra necessaria una profonda con-versione dall’io esterno, sociale o politico, che si basa sulle leggi, verso questo io absconditus, la cui legge è radicata nella sua vocazione. Di qui la strana e provocatoria affermazione unamuniana, «la libertà è nel mistero; la libertà è sottoterra; cresce all’interno e non all’esterno» (III, 880), che fa il paio con quest’altra: «le radici dei nostri sentimenti e pensieri non hanno bisogno di luce, bensì d’acqua […] acqua oscura e silenziosa […] acqua di quiete» (III, 879). La contrapposizione acqua/luce, e dentro/fuori lascia pensare che libertà non consiste, per ­Unamuno, nel libero arbitrio, alla luce di motivi o ragioni che ci espongano all’esterno, o nello spazio aperto della comunità politica; bensì nella fedeltà alla legge dell’io absconditus, come cifra del vero essere. E la radice, nella vita spirituale come in quella organica, pensa Unamuno, appartiene al regno dell’acqua, della meditazione quieta e silenziosa, dell’essere assorti nel mistero, laddove il fogliame, il fiore e il frutto, necessitano d’aria e luce, ossia di farsi parola e ragione comunicabile. È per questo che non hanno particolare rilievo i motivi razionali, i propositi e le pianificazioni di quel che facciamo, e tanto meno le leggi, secondo le quali regoliamo la nostra condotta, bensì i moventi ‘cordiali’ o le esigenze interne di quel che profondamente vogliamo essere, o, come direbbe Ortega y Gasset relativamente alla vocazione: che abbiamo necessità d’essere. Quasi alla fine del saggio, irrompe la questione: c’è anche un segreto della vita umana in quanto tale, ossia, una vocazione generica dell’uomo di cui partecipa, con il suo profilo specifico, ogni figura individuale d’esistenza? La risposta unamuniana costituisce la tesi centrale della sua ‘metantropica’: E il segreto generale della vita umana, la segreta radice da cui tutti gli altri scaturiscono, è la brama di più vita, è il furioso e insaziabile anelito d’essere tutto il resto senza cessare di essere noi stessi, di impossessarsi dell’intero universo senza che l’universo s’impossessi di noi e ci assorba; è il desiderio d’essere altro senza smettere d’essere io, e continuare ad essere io essendo al contempo altro; è, in una parola, l’appetito di divinità, la fame di Dio. (III, 884).

Il vuoto e la parola

147

Non è necessario sottolineare che per vita non si intende qui l’ordine biologico, bensì quello personale di diventare un’anima. «Non è istinto di conservazione quello che ci muove ad operare, ma istinto d’invasione; non tiriamo a campare, ma ad esser di più, ad esser tutto. […] Chi non sente la brama di essere di più finirà per non esser niente. O tutto o niente!» (I, 1131). Volontà famelica, appetito di divinità, istinto d’invasione, conatus, sono le varie formule impiegate per esprimere questo dinamismo fondamentale della coscienza verso un di più di vita. Si comprende così il rilievo dato da ­Unamuno alla teoria platonica dell’eros, come impulso di autotrascendimento e autocreazione nel bello, o a quella spinozista del conatus, che «non implica un tempo finito, bensì infinito» (VII, 112-113), o alla volontà di Schopenhauer, reinterpretata in chiave personale. La vita si cura soltanto di accrescere il proprio capitale, di realizzare le sue potenze in un orizzonte infinito, ossia di trascendersi e sopra-viversi, si affermarsi nell’eterno. «Perché la coscienza, ancor prima di conoscersi come ragione, si sente, si tocca, è a se stessa piuttosto come volontà, e come volontà di non morire» (VII, 194-5). Quel che qui entra in gioco non è un desiderio soggettivo, capriccioso, individuale, non rientra in una forma di narcisismo dell’io adolescente, che non si rassegna a non fare affidamento nel mondo. Per Unamuno, è ovvio che l’io ha un interesse assoluto per la sua esistenza, dal momento che quest’ultima lo riguarda incondizionatamente, ossia in quanto condizione ultima di qualsiasi altra cosa. Però questo interesse ha una portata universale, non solo in senso estensivo, giacché riguarda ogni coscienza, e ogni io, ossia «la stirpe umana nella sua interezza» (VII, 182), ma anche intensivo e trascendentale, perché nel futuro della coscienza è la condizione di possibilità del senso. Il ragionamento autoteleologico e prassologico implicito in tale affermazione ha questo tipo di articolazione: a) Il mondo ha finalità se è per la coscienza, ossia se fa parte o è integrabile nel proprio destino l’opera della libertà. b) La finalità della coscienza è ‘diventare un’anima’, un io nella realizzazione di ogni sua determinazione intenzionale e in quanto paradigma o figura di mondo: «un io fatto mondo o un mondo fatto io», vale a dire: personalizzato o tagliato a misura delle esigenze generiche umane. c) L’anima consiste nella sua opera, in ciò che è posto in opera e che in tal modo si fa valere come mondo dell’uomo. d) Il valore è universale e incondizionato solo se perdura nella memoria e agisce nel futuro della Coscienza Universale, e, pertanto, non svanisce nel nulla. La morte, l’annichilazione totale, è un’obiezione decisiva contro la creazione del senso. «Se tale ipotesi diventa realtà, la nostra vita perde valore e senso» (VII, 218). Pertanto, conclude Unamuno, c’è senso, finalità, se c’è anima, e se quest’ultima è immortale. «Non solo vogliamo salvarci, ma insieme salvare il mondo dal nulla. E per questo Dio. Questa è la sua finalità sentita» (ib.). Si può facilmente riconoscere in questo schema un abbozzo dei postulati kantiani della ragion pratica, in quanto condizioni trascendentali della

36

148

Pedro Cerezo Galán

vita morale: l’esistenza della libertà, di Dio e della immortalità dell’anima (o dell’io)13. Postulati che non sono fondati teoricamente, ma ammessi nella loro esistenza con una fede poetica ed etica, vale a dire: vincolata all’ordine morale. È la ragione per cui Unamuno può concludere: Credere in un Dio vivo e personale, in una coscienza eterna e universale che ci conosce e ci ama, è credere che l’Universo esista per l’uomo. (VII, 217)

Ora, questa linea kantiana di esigenza morale, così sobria ed asciutta, è intrecciata in Unamuno alla sua metafisica della volontà di non morire, come radice della ragion pratica. Si potrebbe dire che per Unamuno la prima condizione della moralità, ancor prima della legge universale, è il fatto che l’io senta la sua propria sostanzialità e si affermi in essa: è la legge di gravità dello spirito e del sentimento poetico/religioso fondamentale: 37

E solo sentendo così ci si sente vivere in una creazione continua, e invece di ripetere […] “vanità di vanità, tutto è vanità” e non c’è nulla di nuovo sotto il sole – nihil novum sub sole – ricaveremo dalla “pienezza di pienezze, tutto è pienezza”, tutto è nuovo sotto il sole – omnia nova sub sole – e ogni momento d’una visione è una visione nuova. (I, 1177).

Però, la brama di Dio implica anche, come suo rovescio, un sentirne la mancanza. Non può darsi l’uno senza l’altro. Nella misura in cui c’è fame di Dio, come impulso di trascendimento, si percepisce un deficit ontologico, una carenza di Dio (VII, 209), dal cui vuoto sgorga di nuovo l’aspirazione a più vita. Paradossalmente, Dio si fa presente nella sua assenza, o meglio: è una presenza de-ficiente e in-combente. Dio è ciò di cui si necessita per essere veramente e pienamente. È questa la conclusione che, paradossalmente, si ricava dalla preghiera dell’ateo: … Soffro accanto a te Dio inesistente, giacché se tu esistessi, anch’io veramente esisterei14.

13 Come avverte Unamuno, «chiunque legga con attenzione e senza paraocchi la Critica della ragion pratica, vedrà che, a rigore, si deduce in essa l’esistenza di Dio dall’immortalità dell’anima, e non questa da quella. L’imperativo categorico ci conduce ad un postulato morale che esige, a propria volta, nell’ordine teleologico, o piuttosto escatologico, l’immortalità ­dell’anima, e per dare sostegno a questa immortalità appare Dio. Tutto il resto è un escamotage da professionisti della filosofia. L’uomo Kant sentì la morale come base dell’escatologia, ma il professore di filosofia invertì i termini» (VII, 111). 14 «… Sufro yo a tu costa / Dios no existente, pues si tu existieras, / existiría yo también de veras» (VI, 359).

Il vuoto e la parola

149

Siamo nell’anticlimax radicale della teoria moderna dell’alienazione religiosa, presente anche in Nietzsche. Lungi dall’essere Dio il rivale dell’uomo, colui che ne limita la volontà di potenza, sarebbe piuttosto il fondo d’essere cui l’opera dell’uomo si aggrappa per darsi un fondamento. Se Dio esiste, è la pienezza delle pienezze di cui tutti partecipiamo e in cui tutti comunichiamo, se esiste un Dio, è il Volere, che fa che sia tutto nuovo in ogni momento della sua esistenza. Se esiste un Dio, è il Volere, che vuole perpetuarsi nell’universo e manifestarsi in esso. E la nostra vita, su cosa può fondarsi? (I, 1180).

Ma se Dio non esiste, tutta questa aspirazione non soltanto è vana, ma è anche una «passione inutile». Prima di Sartre, lo aveva compreso Unamuno: Dio è nel desiderio Che abbiamo di esserlo e non si afferra…; chissà se Dio stesso non è ateo15!

Tuttavia, pur postulando e credendo che Dio esista (o sovraesista), la volontà affamata, nella misura in cui, nella sua brama di Dio, conserva anche, come suo rovescio, l’indizio della sua «mancanza», non solo sente in sé il non-essere come privazione, ma anche come una letale tentazione ‘nullista’ di rassegnarsi e abbandonarsi alla sua assenza. Ciononostante, dal momento che ne ha bisogno per essere in pienezza, deve affaticarsi per essere, in-sistendo nella sua brama e resistendo al potere devastatore della morte: la routine, l’inerzia, l’oblio. Nel suo intimo sentire, l’homo religiosus conserva la coscienza del fatto che questo non-essere non è altro che l’ombra di Dio: Se mi cerchi è perché mi hai trovato – mi dice il mio Dio – Io sono il tuo vuoto; finché non arriverà al mare il fiume non si ferma né c’è altra morte che basti al suo affanno16.

Ma l’impazienza di Dio è solita creare idoli per sopperire alla sua mancanza oppure cadute entropiche della tensione della sua ricerca. Il vuoto può presentarsi allora come una letale tentazione annientante. Vuoto di Dio come forma negativa di pienezza o un Dio vuoto, in cui abita il nulla? E toccando la tua nientità, non sentendo il tuo fondamento stabile, non arrivando tu alla tua propria infinitezza, né tanto meno alla tua propria eternità, ti compiaci con tutto il cuore di te stesso, e ti accendi in doloroso amore di te. (VII, 191). 15 «Dios es el deseo / que tenemos de serlo y no se alcanza; / ¡quién sabe si Dios mismo no es ateo!» (VI, 372). 16 «Si me buscas es porque me encontraste / – mi Dios me dice – Yo soy tu vacío; / mientras no llegue al mar no para el río / ni hay otra muerte que a su afán le baste» (I, 349).

38

150

Pedro Cerezo Galán

Ne discende che, per Unamuno, il sentimento religioso appare fondamentalmente caratterizzato dall’angoscia. Per sfuggire al nulla occorre sforzarsi d’esser tutto. Ma, a propria volta, la disperazione per raggiungere il tutto finisce col condurre l’uomo all’estremo quietista di affidarsi al nulla. In questa tensione sorge la creazione disperata del senso, entro la duplice polarità del nulla o del tutto. Si comprende così come, propriamente, il mito cristologico sia per Unamuno non già il Cristo risorto, trionfatore della morte, bensì il Cristo agonico che nel suo abbandono sente nella sua stessa carne, all’approssimarsi della morte, che Dio gli si nasconde e si rifiuta, mentre nella notte si spezza la sua parola. Un Cristo in interminabile agonia, nella sua impresa di dare finalità umana all’Universo: 39

E stai incessantemente morendo; la tua morte, perenne sacrificio, è per noi vita perenne; incessantemente per Te moriamo, incessantemente resuscitando17.

La parola originaria (il Verbo), che dal vuoto o dal nulla, per eccesso di vita, creò il mondo, il suo senso e il suo valore, si vede osteggiata dall’altro vuoto, il vuoto della morte, come possibilità del suo fallimento. E tuttavia essa lo fa suo, per contrastare e provare il senso ostinato nella sua parola. Così, la sua agonia è la stessa agonia della parola creatrice, ri-nascendo dal vuoto e consegnandosi nuovamente al vuoto, per render feconda la sua morte. L’ossimoro vita/morte non può essere inteso, in Unamuno, secondo un senso naturalista-panteista, come una vita generica che si rinnova attraverso la morte del singolo, bensì come l’elemento ‘pneumatico’ una vita capace di introiettare la morte, la negatività, e di assumerla come il fondamento della sua trasfigurazione. Questa «negatività di» è anche, osservata nel suo rovescio, vuoto di Dio, di un Dio in-stante e in-combente. Si direbbe che la prova della morte è il silenzio da cui rinasce sempre la parola trasfigurata. Nel simbolo agonico del suo Cristo di Velázquez, Unamuno non ha lasciato intravedere un Cristo morto – e sia pure nella maestà velazquiana dell’eroe della serenità – bensì un Cristo che lotta, nel bel mezzo dell’abbandono di Dio, e che, in ultima istanza, a Lui si affida. Tuttavia, l’estasi nientificante del vuoto si presentò nella sua poesia precedente Il Cristo deposto di Santa Chiara, un Cristo-mummia, morto e definitivamente morto, come carne soltanto morta: Non c’è niente di più eterno della morte; tutto finisce – dice alle nostre pene –; Né è sogno la vita;

17 «Y estás muriendo sin cesar; tu muerte, / perenne sacrificio, nos es vida / perenne; sin cesar por Ti morimos, / resucitando sin cesar» (VI, 486)

Il vuoto e la parola

151

Tutto non è altro che terra; Tutto non è altro che nulla, nulla, nulla» (…) È quel che dice il Cristo incubo…; perché questo Cristo della mia terra è terra18.

Lo stesso Unamuno confessa che per il rimorso d’aver scritto questa poesia, concepì Il Cristo di Velázquez, la grande poesia cristiana dell’Uomo-Dio o del Dio-Uomo, a differenza dell’altro Cristo di terra, che definisce «­ pre-cristiano e post-cristiano» (ib., 519), un eroe sconfitto e senza speranza. Dovette causargli una tale impressione, questo Cristo di terra, che si lasciò sfuggire, alla fine della poesia, una balbettante preghiera: E tu, Cristo del cielo, redimici dal Cristo della terra19!

Il Cristo di Velázquez rappresenta, in chiave poetica, questa redenzione. Certo, neanche qui Unamuno lo eleva in un’estasi di pienezza, a cielo a­ perto, dopo il legno della croce, però qui è cantata espressamente la fede o la fidu­ cia cristiana nel trionfo del senso: «Si compì! Morì, infine, la morte» (VI, 4541). Ed in un’altra strofa: Figlio di Dio è l’uomo, e Dio dell’Uomo Figlio; tu Cristo con la tua morte hai dato Finalità umana all’Universo E fosti morte della Morte infine20!

Neppure il Cristo glorioso si lascia scorgere – perché è oltre il mondo – ma si può confidare in questa speranza. Così come canta un poemetto del Canzoniere: Danzare il nostro sogno al bordo dell’abisso nella speranza che ci sia la controdanza in accordo con quella del Signore21.

18 «No hay nada más eterno que la muerte; / Todo se acaba – dice a nuestras penas –; / No es ni sueño la vida; / Todo no es más que tierra; / Todo no es sino nada, nada, nada / (…) / Es lo que dice el Cristo pesadilla; / porque este Cristo de mi tierra es tierra» (VI, 518) 19 «¡Y tú, Cristo del cielo, / redímenos del Cristo de la tierra!» (ib., 520). 20 «Hijo el Hombre es de Dios, y Dios del Hombre / hijo; ¡Tú Cristo con tu muerte has dado / finalidad humana al Universo / y fuiste muerte de la Muerte al fin!» (VI, 485). 21 «Bailar nuestro sueño al borde / del abismo en la esperanza / de que ha de ser contradanza / con la del Señor acorde» (n. 1665; VI, 1396)

40

152

Pedro Cerezo Galán

5. Il Dio sofferente

41

Si è soliti pensare che la prospettiva unamuniana della brama di Dio possa condurre soltanto verso un volontarismo frenetico e arbitrario, ad una affermazione gratuita dell’esistenza di Dio, oppure all’ammissione che l’uomo è un assurdo, una «passione inutile», tragicamente inutile, per questa sua invocazione all’«impossibile necessario». E la preghiera dell’ateo – di un ateo troppo pio, del resto – letta in modo corretto, potrebbe indurre a sostenere la tesi che l’uomo è condannato ad una esistenza vana e priva di sostanza, proprio perché Dio gli manca. Si potrebbe ancora aggiungere che il desiderio si espone costitutivamente al rischio del miraggio, della proiezione incosciente, e allo smarrimento in una coscienza persa nei suoi stessi sogni, alienata da sé. Indubbiamente, in Unamuno ci sono tracce di questo meccanismo proiettivo, allorché definisce Dio come la proiezione del mio io all’infinito (VIII, 880) e, inversamente, il mio io come proiezione di Dio al finito, anche se non si comprende bene quale delle due proposizioni, lette separatamente, è in Unamuno quella originaria, se la prima, dal rozzo sapore immanentista, o la seconda dal tono panteista. Infine – si obietta – il Dio che viene al desiderio o dal Desiderio, sarebbe un Dio gratuito, pura soddisfazione immaginaria, a differenza del Dio presente nell’idea, così come è contemplato dall’argomento ontologico. Paragonato alla potenza speculativa di quest’ultimo, quale forza intellettuale potrebbe esser riconosciuta al «povero e semplice» argomento ontologico del sentimento: «dato che ne ho bisogno, dev’essere»? Tuttavia le cose non sono così chiare. Il Dio logico o ideale, contro il quale Unamuno ha combattuto assieme a tutta la critica moderna che si opponeva alla teologia razionale, finiva per configurasi unicamente come l’ordine legale dell’universo, oppure come l’‘autoconcetto’ immanente alla storia, che in entrambi i casi lascia intatte e rende vane le esigenze del sentimento. Ciò si deve al fatto che l’intelligenza è riduttiva e assimilitativa, «monista e panteista», come la qualifica Unamuno, e quel che ricade nell’ambito nell’idea viene assimilato nel suo dinamismo e ridotto alla cifra della sua autocomprensione. La volontà, al contrario, è transitiva, invasiva dell’altro: La volontà e l’intelligenza mirano a cose opposte: quella ad assorbire il mondo in noi, appropriandocelo, e questa a che siamo assorbiti nel mondo. (VII, 176).

Per quel che concerne il nostro caso, l’intelligenza riduce l’altro al medesimo, mentre la volontà, pretendendo di appropriarsi dell’altro, si apre all’altro in quanto tale, come obiettivo del suo desiderio. Detto in altri termini: la volontà ha un impeto erotico di trascendenza, di cui è priva l’intelletto, il quale si identifica con l’ordine della rappresentazione. L’intelligenza comprende pre-supponendo e, in ultima istanza, pre-suppone sé a se stessa, come legge di ogni possibile obiettivazione, mentre la volontà eccede infinitamente se stessa. Di conseguenza, il Dio noetico o l’«idea oggettiva» di Dio

Il vuoto e la parola

153

si lascia analizzare e criticare e risolvere conformemente alla legge dell’intelligenza, che è quella dell’identità; per contro, il Dio ‘vivente’ è termine d’un appetito che è di per sé insaziabile. Pertanto, le pretese della volontà sono più radicali e ostinate, in quanto obbediscono ad un’interna necessità (Bedürfnis) dell’animo, che esige la sua attuazione, a differenza di quelle dell’intelligenza critica, che spesso si autodissolvono nello scetticismo. Tale esigenza è forse una pura illusione? Si può dedurre da un’esigenza il suo oggetto, come pretende l’argomento ontologico dal sentimento? Kant, che di queste esigenze ne sapeva alquanto, a proposito della critica di Wizenmann verso l’idea d’un pensiero desiderativo, generatore di chimere, precisò la sua posizione al riguardo, in una celebre nota della Critica della ragion pratica: Qui io gli do perfettamente ragione in tutti i casi in cui il bisogno è fondato sull’inclinazione (Neigung), la quale non può mai postulare necessariamente, per colui che è affetto da essa, l’esistenza del suo oggetto, e molto meno contiene un’esigenza valida per ciascuno, e quindi è un motivo semplicemente soggettivo del desiderio. Ma qui vi è un bisogno razionale (Vernunftbedürfnis) che deriva da un motivo determinante oggettivo della volontà, cioè dalla legge morale la quale obbliga necessariamente ogni essere razionale, dunque dà diritto alla supposizione a priori delle condizioni conformi a questa legge nella natura, e rende inseparabili queste condizioni dal completo uso pratico della ragione22.

Lasciare incompiuta un’esigenza razionale e, per ciò stesso, universale, provoca una contraddizione interna della ragione stessa, che distruggerebbe ogni imperativo. Ne discende che se l’imperativo categorico dev’esser possibile – giacché altrimenti non sarebbe un dovere solido – bisogna ammettere le sue condizioni di possibilità. Credo che questa distinzione basilare fra «inclinazione» e «esigenza razionale» potrebbe applicarsi anche, fatte le debite differenze, alla prospettiva di Unamuno, se si tien conto del fatto che la volontà di non morire è vincolata alla condizione di possibilità del senso, giacché l’autoaffermazione della coscienza, così come la intende Unamuno, è una dimensione esistenziale di ogni vita morale, per cui chi non sente ‘sostanzialmente’ se stesso non può credere nell’esistenza sostanziale del suo prossimo, né prenderlo sul serio. Non potrebbe, di conseguenza, neanche credere in Dio, giacché «la fede in Dio deriva dalla fede nella nostra esistenza sostanziale» (I, 1180), vale a dire, da un principio di gravità esistenziale, che può condurre alla disperazione o all’angoscia, però mai all’estetismo. Sotto questo profilo, si potrebbe dire che la volontà di non morire racchiude un’esigenza razionale (non intellettuale, bensì pratico/vitale), poiché ha dunque a che fare con la morale (o ragione pratica).

22 Kritik der praktischen Vernunft, nota 260; Hamburg, Meiner, 1963, p. 165. Trad. it., Critica della ragion pratica, a cura di F. Capra (riv. da E. Garin), Roma, Laterza 19937, p. 142.

42

154

43

Pedro Cerezo Galán

Sia o meno ammissibile questa trasposizione, è nondimeno innegabile che Unamuno abbia seguito la via kantiana di postulare Dio come condizione per il compimento di una esigenza interiore dell’animo. Tuttavia, di solito non si considera che c’è in un Unamuno un’altra via, più discreta e radicale di questa, conforme al sentimento del divino, una via che potremmo definire esperienziale. «Non è necessario – afferma – provare l’esistenza di ciò di cui si ha esperienza immediata, non è facile dimostrare a qualcuno che sia sordo dalla nascita, l’esistenza del suono» (I, 1173). Qui Unamuno si riferisce a un senso del divino che si darebbe nel sentimento dell’angoscia. Esistere ­sarebbe sentire nella brama di Dio un’esperienza, de-ficiente, in-sufficiente, è vero, ma non per questo meno reale, dell’eterno nell’uomo. Tutto ciò si comprende non solo da come l’uomo invoca l’eterno, ma anche da come egli stesso lo sente nella radice della sua volontà affamata. Se questa non è cieca né meramente naturale, come pensa Schopenhauer, bensì personale e morale, come sostiene Unamuno – in quanto volontà d’esser se stesso e di dare finalità all’universo – allora è possibile sentire in questa brama, in questo impulso di trascendenza, la presenza incombente di Dio nel fondo dell’anima. «E questa forza sta a significare che è il divino nell’uomo, che è Dio stesso ad operare in noi, perché in noi soffre» (VII, 197). In precedenza aveva scritto: «se esiste un Dio è il Volere che vuole perpetuarsi nell’universo e manifestarsi in esso» (I, 1180); ora, per contro, precisa che nella brama affamata di Dio si sta ponendo in opera Dio stesso, un Dio sofferente, che così si rivela nell’universo. Se Spinoza era giunto a scrivere che l’amor Dei intellectualis è il modo in cui Dio ama se stesso, perché non ipotizzare che l’amor Dei moralis faccia anche parte dell’amore con cui Dio ci ama e ama se stesso? «La fede in Dio nasce dall’amore per Dio, crediamo che esista perché vogliamo che esista, e forse nasce anche dall’amore di Dio per noi» (VII, 198). E se credere in Dio è crearlo, perché ne abbiamo bisogno, ne siamo «affamati», Dio stesso, reciprocamente, lasciandosi desiderare, crea se stesso, credendo nell’uomo. Ne discende che in luogo del condizionale «se Dio esiste» usato altre volte, ora Unamuno si esprime con nettezza: Però immergendomi nello scetticismo razionale da una parte e nella disperazione sentimentale dall’altra, mi si accese la fame di Dio e l’affanno dello spirito mi fece sentire, attraverso la sua mancanza, la sua realtà. E volli che ci fosse Dio, che esistesse Dio. Dio non esiste, ma piuttosto sovra-esiste, e sta sostenendo la nostra esistenza, esistendoci. (VII, 209).

Come poteva non provare ammirazione, Unamuno, per la proposizione spinoziana: «sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni»? Tradotta nel linguaggio vivente, significa che nel conatus, ossia nella brama di Dio, si percepisce l’impeto con cui Dio stesso investe e innalza a sé la sua creatura; signi-

Il vuoto e la parola

155

fica che l’aspirazione verso Dio è la risposta all’attrazione che Dio esercita sulla coscienza umana: E questo Dio, il Dio vivo, il tuo Dio, il nostro Dio, è in me, è in te, vive in noi e noi viviamo, ci muoviamo e siamo in Lui. Ed è in noi, per la fame che ne abbiamo, per l’anelito, facendosi appetire. (VII, 214)

Unamuno può così coniugare il panenteismo krausiano presente già nella sua antica formazione universitaria, con la rigorosa fede paolina, allo stesso modo in cui può fondere Spinoza con Agostino, il razionalista con il ­‘cordialista’, in intimo accordo: Il potere di creare un Dio a nostra immagine e somiglianza, di personalizzare l’Universo, non significa altro se non che portiamo Dio dentro di noi, come sostanza di quel che speriamo, e che Dio ci sta continuamente creando e sua immagine e somiglianza (VII, 223)

Il tema della creazione reciproca fra Dio e l’uomo era di nobile ascen­ denza, in quanto tratto saliente della letteratura mistica. Unamuno a volte lo fa suo con stretta osservanza all’ortodossia: «Dio e l’uomo si creano reciprocamente; infatti, Dio si rivela nell’uomo e l’uomo si crea in Dio» (VII, 209). Altre volte, invece, lo lascia nell’ambiguità della doppia proiezione, di un gioco di specchi, di riflessi, in cui si rifrange confusamente l’immagine originaria. Orbene, un Dio che si rivela nell’angoscia dell’uomo è un Dio sofferente. Questa tesi rappresenta senza dubbio uno scandalo per la teologia razionalista. Ma Unamuno, per contro, a partire dalla luterana theologia crucis, la sollecita a sottomettersi al tribunale della sofferenza universale, ponendola al cospetto di un terribile dilemma: «se Dio non soffre, fa soffrire» (VII, 233), vale a dire, o è responsabile del male del mondo o se ne fa carico e lo fa suo in un mistero di compassione universale. Il Dio che soffre non è un Dio scisso in se stesso e preso in un conflitto ontologico fra la materia e lo spirito, ma il Dio che si è vincolato a tal punto con la libertà umana da condividere la sua storia, intesa anche come storia del male, dello smarrimento e dell’errore, e la assume come il mezzo col quale potersi realizzare come amore compassionevole. Ancora una volta, il Cristo sofferente è il vero volto di Dio: «Fu la rivelazione della divinità del dolore, giacché soltanto quel che soffre è divino» (VII, 230). Può salvarci dal nulla un Dio sofferente? Credo che solo la fede possa osare rispondere a questa domanda, facendo nuovamente ricorso alla figura del Crocifisso: quando la morte entra a far parte di un atto di dedizione amorosa, di svuotamento e annullamento per amore, la morte stessa è stata trascesa. E così canta Unamuno a partire dalla fede ‘intrastorica’ del suo popolo: Che sei Cristo, l’unico Uomo che, vinto per sua volontà,

44

156

Pedro Cerezo Galán

trionfò sulla morte, che alla vita per mezzo Tuo venne elevata23.

45

Alla luce del paradigma cristologico, la circolarità fra Dio e l’uomo riceve un nuovo significato. Si direbbe che l’uomo crea Dio per salvarsi dal nulla e, reciprocamente, che Dio crea l’uomo e si fa uomo per vincere la sua solitudine – più grave anche della morte – e così manifestare e realizzare nel mondo, attraverso la fatica morale e la sofferenza compassionevole ­dell’uomo, il disegno di una vita condivisa. La conclusione che Unamuno ricava da questa teologia della croce si oppone ad ogni teodicea. All’infuori di Cristo, nulla sappiamo di Dio che non sia inane astrazione. Nella umanità di Cristo si è rivelato il vero volto di Dio, che patisce, che insieme è sofferente e benigno. Però, all’infuori di Dio – del Dio che si rivela in Cristo – neanche sapremmo nulla delle possibilità estreme dell’uomo, nella sua brama di Dio. L’identità in Cristo del Dio-uomo, lungi dall’essere una equazione appianante e livellante, indice di un mero umanismo, s’impone piuttosto come una rivelazione della profondità del mistero di Dio e dell’altezza esistenziale che l’uomo può osare. Ma è anche vero che in Unamuno questa identità non è esente da una certa ambiguità, anche nella sua altissima poesia Il Cristo di Vélazquez, dove l’agonia di Cristo non lascia neppure intravedere la gioia della resurrezione: Dal cielo cadde sulla tua fronte una goccia di sangue staccatasi dal becco curvo d’un sazio avvoltoio che veniva dal Caucaso, e il tuo sangue con quello di Prometeo si mischiò24.

Ora, se l’agonia è il fondo abissale della libertà umana, l’incertezza è il frutto maturo di questa tensione. Le certezze assolute distruggono e addirittura pervertono il dinamismo della coscienza. Se il senso fosse assicurato, al modo di un cielo platonico di stelle fisse – scenario eterno e necessario, al cui lucore si svolge il dramma della storia – la libertà non sarebbe mai chiamata in causa, e coinvolta nella creazione del senso. Basterebbe sollevare di tanto in tanto gli occhi verso questo scenario per sapersi orientare. La certezza assoluta nel trionfo finale del senso ci ottunde all’ombra di Dio. Però, all’inverso, la certezza opposta, non meno assoluta, nel non-senso finale, trasforma la vita in un gioco privo di significato, e non ci ottunde di meno, all’ombra del nulla. «Entrambe le certezze ci renderebbero parimenti impossibile la vita» (VII, 179) – conclude Unamuno – la vita nella parola, perché distruggerebbero le

23 «Que eres Cristo, el único / Hombres, que sucumbió de pleno grado, / triunfador de la muerte, que a la vida / por Ti quedó encumbrada» (VI, 420). 24 «Desde el cielo cayó sobre tu frente / una gota de sangre desprendida / del corvo pico de un ahíto buitre / que venía del Cáucaso, y tu sangre / con la de Prometeo se mezcló» (VI, 456).

157

Il vuoto e la parola

condizioni della contesa per il senso. Tanto l’assoluto pessimismo razionale quanto l’assoluto ottimismo ‘cordiale’ condurrebbero al quietismo, alla resa. Ed il quietismo del sì come quello del no inducono al silenzio. L’incertezza, invece, è il fondo stesso da cui germoglia la parola creatrice. Diceva Antonio Machado con la sua ironia andalusa: L’uomo è per natura la bestia paradossale, ha bisogno di logica questo assurdo animale: Creò dal nulla un mondo, e, ad opera compiuta, «Già so il segreto – si disse – tutto è nulla»25.

Sì, questa può forse essere la conclusione logica di un animale assurdo, ma non quella vitale o esistenziale. Chi crea dal nulla un mondo è così vitale da non rassegnarsi a condannarlo al nulla. E per questo spera che qualora fallisca, questo stesso fallimento sia la promessa d’una creazione ancora più alta. La luce e la croce fanno parte, secondo Unamuno, del medesimo mistero della vita e della parola, così come mostra la rima generatrice: La parola luce e fuoco Fuoco in luce Che ci forgia croce e gioco Gioco di croce26.

(Traduzione dallo spagnolo di Ernesto Forcellino)

25 «El hombre es por natura la bestia paradójica, / Un animal absurdo que necesita lógica: / Creó de nada un mundo, y, su obra terminada, / «Ya estoy en el secreto – se dijo – todo es nada» (CXXXVI, n. 17). 26 «La palabra luz y fuego / fuego en luz / que nos labra cruz y juego / juego de cruz» (Cancionero, n. 755, VI, 1171).

46

Unamuno e il problema della metafisica. Del sentimiento trágico come Critica Juan Manuel Navarro Cordón

«La filosofia è più vicina alla poesia che non alla scienza». Così Unamuno all’inizio dell’opera sua più nota: Del sentimiento trágico de la vida. Può ben sembrare che questa iniziale affermazione porti irrevocabilmente al rifiuto della scienza e del concetto di ragione forgiato nei tempi moderni in accordo con la scienza moderna e la sua metodologia, preannunciando l’«irrazionalismo» unamuniano. Ma subito dopo leggiamo che le scienze sono molto importanti, «indispensabili per la nostra vita e il nostro pensiero»1. Il fatto che per il pensiero le scienze e la ragione scientifica siano indispensabili non significa che il pensiero si riduca a conoscenza. In Unamuno riecheggia la fondamentale e decisiva distinzione kantiana tra conoscere [erkennen] e pensare [denken]2. Riecheggia e si sviluppa a suo modo. Un altro pensatore giungerà a sostenere che «la scienza non pensa», sebbene abbia un costante rapporto, secondo la sua specifica modalità, con il pensiero, senza, però, che tra l’una e l’altro ci sia un ponte; poiché tra le due si apre, invece, un abisso incolmabile3. Senza poter prescindere, dunque, dalla scienza, la filosofia è più vicina alla poesia. Si annulla con ciò come filosofia, come pensiero, per dissolversi in poesia, cadendo in un irrazionalismo antiscientista? O quanto meno nel misticismo? Categoricamente no. Tutto dipende dal linguaggio. Se con «misticismo» si intende dire che nel nostro «relazionarci alla realtà», nel nostro confronto con essa, la conoscenza sensitivo-razionale esaurisce il percorso e l’accesso al reale, allora va detto, da un punto di vista opposto e antitotalitario, che «misticismo» indica un’altra via, un altra modalità di confronto; se al contrario misticismo significa «qualcosa di sovrumano o extraumano, in questo

1 Del sentimiento trágico de la vita (STV), in Obras completas (O.C.), Escelicer, Madrid 1967, vol. VII, 110. Tutte le citazioni dell’opera di Unamuno corrispondono a questa edizione, di cui si indica prima il volume e poi la pagina. 2 Kritik der reinen Vernunft, B-XXVII. 3 M. Heidegger, Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen, 1971, p. 4.

47

160

48

Juan Manuel Navarro Cordón

caso no»4. Avvicinare la filosofia alla poesia non comporta confonderla con questa  né negarla in ciò che possiede di genuino, il pensiero; piuttosto riconduce l’una e l’altra, filosofia e poesia, al linguaggio, in ciò che questo ha di poetico: espressione originaria del sentimento della vita e formazione del ­mondo. Nel Prologo al Cancionero Unamuno dichiara la sua convinzione di «aver sposato due passioni, quella del sentimento della vita umana che si auspica divina e quella del linguaggio in cui questo sentimento si esprime»5. E sono proprio i poeti i veri «creatori del linguaggio». Fare poesia è un modo per aprire e dare forma linguistica al mondo. «Il poeta – si legge in Plenitud de plenitudes y todo plenitud – è colui che ci dà un intero mondo personalizzato, […] il verbo fatto mondo»6. Ma inoltre il linguaggio mantiene una stretta relazione con il pensiero. In quanto «ricettacolo dell’esperienza di un popolo», la lingua è «il sedimento del suo pensiero»: quanta filosofia inconscia nei recessi del linguaggio7! Non c’è pensiero senza linguaggio. Questa congiunzione è a tal punto intima, per ripetere anche qui il termine unamuniano, che si pensa con le parole; o, per essere più rigorosi, «sono le parole che pensano in noi». Il linguaggio, e con esso tutta la tradizione e l’esperienza del pensiero, pensano in noi, e ci fanno riflettere sul legame del pensiero con il sentimento di vita fraterna. Se il poeta è creatore del linguaggio, il pensatore, spiega Unamuno, è un «creatore di parole». La maggiore vicinanza della filosofia alla poesia proviene dal suo essere radicata nel linguaggio, mezzo e centro (Mitte) tra ciò che è storicamente avvenuto («guardare e vedere nel segreto storico delle parole») e gli elementi fondamentali della vita (dal cui sentimento «sboccia la nostra filosofia»), elementi non esprimibili né tematizzabili dalla scienza e dalla sua logica. La parentela tra filosofia e poesia nasce dalla poeticità. «Ciò che è più metafisico è forse ciò che è più poetico»8. Il senso e il valore della metafisica consistono nel rispondere alle domande che «la vita stessa» pone all’uomo, domande che non possono essere né disattese, né affrontate dalla ragione scientifico-analitica, dalla ragione razionalista, che può ben dirsi «anti-­vitale», dacché non risponde, col suo procedimento (metodo) e con i suoi principi, alla peculiarità dei problemi che la vita impone. Difatti, una delle questioni fondamentali che attraversa il libro capitale di Unamuno è proprio la critica della metafisica razionale e l’esposizione del senso e della possibilità di una metafisica vitale. «C’è e ci sarà sempre una metafisica razionale e un’altra vitale, in conflitto perenne l’una con l’altra, quella partendo dalla nozione di causa, questa dalla nozione di sostanza»9. Esclusa la via della metafisica razionale, Unamuno afferma la necessità della metafisica vitale.

O.C., I, 1165. O.C., VI, 945. 6 O.C., I, 1178. 7 En torno al casticismo, O.C., I, 801 e 809. 8 Soliloquios y conversaciones, O.C., III, 380. 9 Del sentimiento trágico…, O.C. VII, 241. 4 5

Unamuno e il problema della metafisica

161

È sufficiente quanto s’è detto fin qui per constatare che l’opera filosofica di Unamuno è stata giudicata in modo affatto superficiale: non essendo conforme a una determinata modalità conoscitiva, a una determinata idea di metafisica, le è stato negato lo statuto e il valore di filosofia, come se l’ontologia e la metafisica dovessero avere un solo volto. Detto in breve e in modo esemplificativo, per aver Kant negato la metafisica razionalista, lo si dichiara, tout-court, antimetafisico, non riconoscendosi altri modi di affrontare, pensare ed esprimere «ciò che è metafisico nell’uomo» (per usare l’espressione di Merleau-Ponty). In un saggio tanto significativo come Sobre la filosofía española, del 1904, Unamuno afferma che la filosofia è «la visione totale dell’universo e della vita attraverso un temperamento etnico… frutto della nostra dolorosa esperienza storica»10. Sulla stessa linea scrive in Del sentimiento trágico: «la filosofia risponde alla necessità di formarci una concezione unitaria e globale del mondo e della vita, e come conseguenza di tale concezione un sentimento che ingeneri una disposizione d’animo interiore e persino un’azione» (STV, 110). Non è questo il luogo per fare un’esegesi di quanto qui è detto. Basti fermare alcuni punti: a) il pensiero ontologico-metafisico risponde a una mancanza, facendosi carico dell’«uni-totalità» dell’esistente, secondo lo stato d’animo proprio di un’immagine o epoca del mondo; b) situandosi alla radice dell’esperienza storica ed entro il suo orizzonte, esso è frutto di questa esperienza ed insieme dell’attuale corrispondenza ad essa a partire dagli elementi fondamentali della vita; c) in quanto ontologico-metafisico, questo pensiero instaura, nel mondo, una modalità di confronto col mondo intima ed essenziale, ma non ‘intimista’, anzi ‘es-posta’; d) ne discende ch’esso è principio di azione, principio pratico, dacché qui essere significa agire. Il fatto, però, che «le più importanti questioni metafisiche sorgano praticamente» (STV, 241) non comporta la loro riduzione e dissoluzione in un vago moralismo, indica, invece, il carattere attivo, operante dell’essere e della vita il cui scopo è «dare finalità umana, personale, all’Universo; scoprire la finalità che c’è – se c’è – e scoprirla operando» (STV, 264; corsivo mio). E se non ci fosse, ­pro-ducendola, creandola con un’originale azione poetica. Se per un verso la materia vivente è «consunzione continua», per l’altro, che è poi l’originario, «è continua creazione»: «ti scoprirai in base a come agisci»11. Non c’è, dunque, per riprendere il filo del nostro discorso, una, ed una sola, filosofia, un unico modo d’essere autenticamente filosofo, e di trattare le «questioni metafisiche». Si avverte, al contrario, la necessità di un’altra modalità di pensiero, ché «il male nasce dal fatto che molto tempo fa vollero riversare [la filosofia] in uno stampo che le stava stretto». Tre istanze dommatiche vanno, allora, criticate. Innanzitutto, la pretesa che la conoscenza scientifica, con il suo modello di ragione, sia l’unica guida capace di porci in 10 11

O.C., I, 1161-2. O.C., I, 962 e 948.

49

50

162

51

Juan Manuel Navarro Cordón

contatto con la realtà, e la comprenda. Quindi, che non ci sia altro metodo per il pensiero che quello della logica e dei «sillogismi». Unamuno ritiene che «ci siano più mezzi per relazionarci con la realtà»12. E infine, considerando il linguaggio «sostanza del pensiero», una filosofia che pretendesse di essere «puramente razionale», una metafisica della ragion pura analitico-deduttiva, dovrebbe essere fatta in fin dei conti di «formule algebriche». «Ma è possibile filosofare in algebra pura?» – si chiede Unamuno. Sarebbe erroneo concludere, muovendo da queste posizioni antitetiche, che egli opti per uno dei due estremi: per un presunto pensiero irrazionale, per un linguaggio che, per il fatto di non essere algebrico, è poesia e nient’altro, quasi che, poi, la poesia non offrisse materia al pensare. La scommessa e la necessità di Unamuno è quella di una sintesi, benché non sia compito facile. «Benché non piaccia alla ragione, bisogna pensare con la vita e benché non piaccia alla vita, bisogna razionalizzare il pensiero»13. Qui il nocciolo problematico da discutere riguardo a questa metafisica vitale. Di fronte alle gravi questioni metafisiche ed alle soluzioni offerte dalla metafisica razionalista, di fronte all’urgenza vitale del loro richiamo, il percorso di pensiero che, secondo Unamuno, bisogna intraprendere consiste nel «distruggere le conclusioni date da altri e riformulare la domanda, perché in ogni problema la cosa importante è saperlo impostare»14. Questo, dunque, il compito principale del progetto unamuniano: impostare di nuovo, e in modo differente, i problemi metafisici attraverso la decostruzione della metafisica razionalista. Decostruzione non è distruzione, astratta negazione dell’edificio precedente, è piuttosto un meticoloso dis-fare guidato da un nuovo modo di porre la domanda, in cui ciò che sostiene e porta al pensiero, non è uno spirito analitico, dissolutivo, ma una attitudine alla «conciliazione»: «conciliare le necessità intellettuali con quelle affettive e volitive». «La filosofia è un’opera di integrazione» (STV, 118). Il fatto poi che la ricercata conciliazione fallisca o sembri fallire, non ci esime dall’affrontare la contraddizione e il conflitto. Ciò che si richiede per un pensiero libero, non imbrigliato da norme metodologiche esterne al pensare, è «cercare sempre di dare […] la parte che spetta» a ciascuno dei rispettivi contendenti in questa interminabile disputa tra ragione e sentimento vitale (STV, 183). Reimpostare il problema della metafisica significa per Unamuno concepire la Filosofia come critica, come una nuova critica. Questo è il senso e la struttura che si può cogliere dentro ­[intus-legere] Del sentimiento trágico de la vida. Ciò che questo titolo significa è «la vera base, il punto di partenza di tutta la filosofia», sebbene «l’intel-

Le ultime citazioni corrispondono a O.C., I, 161, 1170, 1168 e 1167. STV, 195, 291 e 195 rispettivamente. E in un altro passo scrive: «abbiamo bisogno della logica… per pensare»: O.C., 163. 14 O.C., I., p. 1161. Sulla stessa linea si esprimerà più tardi in Del sentimiento trágico de la vida… «L’importante è impostare bene il problema, e ne consegue che il progresso consiste, non poche volte, nel disfare ciò che è stato fatto»: O.C., VII, 163. 12 13

Unamuno e il problema della metafisica

163

lettualismo» sia giunto a «pervertire» un’«incauta ragione» (STV, 130 e 158). Per questo è così urgente la critica, che ha il compito di mostrare l’origine della perversione e le conseguenti confusioni (Dialettica) scoprendo le basi del pensiero e dell’azione attraverso l’esame approfondito della coscienza dolente (Analitica). C’è da chiedersi, però, se non sia squilibrata e gratuita una tale lettura e interpretazione di un’opera che lo stesso autore considerò più una raccolta di «saggi», che un libro compiuto, ancorché dotato di una struttura e di un filo conduttore adeguati all’oggetto: le importanti questioni metafisiche. In effetti, «questi saggi – ci dice l’Autore – sono usciti dalle mie mani per andare in stampa con un’improvvisazione quasi totale a partire da note raccolte per anni, senza aver tenuto presente, mentre scrivevo ogni saggio, quelli che lo hanno preceduto. E così saranno pieni di interne contraddizioni – per lo meno apparenti – com’è la vita e come io stesso sono» (STV, 283). Il carattere contraddittorio di questi saggi, discontinui e frastagliati, può ben essere solo apparente. E se la contraddizione ha origine nel fatto stesso di pensare, ragione in più per impedire il sistema e richiedere il procedimento diaporetico, che ruota continuamente intorno all’enigma del tragico. Tuttavia lo stesso Unamuno giunge a moderare, in un testo rilevante, Alrededor del estilo, la suddetta improvvisazione nello scrivere: «bisogna improvvisare un parto che è stato in gestazione per anni»15. La maturità del libro è indiscutibile16. E benché Unamuno segnali «l’errabondo procedere di questi saggi» (STV, 262), si dovrà pur capire cosa egli intenda con ciò. Se parla di andamento errabondo, è perché sono «saggi erratici», ossia, «alla buona» (a lo que salga), com’egli caratterizza ciò che è «erratico»17. Certo il nostro filosofo riconosce la sua «incurabile incapacità di tracciare l’architettura di un libro», e in questo termine, «architettura», bisogna leggere kantianamente «la dottrina della scientificità nella nostra conoscenza», ossia, «l’unità sistematica»18. Ma assenza di architettura non significa che un libro manchi «di unità, continuità, organicità», poiché bisogna distinguere fermamente tra «unità e continuità puramente esterne, e, pertanto, non più che apparenti» e l’«unità e continuità di un’opera umana», «un’unità ritmica, spirituale». Unamuno termina chiarendo: «l’unità e l’ordine non consistono nel casellario»19.

O.C., VII, p. 906. Così afferma Pedro Cerezo nel suo magnifico libro Las máscaras de lo trágico (Filosofía y tragedia en Miguel de Unamuno), Ed. Trotta, Madrid, 1996, p. 375. 17 Ensayos erráticos o a lo que salga, in O.C., VII, 1341. 18 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A-832-3, B-860-1. Ma ecco cosa scrive Unamuno in merito: «Le opere eseguite secondo una pianificazione preventiva e nelle quali si vede l’intelaiatura riflessiva con l’intento di portare a coscienza tutte le sue parti, mi fanno l’effetto di opere architettoniche, invece quelle opere, apparentemente più disordinate, con ripetizioni e ridondanze, con contraddizioni profonde, mi danno l’impressione di un’opera organica»: A propósito del estilo, O.C., VII, 839-840. 19 Inquietudes y meditaciones, O.C., VII, 472. 15 16

52

164

53

Juan Manuel Navarro Cordón

D’altra parte, considerare errabondi questi saggi, sembrerebbe riconoscere che mancano di metodo. E certamente è così, se con metodo s’intendono «i percorsi già tracciati» del procedimento razionalista che impone all’opera un ordine stabilito previamente da una riflessione esterna all’opera. A questa istanza metodologica Unamuno oppone quello che chiama «frammentismo nel pensiero e nell’azione». Di fronte al percorso segnato da tracce prefissate e con un termine fisso (pre-fissato), il pensiero frammentario avanza facendosi strada ‘nell’intrico del bosco’, alla ‘buona’, senza neppure sapere se mena da qualche parte. «I pensatori frammentari» sono quelli che «cercano» e propriamente «sperimentano» [versuchen]20. Lungi dall’avere un ordine razionale, «si possono avere infiniti ordini». C’è anche un ordine rivoluzionario: la rivoluzione stessa; ma nel pensiero la rivoluzione ha un ordine diverso. In conclusione, non c’è nulla di fisso e statico, per di più pensato definitivamente, poiché essere è attuare e accadere liberamente. Da ciò consegue che non solo possono esistere infiniti ordini, ma anche che così vuole «la storia nel suo farsi». Proprio per questo dobbiamo imparare a «pensare con la spola, pensando, ‘pensando a rovescio’ (despensando) e ripensando»21. Il nome appropriato per tale modo di pensare è «meditazione». Pensare è allo stesso tempo ‘pensare a rovescio’, contro-pensare (des-pensar) ciò che è già stato pensato disfacendo pezzo per pezzo la sua costruzione; ‘pensare a rovescio’, contro-pensare è la già menzionata destruzione della metafisica razionale. ‘Pensare a rovescio’ è allo stesso tempo ri-pensare a partire dalle macerie, ma per di più con l’anima e il corpo interamente colmi del contenuto (Gehalt) di esperienza storica acquisita e sofferta: «Il dolore è il cammino della coscienza». In lei, e attraverso l’esperienza portata a termine, ogni cosa e il mondo «hanno lasciato le loro dolorose impronte». Non è «un percorso della ragione», poiché la coscienza, sottolinea Unamuno, «prima ancora di conoscersi come ragione, si sente, si tocca, esiste più come volontà»; per questo è, dunque, «un percorso d’amore e di sofferenza». E da questa esperienza, e non solo dall’esperienza scientifica, è necessario «tornare su di sé, formarsi una coscienza riflessa»22. Questa è la fatica del ri-pensare e tale il suo «dovere». Utilizziamo qui il termine ‘dovere’ con chiare risonanze hegeliane: «il dovere umano della coscienza», che sebbene «non appaia in prima istanza sotto forma di pensiero, ma come sentimento»23, deve essere, tuttavia, elevato alla riflessione concreta del pensiero. Lo stile saggistico Del sentimiento trágico non implica affatto che chi tratta i problemi metafisici, rifiutando il metodo logico-razionalista, sia intimista, sentimentale, per non dire irrazionalista. Invero, si resta perplessi quando, come già lamentava Heidegger, dall’affermazione dell’inadeguatezza della

Inquietudes y meditaciones, O.C., VII, 473-4. Nietzsche, per esempio, come Versucher. Aforismos y definiciones, O.C., VII, 1529-1530. 22 Gli ultimi testi rimandano a STV, O.C., VII, 192, 191, 195 e 192. 23 G.W.F. Hegel, Enciclopedia de las ciencias filosóficas, Alianza Editorial, Madrid 1997, par. 2, p. 100. 20 21

Unamuno e il problema della metafisica

165

logica a pensare alcune questioni si fa discendere semplicisticamente la negazione della «potenza del pensiero» con l’intento di sostituire il pensiero con «l’arbitrio dei sentimenti», proclamando così la verità dell’«l’irrazionalismo»24. Altra cosa, benché collegata alla precedente, è chiedersi se un «raccolta di saggi»25 abbia un vero filo conduttore che lo attraversi e lo tenga unito, e non sia, invece, solo esteriore ed occasionale. E quindi se il libro, pur non essendo «architettonicamente» costruito, abbia una sua nascosta struttura. Dando per scontato, con Cerezo, che il paragone con i Pensées di Pascal «è estrinseco», e concedendogli che «si dovrebbe risalire al Fedone platonico» per «trovare un antecedente al progetto unamuniano, se non nella struttura, almeno nell’articolazione interna del pensiero», riteniamo, per parte nostra, che è possibile riconoscere in Del sentimiento trágico una struttura che giunge quasi a riflettere, come in un deformante specchio d’acqua, quella della Critica della ragion pura. Certamente non è una struttura lineare, statica; scoprirla richiede che si salti tra i vari «saggi» e li si guardino nel loro movimento discontinuo, ma vivo, come se fosse un organismo. La presenza di Kant nell’opera di Unamuno è manifesta ed è stata opportunamente segnalata26. Andando al di là dei contenuti, si è sottolineato che in Unamuno «vi è un modo di pensare kantiano». La nostra proposta va oltre e si riferisce a un altro aspetto più interiore ed originario, precisamente strutturale, comune alla Critica e a Del sentimiento trágico. Non si ferma al riconoscimento che Unamuno giunge a «drammatizzare il dualismo della teoria kantiana della conoscenza», o che in Del sentimiento trágico «si possa scoprire una drammatizzazione delle antinomie della Ragion pura»27: è la struttura stessa della Critica che Del sentimiento trágico esibisce come suo sistema nervoso e sanguigno, ma con un’ossatura maggiore. Il fatto è che ciò che dà inizio e mette in movimento e l’una e l’altro, è la stessa grande questione: da cosa nasce e di cosa si occupa la metafisica? Se si è messo in dubbio che l’opera di Unamuno sia in senso stretto filosofia, cosa pensare allora della proposta di leggere Del sentimiento trágico come un’opera di pensiero in cui si ripensa il problema della metafisica? Forse che è stranezza pari, se non maggiore di quella che in un’altra epoca fece ­scalpore, quando si lesse ed interpretò la Critica della ragion pura come radicale problematizzazione della metafisica e della sua possibilità. Oggi ci risulta difficile comprendere la cecità di quell’epoca davanti ad una proposta di lettura che

M. Heidegger, Über den Humanismus, V. Klostermann, Frankfurt am Main, p. 37. P. Cerezo, op. cit., p. 375. 26 Cfr. l’opera di Cerezo già citata. E sulle fonti di Del sentimiento trágico, in riferimento a Kant, Nelson R. Orringer, Unamuno y los protestantes liberales (1912), Ed. Gredos, Madrid 1985. 27 F. Meyer, La ontología de Miguel de Unamuno, Ed. Gredos, Madrid 1962, p. 157-8. Di questioni di «filosofia prima» nell’opera di Unamuno, in rapporto con le Analogie dell’esperienza, tratta il libro di Mariano Alvarez Gómez, Unamuno y Ortega. La búsqueda azarosa de la verdad, Biblioteca Nueva, Madrid 2003. 24 25

54

166

55

Juan Manuel Navarro Cordón

trova sostegno in quanto è esplicito fin nelle prime pagine della Kritik der reinen Vernunft. È che la metafisica, ben prima di fornire risposte o di elaborare un sistema, si fa carico di alcune domande che gli uomini («tutti gli uomini», a detta di Aristotele) si pongono, sorgendo dalla loro condizione di esseri finiti, e che non possono rifiutare dacché provengono dalla loro stessa natura sensibile-razionale, e a cui, per una necessità solo apparentemente strana, tentano di rispondere per quanto è loro possibile. È da questa condizione umana che «nasce sempre una metafisica (quale che sia)»28. Ogni vero problema sorge a partire da un radicale stato di penuria e di bisogno, ed è alla necessità di fare fronte a questo stato che rispondono la filosofia e la metafisica in quanto esercizio del pensiero. Così ancora Unamuno: «La filosofia risponde alla necessità che abbiamo di formarci una concezione unitaria e totale del mondo e della vita» (STV, 110). Della vita dell’uomo e del suo stare al mondo. Non si possono esprimere con più concisione e rigore i tratti formali essenziali di una sobria metafisica. E sarebbe insensato intendere questa caratterizzazione come un’altra delle molteplici «concezioni del mondo» (Weltanschauungen). Si tratta, piuttosto, del «nostro modo di comprendere o di non comprendere il mondo e la vita». Di comprendere conformandosi alla condizione di esseri finiti. E cioè: comprendere il tutto dell’esistente (mondo) e il nostro modo di essere, appartenendo e corrispondendo a questo tutto. Ove anche il non-comprendere completamente la totalità dell’esistente, né noi stessi nel nostro più radicale stato di bisogno, è una modalità di comprensione: è la testimonianza più adeguata della finitezza della nostra comprensione e della nostra condizione. È ora il momento di domandarci che cosa siamo, che cosa è l’uomo, se vogliamo che quanto veniamo dicendo non appaia molto poco unamuniano. «L’uomo, dicono, è un animale razionale. Non so perché non si è detto che è un animale affettivo o sentimentale» (STV., 110). Qui Unamuno non propone, come potrebbe sembrare, un’altra «definizione» alternativa a quella già nota, rileva bensì la scarsa radicalità di entrambe. La domanda va riformulata: non più cosa è l’uomo, bensì chi noi siamo. La risposta – siamo «mortali dotati di parola»29 – è, a mio avviso, la cosa più importante dell’opera di Unamuno, la più vicina all’essenziale. Non è il momento di fermarci a riflettere su questa nostra condizione. Adesso si tratta solo di rendersi conto che la «mortalità» e «il linguaggio come dote», costituendo la matrice e l’orizzonte del nostro esserci, implicano l’esigenza del comprendere e quindi della metafisica, senza volere, con ciò, predefinire cosa sia metafisica, e senza alcun pregiudizio sul tipo di metafisica che si intende fare. Altro è conoscere, altro pensare. Si pensa, già lo abbiamo detto, nel e con il linguaggio, o il linguaggio pensa in noi: «Il pensiero è un’eredità». E perciò appartiene necessariamente al pensare il fatto che la metafisica sia costitutivamente storia. Lo stesso Kant 28 29

I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B-22. Letras de la antigüedad clásica, O.C., IV, p. 1207.

Unamuno e il problema della metafisica

167

non poté smettere di farsi carico della «storia della ragion pura». E perciò, in un certo senso, «il pensiero alberga in pre-giudizi e i pre-giudizi attraversano la lingua» (STV, 291). E pensare è meditare, ripensare, perché siamo, per la nostra stessa condizione di mortali, nell’accadere (Storia) che ci porge come dono e dote quanto è da pensare, quanto va sempre di nuovo pensato, e cioè liberamente ripensato. «Pensare di nuovo» significa pensare a partire da «l’a-venire»: «unico regno della libertà», e pertanto pensare «poeticamente», in accordo con quella «potenza creatrice e liberatrice» che è «l’immaginazione» (STV, 266-7). È, dunque, in questa originaria ed originante connessione di mortalità e linguaggio che sorge e si sviluppa ciò che noi diciamo «metafisica», e che Unamuno chiamerà con molteplici nomi. Un punto va qui rilevato perché particolarmente importante: la «meditazione sulla nostra mortalità» (STV, 134). Questa meditazione sulla nostra condizione mortale avviene a partire dalla finitezza del linguaggio, perché «il linguaggio è ciò che ci dà il senso della realtà, e non come suo mero veicolo, piuttosto come la sua vera carne» (STV, 291). È qui definito, segnaliamolo anche se di sfuggita, l’orizzonte di significato a partire dal quale si comprende questo scomodo «uomo di carne». Carne dice dolore e sofferenza come caratteri ontologici dell’essere mortale. E dolore e sofferenza sono universali: sono «ciò che unisce tutti noi esseri umani». La comprensione ontologica di noi stessi e del mondo ha luogo attraverso il dolore e la sofferenza: «il mondo soffre e la sofferenza è sentire la carne della realtà» (STV, 230). La metafisica, dunque, «risponde a una necessità», sebbene sia «la dottrina che ci può sembrare più teorica». In quanto essere bisognoso, l’uomo è un sistema di necessità (biologiche, intellettuali, affettive, volitive…), che richiedono tutte la loro soddisfazione, quantunque non sempre siano coordinabili e conciliabili tra di loro. Anche qui si impone la tesi hegeliana secondo cui la filosofia, sorgendo da uno stato di divisione, di opposizione, e dovendo ­affrontare questa contraddizione, non può non riferirsi «a tutto il nostro destino». Quale meditazione sulla fatticità dell’essere mortali – «siamo tutti esposti», si dice in Niebla30 –, la metafisica unamuniana volge la sua attenzione al destino ultimo che integra e totalizza la vita; pertanto nel prendere in considerazione il «principio primo e il fine ultimo di tutte le cose, e soprattutto degli uomini, della loro causa prima e del loro fine ultimo» (STV, 118), risolve il perché causale nello scopo ultimo, col rilevare che il fine opera in latenza già nel principio: «A noi interessa la causa solo in vista del fine» (STV, 128). (Ed è importante considerare già il riferimento all’«interesse», poiché è dallo scontro di interessi e dalla loro separazione e direzione che sorge anche per Unamuno la metafisica razionalista). Non, dunque, la causa, ma il fine. Fa quindi sua, il Rettore di Salamanca, la kantiana concezione mondana (dove mondano significa, come è noto, «ciò che interessa necessariamente a tutti»)

30

Niebla, in O.C., II, p. 573.

56

168

57

Juan Manuel Navarro Cordón

della filosofia come «la scienza della relazione di tutte le conoscenze con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae)», cioè, con i fini che costituiscono l’uomo nella sua essenza31. Or dunque, secondo Unamuno, «la necessità suprema dell’uomo è quella di non morire». Questo è il nostro problema, «il nostro unico problema vitale», il «problema dell’immortalità» (STV, 296 e 155 rispettivamente). Lo stesso vale per Kant, come è detto in Del sentimiento trágico: «Kant era un uomo molto preoccupato dell’unico vero problema vitale dell’immortalità dell’anima», ancor più e ancor prima del problema di Dio, come vedrà «chi leggerà con attenzione e senza paraocchi la Critica della ragion pratica» (STV, 111). Il problema dell’immortalità dell’anima è intimamente legato a quello della libertà, in cui «si apre per noi» (STV, 241) un altro ordine di cose, un altro mondo. O, per meglio dire, non un altro mondo, ma lo stesso mondo però «a rovescio». (Torneremo su questo aspetto). Immortalità dell’anima e libertà: tutto il resto, compreso Dio, è funzionale ad esse e in tale prospettiva considerato. «Le più importanti questioni metafisiche sorgono praticamente – e per questo hanno valore, cessando di essere oziose discussioni di vana curiosità – quando vogliamo renderci conto della nostra immortalità» (STV, 241). La metafisica unamuniana porta l’interrogazione sulle condizioni di possibilità, in questo caso di immortalità, nel luogo mediano dello scontro tra (Zwischen) il desiderio, lo spinoziano conatus, e la ragione – quella ragione che, esercitando la sua analisi in base ai propri criteri di validità, attua «la dissoluzione del nostro problema». Lo scontro, detto in maniera più cruda e realistica, è una guerra tra due forze (potenze), irrisolvibile, dunque agonica, alla fine tragica. Due potenze e forze in contraddizione, in opposizione reale: non è quindi una metafora, più o meno felice, per Unamuno considerare la metafisica «un campo di battaglia di interminabili dispute» (KrV, A-VIII), poiché l’uomo nella profonda intimità della sua anima e nella carne del suo corpo – ché «senza alcun corpo non si concepisce l’anima» (STV, 241) – è questo: «un campo di battaglia tra la ragione e il desiderio immortale» (STV, 180). Sono tanto radicali la contraddizione e l’antinomia da non risiedere nella sola ragione, nella «ragion pura» (Dialettica), bensì nella stessa costituzione ontologica della coscienza, nella realtà sostanziale dell’uomo (nella stessa Analitica, dunque). Ecco, con tutta la chiarezza e il vigore desiderabili, il senso della metafisica: «la metafisica non ha valore se non in quanto cerca di spiegare come si può o non si può realizzare questo nostro anelito vitale» (STV, 241; il nostro corsivo intende rimarcare la possibilità e fattibilità delle sue condizioni ed insieme il necessario carattere riflessivo della meditazione metafisica). La Metafisica è, dunque, in Unamuno «metafisica vitale», e non perché oltre a quella vitale ci siano altre metafisiche, cosa che non è, ma per-

31 I. Kant, A-839, B-867. Così lo legge anche Heidegger: «Sapere essenziale riguardante ciò verso cui è diretta la ragione umana, ossia, l’uomo nella sua essenza», Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), Niemeyer, Tübingen, 1971, p. 47.

Unamuno e il problema della metafisica

169

ché emerge dalla vita stessa e prende in considerazione l’effettiva condizione linguistica e mortale della vita degli uomini e dei popoli. Quanto sin qui s’è detto è racchiuso, rac-colto, in questa definizione della metafisica: «scienza della tragedia della vita, riflessione del suo sentimento tragico». Niente dice meglio l’essenza di questo libro ‘principiale’ quanto questa definizione: «un saggio di questa filosofia, con le sue inevitabili contraddizioni o antinomie profonde, è ciò che ho cercato di realizzare in questi saggi» (STV, 296). Ad ulteriore chiarimento per il lettore, Unamuno aggiunge un altro predicato, definendo tale filosofia-metafisica «chisciottesca» (e si sa, per lo meno a partire da Hegel, che «è solo il predicato che ci dice ciò che è [il soggetto della proposizione], ciò che riempie e dà senso alla parola»: Phänomenologie des Geistes, Vorrede). Ma è necessario citare l’intero passo, e non solo per sottolineare maggiormente qual è il problema della metafisica, o se si vuole, cos’è la metafisica come problema: la filosofia-metafisica chisciottesca «è la filosofia, è la logica, è l’etica, è la religiosità che ho cercato di abbozzare e ancor più di suggerire più che di sviluppare in quest’opera» (STV, 283). Non è una ‘danza’ di «discipline», un semplice ammasso (coacervatio, per rubare a Kant la parola: «dar Ganze ist nicht gehäuft»: KrV., A-833, B-861), ché in questa apparente confusione si cela un’articolazione (articulatio), che dà ordine ai «saggi», che non sono «meri tentativi» (di nuovo Kant), meno ancora, testi dispersi, come, per dirla con Aristotele, un esercito in fuga. V’è in essi un filo conduttore e una certa sistematicità, ma non ogni ordine e sistema («assemblaggio», ora Heidegger) deve avere un’architettura razionale. Altro tema kantiano, questo dell’Architettonica. Ma – osserva Unamuno – di fronte ai «sistemi metafisici», forgiati e pensati secondo «concatenazioni logiche»32, «la nostra metafisica», la metafisica vitale e chisciottesca, è «misantropica» (STV, 292). «Abbiamo bisogno di Dio per salvare la coscienza», così in modo netto Unamuno. Heidegger, meditando sull’essenza fondamentale della metafisica, la onto-teo-logia, si è chiesto «come entra il Dio nella filosofia» («Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik», in Identität und Differenz): questione decisiva riguardo al modo di pensare Dio e il divino. Pari rilevanza ha la domanda in Unamuno, poiché non sono lo stesso il «Dio logico» e il «Dio cordiale e vivo» (STV., 201), ed è decisivo come entri Dio, come lo si faccia entrare: anche in questo si gioca il senso della metafisica. Dio entra per una necessità vitale, la stessa suprema necessità che sostiene la metafisica in quanto disposizione naturale. Desiderio di non morire e «anelito o fame di divinità» crescono uniti in un nodo gordiano e si tengono per mano, anche se il desiderio di non morire sta un passo avanti e fa strada, poiché «la vita […] deve essere immortale» e «il concetto di Dio […] scaturisce dall’eterno sentimento di Dio nell’uomo» (STV, 194). Certamente Dio è stato fatto entrare nella filosofia a partire dalla problematica tipica della «metafisica razionale»

32

Vida de Don Quijote y Sancho, in O.C., vol. III, 52.

58

170

59

Juan Manuel Navarro Cordón

(STV, 178), della «concezione dell’universo» come «sistema logico»33. Ma, al punto in cui siamo, ciò che importa è capire come per la concezione unamuniana della metafisica la questione di Dio sia fondamentale. Come per Kant la proposizione «esiste un Dio» è una delle due proposizioni-cardine della ragion pura (KrV, A-741-2, B-769), così per Unamuno la domanda: «esiste Dio?» è la domanda «sfingica», e «la Sfinge è la ragione» (STV, 218). Questa domanda ne implica un’altra: Dio «è qualcosa di fondamentale al di fuori della nostra coscienza, del nostro anelito?» La modalità della domanda, di ogni domanda, apre un cammino e al contempo ne chiude altri per il necessario svolgimento della questione fondamentale. Già dal modo in cui è posta la domanda dipende l’apertura del versante dell’una o dell’altra metafisica. Questo doppio versante del problema di Dio attraversa tutto Del sentimiento trágico. Chiediamoci ora che ne è della libertà. Altra questione tipica, essenziale della metafisica. Potrebbe sembrare che, sebbene non assente in questa metafisica vitale e chisciottesca, il problema della libertà non sia fondamentale e che compaia solo ai margini. Ma così non può essere dove il desiderio e la volontà sono elementi ontologicamente costitutivi della coscienza dolente – nome, questo, per l’uomo in carne e ossa. La stessa domanda dobbiamo porci riguardo al «mondo»; non certo perché è una delle idee «metafisiche» – insieme all’io e a Dio –, ma perché Unamuno intende con «mondo» l’unità-­ totalità cui aspira la metafisica, come s’è già detto. E per un altro motivo ancora, per un aspetto che oseremmo definire «esistenziale». In realtà siamo mortali dotati di parola «posti alla radice del mondo»34. La coscienza dolente con il suo anelito e il suo desiderio è fatticamente nel mondo, luogo reale della sua «nascita carnale» e spazio di apertura spirituale. Siamo-nel-mondo es-posti non solo in quanto ci troviamo e sentiamo in esso gettati e abbandonati – «tutti siamo esposti» –, ma anche perché il mondo costituisce l’orizzonte dinamico-temporale di ciò che desideriamo e vogliamo essere. La coscienza è nel mondo e «il mondo esiste per la coscienza» (STV, 116): «io e mondo si costruiscono vicendevolmente»35. La modalità immediata dell’intreccio coscienza-mondo è desiderio e volontà: «La coscienza, scrive Unamuno, anche prima di conoscersi come ragione, si sente, si tocca, esiste soprattutto come volontà»; «sentiamo noi stessi come sentimento di volontà» (STV, 195 e 197). Sentiamo noi come volontà e «sentiamo» l’altro dalla nostra volontà, senza il quale non ci sarebbe neanche il sentire come sentimento di volontà. È l’intreccio in cui già fatticamente ci troviamo e in cui accade dinamicamente e temporalmente il superamento, la trascendenza verso il telos del nostro volere e l’aspirazione verso il tutto: il tutto o totalità del mondo. Posta alla radice del mondo, la coscienza «staccandosi dalla placenta del mondo si vede di fronte a questo e, poiché si riconosce diversa da lui, Libros y autores españoles contemporáneos (1898-1936), in O.C., vol. III, 1090-1091. Nicodemo el fariseo, in O.C., VII, 373. 35 O.C., I, 992. 33 34

Unamuno e il problema della metafisica

171

deve volere un’altra vita» (STV, 133), un altro mondo. Ma cosa è questo altro mondo e come sorge? Nell’originaria sintesi-distinzione, che unisce-separa (Unter-scheidung) coscienza e mondo, il mondo si rivela insieme con la coscienza. È necessario sottolineare la manifestazione o rivelazione del mondo ed insieme la distinzione in cui esso si mostra sin dal principio, ossia il da dove della distinzione: il luogo e la modalità della nascita del mondo. «Non è solo la fame ciò che il mondo ci rivela; è anche l’amore»36. Il mondo si rivela a noi duplicato, diviso; si rivela come distinzione. Non «la distinzione tra oggetto e soggetto», questa è «una distinzione […] che il cogito […] ha introdotto» (STV, 130-131). Più antico del «cogito, ergo sum» è il «voglio, dunque sono». Non che la distinzione venga in qualche modo introdotta; la distinzione è originaria. ­Co-originaria alla sintesi. Si dà, la distinzione, nell’intreccio originario di coscienza e mondo, fame e amore (desiderio, vita), mondo sensibile e altro mondo. In tale darsi si esprime un dato di fatto: «c’è […] l’istinto di conservazione, la fame; […] l’istinto di perpetuazione, l’amore». Tale è la fattica costruzione ontologica della coscienza. «C’è un mondo, un mondo sensibile […] e c’è un altro mondo, quello ideale». Oltre tale fatticità non si può andare per assistere alla nascita del mondo. «Perché ci deve essere il mondo? […] L’esistenza non ha ragion d’essere»37. «Esistere è tanto gratuito come continuare ad esistere sempre» (STV, 137). È tuttavia necessario un presupposto da cui muovere per pensare la fatticità dell’esistente: «il campo insondabile e illimitato del possibile». Dal possibile e dal suo enigmatico potere, «l’istinto», «ci tira fuori e separa ciò che è esistente per noi» (STV, 124 e 123). Sembrerebbe che più in alto della realtà effettiva ci sia la possibilità. Il mondo, dunque, alla radice della coscienza, come spazio di tempo aperto all’esercizio del volere e della volontà, e come totalità cercata attraverso l’amore: due aspetti, o concetti, di mondo – sensibile, percettibile, apparente, carnale, l’uno, soprasensibile, ideale, sostanziale, spirituale, l’altro (in tutti questi modi lo nomina Unamuno) – fondamentali entrambi per la metafisica vitale. Non più della libertà, ma neanche meno. A rigore, libertà e mondo, entrambi concetti fondamentali, sono inseparabili. Inseparabili poiché si rinviano l’un l’altro, correlati perché non c’è propriamente mondo se non per la coscienza, e in certo modo la libertà si annida nel mondo; ma, ciononostante, differenti, per la differenza tra il presente del mondo e il perenne ad-venire della libertà nella sua realizzazione mondana. La metafisica chisciottesca consiste nel passaggio dal mondo sensibile al mondo soprasensibile, nel passaggio dall’uno all’altro. Non è, però, un passaggio unidirezionale, ma a doppio senso. E questo per una duplice condizione esistenziale: da un lato, perché la libertà ha bisogno del mondo come suo luogo di realizzazione; dall’altro, forse più originariamente, perché è la libertà quella che ci apre il mondo nella sua doppia faccia o piega: non solo c’è un mondo per la libertà, ma il mondo 36 37

O.C., VIII, 1087. O.C., I, 1176.

60

172

61

Juan Manuel Navarro Cordón

si modifica, rinnovandosi e crescendo grazie alla libertà. Ne El secreto de la vida, testo che richiede un dettagliato commento, Unamuno scrive: «C’è, al di sotto del mondo visibile e rumoroso in cui ci agitiamo, al disotto del mondo di cui si parla, un altro mondo invisibile e silenzioso nel quale riposiamo, un altro mondo del quale non si parla. E se fosse possibile rovesciare il mondo e rigirarlo da cima a fondo, e portarne alla luce gli aspetti tenebrosi, oscurando ciò che è illuminato, e far risuonare ciò che tace, mettendo a tacere ciò che non parla, allora tutti dovremmo comprendere e sentire […] dove si trova la libertà»38. È ora importante anche solo indicare il significato ontologico-metafisico della libertà. La libertà è la «forza» e l’«energia» della volontà, «forza intima, essenziale, […] impulso di essere tutto […] senza smettere di essere ciò che siamo» (STV, 197). «Amore» è l’altro nome per questo desiderio che, operando nel mondo sensibile («essere è operare»), «ci apre al balenare dell’altro», in cui la libertà è legge (STV, 132, 190). Ed è dal fondo stesso della volontà che deve estrarsi il «per che» ultimo che regge la struttura d’ogni «per» della nostra coscienza nel mondo (STV, 266). La libertà non è un possesso, «non è uno stato, ma un processo»39; è un atto mai terminato, un’«eterna ­inquietudine» che non dispone per il suo esercizio di altro campo o territorio che il mondo: «La vera libertà […] va cercata nel mondo» (STV, 279). Radicata nel mondo, la libertà fa fronte al mondo sensibile in noi e fuori di noi («ci sono in tutti noi due uomini, quello temporale e quello eterno»: VII, 372), lotta contro il giogo del destino (STV, 190), anche quello del mondo oggettivo in quanto tradizione sociale (STV, 196). Con chiara eco del Platone della caverna, Unamuno afferma che la libertà inizia il suo compito come liberazione, «liberazione da questa posizione del tempo e dello spazio»: «liberare i galeotti» con una duplice azione, liberando loro dalle «catene della codardia che li tiene prigionieri», e liberando in loro lo spirito: liberarli per la libertà40. La libertà per poter essere liberi non ha niente a che fare con l’arbitrio, si rapporta, bensì, alla necessità della legge. Già dal saggio En torno al casticismo Unamuno pensa «la vera libertà» in relazione alla «comprensione viva del necessario», come «libertà che sa rendere le leggi delle cose leggi della nostra mente». La vera libertà «nasce da» tale comprensione, da tale agire e operare. Niente a che fare, pertanto, con la «nuda volontà» («quella che Schopenhauer apprezzava nei castigliani», come Unamuno stesso spiega molto significativamente e chiaramente), con la «semplicistica volontarietà», che converte la vera volontà, che si vuole libera nel mondo, in volontarismo, in idealismo della libertà: in «volontà […] che non penetra nel corso delle cose e non si appropria delle loro leggi», che non plasma la sua legge «compenetrandosi nella… realtà, tramite una vera operosità». La libertà, come legge O.C. III, 879-880. O.C., IX, 71. 40 Vida de Don Quijote y Sancho, O.C., III, 253, 112 e 235 rispettivamente. 38 39

Unamuno e il problema della metafisica

173

presente «nella trama infinita del mondo»41, è la stessa volontà, colta nella sua essenza amorosa, tale che ci apre al balenare di un altro mondo, in cui «non c’è altra legge che la libertà dell’amore» (STV, 190). Libertà, dunque, per la libertà, ma non la libertà… della ragion pura e del dovere formale, bensì la libertà incarnata dell’«amore universale»: «non c’è niente di più universale dell’amore individuale, poiché ciò che è di ognuno è di tutti» (STV, 191 e 136). L’amore, la volontà che si desidera libera, ci apre a un mondo comunitario, a una comunità etica, in cui legge è libertà. Sotto questo aspetto, «la libertà è la coscienza della legge; è la coscienza della necessità morale»42. Quello che precedentemente si è nominato mondo soprasensibile o sostanziale, non è altro che questa comunità di uomini liberi, compreso Dio stesso che nella libertà comune degli uomini lotta per liberarsi. «L’anima di ciascuno di noi non sarà libera finché ci sarà qualcosa di schiavo in questo mondo di Dio, neanche Dio, che vive nell’anima di ognuno di noi, sarà libero fintanto che non sarà libera la nostra anima»43. La guerra, in quanto struttura ontologica del mondo, e cioè del tutto quale intreccio di dolore e amore, non cerca altro che liberare per la libertà persino Dio, «questa Coscienza dell’Universo […], che chiamiamo Dio, […] che lotta per liberarsi» (STV, 192). La libertà non è arbitrio individuale e neppure individuale libertà: la libertà è «collettiva e sociale»44 non solo nel campo politico e in quello morale, sì anche in quello religioso. Religione è «il sentimento di una relazione di dipendenza con qualcosa di superiore a noi»; è «la relazione con Dio» (STV, 237, 236). Religione è il legame e la relazione con «questa misteriosa potenza», con questo potere misterioso che tiene unito e regge tutto quanto c’è: il mondo nella sua totalità. Nell’amore si illumina e si intravede questa potenza misteriosa. E poiché tale potere lotta nell’amore, poiché sta vicino all’amore sofferente, l’amore «guarda e tende sempre all’avvenire», «possiede un aspetto misterioso che è il tempo», «cerca qualcosa che sta al di là», «spera, spera sempre». Per tutto questo è «la cosa più tragica che ci sia nel mondo e nella vita» (STV, 227, 226, 187). La dimensione amorosa di questa potenza che è la volontà che si desidera libera, costituisce, nella sua costitutiva trascendenza e come pensiero-dell’oltre, la metafisica quale disposizione naturale della condizione umana. «Cosa è l’amore se non metafisica», si legge in Niebla45. L’amore dà inizio alla meta-fisica. Ma in verità c’è da dire di più, perché non avendosi, non in un altro mondo ma in questo, altra legge che la libertà dell’amore, bisogna conseguentemente dire che la metafisica è metafisica dell’amore, metafisica della libertà. Unamuno la chiama «meterotica». In essa noi O.C., I, 801, 823, 825 e 843 rispettivamente. O.C., IX, 70. 43 STV, 233. Nel poema «Liberati, Signore!» scrive Unamuno: «Finché rimarrà qualcosa di schiavo / la mia anima non sarà libera / né Tu, Signore, / né Tu che in lei vivi… / sarai Tu stesso schiavo», O.C., VI, 226. 44 O.C., IX, 247. 45 O.C., II, 588. 41 42

62

174

63

Juan Manuel Navarro Cordón

mortali veniamo affratellati dalla radice, poiché la coppia «Amore e Morte» «è il cimento della meterotica». La realizzazione di questa metafisica dell’amore ci pone «davanti al terribile mistero della morte» (STV, 139). Ma a ciò siamo chiamati dalla libertà stessa, che ci pro-pone di attraversare e superare lo spazio socio-politico e morale: Unamuno fa della meterotica la sua «metapolitica»46. La proposta e la chiamata della libertà, matrice e coronamento della relazione religiosa, mostrano che la religione, sotto questo aspetto, non è altro che «un’economia trascendente, o se si vuole, metafisica» (STV, 296). Realizzazione della libertà, coronamento della religione «nel possibile», postilla Unamuno (STV, 267; corsivo nostro). Ché nessuno conosce il potere di questa potenza; da ciò la sua condizione misteriosa per noi, e la radicale incertezza di ogni metafisica. Ma anche, e per la stessa assoluta indicibilità logico-razionale, la radicale mancanza di una certezza assoluta dell’impotenza di questa misteriosa potenza: il non potere della libertà. A questo punto la parola che deve essere pronunciata è: il male. La strada della libertà deve restare aperta: una libertà realizzata e coronata, una volontà consumata, è la negazione della libertà, è la morte della volontà creatrice. Forse in questo consiste la morte, forse è così che si può morire restando vivi. Per questo «la libertà è ideale e nient’altro che ideale, e nell’esserlo sta esattamente tutta la sua forza. E ideale e interiore è l’essenza stessa del nostro appropriarci del mondo»47. Nel saggio, sopra citato, El secreto de la vida, Unamuno parla di «rovesciare il mondo e rigirarlo sotto sopra», giungendo quasi a indicare «dove sta la libertà». Possiamo ora dire qualcosa a riguardo: la libertà non sta nel mondo creato né fuori del mondo, ma sul limite del mondo, impossessandosi e dis-impossessandosi di esso. «La libertà sta nel mistero», nel mistero del Mondo. Che è anche «il terribile mistero del tempo, il più terribile di tutti i misteri, il loro padre»48. La metafisica, come la libertà nel mondo e del mondo, è il campo tragico di battaglia tra finitudine e infinità. In questa sede dobbiamo limitarci a segnalare ciò che è in gioco in questa chisciottesca metafisica vitale: pensare la libertà come possibilità di «rompere i suoi limiti limitandosi», di «ingrandire i suoi confini all’infinito, ma senza infrangerli». Non si tratta di un impegno tragico? Ma possiamo smettere di pensarci? Anche Unamuno fece esperienza del discredito della metafisica, non solo «dopo le fantasmagorie degli hegeliani», ma anche nella pre-kantiana formulazione razionalista. Egli stesso s’impegnò nella distruzione di tale metafisica razionalista, posto che ci fosse ancora, tra le sue macerie, qualcosa da dis-fare. Ma questo non significa che la metafisica è insensata, né che è impossibile elaborare una metafisica su solide basi. Unamuno «non potrebbe rassegnarsi alla sconfitta della metafisica»49. Quindi deve rinnovarla. Teresa, O.C., VI, 560, 569 e 669 rispettivamente. O.C., I, 950. 48 O.C., III, 882. 49 O.C., III, 359 e 877 rispettivamente. 46 47

Unamuno e il problema della metafisica

175

Non altro sentimento e intenzione attraversa e tiene insieme i saggi di Del sentimiento trágico, opera che va letta come una Critica del sentimento tragico, eco della prima Critica kantiana, un effetto della «storia effettuale» di questa, ancorché appartenga ad altra esperienza, ad altro mondo. Per concludere rileggiamo nel libro unamuniano, in estrema sintesi, solo annotandoli, gli echi della Critica kantiana. L’esercizio critico del pensiero, radicato in quello stesso sentimento tragico che ha ad oggetto, e mosso dalla libertà, opera contro lo stato di minorità che Unamuno chiama «codardia del pensiero» e «pigrizia spirituale». La «Critica del sentimento tragico», il «liberare galeotti», cerca di rompere «le catene della codardia che li tiene prigionieri» e di «frugare nelle inquietudini interiori» con lo scopo di porre fine al «sonno dello spirito». Mi è più comodo affidarmi alle mani del «medico» e del «curato» che «mettermi a pensare alle mie origini e al mio destino»; che pensare da me, autonomamente50. Di fronte a una vita sottomessa «all’autorità che promana dall’alto»51, la caratteristica propria dei «popoli colti di oggi» è non soffrire «né di stupidità intellettuale né di stupidità sentimentale» (né razionalismo né sentimentalismo empirico) (STV, 183). Sicché Unamuno non concepisce «uomo colto senza questa preoccupazione» per il problema metafisico52. Come s’è già detto, è questo il grande problema e l’assunto di questo «libro principiale». Anche per Unamuno la Critica è la caratteristica di un’epoca illuminista. Considerata nel suo «aspetto formale», la Critica53 kantiana consiste nell’esaminare l’uomo in quanto essere sensibile-razionale, avendo di mira la «ragion pura» e insieme la radicale finitezza e limitazione del sua natura sensibile. Tale esame consiste nell’istruire un giudizio (il richiesto «tribunale della ragione») nel quale si deve analizzare (scheiden), distinguere (unterscheiden), scomporre (zergliedern) la ragione, in modo da localizzare (erörtern) tutte le sue rappresentazioni in generale ri-portandole al loro corrispondente luogo di nascita (Geburtsort) e appartenenza (hingehören). Ciò al fine di chiarire, mediante la dovuta riflessione (Überlegen) – e la riflessione è un dovere –, l’antagonismo, o opposizione (Widerstreit), la contraddizione (Widerspruch), l’antinomia (Antinomie) che tra loro sussiste, sì da poter decidere con fondatezza (entscheiden) sui problemi e i fini essenziali della ragione (teleologia ­rationis humanae), al di là delle confusioni (Verwechslungen), delle false interpretazioni (Missdeutungen), degli abbagli (Verblendugen), delle apparenze (Scheine) ed errori (Irrtum), per non dire dei traviamenti e delle ­deviazioni, 50 Vida de Don Qujote y Sancho, O.C., III, 234-5. Troviamo un’eco anche de El conflicto de las Facultades; nel STV (296) contrappone alle «nostre necessità» materiali, di cui si occupa l’«economia chiamata politica» e che assicura il Diritto, un’»economia trascendente». 51 O.C., I, 832. 52 O.C., III, 261. 53 Per la traduzione del lessico kantiano si è utilizzata la traduzione italiana della Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Roma/Bari, Laterza, 1965 (nona ed.) [Nota della traduttrice].

64

176

65

Juan Manuel Navarro Cordón

dopo tanto andare a tentoni [herumtappen] in un intrico di puri concetti (unter blossen Begriffen) – che è quanto c’è di peggio (das Schlimmste)54. Ora, tutti questi aspetti e tutte queste dimensioni della Critica sono presenti, in una maniera o nell’altra, in Del sentimiento trágico. Anche il pensiero critico di Unamuno parte da un Faktum e si vede spinto, come è stato dimostrato, da alcuni problemi fondamentali e scottanti presenti in questo complesso Faktum, che è come un Giano bifronte. Da un lato esprime la strutturale condizione umana, la sua fatticità ontologico-esistenziale, dall’altro mostra l’impronta e la memoria dell’intrinseca storicità della condizione umana a causa del tempo. È vero che l’uomo è posto, o esposto/es-posito, sin nella radice del mondo. Però il mondo non è solo né principalmente Natura, è anche mondo sociale e storico. Questo significa che il Faktum che costituisce «il punto di partenza logico dell’intera speculazione filosofica, non è né l’io, né la rappresentazione (Vorstellung) del mondo qual si presenta immediatamente ai nostri sensi, ma è la rappresentazione mediata e storica, umanamente elaborata, che ci è data principalmente nel linguaggio mediante il quale conosciamo il mondo; non è la rappresentazione psichica, è la rappresentazione pneumatica» (STV, 290-1). Prossimo alla fine dei suoi giorni, Unamuno ripete in forma di domanda: «La filosofia, cos’altro è se non la storia del pensiero umano universale incarnato in parola? […] È il nostro mondo […] la sua matrice spirituale»55. Esposto nella matrice del mondo, l’uomo sente e pensa dentro e dalla matrice spirituale del mondo: l’esperienza storica che i popoli fanno del reale plasmata nel linguaggio e come linguaggio. La critica unamuniana del sentimento tragico pensa in questo «bathos». «I sentimenti sono pensieri inquieti, in agitazione»56, tanto più se la loro condizione, oltreché storica, è tragica. V’è, dunque, una storia del sentimento tragico, come v’è – Kant ha dovuto riconoscerlo – una «storia della ragion pura». L’altra faccia del Faktum l’ho chiamata «fattico-ontologico-esistenziale». Ci è familiare. Limitiamoci a ricordarla. «La sofferenza è la realtà immediata» (STV, 230). È il terribile mistero della mortalità. È il conflitto tra la ragione e il sentimento vitale – questo campo di battaglia che è l’anima divisa tra la ragione e il desiderio immortale. È necessario un chiarimento: «quello che chiamiamo anima non è altro che un termine per designare la coscienza individuale nella sua interezza», l’uomo carnale57. La critica si esercita sulla totalità della coscienza, senza che alcuna analisi, o analitica, possa dissolvere l’unità originaria dei suoi momenti costitutivi (la sintesi originaria e a priori che si mostra conflittuale nella co-appartenenza dei suoi elementi). Individuale e allo stesso tempo uni54 Non è opportuno né citare tutti i passi menzionati, né tanto meno commentarli. Il nostro percorso odierno è un altro. 55 O.C., IX, 449. 56 O.C., IX, 450. 57 STV., 156. Perché non ricordare un altro pensatore?: «anima è solo una parola per qualcosa nel corpo… il corpo… una guerra e una pace»: Così parlò Zarathustra, I, «Degli spregiatori del corpo».

Unamuno e il problema della metafisica

177

versale, la coscienza è, nella sua individualità, il luogo nel quale si può osservare il tutto, poiché in ciò che lì è esposto, e cioè: nella coscienza individuale, tutto il resto «ha lasciato la sua dolorosa impronta» (STV, 191). La coscienza dolente è così il «luogo critico», la cerniera o copula tra il Mondo e la Coscienza dell’Universo-Dio. In questo senso è il centro e il medio (Mitte) delle cose tutte, il loro incrocio e la loro croce. È il tra (Zwischen) dell’opposizione, non logica ma reale, della vita e della ragione, «questi due denti opposti che ci triturano l’anima» (STV, 187; corsivo nostro), non potendo, né volendo, noi rinunciare a nessuna di queste due forze contrarie. Nell’impostazione critica unamuniana questa opposizione reale di forze è riconosciuta come Faktum e si mantiene costante fino alla fine. Non si può sopprimere, superare (aufheben) «la verità razionale», perché – si dice – non «ci appagava» (non ci pacificava) la sua consolazione, come se questa potesse essere considerata ‘verità razionale’: «la pace tra queste due potenze è impossibile, e bisogna vivere della loro guerra» (STV, 172). La guerra, dunque, l’opposizione reale, è «la condizione della nostra vita spirituale». Bisogna darsi una disciplina nella guerra: viene qui alla luce l’unamuniano uso polemico del sentimento – del sentimento tragico. Davanti a questo Faktum dal doppio volto, la nuova critica («questa posizione critica»: STV, 185), nel suo doppio versante diacronico e strutturale, separa (STV, 123) il possibile dal reale, l’esistente per noi (uomini in carne e ossa) dalla realtà a noi ignota. Distingue il tutto in generale in mondo sensibile e mondo soprasensibile, e noi stessi in questa duplice condizione (STV, 122, 130, 131, 124, 125, ecc.). «Un lavoro di auto-chirurgia che opera su sé stesso» (STV, 296), disarticolando58 l’anima nelle sue forze, nell’atto stesso della «riflessione sul sentimento basilare nella vita» (STV, 294-295). Questa «riflessione dell’anima su sé stessa» non è, pertanto, astratta e intimista («come un rinchiudersi in sé stessi»). Se così fosse, sarebbe solo una «presunta riflessione», un «assurdo»59. La riflessione concreta muove dall’anima nella sua interezza, nella sua carne e nel suo spirito, e all’interno di questo tutto si sviluppa, osservando i nostri atti e le nostre opere. Riflessione, dunque, interna al mondo e alla sua matrice spirituale. «Bisogna convertire in riflessione l’istinto se si vuole che la riflessione giunga a essere istintiva. E a tale proposito, non c’è niente di meglio che esaminare il linguaggio»60, perché nel linguaggio ci viene consegnato il mondo e in esso parliamo, al contempo, a noi stessi e agli altri. E giacché la critica cresce a partire da un mondo socio-storico, riflettere è ripensare (STV, 290), è pensare «contro» il già-pensato, pensare in altro modo ciò che è da pensare. Attraverso la critica il pensiero chiarifica le perversioni, le confusioni e le sofisticherie di una metafisica torbida (STV, 130, 131, 157, ecc.) Previene, anche mediante una sana skepsis, «le sofisticate O.C., I, 1010. O.C., I, 1085. 60 O.C., I, 1011. 58 59

66

178

67

Juan Manuel Navarro Cordón

sottigliezze» di una «ragione incauta» che «pretende di conferire valore di realtà oggettiva a ciò che non ne ha»; che, facendo un uso non legittimo del suo potere (STV, 160), reifica e ipostatizza sia l’anima che il divino, distorcendo questo in «ens realissimum», «ens summum» (STV, 158-9, 213, 203, ecc.). Questa critica è certo negativa riguardo alla teologia razionale e alla psicologia razionale (Dialettica); è stata, però, anticipata dalla critica positiva della coscienza dolente (Analitica). Ma: a cosa obbedisce questo stato di cose? La risposta è di una concisione e chiarezza estreme: «C’è al fondo un errore di metodo, di logica» (STV, 161), dovuto agli opposti interessi delle forze in lizza (STV, 178). Perciò è necessario cambiare metodo, abbattendo e ricostruendo il vecchio edificio, mutandone la collocazione (Wohnplatz), senza peraltro pretendere di conseguire la kantiana «completa certezza». La metafisica chisciottesca, anche se non è propriamente un «trattato del metodo», è «tutta un metodo» (STV, 299). Nella struttura di Del sentimiento trágico è dunque accolta l’esigenza della Critica di farsi carico del problema della metafisica. Chiudo con un quadro sinottico, avendo innanzi l’Indice di entrambi i libri. I primi due capitoli di Del sentimiento trágico sono come la Prefazione e l’Introduzione nei quali si ri-propone la questione metafisica. Il terzo, il sesto, il settimo e il nono costituiscono l’Analitica della coscienza sentimentale, inseparabile dall’Estetica (come nella Critica di Kant), poiché carne e spirito procedono unite (almeno in noi uomini), ove le si pensi correttamente. Contro eventuali deviazioni parlano i capitoli quattro, cinque e otto, che rappresentano la Dialettica della ragion pura-dogmatica. L’Analitica permette la critica della Dialettica e apre la strada all’azione in cui consiste l’essere della coscienza (si rammenti l’affermazione unamuniana: «essere è operare e solo ciò che opera, ciò che è attivo e in quanto opera, esiste»: STV, 196). I capitoli undici e dodici definiscono Il canone pratico dell’intenzione finale della coscienza, dacché nel fondo dell’abisso, nel conflitto tragico, può esserci, «fondata sul sentimento» (STV, 187), la «base di una vita vigorosa, di un’azione efficace» (STV, 183). Canone pratico che si caratterizza come una «Poietica», emergendo dall’analitica di una coscienza dolente, compassionevole e amante, intenta al divino a partire dal religioso: «c’è qualcosa di più intimo di ciò che chiamiamo morale […]: c’è uno spirito d’amore»61. Qualcosa s’è già detto sulla Disciplina, oltre l’evidente critica unamuniana di ogni tentativo di costruire la metafisica con il metodo della matematica e della logica. Riprendiamo l’Architettonica. Se non c’è un «sistema metafisico», non per questo i saggi Del sentimiento trágico costituiscono una mera «coacervatio». C’è – lo si è detto – un abbozzo di metafisica e, in questo, un ordine e una connessione, suggeriti dalla stessa impostazione della questione fondamentale e del suo svolgimento. Unamuno arriva a parlare dello «sviluppo […] filosofico di un sistema razionale» (STV, 236). E

61

Vida de Don Quijote y Sancho, O.C., III, 98.

179

Unamuno e il problema della metafisica

questo c’è in Del sentimiento trágico, sempre che per «sistematico» s’intenda un filosofare «guidato e sorretto da una connessione e da un ordine interni al domandare e da questo totalmente determinati»62. In questo preciso senso, tutto ciò che «sorge» (STV, 219) dal sentimento vitale – ossia, l’etica, l’estetica, la religione – non solo ha una «base» (STV, 183, 299), ma può essere «giustificato» (STV, 236). È possibile leggere, infine, l’ultimo capitolo dell’opera, «Don Quijote en la tragicomedia europea contemporánea», come una «Storia della ragione». Una metafisica del presente, alla luce e all’ombra della nostra eredità. Una metafisica del presente eterno, della questione di ora e sempre: chi siamo e cosa possiamo sperare. (Traduzione dallo spagnolo di Vittoria Foti)

62

M. Heidegger, Schellings Abhandlung…, cit., p. 33.

68

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto* Félix Duque

È ben noto che María Zambrano viene comunemente considerata la migliore discepola di Ortega y Gasset. E lei, generosamente, non l’ha mai n ­ egato. Ma il vero discepolo è parricida. Divora la carne del padre e la trasforma in carne della propria carne. In tal senso, la Zambrano è doppiamente parricida, poiché condensa in sé gli sforzi contrapposti di Unamuno e di Ortega, fondendo cuore e mente in ciò che definisce «viscere», gli inferi dell’anima: il luogo nascosto in cui si rivela anche il deus absconditus. Al riguardo, la Zambrano distingue tre tipi di ragione: quotidiana, mediatrice, poetica. Tre tipi che io vorrei nominare a partire del loro nascosto sito di provenienza (lucus a non lucendo) come ragione situata, situatrice e liminare. La prima, trionfante – a dire della Nostra – nell’idealismo tedesco (di cui marxismo e positivismo non costituirebbero che brutte copie e strascichi – in assonanza con Heidegger) è quella che, come tecnica, si è estesa a livello planetario. Trionfo della quantità. Fine di ogni speranza. La seconda sarebbe la ragione stoica, incarnata da Seneca: una ragione «ricolma di tenerezza materna per consolare l’uomo nel suo spaesamento (en su desamparo)»1. Si tratta, quindi, di una ragione che media tra il luminoso lógos greco (perduto per sempre) e l’indigenza di un tempo che ha perduto sia gli dèi che l’essere. Questa ragione riecheggia da lontano l’essere greco, come «pietà che viene dall’essere»2. Tuttavia, questa ragione non è capace – da sé sola – di afferrare l’intima realtà delle cose, perché essa ci parla ormai da un luogo. Da un luogo passato, senza mostrare il dono stesso del luogo: incapace di dar luogo ai luoghi in cui le cose si mostrano. C’è quindi bisogno di una mediazione più profonda, di radice cristiana. Una mediazione che sia ragione e azione al tempo stesso: «E così * Conferenza tenuta al Convegno internazionale «Verità e Poesia. L’esperienza di pensiero di María Zambrano», organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno (31 gennaio - 1 febbraio 2003). 1 M. Zambrano, «Un camino español: Séneca o la resignación». In: Senderos, Barcelona 1986, p. 113. 2 El pensamiento vivo de Séneca, Buenos Aires 19652, p. 57.

69

182

70

71

Félix Duque

l’azione primigenia, originaria e primordiale dei primi mediatori e innanzi­ tutto del Mediatore supremo, ha dovuto realizzarsi nell’aprire lo spazio proprio, qualificato, dove la sua funzione talora divina talaltra umana ma comunque sempre in qualche modo sotto il peso del divino, si verifica»3. Qui abbiamo un esempio di limite-mediazione che, a mio giudizio, supera di gran lunga il ruolo della ragione vitale orteghiana. Giacché quella apertura primordiale dello spazio rinvia a sua volta al limite attraverso il quale si dà luogo. E questo limite è l’uomo (o la ragione poetica umana), non Dio. Al limite, è il Dio abbassatosi a uomo, piegato sotto il peso della montagna divina («Non si compia la mia volontà, ma la Tua», dice Cristo a Getsemani). Il senno, il sentiero, o meglio ancora: il filo che separa e cuce al tempo stesso – vicinanza nella massima lontananza – realtà ed essere (ossia il sacro e il profano, in termini orteghiani) è l’uomo, che da un lato si apre al sacro con il sacrificio d’amore della sua vita (non si porta impunemente il sacro alla presenza del mondo), e che dall’altro rivalorizza, risacralizza ciò ch’è stato profanato, ossia consegnato e messo al servizio del fare quotidiano, attraverso ciò che Nietzsche chiamava «le feste della memoria», ossia la parola poetica. Ne consegue che sacrificio d’amore e Parola sono i due lati della soglia, di quella linea osmotica che è l’uomo, il quale, in quanto riconosce tale onere divino, si fa persona: tra la nostalgia e la speranza, dice la Zambrano. Della ragione poetica zambraniana si può ben dire che costituisca un’attività fenomenologica nello stretto senso di Sein und Zeit (§ 7). Non si tratta, infatti, di descrivere il darsi diretto di un oggetto nella sua intentio recta ma di costeggiarlo, facendo sorgere da un dire indiretto, obliquo, ciò per cui esso si configura come accadimento intimo. La ragione poetica non descrive una forma già tracciata, ma svela l’azione stessa del tratto in cui hanno luogo le forme intime della vita umana, in cui le cose sono cristallizzazioni di una situazione, e non mere circostanze, come in Ortega (perché una linea, un taglio, non possono presentarsi come centro. Non l’uomo ma Dio è il centro). Così, potrebbe ben dire Zambrano che nella ragione poetica si fa realmente l’esperienza della coscienza degli oggetti sicut apparent: fenomeni che vengono dal tempo primordiale del futuro, sentito nella speranza, e che rompono con la discontinuità del loro apparire ogni coscienzialismo lineare e sistematico, ogni riduzione trascendentale a un ego puro, laddove l’esistenza umana resterebbe «fuori gioco». Tuttavia, tale ragione si rifiuta anche di cadere nell’esistenzialismo (inteso nel suo senso decisionistico), dal momento che essa aspira a farsi carico, dar conto argomentativamente di quei processi primordiali per i quali la vita si dà a conoscere. Non è irrazionalismo, dunque,

3 La tumba de Antígona, en Litoral (Málaga, 1983). Monografico su María Zambrano. I, 30 s.: «Y así la acción primera, originaria y primordial de los primeros mediadores y, huelga decirlo, del Mediador sobre todos, ha debido consistir en abrir espacio, el espacio propio, cualificado donde su función divina en un caso, humana mas siempre bajo el peso de lo divino en algún modo, se verifica».

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto

183

ma visione unitaria in cui si fondono e mediano gli estremi del coscienzialismo e dell’esistenzialismo. Per questo, sebbene nel pensare di María Zambrano vengano inscindibilmente alla presenza lógos, orazione e parola, il suo modus exponendi continua ad essere filosofico, senza cadere nel raptus poetico né abbandonarsi al delirio divino. Lo scopo resta filosofico, anzi, troppo «filosofico» direi, dal momento che Zambrano rivendica come meta l’unità originaria, la matrice di ogni metafisica: «Filosofia, poesia e religione necessitano di chiarirsi mutuamente, ricevere luce l’una dall’altra, riconoscere i loro debiti reciproci, rivelare all’uomo mezzo asfissiato dalla loro discordia, la loro permanente e viva legittimità, la loro unità originaria»4. Il tempo di María Zambrano, il nostro tempo, è lo stesso denunciato da Hölderlin e Heidegger: la notte dell’indigenza del mondo, il tempo degli dèi fuggiti. Il tempo delle intemperie. Solo che bisognerebbe chiedersi quando un tale tempo sia iniziato. Infatti, la ragione poetica porta alla luce non una Istoría – nel senso greco del termine –, un computo di sventure o avventi computabili cronologicamente, bensì una intrahistoria5, ossia una scrittura caduta dal dorso del Dio allontanatosi, secondo la possente immagine dell’Esodo (33, 23). Perché se «esternamente» potrebbe sembrare che Zambrano in L’uomo e il divino, la sua opera migliore, narri una storia cronologicamente intesa (ossia la nascita pre-greca degli dèi, la disputa tra filosofia e poesia intorno ad essi, Aristotele e la sua condanna dei pitagorici, il cristianesimo, la nietzschiana morte di Dio e la riapparizione del sacro all’interno del nichilismo odierno), basta un minimo di sguardo ermeneutico per vedere che non esiste una tale gradazione cronologica, e che non stiamo seguendo un racconto di cose passate, alle spalle, che si addossano a un presente che a sua volta passerà. Perché tutto quanto ci viene detto nel testo sta accadendo nello stesso tempo. Il movimento e lo spazio del movimento coincidono, come nel theós deúteros plotiniano: tò pedíon tês aletheías, hoû ouk ekbaínei6. Zambrano sta disegnando la topografia dell’Occidente, della località in cui si dànno i luoghi, laddove tramonta il Sole di Dio. Sta seguendo le orme dell’unità perduta. Ma io aggiungerei: perduta da sempre. Giacché: In principium erat delirium. «Al principio era il delirio; il delirio visionario del Caos e della cieca notte»7. Ora, il delirio è un’attività (al con­ trario dell’incubo onirico, pura passività). Un’attività che apre la visione e, con essa, la divisione. Dunque delirium, dal latino deliro (a sua volta da lira:

4 Filosofía y poesía. In: Obras reunidas, Madrid 1971, p. 115 s.: «Filosofía, poesía y religión necesitan aclararse mutuamente, recibir su luz una de otra, reconocer sus deudas, revelar al hombre medio asfixiado por su discordia su permanente y viva legitimidad, su unidad originaria». 5 Termine coniato da Unamuno per designare la vita tradizionale, che fa da sfondo permanente e «invisibile» alla storia mutevole e visibile. 6 En. VI 7, 13. 7 El hombre y lo divino. México 1986 (orig.: 1955) p. 29. D’ora in poi citerò la pagina direttamente nel testo.

72

184

73

Félix Duque

la prominenza tra solchi), ossia: «uscire dal solco». Salirse de la linde, «Uscire dal seminato», si usa dire nel linguaggio comune dei paesi di Castiglia. A cosa obbedisce tale sviamento, che implica già un essere esposto alle intemperie? L’uomo iniziale (pertanto, non solo l’uomo preistorico, ma ciascuno di noi, quando ci sforziamo per diventare niente meno che tutto un uomo, secondo il titolo unamuniano) si sente asfissiato da una realtà che lo soffoca. Il Sacro è un plenum che angoscia, letteralmente. (E qui, sicuramente senza saperlo, la nostra filosofa entra nell’orbita dell’il y a di Blanchot e Levinas). Per questo, la prima attività, l’azione antropogena è l’a-páte: la fuoriuscita dal percorso naturalmente stabilito. Abbandonare il focolare, la placenta. Ab origine, l’uomo è consegnato allo spaesamento (Unheimlichkeit), per dirla heideggerianamente. Esiliato dal Paradiso. Un paradiso che lo schiacciava col suo peso sacro. Nel suo «focolare», l’uomo si sentiva perseguitato, guardato senza poter guardare a sua volta: delirio di persecuzione che già implica un de-centramento. L’uomo è quell’essere che si rifiuta di essere guardato, di far parte di una Totalità. Alle sue spalle si trova, già da sempre, una cacciata. Una caduta in cui lui persevera: un pec-catum originarium, esattamente. Che sentirsi perseguitato è già sentirsi, essere se stesso a furia di strapparsi dall’Altro. Ma l’Altro resta adesso, minaccioso, come l’Assoluto. Per questo, la linea che si rifiuta di seguire il solco fende – diciamo in difesa propria – il sacro in molteplici direzioni: parcellizza la realtà primigenia, facendone immagini: tenendola in vista. Queste viste del sacro sono gli dèi (p. 31). Il percorso dell’origine è dunque occlusione fetale, demenza, mente. Ed è davvero strano che la mente sorga dalla demenza. Strano come la creatura prodotta dalla riflessione intorno al delirio. Una riflessione teogena. Non è una riflessione meramente teorica, ma sacrificale. Dunque l’uomo è fuoriuscito dal sacro per guadagnare libertà e, con essa, solitudine. Quella solitudine che non lo abbandonerà mai più. Ma per poter tracciare la sua vita ha bisogno di strappare particelle dal sacro, trasformandole in cose, in utensili a portata di mano. E questo strappo esige una restituzione, sia pure parziale. Non si dà qualcosa agli dèi per riceverne un’altra in cambio, ma per tenerli a distanza, onde evitare che interferiscano nella vita umana (p. 38). L’uomo, atopico frammezzo (átopon metaxý) tra l’essere e la realtà, grazie al sacrificio. Mai sono presenti gli dèi, perché anch’essi sono formati dall’aratro umano, che divide la carne originaria. Di essi c’è solo – appunto nel sacrificio – una teofania: la teofania della distruzione. Divorano la vittima, e ciò evita all’uomo di essere divorato, inghiottito dal Da, dal Ci del Sacro costituito dagli dèi. Ma allora, lo statuto degli dèi è tanto paradossale quanto quello umano: non sono ancora l’essere, ma piuttosto la sua impugnazione, condanna e promessa del suo dileguarsi, della sua caducità (p. 60; ricordiamo che «essere», in Ortega e Zambrano, è l’àmbito quotidiano della cultura mondana), né più realtà sacra (che adesso resta al fondo). Ed è questa radicale insufficienza degli dèi, la loro qualità di mere immagini, che li obbliga, inutili, a sparire dinanzi a questa seconda riflessione. Questa sì, teorica: nasce la filosofia. Quel che

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto

185

adesso si ha in vista è una forma, non una mera immagine (p. 62). Tuttavia, il ricordo della provenienza sacra degli dèi resta preservato nella parola poetica (p. 64), da allora in conflitto con la filosofia (in liebendem Streit, potremmo aggiungere, con Hölderlin). È vero che questa, la filosofia, rappresenta una vera rinascita dell’uomo. Ma a patto della perdita di quell’amore primordiale uscito dal delirio e come reazione contro di lui. Da oggi in poi, la vita si vorrà presieduta dall’attività esclusiva del pensatore, e dopo di lui, dello scienziato: un’attività espressa a partire da una domanda che mai troverà risposta adeguata perché posta da un orizzonte (il Sacro) che dà impulso, certamente, ma che rimane sempre alle spalle (sebbene una traccia di questo orizzonte si conservi, per esempio, nella physis aristotelica). La poesia, invece, dà risposta a una domanda non formulata, e impossibile da formulare. Essa non discorre, ma dà parola. Solo una ragione che sia anche poetica si azzarderà a percorrere i sentieri che costeggiano le tracce di questa scissione, di questo delirio, di questo secondo sviamento: al di qua della divisione tra domanda e risposta. Al di qua del dialogo: Seit wir ein Gespräch sind…, diceva Hölderlin. La ragione poetica si situa prima di questo «dacché siamo…». Ed è in questa regione che vengono «localizzati» tre dèi che non si limitano ad essere immagini, ma assumono funzioni di mediazione tra la nascosità del Sacro (come dire, di quel Fondo al quale rinviano anche il puro Potest di Cusano e il misterioso Seyn-Könnendes dell’ultimo Schelling) e l’«essere» addomesticato, utilizzato. Tre maniere di in-tagliare, di «scolpire» l’uomo (non finzioni di questi, dunque, ma sua matrice): l’ingestione, la generazione e la visione. Funzioni di distanziamento: nel vuoto dell’interno pieno del C’è. La prima viene miticamente rappresentata come Crono, il tempo divoratore, la funzione primigenia: divorare ed esser divorato. Un tempo troppo vicino alla natura, ma già in qualche modo tenuto a distanza dal rinnovarsi della festa sacrificale. Il divoramento della vittima immolata lascia spazio così alla vita profana del lavoro: un tempo ritmicamente scandito, diviso dalle scansioni del sacrificio in cui tutto si rinnova. La seconda funzione è religiosamente configurata dal Dio creatore che non ha bisogno di alimento esterno, perché divora se stesso. È il fuoco puro che consuma il roveto eterno e, al tempo stesso, il Dio che eternamente si sprofonda nel Sacro, lasciando vedere solo il suo dorso: un paradossale dorso-volto, svoltato verso noi come il Cristo, e sulle cui orme morte tracciamo a tentoni le fattezze del Dio im Vorbeigang (per dirla con Hölderlin e lo Heidegger dei Beiträge zur Philosophie). Cristo: il taglio, svuotato dal divino (p. 127), perché l’uomo abbia luogo da questo Grund-Riss. Perché l’uomo, redento dall’onere sacro, possa essere libero. Da solo. Libero: liberato da sé e dal suo naturale legame. Pagando questa libertà e questa solitudine proprio come il Figlio nell’abbandono dell’ora nona: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Una domanda senza risposta, perché il Dio creatore si è inabissato ormai nel silenzio, proprio nell’atto dell’abbandono. Consummatum est. Il

74

186

75

Félix Duque

sacro è già dentro l’uomo, non «fuori». In interiore homine habitat veritas. Fuori, tutto è profanato. E ora, questa luce interiore è luce che lascia vedere: lux lucis, dice Zambrano seguendo Plotino (p. 113). Diciamo al riguardo: qui, María Zambrano è ancora troppo «greca». Non ha rivissuto tutta la tragedia del cristianesimo. Poiché del Figlio è più appropriato dire che è: «Candor lucis, quam Lux lucis». Infatti, non emana dal ­Padre, ma è il suo splendore: non è una luce più fioca di quella da cui proviene. E neanche più viva: «Si enim haec minor est, obscuritas illius est, non candor illius. Si autem maior est, non ex ea manat: non enim vinceret de qua genita est»8. In tal modo Sant’Agostino salva questo Monismo paradossale che è la Trinità. Ma questo «salvataggio» della divina chiusura, dell’Abgeschlossenheit del Dio, comporta a mio avviso il carattere mortale, perituro di tutta la Creazione, letteralmente lasciata dalla mano di Dio. Nel mondo manca infatti il lumen, il centro dell’espansione di quella Luce. Allo splendore della luce, tutto si può vedere, tranne la luce stessa. Perché non si ha dove guardare. La pura luce senza resto né perdita coincide esattamente con le tenebre, col buio delle viscere umane. Quel che permette la generazione, la ri-produzione, abbandona alla loro sorte prodotti e produttori. Tutti, sacchi di buio bagnati di luce eterna. Doppio abbandono: da parte del Padre, ritirato nel suo Profondo (eíso en báthei, diceva Plotino)9. Da parte del Figlio, perché essendo Egli la luce che viene a questo mondo, non può essere riconosciuto nemmeno dai suoi. E non lo può, perché di Lui, di Lui qua lumen, c’è stato, c’è, e ci sarà nel mondo solo un’orma, una traccia. La traccia della Croce. Neppure i suoi seguaci, gli apostoli, intesero il mistero dello Splendor lucis (per spiegarlo ci sarebbero voluti Agostino e Plotino, ma non erano ancora nati). Chi osò farsi avanti, Pietro, fu respinto violentemente da Gesù come incarnazione di Sàtana. E il centurione, che invocò: «Vere hic homo Filius Dei erat!»10, arrivò troppo tardi col suo riconoscimento, quando era sul punto di spirare («quia sic clamans exspirasset…»). Solo nella morte era (era già, da sempre) e sarà Gesù il Figlio di Dio. Ma ora torniamo a María Zambrano, meno tragicamente «cristiana» di quel che avrebbe potuto essere. Il doppio abbandono da parte del Padre abissalmente ritirato e del Figlio morto (e che solo come Morte risplende) lascia come residuo il mondo, bagnato di luce. Adesso si può vedere. E si scatena il desiderio di luce: una duplicazione teorica, filosofica, dell’originario delirio di persecuzione. Da una parte, il timore di essere visto… da ogni parte, giacché non c’è fuoco, bensì folto del bosco. Quest’occhio onnipresente – la realtà, tutta la realtà un occhio gigantesco –, quest’occhio che, a sua volta, non può essere visto, è quello del Signore, il dio giudeo. Il desiderio di vedere, invece, s’incentra sul Dio di Agostino, De Trinitate, IV, 20, 27. En. VI, 8, 18. 10 Mt. 15, 39. 8 9

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto

187

Aristotele, che in fondo vede solo se stesso, occhio retrattile, nóesis ­noéseos. Appare chiaro che qui Zambrano sta procedendo a una topografia quasi fisiologica del divino, e non alla narrazione di una storia (chi, senza pensare, obiettasse che questi dèi sono «anteriori» al Dio cristiano, mostrerebbe di non rendersi conto che stiamo misurando il territorio dell’Occidente, in un tempo – ora – coincidente con tutti i tempi). María Zambrano ha proceduto qui a segnalare i tópoi, i luoghi divini in cui si generano le tre forze che muovono il suo pensare: mito, religione, filosofia. E le tre forze s’incrociano e rinviano nel loro girotondo (per dirla, di nuovo, con Heidegger) le une alle altre, alludendo tutte a un Non-Luogo: il plenum del Sacro. Ora, è evidente che questa tripla funzione del divino non basta a spiegare la persona umana: l’individuo, da solo con la propria libertà. E non basta, perché l’uomo stesso non ha fatto ancora propria questa triade, non ci ha ancora riflettuto su abbastanza. Divorato da poteri, attraverso la vittima immolata, estraneo a una generatio intratinitaria che se la vede all’interno di Dio, visto da Qualcuno che non può vedere (se lecito chiamare Qualcuno l’Innominabile, e non piuttosto Nessuno, Niemand, come sapeva Paul Celan), o lasciato nell’indifferenza assoluta dall’occhio greco che vede solo se stesso, ha bisogno, per sapersi come l’essere che già era, di posare dapprima lo sguardo sulle cose e poi, e soprattutto, di ‘vedere’ il suo sguardo corrisposto da un altro. Ha bisogno di essere nel mondo in società. E per questo procede, morto Dio (e questa morte non è un fatto storico: Nietzsche si è limitato a scoprire la Legge dell’Occidente), a introiettare il Dio dentro di sé, a piegarsi come maschera di sé. Una maschera che ripete adesso, umanamente, le tracce che «prima» si subivano come un destino esterno. Una prima funzione della maschera è quella di dividere il sé-stesso (Selbst). Prima violenza, che corrisponde, a sua volta, a una ri-flessione su questo delirio che era il tempo divoratore. La ­maschera sdoppia l’uomo in personaggio e individuo. E quest’ultimo s’immola in funzione dell’altro. Eripitur persona, non manet res. La maschera si fa idolo: si indìa. Esige dedizione assoluta. È qui, per Zambrano, la radice di ogni assolutismo, di ogni tirannia: «Una situazione che è il centro della tragedia occidentale, il punto in cui l’umana passione di esistere si fa volontà. E siccome il modo supremo, totale, di esistere è quello di Dio, vuole imitarlo» (p. 92). La creatura si afferma illusoriamente come origo sui, come soggetto libero che espelle per sempre il destino e la natura. Che espelle il tempo dall’uomo, divorato questi da una maschera trasformata in Idea, in idolo. Delirio di indiamento, prodotto dal pensiero umano, e che nel suo punto più alto corrisponderebbe secondo la Zambrano allo «spirito assoluto» hegeliano (lasciamo stare se esso renda o meno giustizia a Hegel). Ma l’idolo si nutre delle sue stesse viscere, fino all’estremo che la maschera diventa ogni realtà (si ricordi il Man heideggeriano, inteso da quest’ultimo come ens realissimum), mentre la sostanza personale svanisce, immolata in questo delirio di grandezza. Il risultato è il nichilismo e il totalitarismo di un Potere che al tempo stesso affascina e atterrisce: «La storia è stata rappre-

76

188

77

Félix Duque

sentazione tragica, poiché solo mascherato il crimine può essere eseguito. Il crimine rituale che la storia giustifica»11. Il totalitarismo genera, a sua volta, la violenza rivoluzionaria: interscambio di funzioni. La vittima diventa carnefice collettivo e l’idolo muore in un istante, così come la vittima moriva giorno dopo giorno. Per un momento si ristabilisce l’uguaglianza. Un momento effimero, perché la liberazione dall’alienazione si è fatta su di un morto che, a sua volta, grida vendetta, aprendo così una tragica spirale di violenza. Questo, per quel che riguarda la funzione dell’ingestione: la prima mediazione – si ricordi – tra nascosità e presenza, tra il sacro e il profano. Ma la stessa «secolarizzazione» inseguiranno le funzioni della generazione e quella della visione. Nella generazione esterna, l’uomo rinuncia al vero amore (cioè: a darsi tutto intero, a svuotarsi nell’essere amato, come la kénosis giovannea), per considerare la copula come una funzione organica del soggetto (liberandosi dalla illusione sia dell’amore che della logica). In quella interna, interpreta le sue passioni come complessi, credendo così che potrà liberarsi (diciamo, per trattamento psicanalitico) di un subire ereditato, di un subire divino. E nella visione, infine, dimentica che può vedere se stesso solo chi si vede riflesso nell’altro, co-rrisposto dall’altro, visto a sua volta da lui. In forza di questo oblio, cosifica l’intera realtà col suo sguardo di Medusa: piatto positivismo. L’uomo dimentica, dice María Zambrano con Giovanni della Croce (e con Paolo, aggiungerei), che bisogna perdersi assolutamente per ritrovarsi nel Tutto12. Obliato così da sé, dal Sé divino e dal C’è del Sacro, l’uomo fa del mondo l’immondo, del suo mondo l’immondezzàio: un inferno terrestre, presieduto dall’invidia e dalla reificazione del futuro (per la conversione demoniaca della topografia dell’Occidente in una Storia Universale di Progresso, aggiungerei). La coscienza ha vinto. La realtà, ora interamente profanata, non offre più resistenza. Ora, l’uomo è davvero solo. Non ha più contro chi lottare. Un tedio infinito si estende sul pianeta. Un tedio interrotto solo, brutalmente, dal crimine. Visto che non ha su chi esercitare violenza, l’uomo la esercita su se stesso. Con tutta la grandezza e acutezza della concezione zambraniana, intravedo qualcosa che non quadra. Imitando la satira che, ne I demoni, Dostoevskij fa del rivoluzionario Sigalev (che Vincenzo Vitiello ama ricordare), diremmo che María Zambrano si è imbrogliata con i propri dati. Voleva descrivere fenomenologicamente la situazione dell’uomo occidentale e, tuttavia, abbiamo l’impressione che ci abbia raccontato una storia. E una storia, oltretutto, edificante (cosa da cui la filosofia deve guardarsi, secondo Hegel). Poiché sembra che la crisi raccontata fosse di oggi, che di oggi fosse L’agonia dell’Europa (titolo, tra l’altro, di un suo importante saggio del 1945). La ragione poetica sembra diventare critica della cultura. Critica per la quale, tra l’altro, non s’in11 12

Persona y democracia, Barcelona 1988 (orig.: 1958), p. 44. Cf. El hombre y lo divino, p. 259.

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto

189

travede soluzione: «La crisi dell’Occidente non ha più neanche luogo. Non c’è crisi, quel che c’è più che mai è orfanezza. Oscuri dèi hanno preso il posto della luminosa chiarezza»13. Io mi chiedo, semplicemente: dove e quando è esistita una tale «luminosa chiarezza»? Non si può neanche dire che essa si trovi nelle pagine di María Zambrano, come ricordo di una rovina, di qualcosa che avrebbe potuto essere. La chiarezza del Dio cristiano implicava un abbandono. Per cominciare, del Padre rispetto al Figlio, consegnato alla morte e risuscitato sì, ma non nel mondo, bensì in cielo. Molto più acuta, invece, l’idea della necessità di fuoriuscire dalla storia (e questo è L’uomo e il divino: una topografia eterna, una intrahistoria contro la storia): «Lo storico è, dunque, la dimensione per la quale la vita umana è tragica, costitutivamente tragica. Essere persona è riscattare la speranza, vincendo, disfacendo la tragedia. La persona, la libertà deve affermarsi di fronte alla storia, ricettacolo della fatalità»14. E fatalità era, in effetti, il mantenimento del futuro: un futuro che non arriva mai, e in nome del quale si sacrificano gli individui. La filosofia sarà, quindi, un tentativo (un tentativo costante, non di «adesso») di farla finita col tempo, di abolire la storia. Concesso. Solo che, verso dove andiamo quando la storia risulta filosoficamente abolita? La risposta è, secondo me, deludente e in contraddizione rispetto ai presupposti stessi di María Zambrano: si tratta – dice – di oscillare tra la nostalgia del paradiso e la speranza utopica del futuro. Così si creerebbe una nuova storia, intesa come  «esercizio di libertà che si trasmuta ad ogni momento» (p. 315). Ma questa storia non è nuova, è quella di sempre! Zambrano sembra aver dimenticato che l’uomo lo è solo per il delirio, per la follia che gli fa abbandonare un Paradiso che è piuttosto un Inferno: la pienezza del Sacro che lo angosciava, che lo rimpiccioliva. E dimentica anche che questa stessa speranza nel «fu­ turo» è quella che ha condotto l’uomo a sacrificarsi per «il domani», così sulla Terra (la società comunista, per esempio) come in Cielo (l’Apocalisse giovannea). Dimentica che l’uomo è costitutivamente unheimlich, un essere delirante che forgia ragioni per fuggire dal delirio, creando di nuovo altri delirî ancor più poderosi. Dimentica, insomma, come il suo maestro Ortega, come lo stesso Unamuno, che la radice di questa sequenza delirante non consiste nel sapersi uno, «ma separato dalla mia origine, sommerso in una specie di oblio da cui vorrei svegliarmi» (p. 206), bensì proprio nel desiderio di identità da parte di una creatura che è nata da uno sviamento, dalla Differenza del Sacro. Questa è l’unica, propria ed essenziale condition humaine. Però Zambrano dimentica che tutti gli dèi, tutti, sono funzioni di squilibri, di differenze, e ricade in una metafisica dell’identità e della presenza: «Essere presente che in spagnolo ha il senso di presenza e di presente temporale; è lì allo scoperto, 13 14

testo.

Persona y democracia, p. 8. El hombre y lo divino, cit., p. 250. Torno a citare direttamente d’ora in poi la pagina nel

78

190

79

Félix Duque

non ci è estraneo, né occulto. La persona ha bisogno di presenze». Di nuovo, Dio in vista. Ma un Dio visto, familiare e presente, non è più Dio: Non enim videbit homo faciem meam et vivet15. E tuttavia, nella stessa Zambrano può leggersi la chiave dell’enigma. Lasciando le parole. Ma cambiando il loro accento, il loro senso. Poco dopo la citazione precedente di Persona e democrazia, afferma che l’unica cosa che può salvarci dalla storia sono i «processi di vita personale» e gli «avvenimenti» che, nel momento in cui vengono vissuti, si sperimentano come passato. E conclude: «Ciò vuol dire che sono futuro». Salvare queste «cose», questi eventi che mai possono darsi come presenti (lei crede, invece, apocalitticamente, che dal «futuro» verranno a farsi presenti: saranno giudicate), salvare, insomma, le distanze, non consentendo che s’incentrino in un punto, questo sarebbe il vero «sacrificio della persona» (p. 132). Certamente, se intendiamo il sintagma come un genitivo oggettivo e non soggettivo, come sembra evincersi dal già detto prima. È la persona stessa che dev’essere sacrificata, affinché viva l’individuo (già Hegel diceva che «persona» è l’espressione del disprezzo). La persona, intesa sia come «centro libero e sovrano di decisioni» (secondo la posizione presuntamente idealista denunciata da Zambrano), o come… come cosa? Un illustre studioso di María Zambrano, Pedro Cerezo, ha finito per riconoscere che lei «non ha sviluppato una riflessione tematica sull’idea di ‘persona’, sebbene presenti di continuo un’eccellente descrizione di questa idea: persona sarebbe – dice – il Selbst; non l’«io» (mero punto centrale d’attenzione) né la «maschera» o personaggio, bensì qualcosa che «include e trascende l’uno e l’altro, […], un centro di interiorità e di creatività (trascendenza) […] come l’anima, che in questo movimento circolare (exitus, reditio) stabilisce la sua orbita». Così, dunque, un centro orbitale. È come se qui riapparisse il suo maestro Ortega, col suo «Io sono io e le mie circostanze», solo sotto altri nomi. Dove è finito il delirio iniziale? Dov’è adesso la differenza tra sacro e profano? Dove gli sviamenti, che aprono la possibilità degli dèi? Non è questo “centro orbitale”, di nuovo, una monade? Un petit Dieu, insomma, che fa entrare di nuovo surrettiziamente il Dio, prima all’apparenza morto, per fare sacrifici al futuro, questo dio sconosciuto che ci angosciava dalle pagine de L’uomo e il divino? S’intenda bene: non c’è, da parte mia, nessuna professione di ateismo né desiderio di forzare in direzione «illuministica» i testi di María Zambrano, così profondamente carichi di religiosità. Quel che qui si propugna è un altro modo d’intendere il Cristianesimo, assaporando fino all’estremo l’amarezza divina dell’abbandono da parte del Padre. Sapersi mortali, all’ombra del Dio ch’è stato. Il Dio che aspetta, sull’altro fianco della montagna. Lì dove non c’è Presenza. All’altro lato dell’orizzonte. I pastori delle alte montagne della

15

Esodo 33, 20.

Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto

191

Svizzera salutano il viandante che ascende a fatica, dicendo: Gott vor Augen! Cioè: «Che Dio ti sia dinanzi agli occhi!». Ma ciò che davvero è dinanzi agli occhi del viandante è la profondità del cielo azzurro, che si ritira ad ogni passo che si fa in avanti. Il cielo che sprofonda che, nel suo ritirarsi, offre così la promessa che c’è cammino, ancora. La pietas del Dio verso gli uomini consiste nell’ostinato mantenimento della sua assenza, nel suo raccoglimento infinito. Una volta, in L’agonia dell’Europa, disse María Zambrano: «Parlando con un europeo si parla con un conflitto, con qualcuno che si strugge per vivere, che si cancella e si ridisegna»16. Stava dando, secondo me, una perfetta definizione di quel che potrebbe essere il nucleo di una vera agonia del cristianesimo: non il teresiano «muoio perché non muoio» (il desiderio di fusione di un’identità imperfetta con la Perfetta Identità, di un punto con il Centro di tutti i punti), bensì «struggersi per vivere», ri-crearsi continuamente, come una linea. «E possiamo oggi chiedere […]: ciò che ha realizzato l’Europa nella sua religione, è stato Cristianesimo? La verità è che basta sentirsi cristiano in un grado minimo per presentire e intravedere che no, che quel che ha realizzato l’Europa non è stato il Cristianesimo, bensì al più una sua versione del Cristianesimo. È possibile un’altra, che sia anche europea e, soprattutto, che sia Cristianesimo?»17. Con María Zambrano, e contro di essa, ho cercato di saggiare, pedem aliquantulum, alcune linee, tentativi: non tanto come risposte, ma come approfondimento della domanda. Un approfondimento che riapra la ferita originaria della linea: la linea del dolore in cui tutti noi siamo, esistiamo, ci muoviamo. (Traduzione dallo spagnolo di Lucio Sessa)

16 17

Op. cit., p. 56. Ib., p. 44.

Poetizzare il sacro. Un dialogo con il pensiero di María Zambrano* Eugenio Trías

1 Mi piace cominciare questa conferenza in modo simile a come iniziai, anni or sono, una conferenza su Ortega y Gasset, il caro maestro spesso citato da María Zambrano nella sua opera maggiore, L’uomo e il divino. La tenni alla Fondazione che porta il suo nome, in un ciclo di conferenze che ebbi l’onore di chiudere. In quel contesto ricordai un frammento della Terra desolata di T. S. Eliot, incluso nel quinto capitolo e intitolato «Ciò che disse il tuono». Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto? Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca C’è sempre un altro che ti cammina accanto Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato Io non so se sia un uomo o una donna Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?1

L’incappucciato, nel poema, è il Cristo che compare ai discepoli di Emmaus, non senza riferimenti ad una spedizione polare di Amundsen nella quale, secondo il racconto di un partecipante, sempre che si guardava in direzione della strada bianca, tenuta costantemente d’occhio, si aveva l’impressione che vi fosse una persona in più nella comitiva. Lo stesso Eliot vi fa riferimento nelle note finali al poema. Quanto alla condizione ambigua e ambivalente del genere dell’incappucciato («non so se sia un uomo o una donna»), essa allude al personaggio che costituisce la principale dramatis persona del poema, colui che in certo modo * Conferenza tenuta al Convegno internazionale «Verità e Poesia. L’esperienza di pensiero di María Zambrano», organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno (31 gennaio - 1 febbraio 2003). 1 T.S. Eliot, Poesie, trad. it. di R. Sanesi, Bompiani, Milano 1994, pp. 277-279.

81

194

82

83

Eugenio Trías

compendia e sintetizza la sua stessa sostanza, come Eliot segnala nelle sue note: Tiresia, il celebre profeta greco, cieco e androgino, della tragedia attica. Tutte i personaggi di questo poema drammatico, e uomini e donne, rimandano a lui, come vólti del medesimo; e ciò sin dal momento iniziale, quando Madame Sosostris inizia il gioco, alla maniera dell’autore calderoniano di questo baraccone teatrale, ripartendo, mediante i tarocchi, l’identità dei principali protagonisti del poema. Uso questo poema come metafora dell’ermeneutica che provo, da sempre, a mettere in pratica, sia in relazione a opere artistiche sia a brani filosofici (e perfino religiosi). Si tratta di evocare la figura di un «incappucciato» la cui esistenza spettrale prende vita (risuscita) in compagnia dell’interprete, che lo ri-crea, e di chi, lettore e/o ascoltatore, gli è compagno. «Tu e io», dunque, che io concepisco all’interno di una relazione in cui si produce nuova creazione, una ri-creazione: «tra te e me» (mon semblable, mon frère, per dirlo nel modo ironico di Baudelaire, citato da Eliot, e che si riferisce all’hypocrite lecteur). È in tale contesto che l’«incappucciato» (non so se uomo o donna) acquista vita e comincia a parlare; solo che questa voce si trova inevitabilmente mediata dal lavoro dell’interprete che riesce così a pensare in compagnia. Non è mia intenzione parlare qui di María Zambrano né su María Zambrano, tanto meno contro María Zambrano. Desidero piuttosto parlare e pensare in compagnia di María Zambrano. Il pensiero adulto e maturo, in filosofia, si realizza sempre in compagnia. Come apprendiamo dalla tradizione dell’alta filosofia che la nostra sapiente memoria custodisce. E ciò soprattutto merita di essere ricordato, sempre: l’eredità dei nostri classici. Oggi (più che mai) urge un riarmo morale della filosofia. A tal fine è importante smuovere la nostra memoria vivente, per restituire alla vita, per rendere contemporanei, i nostri classici, i più vicini anzitutto, quelli per i quali è fondamentale il mezzo espressivo con cui, soprattutto, esprimiamo i nostri pensieri: la scrittura e la parola. La filosofia deve essere universale nelle sue proposte e particolare nelle sue forme di espressione, nel contesto linguistico in cui si realizza; singolare, o radicalmente personale e personalizzata, nello stile individuale in cui si incarna. Desidero dunque pensare in compagnia di María Zambrano, con María Zambrano, poiché, tra i classici in lingua spagnola, è di quelli che più ci riguardano e impegnano. La nostra lingua spagnola ha dato frutti preziosi in poesia, nel romanzo e, in generale, nella letteratura, o in ciò che convenzionalmente si ritiene tale; ma solo nel secolo ventesimo si è affermata nel campo specifico del pensiero filosofico, elaborando con forte tensione concettuale nuove proposte filosofiche. In questo contesto spicca la figura di María Zambrano. È uno dei nostri ‘incappucciati’, per riprendere il riferimento al poema di Eliot. Si può definire l’idea del pensare in compagnia in questo modo: l’‘incappucciato’ va portato a nuova vita attraverso il dialogo tra lui e noi. Sono qui

195

Poetizzare il sacro

tra gli amici, che hanno realizzato questa ‘ri-creazione’, e, volendo pensare in loro compagnia, desidero manifestare la mia adesione a quanto il mio amico filosofo, Vincenzo Vitiello, ha scritto nella sua splendida introduzione all’edizione italiana de L’Uomo e il divino: è certamente l’opera maggiore di María Zambrano. Tutti noi, dotati di quel sapere storico che Vitiello tanto apprezza in María Zambrano, possiamo entrare in dialogo con questa pensatrice spagnola, andalusa, universale, ri-pensando, com’ella nel suo gran libro ci invita a fare, le nostre origini: l’aurora del pensiero occidentale, inizialmente greco, che dobbiamo sempre evocare e ricreare per non smarrirlo nella routine o nei peggiori modi e stili che in molti ambiti, specialmente in quello politico, l’Occidente talora esibisce. 2 Rammento l’istante della biforcazione messo in rilievo in un capitolo importante de L’Uomo e il divino. Il libro evoca quella sorta di balbettio originario nel quale tutte le possibili strade del pensiero sono aperte. María Zambrano localizza il gesto inaugurale in virtù del quale si produce la primigenia conversione del sacro nel divino, che in seguito diverrà definitiva trasformazione. V’è, all’origine, un fondo oscuro, notturno, vero cuore di tenebra, dal quale tutto procede e al quale tutto ritorna: María Zambrano lo chiama il sacro. In pieno delirio persecutorio e selvaggio inizia il canto e l’incanto di questo fondo che terrorizza e spaventa ed insieme affascina e meraviglia: una duplicità del sacro messa in evidenza da tutti gli studiosi, ed evocata nel celebre sonetto di Baudelaire, Inno alla Bellezza (che «sembra dappertutto beneficio e disastro»). Anche nel gran libro di María Zambrano è pensata questa ambiguità e ambivalenza del sacro, e pensata in quel suo peculiare stile, così originale e poco incline a valersi di altro pensiero che non sia il suo. L’atto inaugurale della Forma (umana) accade allora, quando il selvaggio fondo oscuro, animale, si muta in forma e figura che chiede immagine, ritmo e tempo nel canto poetico. È come un grido improvviso che dà inizio, mediante l’incanto musicale e il rilucere delle immagini che cominciano a brillare, all’attività poetica e produttiva. E sarà questa a promuovere la trasformazione del sacro in divino, ovvero: di quel magma selvaggio e fiero in un cosmo di figure divinizzate attraverso il delirio; figure che, nella trance e nell’estasi, troveranno, come per incanto, il modo di conciliarsi secondo un principio di armonia e di ritmo, assumendo, così, il profilo della figura poetica, risplendente: la figura del divino personalizzato in una comunità di dèi delle più diverse specie e lignaggi. Da questa immersione nel sacro (là dove l’uomo si trova sommerso) sorge una possibile trasfigurazione: essa giungerà a convertire questo fondo in im-

84

196

Eugenio Trías

magine e forma, dapprima in chiave poetica, poi filosofica. Su questo terreno filosofico sorge il primo di tutti i grandi concetti che caratterizzano questo modo di usare l’intelligenza e il linguaggio, quel concetto che si eleva, possiamo dire, ad atto fondazionale e inaugurale dell’attività e del discorso proprio della filosofia: l’ápeiron di Anassimandro, oggetto di attenta e acuta considerazione in questo libro di María Zambrano. Sorge questo primo concetto, e con esso la filosofia, da una trasformazione della strategia dei nostri discorsi che dinamizza le nostre facoltà espressive e lessicali; sorge, di fatto, da una trasformazione poetica (nel senso proprio e specifico di poiesis, chiarito da Platone nel dialogo tra Socrate e Diotima del Simposio, e che consiste nel trarre alla luce dell’essere e dell’esistenza quel che è latente o in stato di occultamento). In virtù di questa produzione creativa e trasformatrice lo sfondo oscuro e tenebroso, chiamato dalla Zambrano il sacro, si converte in un sostrato matriciale, fertile d’immagini poetiche, in cui brilla quel che l’autrice chiama il divino. Questa trasformazione del sacro in divino costituisce il nucleo più importante della tesi centrale del libro della Zambrano, ed è questa che terrò presente quasi esclusivamente nel corso della mia conferenza. Tutto il testo di María Zambrano è percorso e attraversato dalla cruciale e decisiva distinzione tra il sacro, concepito come sostrato e fondo inelaborato, e la configurazione formale, prima poetica, poi filosofica, ma sempre effetto della poiesis, intesa nel suo significato radicale di «creazione». Questa poiesis si produce, anzitutto e soprattutto, nella folgorazione «poetica» (nel senso ristretto del termine) suscitata dall’aedo visionario, Omero, Esiodo. Quest’ultimo introduce, inoltre, la genealogia mitica di questa progenie di figure personificate, del «pantheon», delle dramatis personae, nelle quali prende figura il divino. Quel divino che proviene dalla trasformazione del sacro, da quello sbadiglio primordiale, il khaos, concepito da Esiodo come origine e principio di tutta la generazione degli dei, dai più arcaici ai più giovani, per successive generazioni, filiazioni e conflitti. Uno di tali scenari di lotta, o di guerra aperta, ha per pretesto la contesa tra i mortali a Troia, tra i combattenti Achille, Agamennone, Paride ed Ettore. Questo è l’oggetto visionario in cui l’aedo Omero, nel suo grande poema epico e tragico, l’Iliade, scopre la folgorazione degli dei in lotta. Come Erodoto sapeva (e Platone lamentava per bocca di Socrate, nella Repubblica) furono i poeti ad insegnare ai greci i loro dei. 3 85

Orbene, questo fondo oscuro, o khaos, da cui tutto proviene, riappare presto in chiave riflessiva, entro una determinazione concettuale, attraverso una forma di pensiero che suscita spontaneamente una dialettica con termini che possono contrapporsi. Sorge così il concetto originario di cui si alimenta tutta

Poetizzare il sacro

197

la filosofia, il concetto di ápeiron, di cui parla la celebre sentenza di Anassimandro, a cui Heidegger ha dedicato un importante testo. María Zambrano mostra con diafana chiarezza e con grande, brillante, penetrazione questa trasformazione poetica, poietica, del khaos propria del canto «poetico» (in senso ristretto) dell’aedo, di Esiodo, ad esempio, in concetto filosofico, mediante il quale si transita dal sacro al divino, dalla sua poeticizzazione, in forma di fondo oscuro e caotico, di grande voragine o apertura da cui procedono tutti gli dei, a primo concetto filosofico: l’ápeiron di Anassimandro. Questa locuzione, che dà nome ad una sorta di Indeterminata Vastità, Indefinita, suscita immediatamente, quasi per un’eco linguistica, il termine péras, che significa determinazione o limite – come diverrà evidente in seguito, nel Filebo di Platone, nella tradizione pitagorica ricordata da Aristotele, e ancora con la dialettica dell’Uno e dei Molti, con il problema del Giusto e dell’Ingiusto, con i paradossi del tempo: tutto ciò fa del testo di Anassimandro il primo modo di concretarsi del divino, ora, però, passato al setaccio della filosofia, della determinazione concettuale, di ciò che poco dopo, con un colpo di genio filosofico, Platone concepirà come idea. Così María Zambiano dispiega, in questo suo libro straordinario, l’aurora del pensiero occidentale. Qui si sente la radicalità della sua riflessione, che risale alle fonti del fiume donde sgorga e si espande un modo di pensare aurorale – ‘orientale’ nel senso più genuino del termine –, che avanza nella stessa misura in cui, regredendo, torna ad evocare e rammemorare le origini. È lì che María Zambrano avverte una trasformazione poetica, produttiva (poetica nel senso stretto del termine, che Platone – come ho appena detto – ci ricorda nel Simposio). Si tratta di una trasformazione o mutazione di gran momento, di un salto qualitativo dal non-essere all’essere, dall’assenza alla presenza, da ciò che non ha voce alla sua enunciazione, articolazione e configurazione armonica e composta. Una trasformazione, innanzitutto, in chiave poetica, in senso ristretto, relativa al cantore, all’aedo che esorcizza e «incanta» quel fondo primordiale e terribile, inquietante, sinistro, donde tutto sorge, la luce e la tenebra, le forze creatrici e le distruttrici: quel che María Zambrano denomina il sacro. Il sacro, incantato ed esorcizzato sino a trasmutarsi in immagine e forma poetica, raggiungendo la sua concrezione determinata, porta alla conversione di quel fondo in ciò che María Zambrano chiama il divino, attraverso la mediazione della filosofia che, nel risalire alle origini, all’inizio, evoca quel fondo primordiale in modo tale che esso acquista già la forma dialettica del pensiero e della riflessione. È questo che accade con Anassimandro. Il sacro – come ho segnalato – può allora essere pensato come ápeiron, in rapporto dialettico con péras, la determinazione, nell’ambito di una meditazione sul Giusto e l’Ingiusto che rappresenta la prima, originaria divisione dell’Uno. María Zambrano si muove nel suo elemento quando evoca l’arco greco-latino che da questa origine conduce sino alla grande sintesi finale, la

86

198

Eugenio Trías

tarda meditazione di Plotino sull’Uno, poco prima che sorgesse il genio tutelare, l’ágathon daímon custode del dialogo di María Zambrano, Sant’Agostino, il suo perenne incappucciato, che ha esercitato su di lei un incantamento riflessivo simile al viandante che accompagnò i discepoli di Emmaus evocato dal poema di T. S. Eliot. Ma è bene non desistere in questa risalita alle origini, alle possibilità già aperte dall’ápeiron di Anassimandro, che María Zambrano evoca nei capitoli migliori – per me – de L’uomo e il divino. 4

87

È il momento in cui sopravviene la biforcazione che ora vorrei rievocare e ricreare, muovendo dalle riflessioni che si snodano nel testo or citato. María Zambrano scopre questa decisiva biforcazione, questa croce del cammino, vero incrocio del pensiero al suo aurorale inizio, nel capitolo che più mi ha sorpreso e stimolato nella nuova lettura che di recente ho fatto de L’uomo e il divino. Il capitolo dedicato al «disprezzo» manifestato da Aristotele verso la tradizione filosofico-religiosa fondata dal leggendario Pitagora, la tradizione matematico-musicale, cosmologica, che si collega fortemente a Platone, soprattutto al tardo Platone, il quale forse rende comprensibile il gesto che María Zambrano scopre nello Stagirita, nel tragitto che dalla tradizione pitagorica arriva a lui. È la strada dei vinti, dice María Zambrano, perché la filosofia si costruisce sulle sue rovine, sanzionate dal grande vincitore, quel pensatore imperiale che è Aristotele: la strada matematico-musicale, che comprende anche la mediazione dei due mondi operata dall’ultimo Platone, il Platone del Filebo, con le «incorporazioni» numeriche, ovvero le idee-numero, e con la grande dialettica che fondendo e componendo le Supreme Idee – che in questo dialogo sono il Limite e l’Indeterminato, péras e ápeiron –, prepara una ricostruzione in grande stile del cosmos, le cui idee-numero saranno sottoposte a prova nel Timeo. Così in tale dialettica continua a risuonare la musica, la musica delle sfere. Si continua dunque lungo la via dell’arte del numero, che dà figura – matematicamente – al cosmos. E, cioè, dà ordine e concertazione, armonia, al cosmos, ricavando mediante il numero le misure commensurabili nella sezione longitudinale della corda in vibrazione, o il soffio da effettuare sulla canna svuotata e perforata secondo misura e proporzione, e le proporzioni auree che possono essere scoperte in ordine geometrico e aritmetico, di modo che la costellazione matematico-musicale, quella delle arti di Eupalino (ho sempre creduto che musica e architettura siano congeneri) evocate da Paul Valéry o Gycka, costituisce una sfida perpetua al pensiero, grazie alla sua capacità di dar figura al cosmo e, insieme, di dar conto della sua creazione e fondazione, che hanno dunque un marcato carattere cosmogonico e cosmologico.

Poetizzare il sacro

199

Può il pensiero filosofico seguire questa strada? La strada percorsa dal tardo Platone del Filebo e del Timeo, senza esaurirsi nelle concrete ma unilaterali operazioni della nuova scienza, che malgrado il pitagorismo nascente, evidente soprattutto nel grande Keplero, sembra sfociare, passato il gran momento di Leonardo da Vinci e del Rinascimento, in una concezione della natura leggibile, sì, in caratteri matematici, ma dalla quale la dimensione musicale è ridotta al silenzio, perlomeno a partire da Galilei, e certo a partire da Newton e dai suoi seguaci? María Zambrano dubita che si possa proseguire su questa strada, nella quale la congiunzione/disgiunzione di musica e filosofia costituisce la questione filosofica originaria. Secondo lei questa strada venne abbandonata, negata come possibilità effettiva, a causa dell’indiscusso trionfo dell’orientamento aristotelico, che poneva in primo piano il linguaggio e il suo modo e la sua forma di approssimarsi a ciò che è determinato, al “questo”, al tode ti. Il “questo”, infatti, assunto come indicibile, può essere solo ciò intorno a cui si può parlare: esso, cioè, costituisce soltanto un nucleo di relazioni intorno al quale si producono tutte le predicazioni e attribuzioni, tutte le «inerenze» in forma di determinazioni «accidentali» in grado di dare conto di «esso» (riguardo alla qualità, alla quantità, alla relazione, al tempo o al luogo, o alla forma spaziale in generale). Per Aristotele “questo” è la sostanza; in seguito, a partire dall’esperienza scoperta da Agostino per via confessionale, e nella modernità da Cartesio in poi, il “questo” sarà il soggetto, la soggettività. Si tratta del linguaggio della denotazione su cui si costruisce e dispiega la filosofia a partire da Aristotele. È il linguaggio nella sua forma proposizionale, denotativa, che da Aristotele a Wittgenstein prevale come detentore esclusivo della via verso la verità che la filosofia promuove e legittima. Con Aristotele la filosofia perde la sua dimensione dialettica, ancora viva nel pensare musicale platonico, retto dalle idee o forme in cui si dispiega il rapporto tra péras e ápeiron, e opta per la via della predicazione e della denotazione, che ha nella sostanza e nel soggetto il luogo della inerenza e dell’attribuzione: questa costellazione soggetto-verbo-predicato sarà al centro del dibattito della nuova logica agli inizi del ventesimo secolo, e nel Tractatus di Wittgenstein. Di qui proviene anche la nostra idea filosofica di Dio, che procede per sintassi grammaticale da un logos che si dispiega attraverso attribuzioni riferite ad un nucleo sostanziale, o sostantivo, che ci concerne e costituisce, o alla sintesi di sostanza e soggetto, secondo che afferma Hegel nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito. Un Dio, in cui crediamo, perché crediamo nella grammatica, secondo la sentenza di un celebre aforisma di Nietzsche. Questo linguaggio – che già in Platone prova a emanciparsi dalla tutela poetica, ovvero dal linguaggio dei poeti epici, lirici, drammatici (tragici o comici), in favore di una trasformazione della poesia in filosofia – ottiene la sua maggiore e più alta sanzione con la filosofia aristotelica.

88

200

Eugenio Trías

5

89

Occorre chiedersi se l’altra strada – alternativa a quella ‘aristotelica’ – sia impercorribile o richieda un tipo di compagnia, un dialogo poche volte tentato: tra musica e pensiero, forse assai più radicale che quello tra filosofia e poesia. La musica appare all’improvviso ne L’uomo e il divino, e pensata appropriatamente: qual musica che emerge dagli inferi, dal grido, dal cuore di tenebra. Musica che discende dall’aura astrale, come armonia della musica delle sfere; musica che può accompagnare e avviare al pensiero, esauritisi i sentieri di un logos aristotelico cifrato e incentrato sulla sostanza e sul soggetto. Forse si profila un nuovo, fausto, incontro con il Platone più musicale, più vicino al pitagorismo, interpretato non come preannunzio della nuova scienza, contro l’antimatematismo aristotelico, quanto piuttosto come il pioniere che inaugura una strada percorrendo la quale filosofia e musica possono scambiarsi le loro forme e figure (la fuga, la variazione: soprattutto quest’ultima, se si concepiscono le categorie del pensiero come categorie musicali). È possibile un pensare vicino sia alla filosofia che alla musica? Una ontologia distinta dal Romanticismo che esaltò, sì, la musica, ma ne trascurò il carattere matematico, la matematica sensibile e sensuale, posseduta da tutta la grande musica, mettendo in secondo piano la trama armonica, sintattica, grammaticale, tutto quanto è relativo a Numero e Proporzione? María Zambrano cita Mozart e Alban Berg: prima e dopo il Romanticismo, da quando l’armonia classica cominciò a essere tematizzata, sino al nuovo codice viennese, dodecafonico, che comincia a essere usato liberamente. La filosofia imperiale, vincitrice, che Aristotele sanziona e giunge incolume sino agli albori della contemporaneità, si interessa appena di questa forma di espressione intorno a cui i pitagorici concepirono il progetto di un logos filosofico di origine matematico-musicale. Il Pitagorismo, a partire dal discorso dello Stagirita, e nella riflessione che su questo punto svolge María Zambrano, appare come la scuola filosofica vinta. La sintesi di musica e filosofia da essa propugnata, mediata dall’ordine numerico su cui si edifica l’aritmetica e la geometria, sino a proiettarsi nella possibile creazione di un cosmos – come accade nel Timeo platonico, questa grande sintesi, dove i discorsi sensibili al classico incanto della musica e dell’architettura sembrano persistere e ricrearsi – sussiste come una rovina o come il resto di un naufragio in cui, a quanto pare, andò distrutto o rimase sepolto un bel progetto di arte, poesia e pensiero (matematico e musicale, o, come ho detto, di matematica musicale). D’altronde, fin da Aristotele questo progetto vive in regime di estrema degradazione, sprofondato negli abissi infernali, addirittura al di sotto del deprecato linguaggio poetico che Platone, per bocca di Socrate, aveva espulso dalla città ideale della sua Repubblica.

Poetizzare il sacro

201

Confinato alla periferia del linguaggio canonico della filosofia legittimato da Aristotele, questo linguaggio alternativo – numerale, matematico e musicale al tempo stesso – è stato sostenuto dal pitagorismo e dal vecchio Platone del Filebo e del Timeo, che, in palmare discrepanza con i suoi ardori antimusicali nella Repubblica, lo aveva recuperato in maniera tardiva quanto sorprendente. Nella Repubblica Socrate diceva che la modificazione dei modi musicali determinava cambiamenti nella città e nelle sue leggi, e pertanto non potevano essere modificati senza alterare la costituzione della città e del suo ordine legale. La musica possiede senz’altro il suo proprio ordine compositivo, crea un universo linguistico, un mondo, con sue forme specifiche di espressione. Determina e articola una forma linguistica del tutto differenziata rispetto al linguaggio accolto e configurato da poesia e filosofia. María Zambrano, con straordinaria sensibilità e acume, ha colto il doppio e contrapposto lignaggio da cui proviene questa modalità espressiva, alternativa al linguaggio parlato e poetizzato, costituita dal linguaggio musicale con i suoi modi, i suoi vertici e intensità, le sue forme ritmiche, i suoi giri dinamici, le sue testure. Parlando dell’origine ascendente, proveniente dalla sacra oscurità delle origini selvagge, della musica, ha mostrato come attraverso un complesso processo di umanizzazione il grido spontaneo (gemito di sofferenza, irrefrenabile espressione di piacere e delizia) risulta infine articolato. Giunti a questa conversione del grido in canto (ciò che ha dato spunto a riflessioni assai stimolanti, come quelle svolte da Emanuele Severino in Il parricidio mancato), occorre riferirsi alla seconda via originaria da cui proviene il modo musicale d’espressione: l’origine astrale, l’armonia delle sfere. La grande ambiguità della musica, su cui s’è fermata la riflessione di María Zambrano, è radicata in questa sua doppia natura sempre evocata nei miti e nei racconti relativi alle sue origini, soprattutto nelle tradizioni relative a Orfeo e al fondo dionisiaco da cui la figura del fondatore della musica assume rilievo, sempre sul punto di evocare le forze infernali, o di forzare le porte dell’inferno grazie all’incanto e alla malia che le sette corde della lira e la sua voce producono sugli abitanti dell’Ade, sui guardiani dell’Erebo. La musica è sempre stata uno dei modi primari, incipienti, della conversione del mondo selvaggio e animale nel mondo propriamente umano. Linguaggio alternativo, anteriore al linguaggio che proporziona materia e forma poeticamente, e anteriore alla filosofia, la musica è al tempo stesso un arcaismo che rinvia al più antico e ancestrale, al transito dal matriciale all’ordine del senso e della significazione, e una promessa eterna di felicità, in cui la celebre definizione stendhaliana dell’arte pare incarnarsi in un’utopia sensibile e sensuale: questa è la cosa migliore che la musica ci suggerisce, ­l’incanto e il sogno che la musica provoca nelle nostre emozioni, affetti e passioni.

90

202

91

Eugenio Trías

In certo modo, il linguaggio musicale è il perpetuo «altro» con cui sempre dobbiamo fare i conti, tutte le volte che ci riferiamo al mondo dei mezzi di espressione. La musica, abbecedario primordiale delle nostre emozioni e affetti, precedente l’ordine e la numerazione (aritmetica, geometria), sembra ricondursi sempre ad un mormorio originario che, tuttavia, nella sua peculiarità preverbale, attuata sinesteticamente, sprigiona, insieme con le emozioni che provoca, anche un senso. In questo contesto mi piace ricordare un bel racconto della scrittrice russa Marina Cvetaeva intitolato Mia madre e la musica, per la freschezza e l’originalità che mostra nel trattare un tema di grande complessità, quello del comparire di due forme di espressione degli affetti e delle emozioni, che nella nostra esperienza paiono incrociarsi: la musica e la poesia. «Originale» è qui il volgersi agli inizi di un’esistenza segnata dal peso schiacciante di una madre musicale, che determina i primi incontri con il mondo delle emozioni e dei sensi di una bambina che compitava la chiave armonica stampata su un piano a coda di imponente presenza. Questo straordinario racconto ci immerge nella magia delle note bianche e nere, con i suoi colori e le sue emozioni particolari, come il sorprendente accento di tristezza che le note nere suscitano nell’anima della fanciulla. Le scale diatoniche e cromatiche, le note gravi ed acute, offrono cenni e gesti loro propri, anticipando il senso e il significato stesso delle parole; parole suscettibili di trattamento poetico. Ci viene narrata, in questo bel racconto, la gestazione e la vocazione lirica che l’aurora musicale anticipa. Nella forma narrativa di una novella autobiografica, si inscena d’un tratto – all’unisono con il racconto di questa esperienza primigenia di una fanciulla che scopre ad un tempo la musica e la poesia, o la musica che fa da appoggio e sostegno ai bei poemi che possono essere intonati e cantati – la complessa difficoltà di questi due modi espressivi (il poetico e il musicale), che tanto ci riguardano e coinvolgono con le loro complesse e tese relazioni, le quali possono, a loro volta, costituire dei validi strumenti ermeneutici per instaurare rapporti, certo complicati ma di grandissimo interesse, con l’elaborato linguaggio che la filosofia ha sviluppato e dispiegato secondo le modalità specifiche dell’argomentazione. 6 Nell’interrogarci sulla percorribilità di questa via ‘altra’, ‘diversa’, che richiede – come si diceva – un tipo di dialogo, poco frequente, quello tra musica e pensiero, è inevitabile che si riconsiderino anche le più alte conquiste di quelli che María Zambrano chiama «i vincitori», Aristotele innanzitutto, maestro del pensiero occidentale, e proprio muovendo dalla strada dei vinti aperta dai Pitagorici e che il tardo Platone, il Platone dialettico, evoca di continuo.

Poetizzare il sacro

203

Si potrebbe ben concepire in forma musicale, a partire da alcune delle più consolidate e significative forme musicali, la connessione che permette di orientarsi tra i grandi temi e problemi sollevati dai Presocratici: il complesso rapporto tra l’Uno e il Molteplice, la difficile mediazione tra l’ápeiron e le sue determinazioni, e cioè il limite. Una tale forma musicale permetterebbe forse di riconsiderare la maggiore conquista aristotelica, rimasta sempre bloccata nella dialettica platonica, senza riuscire ad affrontarla: l’aristotelica modalità d’individuazione della sostanza pienamente singolarizzata, irriducibile a tutte le attribuzioni o determinazioni che di essa possono rinvenirsi, e però, al tempo stesso, prima «predicazione» (o categoria) possibile in relazione al modo di essere o di realtà che nella sostanza si concreta e costituisce. Ci potrebbe essere dunque una Forma Una e Diversa – musicale – simile a quella che da alcuni anni evidenzio quale emblema della mia proposta filosofica, la forma del Tema e delle sue Variazioni, in cui poter ripensare la singolarità (quella di ogni variazione presa nella sua propria e specifica personalità) e del suo potere o capacità di ricrearsi e di essere ricreata, mediante la trama, la testura o congiunzione di tutte le variazioni, in successione temporale e nella sua congiunzione spaziale (armonica, ritmica, o di sintassi musicale di fondo). Forse questa forma, ispirata alla tradizione «dei vinti», potrà fecondare anche le più alte conquiste della via aristotelica, che ricompare, filtrata dal setaccio soggettivo o personalizzato, nella tarda antichità (Sant’Agostino) e in tutto l’arco della modernità, a partire da Descartes, sino a Wittgenstein e Heidegger. Questa stessa riflessione può allora essere svolta anche in relazione alla soggettività e in generale alla condizione in cui possiamo riconoscerci (disconoscerci). Potrebbe essere svolta, azzarderei, se impostiamo la questione assumendo una distinzione che pure considero necessaria, quella tra soggettività individuata e quel che la Zambrano ricorda con il concetto di persona. Siamo persone, in effetti; maschere attraverso cui risuona, come voce propria e singolare, una trama, una testura di variazioni che si ricrea nella nostra vita personale, secondo uno stile e un modo proprio e specifico. Siamo insomma variazioni: questo è quello in cui ciascuna persona può riconoscersi. Ciascuna persona, nella sua indelegabile e radicale personalità, è una variazione: una variazione che mantiene certamente un’aria di famiglia, comune ad altre variazioni (successive, contemporanee), ma che possiede la sua singolarità personale, indelegabile e intrasferibile, che le appartiene in uso e in proprietà. (Traduzione dallo spagnolo di Marco Russo)

92

María Zambrano: Ragione poetica e storia* Giuseppe Cacciatore

Vi sono alcuni punti-chiave della riflessione di María Zambrano che è f­ orse opportuno richiamare fin da subito, giacché certamente agevolano l’accesso ad un’opera che non è classificabile tout court come filosofica né nel senso sistematico, né in quello storico-espositivo. Zambrano è eminentemente filosofa della crisi, nel senso del genitivo soggettivo ed oggettivo; attraversa vivendola fino in fondo la crisi europea della razionalità moderna e dei grandi sistemi ideologici e filosofici e ne propone una originale analisi che è, al contempo, anche una ipotesi non consolatoria di confronto con essa. Dinanzi alla «bancarotta» degli ismi otto-novecenteschi, la filosofa spagnola propone un ritorno – solo apparentemente semplicistico – ad una «filosofia delle cose», ad un materialismo delle cose che non ha, evidentemente, nulla in comune con i parametri del materialismo classico. Ma le «cose» della filosofia zambraniana non sono i fatti spettrali e immobili, dati una volta per tutte nella sostanzialità del mondo naturale o nella rappresentazione idealistico-concettuale dei filosofi. La antica allieva di Ortega coglie la enorme distanza che corre tra la vita e le astrazioni della ragione, tra il realismo della vita e il reale ridotto a rispecchiamento della materia o dell’idea. Il vero oggetto della filosofia, allora, non sono più le cose che i filosofi collocano nella serie dei processi conoscitivi della ragione, ma gli avvenimenti (acontecimientos), i fatti (sucesos)1. Fanno bene, allora, alcuni suoi interpreti2 a dare giusto rilievo alla originale traccia * Conferenza tenuta al Convegno internazionale «Verità e Poesia. L’esperienza di pensiero di María Zambrano», organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno (31 gennaio - 1 febbraio 2003). 1 Cf. M. Zambrano, Los intelectuales en el drama de España, Hispanoamerica, Madrid 1977, pp. 23 e ss. e 135 e ss. 2 La letteratura critica dedicata a María Zambrano è diventata, specialmente negli ultimi anni sempre più consistente. Si possono consultare con profitto la bibliografia curata da Ortega Muñoz, Bibliografía de y sobre María Zambrano, in «Jábega», n. 65, 1989; la Nota biográfica y bibliografica, posta in appendice a Zambrano, Verso un sapere dell’anima, a cura di R. Prezzo, Cortina Editore, Milano, 1996; la bibliografia che accompagna il numero monografico di «aut

93

206

94

Giuseppe Cacciatore

interpretativa del realismo offerta dalla Zambrano3 in modo particolare nei saggi dedicati allo stretto nesso che, nella cultura spagnola, si instaura tra pensiero e poesia (il riferimento va, ad esempio, alla mistica spagnola ed alla sua capacità di esprimere un amore disinteressato per la presenza delle cose e delle creature del mondo). Il realismo, allora, non è mera registrazione della realtà; esso è sì una «forma di conoscenza», ma è anche un atteggiamento dell’anima, un disporsi verso le cose che non s’accontenti dei modelli astratti e calcolanti della razionalità4. «Il realismo – ha giustamente osservato De Luca5 – è uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depone senza nessuna pretesa di ridurlo a qualcos’altro. Per tale ammirazione disinteressata il realismo è un essere innamorati del mondo e da innamorati è il suo modo di aderire alle cose, di rimanervi attaccati». Ora, è proprio a partire dal diverso modo di atteggiarsi nei confronti del mondo e delle cose che Zambrano individua una differenza di fondo tra filosofia e poesia. Alla base, dunque, della «ragione poetica» zambraniana si dispone un sottofondo di critica e di ripensamento dei plessi teoretici fondamentali della tradizione filosofica occidentale. Come si è già visto innanzi, è solo grazie alla parola poetica che si può attingere il vero realismo, quello delle cose, il materialismo che non è certo da intendere come un mero idealismo rovesciato, ma accesso diretto alle cose, alla realtà e che elabora i processi di comprensione e astrazione del reale affidandosi non all’intelletto astratto della ragione, ma alla passione, all’amore incondizionato per le cose. «La ragione poetica è lo spazio dell’offrirsi gratuito e del riconoscente ricevere, e in questo è atto di assoluto materialismo perché condivisione dell’infinito creare della materia, partecipazione al suo flusso nel quale nessuna parte può sopravanzare l’altra»6. Sbaglierebbe, però, chi voglia interpretare la concezione zambraniana della poesia come una sorta di teoria poetica o, peggio ancora, come una filosofia della poesia. La fenomenologia zambraniana delle due esperienze, quella della poesia e quella della filosofia, non si accontenta di ripercorrere le diverse figure a cui esse danno vita, il diverso rapporto con il mondo, il diverso modo di ricercare la verità. Alla fine del lungo percorso, come si vedrà, si colloca la ricerca di un «pensiero intero»7, di una umanità da cogliere, interpretare e

aut» dedicato alla filosofa (n. 279 del 1997). È poi apparsa recentemente l’accurata bibliografia di F. Garofalo, in M. Zambrano, Filosofia e Poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 1998. 3 Mi riferisco in modo particolare, tra gli altri, a Ortega Muñoz, Introducción al pensamiento de María Zambrano, Fondo de Cultura económica, México,1994, pp. 9 e ss., e a De Luca, Introduzione a M. Zambrano, in Filosofia e Poesia, cit., pp. 14 e ss. 4 Cf. M. Zambrano, Pensamiento y poesía en la vida española, Ensayo, Madrid 1996, pp. 35 e ss. 5 Cf. P. De Luca, Introduzione, cit., p. 14. 6 Cf. P. De Luca, Introduzione, cit., p. 17. 7 L’opportuno spunto interpretativo è ancora di P. De Luca, cit., p. 19.

María Zambrano: Ragione poetica e storia

207

vivere nella sua interezza. Con una mossa teorica che ricorda da vicino la nozione di «uomo intero» elaborata da Dilthey, Zambrano, proprio nell’esordio di Filosofia e poesia, guarda alle due fondamentali esperienze della vita come alle due metà ancora separate dell’uomo. «Nella filosofia non si trova l’uomo intero; nella poesia non si trova la totalità dell’umano. Se nella poesia troviamo direttamente l’uomo concreto, individuale, nella filosofia ci imbattiamo nell’uomo inserito nella sua storia universale, nel suo voler essere. La poesia è incontro, dono, scoperta venuta dal cielo. La filosofia è ricerca, urgente domanda guidata da un metodo»8. Dinanzi all’originario stupore dell’uomo verso le cose, alla meraviglia che è all’origine di ogni rapporto dell’uomo con le cose, si aprono, osserva Zambrano, due sentieri: «Il cammino della filosofia, in cui il filosofo, spinto dall’amore violento per ciò che cercava, abbandonò la superficie del mondo, la generosa immediatezza della vita, basando il proprio ulteriore e assoluto possesso su di una iniziale rinuncia». Si assiste così al progressivo tramutarsi della meraviglia in ansia di conoscenza intellettuale, in perenne domandare, in continuo sacrificio e «martirio» dell’intelligenza e della stessa vita umana. «L’altro cammino è quello del poeta. Il poeta non rinunciava, non cercava neppure, perché già possedeva. Possedeva immediatamente ciò che davanti a lui, ai suoi occhi, all’udito e al tatto appariva; possedeva ciò che guardava e ascoltava, ciò che toccava, ma anche tutto ciò che popolava i suoi sogni […]. I confini si modificavano in modo tale che finivano per non esserci. I confini di quello che scopriva il filosofo, invece, si andavano nel frattempo precisando e distinguendo in modo tale che già si formava un mondo con un suo ordine e una sua prospettiva, dove già esisteva il “principio” e il “principiato”»9. È la ricerca filosofica dell’essere al di là delle apparenze, dell’unità occultata dall’immediatezza, che divarica sempre più il pensiero della ragione dal pensiero della poesia10. In questo corpo a corpo che Zambrano ingaggia con i valori e i significati tradizionali della razionalità filosofica, si fa strada l’idea della ragione poetica. «La cosa del poeta non è mai la cosa concettuale del pensiero, ma completissima e reale, la cosa fantasmagorica e vagheggiata, quella inventata, quella che ci fu e quella che non ci sarà mai. Vuole la realtà, ma la realtà poetica non è solo quella che c’è, quella che è, ma anche quella che non è; abbraccia l’essere e il non-essere in ammirevole giustizia caritativa, giacché tutto, proprio tutto, ha diritto ad essere, finanche ciò che non ha mai potuto essere»11. Si acuisce, allora, sempre più la «divergenza tra i due Cf. M. Zambrano, Filosofia e Poesia, cit., p. 29. Cf. M. Zambrano, ivi, p. 33. 10 «La radice da cui poeticamente è nato il pensiero si è scissa in una coppia nemica in brevissimo tempo. Come brevissimo è il tempo che passa dal poema di Parmenide all’“antipoetica prosa” di Aristotele». Cf. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, a cura di R. Prezzo, Cortina Editore, Milano 1996, p. 39. Così il filosofo e il poeta si sono allontanati sempre più l’uno dall’altro in una ostilità che ha reso i “poeti rancorosi” e i “filosofi sprezzanti”». 11 Cf. M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 37. 8

9

95

96

208

Giuseppe Cacciatore

«logos», tra due procedimenti che per lungo tempo, osserva Zambrano, hanno volto le spalle l’uno all’altro, specialmente quando la filosofia, mostrando tutta la sua superbia (par qui di riascoltare la parola di Vico contro la «boria dei dotti») ha concentrato la sua ragion d’essere nel possesso delle verità. «Al contrario l’unità e la grazia, rinvenute dal poeta come fonte miracolosa sul proprio cammino, sono donate, scoperte immediatamente e in assoluto, senza progettare tragitti, senza inciampi, né contorsioni. Il poeta non ha metodo… e neppure etica»12. La filosofia non è stata l’unica via percorsa dall’uomo verso il possesso delle idee. Non c’è solo la via segnata dalla speranza della ragione, vi è anche quella che s’affida alla passione per le cose effimere e transitorie, che guarda alla disperazione piuttosto che alla consolazione. «Nei tempi moderni – scrive Zambrano – la desolazione è venuta dalla filosofia e la consolazione dalla poesia. Qui invece accade il contrario: la poesia è la voce della disperazione, della melanconia e dell’amore per ciò che è caduco, che non vuole consolazione per la perdita e per l’esser persi»13. La scrittura suggestiva e aforismatica di Zambrano incalza senza soste in questo uso, persino spietato e provocatorio, delle opposizioni paradossali. Dinanzi al «fuoco bruciante del desiderio», rispetto all’ebbrezza e al delirio, la ragione si rivela come rinuncia, addirittura come «impotenza della vita». «Vivere è delirare. Ciò che non è ebbrezza né delirio, è preoccupazione»14. E mentre il filosofo è costantemente divorato dalla preoccupazione di non riuscire a possedere tutta la ricchezza che gli è stata concessa all’origine del mondo e, dunque, si affida alla reminiscenza, il poeta, invece, «si sente interamente ospite di questo mondo, lo ama ed è ­attaccato alle sue gioie». Affidandosi alla pagina platonica del Fedro, ­Zambrano oppone all’occhio, che coglie la bellezza immediatamente, la ragione, che attraverso la reminiscenza, cerca di percepire la sapienza. Questo vuol semplicemente dire che è costitutiva della natura umana la contraddizione tra ragione e passione, tra senso della legge e sentimento del dolore o dell’amore. Questo spiega anche il motivo della costante attrazione che Zambrano mostra di nutrire nei confronti del personaggio tragico e del conflitto delle passioni che albergano nel suo animo15. Anche i principi fondativi 12 Ivi, p. 39. Su questo punto sono da leggere le dense pagine che Zambrano dedica all’interpretazione della condanna platonica della poesia. 13 Ivi, p. 47. 14 Ivi, p. 48. 15 La testimonianza più evidente di ciò è data dalla presenza continua di testi e di autori tragici nelle pagine zambraniane. L’esempio più noto è la Tumba de Antígona del 1967. Qui la filosofa spagnola, in uno straordinario esercizio di scrittura poetico-filosofica, rilegge il personaggio sofocleo che, invece di suicidarsi, discende agli inferi, giacché non può morire prima che le venga concesso tutto il tempo, sottrattole dal suo tragico destino, per recuperare la memoria, il sentire interiore, i sogni e i desideri di fanciulla. «La mia storia – dice l’Antigone di Zambrano – lei sì che è sanguinosa. Tutta, tutta la storia è fatta col sangue, tutta la storia è di sangue, e le lacrime non si vedono […]. E il tempo, conta forse qualcosa? Non sto forse io qui senza più tempo, e quasi senza sangue, eppure in virtù di una storia, irretita in una storia?

María Zambrano: Ragione poetica e storia

209

dell’etica occidentale (verità, giustizia, legge, norma, critica delle apparenze) sembrano sancire la condanna della poesia come condanna morale delle passioni. Non vi è, infatti, momento più dissolutivo della poesia che quello della decisione. Il che dimostra, ancora una volta, quanto possano divaricarsi le vie della filosofia e della poesia. «Il filosofo definisce la vita umana come manchevolezza, come insufficienza e da simili considerazioni muove per trovare, per trovare da sé, il cammino che lo porta a completarsi. La filosofia è incompatibile col ricevere qualcosa come dono, per grazia. È l’uomo che uscendo dal proprio stupore iniziale, dall’angoscia o dal naufragio, trova da sé l’essere e il Il tempo può esaurirsi, e il sangue non scorrere più, se però sangue c’è stato ed è scorso la storia continua a trattenere il tempo, ad aggrovigliarlo, a condannarlo. […] Per questo non muoio, non posso morire, finché non mi si dia la ragione di questo sangue e la storia non esca di scena, lasciando vivere la vita. Solo vivendo si può morire» (cf. M. Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, tr. e intr. di C. Ferrucci con un saggio di R. Prezzo, Milano, 2001, p. 79). Il tema dominante del discorso filosofico diventa qui l’ombra, la ricerca, come è stato detto (cf. R. Prezzo, La scrittura del pensiero in María Zambrano, in La tomba di Antigone, cit., pp. 23-24), di un cammino a ritroso rispetto a Platone, di un ritorno all’oscurità o, meglio, al chiaroscuro che intravediamo nel folto del bosco (qui il riferimento è ovviamente a Claros del bosque del 1977), a quelle scintille o sprazzi di verità che improvvisamente si aprono nell’intrico dei rami della storia. Con Antigone, Zambrano si inoltra nel mondo delle ombre, negli inferi tanto della realtà interiore quanto della esteriorità degli eventi storici e biografici. «Solo addentrandosi nella grotta oscura, nelle sue proprie viscere, Antigone può nascere completamente in una notte che la rivela e le dà perciò un nuovo inizio e una coscienza aurorale […] in cui la luce non sconfigge le tenebre ma ne prosegue il cammino» (cf. R. Prezzo, cit., p. 24). È, dunque, nella tragedia greca, una delle dimensioni privilegiate di incontro tra l’umano e il divino, che la «storia vera» («la storia che la ragione filosofica si affanna a rivelare e la ragione poetica a riscattare») riesce a liberarsi dalla morsa soffocante della «storia apocrifa». Qui Zambrano ricorre all’iconologia della croce: le due ragioni sono come i legni della croce su cui «patiscono il loro supplizio le vittime propiziatorie della storia umana». «Nel simbolo della croce possiamo trovare infatti sia l’asse verticale, che indica la tensione verso il cielo di ciò che è terrestre così come la linea più diretta dell’influsso del cielo sulla terra, asse allo stesso modo della figura dell’umana attenzione nella sua massima vigilanza; sia l’asse orizzontale, direzione parallela al suolo terrestre a cui lo stesso suolo si solleva per imprigionare le braccia aperte, segno del totale consegnarsi del mediatore» (cf. M. Zambrano, La tomba di Antigone, cit., p. 50). Sembrerebbe, come osserva Zambrano in El sueño creador, che nel momento del mostrarsi della coscienza moderna e dell’attualizzazione della libertà nella storia, la tragedia debba uscire di scena. Ma il superamento del tragico è avvenuto in forma frettolosa ed ha spesso finito col trascurare la vera situazione dell’uomo. Tocca ancora una volta alla ragione poetica di scuotere l’uomo dal sonno profondo della ragione. «Il riconoscimento della situazione tragica, sia in un autore, sia in una semplice persona che si sveglia, si verifica a un certo grado di libertà, in un risveglio di tale libertà in una coscienza che non ha perso le sue radici. Una coscienza che non ha rotto con l’anima, né con le sue zone più infernali, e che non si è costituita come strumento di potere sulla realtà; che non si è insediata, cioè, nel tempo successivo in modo esclusivo, spodestando le altre manifestazioni della temporalità […]. Il risveglio della coscienza può farsi carico del sentimento del soffrire tragico e può avvenire solo in una coscienza innocente che precede nella propria azione la “coscienza pura” della filosofia. Il risveglio tragico è un risveglio negli inferni dell’essere. La coscienza in cui tale risveglio si accende è una coscienza innocente che non impone la propria legge. È una coscienza mediatrice che non teme la “discesa”» (Cf. M. Zambrano, Il sogno creatore, a cura di C. Marseguerra, tr. it. di V. Martinetto, Milano, 2002, p. 98). Ma sulla centralità di Antigone nella concezione «sacrificale» della storia della Zambrano cf. il capitolo, nello stesso libro, su Il personaggio autore: Antigone, pp. 105 e ss.

97 98

210

99

Giuseppe Cacciatore

proprio essere. Insomma, salva se stesso con la propria decisione. Il poeta è fedele a ciò che già possiede. Non si sente manchevole come il filosofo, anzi, in eccesso, carico, con un carico, è vero, che non comprende16. È il motivo per cui lo deve esprimere, deve parlare «senza sapere quel che dice» […]. E la sua gloria consiste nel non saperlo, perché in tal modo si rivela di molto superiore all’intelletto umano la parola che dalla sua bocca esce17; in tal modo ci mostra che è più che umano, quel che nel suo corpo abita»18. Vi è, tuttavia, per Zambrano, una etica che è propria della poesia, che non veste, naturalmente, i panni filosofici della rassicurazione metafisica o dell’ossequio ai principi fondativi. Esiste, piuttosto, una vera e propria «etica poetica», che è quella del martirio, del donarsi completo e totale del poeta alla poesia. E, tuttavia, si chiede Zambrano, vi è un luogo possibile per la poesia che non sia quello della giustizia e della norma razionale? Vi può essere riconoscimento per questo dare assoluto senza risarcimenti? Esso può essere solo il dono, quel dono che «gli viene da qualcosa che è al di là della giustizia; al di là di ciò che remunera ciascuno, con ciò che gli appartiene. Poiché questo dono della poesia non è di nessuno ed è di tutti. Nessuno lo ha meritato e tutti, talvolta, lo trovano»19.

16 Peccato che Vico non sia stato tra le letture abituali di Zambrano. La filosofa avrebbe forse trovato non poche suggestioni nella concezione vichiana della poesia e della sapienza poetica. Quest’ultima, come è noto, «dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie». Si capisce, allora, che già per Vico la poesia fosse una facoltà connaturata per una umanità, nutrita di senso e fantasia, «nata da ignoranza di cagioni, la qual fu loro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli, ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano». Cf. G. Vico, Scienza Nuova 1744, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano, 1990, vol. I, pp. 569-570. 17 Scrive, poco più avanti, Zambrano: «Il filosofo vuole possedere la parola, diventarne il padrone. Il poeta ne è lo schiavo, si consacra e si consuma in essa. Si consuma per intero; fuori della parola non ha esistenza, né vuole averne» (cf. Filosofia e poesia, cit., p. 54). Ma vedi anche p. 57: «Ha ragione Platone: poeta e poesia, poiché sono immorali, sono fuori dalla giustizia. Di fronte […] all’unità scoperta dal pensiero, la poesia si aggrappa alla dispersione. Di fronte all’essere, cerca di fissare unicamente le apparenze. E di fronte alla ragione e alla legge, la forza irresistibile delle passioni, la frenesia. Di fronte al logos il parlare delirante. Di fronte alla vigilanza della ragione, alla preoccupazione del filosofo, l’ubriachezza perenne. E di fronte a ciò che è atemporale, ciò che si intesse e si disfa nel tempo». La poesia, dirà più avanti Zambrano, dovette apparire, per il suo essere «peccato della carne fatto parola», una eresia rispetto alla ricerca filosofica della verità. «Il filosofo, ai tempi di Platone, non poteva che guardarla con orrore, perché in essa il logos, volgendosi all’irrazionale, contraddiceva se stesso» (ivi, p. 59). 18 Cf. M. Zambrano, op. cit., p. 53. Mi sembra questo uno dei tanti passaggi nei quali maggiormente si può cogliere la poeticità della scrittura zambraniana. Anche alla luce di questa peculiarità, d’altronde, esce confermata la preminenza accordata alla ragione poetica rispetto a quella filosofica. Su questo aspetto ha scritto convincenti osservazioni V. Vitiello, Per una introduzione al pensiero di María Zambrano: il Sacro e la storia, in M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma, 2001, pp. VIII-IX. Ma cf., altresì, R. Prezzo, La scrittura del pensiero in María Zambrano, cit. 19 M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 58.

María Zambrano: Ragione poetica e storia

211

Anche Zambrano, come i più grandi filosofi dell’età contemporanea, affronta – alla luce di ciò che dai loro diversi itinerari indicano il filosofo e il poeta – il grande tema dell’essere-per-la-morte. Mentre per il filosofo la preparazione alla morte coincide con il massimo della maturità, della separazione dal corpo e dalla «follia della carne», e si manifesta come un vero e proprio «ascetismo»20, una totale rinuncia alla dimensione della sensibilità, per la poesia tutto ciò assolutamente non si pone, giacché essa continua a «vivere secondo la carne». Non nel senso solo dell’attaccamento primordiale ed egoistico al proprio corpo, ma in quello del sapere e potere «vivere nella carne, addentrandosi in essa, conoscendone l’angoscia e la morte»21. Se alle spalle non vi fosse – come si è visto – una profonda conoscenza dei testi e una grande capacità di interrogare e farsi interrogare filosoficamente da essi – la icastica conclusione zambraniana potrebbe sembrare fin troppo semplicistica: da un lato vi è il mondo della certezza e dell’ottimismo, la filosofia, dall’altro vi è quello dell’angoscia e della contraddizione, la poesia. In effetti, nella riflessione di Zambrano si scorge in filigrana l’effusiva ed irrisolta presenza di uno dei più intricati ed intriganti temi della filosofia occidentale: quello del corpo e del permanente dualismo che esso apre con le pretese della ragione di risolverlo nella sua unità. Si definiscono, così, nel ricco e suggestivo argomentare della Zambrano, confini e territori comuni, distanze e convergenze, sentimenti e ragioni, della poesia e della filosofia. La filosofia esprime il desiderio spasmodico di possedere sé stessi, e per farlo è persino disposta a sopravanzare il tempo, ad essere più veloce del tempo servendosi del pensiero. Il poeta, invece, al contrario del filosofo, mostra scarsa cura di sé, non mira a possedersi e a nominare, in questo possesso infinito, l’essere. La sua ricerca piuttosto si volge all’accoglimento dell’essere, al dono dell’es- 100 sere. «Il filosofo […] parte a vele spiegate alla ricerca del proprio essere. Il poeta se ne sta tranquillo in attesa del dono […]. Quanto più tarda il dono vagheggiato, tanto più si volge all’indietro […]. La poesia è fuga e ricerca, bisogno e spavento; un andare e ritornare, un chiamare per fuggire; un’angoscia senza limiti e un amore esteso. Non può neanche concentrarsi sulle origini, perché ormai ama il mondo e le sue creature e non troverà riposo fin quando tutto con lui non sarà reintegrato nelle origini»22. Non tutte le filosofie, però, hanno concentrato il loro sguardo unicamente sull’essere e sul modo di ricondurre alla sua astratta unità il mondo delle

20 È proprio sul terreno dell’ascetismo che, secondo Zambrano, diventa visibile il legame tra filosofia greca e religione cristiana. Teologia platonica (nel senso del pensiero del divino) e mistica cristiana si incontrano sul terreno del comune obiettivo: «il recupero dell’umana natura, il riscatto dell’anima» (ivi, p. 68). E, qualche pagina più innanzi: «La speranza che appare nel mondo greco, la speranza che l’uomo avesse finalmente essere, essere rispetto al divenire della natura, essere pur all’interno del turbinio dell’esistenza, si era appoggiata sul doppio cammino della filosofia e della religione cristiana» (ivi, p. 82). 21 Ivi, p. 67. 22 Ivi, p. 110.

212

Giuseppe Cacciatore

cose e delle apparenze. Vi è un modello di filosofia radicale, di filosofia legata alle cose23, che s’accompagna alla poesia, non si separa da essa. «La poesia è stata sempre aperta alle cose, gettata fra di esse, gettata fino alla perdizione, fino all’oblio di sé, del poeta. Ma per questo oblio di sé, più prossima sempre ad essere aperta verso l’ultimo fondo o radice dell’esistenza […]. E il miracolo della poesia sorge in pienezza quando nei suoi istanti di grazia ha trovato le cose su questo fondo ultimo, le cose nella loro peculiarità e nella loro verginità; le cose rinate dalla loro radice»24. Si comprende bene, allora, come Zambrano si senta estranea ai modelli unitari, forti, lineari, razionalistici, della filosofia e si volga, invece, alle filosofie, per così dire, di frontiera che non rinuncino alla ragione, ma ne ampliano la portata, i significati, i territori. Una ragione che finalmente superi il tradizionale schema della chiarezza e distinzione cartesiane e elabori una nuova visione dell’esser chiaro, che sia capace di penetrare nel «chiaroscuro» del bosco, quando la luce dell’alba filtra nel profondo del bosco. L’avventura del pensiero si presenta, così, come un attraversamento dei chiari del bosco. Qui viene in primo piano la sospensione del discorso, proprio nel momento in cui la parola sembra impossessarsi della comprensione delle cose, e si va incontro, così, alla «discontinuità irrimediabile del sapere dell’ascolto» alla «incompiutezza del sentimento», ma anche dell’azione e del tempo stesso, «che trascorre a salti, lasciando buchi di intemporalità in ondate che si estinguono, in attimi simili a scintille di un i­ncendio lontano»25. Cosicché, il viandante nel bosco va alla ricerca della 101 trac­cia svanita, dell’orma lasciata sul suolo, di ciò che è andato a nascondersi nel folto e che non è dato sapere se e quando riapparirà. «Tutto ciò non conduce alla domanda classica che apre il filosofare, la domanda sull’“essere delle cose” o l’“essere” e basta, ma fa irrimediabilmente sorgere dal fondo di questa ferita che si apre verso dentro, verso l’essere stesso, non una domanda ma un vocio suscitato da quell’invisibile che passa solo sfiorando»26. 23 Qui Zambrano si collega, citandolo esplicitamente, alle pagine in cui uno dei suoi maestri, Zubiri, parla dell’esistenza umana, nella sua dimensione costitutiva, come religio, come qualcosa cioè che è «rilegato», radicato alle cose. Cf. X. Zubiri, En torno al problema de Dios, «Revista de Occidente», 1935. 24 Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 116. 25 L’immagine delle scintille e della traccia che esse lasciano nello spazio vuoto della memoria e dell’azione è anche in E. Bloch, Erbschaft dieser Zeit, Frankfurt a. Main, 1962, p. 22. «Uno spazio vuoto, con qualche scintilla, tale rimarrà, a lungo, la nostra situazione; uno spazio vuoto, tuttavia, che lascia camminare senza dissimulazioni e con scintille che disegnano in maniera crescente una figura di orientamento». 26 Per questa e la precedente citazione cf. M. Zambrano, Chiari del bosco, tr. it. di C. Ferrucci, Milano, 1991, p. 18. «Zambrano – ha scritto Ortega Muñoz – piensa haber alcanzado la superación del racionalismo […]. Preconiza una razón apasionada, una razón intuitiva, una razón totalizadora que ponga en juego al hombre completo con todos sus posibles órganos de comunicación, una razón poética. Con ello el hombre recupera la extensa gama de claroscuros – la claridad del pleno día sólo a Dios corresponde – y reintegra a la unidad del conocimiento los saberes erráticos, proscritos por el racionalismo» (cf. J.F. Ortega Muñoz, Introducción al pensamiento de María Zambrano, México, 1994, p. 27).

María Zambrano: Ragione poetica e storia

213

La «ragione poetica»27 zambraniana si mostra, così, in tutta la sua polivalenza, in tutta la sua capacità di scandagliare alla radice, oltre il razionalismo occidentale, oltre l’idealismo e il materialismo, il «sapere dell’anima». Come ha giustamente osservato Rossella Prezzo, quella di Zambrano è una radicale rivisitazione della filosofia e della sua storia, un rifare a ritroso i suoi percorsi alla ricerca di un diverso sentire28. La ragione poetica, per legarsi al mondo, per sentire fino in fondo e senza mediazioni intellettualistiche l’amore per gli uomini e per le cose, deve appassionarsi all’uomo nella sua interezza, cercare la luce, ma insieme ad essa anche le ombre e i significati nascosti che esse lasciano soltanto trasparire, ciò che, come diceva Ortega, c’è e non è. E la ragione poetica è innanzitutto pietà per l’umano, cioè conoscenza dell’altro basata non sul mero riconoscimento, ma sulla capacità di saper trattare adeguatamente con l’altro. Ma tutto questo è possibile soltanto se passione e ragione ritornano all’alleanza originaria. Usando una metafora venatoria – anch’essa forse echeggiante pagine orteghiane29 – Zambrano osserva che la «passione da sola mette in fuga la verità, che, suscettibile e agile, riesce a sottrarsi alle sue grinfie. La ragione da sola non riesce a sorprendere la preda. Mentre passione e ragione unite, o meglio, la ragione appassionata che si 102 slancia con impeto ma sa poi trattenersi al momento giusto, riescono a catturare senza danno la nuda verità»30. In questo senso, per Zambrano, la filosofia può ancora assolvere ad un compito che abbia senso in quest’epoca profonda di crisi. Ma ciò può avvenire solo nella misura in cui essa identifica la ricerca della verità con un nuovo ordo amoris31, con un nuovo sapere dell’anima, con un metodo, dunque, che la strappa dal mero razionalismo assoluto della conoscenza e della scienza e la fa diventare «cammino di vita»32. Diventa, per tale via, agevolmente comprensibile quel motivo centrale di molte pagine zambraniane, lo stretto rapporto, cioè, tra la costruzione di un sapere

27 Sulla ragione poetica di Zambrano sono da consultare gli studi del Ferrucci: María Zambrano e la ragione poetica, in «Tempo presente», n. 123-124, 1991; Le ragioni dell’altro: arte e filosofia in María Zambrano, Bari, 1995. Ma cf. anche Ortega Muñoz, op. cit., pp. 27 e ss. e 52 e ss. 28 «Si rende allora necessaria per María Zambrano una profonda riflessione su cosa significhi pensare e “fare filosofia”, cosa sia la “vocazione” filosofica, quella che lei stessa sente, cosa sia stato o possa essere il pensare filosofico. Per questo occorre tornare indietro, rifare il percorso, riaprire anche sentieri che, non più battuti, sono rimasti soffocati; cominciare di nuovo per poi riprendere a cominciare, ritrovando il senso perduto di quella amicizia che la parola filosofica mantiene in sé, oscurata, e riprendere il “cammino di vita”» (cf. R. Prezzo, Il cominciamento, intr. all’ed it. di M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. VIII. 29 Si ricordi il saggio di Ortega su La caza y los toros, inserito nel vol. IX delle Obras completas. 30 Cf. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 11-12. 31 Il riferimento esplicito della Zambrano è al saggio postumo di Max Scheler, Ordo amoris, che si può leggere nel vol. X delle Gesammelte Werke, Berna-Monaco, 1957. «Max Scheler reclama energicamente un ordine del cuore, un ordine dell’anima che il razionalismo, più che la ragione, ignora». Cf. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 14. 32 Cf. M. Zambrano, ivi, p. 13.

214

Giuseppe Cacciatore

dell’anima e la conquista di una visione integrale dell’essenza dell’uomo. La conquista di un sapere dell’anima, dunque, non prelude surrettiziamente a una riformulazione di un intimismo romantico o, peggio ancora, di un solipsismo psicologico. Anzi, essa è possibile solo nella misura in cui l’anima stessa si fa consapevole di esser parte di un sapere più ampio e radicale, per il quale non appare più adeguata una «filosofia qualunque». «Era necessaria un’idea dell’uomo nella sua integrità e un’idea della ragione ugualmente nella sua integrità. Finché, per esempio, l’uomo era un ente razionale e nient’altro e la ragione una ragione matematica, come poteva darsi un sapere dell’anima?33 […] Era necessario imbattersi in questa nuova rivelazione della Ragione, alla cui aurora assistiamo come alla Ragione della vita intera dell’uomo […]. Senza l’orizzonte di un sapere radicale il sapere sulle passioni, amore e odio, rimaneva privo di sostegno, sospeso in un’aria terribile di confessione, o peggio, di confidenza»34. Solo la ragione poetica può innescare un metodo di ricerca della verità che non coinvolga una sola facoltà dell’uomo, un metodo, dunque, (ma anche un complessivo stile di vita) che sia, al tempo stesso, filosofico, poetico e storico. Ma che ruolo ha, appunto, la storia nell’intero percorso teorico zambraniano e, in particolare, nel processo di fondazione della ragione poetica? Per rispondere al quesito, bisogna subito intendersi sul fatto che la storia, per Zambrano, non è racchiudibile nella secca dicotomia tra il fatto nella sua materialità ed «evenemenzialità» e la conoscenza di esso, non è cioè soltanto mera descrizione di ciò che è stato, né è riducibile a riflessione metodologica e non è neanche solo discorso filosofico sulla storia, alla stregua delle filosofie 103 della storia, più o meno totalizzanti35. La storia irrigidita negli annali, la storia racchiusa nelle narrazioni, la storia ricondotta ai parametri della comprensione umana (volta a volta temporalizzata e contestualizzata) non sarà mai la storia originaria della vita umana, colta nella sua integralità, nel suo aurorale e non mediato legame con il sacro, con l’enigmatico e insondabile mistero dell’origine. «E così, dinanzi a fenomeni dal senso più profondo, passiamo alla larga, confinandoli in un nome, considerandoli come un fatto e, tutt’al più, cercandone la spiegazione in cause che la nostra mente attuale valuta come le uniche reali, le uniche capaci di produrre cambiamenti: cause economiche o specificamente storiche. Ma prima di tutto dovremmo domandarci: che cosa è “storico”? Ed è proprio questo che oggi ci domandiamo con più apprensione rispetto ad ogni altro quesito. Cos’è lo storico? Cos’è ciò che attraverso la storia si fa e si disfa, si desta e si assopisce, appare per sparire? È sempre

33 È alla luce di affermazioni come queste che cresce il rimpianto per il mancato incontro filosofico di Zambrano con Vico. 34 Cf. M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 18-19. 35 Su questo particolare profilo teoretico dell’idea zambraniana della storia cf. V. Vitiello, Per una introduzione al pensiero di María Zambrano: il Sacro e la storia, in M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., pp. IX e ss., XXXII e ss.

María Zambrano: Ragione poetica e storia

215

altro o sempre lo stesso al di sotto di ogni avvenimento»36. Paradossalmente, proprio quando la storia sembra scaturire dai fatti ed esaurirsi in essi, proprio allora mostra il suo volto più insondabile. Per questo l’accesso a questa faccia nascosta, a questa originaria e non esorcizzabile eccedenza, è consentito talvolta alla poesia, alla trasfigurazione mitica del senso della storia affidata alla parola poetica. Con un esplicito riferimento alla teoria diltheyana del Nacherleben, Zambrano osserva che l’accadere della storia non può esaurirsi nel passato. Vi è, ancora una volta, una eccedenza di passato che è quella che si svolge in ciò che accade in me e per me. «La storia, quella propriamente storica e quella personale, quella di ogni uomo, non può essere, né è mai stata, il racconto degli avvenimenti in quel fluire del tempo che porta via ogni cosa. Ciò che rende una vita unica è in verità qualcosa che le sta già e ancora accadendo, e da cui dipendono i diversi avvenimenti, anche quelli che sembrano dovuti al caso»37. Ben si capisce, allora, come e in che senso si possa definire, quella della Zambrano, come una visione tragica della storia, ma non nel senso di un «incubo che si subisce soltanto» ma di «una tragedia dalla quale si spera sbocci la libertà»38. In questo modo – e non poteva essere altrimenti per l’allieva di ­Ortega – si rilegittima la stessa conoscenza storica, si dà senso al lavoro 104 storiografico non ridotto a mera necessità, si recupera il senso filosofico per eccellenza della vita, che ha sì bisogno di storia, ma solo nella misura in cui dall’evento si è capaci di estrarre il significato, di «trasformare l’avvenimento in libertà». «E così, la conoscenza storica, nascendo poeticamente dallo stesso soggetto che la procura, sarà riassorbita da lui, sarà il recupero del suo passato, qualcosa come l’attenuazione di un errore – l’errore che deriva dal credere nel tempo successivo. Poiché il tempo reale della vita non è quello che affonda nella sabbia delle clessidre, né quello che sbiadisce nella memoria, ma quello che contiene il tesoro: le radici della nostra vita attuale»39. Ma senso tragico della storia non vuol certo dire, per Zambrano, acquiescenza e passività. Il riconoscimento della tragicità della vita umana diviene, piuttosto, il passo necessario della liberazione dell’uomo dalla storia come ne-

Cf. M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 10. Ivi, p. 225. 38 Ivi, p. 226. Più avanti Zambrano chiarisce meglio questo passaggio, quando insistendo sull’angoscia che provoca la domanda di senso storico, ma anche la stessa domanda sul posto che ognuno occupa nello svolgersi del destino della storia, osserva come la pretesa di conoscenza storica renda impersonale questo posto. «È esattamente il terreno della tragedia, dell’antica tragedia greca, più simile perciò alla storia attuale di quanto non sia la vita strettamente personale. Se la creatura umana fosse una persona solitaria, nient’altro che il soggetto della sua vita, non sarebbe tragica, poiché l’aspetto tragico le deriva dal fatto che la propria libertà è impegnata in una trama di eventi, in una situazione; nell’essere incolpevole di quanto, tuttavia, deve inesorabilmente sopportare e superare. E ciò che conta in questo non è tanto la buona sorte, né la tranquillità, ma la stessa condizione umana, il riscattare la speranza dalla fatalità» (ivi, pp. 227-228). 39 Ibidem. 36 37

216

Giuseppe Cacciatore

cessità, di una speranza che proprio nella misura in cui si riscatta dalla fatalità, può essere vera libertà. «La dimensione storica è dunque quella per cui la vita umana è tragica, sostanzialmente tragica. Essere persona significa riscattare la speranza superando, disfacendo la tragedia. La persona, la libertà, deve affermarsi di fronte alla storia, ricettacolo della fatalità»40. È talmente intenso e radicale il senso zambraniano della storia, il senso non di ciò che è meramente fatto, ma di quel che al fatto sopravvive e che da esso viene assunto come corpo, che si esplicita anche in un aperto elogio delle rovine, della «cosa più viva della storia», del punto di raccordo, insomma, tra il vivere personale e la storia. «Attraverso le rovine si apre dinanzi a noi la prospettiva del tempo, di un tempo concreto, vissuto, che si prolunga fino a noi e prosegue ancora. La vita delle rovine è indefinita e più di ogni altro spettacolo desta nell’animo di chi le contempla l’impressione di un infinito che si sviluppa nel tempo; tempo che è il trascorrere di una tragedia che si fa da sola. Tempo di un passato che continua ad esserlo, che si attualizza come passato e mostra, nel contempo, un futuro che non è mai stato; che trascende lo ieri nel quale è andato a finire, e può essere percepito solo facendoci patire»41. L’uomo ha dunque bisogno della storia, ne ha bisogno non per il semplice gusto del restauro dei fatti (delle rovine), della restituzione del passato all’obbligata spirale del tempo lineare, ma per «vedersi e essere visto», giacché 105 l’uomo «senza sapersi visto, o sognarsi tale, non inizia neanche a ve­dere. Né a rivelare sé, se stesso nella notte dei tempi»42. Zambrano, dunque, riconosce quale importante spazio abbia nella vita dell’uomo l’esperienza storica, quella che si accumula e si concentra nella coscienza, quella indispensabile affinché la verità riemerga dalla menzogna e dall’oblio della tomba43. Ma la coscienza storica di cui parla la filosofa dev’essere interpretata in modo del tutto diverso da come è stata finora intesa. «Fino a ora infatti la coscienza suole scivolare su un tempo piano, che appiattisce gli eventi e misconosce le molteplicità che il tempo dispiega nella vita umana. Mentre è necessario che lasci intatto il seme di vita che, visibile o nascosto, germina sempre; che rispetti ciò che è nascosto e non pretenda di imporre la chiarezza – la razionalistica “clarté” – che occulta tante luminose realtà»44. Contro i pericoli dell’insorgere, sempre possibile, di una «storia apocrifa», di una storia che venga sottratta all’uomo e alla sua libertà, che non si riduca a mera fase preparatoria della grande dialettica dell’essere, deve valere il senso dell’esperienza integrale e compiuta, di un’esperienza che è, insieme, della vita e della storia, che è, insieme, azione Ivi, p. 228. Ivi, p. 229. 42 Cf. M. Zambrano, La experiencia de la historia. Después de entonces (1977), tr. it., in «aut aut», n. 279, 1997, p. 14. 43 Si ricordi che questo testo fu scritto come prefazione a una raccolta di saggi pubblicati durante la guerra civile e che espliciti appiano i riferimenti alla vicenda della Spagna ­repubblicana. 44 Ivi, pp. 16-17. 40 41

María Zambrano: Ragione poetica e storia

217

e conoscenza, visione e distinzione. Anche la rivelazione, della verità come di se stessi, assume, per Zambrano, il carattere della storicizzazione, proprio nella misura in cui diventa vita vissuta. «Esperienza è rivelazione ed è storia. La storia vera che scorre al di sotto di quella apocrifa. L’uomo ha bisogno di mostrarsi e di mostrare a se stesso il suo vero volto. Ma non lo ottiene con la sola azione, né il sangue di per sé è sufficiente. La rivelazione fondamentale si dà nella parola, attraverso la parola»45. Ciò che allora viene in primo piano è, ancora una volta, la storia «vissuta», la storia che si rivela nel senso, in una esperienza del senso come unità di pensiero e di azione. «Può esserci esperienza solo di una storia che fin dalla sua origine ha avuto senso, quella storia autentica – finora, è vero sempre interrotta – in cui si manifestano il volto e la figura dell’uomo vero, che riapparirà sempre, perché è invincibile l’uomo vero, latente in ogni uomo»46. Può indubbiamente darsi, come pure si è dato nella lunghissima vicenda dell’uomo, che vi siano angosciosi periodi di predominio della storia apocrifa, che si siano consumate penose esperienze di oppressioni e di sofferenze. Ma ciò non ha impedito l’improvviso riapparire della «presenza rivelatrice» dell’essere umano, sempre aperto alla possibilità illimitata, mai definitivamente realizzato e sempre di nuovo sospinto al suo stesso rinascere. C’è dunque la possibilità che una generazione possa ridestarsi alla storia. «E quelle che si destano – conclude Zambrano – in quella 106 che sembrava già la soglia della storia vera, si sentono chiamate, come in questo caso, a riscattare il momento storico che non è ancora completamente entrato nel passato. A farsi recipiente del suo trascendere e a vedere se stessi riflessi in questo ora, in questo specchio che restituisce loro il volto e la figura incompleta, tremante come l’alba, dell’uomo vero. Questo essere che in innocenza si risveglia nel mezzo della storia; la storia che senza di lui non sarebbe mai universale e nemmeno visibile»47. In definitiva, è ben vero che Zambrano indica nel possesso di coscienza storica la «caratteristica dell’uomo dei nostri giorni». Ma quest’affermazione è non a caso chiamata ad aprire il primo capitolo di Persona y Democracia significativamente intitolato «Perplessità di fronte alla storia»48. Nel libro, com’è noto, Zambrano mette in campo una originale prospettiva interpretativa imperniata sul convincimento che se la democrazia resta come percorso obbligato e inaggirabile della cultura europea, ciò rafforza ancor più la dimensione sacrificale della storia umana. «La cosiddetta “crisi d’Occidente” non esiste quasi più. Non c’è crisi, ma un senso di abbandono più forte che mai. Oscure divinità hanno preso il posto della luminosa chiarezza, quella che si manifestava offrendo la storia, il mondo, come il compimento, il termine

Ivi, pp. 22-23. Ivi, p. 23. 47 Ivi, pp. 23-24. 48 Cf. M. Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale (1958), tr. it. di C. Marseguerra, Milano 2000, pp. 7 e ss. 45 46

218

Giuseppe Cacciatore

della storia sacrificale. Oggi non si vede più il sacrificio: la storia si è tramutata in un luogo indifferente in cui qualsiasi avvenimento può presentarsi con la stessa validità e gli stessi diritti di un Dio assoluto che non consente la più lieve obiezione»49. In effetti l’uomo può, nei confronti della storia, assumere una posizione attiva o passiva; può esser tragicamente trascinato dal destino a subire gli eventi, oppure ridestarsi in un istante e riacquistare la pienezza della sua coscienza, della sua capacità di decisione, di pensiero, di azione, disponendosi a «creare una società umanizzata, facendo in modo che la storia non si comporti come un’antica Divinità che esige un sacrificio senza fine»50. Torna al centro così, ancora una volta, il tema della «storia vera», della storia non data o subita, di quella storia che nasce «soltanto dalla coscienza, attraverso la perplessità e la confusione». Ma la storia è anche tempo, dimensione della convivenza e possibilità della comunicazione, è continuità e conseguenza, è, secondo Zambrano, passato che non scompare, futuro che sta per arrivare. È innanzitutto, tempo della «convivenza sociale». Insomma, «tempo storico, anzi sostegno del tempo storico, perché sentiamo la storia attraverso 107 questo tempo di convivenza con la nostra società, dentro la quale siamo e ci muoviamo, e i cui cambiamenti decidono la nostra vita»51. Storia vera, dunque, ma perplessa; storia consapevole del sempre possibile esito sacrificale e del tramonto, ma costantemente pronta ad affacciarsi sull’«alba della condizione umana che si annuncia più e più volte e torna a ­riapparire dopo ogni sconfitta»52. C’è una bellissima immagine che compendia in modo straordinario l’idea zambraniana della storia: essa è come una «aurora ripetuta», proprio perché, inoltrandosi nel pieno del giorno, essa appare sempre protesa al futuro. «Se si pensa che l’uomo sia apparso già con tutta la sua umanità pienamente realizzata, la storia sarebbe inspiegabile […] La storia non avrebbe senso se non fosse la rivelazione progressiva dell’uomo. Se l’uomo non fosse un essere nascosto che deve rivelarsi a poco a poco»53.

49 Ivi, p. 2. Si ricordi che mentre il libro è per la prima volta apparso a Porto Rico nel 1958, il Prologo da cui è tratta la citazione è datato 1987. 50 Ivi, p. 9. 51 Ivi, p. 17. 52 Qui forse sta il punto essenziale di dissenso della mia interpretazione rispetto a quella di Vitiello (cit., p. XXXIV), che dinanzi al convincimento zambraniano della ineliminabilità del ciclo vita-morte e del sempre auspicabile ritorno dell’uomo sulla terra dopo ogni patimento e dopo ogni crisi, parla di «un tentativo di fuga di fronte all’ambiguità del sacro». 53 Ivi, p. 29.

Un canto di frontiera Pina De Luca

In Filosofia e poesia María Zambrano, riflettendo sulla condanna platonica 109 della poesia1, osserva come per Platone questa non sia una menzogna, ma «la menzogna» e lo è perché «solo essa ha il potere di sfuggire alla forza dell’essere»2. A causare la condanna della poesia non ne sarebbe tanto l’intrinseca debolezza – debole o inefficace è il suo approccio al vero – ma il porsi fuori e oltre l’essere e quindi fuori e oltre la verità. Addirittura la poesia giunge a burlarsi dell’essere, un atto che la rivela per quello che realmente è: non innocuo diletto, non ingenuo incantamento, ma forza oscura, attività destabilizzante, smentita di ciò che è certo e ci rassicura. Da cosa la poesia ricava una simile forza? Può la parola che mente sfidare la luminosa chiarezza del logos? «Un pensiero sciagurato – ragiona la Zambrano – può condurre all’errore, alla confusione, ad una verità in parte velata, incompleta, ma non alla menzogna. Menzogna, ciò che si intende per menzogna, è solo la poesia. Solo quest’ultima finge, afferma quel che non c’è, finge quel che non è; trasforma e distrugge»3. Alla poesia appartiene dunque qualcosa – o la poesia è qualcosa – in grado di attaccare alla radice la nascente filosofia. Qualcosa che è tanto più pericoloso quanto più rimane indeterminato, che è tanto più violento quanto più appare innocente, che è tanto più distruttivo quanto più si mostra inefficace. Qualcosa che, agendo in maniera silenziosa e pervicace, rende la poesia irreale e outopica: la poesia non parla di e da nessun luogo, il suo dire non ha conferme né rimandi, è un dire che ricade in sé e in sé rimane. Il suo non consistere lascia supporre che ad appartenerle sia unicamente una generale e generalizzata negatività, un non 1 Va osservato che, per la Zambrano, la condanna platonica della poesia è anche di questa il riconoscimento: «discutere con i poeti come fece Platone, seppure con grande crudeltà, vuol dire riconoscerli» (M. Zambrano, «Poema e sistema», in Verso un sapere dell’anima, a cura di R. Prezzo, trad: it. di E. Nobili, Cortina 1996, p. 40). 2 M. Zambrano, Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, trad. it. di L. Sessa, Pendragon, Bologna 1998, p. 44. 3 Ibidem.

220

Pina De Luca

110 che sembra valere in sé e agire nelle cose come turbamento, inquietudine, eccedenza, estraneità. Se un simile qualcosa si inscrive nelle fibre stesse della parola poetica, a dover essere indagato è allora il cuore di tenebra della parola, ossia il punto in cui questa fa segno a una «parola perduta». Una parola che «è oltre la storia e l’annienterebbe se un giorno apparisse veramente per tutti»4. Ma di quale parola si tratta? E perché questa parola è carica di tanto, terribile potere? Sono interrogativi che spingono a ripercorrere il pensiero di María Zambrano secondo un preciso itinerario la cui prima stazione è proprio Filosofia e poesia. Meditando qui sul senso e le conseguenze della condanna platonica la Zambrano osserva che «l’uomo è una creatura fortunata e la sua unica sventura consiste nel dover aspettare e nell’attesa svelarsi, svelare ciò che gli è nascosto, però tanto disponibile ad essere svelato»5. Vi è dunque un rapporto fra l’incompleto svelarsi dell’uomo, il suo desiderio di svelamento, e la poesia. Ma se così è come può l’assoluta menzogna essere anche il mezzo che consente all’uomo di ri-svegliarsi «in ciò che ci ha creato e ci sostenta»6? E potrà mai essere il poeta – colui che in assoluto mente – ad accompagnare l’uomo «verso il luogo da cui proviene»7, «verso la vita verginale, inedita che alita in ogni uomo sotto gli accadimenti»8? La Zambrano pare qui adombrare la possibilità di un legame – un difficile legame – fra il pieno, compiuto sviluppo dell’umano e la menzogna della poesia e, quasi a sostegno di ciò, ricorda che Socrate, giunto in prossimità della morte, «si fa poeta e gioca». L’estremo atto della ricerca del vero è forse il giocare dei poeti? Al morente la menzogna del poeta si rivela forse come l’impossibile verità – impossibile alla filosofia –, a cui può dare accesso solo «la bellezza poetica»9? Eppure l’uomo aveva guadagnato la sua autonomia grazie alla ragione che, sottraendolo al tenebroso potere del divino e al suo mistero, lo aveva reso libero. Era, però, proprio questa libertà che il poeta rifiutava e la rifiutava perché quella che lui tenacemente perseguiva era infinitamente più ampia, più ricca, più feconda. Per conoscere una simile libertà, per esperirla anche se solo in attimi fugaci, era necessario al poeta continuare a cedere il proprio corpo al dio, a lasciare che il dio possedesse di lui «la mente» e ne muovesse «la lingua». Perciò il poeta decise di rimanere «l’unica voce del passato, dell’ieri tragico e 111 malinconico»10. Un passato che la Zambrano definisce inferno: l’inferno è «il luogo della poesia» e il poeta, abitato dal dio, parla dell’inferno e dall’inferno.

4 M. Zambrano, Dell’Aurora, a cura di E. Laurenzi, Marietti, Torino 2000, p. 205. Afferma qui la Zambrano che si potrebbero «indicare i passi, le stazioni di questa Quête della parola perduta come Quête della abolizione della storia e della apparizione della vita vivente» (ibidem). 5 M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 44. 6 Ibidem, p. 114. 7 Ibidem, p. 101. 8 Ibidem, p. 103. 9 Ibidem, p. 34. 10 Ibidem, p. 46.

Un canto di frontiera

221

Perché allora il poeta dicendo dell’inferno mente e non è forse il dire del poeta suggerito dal dio? Può mentire il dio? Ma chi è il dio? María Zambrano, lettrice di Eraclito, lo sa: «il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame»11, ossia perfetta coniunctio oppositorum. Se sommamente contraddittoria è la natura del dio, enigmatica è la sua parola. Egli, infatti, «non dice e non nasconde, ma accenna»12, cioè allude a qualcosa che è letteralmente indicibile, a qualcosa che, per la sua stessa natura, non può tradursi in una parola chiara e luminosa13. Questo polemos, che intimamente appartiene al dio e governa ogni sua azione, è ciò che per contagio14 il dio stesso trasmette al poeta. Anche la parola del poeta sarà così contraddittoria ed ambigua, una parola non-parola che dice dis-dicendo, nomina qualcosa che non è e che pur non essendo agisce con la forza di un’indomata potenza. Ciò che rende «sacro»15 il poeta è pure ciò che sottrae il suo dire a qualsiasi certa episteme. Il dio, anziché garantire la parola del poeta ed esserne il certo e sicuro fondamento, la rende indeterminata, infida, falsa. È allora il mistero del dio che bisogna interrogare, è il suo affondare in un passato indivenuto, senza svolgimento né storia, che bisogna sondare, è verso il punto-non-punto in cui il dio stesso sembra inabissarsi e divenire oscuro a sé che bisogna provare a retrocedere. Sarà forse quello, l’inferno che la parola del poeta sfiora in un contatto inusitato? Ed è forse per tale contatto che la poesia diviene la menzogna assoluta? La Zambrano è radicalmente filosofa nel momento in cui decide di assumersi il peso di simile interrogazione e di eleggerla a proprio spazio di riflessione. Nell’attribuirsi tale compito ella si pone il compito stesso della filosofia ponendosene la domanda fondamentale: l’Inizio che non ha avuto inizio, il puro non, il prima in-divenuto, dove in-divenuto, ma compreso, è il dio stesso. Sarà questa la via che consentirà alla Zambrano di individuare la ragione per la quale la poesia fu per Platone la menzogna. Ragione che una volta compresa permette alla Zambrano di riarticolare per altra via – la propria via – il rapporto poesia-verità. Per giungere a ciò è però necessario che 112 muti la forma del suo confronto con Platone: non è più sufficiente il riflettere minuzioso e sottile nelle pieghe del pensiero di Platone che pure era stato Filosofia e poesia, ora è necessario sperimentare qualcosa di altro e di diverso. Ed è quello che la Zambrano fa, anni dopo, ne L’uomo e il divino. Ella ricono-

Eraclito, Frammento 16, ed. a cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 1993. Eraclito, Frammento 6, cit. 13 Cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975. 14 Il «divino potere» che muove il poeta è a questo trasmesso dal dio alla maniera della pietra di magnete. «Infatti questa pietra non solo attrae gli anelli di ferro, ma infonde in essi anche un potere tale, per cui possono fare la stessa cosa che fa la pietra, cioè attrarre altri anelli, sicché talvolta si forma una lunghissima serie di pezzi di ferro e di anelli pendenti l’uno dall’altro; ma in tutti il potere proviene da quella pietra» (Platone, Ione 533d, a cura di G. Cambiano, Utet, Torino 1970). 15 Cfr. Platone, Ione. 11 12

222

Pina De Luca

sce qui a Platone il merito di avere osato «costeggiare gli abissi infernali senza temere gli spazi deserti del non-essere»16, di essersi nel Parmenide addirittura spinto a lambire quei «qualcosa» di cui «“non c’è idea”»: quello che avanza dei corpi viventi, i residui della materia»17. Anche, però, nell’estremo azzardarsi del pensiero il non è18, fa osservare la Zambrano, rimane riferito all’essere, il quale ancora una volta vede confermato il proprio inattaccabile potere. Per scalfire tale potere, per pensare l’impura purezza del non – pensarla come assoluta e senza rimandi – è forse necessario sperimentare un nuovo stile filosofico. Nuovo stile filosofico sarà per la Zambrano calarsi dentro, farsi parte, intervenire, agire nel luogo da lei eletto ad oggetto di riflessione. In questo caso si tratta di entrare nel Parmenide, divenire uno dei dialoganti e come tale prendere la parola. Anche lei è così nella casa di Pitodoro con il venerando Parmenide, Zenone, il giovane Socrate e tutti gli altri. Ascolta i loro discorsi, il formularsi delle ipotesi intorno all’uno che non è. E giunti al punto in cui si dice che «in quanto si muove, l’uno che non è si altera, mentre in quanto non si muove, non si altera»19, coglie in tale affermazione il formularsi del suo stesso problema: pensare il non come alterazione e insieme conservazione. Detto ancora nei termini di Platone è pensare che «l’uno che non è, in quanto si altera, viene ad essere e cessa di essere, mentre in quanto non si altera, né viene ad essere né cessa di essere. E così l’uno che non è viene ad essere e cessa di essere e né viene ad essere né cessa di essere»20. Ciò per la Zambrano significherà, in un’estrema e quasi impossibile tensione, pensare il non in sé, pensarlo come l’ur-corpo unico ed infinto, compatto e misto. Significherà pensare l’assoluta passività come movimento-non-movimento, il vuoto come pieno e di pensarli come quella morte verso cui Socrate si avvia 113 gioiosamente21 poiché da poeta sa che morendo ancora ri-giocherà quel gioco che fu, e sempre è, del monstrum iniziale. E ancora significherà pensare tutto ciò come l’indeterminabile dell’evaporare-addensarsi e di pensarlo come contagio di silenzio-tenebra, suono-luce.

16 M. Zambrano, L’uomo e il divino, trad. it. di G. Ferraro, introduzione di V. Vitiello, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 156. 17 Ibidem, p. 157 18 Afferma la Zambrano che «il non-essere dotato di attività, non poteva, nemmeno in Platone, essere affrontato dall’intelligenza. Era rimasto nel non-essere assoluto che Parmenide separa una volta per sempre dall’Essere e che nessun pensiero relativistico – né sofista né cinico, né in qualsiasi versione storica – ha osato mostrare» (ibidem). 19 Platone, Parmenide, 163, a cura di G. Cambiano, Utet, Torino 1981. 20 Ibidem, 163b. 21 Il termine gioia è qui adoperato nel senso in cui la intende Rilke: Freude e che nel «Sonetto». I-XIII de I sonetti ad Orfeo si dà nella successione di Erfahrung, Fühlung, Freude, successione che si conclude, dopo una pausa – si direbbe dovuta ad un insostenibile affanno e graficamente resa dal trattino e la virgola – con riesig. Tale gioia è radicalmente diversa dalla felicità – Gluck – che appartiene alle forme minime del vivente, il moscerino della VIII Elegia, che mai si sono distaccate da ciò che le ha generate.

Un canto di frontiera

223

Come dire ciò? La decisione della Zambrano sarà di intervenire nel dialogo nella forma che appartenne a Platone quando ciò che era da dire sfuggiva alla parola del logos o sarebbe stato dal logos giudicato inaccettabile. La soluzione non potrà che essere il racconto mitico: solo al racconto mitico sarà possibile dire del non assoluto e privo di rimandi, dire l’Inizio in sé e come segno che segna ogni ente, dire il nascere di ogni cosa – l’inizio che inizia – e l’incompletezza di tale nascita22. L’uomo e il divino diviene tale racconto, racconto cosmogonico che narra del Sacro – la Notte del mondo è il Sacro –, lo descrive come continuum privo di «spazio vitale», di «vuoti», di «pori», come l’assoluto pieno che è ni-ente, passività pura, ma è anche «ermetico, ambiguo, attivo, incoercibile»23. Il racconto mitico non si limita alla pure descrizione dell’Inizio, ma a proposito di questo afferma qualcosa di addirittura sconveniente per il logos: al Sacro è indifferente la verità poiché l’include-esclude nell’oblio che gli è proprio. La Zambrano prosegue la narrazione del suo mito dell’Inizio soffermandosi sul momento cruciale di questo: l’Inizio che ha inizio: l’ur-corpo percorso da tremiti e vibrazioni che propagandandosi in onde lo scuotono fino a frantumarlo. Ciò che era corpo infinito si divide nell’infinità dei corpi, il ni-ente diviene enti, il non produce il c’è, il Sacro origina il dio. L’iniziare, però, non esaurisce né risolve completamente l’inizio, il prima non trapassa integralmente nel dopo né il pre-storico è assorbito per intero nello storico. Esso lascia dietro di sé un residuo di non-nato che continua, e mai smette, di chiedere nascita24. Non solo l’iniziare è atto incompleto e non definitivamente compiuto, ma ogni cosa che è – ogni cosa nata – mai si libera per 114 intero dall’inizio poiché ciascuna porta impressa in sé, come oscura matrice, il ni-ente da cui è emersa. Ciò che agisce in ogni cosa – la costituisce e ne determina la consistenza – è l’insondabile mistero dell’alterarsi-conservarsi, del divenuto-indivenuto, dell’essere-non. L’iniziare è perciò atto doppio: lamento e vagito, resistenza e creazione, sottrazione e presenza. La stessa luce che segue alla grande Notte è una luce infiltrata, una luce che non ha vinto le

22 Il tentativo che da filosofa la Zambrano porta avanti ne L’uomo e il divino apparirebbe il medesimo di quello che da poeta Machado compie nel Canzoniere apocrifo evocando il gran Cero: «E l’uovo universale alzò, svuotato, / dissostanziato, freddo, scolorato, / pieno di nebbia lieve, nella mano. / L’integro zero prendi, vuota sfera, / che guarderai, se puoi guardarlo, eretto» (A. Machado, «Il grande zero» in Poesie scelte, a cura di O. Macrì, Mondadori, Milano 2001, p. 189). 23 M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 168. 24 È possibile stabilire una relazione fra il Sacro e le entrañas, le quali sono «qualcosa di impensabile nella misura in cui il campo del pensabile è stato fatto coincidere senz’altro con il campo della visibilità, del manifestarsi, secondo la metafora iniziale del pensiero greco». Ma se «qualcosa di queste viscere non reclamasse la visibilità […], la luce, […] pensare sarebbe stato sempre discorrere». Questo significa che la luce, nella sua forma più ambita dal pensiero, la chiarezza, deve nutrirsi di qualcosa che insieme la reclama e le si oppone» ed è allora che «appaiono verità viscerali, poetiche verità» (M. Zambrano, I Beati, a cura di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1992, p. 98).

224

Pina De Luca

tenebre, ma le contiene e se ne nutre. Appartiene ad essa un chiarore che è più «un patto con le tenebre che una vittoria umiliante»25, più un rischiararle dall’interno che un definitivo sconfiggerle. Tale luce è insieme, legame e separazione dalla Notte sacra, «annuncia qualcosa che verrà e conserva qualcosa di ciò che ormai si ritira»26. Essa è «lieve», «tenue», «vacillante», «senza alcuna violenza»27 «non si impone, non si condensa in peso: è luce liquida e alata»28. Le cose che si dischiudono in questa luce non sono pesanti, ma possiedono la levità di danza del possibile: «Incorporea la chiarezza del mattino danza […] nella danza perfetta che è metamorfosi». In tale luce le figure si disegnano già trapassando in altro e, trasformandosi, «si allacciano e si ritirano, si nascondono per riapparire»29. Nella leggerezza di danza di tale movimento – memoria dell’unicum da cui procedono ed ebbrezza del nascere – le cose lentamente si distanziano. Un intervallo le separa le une dalle altre e nello spazio che si crea – lo spazio precede il tempo, avverte la Zambrano – diventano visibili le une alle altre e sanno del loro essere differenti. È questo il momento in cui la danza dell’iniziare si arresta: le cose perdono fluidità, lentamente se ne spegne il movimento e l’immobilità a poco a poco si impossessa di loro. Poi tutto si ferma e ogni cosa assume una posa definitiva: è quella, e solo quella, cosa. Una cosa certa, stabile che il dio garantisce facendone la sua dimora. Non solo il nascere del mondo è difficile e contraddittorio travaglio, ma ancor di più lo è stato l’iniziare del dio dall’Inizio che lo comprendeva ­indivenuto. La fatica del farsi ente di ogni ente ne include un’altra ben più gravosa: quella del dio che del nascere delle cose – il nascere alla propria singolarità – è condizione e tramite. Si tratta di in punto complesso, sfuggente 115 che si sottrae all’argomentazione e che la Zambrano sa di poter affrontare solo narrandolo, cioè solo correndo il rischio di non essere più filosofa per esserlo radicalmente. È stando in tale rischio che il suo racconto continua: «la forma primaria in cui la realtà si presenta all’uomo è quella di un completo nascondimento, un nascondimento radicale; in quanto la prima realtà che si nasconde all’uomo è l’uomo stesso»30. L’uomo, e con lui ogni cosa, è posto su una soglia sottilissima fra indiviso e diviso, soglia che non è punto di passaggio o di transizione, ma congiunge e separa insieme. È punto dove la vita si irradia «emanata da una fonte di mistero», dove Caos e Cosmo si danno in una insostenibile prossimità e dove il prima trattiene – un trattenere che è contagio – ciò che è cominciato. La trama vorace del Sacro resiste a lasciare che

M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 41. Ibidem. È questa la tonalità di luce che appartiene all’Aurora: «non è il preludio, bensì il centro del giorno nel mezzo della notte, il giorno-notte, la luce-tenebra» (M. Zambrano, Dell’Aurora, cit., p. 53). Nell’Aurora sempre si fa presente una «chiarezza remota – se pure è chiarezza –: rimasta remota: una specie di balbettio, una quasi ombra della luce» (ibidem, p. 105). 27 M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 39. 28 Ibidem, p. 41. 29 Ibidem. 30 Ibidem, p. 27. 25 26

Un canto di frontiera

225

l’ente – il suo consistere come altro identificabile e riconoscibile – si mostri. A mancare «non è la realtà […], ma è la visione», manca, cioè che «quella realtà irregolare si delinei in entità, che il continuo si manifesti in forme separate, identificabili»31. Se tutto già è, si tratta di un tutto ravvolto in sé, oppresso da una contiguità che non lascia discernere nulla ed è soltanto ombra minacciosa e terribile. E ombra32 è anche il primo manifestarsi del dio: attraverso l’ombrosa indeterminatezza del divino, infatti, ciò che era illatenza si fa mondo, l’immemoriale si fa tempo, l’informe assume immagine. Nel tramite incerto del dio il Sacro si concede e libera frammenti del «corpo totale». Frammenti – la pluralità dei corpi – a cui il dio, abitandoli e a sé vincolandoli, conferisce autonomia e determinatezza di figura. È a questo punto che l’uomo sa di essere entità in sé, divisa e separata dal tutto, e sapendolo apprende a godere-­ patire di quel tra che fa di ogni altro ente un altro. Attraverso il loro stesso generarsi gli dei rivelano il mondo come Cosmo e fanno sì che il suo essere visibile sia alétheia. Ciò – è un punto di fondamentale importanza – non annulla la prossimità del dio al Sacro, che continua ad essere l’oscura e mai recisa radice del dio. Per tale motivo la verità che il dio conferisce alle cose già al suo primo mostrarsi reca in sé il segno terribile del Sacro. Segno per il quale la verità della cosa – quella verità di cui il dio stesso è garante – subisce una sorta di contraccolpo che, afferrandola, la disdice e la volge contro di sé facendola sprofondare nel suo punto cieco, lì dove essa è se 116 stessa ed oblio di sé. In tal modo il dio nel momento in cui afferma la verità della cosa – l’emancipa dal ni-ente – al ni-ente l’espone, cosicché la ­certezza di esistenza che egli conferisce alle cose è anche negazione, precarietà, distruzione; e lo è perché il ni-ente mai libera definitivamente l’ente che da esso si è liberato. L’uomo sa di ciò nel pietoso33 rito del sacrificio nel quale il dio, nel rivelarsi come il dio, fa cenno a qualcosa che al solo trapelare sconvolge l’ordine del Ibidem, p. 25. «In principio – scrive la Zambrano – era il delirio; ciò vuol dire che l’uomo si sentiva guardato senza vedere. Poiché è tale l’inizio del delirio persecutorio: la presenza inesorabile di un’istanza superiore alla nostra vita che nasconde la realtà e non si offre alla vista. Significa sentirsi osservati non potendo vedere colui che guarda. E così, invece di essere fonte di luce, questo sguardo è ombra. Ma, come tutti i deliri umani, e forse in questo che è il primo, più che in altri, è presente la speranza. La speranza è imprigionata nel terrore; l’angoscia di sentirsi osservati implica il desiderio di esserlo e tutta la speranza che si desta, che accorre davanti a questa presenza che si manifesta occultandosi» Ibidem, p. 27). 33 Pietà per la Zambrano, è sentire l’eterogeneità dell’altro, esperirla, conservandone il segno. In tal senso la pietà è l’originaria forma di rapporto degli enti fra loro e soprattutto lo è del dio e dell’uomo. Mediante il sacrificio, scrive la Zambrano, «l’uomo entra a far parte della natura, dell’ordine dell’universo e si riconcilia o si guadagna il favore degli dei» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 35). La prima richiesta dell’uomo è, quindi, quella di potersi riconoscere parte fra le parti, perciò il sacrificio è azione volta a suscitare la manifestazione di presenze. Prima di ogni altra quella del dio: «Il sacrificio è l’atto o la serie di atti in cui il divino si fa presenza; è la chiamata, potremo dire la costrizione, esercitata su quella realtà nascosta affinché appaia» (ibidem, p. 36). Solo, infatti, nel riconoscimento di tale presenza, solo sapendo 31 32

226

Pina De Luca

mondo per suo tramite appena conquistato. Ad essere svelato dal sacrificio è questo: che il dio nel dare immagine alle cose in queste subisce una contrazione della propria natura. Contrazione che il sacrificio scioglie facendo esplodere – è istante – nella forma divenuta delle cose l’interezza del dio, ossia la sua nascita, la sua origine sacra. Nel vuoto del tempo che così si determina – il sacrificio sospende il tempo – il ni-ente dilaga disordinando l’ancora fragile trama del Cosmo e mostra di questo la mai rimossa impurità. Mostra che ogni cosa che è può esserlo solo in quanto indeterminatezza di visibile ed invisibile, di tempo e intemporalità, di verità e non-verità, di armonia e violenza. Il sacrificio non è esclusiva rivelazione della tremenda potenza del dio, ma anche richiesta dell’uomo di entrarvi in rapporto. L’uomo aspira a questo contatto non perché voglia piegare e vincere la potenza del dio, piuttosto perché di tale potenza ambisce ad esperire l’irriducibile alterità. Egli tenta così di attivare forme di materiale comunicazione con il dio e il gesto che gli apparirà più efficace sarà quello di porgergli parti di sé facendo del suo donarsi il modo di partecipare – è l’altro senso della pietà – della potenza del dio. Il dio non accoglie soltanto il donarsi dell’uomo, ma a sua volta offre all’uomo qualcosa che gli appartiene. Spiega la Zambrano che il sacrificio «è un patto, come ogni rito. Patto in cui si offre qualche cosa in cambio di altro»34, in cui ci si 117 alimenta e, al tempo stesso, si è alimentati. Intrattenere con il dio un rapporto di scambio fa dell’uomo l’eletto ed eletto in quanto partecipe nell’ispirazione35 della doppia natura del dio, del suo essere insieme sacro e divino. Ispirato dal dio, l’eletto vive in sé la vita del dio. Il segno del divino, incidendosi in lui, di lui diviene imponderabile ampiezza, dilatazione, vertigine, oltranza. Ad essere ora posseduto dall’eletto è un «sapere smisurato per l’essere umano»36, un sapere che è «angoscia dell’altro», «angoscia della discontinuità, angoscia dei molteplici istanti separati da abissi, di vuoto e di silenzio»37. Si tratta di «qualcosa che arriva da altro luogo» e quando arriva è «inaspettata memoria» chi è il dio e quale ne sia l’agire, l’uomo può sapere di sé e di ogni cosa, sapendo lo spazio che a ciascuno è più proprio: «Il fatto che l’uomo esista, che possa manifestarsi come tale e rivelarsi a se stesso, ottenendo una certa libertà e uno spazio per svilupparsi, è dipeso inizialmente da questa apparizione degli dei. Senza la manifestazione del divino, in qualsiasi forma sia attuata, l’uomo non avrebbe potuto ottenere, per quanto strano possa sembrare, questa sua evidente anche se precaria esistenza» (ibidem, pp. 36/37). 34 Ibidem, p. 195. 35 L’ispirazione, scrive la Zambrano, è «uno scambio in cui l’uomo riceve qualcosa di superiore, che forse non gli appartiene, un dono che accresce il mistero della sua provenienza, perché è come un indizio di tutto un territorio che deve esistere e dal quale appare isolatamente. Il sapere ha il carattere di un dono, di peso a volte per l’eletto, è quasi uno stigma, un segno». Se l’ispirazione è dono, essa «richiede una scrupolosa moderazione, un saper trattare con essa, come succede con tutto quello che stando in noi non ci appartiene» ed è «sentito come distinto da chi lo possiede […]. Un ospite che bisogna saper accogliere» (Ibidem, p. 192) ed averne infinita cura. 36 Ibidem. 37 Ibidem, p. 193.

Un canto di frontiera

227

di ciò che mai si era saputo o ricordato, cioè memoria del prima, dell’Inizio non ancora iniziato, del non. Partecipando dell’interezza del dio l’eletto sa – assumendone le conseguenze – che al dio appartiene parimenti il conservarsi e alterarsi essendo lui inizio e l’iniziato. Per tale motivo egli opera secondo la propria origine e secondo il mondo, è segno del prima e occultamento di questo nel perfetto assumere forma di ogni cosa. Quindi il dio per la sua appartenenza al Sacro è gorgo e vertigine, erosione di ogni fondo, passività che in sé sprofondando conduce all’insondabile pace di una provenienza che non proviene e tutto accoglie avendo già da sempre tutto compreso. Come pure il dio è colui che dà immagine alle cose38, che consente al il ni-ente di trapassare negli enti e al Caos di dipanarsi perché vi sia mondo per l’uomo. Difficile consapevolezza è perciò quella dell’eletto, difficile è sapere che il mondo per opera del dio ha esistenza – ha verità – e dal dio stesso è esposto al prima per essere da questo continuamente dis-detto e smentito in ogni  sua certezza. Eppure – lo suggerisce da poeta Machado – «La logica divina / che immagina / però immagini mai finge»39, non è vi è quindi inganno nell’agire del dio, né l’immagine è in sé ingannevole o ha bisogno di rimanda­re 118 a qualcosa che ne sia fondamento e garanzia. Il problema è un altro: benché il dio sempre agisca nella sua contraddittoria interezza, tale interezza rischia di essere occultata dall’immagine stessa quando, volendo affermarsi come certa e definitiva, ripudia la doppiezza del dio e testimonia solo parzialmente dell’attività di questo. Il dio è così inteso agire esclusivamente come colui che salva il mondo dall’inizio e non pure come colui che all’Inizio l’espone, esponendolo al possibile del Sacro40. È necessario allora che nell’immagine sia rammentata e tutelata la doppiezza del dio perché essa abbia verità. Questa dovrà necessariamente essere una verità impura, opaca, continuamente

38 Il dio si fa mediatore «tra la natura e la storia; tra lo stato originario dell’uomo atterrito e la solitudine in cui sorge la libertà. L’uomo non avrebbe potuto intraprendere quel lungo cammino per scoprire le cose […], senza la mediazione di questi dei, pure forme in cui la natura si è fatta trasparente e ha accettato di mostrarsi nell’unica forma di cui l’uomo ha bisogno in questo primo stadio: in forma di immagine». È infatti in quest’ultima che la realtà – ambigua, nascosta, inesauribile – diventa presente» (Ibidem, p. 53). 39 A. Machado, «Al grande Pieno o Coscienza integrale», in Canzoniere apocrifo, cit., p. 191. 40 «Caos e Notte – afferma Vitiello nell’Introduzione a L’uomo e il divino – hanno in sé gli opposti: angoscia e speranza. Caos e notte sono la contraddizione pura, la contraddizione «prima» della non contraddizione. Sono la possibilità pura» (V. Vitiello, «Per una introduzione al pensiero di María Zambrano: il Sacro e la storia», p. XVI, in L’uomo e il divino, cit.). La possibilità pura è intesa da Vitiello come la possibilità «che non necessita di essere tale: possibile», che è «essa medesima, coinvolta nella sua stessa opposizione», che è «su se medesima ri-flessa». È questa «la possibilità indeterminata, possibile anche in rapporto a sé, la possibilità che non si fa ricondurre sotto il giogo del perché, della ragione, della causa, del principio. È la possibilità che si rivela a quel pensare che è capace di conservare il thauma, la meraviglia dell’accadere dell’ente, e con la meraviglia il timore: l’accadere senza perché, infatti, non è da nulla assicurato» (V. Vitiello, «Heidegger, Nietzsche e la possibilità pura», in Il Pensiero, IXL, 2000/I, p. 31 e p. 44).

228

Pina De Luca

contraddetta41 dal liberarsi di frammenti del mai nato42 del Sacro e sempre esposta al rischio dell’oblio43. Ciò significa che il mondo ha verità esattamente non possedendone, poiché nell’iniziato continua ad operare il non dell’inizio44. Quello dell’eletto non potrà allora che essere un vedere doppio: egli vedrà il mondo e vedrà l’inferno, vedrà l’ente e vedrà il ni-ente. E non vedrà o l’uno o l’altro, ma sempre l’uno e l’altro insieme. Poetica sarà la parola che muove dal vedere doppio, che nomina dubitando, che afferma smentendo. Nel far proprio un simile dire l’eletto diviene poeta: colui che ispirato dal dio per dono pietoso dice il vero negando verità a ciò che dice. Creare sarà per lui sottrarre le cose al loro essere certe e sicure facendo irrompervi l’interezza del dio come il mai stato che accadendo – l’o119 pera è questo accadere – nella cosa ne è movimento inafferrabile e imprevedibile. Solo la cosa creata può quindi dirsi vera e vera lo è includendo ciò che nell’operare del dio si cela ai mortali. Tutto ciò non significa affatto per il poeta abbandonarsi all’elemento caotico o lasciarsi andare all’euforia della Notte sacra perché questa anela alla «creazione», chiede una «vera attività di trasformazione». Il Sacro «vuole essere salvato; vuole scoprire il contrario, cioè mutare o mutarsi», esso desidera la «metamorfosi» e la «trasfigurazione» e la sua aspirazione è l’«ascesa nella scala delle forme»45. Un’ascesa che non si realizza redimendo e sanando il Sacro nell’essere, piuttosto – perfetta congiunzione di poiesis divina e poiesis poetica – dando creazione al Sacro nell’opera e come opera. Il poeta dovrà perciò divenire anch’egli – non come ma con il dio – strumento di nascita e fare dell’opera lo spazio del continuo nascere del ni-ente, lo spazio in cui il ni-ente nasce negli enti che sono come il loro possibile, come l’ombra tenace che, penetrandoli, li rende irriducibili, estranei a ogni pretesa di dominio dell’uomo. In questo modo il fare del poeta assume un tratto paradossale: de-creazione e con-creazione. Se il dio, donando al poeta l’ispirazione, gli ha donato il patimento46 della propria interezza, tale interezza il poeta dovrà te-

41 Dicono ancora i versi di Machado: «Amore ha rosa e ortica,/ e gli nascon dallo stesso chicco/ il rosolaccio e la spiga» («Al grande Pieno o Coscienza integrale», in Canzoniere apocrifo, cit., p. 191). 42 Rimando qui al mio «Giustizia caritativa e pietà. Su María Zambrano» in Filosofia dell’arte, n. 2, 2002. In particolare le pp. 69-70. 43 Come è dimostrato da M. Cacciari in Dell’Inizio la verità di Mnemosyne non consiste «nel liberarci da oblio, ma nel disvelare proprio l’Immemoriale in quanto Immemoriale, nel farci ‘vedere’ (o sapere) Oblio» (M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 253). 44 Va ancora ricordato quanto è affermato da M. Cacciari: «È perché l’apeiron è ni-ente che gli enti possono sussistere, apparire, giocare. […]. Nulla assolutamente ek-sisterebbe se ‘esistesse’ il ni-ente dell’Inizio. Ma tutto ek-siste proprio ‘da’ tale ni-ente, perché il ni-ente dell’Inizio è» (ibidem, p. 290). 45 M. Zambrano, L’uomo e il divino, cit., p. 256. 46 Il patire è il sentire proprio della pietà. Esso, come è stato osservato da C. Zamboni, esclude ogni protagonismo dell’io e, a differenza della passione, «sente la singolarità dell’altro e con esso spartisce sentimenti che non sono più solo personali» (C. Zamboni, «Sentimenti assoluti e pensiero aperto all’infinito. In dialogo con María Zambrano» in Trame, n. 5, 2003, p. 52).

Un canto di frontiera

229

stimoniarla nelle immagini che crea. Il suo fare sarà allora disfare le immagini volute dal dio perché vi sia attivo quello che la poiesis divina edificando occulta: il ni-ente, l’oblio come provenienza che sempre chiede nascita, sempre chiede forma e che ogni forma sempre consuma per poi ancora ricostruirla. È a questo punto che la danza aurorale dell’iniziare riprende: le cose ritrovano nell’opera leggerezza, si fanno fluide, sperimentano inedite movenze, sono «specchio che trema, chiarezza palpitante che appena lascia comporsi qualcosa che insieme si scompone. E tutto allude, tutto è allusione e tutto è obliquo»47. La verità intesa come aletheia è così disdetta dalla parola poetica perché disdetta dal «soffio»48 della «patria che chiama»49. Una patria che non 120 è solidità del fondamento, ma ni-ente, «deserto del pensiero»50, indifferenza, oblio. Il suo chiamare non è esortazione al ritorno, bensì infinita richiesta di nascita e quando ciò accade – accade nell’opera e come opera – è nascita che produce nelle cose turbamento, contraddizione, estraneità. La parola che se ne fa evento sembra allora «menzogna e non suole essere creduta, mentre la menzogna e l’inganno sono avidamente elevati a cosa certa»51. Non appartiene dunque ai poeti una verità altra, né il loro dire è privo di verità, piuttosto è proprio di essi un operare che agendo dentro le cose le inquieta fino a volgerle contro loro stesse. Ciò che della cosa era vero è destabilizzato, inquinato, sovvertito dalla parola poetica che così operando giunge a nominare la cosa nella verità – e sarà quella dei poeti: una verità polemica, antagonista, senza tregua, sempre con sé in lotta. Una verità che sempre nasce e sempre è compromessa, – è «nascente e ri-nascente»52 – dal «silenzio», dall’«oblio», dalla «morte»53 che il poeta vi lascia fluire. Il canto del poeta, per essere canto, non potrà essere allora che «canto di frontiera» e la frontiera che precariamente lui abita non separa e distingue, ma congiunge e lega fino all’ibridazione del non è e dell’è. Questa però è una menzogna per il logos, anzi è la menzogna. 47 M. Zambrano, Chiari di bosco, trad. it. di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1991, p. 13. La Zambrano si riferisce qui a ciò che ella chiama claros de bosque: «un centro nel quale non sempre è possibile entrare. […] Un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà» (ibidem, p. 11). Per accedervi è necessario un metodo che può dirsi poetico «se per poetico si intendesse ciò che poetico, poema o poetare vogliono dire alla lettera, un metodo cioè più che della coscienza della creatura, dell’essere della creatura che si avventura a svegliarsi abbagliata e indirizzata a un tempo» (ibidem, p. 17). 48 Ancora in Chiari di bosco la Zambrano afferma: «Nel respirare la prima cosa non può non essere l’inspirazione, soffio che poi si trasmette in un sospiro, in quanto in ogni espirazione qualcosa di quel primo fiato ricevuto rimane ad alimentare il fuoco sottile da esso acceso». Al poeta «toccherà sforzarsi per respirare oppresso dall’eccessiva densità di ciò che lo circonda, quella del proprio sentire, quella del suo proprio pensiero» (ibidem, pp. 27/28). 49 M. Zambrano, «Sogno e verità», in Il sogno creatore, trad. it. di V. Martinetto, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 45. 50 Ibidem, p. 44. 51 Ibidem. 52 M. Zambrano, «La ‘Guida’ forma del pensiero» in Verso un sapere dell’anima, a cura di R. Prezzo, Cortina Milano 1996, p. 66. 53 A. Machado, «Al grande Pieno o Coscienza integrale», in Canzoniere apocrifo, cit., p. 191.

LETTURE

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana Federico Italiano A Marco Mastronunzio

1. L’ellissoide celaniano Il globo terracqueo è una quasi-sfera, imperfetta, schiacciata ai poli e ru- 121 gosa. Utilizzando un sistema ortogonale cartesiano a tre coordinate potremmo individuare un qualsiasi punto di questa sfera, se non fosse per le catene montuose, gli abissi marini e gli altri infiniti dislivelli fisiognomici del nostro astro, che renderebbero inevitabilmente impossibili e corrotti i nostri calcoli. Per ovviare tale ostacolo, geografi cartografi si avvalgono di un ellissoide, un’approssimazione matematica delle dimensioni e della morfologia terrestri. Ora, vi chiederete, cosa c’entra tutto questo con Paul Celan? Beh, da un lato, è stato lui il primo ad introdurre nel discorso sulle poetiche un concetto cartografico con conseguenze critico-estetiche non ancora esaurientemente mappate; dall’altro, è mia intenzione partire con una premessa semplice ma suggestiva, ossia, l’evidente sbilanciamento verso est del cosmo geo-poetico celaniano. Se provassimo a costruire l’ellissoide del nostro poeta, avvalendoci invece che di numeri primi e logaritmi, di un sistema di coordinate ricavabili dalla sua opera, ci troveremmo di fronte non più ad una quasi-sfera, ma ad un ovoide, un ellissoide simile ad un uovo coricato longitudinalmente, con una sproporzionata dilatazione orientale. Anche spostando il centro dalla sede di Parigi ad una qualsiasi città tedesca (poniamo Tübingen, in considerazione della paternità hölderliniana) o a Czernowitz nella Bucovina, sua città natale, il risultato non cambierebbe molto: il nostro uovo geodetico rimarrebbe comunque dilatato verso oriente. Nell’ellissoide celaniano, lo schiacciamento più netto è rilevabile tra nord e sud: la distanza tra i due poli, difatti, è relativamente ridotta, dal bacino del Mediterraneo, percorrendo l’asse Estremadura-Assisi-Gerusalemme (già un sud-est), si sale infatti solo fino a Copenhagen, con Frihed. Più ricco e complesso è invece l’Occidente, che per Celan, del resto, significa quasi esclusi- 122 vamente Bretagna – la regione francese, insieme alla Normandia, più cara

232

Federico Italiano

al poeta, luogo di ristoro e condivisione famigliare. Un dato curioso, che mi limito a citare en passant, è il palese disinteresse del Nostro per il continente americano, o meglio, per Atlantide tutta. 2. Il coefficiente Asterix Prima di dedicarci a Sibirisch, può essere utile fermarsi un poco in Bretagna, nell’ovest della geo-poetica di Celan. Questa regione non fu solo il luogo prediletto di soggiorni estivi o lo sfondo dei pochi e brevi idilli famigliari, la Bretagna rappresentò per Celan una sorta di country of the mind, un paese della mente – come direbbe Seamus Heaney. Grazie a testi quali Spiaggia bretone, Le Menhir, Matière de Bretagne, ci è data facoltà di comprendere un segreto sodalizio, un dialogo sussurrato tra il protagonista di una nuova, criptata ecloga e il suo paesaggio. Celan riconosce nei boschi, nel muschio, nell’edera e nelle pietre di quel lembo di terra francese, così isolantesi e prolungantesi nel mare, un luogo congeniale, un degno sostituto della Heimat. Questo segreto sodalizio, tuttavia, va oltre la comprensione eco-sistemica, e ben oltre il semplice idillio teocriteo – per quanto piagato dallo sguardo solforico del Nostro. Ad unire luogo e mente è soprattutto la dimensione umana, la peculiarità storica ed etnico-culturale della Bretagna: sì, è proprio il «coefficiente Asterix», l’eredità celtica, ad affascinare Celan. I celti, tuttavia, non sono per il Nostro gli organizzati e raffinati indoeuropei della Hallstatt-Kultur, né i Galati di San Paolo, né i biancobarbuti druidi cari all’esoterismo occidentale e nemmeno i valorosi condottieri della terza declinazione latina (Vercingetorix, rigis), che si slanciavano dai banchi del ginnasio coi vestiti sgargianti e i capelli orgogliosamente lavati con calcare; i celti sono, nell’idiosincratica sensibilità etnica e storico-culturale di Celan, il popolo marginalizzato, perseguitato e ridotto ai minimi termini dall’Impero Romano e la Bretagna è la costa compressa del loro rifugio, la terra di una postuma e parcellizzata salvezza. Inutile dire dove Celan voglia andare a parare: nel testo Le Menhir, appartenente alla raccolta Die Niemandsrose, la sovrapposizione dell’elemento celtico e quello ebraico è la cifra stessa del testo. Wachsendes Steingrau.

123

Graugestalt, augenloser du, Steinblick, mit dem uns die Erde hervortrat, menschlich, auf Dunkel-, auf Weißheidewegen, abends, vor dir, Himmelsschlucht.

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

233

Verkebstes, hierhergekarrt, sank über den Herzrücken weg. Meermühle mahlte. Hellflüglig hingst du, früh, zwischen Ginster und Stein, kleine Phaläne. Schwarz, phylakterienfarben, so wart ihr, ihr mitbetenden Schoten1.

Il termine bretone Menhir (composto da men: pietra e hir: lunga) viene oggi utilizzato per indicare pietre granitiche che i ghiacciai, nel loro ritirarsi, hanno depositato lontano dalla loro sede originale, un fenomeno naturale comunemente definito «blocco erratico». Quest’accezione più tecnica ha fornito a Celan la duplicità semantica necessaria del termine (geologica da un lato ed etnico-culturale dall’altro) per creare una perfetta analogia tra il valore simbolico del menhir e la figura dell’ebreo errante, del wanderer Jude, dello ewiger Jude. Il mutuo appoggio dei simboli e il loro reciproco fecondarsi – così evidenti in questo componimento che si chiude con insolita e perentoria chiarezza con la sineddoche del filatterio – sono funzioni decisive nel modus operandi di Celan. In questo particolare caso, tuttavia, la combinazione degli ingredienti è quanto mai indicativa, giacché il menhir, l’immagine-fonte del testo o correlativo oggettivo, per utilizzare una categoria eliotiana, bagna e nutre due radici costanti della sua poetica: identità ebraica e metafora geologica. Non meno significativa è la rievocazione celtica nel testo In Gestalt eines Ebers, dalla raccolta Vom Schwelle zu Schwelle, in cui il sogno del poeta, e forse il poetare stesso, è un cinghiale scalpitante in un bosco oscuro, ai confini del solido, del percorribile: «all’orlo della sera». Il termine tedesco per occidente, Abendland (letteralmente: terra della sera), dotato di un innegabile sex-appeal linguistico, porta inscritta, molto più chiara del corrispettivo voca- 124 bolo romanzo, la sua etimologia, la primigenia, adamitica nominazione: luogo del tramonto, del buio, della fine. I confini della geo-poetica occidentale di Celan hanno dunque un nome proprio: Bretagna.

1 «Escrescente / grigio di pietra. // Grigia figura, priva / d’occhi, tu, sguardo di sasso, con cui / ci apparve la terra, umana, / per vie di oscura e di bianca landa, / la sera, in cospetto / di te, abisso del cielo. // Un essere ripudiato, scarrettato qui, / rovinò sopra il dorso del cuore. / Il mulino ad acqua di mare macinava. // Presto, tu pendesti, con le tue chiare ali, / tra ginestra e sasso, / piccola falena. // Nere, color dei filatteri, / così eravate voi, silique, / oranti assieme». Trad. it. Giuseppe Bevilacqua, in: Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998, pp. 446-447.

234

Federico Italiano

In Gestalt eines Ebers stampft dein Traum durch die Wälder am Rande des Abends. Blitzendweiß wie das Eis, aus dem er hervorbrach, sind seine Hauer. Eine bittere Nuß wühlt er hervor unterm Laub, das sein Schatten den Bäumen entriß, eine Nuß, schwarz wie das Herz, das dein Fuß vor sich herstieß, als du selber hier schrittst. Er spießt sie auf und erfüllt das Gehölz mit grunzendem Schicksal, dann treibts ihn hinunter zur Küste, dorthin, wo das Meer seiner Feste finsterstes gibt auf den Klippen: vielleicht daß eine Frucht wie die seine das feiernde Auge entzückt, das solche Steine geweint hat2.

Il cinghiale era un animale sacro per i celti. La sua aggressività e la sua fierezza ne facevano sia il simbolo del potere temporale che del potere religioso, era insomma il trait d’union iconografico tra guerrieri e druidi. Più che le fonti classiche del mito della caccia al cinghiale (il cinghiale di Erimanto o quello di Calidone), è la tradizione letteraria celtica, per come fu attraversata da W. B. Yeats – a sua volta appassionato lettore di The Golden Bough, di Sir James Frazer – ad informare e determinare la sensibilità di Celan3. Nella 2 «In figura di selvatico porco il tuo sogno / batte scalpitante i boschi all’orlo della sera. / Lampi bianchi, / come il ghiaccio donde egli uscì, / sono le sue zanne. // Egli scava furioso una noce amara / da sotto il fogliame / che agli alberi sottrae la sua ombra, / una noce / nera come il cuore che il tuo piede scacciò dinanzi a sé, / quando passavi tu stesso di qui. // Egli la infilza / ed empie la boscaglia di destino grugnante, / e si spinge di giù poi / alla costa, / là dove il mare / dà sugli scogli la più buia / delle sue feste: // chissà / che un frutto come il suo / non incanti l’occhio festante / che ha pianto queste pietre». Trad. it. Giuseppe Bevilacqua, in: op. cit., p. 162-163. 3 Celan raccontò a Pöggeler della sua durevole stima nei confronti di W. B. Yeats, sin dai tempi di Czernowitz e della sua attenta lettura del testo The Valley of the Black Pig, in cui il poeta irlandese rielabora il mito celtico del cinghiale che uccise Diarmuid. Otto Pöggeler, Der Stein hinterm Aug. Studien zu Celan Gedichte, München, 2000, p. 43. Qui di seguito, la nota che redasse lo stesso Yeats per The Valley of the Black Pig: «All over Ireland there are prophecies of the coming rout of the enemies of Ireland, in a certain Valley of the Black Pig,

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

235

prospettiva culturale e religiosa celtico-gaelica, l’apparizione del cinghiale nel 125 folto di un bosco, nella penombra, era sempre indice di una soglia, dell’aprirsi di un passaggio, tra il visibile e l’invisibile, tra il terrestre e l’ultraterreno. There is a strong hint in the vernacular literature of a close correlation between hunter/hunted and the divine world. Hunted animals were sometimes perceived as messengers of the Otherworld powers, the means of bringing linving humans, either directly or indirectly, to the underworld. The hunted creature itself may be enchanted or possess magical qualities: it may be a transformed human or a god in zoomorphic form4.

Il cinghiale è dunque una guida, una sorta di medium, principio del transito. Come l’arco in Sibirisch, che vedremo tra poco, il cinghiale, maschio e agguerrito, la cui cattura o uccisione rappresentava la prova ultimativa, è l’anello che congiunge i due emisferi dell’essere – e il suo è sempre un destino di morte. 3. Sibirisch Siberiana è il testo celaniano che ci spinge verso il confine opposto, proiettandosi verso il Pacifico, verso Vladivostok, verso il principio dell’Est. Come per i testi «bretoni», anche in Siberiana il motivo etnico e storico-culturale alla fonte, la curiosità da vecchio enciclopedista e il gusto per il lontano di Celan sono mossi da un motore squisitamente esistenziale: la sim-patia verso gli oppressi e il desiderio di essere voce delle minoranze, testimone della loro 126 espiazione culturale e della sottrazione d’identità, esercitata dal più forte sul più debole5.

and these prophecies are, no doubt, now, as they were in the Fenian days, a political force. I have heard of one man who would not give any money to the Land League, because the Battle could not be until the close of the century; but, as a rule, periods of trouble bring prophecies of its near coming. A few years before my time, an old man who lived at Lissadell, in Sligo, used to fall down in a fit and rave out descriptions of the Battle; and a man in Sligo has told me that it will be so great a battle that the horses shall go up to their fetlocks in blood, and that their girths, when it is over, will rot from their bellies for lack of a hand to unbuckle them. If one reads Rhys’ Celtic Heathendom by the light of Frazer’s Golden Bough, and puts together what one finds there about the boar that killed Diarmuid, and other old Celtic boars and sows, one sees that the battle is mythological, and that the Pig it is named from must be a type of cold and winter doing battle with the summer, or of death battling with life». Cito dal web-site della Norton Anthology: http://www.wwnorton.com/nto/20century/topic_3/wbyeats.htm. Vedi anche The Variorum Edition of the Poems of W. B. Yeats, edited by P. Alt and R. K. Alspach. New York, 1966. 4 Cfr. Miranda J. Aldhouse-Green, Animals in celtic life and myth, London, 1992, p. 164. 5 Accanto ai celti (per i motivi che abbiamo visto) e alle popolazioni siberiane, umiliate nella loro identità dal regime sovietico, andrebbero citati pure gli etruschi, cui Celan dimostrò non poco interesse. Cfr. Otto Pöggeler, Zwei Tage in Rom, in: «Celan-Jahrbuch», IV (1991).

236

Federico Italiano

Bogengebete – du sprachst sie nicht mit, es waren, du denkst es, die deinen. Der Rabenschwan hing vorm frühen Gestirn: mit zerfressenem Lidspalt stand sein Gesicht – auch unter diesem Schatten. Kleine, im Eiswind liegengebliebene Schelle mit deinem weißen Kiesel im Mund: Auch mir steht der tausendjahrfarbene Stein in der Kehle, der Herzstein, auch ich setze Grünspan an an der Lippe. Über die Schuttflur hier, durch das Seggenmeer heute führt sie, unsre Bronze-Straße. Da lieg ich und rede zu dir mit abgehäutetem Finger6. Preghiere-arco – tu non t’unisti a recitarle. Erano lo pensi, le tue. Il cigno-corvo pendeva dall’astro mattutino: con la fessura palpebrale erosa stava un volto – anch’esso sotto quell’ombra.

127

Un piccolo sonaglio nel gelido vento abbandonato 6

Paul Celan, Die Niemandsrose, Frankfurt, 1963.

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

237

col tuo ciottolo di selce bianca in bocca: Anche a me sta in gola la pietra dal millenario colore, la pietra-cuore, anch’io applico verderame sul labbro. Qui, oltre il macereto attraverso il mare di càrice conduce oggi la nostra Via del Bronzo. Là giaccio e ti parlo con dito scuoiato7.

Nel 1961, il poeta visita il Musée Cernuschi a Parigi, in occasione, pare, di una mostra monografica sui popoli siberiani. Il museo, presso il Parc de Monceau, dà viso alla collezione privata del banchiere Henri Cernuschi (18201896), per gran parte costituita da oggetti d’arte, testimonianze e reperti di provenienza asiatica. Direttore ne fu dal 1932 al 1952 il famoso orientalista francese René Grousset, del cui volume, La face de l’Asie (Paris, 1952), Celan era in possesso8. Ma è il libro dell’etnologa Eveline Lot-Falck, Le rite de chasse chez le peuples sibériens (Paris, 1953)9 a rappresentare per noi una chiave di lettura fondamentale. Pure quella pubblicazione alberga nell’archivio celaniano di Marbach e, come tutti gli acquisti cari al poeta, reca segni di lettura inconfondibili. Ma rallentiamo un poco, rimaniamo sul testo. Preghiere-arco – tu non t’unisti a recitarle. Erano lo pensi, le tue.

7 Questa mia traduzione da Sibirisch, finora inedita, è stata letta pubblicamente a Pistoia il 27 maggio 2006, in occasione del convegno: L’incontestabile testimonianza. Per uno scorcio sull’eredità culturale di Paul Celan in Italia. 8 L’escursione museale di Celan fu occasione di una prima versione di Sibirisch, dal titolo perfettamente deittico Musée Cernuschi (22 maggio 1961) in: P. Celan, Werke. Tübinger Ausgabe. Hrsg. von Jürgen Wertheimer. P. Celan, Die Niemandsrose. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Bearbeitet von Heino Schmull unter Mitarbeit von Michael Schwarzkopf, Frankfurt, 1996. Per uno studio degli abbozzi e degli stadi preliminari di Sibirisch, rimando al bel saggio di Hans-Michael Speier, Beredt wie ein ein-samer Tierzahn im Eiswind, in: Bogengebete – In der Luft. Kommentare zu zwei Gedichten aus Celans Die Niemandsrose, Christoph Parry, Hans-Michael Speier, Marco Pajević, Vaasa/Germersheim 2001, pp. 17-35. 9 Tra. it. Eveline Lot-Falck, I riti di caccia dei siberiani, Milano, 1961.

128

238

Federico Italiano

La poesia si apre con un composto sostantivale di enorme ricchezza: «Bogengebete», ossia, «Preghiere-arco». Il Bevilacqua traduce «Preghiere sull’arco»10, il che non è errato, ma non restituisce la libertà di movimento semantica dell’originale, bloccando, con una preposizione, il significato sul verosimile. Cerco di spiegarmi. «Bogengebete» è un neologismo, o meglio, un composto made by Celan, che per la grammatica cumulativa tedesca può venir considerato quasi-ortodosso, di buona fattura e relativamente comprensibile. Il bello di questi composti è che riescono ad evitare le geometrie normative del caso: possono racchiudere tanto un genitivo, quanto un dativo o un accusativo retti dalle loro esclusive preposizioni. Bevilacqua, in poche parole, traduce come se tra Bogen e Gebete vi fosse un über + dativo, ossia Gebete über dem Bogen: ripeto, traduzione legittima, italianizzante, ma limitativa, specialmente se escogitata per un passo così informante e decisivo. «Preghiere-arco» è il nucleo generativo di tutto il testo: collisione tra l’elemento etnico, storico-culturale che ha titillato l’intelligenza del poeta e l’esplicazione del destino prosodico della composizione. Cominciamo col primo dei due collisori. Celan venne a sapere in qualche modo che l’arco, per alcune etnie siberiane e in particolare presso gli Jakuti, veniva usato dallo sciamano come strumento di preghiera. Forse ne aveva sentito parlare alla mostra presso il Parc de Monceau, oppure aveva semplicemente intravisto notizie, ad esso relative, in qualche didascalia dell’oggettistica esposta. Sta di fatto che quel dato etnografico lo aveva assorbito, tanto da divenire, già nell’abbozzo di Sibirisch, un hapax legomenon11. Piena conoscenza del fatto gli è perlomeno ascrivibile a partire dalla ricezione del succitato saggio della Lot-Falck sui riti venatori delle popolazioni siberiane, dove, a pagina 98, spicca tale affermazione, interessantissima per l’antropologo e filologicamente sconvolgente per un geo-poetologo: Entre le mains du chaman, l’arc devient une arme dirigée contre ses adversaires spirituels. Son rôle est donc sensiblement le même que celui du tambour, dont la destination primitive était de mettre en fuite les esprits hostiles et, chez les Altaïens du moins, l’arc a dû précéder le tambour. Un chaman altaïen parvenu à un certain degré de puissance reçoit le titre d’«uktu kam», «chaman qui possède la flèche»12.

129

Nella copia del volume in possesso di Celan, quel passo è segnato a margine con una croce (x). In fondo alla pagina, poi, vi è una nota del poeta: «Bestätigung des vor zwei Stunden geschriebenen Gedichts ‘Bogengebete’», ossia, «Conferma della poesia scritta due ore fa, ‘Preghiere-arco’». Capita ra-

10

443.

11 12

Siberiana, traduzione di Giuseppe Bevilacqua, in: Celan, Poesie, Milano, 1998, pp. 442Versione del 29 maggio 1961, titolo: Sibirisch. Cfr. H.-M. Speier, op. cit., p. 26. Eveline Lot-Falck, op. cit., p. 98.

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

239

ramente di trovare formulato e confermato un percorso interpretativo prima ancora di essersi scervellati sulle varie ipotesi. Quella nota produce un sottile piacere voyeuristico, permettendoci di spiare il poeta dalla finestra, nel momento stesso in cui concepisce il testo. Con essa, percepiamo pure il gaudio di Celan nel riconoscere un legame di verità tra l’intuizione poetica e il suo correlativo oggettivo. Che gli sciamani jakuti utilizzassero (o utilizzino ancora) l’arco in riti propiziatori, non è un dato privo di interesse anche per gli specialisti del settore. Sul tamburo nelle pratiche sciamaniche sono stati scritti libri e saggi a non finire; per ogni differente etnia, studiosi di varia provenienza, russi in primis, ci hanno fornito notizie precisissime e resoconti corredati finanche di trascrizioni ritmologiche. Sull’arco nel contesto sciamanico, invece, è obbiettivamente difficile reperire nozioni altrettanto esaurienti. Da questo punto di vista, il libro della Lot-Falck rimane, a più di cinquant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, una fonte imprescindibile13. Ora – e veniamo al punto – definire «preghiere sull’arco» le orazioni, le formule augurali, le invocazioni che lo sciamano pronunzia reggendo l’arma come fosse una lira, è corretto, ma, nel caso della formulazione celaniana, si tratterebbe, come si diceva più sopra, di una riduzione al verosimile del composto «Bogengebete». Del resto, se il poeta avesse voluto riportare l’esatta definizione del dato etnografico, avrebbe, al più tardi dopo la lettura del passo citato della studiosa, ricalibrato l’espressione, sciogliendola nel più esplicativo: Gebete über dem Bogen. Per fortuna non lo ha fatto, regalandoci uno dei gioielli più luminosi e significativi di Niemandsrose. Passiamo al secondo collisore. «Preghiere-arco», dicevamo, oltre all’elemento etnico e storico-culturale, contiene in nuce il destino prosodico del testo. Sibirisch è anche a livello compositivo un arco, una preghiera scagliata come freccia lungo tutta la Siberia, sibilante sul «mare di càrice» e parallela 130 alla «Via del Bronzo» dell’ultima strofa. Scoccato il dardo, siamo nell’etere dell’orazione, nell’inafferrabile, in bilico nell’aria, in quello spazio intermedio, tra le costellazioni e il suolo, presso l’«astro mattutino» da cui pende il «cigno-corvo», il poeta. Poi, la parabola prende la curva discendente; sentiamo sotto di noi risuonare un sonaglio dimenticato nell’infinita steppa asiatica;

13 Cfr. Testi dello sciamanesimo siberiano e centroasiatico, a cura di U. Marazzi, UTET, Torino, 1984. Agli Jakuti e ad alcuni loro canti e rituali sciamanici sono dedicate le pp. 265-327. Nel rituale tipico di «animazione» del tamburo, lo sciamano «cavalca» il proprio strumento, lo chiama suo cavallo, brandendo il bastone (o l’arco), alla stregua d’un arciere in equilibrio sul suo destriero, pronto a scoccare il dardo. Per lo sciamano della Jakutia, l’arco diviene una «lira», uno strumento a corda, che, pizzicato, facilita la trance. In questo senso, come nel caso del tamburo, si può dire che l’arco possegga un’entità duplice, terrena e soprannaturale, prima e simbolica, sebbene «i popoli siberiani non distinguono tra il materiale e lo spirituale, tra l’animato e l’inerte. Per essi, tutto ciò che è, vive della stessa vita. In ciascun essere vivente vi sono una o più anime. […] Le anime hanno accesso a tutte le zone cosmiche». Op. cit., p. 19. Ringrazio Davide Brullo per questa preziosa indicazione bibliografica.

240

Federico Italiano

vediamo la distesa, forse i monti sullo sfondo e l’esercizio contenuto del vento; finché planare è irrevocabile, siamo condotti «oltre il macereto», là dove il poeta ci parla «con dito scuoiato». L’arco, dunque, non è solo l’arma da caccia o simbolo guerriero, è pure la disciplina di una traiettoria, è il senso stesso di ciò che produce: porta inscritto nel suo corpo-oggetto il destino della freccia, la sua parabola. La vita stessa è un arco, che non torna a caso là da dove è venuto, come recita la prima strofa del famoso Lebenslauf di Hölderlin che Celan aveva certo ben presente: Größers wolltest auch du, aber die Liebe zwingt All uns nieder, das Leid beuget gewaltiger, Doch es kehret umsonst nicht Unser Bogen, woher er kommt14.

Quel «du» cui Celan si rivolge nella prima strofa evidenzia una mancanza, una breccia nel sistema liturgico dell’orazione condivisa. Quelle «preghiere-arco» non sono, a quanto pare, esclusive di una voce, ma sono pensate per una comunione vocale, una comunione non realizzabile. L’assenza indicata è con tutta probabilità quella di Mandel’stam, dedicatario di tutto il volume Die Niemandsrose, morto in un campo di smistamento presso Vladivostok15. Nella seconda strofa la prospettiva spaziale è ancora quella celeste, o eterica. Siamo in una dimensione extra-terrestre, lontani dal suolo e dai suoi bioritmi. Ci troviamo nella sfera dell’intangibile, forse in un regno ultraterreno, o addirittura nell’oltretomba, come lascerebbe intuire l’epiteto psicopompo con cui si qualifica e si presenta il poeta, «cigno-corvo». Il cigno-corvo pendeva dall’astro mattutino: con la fessura palpebrale erosa stava un volto – anch’esso sotto quell’ombra.

131

Sia nella tradizione letteraria occidentale, che nel cosmo religioso e culturale delle popolazioni siberiane, l’accostamento di cigno e corvo ha un valore ossimorico. Nella formula celaniana, il tropo poetico del cigno perde la sua carica positiva, viene quasi devitalizzato, annichilito nella sovrapposizione con il corvo, che è simbolo e semeîon di morte. Da questi versi spira una brezza gelida. Invero, qualcosa di tetro, di ossianico e inafferrabile domina la scena; si ha quasi la sensazione di leggere il frammento di un canto sepolcrale o la

14 Anche tu hai voluto più grandezza, ma l’amore / aggioga tutti, e più potente il dolore ci piega. / Eppure non invano il nostro arco / torna colà da dove è giunto. 15 Mi permetto di rimandare al mio saggio: «Ein Weg nach Rußland»: sull’incontro di Paul Celan con Osip Mandel’stam, «Il Ponte», n 7-8, luglio-agosto, 2001.

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

241

versione concentratissima di un viaggio negli inferi alla maniera degli antichi. Nel rigor mortis delle palpebre erose e nell’ombra che chiude implacabile il passo, non sono difficili da riconoscere le due grandi ossessioni-nevrosi celaniane, condivise in qualche modo anche da Mandel’stam: la persecuzione nazista (lo Celan di Niemandsrose è ancora convinto che il poeta russo non sia morto per mano dei bolscevichi ma per mano dei nazisti che avevano invaso l’Ucraina) e l’accusa di plagio, la quale, nei mesi in cui Sibirisch venne composta, era una ferita fresca e profonda. La terza strofa è discensiva, indica un cambio repentino di prospettiva spaziale: siamo ricondotti verso il suolo. Un piccolo sonaglio nel gelido vento abbandonato col tuo ciottolo di selce bianca in bocca.

Nella sua visita al Musée Cernuschi, Celan ha con ogni probabilità adocchiato un esemplare di sonaglio siberiano per cavalli o cani, un manufatto metallico, rotondeggiante, con una fessura e un sassolino al suo interno, solitamente applicato attorno al collo dell’animale. A rafforzare questa ipotesi, ci viene incontro una delle prime versioni di Sibirisch, dal titolo provvisorio, Musée Cernuschi, nella quale leggiamo: «Kleines, sibirisches / Tierschellenglöckchen», ossia, tradotto letteralmente: «piccolo, sonaglio siberiano per animali»16. Il sonaglio è, insieme all’immagine dell’arco, il secondo correlativo oggettivo del testo. Compresa la morfologia del sonaglio, non è più tanto ardua l’interpretazione degli ultimi due versi della strofa. Qualcosa, tuttavia, va ancora esplicitata. Ecco l’originale: Kleine, im Eiswind liegengebliebene Schelle mit deinem weißen Kiesel im Mund.

La correlazione tra il sonaglio/Schelle e la bocca/Mund acquista concre- 132 tezza d’immagine col «weißen Kiesel», il «ciottolo di selce bianca». Tanto la bocca, tropo poetico per eccellenza, quanto il sonaglio siberiano possono dirsi determinati, nell’emissione del suono, dalla pietruzza che li occupa e li abita. Con questa soluzione simbolica, Celan riesce a rimanere fedele al particolare percorso del suo testo e contemporaneamente a fornirci una perfetta

16 Per un’analisi più approfondita del manoscritto, rimando sempre al saggio succitato di H.-M. Speier.

242

Federico Italiano

e autonoma definizione di poetica: ciò che è causa del suono, la pietra, né è anche modulatore e organo disciplinante. Non sarebbe fuorviante o mera digressione pensare ora all’aneddoto tramandatoci su Demostene, il filosofo affetto da grave balbuzie, che per poter sciogliersi la lingua era solito infilarsi un sassolino in bocca! Pietra è parola-chiave per tutta l’opera celaniana, ma in nessun’altra raccolta come in Die Niemandsrose domina così prepotentemente il cosmo simbolico. Nel testo Es ist alles anders – in cui Mandel’stam, autore di Kamen (Pietra) e speleologo-alato della Divina Commedia, emerge con inconfondibile chiarezza in una sorprendente sovrapposizione con la madre di Celan –, essa torna quasi programmaticamente. Ma il Nostro non si affida al nome comune, generale, opta per il nome specifico, che è poi il termine esatto fornito in Sibirisch, ossia, la selce bianca. dann hast du sie wieder, wie ihn, den Kieselstein aus der Mährischen Senke.17

Per quanto possa apparirci un elemento insignificante, non possiamo tradurre «Kieselstein» con sassolino; Celan non ci dice Steinchen, pietruzza, ma ci indica quella selce chiara, tra il bianco e il grigio, che conosciamo dal letto dei fiumi, quella pietra semplicissima, composta per un terzo da biossido di silicio, spesso levigata dall’acqua e durissima, che fu il materiale della prima rivoluzione tecnologica dell’uomo, il lapis o saxum silex, sostrato per punte di freccia, coltelli e monili, nonché pietra focaia, la selce piromaca, nella sua varietà scura. Se vi sono due poeti in cui geologia, idrogeologia e mineralogia rivivono, questi sono Celan e Mandel’stam e sarebbe un errore di prospettiva, sia poetica che traduttologica, ottundere la loro implacabile precisione lessicografica. Il loro sodalizio con la terminologia tecnica non è un mero ritrovato stilistico (e già questo non sarebbe un elemento da sottovalutare in poesia), ma il tentativo di ridare identità e peso ontologico all’oggetto definito, attraversando la storia etimologica e l’esperienza umana che impone ogni scelta linguistica18. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per la strofa successiva, in un cui 133 spicca lo «Herzstein», volgare tedesco per echinide, ossia calculus cordis, un fossile di riccio marino preistorico. Anche a me sta in gola la pietra dal millenario

P. Celan, Die Niemandsrose, Frankfurt, 1963. Per quanto concerne l’uso della terminologia scientifica, in particolare quella geologica e idrogeologica, nell’opera di Celan, consiglio vivamente il saggio di Uta Werner, Textgräber. Paul Celans geologische Lyrik, München, 1998, senza dubbio, tra le pubblicazioni più acute e originali degli ultimi anni in seno agli studi celaniani. 17 18

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

243

colore, la pietra-cuore, anch’io applico verderame sul labbro.

Il termine corrente, coniato su quello latino, trae origine dall’aspetto a forma di cuore che quasi ogni echinide presenta. La soluzione genitiva in italiano del composto sostantivale, come la conosciamo dal Bevilacqua, «il sasso del cuore», per quanto suggestiva e armonica nel contesto dell’opera celaniana, diluisce la portata poetologica dell’originale. Il cuore non è solo complemento di specificazione della pietra, ne è al contempo forma e contenuto: è la pietra stessa. Il calculus cordis introduce nella geologia e geo-poetica celaniana la preistoria, ciò che è immensamente retrospettivo, ma ancora tangibile e esperibile. La «pietra-cuore» si rivela dunque essere una potente metonimia della memoria – in quest’ottica, la «pietra dal millenario colore» è il millenario disprezzo patito dagli ebrei dopo la diaspora. Il passato non solo traluce nel presente, ne fa parte, è la sua attualità anorganica: la pietra preme nella gola del poeta, si fa sentire, soffoca, limita. La pietra «sta» in gola al poeta. Secondo un suo noto modus operandi, Celan svelle e riformula frasi idiomatiche. In tedesco, per segnalare un disturbo, si ricorre spesso a tale locuzione: «etwas steckt in der Kehle», aver qualcosa in gola, simile all’italiano: «aver un groppo in gola». Nella rielaborazione poetica, tuttavia la pietra «steht» e questo stare è fare resistenza, stare-contro. «Per Celan ogni discorso poetico è resistenza [Wider-stand, letteralmente: stare-contro]»19. La coniugazione di anorganico e organico prosegue poi nell’immagine che chiude la strofa, con la doppia metonimia del verderame sul labbro. La pellicola che si forma per ossidazione su leghe metalliche contenenti rame, come, ad esempio, il bronzo, è sia sintomo di invecchiamento e corrosione, che ulteriore protezione per il tropo poetico del labbro. Quel verderame instaura altresì un legame (metallurgico) tra la penultima strofa e l’ultima, strutturantesi sulla complessa antonomasia «Via del Bronzo», ultimo richiamo, in ordine d’apparenza, alla Siberia. Qui, oltre il macereto attraverso il mare di càrice conduce oggi la nostra Via del Bronzo. Là giaccio e ti parlo con dito scuoiato20.

134

H.-M. Speier, op. cit., p. 30. Il termine «macereto» può indicare un luogo ingombro da macerie non meglio specificate, ma è utilizzato prevalentemente, come il suo corrispettivo tedesco «Schuttflur», nella sua accezione tecnica, ossia: «ammasso di detriti staccatisi da pareti rocciose» (cfr. De Mauro/Paravia); 19 20

244

Federico Italiano

La «Via del Bronzo», nella geo-poetica celaniana, è una linea immaginaria che attraversa l’Eurasia, tra l’altipiano altaico e la Siberia nord-orientale, la via lungo la quale migrò il popolo degli Jakuti nel XIII secolo, per sfuggire alle pressioni dei vicini Burjati e alle invasioni mongole. Quei migranti lasciarono dietro di sé un’eredità in bronzo – il segno del loro passaggio, ora documentato e studiato dagli archeologi21. Celan fa proprio questo dato storico-etnografico, inglobandolo poetologicamente come analogon della persecuzione patita dagli ebrei. Qui ha origine quella sim-patia, quel particolare senso di fratellanza che legò Celan allo sciamano della Jakutia e al suo popolo, vittime non solo della marginalizzazione e recinzione culturale perpetrata dal regime sovietico, ma protagonisti di un inevitabile esodo millenario. 135

Preghiere-arco – tu non t’unisti a recitarle. Erano lo pensi, le tue. Il cigno-corvo pendeva dall’astro mattutino: con la fessura palpebrale erosa stava un volto – anch’esso sotto quell’ombra. Un piccolo sonaglio nel gelido vento abbandonato col tuo ciottolo di selce bianca in bocca:

ad esempio, macereto calcareo. «Segge» (ingl. sedge) è il nome tedesco di una pianta erbacea della famiglia delle Ciperacee, la càrice (Carex: Linneo, 1753). Pianta perenne e cespitosa, con foglie persistenti e acuminate, è assai diffusa tra l’Europa centro-settentrionale e la Siberia centro-occidentale. 21 I reperti risalenti all’Età del Bronzo che Celan ammirò al Musée Cernuschi erano parte dei corredi funebri ritrovati nelle tombe-kurgan e nelle necropoli dell’altipiano dell’Altai. Sebbene non possediamo a tutt’oggi una completa mappatura e tanto meno una descrizione storica organica dei popoli che abitarono l’altipiano altaico tra il II e il I millenio a. c., pare estremamente plausibile riconoscere negli Jakuti, stanziati nel nord-est della Siberia intorno al fiume Lena, i discendenti di quei nomadi di ceppo turcomanno, provenienti dalle valli del Sajan-Altai, che, per sfuggire alle invasioni mongole del XIII secolo, si mossero verso nord-est. Il nome che gli Jakuti stessi si danno è Sacha o Saqa. Saka è pure il nome con cui già Erodoto chiamava i popoli nomadi presenti nelle steppe dell’Asia, i Saci; sulla questione dei Saka, vedi S. Parlato, L’avventura dei Saka nelle fonti storiche, in Aa.Vv., I cavalieri della steppa, a cura di G. Ligabue e Grigore Arbore Popescu, Milano, 2000. Una conferma della provenienza sud-siberiana degli Jakuti – e quindi un’indiretta conferma della sovrapponibilità dei Saka citati da Erodoto e gli attuali Jakuti – ci viene da uno studio di antropologia evolutiva, i cui esisti sono stati resi noti nel marzo del 2003. La prova mitocondriale dimostra che gli Jakuti sono imparentati tanto con gli Evenki, loro vicini, ma di lingua tungusa, come con i Burjati e i Tuvini, provenienti dalla Siberia del sud e di lingua turca come gli Jakuti. Mitochondrial DNA evidence for admixed origins of central Siberian populations, in: «American Journal of Physical Anthropology». 120(3): 211-224, 2003 Mar.

Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana

Anche a me sta in gola la pietra dal millenario colore, la pietra-cuore, anch’io applico verderame sul labbro. Qui, oltre il macereto attraverso il mare di càrice conduce oggi la nostra Via del Bronzo. Là giaccio e ti parlo con dito scuoiato.

245

Inschibboleth Edizioni - Via G. Macchi 94 - 00136 - Roma - www.inschibbolethedizioni.com

Per abbonarsi o richiedere singoli numeri è possibile inviare una mail all’editore, all’indirizzo: [email protected]. Nella mail occorre indicare Nome, Cognome (oppure ragione sociale) e l’indirizzo di spedizione. Se si intende richiedere la fattura occorre indicare anche Codice Fiscale o Partita iva. L’editore risponderà alla mail indicando le modalità di pagamento. In alternativa è possibile abbonarsi o ordinare singoli numeri e provvedere al relativo pagamento direttamente on line, visitando il sito dell’editore http://www.inschibbolethedizioni.com o la pagina della rivista all’indirizzo https://www.inschibbolethedizioni.com/il-pensiero. Per garantire la continuità nell’invio dei fascicoli l’abbonamento che non sarà disdetto entro il 30 settembre di ciascun anno si intenderà tacitamente rinnovato e fatturato a gennaio dell’anno successivo. Le richieste di abbonamento, le segnalazioni di mutamento di indirizzo e i reclami per mancato ricevimento di fascicoli vanno inviate per mail a [email protected].

Anno 2006 | Volume XLV | Fascicoli 1-2

Fascicolo 1: Del Tempo Saggi M. CACCIARI, La morte del tempo; B. CASPER, Tempo e tempo messianico. Per una dimensione fondamentale dell’accadere religioso; V. VITIELLO, Exaíphnes. Søren Kierkegaard e l’esperienza cristiana del tempo; F. DUQUE, Il tempo del desiderio; M. ADINOLFI, Del tempo. Una passione senza misura. Ricerche F. TOMATIS, Inizio e parola di Dio; E. CERASI, L’umanità di Israele. Note sulla teologia della storia di Karl Barth. Problemi e discussioni B. MINOZZI, La polemica antipositivistica di Gentile e la filosofia di Ardigò. Fascicolo 2: Unamuno - Zambrano - Celan Saggi V. VITIELLO, Il «cristianesimo tragico» di Miguel de Unamuno. «No me mueve, mi Dios, para quererte el cielo que me tienes prometido»; P. CEREZO GALÁN, Il vuoto e la parola. Il nichilismo e l’esperienza della parola in Miguel de Unamuno; J. M. NAVARRO CORDÓN, Unamuno e il problema della metafisica. Del sentimiento trágico come Critica; F. DUQUE, Dio davanti agli occhi. – Il Sacro nascosto; E. TRÍAS, Poetizzare il sacro. Un dialogo con il pensiero di María Zambrano; G. CACCIATORE, María Zambrano: Ragione poetica e storia; P. DE LUCA, Un canto di frontiera. Letture F. ITALIANO, Siberiana. Aspetti di geo-poetica celaniana.

ISSN 1824-4971 ISBN ebook 978-88-85716-60-5 Inschibboleth edizioni - Roma www.inschibbolethedizioni.com