127 63
Italian Pages 260 Year 1991
— acuradella Societa Italiana di Musicologi: Ì
GIANFRANCO
VINAY
IL NOVECENTO NELLEUROPA ORIENTALE E NEGLI STAITTUNITI ]MU ) ÙJJU
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PIANO DELL’OPERA 1eLA MUSICA NELLA CULTURA GRECA Giovanni Comotti
E ROMANA
2eLA MONODIA NEL MEDIOEVO Giulio Cattin 3 € LA POLIFONIA NEL MEDIOEVO F. Alberto Gallo 4€eL’ETÀ DELL'UMANESIMO
E DEL RINASCIMENTO
Claudio Gallico 5 e II SEICENTO Lorenzo Bianconi
6€L’ETÀ DI BACH E DI HAENDEL Alberto Basso 7eL’ETÀ
DI MOZART
E DI BEETHOVEN
Giorgio Pestelli 8 e ROMANTICISMO E SCUOLE NAZIONALI NELL'OTTOCENTO Renato Di Benedetto ì 9 e L'OPERA IN ITALIA E IN FRANCIA NELL'OTTOCENTO Fabrizio Della Seta 10 e LA NASCITA DEL NOVECENTO Guido Salvetti 11eIL NOVECENTO
NELL’EUROPA
ORIENTALE
E NEGLI STATI UNITI
Gianfranco Vinay 12 e IL seconpo NovECENTO Andrea Lanza
Grafica: Marco Rostagno Redazione: Maurizio Rebaudengo, Silvia Tavella
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, non è consentita senza la preventiva autorizzazione scritta dell'editore. Prima edizione a) (e
Copyright 1978 E.D.T. Edizioni di Torino
Nuova edizione, ampliata riveduta e corretta Copyright 1991 E.D.T. Edizioni di Torino 19, via Alfieri - 10121 ISBN
88-7063-107-9
Torino
poca DELLA MUSICA cura della Società Italiana di Musicologia
GIANFRANCO
VINAY
IL NOVECENTO NELL’EUROPA ORIENTALE /sE NEGLI STATI UNITI
INDICE
VII
PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE DELL’OPERA
XI
PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE DELL'OPERA
XII
NOTA DELL'AUTORE
I e LA RINASCITA MUSICALE NEI PAESI DELL'EST EUROPEO 5
1 © INDIPENDENZA NAZIONALE E TRADIZIONE POPOLARE. L’ETNOMUSICOLOGIA
10
2 e LEOS JANACEK 3 * BéLa BARTÒK
T7
II e LA MUSICA
NELL’UNIONE SOVIETICA
34
4 ® MUSICA E POLITICA CULTURALE IN URSS
43
5 eL’OPERA
50
6 © PROKOF'EV E L’OPERA
52
7 *IL BALLETTO
55
8
58 61 69
9
75 74 78
10 * LA MUSICA CAMERISTICA E PIANISTICA 10.1 e SosraKoviÈ 10.2 € PROKOF'EV
III * LA MUSICA
LA MUSICA PER FILM E LA CANTATA IL SINFONISMO, LA SINFONIA E IL CONCERTO 9.1 + SosraKOVIÈ 9.2 ® PROKOF'EV si
AMERICANA
83
11 * LA FONDAZIONE
DELL’IMPERO E L’ISOLAZIONISMO
STATUNITENSE
85
12 * L'ETÀ DORATA E L’ETÀ DEL JAZZ
VI
INDICE
89
13 € LA MUSICA AMERICANA TRA I DUE SECOLI: “TRADIZIONE GARBATA” E FOLCLORE
92
14 e IL RINASCIMENTO MUSICALE AMERICANO: CHarLEs EpwaARD IVES
97 105
15 € GLI ANNI VENTI: JAZZ E SPERIMENTALISMO
109
17 * TENDENZE E SVILUPPI DELLA MUSICA AMERICANA NELL’ETÀ ROOSEVELTIANA
122
18 e GLI ANNI DEL DOPOGUERRA: DALLA “GUERRA FREDDA” AL “cASO WATERGATE”; DALLA “BEAT GENERATION” ALLA “HIP GENERATION”; DAL “BEBOP” AL “FREE JAZZ”
128
19 € LA MUSICA NEL DOPOGUERRA: SERIALITÀ, INDETERMINAZIONE, ALEA E GESTUALITÀ, IMPROVVISAZIONE
138 141 145
16 e LA GRANDE DEPRESSIONE ED IL NEW ROOSEVELTIANO
DEAL
20 e ELLIOTT CARTER
21eIÌ MINIMALISTI E LA MUSICA RIPETITIVA 22 e FUSIONE E CONFUSIONE DEI GENERI. ÎL TEATRO MUSICALE
LETTURE 155
1 e LEOS JANACEK
156
2
159
3 e MUSICA E POLITICA CULTURALE SOVIETICA
162
4 e DMITRIJ DMITREVIÈ
166
5
168
6
176
7 ®L’AVANGUARDIA STORICA AMERICANA
178
8 e EpGAR VARÈSE
183
9 e CHARLES Ives
186 192
10 * JoHN CAGE 11 * ELLIOTT CARTER
e BéLA BARTÒK SosTAKOVIÉ
© SERGEJ SERGEEVIC PROKOF'EV
LA MUSICA SOVIETICA CONTEMPORANEA
196
12 * PHILIP GLASS
200
13 e LEONARD
ZALI
BIBLIOGRAFIA
Z2A
INDICE DEI NOMI
BERNSTEIN
i
PREMESSA
ALLA
PRIMA
EDIZIONE
DELL’OPERA
Messo di fronte a quest'opera, il lettore, come Ercole al bivio,
forse si chiederà: ancora una Storia della Musica? oppure: final mente una Storia della Musica? Sull’asse di questo duplice interrogativo ruota il giudizio per l’azione intrapresa dalla Società Italiana di Musicologia. È un discorso ripetitivo, proposto per incrementare il mercato della carta stampata di altri oggetti inutili e voluttuari? Oppureè un discorso vivificato dalla presunzione di dover e poter fare qualcosa per modificare una realtà che talvolta ci sembra anche mortificante? Non saremo noi a pronunciare l’ultima parola nel dibattito che qui si apre; saranno i lettori, i consumatori di questo “bene” a dirci, implicitamente o esplicitamente, se valeva la pena condurre l'operazione in questi termini, ma si tenga presente in primo luogo che tale operazione è stata non solo suggerita ma imposta come mozione d’ordine dall’ Assemblea dei Soci (Bologna 1975), consapevoli che la carenza di adeguati strumenti didattici costituisce la causa prima dell’arretratezza musicale del nostro paese. A noi resta un ultimo dovere (che poi si identifica col primo, quello stesso che ci ha spinto a realizzare un’idea per tanto tempo coltivata): spiegare perché si è dato il via a questa Storia della Musica. La situazione da lungo tempo precaria in cui si dibatte a tutti i livelli la scuola italiana; la considerata ignoranza del fenomeno musicale come portatoredi idee; la rinuncia generalizzata ad accostarsi al libro di argomento musicale ritenuto strumento inutile o pleonastico, facilmente sostituibile con la musica stessa (la quale in tal modo risulta privata del suo naturale supporto culturale); la mancanza d’una educazione storica adeguata e, per contro, l’insistente proposta d’una storia musicale che non tiene conto dei suoi legami col mondo circostante, che si esaurisce in elenchi insignificanti di nomi e di cose, che riduce la nozione a barometro della
storia e non si sforza di giustificarne logicamente l’apparizione, che da troppo tempo organizza pigramente la materia in conteni-
VII
PREMESSA
ALLA
PRIMA
EDIZIONE
DELL’OPERA
tori prefabbricati senza concedere spazio né alla varietà né alla dialettica. Ecco alcuni dei perché di questa Storia, che noi abbiamo voluto condurre secondo un taglio particolare, che si rivelasse utile, informativo e — naturalmente - formativo e che tenesse conto in qualche modo di tutte le componenti storiche e ambientali il più delle volte omesse nelle consuete storie musicali. Una storia per gli “studenti”, dunque, intendendo per studente chiunque voglia (o debba) accostarsi alla storia musicale per accertarne l’entità e valutarne il peso nel mondo della cultura e dell’arte. Confesseremo che grandi preoccupazioni sono sorte in noi quando, una volta raggiunto l’accordo con l’editore (al quale non saremo mai sufficientemente grati per il coraggio dimostrato nell’aprire il suo discorso editoriale proprio con la cultura musicale), si è trattato di suddividere la materia, dare un contenuto ad ognuno dei volumi, fornire un progetto di metodologia che non ricalcasse passivamente modelli magari anche illustri, ma fattisi ormai aridi e inerti. Due fondamentali presupposti avevano in comune coloro che han posto mano a quest’impresa (e nella fedeltà ad entrambi va individuato l’elemento unificatore d’un’opera che si presenta, per altri versi, ricca di tante angolazioni prospettiche quanti sono i volumi in cui essa si articola). Il primo: abbattere le mura della cittadella specialistica nella quale la disciplina è rimasta finora arroccata, per cui la storia della musica è stata concepita o, determini sticamente, come un’astratta evoluzione di forme generi stili, 0, idealisticamente, come un’altrettanto astratta galleria di “personalità” in sé concluse. Abbattere quelle mura, rintracciare i nessi
che intimamente collegano i fenomeni musicali con la multiforme realtà del loro tempo, mostrare come anch'essi tale realtà concorrano a formare: questo lo scopo cui ciascun autore ha mirato, pur con criteri e metodi e quindi con risultati diversi, a seconda non solo dei personali atteggiamenti e predisposizioni e orientamenti, ma anche delle particolari, differenti soluzioni che la materia di volta in volta imponeva. L’altro presupposto era che la trattazione rimanesse nell’ambito cronologico e geografico proprio della storia della musica, intesa come specifica disciplina: rimanesse perciò limitata alla musica europea e a quanto di essa è trasmigrato e ha attecchito al di là dell'Oceano. Implicito, in questa presa di posizione, il rifiuto del tradizionale disegno storiografico, che include anche materie — la
PREMESSA
ALLA
PRIMA
EDIZIONE
DELL’OPERA
musica delle civiltà antiche e orientali — propriamente pertinenti al campo della cosiddetta musicologia comparata; le include ma al tempo stesso le relega in una posizione subalterna e marginale, tradendo così una concezione eurocentrica (per non dire imperialistica) della cultura, ancor dura a morire. Dobbiamo a questo punto giustificare un’apparente contraddizione, perché in un quadro così concepito la musica greca non avrebbe dovuto, a rigore, trovar posto. Ma se veramente si voleva, con l’opera presente, riportare
la storia della musica nel vivo contesto della società e della cultura europea, non si poteva certamente trascurare il ruolo che nello sviluppo di questa società e cultura ha avuto l’eredità greco-romana: e se è vero che il processo di sempre rinnovata riappropriazione e rielaborazione di tale eredità è stato, di quello sviluppo, uno degli assi portanti, è pur vero che ad esso parteciparono spesso in prima persona proprio i musicisti, in quanto attivi “operatori culturali” in seno alla società (prova ne sia il ricorrente mito della musica
greca ogni volta che si vollero tentare nuove strade). Di qui la decisione (il compromesso, se si vuole) di premettere alla vera e propria “Storia della Musica” un volume introduttivo che ridisegnasse, di quella cultura greco-romana che nella musica riconosceva una delle proprie nervature essenziali, un'immagine obiettiva, non mitizzata. Un’altra eccezione s’è fatta, stavolta alla fine del nostro iti-
nerario, per il jazz: in questo caso giustificata dalla necessità di una trattazione organica della cultura musicale americana. Per dare maggior concretezza all’esposizione dei fatti e per meglio conoscere la realtà del tempo preso in esame, si è creduto opportuno ed indispensabile, anzi, proporre a complemento di ciascun volume un breve ma significativo apparato di documenti coevi, non sempre i più importanti, ma quelli che servissero 2 meglio ritrarre un determinato momento dell’assunto critico. E, mirando l’opera a fini eminentemente pratici, e quindi didnt e propedeutici, si è voluto che l'esposizione fosse condotta in termini prevalentemente semplici, purgandola di note e citazioni bibliografiche. Parimenti, solo per non venir meno a quel principio che fa della bibliografia la reale fonte del processo storico, si è fornita una conclusiva nota bibliografica essenziale: anche il lettore più sprovveduto si accorgerà che, in realtà, tali note bibliografiche, con l’inflazionistica presenza di testi in lingua tedesca, inglese e francese, sono l'esatta controprova della necessità di avviare in Italia
IX
PREMESSA
ALLA
PRIMA
EDIZIONE
DELL’OPERA
un discorso di storia musicale tale da costituire la base per successive prove di didattica a buon livello. Spetterà ai lettori la decisione ultima sull’eventualità di realizzare quelle “successive prove”; se un consenso vi sarà e se i tempi
lo consentiranno, ci accingeremo al nuovo lavoro, questa volta guardando agli aspetti più particolari della storia musicale: dall’etnologia (che avremmo già voluto inserire nel piano “storico”, se non avessimo temuto di bruciare troppo in fretta un patrimonio copiosissimo e meritevole d’una attenzione tutta particolare) all’acustica, dall’estetica alla psicologia, dall’organologia alla notazione, dalla prassi esecutiva all'esposizione ragionata delle fonti, dalla liturgia alla sociologia, dalla grammatica e sintassi del linguaggio musicale allo studio delle teoriche e dei sistemi musicali anche extraeuropei, dalle cronologie comparate agli “annali” della storia musicale, su su sino alle monografie specializzate su forme e generi, paesi e civiltà, musicisti e correnti poetiche, scuole e istituzioni. E nell'illusione del sogno ci pare già di toccare con mano viva qualcosa di quella prospettiva dal momento che — se non altro — la nostra Storia della Musica è già una realtà, una realtà che espone al lettore dubbioso l’ultimo e più importante dei perché che ci hanno condotto su questa strada: quello della speranza in un futuro più consapevole delle virtù del linguaggio musicale. Alberto Basso Presidente della Società Italiana di Musicologia (1973-79)
PREMESSA
ALLA
SECONDA
EDIZIONE
DELL’OPERA
Sono passati ormai sedici anni da quando - nel 1975 - fu concepita l’idea di realizzare una Storia della Musica curata dalla Società Italiana di Musicologia. Si è trattato senza dubbio di un’operazione culturale, oltre che editoriale, notevolmente coraggiosa, lungimirante ed innovativa pet il momento storico nel quale fu concepita. Tuttavia, già nel corso dei sei anni necessari al completamento dell’intera opera (1976-82) era emersa qualche perplessità — alla luce delle nuove acquisizioni che nel frattempo erano sopravvenute e delle recenti riflessioni sulla stotiografia musicale e più in generale sui nuovi modi di “fare” la storia — sia riguardo al piano complessivo dell’opera stessa sia alla sua impostazione metodologica e al suo taglio strofico. Tali perplessità sono ancora più evidenti oggi, a sedici anni di distanza, tanto da far affermare a qualche autore che oggi avrebbe scritto una “storia” del tutto diversa. Allora, perché non fare una nuova Storia della Musica? La risposta a questo interrogativo scaturisce da una serie di considerazioni:
in primo luogo, perché l’impostazione complessiva dell’opera ci è sembrata sostanzialmente ancora valida sia sul piano storico sia su quello metodologico; in secondo luogo, perché la nostra Storia ha avuto indubbiamente un ruolo così importante, specialmente a livello didattico, nel rinnovamento della cultura musicale e musicologica non solo italiana - come dimostrano le edizioni (integrali
o parziali), in inglese, francese e spagnolo — da far bén sperare che ancora per alcuni‘anni essa potrà continuare a essere un punto di
riferimento culturale obbligato e uno strumento di lavoro indispensabile; in terzo luogo, perché non esiste oggi sul nostro mercato editoriale una Storia della Musica di questa portata e con simili peculiarità scientifiche e metodologiche; infine perché un “ripensamento” globale di tutta l’opera su nuove e diverse basi avrebbe comportato una lunga e complessa riflessione storica e teorica, per avviare la quale i tempi non ci sono sembrati forse ancora maturi. Sulla scorta di queste considerazioni abbiamo scelto, quindi, quella
XII
PREMESSA
ALLA
SECONDA
EDIZIONE
DELL’OPERA
che ci è apparsa la strada migliore, vale a dire quella di una seconda edizione ampliata, riveduta, aggiornata e corretta. La presente edizione tende principalmente a raccordare meglio tra loro alcune epoche storiche — anche tramite l’introduzione di numerose parti del tutto nuove, spesso molto ampie —, a diminuire certe difformità esistenti tra alcuni volumi, e infine ad aggiornare l’intera trattazione tenendo conto delle nuove acquisizioni storicomusicali e della bibliografia critica più recente. Un’altra importante novità di questa seconda edizione consiste nell’aggiunta programmata di un nuovo volume dedicato alla storiografia nei suoi aspetti storici, teorici e metodologici anche in rapporto alla esigenza accennata di una approfondita valutazione critica dei vari modi di “fare” la storia, specialmente alla luce del dibattito più recente. : Bologna, 1991
Agostino Ziino Presidente della Società Italiana di Musicologia
NOTA DELL'AUTORE
Le tre aree esaminate in questo volume raggiunsero, nel corso del Novecento, una loro relativa autonomia dalla tradizione musi-
cale mitteleuropea sotto lo stimolo di fermenti culturali ed ideologici di diversa natura. Per i paesi dell'Est fu l’orgoglio nazionale, frustrato nel corso del lungo periodo di dominazione straniera; per l'Unione Sovietica fu dapprima la ricerca di un'estetica che interpretasse lo spirito della Rivoluzione e del socialismo, quindi le imposizioni verticistiche del PCUS; per gli USA fu invece la nuova realtà, sociale e culturale, emersa dalla rapidissima industrializzazione negli ultimi decenni del xtx secolo. Realtà così diverse hanno suggerito una diversa suddivisione della materia. Per quanto riguarda i paesi dell'Est, ho analizzato la fase iniziale del processo di emancipazione; in particolare, la tendenza che ha contribuito maggiormente a diversificare le tradizioni nazionali da quella romantico-tedesca: l'assunzione, cioè, delle componenti strutturali del patrimonio popolare a fondamento del processo creativo, ed ho esaminato in quest'ottica l'evoluzione stilistica di Jantek e Barték. I compositori dell'Est che in varia misura hanno partecipato alle vicende dell’avanguardia occidentale del secondo dopoguerra saranno invece trattati nel volume XII. Per quanto riguarda l'Unione Sovietica, ho suddiviso la materia secondo il criterio dei generi musicali. Una scelta che rispecchia una situazione di fatto, e cioè il recupero, nell’estetica sovietica, del concetto normativo di genere musicale, secondo canoni che derivano dalla funzione prioritariamente didascalica che la musica e l’arte in genere furono chiamate ad assolvere in URSS dall’età di Stalin fino a poco tempo fa. Le profonde trasformazioni operate dalla perestrojka anche nell’àmbito della politica culturale stanno ridisegnando il quadro della musica sovietica contemporanea. Alcuni compositori iniziano ad essere conosciuti ed
XIV
NOTA
DELL'AUTORE
apprezzati anche in Occidente (Alfred Garrievit Snitke, Sof'ja
Gubajdulina ed altri). Essendo ancora troppo presto per tracciare lineamenti storici, si rinvia a fonti documentarie recenti. Mi sono soffermato particolarmente sulla produzione dei due massimi compositori sovietici, Prokof’ev e Sostakovià, per la valenza estetica, oltreché per l’importanza storica, che molte loro opere conservano anche se passate al vaglio del “gusto” e di categorie di giudizio occidentali. Nel caso degli Stati Uniti ho invece applicato un criterio diverso di sistemazione della materia. A differenza dell'Europa occidentale è molto più difficile enucleare dal contesto storico statunitense del Novecento tendenze concretatesi in correnti più o meno organiche, eccezion fatta, si intende, per quelle di derivazione europea (serialità, influenza stravinskijana, neoromanticismo e simili). Esistono, è vero, esperienze compositive riconducibili a categorie abbastanza generalizzabili (sperimentalismo, esotismo, eclettismo),
ma, quando si tenta di tracciare un itinerario storico che da Ives a Cage ed i postcageani abbracci i compositori più rappresentativi della linea “progressiva”, ci si accorge che, al di là di generiche affinità, ognuno è rinchiuso, come in una monade, nel mito pionieristico individuale; sicché, fino a Cage, che ha trovato una situazione storica favorevole ed un terreno culturale particolar-
mente ricettivo nei confronti del suo apostolato, ed di minimalisti, che hanno creato una sorta di manierismo postmoderno, nessuno ha fondato una vera e propria scuola. Prova ne sia lo splendido isolamento del più grande compositore statunitense del secondo dopoguerra: Elliott Carter. Partendo da queste considerazioni, ho preferito seguire un criterio diacronico di trattazione, estraendo da ognuno dei tre periodi considerati le tendenze e le figure maggiormente caratterizzanti. Nella suddivisione in periodi sono arretrato fino alla seconda metà del x1x secolo in quanto, proprio in quei decenni, gli Stati Uniti assunsero i tratti salienti di quella fisionomia politica e culturale che manterranno nel corso del Novecento. Mi è parso inevitabile, nello schizzare un succinto profilo storico-culturale delle singole epoche, inserire qualche rapido accenno al jazz che, senza pretesa di completezza e di sistematicità, vuole testimoniare l’importanza che la presenza della componente negro-americana ha assunto nel contesto della cultura sta-
NoTA
DELL'AUTORE
tunitense; vuole inoltre servire da punto di riferimento alla trattazione della parte musicale, per le numerose relazioni che intercorrono e sono intercorse, in USA, fra il jazz e la cosiddetta
tradizione colta. Torino,
15 luglio 1991
G.V.
XV
(E
Su
1
INDIPENDENZA NAZIONALE E TRADIZIONE POPOLARE. L’ETNOMUSICOLOGIA
Il volume precedente, strutturato secondo il criterio dei centri culturali maggiori, pone in evidenza come il linguaggio romantico (e tardoromantico), tra la fine del secolo xIx e l’inizio del xx, avesse
maturato la crisi da cui trassero origine le scuole musicali del Novecento nello stesso triangolo mitteleuropeo in cui era sorto e si era sviluppato. Le nazioni periferiche correvano perciò il rischio di dover assistere in qualità di spettatrici passive alla travagliata elaborazione dei nuovi linguaggi musicali e quindi, come già era stato per la tradizione romantica, di doversi adeguare in ritardo ad una cultura maturata in paesi stranieri. Tanto più drammatica si presentava la situazione politica e culturale di quei paesi ad Est della Mitteleuropa che, stretti nella morsa di potenze militarmente ed economicamente egemoni, stavano ancora cercando, sul volgere del
secolo xx, una loro identità nazionale: la regione polacca, quella ungherese e quella ceca. Sebbene i popoli di queste regioni condividessero la comune sorte di oppressi, differente era la condizione in cui si trovavano nei confronti degli oppressori. La regione polacca, incuneata tra l’impero russo, quello absburgico ed il Reich tedesco, era appunto smembrata in tre parti annesse a queste potenze.
Gli ungheresi e i cechi rientravano invece nell’orbita della dominazione absburgica; in una posizione particolarmente privilegiata gli ungheresi che, sebbene riconoscessero l’autorità dell’imperatore absburgico, in séguito ad un compromesso stipulato con l’Austria nel 1867 godevano di una larga autonomia interna; in una posizione decisamente subalterna i cechi della Boemia e della Moravia che, oltre a subire la dominazione austriaca, erano tormentati da
un complesso, particolarmente vivo nella classe borghese, per la situazione di inferiorità in cui si trovavano rispetto agli ungheresi. L’istanza indipendentistica si fece particolarmente viva a cavallo fra i due secoli dando vita a movimenti nazionalistici quali i Giovani cechi, di orientamento panslavista, cui apparteneva Tomi
LA
RINASCITA
MUSICALE
NEI
PAESI
DELL'EST
EUROPEO
Masaryk (1850-1937), poi primo presidente della repubblica, oppure il movimento dell’ungherese Ferenc Kossuth, figlio dell'eroe romantico Lajos che a metà del secolo xrx aveva guidato un'epica ribellione armata. Fu la crisi delle potenze egemoni ad accelerare la soluzione del problema dell’identità nazionale che si risolse, alla fine della prima guerra mondiale, con la proclamazione delle repubbliche ungherese, cecoslovacca e polacca. La vita culturale di questi paesi fu animata, tra la seconda metà del secolo xtx ed il primo ventennio di quello successivo, dal sorgere di movimenti progressisti che esprimevano sostanzialmente una duplice aspirazione: la nascita di una cultura che traesse origine dalla linfa vitale della nazione, nel rifiuto delle categorie spirituali e formali delle culture egemoni, e la necessità di inserire questi paesi nel vivo della cultura europea contemporanea per superare il provincialismo e l’arretratezza cui erano costretti. Il rigore ideologico tese a mantenere separate le due istanze, dichiarando or l’una or l’altra prioritaria per un riscatto culturale del paese; sicché, ad esempio, i due movimenti che nella seconda metà del
xIX secolo aspiravano ad un rinnovamento della cultura ceca, i màjovci (dalla rivista «Maj», maggio, sorta nel 1858) ed i ruchovci (dalla rivista «Ruch», movimento, nata nel 1868) erano su posi-
zioni rispettivamente europeistiche e nazionalistiche. Anche in campo musicale il rinnovamento linguistico e culturalé passò attraverso l’uno o l’altro (o l’uno e l’altro) di questi poli. La «Giovane Polonia nella musica», fondata da Grzegorz Fitelberg (1879-1953), Ludomir Rézycki (1884-1953), Apolinary Szeluto (1884-1966) e Karol Szymanowski (1882-1937) - cui si aggiunse poi Mieczyslaw Karlowicz (1876-1909) - come il movimento omonimo La Giovane Polonia riguardante le arti plastiche e la letteratura, era di tendenza europeistica e si proponeva come fine il collegamento con
l'avanguardia europea di quell'epoca. Dei compositori di questo gruppo, Szymanowski fu l’unico che, coerentemente agli ideali degli intellettuali progressisti che si riconoscevano nel programma della Giovane Polonia, continuò da solo l’opera di aggiornamento linguistico e di sprovincializzazione della cultura musicale polacca e maturò uno stile che, pur conservando una sua individualità, si arricchì di volta in volta delle esperienze e degli apporti dell’avanguardia mitteleuropea. Così, se in un primo tempo fu influenzato, come molti suoi giovani colleghi, dall’esem-
INDIPENDENZA
NAZIONALE
E
TRADIZIONE
POPOLARE
pio straussiano (Seconda Sinfonia op. 19, 1909-10; Seconda Sonata per pianoforte op. 21, 1910), fu poi attratto nell’orbita impressionistica debussyana e skrjabiniana (Notturno e Tarantella per violino e pianoforte, 1915; Maschere, 1916, e Metope, 1915, per pianoforte). Particolare fascino esercitarono su di lui, in questo periodo centrale del suo itinerario artistico, l’arte e la cultura orientali: ne
trassero origine importanti lavori quali la Terza Sinfonia con tenore o soprano e coro, sottointitolata Canto della notte (1916), e l’opera Re Ruggero (1926). Nell'ultimo periodo la scoperta del folclore musicale polacco delle località montane lo stimolò ad un’altra virata stilistica ed alla creazione degli ultimi capolavori: le venti Mazurche
per pianoforte op. 50 (1924-25), lo Stabat mater (1925-26), le Canzoni della Kurpiowia
(1930-32), la Quarta Sinfonia concertante
(1932), il Secondo Concerto per violino (1933), il balletto Harmasie (1935), In questo capitolo sarà indagata l’altra tendenza, in un certo senso inversa a quella precedente, in quanto parte della creazione
di un linguaggio originale che affonda le radici nell’humus della cultura popolare nazionale, per inserirsi nel panorama della musica novecentesca come forza viva e aggiornata da un confronto più o meno diretto con la cultura mitteleuropea. Il fatto che per entrambi i maggiori rappresentanti di questa tendenza Janétek e Barték, pur appartenenti a regioni diverse (rispettivamente la ceca e l’ungherese), la spinta nazionalistica sia stata uno stimolo essenziale al rinnovamento linguistico, al recupero del canto popolare e ad un suo impiego diverso rispetto a quello attuato dalla tradizione romantica, dice molto del comune stato di soggezione alla cultura austro-tedesca in cui si trovavano le due regioni. Prima di iniziare un’analisi comparata per evidenziare i punti di contatto e le differenze che intercorrono fra i due fompositori in rapporto al canto popolare (analisi che sarà poi condotta singolarmente sull’opera di ognuno poiché l’iter stilistico diverge radicalmente) bisogna tener conto di un'importante premessa cronologica. Benché la tardiva esplosione del suo genio portasse Jan4gek a scrivere le opere più significative nel primo trentennio del xx secolo, e quindi contemporaneamente alla prima stagione creativa di Barték, i due compositori erano maturati in epoche culturali diverse. Janitek, nato nel 1854, aveva largamente subìto in
gioventù gli influssi romantici, in particolar modo quelli di Dvo-
LA
RINASCITA
MUSICALE
NEI
PAESI
DELL'EST
EUROPEO
fAk e di Smetana. La sua produzione precedente la prima opera teatrale pervenutaci, Sdrka (1888), rientra appunto in questo duplice indirizzo stilistico: più vicini alla lezione di Smetana i lavori corali Nello stile del canto popolare (1876) e Non si sfugge al destino (1878); maggiormente influenzati da Dvot4k quelli strumentali, la Suite per orchestra d’archi (1877) e la suite per orchestra intitolata Idy// (1878). Le Variazioni per pianoforte (1880), che il compositore considerava la sua «opus 1», è una miscellanea di stili tanto di ascendenza tedesca (Schumann, ad esempio) che boema (Dvotk). Barték invece, nato nel 1881, iniziò la sua carriera compositiva negli anni in cui Richard Strauss rappresentava la punta più avanzata della tendenza progressista. La lezione straussiana, da cui il compositore fu attratto, influenzò particolarmente i primi lavori sinfonici: il poema sinfonico Kossuth (1903), in cui Barték sfogò la
sua passione nazionalistica; le due Suites per orchestra op. 3 e op. 4 (1905 e 1907), ed i Due ritratti per orchestra (1907-08). Nella stilizzazione e nell’ornamentazione dei motivi tzigani, la produzione pianistica di questo periodo riflette invece la lezione lisztiana (la Rapsodia per pianoforte, 1904, ad esempio). Comunque, per entrambi il rinnovamento linguistico passò attraverso il recupero del canto popolare, entrambi rigettarono la concezione romantica per cui il motivo folclorico era introdotto, come qualsiasi altro, in una struttura tradizionale e si forgiarono invece sul canto popolare una grammatica ed una sintassi musicale del tutto personali. Un primo passo attraverso questi nuovi itinerari stilistici fu la raccolta e lo studio del patrimonio folclorico*intrapreso da Janatek principalmente nel periodo tra il 1888 ed il 1906, anno in cui Barték, assieme a Zoltàn Kodfly, pubblicò la prima raccolta di canti popolari ungheresi. Fu l’inizio di un’intensa collaborazione fra i due compositori e della loro attività etnomusicologica che, tra ricerche “sul campo”, trascrizioni, classificazioni e saggistica, ne occupò l’intera esistenza. Kodaly (Kecsemét, 1882 - Budapest, 1967) ha svolto un ruolo importantissimo nella vita e nella cultura musicale ungheresi, con un'attività sessantennale nel triplice campo pedagogico-didattico, etnomusicologico e compositivo. Composizioni come lo Psalmzus
hungaricus per tenore, coro e orchestra (1923), la suite dalle musiche di scena per Hdry Jdnos (1926), le Danze di Marosszék (1930)
INDIPENDENZA
NAZIONALE
E
TRADIZIONE
POPOLARE
e le Danze di Galénta (1933) sono entrate stabilmente nel repertorio orchestrale internazionale. Tanto la produzione strumentale precedente lo Psalmus bungaricus (ad esempio, l’Adagio per violino e pianoforte, 1905; la Sorata per violoncello e pianoforte op. 4, 1909-10; la Sonata op. 8 per violoncello solo, 1915; i due Quartetti op. 2, 1908-09, e op. 10, 1916-18) quanto la ricchissima messe
di composizioni corali posteriori presentano tratti personali ed originali: una fresca e spontanea vena melodica nelle prime, una perfetta integrazione fra il linguaggio verbale e la struttura polifonica nei lavori corali. E particolarmente con questi ultimi che Kodfly creò un legame molto stretto con la cultura e la vita musicale ungheresi, e ciò che in quest'opera di riscatto culturale nazionale ha perduto in diffusione europea Kodaly l’ha guadagnato in stima dei suoi compatrioti che l'hanno onorato come un padre fondatore della nazione ed ora ne venerano la memoria. Va ricordato che verso la fine del secolo x1x furono gettate le basi dell’etnomusicologia, la disciplina che studia, secondo rigorosi princìpi scientifici e comparativi, la musica popolare in tutte le sue componenti e manifestazioni. Risale al 1884 la publicazione dello studio di Alexander John Ellis sulle scale musicali (Tonozze-
trical Observations on some existing non-harmonic Scales) in cui è
contenuto il sistema di rappresentazione degli intervalli musicali impiegato, con integrazioni e perfezionamenti, nella scienza etnomusicologica per la definizione delle scale musicali non temperate; cinque anni più tardi (1889) Walter Fewkes compì la prima ricerca “sul campo” incidendo cén il fonografo Edison alcuni canti degli indiani Zuhi; nel 1892 uscì il primo saggio etnomusicologico europeo su materiale registrato (Phonographierte Indianermelodien, 1892, di Friedrich Carl Stumpf) e. nei primi anni del xx secolo'furono fon-
date le prime fonotéche. Barték si pose nei confronti della raccolta e dello studio del canto popolare in una prospettiva decisamente etnomusicologica assegnando un'importanza fondamentale alla registrazione fonografica, al rigore della trascrizione, alla comparazione fra materiali reperiti in aree talora molto distanti da quella nazionale (la Turchia, ad esempio). Assunse inoltre una posizione ideologica ben precisa: riteneva infatti che una comprensione profonda del dato etnofonico non potesse prescindere dalla comprensione globale del fenomeno etnologico, donde l’esigenza della parteci-
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pazione diretta del ricercatore alla raccolta dei canti per poter osservare non solo i fenomeni connessi al canto popolare ma anche la vita della comunità nel suo complesso. Jan4éek, che, come si è visto,
si dedicò alla raccolta ed alla trascrizione della musica popolare un quindicennio prima di Barték, non fu invece animato da interessi
specificamente etnomusicologici. Non si pose cioè specifici pro-
blemi relativi alla comparazione dei canti ed ai rapporti fra il testo ed il contesto, ma dimostrò invece particolare attenzione allo studio delle curve melodiche del linguaggio, che avrebbe voluto vedere riunite e catalogate in una specie di dizionario della lingua ceca: dall’estrema mobilità e varietà ritmica e melodica dei canti, delle
danze morave e delle espressioni linguistiche meticolosamente registrate in quegli anni Jan4gek ricavò il nucleo espressivo, la forza primigenia dei lavori composti nel successivo ventennio. Entrambi i musicisti acquistarono la loro identità stilistica mediante un processo di stilizzazione del motivo popolare che, da un semplice rivestimento armonico-timbrico della melodia, approdò ad un linguaggio musicale costruito “nello spirito” del canto popolare, ma affatto originale. Per JanAtek questo processo si compì nello spazio dei tredici anni che separano le Danze lachiane (1890) - sei danze della regione di Lachi elaborate in una versione orchestrale che risente dell’influsso di Dvor4k — e Jenufa (1903; il titolo originale è però La sua figliastra). È questa la prima opera in cui le caratteristiche salienti dello stile di Jan4tek assumono pieno risalto: la concatenazione e la ripetizione ostinata di un gran numero di incisi meledici che si modellano sulle inflessioni del discorso verbale sottolineando, amplificando e drammatizzando le benché minime sfumature espressive; una libertà armonica che, conseguentemente al rifiuto dello sviluppo melodico tradizionalmente inteso, abolisce la modulazione (secondo una concezione psicoacustica dell’emancipazione della dissonanza, maturata fin dal 1876 e teorizzata in scritti quali La corzbinazione degli accordi e le loro modulazioni, 1897, ed il Trattato completo di armonia, 1912-13); la giustapposizione di unità ritmiche molto piccole che riproducono la mobilità e la varietà metrica del canto popolare e del linguaggio verbale. Importanti lavori di transizione, che, composti nel periodo in cui Jenufa era già in cantiere, ne anticipano lo stile, sono il brano sinfonico Gelosia (1894),
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che originalmente doveva servire da ouverture all'opera, e Amarus (1897), una cantata lirica che rappresenta la prima potente meditazione di Jandtek sul tema “amore e morte”. Da Jenufa in poi il motivo popolare autentico ricorre raramente nelle opere di Jan4tek e per lo più in forma corale, come espressione di un sentimento collettivo (il coro «Dietro il villaggio c’è un bel castellino», nella v scena del I atto di Jenufa; il delizioso coro dei volpini all’inizio del II atto de La volpe astuta). Per Bartdk l'assimilazione del motivo popolare si compì in modo differente e quasi antitetico a quello di Jantek. Innanzitutto per via strumentale (principalmente pianistica, all’inizio) e non vocale; inoltre maturò la stilizzazione in modo graduale passando attraverso tre stadi successivi che lui stesso descrisse (senza riferirli espressamente alla sua opera) nell’articolo del 1931 intitolato L’înflusso della musica contadina sulla musica colta moderna. Il primo prevede l’impiego della melodia originale, conservata, del tutto o in parte, testualmente, accompagnata da accordi modali e dissonanze che rendono più interessante una struttura melodica semplice e talvolta banale; in questo primo stadio, che Barték paragona all’elaborazione dei corali bachiani, sono comprese opere quali i Dieci pezzi facili (1908), l’album Per ibambini (1908-09), la Sonatina (1915), le Colinde (1915), le Otto improvvisazioni su canzoni popolari ungheresi (1920), iTre rondò (1920) e diversi brani dei Quarantaquattro duetti per due violini (1931). Il secondo stadio consiste nell’invenzione melodica e ritmica ad imitazione della musica popolare; nella produzione bartokiana questo metodo, che il compositore afferma come caratteristico di Stravinskij, è impiegato, ad esempio, nelle Due danze rumene (1909-10) in cui compare per la prima volta il motivo “barbarico” che esploderà l’anno successivo nel memorabile Allegro barbaro. Il terzo stadio > rappresenta la completa e totale assunzione dei moduli espressivi e delle strutture linguistiche della musica popolare, sublimati però a tal punto da non contenere più riferimenti diretti al motivo popolare; in questa categoria rientrano molte opere composte durante e dopo gli anni Venti, fra cui i capolavori di Barték quali i quattro ultimi Quartetti (1927, 1928, 1934, 1939), il Secondo concerto per violino (1938) ed il Concerto per orchestra (1934).
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2 e LEOS JANACEK Janizek (Hukvaldy, 1854 - Ostrava, 1928) maturò il suo stile nell’èmbito dei generi vocali. Fin nei primi lavori composti in gioventù, quando era impegnato nella direzione di piccoli complessi corali, nella trama di un tessuto ancora tradizionale compaiono libere concatenazioni metriche ricalcate sui modelli del canto popolare: in Amor incostante (1873), Vero amore (terzo dei tre cori Nello
stile del canto popolare, 1875-76), Non si sfugge al destino (1878), tutti per coro maschile, ad esempio. Già si è evidenziata l’importanza degli studi sulle curve melodiche del linguaggio per la definizione dello stile del compositore, e si è pure visto che i suoi primi maturi approdi stilistici (Arzarus e Jenufa) rientrano entrambi nel genere vocale. Tratto fondamentale della vocalità di Jan4tek è un nesso strettissimo tra i valori drammatici — del testo, dei personaggi, delle situazioni, dei simboli nascosti — e quelli musicali; il linguaggio verbale del testo assume un’importanza primaria, poiché da esso giungono le riverberazioni espressive e fonetiche del dramma che Jandéek, attraverso segrete operazioni alchemiche, traduce in termini musicali. Da una simile concezione del dramma deriva alle composizioni vocali di Jan4éek una dimensione del tempo - musicale e psicologico — che non dipende né dal tempo di battuta, né da gradazioni espressive calcolate secondo schemi formali più o meno rigidi, ma è circoscritta di volta in volta dall’evoluzione della situazione drammatica, costringendo ad una,continua immersione in essa. Questa dimensione realistica (la coincidenza del tempo musicale con quello psicologico-drammatico) che nelle opere annulla ogni distinzione concettuale tra personaggio, evoluzione drammatica ed espressione musicale, nei lavori corali del periodo della maturità è raggiunta mediante un originale trattamento del coro per cui le singole parti che concorrono a formare l’unità corale complessiva vi partecipano come gruppi distinti. I risultati polimetrici e poliritmici ottenuti con la ripetizione o l’anticipazione di frasi musicali in controtempo creano un tessuto sonoro estremamente mobile che interpreta plasticamente i contenuti testuali: la narrazione della tribolata esistenza dei protagonisti omonimi de I/ mzaestro Halfar (1906) e di Maryéka Magdonové (1907), che si conclude per entrambi con il suicidio, o la collera e il furore
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rivoluzionario de I settantamila (1909), insorti contro il tirannico
barone Gero. Nelle opere di Jandtek, e particolarmente in quelle vocali, anche non sceniche, ricorrono alcuni nuclei drammatici, fra cui quelli con-
nessi al motivo erotico ed a quello della femminilità tragica si ripetono con l’ostinazione di immagini ossessive, quale quella della donna scatenatrice di violentissime passioni che turbano e disgregano l’ordine sociale, conducendo ad esiti spesso violenti: Jenufa e Kat'a, protagoniste delle opere omonime (Jenufa, 1903; Két'a Kabanovd, 1921) in cui sono perpetrati un infanticidio (del figlio illegittimo di Jenufa, ucciso dalla matrigna di questa, Kostelnita,
per nascondere la colpa della figliastra) ed il suicidio della protagonista (Két’a, appunto); Zefka, la bella zingara che nel Diario di uno scomparso (1919) seduce il giovane Janféek inducendolo a fuggire dal paese ed a seguirla nella sua vita errabonda; oppure, attraverso la metafora zoomorfa, Bystrouska, La volpe astuta (1923), simbolo tanto dell’amore sensuale che dell'amore materno, uccisa alla
fine dal nemico del guardacaccia. Connessi alla tematica della femminilità tragica, due altri motivi che stimolarono particolarmente la vis dramatica di Janitek sono la figura della donna autoritaria e possessiva, magistralmente caratterizzata in Jenufa (Kostelniéa) e in Két'a Kabanovd (la suocera Kabaniéa), ed il motivo della morte come liberazione e riscatto (l'accettazione della morte di Elina-
Emilia ne L'affare Makropulos; il suicidio della protagonista in Kdt'a Kabanovd e, se si vuole, l’uccisione di Bystrouska ne La volpe astuta). Se la passione amorosa, vissuta violentemente ancora in età senile,
e le ossessioni connesse alle immagini muliebri furono per Janàtek una potente fonte di ispirazione, in modo ugualmente violento ed intransigente visse la passione patriottica. Nella sua opera ricorre
tanto espressa in forma ‘epico-drammatica (i tre cori già menzionati precedentemente, I/ maestro Halfar, Maryéka Magdonovd, I settantamila, i cui testi, ricavati dai Canti slesiani di Petr Bezruò, allu-
dono all’oppressione austriaca), quanto attraverso la sferza della satira e dell’ironia (l’opera I viaggi del signor Broucek, 1908-17, il cui protagonista incarna la figura del borghese indolente, qualunquista, meschino, indifferente alla causa nazionalista ed all’oppressione straniera, dedito esclusivamente al soddisfacimento del suo
piacere e del suo comodo immediato: l'equivalente praghese del russo Oblomov); oppure assume caratteri slavofili - naturale risvol-
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to dell’odio che nutriva nei confronti della cultura tedesca —, che
lo ispirarono nella celebrazione dell’epos nazionale russo (il poema sinfonico Taras Bulba, 1918) e lo guidarono nella scelta dei testi di alcune opere (Kdt'a Kabanovd e Da una casa di morti, 1927-28, tratti rispettivamente da L’uragano di Ostrovskij e dalle Merzorie da una casa di morti di Dostoevskij). Per conferire unità formale alle sue opere, Jan4tek non ricorse né al Leitmotiv wagneriano né tanto meno alle forme chiuse, bensì alla variazione di alcuni motivi che ritornano come affioramenti di memoria. Il ritorno di questi motivi non è legato ad uno schema formale rigido, ma anch'esso risponde esclusivamente ad una logica interna al dramma: viene in tal modo accentuato il senso di accidentalità dello sviluppo drammatico-musicale, il prevalere dell’aspetto sentimentale ed affettivo, pur ritratto in modo realistico, su quello razionale. Ogni opera contiene uno o più di questi motivi che non vengono sviluppati secondo il senso proprio del termine, ma semplicemente modificati mediante trasformazioni, anche minime, nel timbro, nel ritmo, nel disegno melodico. Dalla libera concatenazione di questi motivi con le “melodie di parole”, ricavate dalle curve melodiche del linguaggio, l’opera janacekiana trae il suo originale impianto. In Kdét'a Kabanovd, ad esempio, la cellula germinale dell’opera, un tortuoso disegno di quattro semicrome esposto nell’ouverture, ritorna alla fine del I atto, tanto nella versione originale che in versioni variate, per sottolineare la partenza di Tichon e, nuovamente, nel III atto, nella scena in cui Kat/a confessa la
sua colpa e quando Tichon addossa alla madre la responsabilità morale del suicidio di KAt'a. Anche ne La volpe astuta, la cui foresta è animata da scatti melodici e ritmici improvvisi come farfalle che si involano dal fiore, sono riconoscibili alcuni di questi motivi. Uno in particolare, una breve figura melismatica che sottolinea un moto di stupore di BystrouSka all’inizio del II atto ed è già presente nell’introduzione strumentale del medesimo atto, ricorre poi diverse volte nel corso dell’opera; l’introduzione strumentale alla seconda scena del I atto, ove uno stesso tema viene variato sette volte, offre un esempio notevole di variazione janacekiana. Ne L’af fare Makropulos e in Da una casa di morti, poiché l’azione dram-
matica è bloccata — nella prima opera per la situazione di immobi-
lità temporale, astorica, in cui si trova la protagonista, in vita da
trecento anni per l’effetto di un elisir; nella seconda per la costri-
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zione fisica dei personaggi condannati ai lavori forzati — le “melodie di parole” prevalgono sulla ripetizione di motivi ricorrenti, tuttavia presenti: tre temi connessi con il personaggio principale ne
L'affare Makropulos ed uno simbolico (il “motivo del destino” o “della libertà”) in Da una casa di morti. Mentre nella prima opera le “melodie di parole” assumono un tono di conversazione, nella seconda raggiungono quasi l'espansione melodica dell’arioso: la dimensione del ricordo, unica possibile per individui costretti ad uno stato di segregazione, colora di tonalità nostalgiche e sentimentali la cruda e delittuosa realtà che ha determinato la loro incarcerazione. Nelle opere della maturità, la citazione diretta del canto popolare (presente invece in Inizio di un romanzo, del 1891, contemporanea alle Danze lachiane ed alla Suite op. 3) è per lo più bandita. Quando ricorre è sempre motivata da una precisa necessità drammatica: è il delizioso coro all’inizio del II atto de La volpe astuta in cui esplode la gioiosa vitalità dei volpini; oppure la naturalezza e la spontaneità del rapporto amoroso fra Kudrjas e Barbara in Kdt'a Kabanovd, che si pone in voluto contrasto con quello problematico fra Kat‘a e Boris; oppure ancora l’intonazione russa di certe melodie in Da una casa di morti che conferisce una precisa connotazione geografica all'opera. Anche fuori del campo operistico, la vocalità di Jan4éek presenta i medesimi caratteri formali ed espressivi. Nel Diario di uno scomparso (1919), una raccolta di ventidue liriche che sviluppano un unico tema (l’amore di un contadino per una giovane zingara di nome Zefka con la quale fugge dal paese per seguirla nella sua vita errabonda), Jan4éek raggiunge uno dei suoi vertici espressivi. L’opera presenta una struttura simmetrica: i primi otto brani sono dedicati al vagheggiamento della bella zingara; i cinque centrali al motivo della seduzione, di cui tre (IX X - XI) in forma dialogica fra i due protagonisti con intervento di un coro femminile nel IX, ed il XIII esclusivamente pianistico; gli ultimi otto, invece, al turbamento di Janféek ed alla fuga con la zingara. Ricorre inoltre (in particolar modo nel IX, X, XVII, XVIII e XIX) un motivo — una quarta giusta seguìta da una seconda
minore e viceversa - che nella topografia espressiva di Janàtek allude a contenuti erotici. Struttura esterna e ricorsi tematici a parte,
i ventidue brani del Diario di uno scomparso sono veramente pagine di un diario intimo che riflettono anche i minimi moti dell’animo,
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le indefinibili sensazioni ed i turbamenti di un giovane soggiogato dalla misteriosa forza dell’eros. Di cinque anni anteriore, il Diario di uno scomparso anticipa la magica atmosfera della Volpe astuta nell’ambientazione agreste, nel personaggio della zingara, simbolo vivente dell’eros (nella Vo/pe astuta impersonificato dalla zingara Terynka, che tuttavia non compare mai in scena), nel linguaggio musicale, brulicante di figure melodico-ritmiche che nascono o muoiono nello spazio di qualche battuta. Anche nella Messa glagolitica (1926) tanto la struttura formale (otto parti di cui tre strumentali — I, Introduzione; VII, per organo solo; VIII, Intrada -
oltre le cinque dell’ordinariuz) quanto il soggetto sacro celano uno spirito affatto profano che si manifesta, ad esempio, nella fanfara introduttiva (che ricorda quella della Sinfonietta) e nell’Intrada che incorniciano la Messa vera e propria; oppure nell’enfatizzazione della natura umana di Cristo: la drammatizzazione dell’«Et incarnatus est» del Credo cui segue il trittico strumentale (Andante, Allegro, Presto) che illustra tre episodi della vita di Cristo (la preghiera nel deserto, la benedizione delle moltitudini, la Passione) e, più
in generale, nello spirito operistico che anima il lavoro, specialmente quando intervengono le voci soliste (G/oria, Credo, Sanctus, Benedictus, ovviamente in versione slava), un equivalente
moravo e novecentesco delle messe settecentesche instilus mzixtus. Più problematico fu per Janééek il raggiungimento di un’identità stilistica nell’ambito della musica strumentale. Da un lato lo sviluppo melodico inteso come successione di “melodie di parole” era strettamente legato ad un testo poetico o drammatiéo; d’altro lato l'innesto dell’originale soluzione stilistica di Jan4tek (la ripetizione delle stesse cellule melodiche) su organismi strumentali troppo estesi era operazione difficoltosa. Nel primo periodo della maturità compreso tra Jenufa e Kdt'a Kabanové (1907-21), Janéîek ricorse per lo più a forme brevi o addirittura aforistiche, oppure connesse ad immagini letterarie (il poema sinfonico). Il pianoforte è lo strumento elettivo delle prime; nei quindici schizzi pianistici composti per lo più nel periodo 1901-08 — riuniti poi nella raccolta intitolata Su/ sentiero erboso—Janitek condensa nello spazio di poche battute un’immagine sonora fuggevole come un’impressione subitanea. È la poetica delle Scènes mignonnes di Schumann e dei Préludes di Debussy che traspare già dall’intitolazione dei brani (Una fogliolina soffiata via, Cinguettavano come rondinelle, La pa-
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rola manca, Piangendo, eccetera) e che spesso evoca atmosfere molto simili a quelle debussyane (La parola vien meno e Allegretto). Il ricorso di ostinati melodico-ritmici e le asimmetrie metriche, che
talora presentano analogie stilistiche ed espressive con il Barték del primo e del secondo stile folclorico (Cinguettavano come rondinelle, Vivo), rivelano una piena individuazione stilistica in àmbito pianistico (Esse chiacchierano come rondini, La Vergine di Frjdek). Essa riceve conferma dalla raccolta successiva (Nella nebbia, 1912)
formata da quattro brani soltanto che, pur nella differenziazione dei temi e dei tempi, rispondono al medesimo principio compositivo: uno stesso frammento melodico osservato da prospettive armoniche e timbriche diverse. Il principio della variazione janacekiana (la mobilità e la varietà nella fissità), insomma: un principio molto più aderente alla tradizione popolare che non le simmetriche strutture formali di Bart6ék derivate invece dalla tradizione colta classicoromantica.
Un interessante esperimento di applicazione delle soluzioni stilistiche janacekiane alla forma-sonata è costituito dai due superstiti movimenti di una sonata originariamente concepita in tre movimenti, intitolata Ne//a strada, I. X. 1905, perché dedicata ad un
giovane martire ceco ucciso dalla polizia austriaca durante una manifestazione svoltasi appunto in quella data. Il primo movimento, Con moto (il sottotitolo è Presentizzento), è un Allegro di sonata bitematico con un breve sviluppo centrale; il secondo è invece un Adagio (sottotitolo Morte) che assume, per la ripetizione della stessa cellula tematica con ritmo puntato finale — tratta dalla seconda battuta del tema principale del primo movimento -, un andamento grave e mesto. Il fatto che Janéek, in un impeto di autocensura, abbia distrutto il manoscritto originale (i due tempi superstiti ci sono pervenuti da una copia) dice molto dell’incompatibilità fra il compositore e la forma-sonata. La difficoltà di approdare in campo cameristico ad un linguaggio originale ci è testimoniata dalla prima versione della Favola (1910) per violoncello e pianoforte (la versione definitiva è del 1923), un ibrido stilistico in cui le cellule
ritmico-melodiche di Jan4tek si alternano a trasporti melodici di ascendenza romantica, senza pervenire, come nei Quartetti, ad unità
espressiva. Nel genere della musica orchestrale, invece, trovò nel carattere ràapsodico del poema sinfonico la temporanea soluzione
del problema formale. Dei tre poemi sinfonici composti in questo
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periodo (I/ bambino del suonatore, 1912; Taras Bulba, 1918; La ballata di Blanik, 1919), quello dedicato all’eroe russo è senza dubbio il capolavoro nel genere. Un’orchestrazione estremamente mobile per una sapientissima individuazione dei timbri orchestrali è il crogiuolo di fusione tra l’ampiezza della forma narrativa e le formule melodico-ritmiche di Jan4éek; talora esse si estendono fino ad assumere le dimensioni di veri e propri temi (il tema éaikovskijano del-
l’Adagio affidato all’oboe, nel primo quadro del trittico in cui è rappresentata La morte di Andrej, oppure quelli di forte sapore slavo nei due Maestoso del III quadro, La profezia e la morte di Taras Bulba), talora invece si riducono a semplici cellule motiviche che baluginano dal tessuto orchestrale (quasi l’intero II quadro, La rzorte di Ostap).
q
È tuttavia nell’ultimo periodo compositivo (quello degli ultimi quattro capolavori operistici da Kdt'a Kabanovd a Da una casa di morti) che Jan4tek raggiunse un perfetto equilibrio stilistico ed una piena maturità espressiva anche in campo cameristico. Come nelle composizioni vocali, lo sviluppo musicale è interamente imperniato sulle cellule motiviche janacekiane e, in assenza di un testo cui appigliarsi, risponde a schemi formali ed espressivi interni alla coscienza del compositore; l’andamento rapsodico che ne risulta e la varietà degli atteggiamenti espressivi sono le sigle della maturità di Jan4Cek in campo strumentale. I due Quartetti per archi (1923 e 1928) e l’ultimo in particolare intitolato “Lettere intime”, in quanto ispirato dall'amore per Kamila Stòsslov4, ninfa Egeria dell’età senile e dei suoi ultimi capolavori, sono forse la più perfetta realizzazione dell’“impressionismo psicologico” di Janéek nel campo nella musica pura. La trasfigurazione dei diversi stati d’animo suscitati dalla persona amata dà vita ad un discorso musicale che si sviluppa secondo una libera concatenazione di ritmi marcati, brevi disten-
sioni, episodi contrappuntistici, costretti ad unità formale dall’unità di coscienza di Jan4gek. Poiché l’avvicendarsi delle varie sezioni segue uno schema “a senso”, dettato dalla libera intuizione del compositore, è difficile indicare una struttura formale. Tuttavia,
come nelle opere, si possono ravvisare ricorsi tematici: nel primo movimento, i due enigmatici disegni introduttivi, il primo esposto dai violini, il secondo affidato alla calda sonorità della viola:
nel secondo movimento l’ampia arcata della melodia introduttiva intervallata da sezioni di carattere espressivo divergente. Negli
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ultimi movimenti si fa più intenso il colore folclorico, ravvisabile nell’andamento trocaico del tema introduttivo del terzo movimento che riporta echi di un medioevo moravo, e nell’ Allegro “quasi barbaro” del finale. Nell'ultimo periodo compositivo, Jan4tek trovò nella sonorità degli strumenti a fiato (e degli ottoni in special modo) una dimensione timbrica particolarmente stimolante che lo condusse alla composizione del suo capolavoro strumentale, la Sinfonietta (1926), attraverso alcune sperimentazioni cameristiche in cui il proprio stile si colora di tinte stravinskijane e debussyane-raveliane (suite per strumenti a fiato, Gioventà 1924; Concertino per pianoforte, 2 vio-
lini, viola, clarinetto, corno e fagotto, 1925; Capriccio per pianoforte — mano sinistra sola — ottavino, flauto, 2 trombe, 3 tromboni e tuba, 1926). Nella Sinfonzietta le cellule melodiche janace-
kiane ricevono una particolare illuminazione dai diversi amalgami sonori; fra gli ottoni, che assumono una solennità cerimoniale (1’Allegretto iniziale, per un complesso di 13 ottoni che ritorna poi nella coda del movimento conclusivo; il Maestoso del n movimento) oppure un carattere festoso e giubilante (gli squilli di tromba che introducono il v movimento), e la fluidità melodica dei legni cui sono assegnati leggeri motivi di danza (l’inizio del 1 movimento) o temi lirici e delicati (la melodia introdotta dal corno inglese all’i-
nizio del m movimento, Moderato), si instaura una dialettica orche-
strale equilibratissima che, insieme alla potenza drammatica delle ultime opere ed a quello che ho indicato come “impressionismo psicologico” dei due Quartetti, rappresenta uno degli approdi artistici dell’ultimo Jandtek.
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-;
Già si è visto come anche per Barték (Nagyszentmiklés, 1881 New York, 1945) lo studio e l’interiorizzazione delle strutture del
canto popolare siano stati all’origine dell’emancipazione dalla tradizione romantica e della conquista di uno stile personale. La maturazione stilistica del compositore si compì nello spazio del decennio compreso tra le Quattordici Bagatelle (1908) ed i Tre Studi per
pianoforte (1918). Anche se già nelle opere composte in precedenza si possono scorgere, ad un’attenta analisi, motivi e gesti tipicamente
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bartokiani, è solamente con le Quattordici Bagatelle che la tradizione romantica viene decisamente abbandonata. Ogni brano della raccolta si basa infatti su princìpi decisamente estranei ad essa: successioni di intervalli dissonanti o inusuali (unisono nel n. 9;
seconde maggiori nel n. 2; quarte nel n. 11; quinte vuote nel
n. 6), bitonalità (n. 1), ostinati melodici (l’accompagnamento del
n. 3) e ritmici (la ripetizione a valori progressivamente diminuiti della stessa nota, con effetto di cir224/077, nel n. 12), impiego “strutturale” delle ornamentazioni (le acciaccature nel n. 8). Sono i prin-
cìpi di una nuova grammatica e di una nuova sintassi musicale in cui è l'intervallo e non la triade alla base delle funzioni armoniche, non è più l'elaborazione melodica ma la ripetizione variata a condurre il discorso musicale. Tutta la produzione pianistica di questo decennio è una progressiva conquista (con qualche ripensamento, tuttavia: le Due elegie, 1908-09, ad esempio) di un nuovo
spazio sonoro, tanto nell’èmbito della musica “pura” quanto in quello dell’ornamentazione del motivo popolare. Alcune raccolte tendono a privilegiare piuttusto la prima (Sette schizzi op. 9, 1908-10, esclusi i brani n. 5 e 6, entrambi di origine popolare; Tre burlesche,:1908-11) con soluzioni espressive talora molto simili a
quelle debussyane, mentre altre decisamente la seconda (l’album Per i bamzbini, 1908-09; le due serie di Colinde — canti natalizi rumeni — e la Sonatina, tutte del 1915).
Un altro elemento che, stimolato dall’irruenza ritmica del folclore rumeno — raccolto ed indagato in quegli anni —, entra a far parte della natura composita del linguaggio bartokiano,è il motivo “barbarico”: la dissonanza, cioè, usata come sferza ritmica ed
accento timbrico. Il primo brano in cui questo aspetto esplode in tutta la sua travolgente vitalità è l’Allegro barbaro (1911), che
afferma in modo inequivocabile una nuova concezione del tocco pianistico, per cui è esaltata la natura percussiva dello strumento. La prima matura sintesi di queste diverse ma coerenti intuizioni espressive è la Suite op. 14 (1916) in quattro movimenti, di cui
il primo (Allegretto) è nello spirito di una danza rumena stilizzata, mentre i due movimenti centrali (Scherzo e Allegro molto) esaltano entrambi l'aspetto percussivo, e l’ultimo (Sostenuto) è invece una successione di accordi timbrici su cui aleggiano frammenti melodici quasi sospesi in un’atmosfera plumbea e spenta. La produzione pianistica è, in questa prima fase evolutiva dello stile di Barték,
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la punta più avanzata della sua maturazione linguistica. I due lavori teatrali, l’opera in un atto I/ castello di Barbablù (1911) ed il balletto I/ principe di legno (1914-16), riflettono invece influenze stilistiche di varia provenienza. I/ castello di Barbablà è il momento di maggior contiguità stilistica alla lezione debussyana del Pe//éas da cui Barték trae l’esempio della linea vocale ricavata dalle inflessioni del linguaggio, adattandola alla cadenza della lingua ungherese: le armonie evanescenti ed i raffinatissimi impasti timbrici; così vicini al gusto francese fin de siècle, a contatto con l’oscuro simbolismo del dramma di Balazs, ne restituiscono i lividi bagliori. Il principe di legno è invece un ibrido stilistico; inizia con una graduale espansione di una triade di do maggiore (con l’aggiunzione del fa diesis) che, con fare wagneriano, coinvolge l’intera orchestra, per continuare con episodi la cui orchestrazione rivela influssi di Strauss, dello Stravinskij dell’ Uccello di fuoco e persino del Sacre (nella scena della lotta del principe con gli alberi), senza ignorare la lezione debussyana. Con i primi due Quartetti (1908 e 1917), Barték si trova ad affrontare il problema dello sviluppo delle nuove scoperte linguistiche senza appigli verbali, scenici o comunque rappresentativi. Fin da questi primi saggi quartettistici, Barték si mostra già chiaramente orientato verso una concezione unitaria, traendo esem-
pio dagli ultimi Quartetti di Beethoven: la dilatazione di nuclei tematici elementari da cui sono dedotte tutte le implicazioni dello sviluppo; non più dunque il principio dello sviluppo tematico, ma una germinazione di cellule intervallati o ritmiche. Nel Prizzo Quartetto è un contorto disegno di quattro note molto simile a quello dell’op. 131 di Beethoven, che comincia a circolare nel Lento iniziale (un Lento fugato, come l’inizio del quartetto beethoveniano) e ritorna, in diverse fogge e permutazioni, negli altri due movimenti; la mancanza di stacco fra di essi contribuisce a conferire
unità all'opera. Sotto un profilo stilistico, elementi tardoromantici convivono con influssi debussyani; a tratti, comunque, compare già, inconfondibile, la personalità bartokiana (nel pizzicato del violoncello sul re diesis dell’Allegretto, che accompagna una melodia a toni interi del primo violino, oppure negli ostinati sulla stessa nota dell’ Allegro vivace). Nel Secondo Quartetto i tratti bartokiani si moltiplicano: l’unità tematica del Moderato iniziale, quasi interamente derivato dalle prime sei battute; le sonorità “barbari-
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che” dell’Allegro molto capriccioso, come i glissandi, i pizzicati e l’impiego simultaneo di corde libere e corde tastate o, in antitesi, le raggelate sonorità del Lento in cui il movimento quasi si blocca. La prima guerra mondiale segna una netta cesura fra i precedenti orientamenti espressivi del teatro musicale bartokiano e la poetica espressionista che lo stimolò alla creazione del balletto I/ mandarino meraviglioso (1918-19). La sua personale interpretazione dell’espressionismo, nonché nella scelta del soggetto — una rappresentazione, realistica e simbolica ad un tempo, della violenza dell'impulso sessuale — si manifesta in una continua tensione emotiva comunicata da un impiego esasperato, parossistico, delle componenti timbriche e ritmiche. Nell’Introduzione, ad esempio, in
cui viene raffigurato il frastuono di una grande città, non vi è traccia di melodia, ma solamente timbro e movimento: scalette dei vio-
lini che coprono l’àmbito di un’ottava aumentata, accordi per quarte, ritmi percussivi. In tanto clangore, che nel corso dell’opera si arricchisce di glissandi pianistici, di trilli dei legni, ed in genere di sonorità aspre e di ritmi violenti, tanto più conturbante risulta il motivo della seduzione, un arabesco melodico affidato al timbro suadente e sensuale del clarinetto. Con le Otto improvvisazioni su canti popolari ungheresi op. 20
(1920) può dirsi concluso il periodo di assimilazione del motivo popolare; il dialetto musicale ungherese è stato tanto interiorizzato che Barték è ora in grado di impiegare i nessi linguistici e sintattici, le inflessioni, gli accenti senza necessariamente far uso del lessico. Con le difficoltà create dalla guerra, il compositore aveva temporaneamente cessato la raccolta “sul campo” dei canti popolari, che riprenderà poi, sebbene non più in modo così continuativo; nasce invece un’intensa attività concertistica, stimolata anche
dall’esempio della seconda moglie, Ditta Pàsztory, eccellente pianista. Inizia in quegli anni il periodo più fecondo della sua attività compositiva; gli approcci stilistici raggiunti nel decennio precedente gli permisero di conservare integra ed anzi di affermare la propria personalità, negli anni in cui il yzilîex musicale europeo era come magnetizzato dai due poli del neoclassicismo e della dodecafonia. Anche Barték, che a motivo della sua attività concertistica aveva
intensificato i contatti con i principali centri musicali europei ed americani, avvertì gli influssi delle due correnti, ma, sempre ripor-
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tando tutto alla propria identità artistica, le individualizzò a tal punto — come già era stato per il canto popolare - da cancellarne i tratti originali, arricchendo il proprio linguaggio di nuovi stimoli. L'influenza della scuola viennese si manifesta, ad esempio, nelle due Sonate per violino e pianoforte (1921 e 1922), in un’accentuata
cromatizzazione della linea melodica che talora viene a comporre una serie di dodici suoni, oppure in quei passi in cui ricorrono salti d’ottava. Ma, a parte questi influssi che permangono tratti esteriori, la coscienza bartokiana è sempre radicata in un nucleo tonale (o modale) attorno al quale si sviluppano, anche discostandosene molto, i diversi episodi: inesorabile, ipnotica attrazione della finalis, più che caduta sulla tonica. Con la tendenza neoclassica Barték instaurò un rapporto più duraturo senza tuttavia soggiacere quasi mai alla tentazione di ricalchi stilistici. Gli si presentò come una delle diverse soluzioni formali in un’epoca in cui sentiva particolarmente la necessità di ampie strutture che potessero contenere le intuizioni sonore che sentiva urgere dentro di sé; ne derivò una predilezione per le forme simmetriche, per gli sviluppi contrappuntistici e per una semplificazione “lineare” della melodia. I primi saggi di questo “nuovo corso” sono pianistici: una Sonata ed un Concerto per pianoforte e orchestra, entrambi com-
posti nel 1926. Tralasciando minute analisi, si può dire che i tratti caratterizzanti di entrambi i lavoti sono la natuta assertiva dei temi, fortemente evidenziati da linee nette ed essenziali che talora
si riducono alla semplice ripercussione della nota, e la prevalenza dell’elemento timbrico-percussivo (impiego frequente di clusters, ad esempio), con conseguente mortificazione di quello melodico. È l’inizio di quel processo di emancipazione del suono e dell’abbattimento della frontiera fra il suono ed il rumoresche Barték compì indipendentemente ma parallelamente a Varèse con mezzi, obiettivi, significati diversi e però talora con risultati molto simili (il glissando dei tromboni nell’ Allegro che prelude all’Allegro molto del Concerto, che ricorda le sirene di Ionisation; l’impiego tema-
tico della percussione nell’ Andante del medesimo concerto). Uno dei saggi più stupefacenti della sottigliezza timbrica maturata da Bart6k in questi anni è il quarto brano della raccolta pianistica All’aria aperta (anch’essa del 1926) che reca l’emblematico titolo di Musica della notte. Sul continuum sonoro di un gruppetto che si raggruma in un cluster di minime — scansione iso-
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crona di un tempo quasi fermo - sono evocati gli impalpabili suoni notturni: clusters ribattuti, quasi gridi di misteriosi animali; arabeschi evanescenti come bagliori improvvisi; echi di arcane melodie provenienti da epoche remotissime. E la trasfigurazione sonora, effimera come una sensazione improvvisa, della Musica della notte, che in questa fase centrale della produzione bartokiana viene ad occupare stabilmente il posto del tempo lento. Movimento convulso e stasi pressoché totale, clangore e fruscio appena percettibile sono gli aspetti complementari, la diastole e la sistole di questo momento visionario della creazione musicale bartokiana; crea-
zione intesa nel senso più profondo del termine, come creazione del suono, esplorazione di possibilità timbriche ed espressive inattese, sperimentate con il complesso cameristico che aveva incarnato l’ideale di compostezza classica — il quartetto d’archi -, oppure con erserzbles strumentali in cui la percussione assume un ruolo prevalente (la Musica per archi, celesta e percussione, 1936, e la Sonata per due pianoforti e percussione, 1937). La sonorità
degli strumenti ad arco viene esplorata in tutta la sua gamma espressiva mediante l’impiego di una gran varietà di colpi d’atco (col legno, sulla tastiera, a punta d’arco, sul ponticello, pizzicato,
martellato) o di effetti particolari (glissando, ad esempio). È un equivalente “barbarico” della percussione pianistica nell’àmbito del quartetto d’archi e raggiunge, nei movimenti veloci in special modo, momenti di trascinante vitalismo sonoro: ad esempio, la
seconda parte (e la simmetrica coda finale) del Terzo Quartetto (1927) o il delicatissimo Allegretto pizzicato del Quaito (1928) o il vivacissimo Scherzo (“Alla bulgarese”) del Quinto (1934) in ritmo asimmetrico
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bi 348 di ada i . soa fabipipye L’immobilità estatica dei
movimenti lenti e la frenesia ritmica di quelli veloci sono senza dubbio gli aspetti più immediatamente percepibili di queste opere, studiatamente controllate da una struttura formale elaboratissima: quasi Barték intendesse salvaguardarsi da uno scatenamento incontrollato del proprio inconscio rafforzando l’aspetto più razionale dell’edificio sonoro, la forma. Già il Terzo Quartetto presenta una struttura simmetrica, in quattro movimenti, dei quali gli ultimi due sono come un riassunto variato dei primi due. Ne deriva lo schema seguente: A (Prima parte-Moderato), B (Seconda parte-Allegro), A' (Ricapitolazione della prima parte-Moderato), B' (Allegro molto).
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Con il Quarto Quartetto Barték introduce una forma speculare che impiegherà frequentemente in questo periodo centrale della sua produzione e che rappresenta l'ideale bartokiano di perfezione formale, l'equivalente della forma-sonata classica. Dei cinque movimenti di cui si compone il quartetto, il terzo funge da perno e gli ultimi due traggono il materiale tematico dai primi due, ma in successione inversa, il quarto dal secondo, ed il quinto dal primo, sicché ne risulta la struttura seguente: A (Allegro), B (Prestissimo, con sordina), C (Non troppo lento), B’ (Allegretto pizzicato), A’ (Allegro molto). ; Dall'immagine speculare, a semicerchio, che la forma suggerisce,
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è stata denominata “forma a ponte» o “forma ad arco”. Se si tiene presente che i temi dei due movimenti estremi sono tutti riconducibili ad un’unica cellula curvilinea di sei note (si-do-reb-do-si-sib)
tramite inversioni, espansioni intervallari di vario tipo, ci si può render conto della concisione e dell’essenzialità espressiva raggiunta da Barték. Il Quinto Quartetto, sempre in “forma ad arco”, dispone però diversamente i tempi lenti e quelli veloci, sicché dalla medesima struttura formale deriva all’opera, ancor prima che dai contenuti, un diverso significato: A (Allegro), B (Adagio molto), C (Scherzo), B' (Andante), A’ (Finale). In questa meticolosa ricerca
di equilibri sonori — che ha un equivalente nella varietà di strutture derivate dai maestri barocchi dalla diversa concatenazione dei movimenti — si esprime il classicismo bartokiano: l’organizzazione di una materia sonora così vitale che, se non viene imbrigliata in
una forma complessa; quasi organismo vivente, tende ad affermare un proprio carattere, rendendo il compositore irresponsabile del proprio atto creativo. Ed ecco allora Barték stringere questa materia sonora in una rete di rapporti numerici sia geometrici (la sezione aurea) sia aritmetici (la serie di Fibonacci), che realizzano strutture aperte e dinamiche, come ha dimostrato, in studi analitici molto
profondi, il musicologo Ern6 Lendvai. Altro tratto caratteristico di questi tre Quartetti è il frequentissimo ricorrere dei procedimenti fugati e a canone; mai canoni e fughe in senso stretto, ma libera scrittura contrappuntistica. Incastonato fra il Quarto ed il
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Quinto Quartetto, il Secondo Concerto per pianoforte (1930-31) è
un’opera che contiene embrionalmente tanto la dialettica fra il pianoforte e la percussione della Sonata per due pianoforti e percussione,
quanto la classica compostezza del Concerto per orchestra, di cui anticipa, nei due tempi estremi, le fanfare degli ottoni. Un'opera, questa volta vocale, in cui uno schema classico —- la
cantata bachiana - interpretato in chiave bartokiana, sortisce un risultato affatto originale, è la Cantata profana (1930). Il soggetto, tratto da una ballata popolare rumena, maschera, sotto il simbolo dei nove figli di un cacciatore trasformati in cervi per magia e del loro rifiuto di riassumere la natura umana, una doppia allegoria: la ribellione contro il reazionario governo Horthy, succeduto a quello comunista di Béla Kun, ed il mistico abbandono dell’uomo
nel grembo della natura. Paragonare uno dei tre episodi della Cartata con uno dei tre cori “epici” di Janétek significa verificare la distanza stilistica e spirituale che intercorre fra il realismo janacekiano ed il classicismo bartokiano. Barték raggiunse l’apice delle sperimentazioni sonore con la Sonata per due pianoforti e percussione e la Musica per strumenti a corde, percussione e celesta, che si possono intendere come l’esten-
sione dello strumento e del complesso strumentale prediletti dal compositore: il pianoforte ed il quartetto d’archi, raddoppiato quest'ultimo nella Musica per strumenti a corde, percussione e celesta
- come il pianoforte nella Sonata — e potenziato con l’introduzione dei contrabbassi. L'equilibrio e l’amalgama sonoro delle due opere derivano principalmente dalla presenza, discreta maspressoché costante, della percussione che, con i suoi interventi in tempo o in controtempo, con le risposte antifoniche al discorso strumentale, si inserisce come principio vitale, come mezzo agglutinante
degli altri eventi sonori: anche nello spazio deve occupare una posizione centrale con i due strumenti (o gruppi strumentali) disposti ai lati per accentuare l’effetto stereofonico. Quando poi assume una funzione solistica, i risultati sono sorprendenti: è l’ipnotica ripetizione della stessa nota sullo xilofono a valori successivamente ridotti con effetto di cimzbalom seguita da glissandi e trilli dei timpani con cui inizia l Adagio della Musica per strumenti a corde, percussione e celesta, oppure la poliritmia dell’inizio del Lento ma non troppo della Sorata, o ancora, nella medesima Sonata, l’esaltante
scatto melodico dello xilofono sull’ostinato del pianoforte con cui
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inizia l’ultimo movimento, Allegro non troppo. Anche in questi due lavori lo sviluppo delle cellule tematiche, spesso in forma imitata, è rigorosamente inserito in strutture simmetriche complesse. L’Andante tranquillo con cui inizia la Musica per strumenti a corde, percussione e celesta, ad esempio, è una fuga a sei voci con le varie entrate a distanza di una quinta superiore o inferiore dalla prima nota del tema:
mi la-mi-re-si-sol-fat = la 77 re
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Dopo un’improvvisa imitazione a canone della testa invertita del soggetto e un episodio caratterizzato dal timbro argentino dalla celesta, le voci si dileguano improvvisamente ed il movimento termina all’unisono. Si conclude con queste due opere il periodo “esplorativo” dell’iter compositivo barttokiano. A suggello di questa prodigiosa stagione compositiva, Bart6k terminò in quegli anni
(nel 1937) la raccolta pianistica dei Mikrokosmos, 153 pezzi in ordine di difficoltà progressiva, che rappresentano il Gradus ad Parnassuri del pianismo contemporaneo, educando i pianisti non solo all'impiego di nuove tecniche ma anche alla comprensione di nuovi linguaggi. Con i Contrasti per biolino, clarinetto e pianoforte (1938), il
Secondo Concerto per violino e orchestra (1937-38) ed il Divertimento per orchestra d’archi (1939), Barték entra nel suo “terzo stile”. Caratteristiche generali di quest’ultima stagione compositiva sono lo smorzamento delle sonorità più accese, sfavillanti, percussive, visionarie del periodo precedente ed il recupero del tematismo; i valori “di superficie” riemergono, ma sotto una nuova vernice in cui si mescolano le esperienze maturate in un ventennio di intensa sperimentazione. Per fare un esempio, le sei variazioni dell’Andante tranquillo del Concerto sono concepite nello spirito della variazione “ornamentale”, con fluenti arabeschi violinistici che pongono in luce il virtuosismo del solista, mentre i raffinatissimi amalgami timbrici con il frequente ricorso alla percussione emanano direttamente
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dalla Musica per strumenti a corde, percussione e celesta e dalla Sonata
per due pianoforti e percussione. Il Sesto Quartetto (1939), sebbene composto nel medesimo anno del Divertimento, si collega stilisticamente ai lavori del periodo precedente, ed in particolare ai tre Quartetti dell'età matura, differenziandosene, però, nel tono espressivo. Mentre quelli, come si è visto, erano animati dal contrasto fra la frenesia dei tempi veloci e l’estatica fissità dei tempi lenti, qui predominano invece le tonalità neutre, sfocate, una medietà espressiva che incupisce anche i movimenti centrali (Marcia e Burletta), la cui natura ritmica avrebbe il cémpito di ritemprare lo spirito dopo i densi contrappuntismi dei due movimenti estremi. Nell’Animato molto agitato, interno al movimento di Marcia, gli accordi pizzicati della viola sui tremoli dei violini risuonano come arpeggi di una lugubre serenata, mentre gli sghembi ostinati ritmici della Burletta, in cui ricorrono anche sfasature in quarti di tono, ricordano il satanismo dell’ Histozre du soldat di Stravinskij. Grava poi sull’intero quartetto un contorto periodo (Mesto), che ritorna come un memento mori davanti ad ogni movimento e che, sviluppato polifonicamente nell’ultimo, conclude il lavoro in un’angoscia ed una tristezza infinite. Il primo lavoro composto dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, il Concerto per orchestra (1943), è il capolavoro del classi-
cismo bartokiano. Tutti gli stilemi caratteristici di Barték sono presenti ma, quasi fossero stati smussati delle loro angolosità, assumono significati nuovi ed inattesi: i temi, modellati sul disegno popolare, immessi in una struttura
maggiormente diatonica,
assumono un’insospettata fisionomia classica pur senza perdere la naturale vitalità; la forma “a ponte” è mantenuta ma, spogliata dei riferimenti tematici e solamente utilizzata come schema di concatenazione dei movimenti secondo la tipologia del Quarto Quartetto (cioè con il tempo lento centrale), acquista le dimensioni ed il significato di una struttura di concerto barocco. Lo stile concertante (donde la denominazione di “concerto” in luogo di “sinfonia”) investe l’intera opera per la mobilissima orchestrazione che di volta in volta pone in luce le qualità virtuosistiche delle varie sezioni orchestrali: il velocissimo fugato dei violini nel Presto del Finale; la fanfara iniziale delle trombe nell’Introduzione; il “Gioco
delle coppie” (così si intitola il secondo movimento) costruito su una ingegnosissima trovata: i fiati si avvicendano a coppie con rad-
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doppi melodici a distanze intervallari diverse (i fagotti a seste, gli oboi a terze, i clarinetti a settime, i flauti a quinte, le Lonbo in sordina a econo) per interpretare leggiadri motivi di danza, con la grazia di uno scambio di dama. Un altro frizzo che insaporisce questo lavoro destinato a godere di una vasta popolarità è la citazione scherzosa del tema dell’invasione della Settimza Sinfonia di Sostakovié nell’“Intermezzo interrotto” la cui interruzione è appunto costituita dall’improvvisa comparsa di quel tema (allora popolarissimo negli Stati Uniti) che spezza la successione dei due temi principali. Gli ultimi due concerti (Terzo Concerto per pianoforte, 1945, e Concerto per viola, 1945), pervenutici entrambi incompleti (il primo manca dell’orchestrazione delle ultime 17 battute, mentre il secondo è solamente abbozzato in versione pianistica) ed entrambi riveduti e rielaborati da Tibor Serly, mostrano una chiara volontà di recupero dei valori lineari; prova ne sia che anche la parte del pianoforte solista sovente si assottiglia a due soli parti melodiche. In tutti e due i concerti, il movimento centrale è un Adagio religioso. Particolarmente suggestivo quello del Concerto per pianoforte, che sembra volersi quasi ricollegare allo spirito — e, nel tema introduttivo, persino alla lettera — della Canzona di ringraziamento del Quartetto op. 132 di Beethoven; nella sezione centrale il gatteggiamento dei legni —- che dopo la solennità del corale introduttivo sembrano animarsi di guizzi animaleschi — si potrebbe accostare, per continuare nell’analogia, ai trilli ed agli arabeschi violinistici delle sezioni pari del Molto adagio beethoveniano. Rievocazioni che non debbono interpretarsi soltanto come commoventi, fin strazianti testimonianze di una nostalgia dell'Europa e dei suoi valori culturali, seguìta al brusco, inevitabile sradicamento, quanto come la sempre più evidente ‘emergenza di quella componente classica, di quei legami con una Mu célta rivissuta attraverso un filtro stilistico personalissimo, che Barték non aveva mai reciso, anche nei momenti di più acceso sperimentalismo folclorico.
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4 e MUSICA E POLITICA CULTURALE
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Il primo decennio successivo alla Rivoluzione d’ottobre fu caratterizzato da un vivacissimo dibattito culturale che, stimolato dal-
l'euforia rivoluzionaria e non ostacolato dal partito, diede vita ad un rilevante numero di movimenti artistici. Per comprendere il senso dei fermenti che animarono la cultura sovietica postrivoluzionaria bisogna tener presente la nuova situazione in cui si vennero a trovare l’intellettuale e l’artista in séguito alla Rivoluzione. Innanzitutto l’improvvisa sostituzione del pubblico di aristocratici e di borghesi con uno nuovo, formato dalle masse popolari perennemente escluse dalla fruizione dei beni culturali ed ora invece sollecitate ad appropriarsene con un grandioso dispiegamento di mezzi propagandistici, finanziari ed umani. Se proiettato su questo sfondo, l'intenso dibattito culturale di questo decennio assume il significato di appassionata ricerca di una nuova estetica che potesse interpretare lo spirito della Rivoluzione tenendo conto, ad un tempo, del nuovo pubblico cui ora l’artista si rivolgeva. In campo letterario, oltre al futurismo, che era divenuto quasi
l’arte ufficiale della rivoluzione per la popolarità del suo principale esponente Vladimir Vladimiroviè Majakovskij (1893-1930) e per la preferenza accordatagli dal primo commissario sovietico alla pubblica istruzione Anatolij Vasil’evié Lunatarskij, sorsero numerosi altri movimenti più o meno (o affatto) politicizzati: il Prolet-
kult (abbreviazionedi Cultura Proletaria, sciolto nel 1923 in quanto accusato di deviazionismo ideologico) che nel 1917-20 svolse un’intensa attività di proselitismo artistico e di stimolo culturale tra i proletari e le categorie sociali non culturalizzate, e le sue diramazioni, i movimenti Fucina di Mosca e Cosmista di Pietrogrado; il gruppo Ottobre, fondato verso la fine del 1922, che prese il posto del disciolto Proletkult e che dalle colonne della rivista «Na Postu» (Di guardia) si batteva per una letteratura proletaria e condannava la collaborazione con i «compagni di strada» (così in un saggio del 1923, Letteratura e rivoluzione, Trockij aveva chiamato gli scrit-
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MUSICA
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tori non comunisti); il LEF (Fronte Letterario di Sinistra), com-
posto da ex futuristi, che nel biennio 1923-24 intese rilanciare la poetica futurista adattandola alla nuova situazione postrivoluzionaria. Ed ancora: i costruttivisti, con un programma affine a quello del LEF ma più attento all'aspetto formale; la confraternita dei Fratelli di Serapione, sorta nel 1921, formata da dodici “compagni di strada” disimpegnati politicamente — espressione tipica del clima liberistico all’epoca della NEP (Nuova Politica Economica).
Anche in campo musicale il dibattito culturale, animato sostanzialmente da due contrastanti posizioni ideologiche, fu vivace. Da un lato vi erano i sostenitori di una cultura musicale proletaria, dapprima intesa, secondo gli ideali del Proletkult come espressione spontanea delle masse popolari. Dopo lo scioglimento del Proletkult fu fondato un nuovo gruppo, la APM (Società dei marxisti proletari, ribattezzata RAPM, cioè Società russa dei marxisti proletari, nel 1929) il cui scopo principale era la divulgazione e la propaganda dell'ideologia marxista-leninista; ostile alla musica contemporanea ed ai classici, propugnava un’estensione del principio dell’egemonia del proletariato al campo musicale. D'altro lato vi erano i fautori del modernismo (Mjaskovskij, Beljaev, Sabaneev, Lamm) che nel 1923 fondarono la sede moscovita dell’ASM (Società
per la musica contemporanea) e sostennero la causa del rinnovamento linguistico dalle colonne della rivista «Musica contemporanea» (1924-29); promossero inoltre concerti di musica contemporanea e prime rappresentazioni di opere importanti (il Wozzeck
di Berg, ad esempio, rappresentato era attiva una vivacissima sede dell’ chè ’ASM divenne un traît d’union gruppi, quali ’Orkimd ed il Prokoll entrambi di ispirazione proletaria
nel 1927 a Leningrado, ove ASM diretta da Asaf’ev) cosiccon la cultura europea. Altri — sorti entrambi nel 1925, ed — assunsero un’importanza
minore; stanno tuttavia a dimostrare, anche nel campo musicale,
una molteplicità di posizioni ideologiche ed un dibattito culturale articolato. Anche se in àmbito musicale non si può circoscrivere un movimento orientato in senso modernista paragonabile per organicità al futurismo in àmbito letterario, diversi fatti pongono in evidenza il desiderio di sperimentazione di quegli anni: l'invenzione del #éréminvox, ad esempio, uno strumento musicale elettronico ideato
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E POLITICA
CULTURALE
IN
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nel 1920 da uno scienziato russo di origine francese, Lev Teremin; il Persimfans (Piccolo Complesso Sinfonico), un’orchestra senza direttore, attiva per un decennio (1922-32) a Mosca. Oppure ancora: l’interesse, particolarmente vivo negli anni Venti, per i quarti di tono, che fece sorgere una società specifica (la Società per la musica a quarti di tono, fondata dal nipote di RimskijKorsakov, Georgij Mihajloviè, nel 1923); la tendenza “macchinista” il cui prodotto più famoso, le Fonderie d’acciaio (1926) di Aleksandr Vasil’'evié Mosolov (1900-1973), suscitò enorme interesse
in URSS ed all’estero; infine le sperimentazioni seriali di Nikolaj Roslavet (1881-1944),
Il principio della «libera competizione dei vari gruppi e delle varie correnti», affermato esplicitamente in una risoluzione del partito del 1° luglio 1925, fu dunque la linea guida della politica culturale durante i primi dieci anni successivi alla Rivoluzione, in piena coerenza con il liberismo economico del settennio della NEP (1921-27). Il quinquennio successivo fu invece caratterizzato da una brusca inversione di tendenza. Affermatasi con l'emarginazione politica degli oppositori (Trockij, che sosteneva la tesi della «rivoluzione permanente», primo fra tutti, quindi Zinov’ev, Kamenev e Bucharin) la teoria staliniana del «socialismo in un solo paese»
(la possibilità, cioè, di fondare un socialismo sovietico prescindendo da una rivoluzione internazionale), tutte le energie del paese, com-
prese quelle intellettuali, furono utilizzate al fine di perseguire gli obiettivi economici fissati dai diversi piani quinquennali varati allo scopo di elevare l'URSS al livello delle nazioni capitalistiche sia sotto l'aspetto industriale sia sotto quello agricolo. In campo artistico e letterario si verificò una vera e propria “consegna sociale”, una totale subordinazione, cioè, della libertà dell’artista alla politica culturale del partito. Tale consegna sociale si attuò nello spazio di un quinquennio — in significativa coincidenza con la realizzazione del primo piano quinquennale (1928-32) — durante il quale la RAPP (Associazione Russa degli Scrittori Proletari), e quindi anche la RAPM, assunsero una posizione monopolistica e vieppiù intransigente nei confronti delle tendenze moderniste, e si concluse il 23 aprile 1932, quando una risoluzione del partito abolì drasticamente le correnti sostituendole con associazioni di categoria che, nel campo musicale, assunsero la denominazione di Unioni dei Compositori Sovietici, con sedi nelle principali città. La nuova
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politica culturale, sancita in occasione del I Congresso panrusso dell’Unione degli scrittori convocato a Mosca nell’agosto del 1934, trovò nel principio del “realismo socialista” il canone estetico che avrebbe condizionato la cultura sovietica negli anni a venire. Frutto di un’elaborazione concettuale cui parteciparono i principali esponenti dell’intellighenzia sovietica, Gor‘kij i primis, il principio del “realismo socialista” fu definito da Zdanov, in occasione dell’anzidetto congresso pantusso, con termini piuttosto vaghi: come metodo, cioè, per cui «alla veridicità ed alla concretezza storica
della rappresentazione artistica si devono accompagnare la trasformazione ideale e l'educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo». In realtà, il suo significato riceve una chiarificazione da alcuni concetti-chiave ricorrenti nel medesimo discorso, quali: la
condanna del pessimismo dell'ideologia borghese e la necessità di infondere alle opere artistiche un nuovo genere di ottimismo rivoluzionario e di ricavare il contenuto dalle quotidiane conquiste proletarie; l’asservimento della letteratura alla finalità dell’edificazione socialista (emblematica la definizione degli scrittori sovietici quali
«ingegneri di anime»); l'esaltazione nazionalista della letteratura sovietica; la funzione di stimolo che l’opera d’arte deve assolvere in quanto ispirata ad un nuovo tipo di idealità romantica definita «romanticismo rivoluzionario». La presenza di uno dei princìpi contrari al realismo socialista (pessimismo, individualismo, moderni-
smo e simili) venne a condizionare il giudizio critico sull’opera d’arte ed a farla rientrare nella categoria delle opere “formaliste” (il termine, qui usato in senso negativo ed esecratorio, è tratto da un’im-
portante corrente critica affermatasi nella letteratura russa tra il 1914 ed il 1930), quindi ad emarginarla o a motivarne il ritiro dal circuito culturale. Mediante una trasposizione dei princìpi applicati nei confronti delle opere letterarie, il canone del realismo socialista fu esteso anche al campo musicale, ed anche alla musica fu imposta una funzione programmatica. Le conseguenze più rilevanti
furono la netta predilezione accordata ai generi scenici (opera, balletto, musiche per film), celebrativi (cantate, sinfonie nello spirito del poema sinfonico) ed alla musica a programma in quanto maggiormente idonea a servire da veicolo di un contenuto ideologico; il rifiuto delle «influenze borghesi» (cioè di ogni genere di modernismo linguistico, ed in particolar modo della dodecafonia, che divenne un vero e proprio diabolus in musica), delle «deviazioni
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naturalistiche» (bruitismi di varia natura) e della “tendenza formalista” in genere, intesa come «rifiuto dell’eredità classica... del carattere popolare della musica... di servire il popolo». Come nel campo letterario, così anche in quello musicale ogni deviazione ideologica fu punita con ammonimenti, reprimende, censure, emargi-
nazione culturale. Il grandioso apparato che era stato creato per un’emancipazione culturale delle masse si trasformò in senso prioritariamente propagandistico ed il rapporto fra politica culturale ed espressione artistica si semplificò fino a raggiungere l’identità. I periodi in cui il partito strinse maggiormente la morsa censo-
ria nei confronti della produzione artistica e letteraria coincidono con gli anni delle repressioni staliniane: il periodo delle grandi purghe (1936-38) e la cosiddetta “età di Zdanov” (Zdanov$èina), il
triennio postbellico (1946-48) in cui, in concomitanza con il clima di “guerra fredda” venutosi a creare in campo internazionale, l’allora segretario del Comitato centrale Andrej Aleksandrovié Zdanov (1896-1948) lanciò un'offensiva sull’intero fronte ideologico
e culturale, accentuando gli aspetti antioccidentali, anticosmopoliti e nazionalisti impliciti nella dottrina del realismo socialista. In campo musicale due furono gli interventi del partito che suscitarono maggior clamore: il primo fu un articolo comparso sulla «Pravda» del 28 gennaio 1936 intitolato Confusione anziché musica, in cui veniva pesantemente criticata l’opera Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Sostakovié rappresentata per la prima volta il 22 gennaio 1934 e quindi replicata con grande successo gli anni successivi prima del suo ritiro; il secondo, invece, che fa parte del-
l'offensiva a largo raggio sferrata da Zdanov è una risoluzione del partito del 10 novembre to dall’opera La grande amicizia (1947) di per bollare di “formalistno” i più importanti (Sostakovià, Prokof'ev, Mjaskovskij, Aram
nel triennio 1946-48, 1948 che trasse spunVano Il'iù Muradeli, compositori sovietici Khaèaturjan, Popov,
Kabalevskij, Sebalin), puntualizzare il concetto di realismo socia-
lista in campo musicale e servire da monito per gli altri compositori. Due mesi dopo la violenta reprimenda, in occasione del I Congresso dell’Unione dei Compositori, il precedente comitato direttivo fu sostituito da un altro alla cui segreteria generale si insediò stabilmente Tikhon Nikolaevit Khrennikov (1913-viv.). Con la morte di Stalin e l'affermazione della linea politica krusceviana consolidatasi a partire dal XX Congresso del PCUS e carat-
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terizzata, in campo ideologico, dalla condanna e dal rifiuto dell’eredità e del culto staliniano e, in politica estera, dal principio della coesistenza pacifica con gli USA ed i paesi capitalistici, ha inizio quella nuova stagione della storia postbellica dell’URSS che, dal nome di un breve racconto di Erenburg, venne chiamato “disgelo”. Note dominanti furono un allentamento del controllo burocratico ed una maggior disponibilità del partito ad accettare il principio del dibattito in campo culturale. Fulcro di tale dibattito continuò ad essere il realismo socialista, interpretato però più estensivamente, con caute aperture in senso modernista. In campo musicale i primi passi nella direzione di un ampliamento degli orizzonti estetici e creativi furono compiuti da Aram Khaéaturjan con un articolo intitolato Audacia creativa ed immaginazione, comparso sul numero del novembre 1953 di «Musica sovietica», in cui il compositore affermava l'esigenza di una maggior libertà dell’artista dal controllo del partito. Fu seguìto a pochi mesi di distanza dalla prima esecuzione della Decima Sinfonia di Sostakovié, l'equivalente musicale de I/ disgelo, e da un articolo (in «Musica sovietica», gennaio 1954) dello
stesso compositore, dal titolo eloquente di La gioia di cercare nuove strade. Il diverso orientamento ideologico ebbe inoltre riflessi retrospettivi su diversi lavori censurati durante l’epoca staliniana. Una risoluzione del partito intitolata Rettifica dell’erronea valutazione delle opere “La grande amicizia”, “Bogdan Khmel'nitskij”, e “Con tutto il cuore” riabilitò le tre opere (rispettivamente di Muradeli, 1947, Dan’kevié, 1951, e Zukovskij, 1951). Furono inoltre introdotti — o Linfiodar — nel repertorio concertistico e operistico importanti lavori un tempo esclusi (la Quarta Sinfonia e Lady Macbeth — reintitolata Katerina Ismajlova - di Sostakoviè, rispettivamente nel 1961 e nel 1962; La storia di un vero uomo e Semèn Kotko di Prokof'ev, entrambe cri 1960). Altro fartà rilevante fu l'abbandono dell’atteggiamento di intransigente chiusura nei confronti delle influenze occidentali. Oltre al riconoscimento della validità artistica e della liceità ideologica del linguaggio musicale di numerosi compositori occidentali degli anni Venti e Trenta (Hindemith, Barték, Stravinskij, Brit-
ten, Honegger, Poulenc, Milhaud, Orff, ad esempio), la riapertura degli scambi culturali con i paesi capitalistici rese possibili tournées di complessi e di solisti degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale nei cui programmi erano talora inserite opere “moderni-
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ste”. L'Unione dei Compositori, inoltre, organizzò per i soci audizioni discografiche di opere di autori moderni e contemporanei. Il riavvicinamento dell’Unione Sovietica al mondo occidentale culminò nel 1962 con la visita di Stravinskij in URSS, che fu ad un tempo un'occasione di ascolto e di conoscenza di una parte della sua produzione artistica ed un’importante testimonianza del mutato orientamento ideologico. L’aspetto maggiormente contraddittorio della politica culturale del “disgelo” fu l’atteggiamento tenuto al vertice nei confronti dei compositori sovietici della nuova generazione desiderosi di allargare il linguaggio tradizionale. Nonostante il categorico rifiuto dello sperimentalismo linguistico e delle nuove tecniche dell’avanguardia occidentale (dodecafonia, puntillismo, musica elettronica e concreta, eccetera) espresse dai vertici in occasione delle assise del-
l'Unione dei Compositori Sovietici e sui giornali (ad esempio da Sostakovié, in due articoli comparsi sulla «Pravda», rispettivamente del 7 dicembre 1960, L'artista del nostro tempo, e del 17 gennaio 1962, I/ compositore e la sua missione), nel corso delle medesime assise (II e III Congresso dei Compositori Sovietici) ed in altre occasioni fu affermata la necessità di accordare una maggior libertà espressiva alle giovani generazioni, purché nei limiti della tradizione e nel rispetto del canone, pur dilatato, del realismo socialista. Le difficoltà insite nel processo di destalinizzazione dopo un ventennio di intransigente dirigismo culturale spiegano solamente in parte i tentennamenti e le oscillazioni ideologiche dei vertici
riguardo ai fermenti di rinnovamento linguistico ed estetico. Un’altra causa, in particolar modo determinante nell’ultimo triennio dell’età krusceviana (1962-64), fu la crescente ostilità degli antagoni-
sti di Kru$éév nei confronti delle innovazioni da lui introdotte in campo economico (isovrfarchoz, ad esempio) e della politica estera (crisi cubana del 22-28 ottobre 1962). Anche la politica culturale e le caute aperture ideologiche furono messe sotto accusa costringendo la direzione del partito a ritornare sui propri passi. Non diversamente si spiegano incongruenze e ritrattazioni quali la conces-
sione di pubblicare la novella di Solzenitsyn, Una giornata di Ivan Denisovié, comparsa sul numero del novembre 1962 della rivista «Novij mir», in cui l’autore descrive la vita in un campo di lavori forzati ove egli spesso era stato internato all’epoca staliniana, e, d’altro canto, il ritiro temporaneo della Tredicesimza Sinfonia di
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Sostakoviè a motivo della denuncia dell’antisemitismo sovietico contenuta nel poema di EvtuSenko Babi Yar-già pubblicato e conosciuto anche oltrecortina— il cui testo era stato utilizzato nel primo movimento (Adagio) della sinfonia; oppure l’improvvisa impennata di Krus&év dell’8 marzo 1963 quando, con termini Zdanoviani, con-
dannò il modernismo nelle arti e dichiarò l’opposizione del partito all’estensione del principio della coesistenza pacifica al campo ideologico, cui fece séguito una riunione dei dirigenti dell’Unione dei Compositori durante la quale Khrennikov denunciò le degenerazioni in senso modernista di alcuni compositori. Nonostante i limiti politici ed ideologici, l’età krusceviana ebbe, nella cultura, l’insostituibile funzione di interpretare i dogmi indiscussi dell'ideologia sovietica da un angolo prospettico più ampio. La nuova éra inaugurata con le dimissioni di Kru$tév (14 ottobre 1964) e l'assunzione delle cariche di primo segretario del PCUS
e di primo ministro rispettivamente da parte di BreZnev e di Kossighin sarà caratterizzata da una recrudescenza del rigore censorio e dell’intransigenza ideologica — la cui prima manifestazione di rilievo fu l'arresto e la condanna ai lavori forzati di Sinjavskij e di Daniel (1965), imputati di aver pubblicato le loro opere all’estero sotto pseudonimo — e da una parallela estensione del fenomeno della “dissidenza” I termini “dissenso” e “dissidenza” sono stati riferiti negli anni Settanta ad ogni interpretazione ideologica, manifestazione culturale o artistica divergente da una linea ufficiale, e, nel caso specifico, dalla linea ufficiale del PCUS (e dei partiti comunisti dei paesi satelliti). “Dissenso” e non, ad esempio, “contestazione”,
perché, laddove quest’ultimo termine implica un’azione politica diretta contro un’istituzione o un’ideologia ed è stato attribuito a quelle forme di attività politica “alternativa” sorte nei paesi capitalistici occidentali verso la fine degli anni Sessanta, il termine “dissenso” richiama piuttosto l’idea di disaccordo, di scisma rispetto ad un’ortodossia quale èstata appunto la politica culturale ufficiale dei paesi dell'Est. E un termine estremamente ambiguo in quanto la comune denominazione di “dissenso” è attribuita a manifestazioni culturali talora di segno politico opposto: dalla dissidenza violentemente antimarxista, antisocialista, misticheggiante di Solzenitsyn, Safareviè e Malhinion al movimento per un socialismo “dal volto umano” e per un “comunismo democratico” di
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Medvedev, Egorov e di tutti quei dissidenti che avversano il totalitarismo sovietico e lo stalinismo ma non i princìpi del socialismo e del marxismo, con un’ampia gamma di posizioni intermedie. Negli spazi lasciati aperti dal contraddittorio atteggiamento della direzione musicale nei confronti del modernismo durante gli anni del disgelo è venuta maturando un’avanguardia sovietica che, con
le nuove recenti aperture della perestrojka, si è radicata in tutto il paese ed ha cominciato, nel corso degli anni Ottanta, ad essere conosciuta ed apprezzata anche nell'Europa occidentale. Compositori quali Edison Vasil’evié Denisov (1929-viv.), Sof'ja Asgatovna Gubajdulina (1931-viv.), Alfred Garrieviè Snitke (1934-viv.), ormai divenuti in patria capiscuola della Nuova Musica sovietica, stanno ottenendo crescenti favori anche in Occidente. E non sono che la parte emergente - segnatamente moscovita - di un iceberg grande quanto lo sconfinato territorio sovietico, recentemente (nel 1985) rivisitato da Luigi Pestalozza che ha fissato i momenti salienti del suo viaggio in una cronaca ricca di informazioni e molto partecipata (v. Bibliografia 4-10). Ciò che colpisce particolarmente in questa neoavanguardia sovietica globalmente considerata, è la disinvoltura con cui le acquisizioni sperimentali e avanguardistiche del Novecento si integrano con la tradizione, anche con quella del passato remoto, come avviene
ad esempio in buona parte della recente produzione di Snitke, con esiti che in Occidente sono stati etichettati come “neoromantici” C’è però una differenza fondamentale tra il neoromanticismo occi-
dentale e il neoavanguardismo sovietico: mentre il primo, infatti, è sorto in antagonismo all’avanguardia sperimentale come fenomeno postmoderno stimolato anche da palesi ragioni commerciali, il neoavanguardismo sovietico si innesta su quella matrice culturale (russa ancor prima che sovietica) che privilegia la comunicazione diretta, drammatica, passionale, rispetto a qualsivoglia apriorismo estetico o poetico: le sue premesse, non solo estetiche ma anche linguistiche, vanno ricercate in Sostakovié, e nell’ultimo Sostakoviè particolarmente. Una visione globale e sintetica del panorama della musica sovietica contemporanea ci è offerta da un recente articolo di una musicologa sovietica (Valeria Cenova) di cui sono riportati stralci significativi fra le letture (v. Lettura n. 6). La tormentata carriera artistica di Dmitrij Dmitrevic Sostakovié (Pietroburgo 1906 - Mosca 1975), vincitore di numerosi premi
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ufficiali e membro del direttivo dell’Unione dei Compositori Sovietici da un lato, vittima di pesanti censure e di violenti attacchi del partito dall'altro, racchiude in sé tutti i paradossi, le perplessità, le contraddizioni del compositore sovietico preso fra la morsa delle opposte istanze della libera estrinsecazione del proprio genio e degli imperativi estetici del regime. Questo conflitto che si verifica — è importante tenerlo presente — all’interno dell’ideologia socialista, si riflette, a livello di struttura musicale, con inesorabili cadute
di gusto laddove l’opera scade nella pura e semplice propaganda (Il canto delle foreste è emblematico a questo proposito) e con esiti di grandissimo valore estetico laddove la creatività ha la meglio sulle imposizioni burocratiche con cui venne a patti. La geografia di questa regione del compromesso in cui ha origine gran parte della produzione musicale di Sostakovié — dall'attacco alla Lady Macbeth in poi —- ha contorni e confini tutt'altro che netti. Anche all’interno del genere più esposto alle critiche e alle censure, dopo l’opera ed il balletto che Sostakovié aveva prudentemente abbandonato in séguito agli attacchi della «Pravda», e cioè la sinfonia, anzi specialmente in essa, le risposte del compositore alle pretese del regime sono tutt'altro che meccaniche. Dalla Quinta Sinfonia (1937) alla Quindicesima (1971) ed ultima è un’alternativa continua di con-
senso pieno e totale, di consenso concesso malvolentieri, di cauto dissenso, di assunzione del linguaggio romantico in conformità all’estetica di regime, di reminiscenze “costruttiviste”, eccetera. Questo carattere contraddittorio dell’arte musicale di Sostakovié, che la
rende così stimolante per la coscienza estetica occidentale salvandola, talora în extrerzis, dall’appartenenza ad una dimensione arti-
sticamente subalterna a quella dell’arte politica e celebrativa, è stato interpretato fino a tempi piuttosto recenti come risultato di un conflitto tra coscienza estetico-creativa ed aspettative politiche e fruitive: un dramma socio-politico ed un dramma della comunicazione artistica ad un tempo. Nei confronti dell’arte musicale di Sostakoviè ci si è posti, insomma, da un unico angolo visuale, con una restrizione del campo critico mai attuata per nessun altro compositore. Se è pur vero che
l’arte musicale di Sostakoviè fu influenzata moltissimo dagli eventi politici della storia sovietica e che in regime di controllo estetico la comunicazione musicale soggiace a fortissimi condizionamenti, è altresì vero che essa non è unicamente consacrata all’impegno
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civile ed all’occultamento, al mascheramento della sfera emotiva e spirituale privata sotto di quello, ma che l’uno e l’altro aspetto, sia pure in modo drammatico e contraddittorio, incidono a livello fantastico più profondamente attraverso una trasformazione delle componenti linguistiche e spirituali che si realizza all’interno del
processo creativo. Dentro di esso si nasconde una storia segreta, schiettamente e puramente di natura artistica, su cui la storia esterna esercita un suo potere di condizionamento e di trasformazione, ma agendo su certi nuclei che caratterizzano — quelli sì, veramente la concezione creativa di Sostakoviè. Se c’è una lune delle Merorie di Sostakovi&, raccolte da Solomon Volkov, si può certamente considerare veritiera, ed anzi assumere come monito critico per indagare la sua carriera creativa, è la seguente: «io ho la mia musica,
ed è parecchia, ed è in base ad essa che la gente dovrebbe giudicarmi». Perché è nella musica che si consuma un dramma che, prima ancora di essere politico e comunicativo, è poetico e creativo, in
un perenne conflitto tra la realtà e la fantasia, tra la vita e la morte della coscienza. Le scelte stilistiche di Sostakoviè, l’intensa drammaticità, lo burzour corrosivo, le sue lugubri estasi liriche, sono
i suoi mezzi di autodifesa artistica in un processo di progressivo rifiuto della realtà contingente per una realtà fantastica che si fa sempre più chiara ed attraente, conducendolo irresistibilmente al cuore della sua ricerca artistica, al suo nodo cruciale: un’esclusiva
e continua meditazione sul tema della morte quale atto finale, lucidamente disperato, di sopravvivenza creativa o spirituale. Il rappotto fra la propria coscienza artistica e la politica culturale sovietica fu tanto più problematico e travagliato per Sergej Sergeevié Prokof'ev (Soncovka, 1891 -Mosca, 1953), rientrato in
URSS alla fine del 1932 dopo un quindicennio trascorso in Europa e negli Stati Uniti,.e quindi protagonista solamente delle vicende dell’età staliniana dall’instaurazione del canone del realismo socialista alla morte (avvenuta lo stesso giorno di quella di Stalin). Anche in questo caso non sono però da considerarsi in senso univoco, cioè esclusivamente nei loro risvolti negativi, le difficoltà incontrate dal compositore nell’affrontare i generi sinfonico ed operistico secondo i canoni del realismo socialista, ma vanno anche
tenute in conto, ad esempio, le assonanze fra quella che Prokof‘ev definì la «tendenza lirica» della sua arte e le regressioni romantiche dell’estetica sovietica. Del resto non erano stati motivi di natura
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politica a sospingere Prokof'ev sulla via dell'Occidente quanto piuttosto il desiderio di affermazione personale e di poter continuare il suo lavoro compositivo in un clima meno arroventato dalle diatribe ideologiche che agitavano la cultura sovietica postrivoluzionaria; desiderio che venne tosto frustrato in quanto sia negli Usa sia in Europa era più il pianista che non il compositore ad attrarre l’interesse di pubblico e di critica, e anche perché le difficoltà finanziarie lo obbligavano ad effettuare continue tourmées. Se a ciò si aggiunge l’incomprensione della critica che più di una volta accusò di “bolscevismo” le asperità armoniche e timbriche di quegli anni, si può comprendere quanto peso ebbe sulla decisione di ritornare in patria l’entusiastica accoglienza che i connazionali gli tributarono nel 1927, in occasione del primo viaggio in Urss. Sicché non furono ancora ragioni prioritariamente politiche a convincere Prokof'ev al rientro, quanto piuttosto una sincera nostalgia per la sua terra, oltreché la “normalizzazione” della politica culturale in corso in quegli anni che sembrava promettere quella stabilità e quella tranquillità che egli andava cercando. Insieme a Sostakoviè e Prokof'ev un certo numero di compositori ha condiviso la leadership della musica sovietica senza tuttavia approdare quasi mai a risultati estetici altrettanto rilevanti e tributando un ossequio molto maggiore ai canoni ufficiali: Aram Il’ié Khaéaturjan (1903-1978) il cui folclorismo e la cui facile comunicativa non gli impedirono di incappare assieme ai due più illustri colleghi nelle reprimende zdanoviane; Dmitrij Borisovié Kabalevskij (1904-1987), Vissarion Jakovlevi& Sebalin (1902-1963)’e Nikolaj Jakovlevit Mjaskovskij (1881-1950) il più prolifico sinfonista sovietico, autore di ben 27 Sinfonie, e Tikhon Khrennikov le cui doti politiche, che gli permisero di mantenere ininterrottamente il posto
di segretario generale dell’Unione dei Compositori dal procelloso 1948 (e di Primo segretario dal 1957) fino al 1974, superano senza
dubbio quelle musicali. Si è scelto come criterio di sistemazione della materia quello dei generi musicali, valido specialmente per il periodo preso in esame, fino alle soglie della neoavanguardia. Quando i tempi saranno maturi per sistemare storicamente que-
st'ultimo periodo, bisognerà fare i conti con le tendenze attuali: la fusione tra i generi e la corrente multimediale (v. Lettura n. 6). Si è inoltre privilegiata l’opera di Prokof'ev e di Sostakoviè la cui
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lettura in filigrana permette di approfondire il significato della frattura storica creatasi tra il mondo occidentale e quello sovietico dopo la rivoluzione bolscevica.
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L’opera divenne tosto, per le intrinseche qualità spettacolari e didascaliche, uno dei generi prediletti sia dal nuovo pubblico sia dalla nuova dirigenza politica postrivoluzionaria. Oltre al repertorio ottocentesco, russo ed occidentale, ancor prima che i compositori si impegnassero nella fondazione di un’opera sovietica, la tematica rivoluzionaria fu portata sulle scene mediante una semplice riscrittura dei libretti che trasformò la Tosca ne La battaglia della Comune, Les Huguenots ne I decabristi, e Una vita per lo Zar in Falce
e martello. Si può considerare come anno di nascita dell’opera sovietica il 1925, con la rappresentazione de I decabristi di Zolotarév, La rivolta delle aquile di Pastenko e Per Pietrogrado rossa di Gladkovskij e Prusak, tutte di argomento storico-rivoluzionario, d’ora in poi principale fonte di ispirazione per gli operisti. La critica occidentale considera queste opere e quelle analoghe composte nel quinquennio successivo (La sortita, 1930, di Potocki; I/ figlio del sole, 1929, di Vasilenko, Zagrzuk, 1930, di Krejn) più o meno alla stessa
stregua; nulla più, cioè, che testimonianze storiche scarsamente rilevanti quanto a linguaggio musicale (sostanzialmente russo-ottocentesco, con l’inserzione di. “canti di massa”) ed a caratterizzazione
dei personaggi. Due tuttavia vanno ricordate per il tentativo compiuto dai loro autori di conciliare la tematica rivoluzionaria con up linguaggio più moderno: I/ ghiaccio e l’acciaio (1930) di Desevov, che rappresentava in modo anticonvenzionale la vita di Pietrogrado al tempo della rivolta del 1921 per mezzo di personaggi a metà strada tra il simbolo e la realtà e in cui ricorrono anche clusters pianistici e rumori “naturalistici”, e Vento del Nord (1930) di Knipper, che traeva invece il soggetto da un episodio della guerra civile (l’assassinio di ventisei commissari bolscevichi a Baku) ed in cui il compositore si servì di un recitativo pressoché continuo tacciato dai critici sovietici — e però anche da diversi critici occidentali — di banalità e monotonia.
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Mentre i futuristi avevano interpretato in campo letterario e
teatrale il principio della rivoluzione come una denuncia sistematica del luogo comune linguistico ed ideologico, la satira, anche negli anni in cui era ancora tollerata, entrò raramente a far parte dei princìpi ispiratori dell’opera sovietica, e, tranne isolati tentativi di dar vita ad un teatro popolare di carattere satirico (Zar Massimiliano di Pastenko), il motivo etoico-celebrativo prese di gran lunga il sopravvento. L’unica opera fervente degli ardori modernisti e della pungente carica satirica di certo teatro majakovskijano (La cimice, Il bagno) è Il naso (1930) di Sostakovié. Tratto
dall'omonimo racconto di Gogol’ (contaminato però dal librettista Prejs —- e da Zamjatin e Jonin che con lui collaborarono - con situazioni e personaggi tratti da altri lavori dello stessa, autore) l’opera, anche se estrapolata dal monotono panorama contemporaneo, presenta caratteri di eccezionalità. Sotto il profilo musicale, innanzitutto, per la personalissima elaborazione di formule linguistiche dell’avanguardia europea (Kfenek, Hindemith, Stravinskij, Prokof’ev, Berg) frantumate in un organismo orchestrale mobilissimo ove la deformazione del timbro strumentale raggiunge talora effetti grotteschi; quindi per l’impiego di una vocalità stravolta da forzature oltre la gamma naturale e quasi mai elevata a dignità lirica ma bloccata su uno stadio mediano fra canto e recitazione. L’irrequietezza della parte vocale e di quella orchestrale, fondendosi con una struttura drammatica movimentata dall’avvicendarsi di un gran numero di personaggi sulla scena, comunica una conci-
tazione febbrile che interpreta perfettamente gli isterismi e le diaboliche storture di una società governata da un mostruoso apparato burocratico. Tra gli episodi più significativi si segnalano: la Iv scena del I atto, ambientata nella cattedrale di Kasan, con un
coro atonale di fedeli in sottofondo, che rende ancor più drammatica la supplica di Kovaljoff al Naso, ivi presente in veste di consigliere di stato; il canone ad otto voci di servitori ed impiegati che declamano altrettanti annunci nella redazione del giornale (II atto, scena v); le convulse scene di gruppo alla stazione della posta (III atto, scena vm), ai magazzini ed al parco oltre ai vari intermezzi, fra cui memorabile quello esclusivamente percussivo fra la seconda e la terza scena del I atto. La successiva (ed ultima) opera di Sostakoviè, terminata a soli due anni di distanza dal Naso, nel periodo 1930-32, mostra pro-
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fondi mutamenti nella concezione drammatica del compositore. Se nel Naso l'identità dei personaggi è soffocata dalla frastornante girandola di situazioni assurde, nella Lady Macbetb del distretto di Mzensk, definita dallo stesso compositore una «tragedia satirica», vi è una netta distinzione tra la protagonista che, pur macchiandosi di un triplice omicidio, è l’unico personaggio positivo — «un raggio di luce nel regno delle tenebre» la definì lo stesso Sostakoviè — e tutti gli altri, mossi esclusivamente da fini egoistici. L’atteggiamento satirico nella Lady Macbeth non è così esplosivo come nel Naso (seppure non manchino episodi grotteschi: il famoso intermezzo seguente il m quadro, in cui glissandi di trombone alludono all’amplesso di Katerina e Sergej, accusato di «pornofonia» e poi abolito nella riedizione dell’opera del 1962; la ridicolizzazione dei poliziotti nella vi scena del III atto, già sperimentata nel Naso) ma si esprime, nel corso dell’intera opera, attraverso un sapientissimo uso di melodie e sonorità distorte per evidenziare situazioni e comportamenti falsi e mendevoli. Katerina è invece caratterizzata da accenti lirici ed accorati, ed il fatto che i suoi interventi
siano per lo più in forma di monologo accentua l’isolamento della protagonista. Come già nel Naso, anche nella Lady Macbetb intermezzi inseriti fra varie scene hanno la funzione di creare in termini sonori l'atmosfera della scena successiva preannunciandone il carattere: memorabile, tra le due scene del II atto, l’estesa passacaglia che dal grave all’acuto coinvolge l’intera orchestra. Il responsorio tra il vecchio forzato ed il coro dei condannati, che conferisce all’ultima scena, in cui si consuma il dramma di Kate-
rina, un tono cupo ed oppressivo, riconnette poi la Lady Macbeth alla tradizione operistica russa di ascendenza musorgskijana. Rappresentata con successo per due anni prima di essere severamente censurata e ritirata,l’opera dimostra che, ancor prima della codificazione del principio del realismo sonlalistai Sostakoviè stava elaborando una personale concezione drammatica caratterizzata da un impiego critico — direi quasi “censorio” — di certi tratti stilistici della tradizione occidentale, e da un realismo inteso come siste-
matica denuncia delle falsità (non importa se borghesi o feudali) e come emergenza di ciò che le apparenze nascondono: realtà intesa come verità, insomma. Il processo di maturazione, in campo operistico, fu bruscamente interrotto dalle censure dell’epoca staliniana
e Sostakovié, non scorgendo soddisfacenti soluzioni di compro-
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messo, preferì continuare a percorrere il suo iter compositivo trasfondendo al genere sinfonico l’intensa drammaticità delle sue opere. Anche dopo il “disgelo”, quando la sua seconda opera fu riabilitata e ricomparve sulle scene con il titolo mutato in Katerina Ismajlova, tranne una commedia musicale (Mosca, quartiere Ceré-
muski, del 1958), non portò a compimento nessun'altra opera: né I giocatori, da Gogol’, iniziata durante la seconda guerra mondiale e abbandonata all’ottava scena, né un’opera tratta da I/ monaco nero di Cechov, che rimase allo stadio progettuale. Toccò all’opera di un giovane compositore la sorte di essere indicata quale modello del realismo socialista in campo operistico: I/ placido Don (1935) di Ivan Ivanovié Dzerzinskij (1909-1978). In essa coincidevano infatti tre aspetti che furon ritenuti essenziali ad un’opera che intendesse interpretare gli ideali del nuovo corso politico: argomento storico-tivoluzionario, lieto fine in cui viene esaltata la lotta rivoluzionaria o l'edificazione socialista, e infine
linguaggio “nazionale” o “realistico”, vale a dire semplice e infarcito di canzoni popolari (tanto che questo genere di opera sovietica è definito comunemente dalla critica «opera a canzoni»). Fra le numerose opere composte nel primo decennio dall’instaurazione del nuovo canone estetico (La corazzata Potémkin, 1937, di Cigko; Terra dissodata, 1937, di Dzerzinkij; La madre, 1938,di Zelobinskij, per citarne alcune), Nella tempesta (1939; seconda versione,
1952) di Khrennikov è senza dubbio quella maggiormente riuscita, poiché il compositore seppe vitalizzare una formula per sua natura statica, ampliando la valenza espressiva del linguaggio musicale — non esente da influssi del verismo italiano — e rivalutando la funzione dell’orchestra. Un’opera a prima vista divergente da questa tipologia, per la vicenda fantastica ambientata nella Borgogna cinquecentesca e per il rilievo assunto dal personaggio principale, è Colas Breugnon (1938) di Kabalevskij, tratto da un romanzo di Romain Rolland; il librettista Bragin fece però emergere dalla vicenda l’aspetto ribellistico e classista, offrendo al compositore la possibilità di creare una delle sue opere musicalmente più valide di questo periodo, senza derogare dai princìpi del realismo socialista. Il quinquennio bellico vide la nascita di diverse opere che traevano ispirazione da figure e da episodi eroici tanto del passato (Emel'jan Pugatév, 1942, di Koval'; Capaev di Mukrusov) quanto
del presente, vale a dire della guerra in corso (I/ sangue del popolo,
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1942 e Nadezda Svetlova, 1943, di Dzerzinskij; AMle porte di Mosca, 1942, di Kabalevskij; I difensori di Sebastopoli, 1946, di Koval?);
in esse il motivo propagandistico ed occasionale supera di gran lunga i limitatissimi pregi artistici. Se negli anni Trenta Lady Macbeth di Sostakoviè era stata additata dalla dirigenza politica come l'esempio in negativo del realismo socialista, medesima sorte toccò nell'età di Zdanov a La grande amicizia (1947) di Muradeli, in precedenza valutata molto favorevolmente dal Comitato per le belle arti e rappresentata, dopo la prima di Stalino, in numerose città importanti in occasione del trentesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Che la sua condanna fosse un semplice pretesto per una severa reprimenda contro “la tendenza formalistica” appare chiaro da almeno due considerazioni: innanzitutto i termini con cui era stata condannata nella celebre risoluzione del febbraio del 1948 — l’inespressività musicale dell’opera e la mancanza di un legame tra musica e azione scenica - avrebbero potuto riferirsi benissimo a molte altre opere nate nello stesso periodo; in secondo luogo, le accuse di «modernismo» a motivo di «dissonanze», «rumorismo»
e simili, suonano anacro-
nistiche in quanto rivolte ad una partitura allineata, sotto il profilo linguistico, ai gusti ed all’ideologia ufficiali. Meno artificiose e più veritiere, forse, le critiche rivolte alle melodie scarsamente
memorizzabili ed all'impiego del canto popolare, in quanto entrambi gli aspetti erano ritenuti essenziali all'opera sovietica e la loro assenza poteva ‘essere tanto più condannabile in un lavoro celebrativo. A differenza dagli anni Trenta, mentre continuò implacabile il lavoro di demolizione (Con tutto il cuore, 1950, di Zukov-
skij e Bogdan Kbmel'nitckij, 1951, di Dan'keviè subirono egual
sorte), nessuna opera fu indicata ai compositori quale punto di riferimento ideologico, sicché le bordate zdanoviane - Zdanov morì nel 1948, ma il suo spirito aleggiò ancora per anni sulla musica sovietica — non produssero, oltre l’effetto deterrente, una vera e propria svolta estetica. Anche se, tenendo fede ad un pignolo criterio cronologico, I Decabristi di Jurij Aleksandrovié Saporin (1887-1966) dovrebbe rientrare nell’epoca post-staliniana — in quanto rappresentati nella redazione definitiva alcuni mesi dopo la morte di Stalin —, il lunghissimo periodo di gestazione che copre un arco di oltre un trentennio (dal 1925, anno in cui apparve con il titolo Polyna Gyebl”,
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per assumere poi quello definitivo nel 1953) la colloca di diritto nell’età staliniana. Mentre nella seconda versione, del 1938, la storia d’amore era in primo piano e la vicenda politica un semplice sfondo, la versione finale (1953) ribalta la situazione portando il motivo
politico in primo piano: l’opera da lirico-individuale è così trasformata in realistico-corale. Se si riconosce che la caratteristica principale delle opere di stretta osservanza realistico-sovietica è una fissità generata dalla mancanza di sviluppo e di scavo psicologico dei personaggi, si può affermare che I Decabristi di Saporin, per l'impianto generale (la divisione in dieci quadri in cui i due motivi principali, sentimentaleprivato e storico-collettivo, sono per lo più tenuti separati; la ripartizione dei personaggi in tre distinti gruppi, decabristi-figure negative-popolo, caratterizzate da un diverso ethos musicale) e per l’impiego sapiente del motivo popolare, rappresenta un monumento (statico come tutti i monumenti) al principio del realismo socialista in campo operistico, inaugurato proprio nell’anno in cui con la morte di Stalin si concludeva l’epoca che tale principio aveva maggiormente santificato. Il “disgelo” non intaccò le basi ideologiche dell’opera sovietica; vent'anni erano stati sufficienti per fondare una tradizione che non fu sostanzialmente modificata dalla politica culturale dell’età krusceviana. I soggetti eroici, celebrativi e rivoluzionari, continuarono ad essere prediletti da critici e compositori: Nikita VerSinin (1955) di Kabalevskij, I/ sole sulla steppa (1959) di Sebalin si ispirano ad episodi della guerra civile, mentre Aurora (1956) di Moléanov, Ottobre (1964) di Muradeli e Virineja (1967) di Slonimskij sono ambientati nel primo anno della rivoluzione. L'intreccio di Destino di un uomo (1961) di Dzerzinskij, tratto dal racconto di Solokhov, si svolge all’epoca della seconda guerra mondiale, mentre la vita in un kolchoz fa da sfondo alla vicenda sentimentale di Non solo amore (1961) di Stedrin. Come già nel periodo staliniano, i motivi individuali e le storie d’amore sono infatti accet-
tati se inseriti in un contesto ideologico. Talvolta i soggetti delle opere sono stati tratti da episodi di ribellione (o della Resistenza) stranieri ed anche italiani, come è il caso de I/ tafano (1957) di Spadavecchia (russificato in Spadavekkja) ambientato in Emilia in epoca risorgimentale, o Via del Corno (1960) di Moléanov, tratto da Cro-
nache di poveri amanti di Pratolini. Raramente i compositori sovietici
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hanno trattato argomenti leggeri, ma almeno un caso è degno di menzione: La bisbetica domata (1955, in edizione da concerto; 1957, in edizione scenica) di Sebalin, in cui il compositore, tramite un sapiente colore orchestrale, ha saputo ricreare il brio e la vivacità del testo shakespeariano. Anche sotto il profilo formale l'età del “disgelo” non ha portato, nell’opera, rilevanti trasformazioni. Un cauto aggiornamento linguistico rappresenta la massima concessione, ed è facilmente spiegabile tenuto conto della funzione preminentemente ideologica che l’opera ha continuato a svolgere. Se la critica si è dimostrata disposta a tollerare alcuni “modernismi” in campo sinfonico, è stata molto più restia a fare concessioni nei confronti di un genere tanto con-
dizionato dai contenuti, sicché le opere dianzi elencate presentano per lo più le medesime caratteristiche dell’opera “a canzone”: Leitmotive per caratterizzare i personaggi collettivi (i Russi ed i Tedeschi de I/ destino di un uomo, ad esempio, sono effigiati musicalmente da motivi popolari e da brani tratti da Dreigroschenoper di Weill); motivi popolari e rivoluzionari affidati al coro (in Nikita Versinin); Castuski (cioè canzoni urbane, in Nor solo amore); folclorismo regionale (cosacco ad esempio, ne I/ sole nella steppa). In
sostanza, la svolta ideologica krusceviana che nel 1958 condusse alla riabilitazione di diverse opere clamorosamente censurate nell’epoca di Zdanov dimostrò nei confronti delle opere prodotte in quegli anni un atteggiamento più tollerante, specialmente sul piano formale. Uno dei motivi principali che spinse la direzione politica in tal senso fu forse la consapevolezza della scarsa rilevanza artistica della produzione sovietica, tanto più biasimevole in un periodo di coesistenza pacifica e di scambi culturali (durante il XX Con-
gresso del partito, Krustév così si era espresso: «L'arte e la letteratura dei nostri paesi possono e devono cercare di essere le prime del mondo non soltanto per la ricchezza del contenuto, ma anche per la bellezza della loro forma») e la constatazione (che coinci-
deva del resto con il pensiero di Lenin) che in campo artistico l’imposizione categorica e la pianificazione quinquennale non producevano risultati altrettanto soddisfacenti che in campo economico.
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Durante il suo soggiorno occidentale, Prokof'ev aveva portato sulle scene tre opere, di cui la prima, I/ giocatore (prima versione 1915-16; seconda, 1927), era stata composta ancora in patria. Fin
da questo primo lavoro della maturità — il compositore aveva già al suo attivo cinque opere scritte durante l’infanzia e la prima giovinezza — sono delineati chiaramente i tratti fondamentali del suo teatro musicale, consistente in un’attenzione rivolta particolarmente alla corrispondenza espressiva della linea melodica - qui modellata sulle articolazioni linguistiche della prosa dostoevskijana - con il testo ed un’eccezionale maestria sia nel correlare l'evoluzione
drammatica della vicenda con la parte musicale, sia nel tratteggiare in termini sonori il carattere dei personaggi, qui divisi in due gruppi: da un lato il Generale, mademoiselle Blanche, il Marchese che un
ritmo vieppiù frenetico raffigura come anonimi e stereotipi manichini, dall’altra Aleksej, Babulen'ka, Pauline, differenziati invece
negli specifici caratteri e situazioni. Nelle due opere successive, L’amore delle tre melarance (1919) e L’angelo di fuoco (1919-27),
la vis dramatica di Prokof'ev assume due diversi caratteri espres-
sivi, favolistico e tragico, dando vita ad autentici capolavori. L’amore delle tre melarance trae spunto dall'omonima fiaba di Carlo Gozzi (non accostata direttamente, ma conosciuta attraverso una
“parafrasi riflessiva” di Meierchol’d, Solov'év e Vogak) e realizza, in assonanza con le teorizzazioni di Meierchol’d, una compiuta unità
scenico-musicale. L'aspetto fiabesco, evocato da un’orchestrazione ricca di sfumature timbriche e da un ritmo pronto a scattare in episodi esaltanti (la famosissima marcia che ricorre più volte), non è però l’unica componente dell’opera. La parte vocale, in forma di declamato melodico, si colora di inflessioni liriche (il duetto del
III atto, scena n tra Ninetta ed il principe) ed anche tragiche (la disperazione del re nella 1 scena del I atto) che fanno presentire i mondi espressivi de L'angelo di fuoco, o dei balletti Romzeo e Giulietta e Cenerentola. L'angelo di fuoco segna una svolta decisiva nella produzione operistica di Prokof'ev, innanzitutto nella scelta del soggetto (tratto da un romanzo storico di Brjusov ambientato nella Germania preluterana dell’inizio del xvi secolo), e poi nell’impiego del Leît-
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motiv che prelude al balletto Romeo e Giulietta. Il clima esoterico in cui si svolge la vicenda è evocato da una parte strumentale che raggiunge momenti di allucinante violenza fonica e sonora, particolarmente intensa nelle scene in cui interviene l'elemento demoniaco. La parte vocale - un declamato melodico sensibilissimo ai suggerimenti tematici dell’orchestra ed alle frequentissime variazioni di tempo e di ritmo — esalta, mediante l’accentuazione degli icti tonici ed i balzi melodici, il senso di inquietudine che percorre l’intera opera. Ritornato in patria, Prokof’ev intese inaugurare la sua attività operistica con un lavoro che riflettesse la realtà sovietica tanto nel soggetto quanto sotto il profilo linguistico. Il soggetto gli fu suggerito da un romanzo di Kataev, Io, figlio del popolo lavoratore, ambientato in Ucraina al tempo della guerra civile il cui protagonista, Semén Kotko, diede il titolo all'opera. Per quanto riguarda il problema del linguaggio, si risolse per un recitativo melodico ed un parlato ritmico usati secondo le esigenze espressive, ed invece di ricorrere ad autentici motivi popolari, compose melodie originali nello spirito del canto popolare. Terminata a soli tre anni di distanza dalle polemiche riguardanti Lady Macbeth di Sostakovié, Semén Kotko (1939), ritenuta poco conforme al canone dell’opera “a canzoni”, fu gettata nel calderone formalistico e ritirata. L’opera successiva, Matrimonio al convento (1940-43), rappresentata sola-
mente dopo la fine della guerra, nel 1946, incontrò invece incondizionati favori. Tratta da una commedia tardosettecentesca di Richard Sheridan, The Duenna, è traboccante di brio e di viva-
cità, nello spirito dell’opera buffa; una vena melodica gaia e serena ed un ritmo frizzante e burlesco (memorabile il minuetto per cornetta, clarinetto e grancassa nel vi quadro del III atto} ne rappresentano i tratti principali. La storia della penultima opera di Prokof'ev, Guerra e pace, è la storia delle tre differenti versioni: la prima, eseguita a Mosca (1944) con accompagnamento pianistico e quindi in forma concertistica (1945), constava di undici quadri; la seconda, in tredici quadri, per l'eccessiva lunghezza fu spezzata in due parti che furono rappresentate in due anni differenti (1946 la prima, e 1948 la seconda); la terza, che contiene diverse integrazioni e varianti, fu rappresentata invece nel 1955. Prokof'ev considerava questo il suo capolavoro e senza dubbio, nell’àèmbito dell’opera sovietica, Guerra
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e pace rappresenta una tappa importantissima. Ponendosi nell’ottica di chi osserva un vasto ciclo di affreschi storici, va rilevata una
grandissima capacità di correlazione strutturale sia fra le parti (la suddivisione proporzionata tra gli episodi dedicati alla guerra e quelli dedicati alla pace) sia all’interno dei singoli quadri, ed un’abilità miniaturistica nel caratterizzare un così gran numero di personaggi.
A questo scopo Prokof'ev riutilizzò e rielaborò materiali tematici che meticolose analisi (del Nest’ev) dimostrano risalire fin alle composizioni dei primi anni del secolo, sicché l’opera si può intendere come una grandiosa epitome della carriera artistica del compositore. La discontinuità drammatica e l’ampio spazio occupato dagli episodi bellici la allontanano certamente dal gusto occidentale; questi sono limiti- per un osservatore occidentale — non di Guerra e pace, ma dell’opera sovietica di argomento storico in quanto genere.
Anche Guerra e pace non fu immune da critiche e censure e le cause delle numerose redazioni non sono solo da ravvisare in motivi di ordine pratico (ir prizzis la lunghezza eccessiva) ma anche nel desiderio di Prokof'ev di superare gli scogli della censura. Nell’ultima opera, La storia di un vero uomo (1947-48), Pro-
kof'ev affronta nuovamente un tema contemporaneo, la vicenda cioè, realmente accaduta, di un aviatore sovietico che, pur con le
gambe amputate in séguito all’abbattimento dell’aereo, riprende a volare come pilota di guerra. Nuovamente impiegò il recitativo melodico come principio narrativo e linguistico e nuovamente l’opera fu oggetto di riprovazioni e censure in quanto «l’eroe [veniva] descritto come una grottesca marionetta» e «I° intera opera
[era] costruita su una declamazione musicale non melodica» e «le poche canzoni... non [riuscivano] a salvare la situazione...» Fu quindi ritirata e rappresentata nel 1960 con numerosi tagli e variazioni.
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Come già l’opera, anche il balletto venne ad occupare, nella gerarchia sovietica dei generi musicali, un posto preminente. Due compositori incontrarono particolari favori di un pubblico ancora eccitato dagli eventi rivoluzionari: Boris Vladimiroviè Asaf'ev (1884-1949) e Reinhold Moritseviè Glière (1875-1956). Il primo,
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che all'indomani della Rivoluzione d’ottobre aveva composto un balletto intitolato La Carmagnola, riprese un quindicennio dopo il tema della rivoluzione francese ne Le fiamme di Parigi (1932) in cui, anticipando certe istanze “iperrealistiche” che il nuovo canone estetico rese normative, caratterizzò da un lato il popolo con canzoni rivoluzionarie e pagine di Gossec, Grétry e Méhul, dall'altro l'aristocrazia con brani di Lully e Gluck. Anche Glière ne I/ papavero rosso (1927), che riscosse i maggiori consensi fra i balletti del primo periodo rivoluzionario, caratterizzò diversamente i gruppi di personaggi: al popolo sono affidate melodie semplici, mentre gli stranieri sono raffigurati con ritmi moderni, secondo un’iconografia musicale abbastanza usuale in questo periodo. Non ugual fortuna riscosse il filone “modernista” di cui Sostakoviè fu il principale esponente. I primi due balletti di questo periodo, L’età dell’oro (1930) e Il bullone (1931) - la cui musica convulsa e concitata assolve, come già si è osservato a proposito
de I/ Naso, finalità satiriche —, furono criticati perché in essi non era adeguatamente sviluppata, stando ai critici sovietici, la parte costruttiva. Il terzo ed ultimo, I/ limpido fiume (1935), che illustrava la vita di un kolchoz ed avrebbe voluto rappresentare, nelle intenzioni dell’autore, la pars construens, fu oggetto di una severa censura comparsa sulla «Pravda» (il 6 febbraio 1936) che spinse il compositore ad abbandonare definitivamente il genere (vi ritornò solamente l’ultimo anno della sua vita, nel 1975, con un balletto intitolato I sogratori, che riutilizza molti passi dei primi due balletti). Un'altra tendenza, particolarmente gradita alla dirigenza sovietica ed anzi da essa stimolata, fu quella folclorica, che non trasse l’elemento popolare solamente dall’àèmbito nazionale (I/ prigioniero del Caucaso, 1938, di Asaf’ev, ad esempio). ana anche da altri paesi, quali la Spagna (I/ tricomo, 1935, di Vasilenko). Il più noto di questi balletti che fondono il motivo folclorico con quello ideologico-rivoluzionario è Gajane (1942) di Aram Khaéaturjan, ambientato in un kolchoz armeno, che contiene la famosissima Danza delle spade. I vertici espressivi del balletto sovietico furono tuttavia raggiunti da Prokof'ev che, al ritorno dal lungo periodo di permanenza in Europa, aveva al suo attivo già quattro lavori: La storia del buffone che ne gabba altri sette (1915-20), più noto sotto il titolo improprio di Chout, tratto da un racconto di Afanas’ev, una parodia bur-
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lesca cui l’impiego del motivo folclorico—non citato testualmente bensì filtrato attraverso il ricordo - conferisce un tono popolaresco; Le pas d’acier (1925), una raffigurazione del riscatto industriale dell'URSS nello spirito “costruttivistico” che sollevò critiche sia in Occidente, ove fu accusato di “bolscevismo”, sia in patria, in
quanto ritenuto poco rispondente alla realtà sovietica, poiché il “macchinismo” e la frenesia ritmica avrebbero potuto caratterizzare altrettanto bene la realtà occidentale; L’enfant prodigue (1928) che trae il soggetto dalla parabola evangelica ed il cui lirismo già prelude a Romeo e Giulietta; Sur le Borysthène (1930), una pittoresca raffigurazione dell'Ucraina che non incontrò favorevoli consensi da parte della critica, probabilmente più a motivo della coreografia che non della musica. I balletti occidentali di Prokof’ev, pur nella dagisto dei soggetti e delle soluzioni espressive, At concepiti per un genere di coreografia che privilegiava l'aspetto più propriamente coreuticoritmico rifiutando invece quello psicologico-natrativo. Tornato in patria, il compositore si trovò invece di fronte alla sopravvivenza della tradizione opposta, di stampo romantico, che preferiva lo sviluppo drammatico e concepiva il balletto come uno spettacolo di ampio respiro, una versione coreografica del melodramma. Prokof'ev si trovò perfettamente a suo agio nell’alveo di guesta tradizione che gli permetteva di dar libero sfogo all’invenzione melodica, e, tanto in Romeo e Giulietta (1935-36), che in Cenerentola
(1940-44) si servì di Leitmotive per caratterizzare psicologicamente i personaggi e conferire unità drammatica ai rispettivi laveti. Romeo e Giulietta vive del contrasto espressivo fra i toni delicati e l’intenso lirismo degli episodi in cui si tesse la trama amorosa — l’appassionato tema della scena del balcone (n. 19), affidato all’insi-
nuante timbro del saxofono; la scena che precede la separazione dei due amanti; Romeo sulla tomba di Giulietta e la morte di Giulietta (n. 52) - e la violenza sonora degli episodi dedicati alla vicenda
dei Montecchi e dei Capuleti, in cui Prokof'ev sottolinea l’odio ed il contrasto delle casate rivali con ritmi e dissonanze acuminati - l’incontro dei Montecchi e dei Capuleti; il combattimento di Tebaldo e Mercuzio (n. 33) e di Romeo e Mercuzio (n. 35). Anche in Cenerentola la caratterizzazione dei personaggi (la protagonista è raffigurata musicalmente da tre temi che la rappresentano ora vessata, ora pensosa, ora innamorata e felice) e lo sviluppo della
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vicenda amorosa tra Cenerentola ed il principe assumono particolare rilievo. Tuttavia la natura favolistica del soggetto ha trattenuto il compositore dall’acuire i contrasti drammatici, per cui il balletto si risolve in termini di pura danza (molti, appunto, i motivi di danze stilizzate: valzer, gavotta, polacca, marcia, galop, mazurka, bourrée, pavana, passepied, eccetera).
L’ultimo balletto, La favola del fiore di pietra (1948-50), rappresenta, nel suo genere, l'adeguamento del compositore all’estetica del realismo socialista pesantemente ribadita, in quegli anni, dalle censure Zdanoviane: soggetto esemplare (la favola, che cuce insieme due leggende della regione degli Urali tratte da una raccolta di Bazov, vuol simboleggiare «la gioia del lavoro creativo destinato al popolo, la bellezza spirituale dell’anima russa...») ed impiego di melodie popolari (della regione degli Urali). Negli anni del “disgelo” il balletto non ha mutato sostanzialmente le sue caratteristiche, innanzitutto per quanto riguarda la scelta del soggetto, operata per lo più nell’àmbito di una tematica storico-tivoluzionaria. Fra imolti balletti tratti da fatti storici una menzione particolare merita Spartaco (1956) di Khaéaturjan che, per il gran dispiegamento di masse, la caratterizzazione dei personaggi, la quantità e la varietà delle danze e la suggestione esercitata da temi nettamente scolpiti, si inserisce nel filone della tradizione sovietica inaugurata da I/ papavero rosso. Oltre al motivo storico e a quello celebrativo (G/oria ai cosmonauti,
1962, di Bi-
rjukov è un titolo eloquente) gli altri filoni, da cui sono emersi nel periodo del “disgelo” balletti talora di rilievo, non a caso coincidono con le scelte tematiche di Prokof'ev: la grande narrativa (I/ cavaliere di bronzo, 1949, di Glière; La famiglia e la morte, 1961,
di Koval', tratti rispettivamente dagli omonimi poenai di Puskin e di Gor'kij); la favolistica (I/ cavallino gobbo, 1956, di Stedrin; Piccolo salice, 1957, di Evlachov); il motivo simbolico (Poerza eroico, 1964, di Karetnikov; I/ flauto di Tania, 1961, della Gubajdulina).
8 e LA MUSICA PER FILM E LA CANTATA Con l’avvento del sonoro (1928) la produzione di musica per film venne a far parte dei normali impegni professionali dei musicisti sovietici e compare dunque stabilmente nel catalogo dei prin-
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cipali compositori Prokof'ev, Sostakovit, Kabalevskij, Saporin, Sebalin, Khrennikov, Dzerzinskij, Sviridov, eccetera). Sostakovié inaugurò la sua cospicua produzione di musiche per film con il commento musicale de La Nuova Babilonia (1929), un
film non ancora sonorizzato che narra una storia d'amore ambientata all’epoca della Comune di Parigi. Nel comporre il commento musicale di questo film, Sostakoviè fu mosso da precisi intenti riformatori nei confronti dal casualità e della funzione puramente accessoria della maggior parte delle musiche per film muti, una riforma che morì sul nascere perché l’introduzione del sonoro modificò radicalmente la situazione. La musica per La Nuova Babilonia, con le sue citazioni di canti della Rivoluzione francese (il Ca ira, la Marseillaise, la Carmagnole), le giustapposizioni collagistiche, le deformazioni grottesche dei motivi di danza che stanno a simboleggiare l’esprit bourgeois (memorabile il clownesco carcar iniziale e, nella terza sezione, quello tratto da Orphée aux enfers di Offenbach che nella sezione finale sono combinati assieme contrappuntisticamente; oppure il valzer della seconda sezione, distorto melodicamente e armonicamente e sbeffeggiato nel suo sentimentalismo ipocrita da ironici commenti degli ottoni), riflette l’ottimismo rivoluzionario e lo spirito sarcastico violentemente antiborghese degli anni del Naso. L’estensione dei princìpi del realismo socialista alcampo cinematografico si ripercosse anche sul commento sonoro che fu epurato da motivi “costruttivistici” e satirici e furono invece privilegiati quelli epico-patriottici. Emblematici di questo nuovo corso sono i commenti sonori nati dalla collaborazione fra Prokof'ev ed Ejzenstejn per i film Aleksandr Nevskij (1938) e Ivan il Terribile (1942-45), quest’ultimo bloccato dalla censura staliniana alla seconda parte (La congiura dei boiardi) delle tre previste. Il sodalizio artistico fu vissuto in modo assolutamente simbiotico tanto sotto l'aspetto metodologico («ogni idea», ricorda Prokof'ev, «... era subito messa alla prova»; o ancora «il suo [di EjzenStejn] rispetto
per la musica fu così grande che in certi momenti fece dipendere i tagli e le aggiunte alle sue sequenze dall’equilibrio degli episodi musicali») quanto sotto quello espressivo, poiché le qualità rappresentative (melodiche, ritmiche, timbriche) della musica di Pro-
kof'ev trovarono piena corrispondenza nella concezione “visivoauditiva” che Ejzenstejn aveva del film sonoro. Dal commento musi-
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cale del primo dei due film, Aleksandr Nevskij, Prokof'ev ricavò una swite in forma di cantata che comunica, in puri termini sonori, la potenza plastica dell’immagine filmica: la desolazione della Russia sotto il giogo mongolico (n. 1) e del campo dopo la battaglia sul lago gelato (n. 6), suggerita da due melodie in do minore di carattere mesto e funebre, affidate rispettivamente ai legni ed alla voce di mezzo-soprano; il contrasto tra la sinistra raffigurazione dei crociati (n. 3) caratterizzati da un’ossessionante e monotona salmodia corale su testo latino, e la spontanea e fresca vena melodica del popolo russo (n. 4), che nella poderosa sequenza della battaglia sul ghiaccio (n. 5) assumono il ruolo di Leitrzotive dei due eserciti avversari; o ancora, il solenne tema corale di Aleksandr Nevskij (n. 2) che ricorre anche nella trionfale scena conclusiva (n. 7).
La rievocazione degli eroi del passato è una delle diverse forme in cui si espresse lo spirito patriottico e nazionalistico, che divenne il principale motivo ispiratore di una copiosa messe di cantate composte nel periodo immediatamente precedente e durante la seconda guerra mondiale: Su/ campo di Kulikovo (1939) e Storia della lotta per la terra russa (1943-44) di Saporin; La guerra santa del popolo (1941) di Koval'; Kirovè con noi (1942) di Mjaskovskij; La nostra
grande patria (1942) di Kabalevskij, per citare solamente le più famose. Nel dopoguerra la cantata ha continuato per lo più ad assolvere una funzione celebrativa sicché, anche se trattata da compositori della statura di Prokof’ev (Prospera, o paese potente, in occasione del XXX anniversario della Rivoluzione d’ottobre, 1947; A guardia della pace, 1950) o di Sostakovié (I/ canto delle foreste, 1949; Il sole splende sul nostro paese, 1952), l'aspetto funzionale - l’occa-
sione - prevale inevitabilmente su quello puramente estetico. Entro questi limiti — propri del genere - sono degne di menzione le cantate In memoria di Sergej Esenin (1956) e L'oratorio patetico (1956)
di Sviridov, quest’ultima su testi di Majakovskij; I Dodici (1957) di Salmanov, tratta dall'omonimo poema di Blok; Fix guardo lo sparviero potrà volteggiare per il cielo (1963), di Saporin, e L’esecu-
zione di Stenka Razin (1964) di Sostakoviè. L’inglobamento dei motivi rappresentativi (le frustate dello scrivano, il tonfo della mannaia, lo scampanio successivo all'esecuzione) nel tessuto linguistico, la varietà di atteggiamenti del coro ora “turba” ora “testo” ora riecheggiamento o commento delle parole di Stenka, l’intensa drammaticità della linea melodica di Stenka,
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tra l’arioso ed il recitante, amplificata da scabri interventi orchestrali, fanno di quest’ultima cantata uno degli esempi più validi e significativi dell’equilibrio tra fruibilità e rilevanza estetica raggiunto nell’ultimo periodo creativo da Sostakoviè anche nelle forme celebrative, in ciò stimolato anche dalla possibilità di impiego di testi, come quello di Evtu$enko della cantata in questione, meno vieti e convenzionali, più aggiornati e poeticamente validi.
9 e IL SINFONISMO, LA SINFONIA E IL CONCERTO La ricerca di una “via sovietica alla sinfonia” divenne, durante
il primo quindicennio postrivoluzionario, uno dei maggiori impegni dei compositori. Nella sinfonia, intesa non nell'accezione classica della forma bensì in quella tardoromantica di stampo mahleriano e bruckneriano, nel poema sinfonico e nel sinfonismo in genere furono infatti riscontrate caratteristiche pienamente rispondenti alla nuova politica culturale ed agli ideali dell’edificazione socialista: solennità di apparato (quindi spettacolarità e forte comunicativa) e capacità di veicolare contenuti ideologici e di assumere quindi funzioni celebrative e propagandistiche. Fu infatti lo stesso dipartimento che si occupava della propaganda ideologica (Agitotdel) a commissionare le prime composizioni sinfoniche “attualizzate”, dedicate cioè a temi contemporanei. I compositori sovietici risposero all'appello con opere infarcite di canti rivoluzionari dai titoli significativi: Sinfonia agricala (1923) di Kastalskij; Monumento sinfonico 1905-1917 (1925) di Gnesin; Ode funebre in memoria di Lenin (1926) di Krejn, e la Seconda Sinfonia “Ottobre”, (1927) di Sostakovié. Accanto a tali lavori che,
escludendo giudizi di valore, si possono considerare l'equivalente musicale di quel genere retorico di ode rivoluzionaria coltivato da Blok, va menzionato, quale esempio di costruttivismo e futurismo applicati al campo sinfonico, Fonderie d’acciaio (1926; il titolo ori-
ginale è Officina) di Mosolov, un poema sinfonico che celebra in termini bruitistici l’industrializzazione sovietica. Nell’àmbito del dibattito ideologico della prima metà degli anni Trenta (alla sinfonia fu dedicata una conferenza apposita svoltasi nel febbraio del 1935) emerse l’improrogabile esigenza di fondare un sinfonismo che interpretasse la nuova realtà sovietica: un “sin-
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fonismo sovietico”, cioè aderente al principio del realismo socialista. A differenza dell’opera, del balletto e della cantata, generi facilmente ideologizzabili, ben più complesso si presentò il problema nel campo della musica pura. Una delle formule più sfruttate negli anni Trenta, in sincronia con “l’opera a canzoni”, fu l’inserzione di canzoni eseguite dal coro su un impianto sinfonico. Esempi di composizioni di questo genere sono: la Terza Sinfonia (1932-33) intitolata “Estremo Oriente”, e la Quarta (1933-34) che reca il titolo “Poema del komsomol combattente”, di Knipper (quest’ultima contiene la celebefrima canzone Poliusko, Prateria, ritenuta erroneamente popolare, e invece originale del compositore); la Terza Sinfonia “Lenin” (1931) di Sebalin, e la Terza Sinfonia ‘‘Requiem in memoria di Lenin”, (1933) di Le. Un altro espediente per dar risalto, nei lavori sinfonici, al carat-
tere nazionale fu l’impiego di melodie e canti popolari non solo russi ma anche delle repubbliche non slave, secondo un piano di rivalutazione culturale delle regioni distanti dai grandi centri; per citarne alcuni, fra imolti: Quadri turkmeni (1931) e L’oriente sovietico (1932) di Vasilenko; la Quarta Sinfonia (1933) di Steinberg, intitolata “Turk-Sib”, perché composta per l’inaugurazione della ferrovia Turkestan-Siberia; le suites Dei Marii (1931) di Kakov e Turkmenia (1932) di Sekhter, oltre a numerosissime opere di com-
positori non russi. Un altro genere orchestrale che in URSS riscosse particolari favori fu la suite ricavata da balletti, opere, films e musica
di scena. Appare chiaramente che il principio estetico affermatosi stabilmente nel sinfonismo sovietico dall’epoca del realismo sociali sta in poi fu quello del descrittivismo musicale nello spirito del poema sinfonico. In base all’aderenza a questo principio furono differentemente valutati i compositori e le loro opere; a sua volta questo principio fu interpretato dai critici in senso più o meno restrittivo, secondo le oscillazioni ideologiche della dirigenza sovietica. Anche la musicologia fu mobilitata per la fondazione di tale genere sinfonico: Asaf’ev, il più illustre musicologo dell’epoca staliniana, pose infatti le basi metodologiche per l'estensione del concetto di realismo socialista alla musica pura, elaborando nei saggi Forma musicale come processo (1930) ed Intonazione (1947) i concetti di «intonazione» appunto e di «immaginazione musicale».
Con una produzione di ventisette sinfonie, di cui ventidue com-
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poste durante il periodo sovietico (dal 1918, anno di composizione della Quinta, al 1950, anno di composizione della Ventisettesimza), e per l’influenza che alcune di esse esercitarono sui suoi colleghi, Nikolaj Jakovlevit Mjaskovskij (1881-1950) si può a buon diritto considerare il patriarca della sinfonia sovietica. Se la Quinta, composta all’indomani della rivoluzione, ne è l’atto di nascita, la Sesta (1923) per la monumentalità dell’impianto, il prevalente diatonismo e il ricorrere di temi di natura “programmatica” (nel Finale, la contrapposizione di un canto popolare russo e del Dies irae ai temi del Ca ira e della Carzzagnole) si può intendere come il prototipo della sinfonia sovietica. Dalla Settima (1922) alla Quindicesima (1933-34) si alternano sinfonie di carattere epico (l’Ottava, 1923-24, e la Dodicesima, 1931-32, rispettivamente dedicate alla
celebrazione dell’eroe Stepan Razin e alla collettivizzazione della terra) a sinfonie di carattere “soggettivo” (1' Undicesizza, 1932) o
“modernista” — i due termini quasi si equivalgono per la critica sovietica — (la Decima, 1927, che trae ispirazione dall’eroe de I/ cavaliere di bronzo di Puskin; la Tredicesima, 1933). Dalla Sedice-
sima (1935-36) alla Ventesima (1940), Mjaskovskij, uniformandosi ai princìpi del realismo socialista, semplificò lo stile sinfonico e impiegò abbondantemente la canzone popolare; particolarmente significative di questa svolta sono la Sedicesizza (1935-36), la Diciottesima (1937) - dedicate a temi civili e patriottici — e la Diciannovesima (1939) per complesso bandistico di fiati, dedicata alla banda dell’Armata Rossa. La Ventesizza (1940), una “Sinfonia-fantasia”
in un solo movimento tripartito (Introduzione lenta - Allegro - Coda monumentale in tempo lento), rappresenta, per coerenza e compattezza strutturale, oltreché per varietà espressiva, un approdo dell’arte sinfonica del compositore. Le successive tre furono composte durante la seconda guerra mondiale. La Ventiduesima (1941)
è una “Sinfonia-ballata sulla Grande Guerra Patriottica”, mentre la Ventitreesima (1941) è costruita su temi popolari raccolti da Mja-
skovskij durante lo sfollamento nella Repubblica autonoma del Cabardino-Balcari. La Ventiseiesimza (1948), su antichi temi russi, cadde sotto la censura Zdanoviana, sicché la Ventisettesima (1950)
ed ultima, con il suo linguaggio piano e senza scosse ed il Finale ‘ottimistico”, esprime il ravvedimento del compositore in séguito alle critiche del partito.
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9.1 e SOSTAKOVIÈ
Le quindici sinfonie di Sostakovié occupano, nel panorama musicale sovietico, una posizione di particolare rilievo, poiché sono la testimonianza di un travagliato confronto fra l’identità e l'originalità creativa del compositore e gli imperativi categorici delle scelte politiche ufficiali. Per gli stretti rapporti che le legano alla storia dell'URSS assumono inoltre, nel loro complesso, il valore e le dimen-
sioni di un grandioso ciclo epico in cui le vicende del singolo e quelle della nazione tendono a confondersi. La produzione sinfonica di Sostakoviè si può suddividere nelle tre categorie seguenti: sinfonie “pure”, esclusivamente orchestrali e prive di un nesso programmatico vincolante (nn. 1,4,5,6,8,9, 10,15); sinfonie “a programma” o “descrittive” (nn. 7,11,12); patria con coro (nn. 2,3); sinfonie in forma di suite Inte i 13, con basso e coro di bassi; n. 14, con
soprano e basso). La Prizza Sinfonia (1925), che lanciò in campo internazionale il compositore appena diciannovenne ed ancora studente al Conservatorio di Leningrado, presenta un’accentuata divaricazione espressiva fra il primo movimento (Allegretto) — che per l’impertinenza dei due nuclei tematici principali, le deformazioni dei temi per lo più operate dal timbro tagliente dei legni e la struttura episodica, anticipa l'atmosfera beffarda e grottesca del Naso — e gli altri movimenti che rispondono invece a princìpi compositivi più tradizionali: l’accentuato bitematismo dell’Allegro, animato dalle incandescenze timbriche del pianoforte; l’intensificazione espressiva del Lento, di ispirazione mahleriana; le aspirazioni cicliche (il ritorno del motto formato da una tertzina in ritmo puntato) ed i trionfalismi del Finale, amplificati da interventi orchestrali di natura bandistica. La Seconda (1922)
la Terza (1929), sebbene composte a breve
distanza e simili fiella struttura generale (un solo movimento con coro finale) presentano tratti linguistici ed espressivi differenti. Nella Seconda, sottointitolata “Ottobre” e commissionata dal governo in occasione del decimo anniversario della Rivoluzione, un
tessuto sonoro aspro e dissonante che si dirada durante gli interventi chiarificanti del coro vuole rispecchiare la concitazione e l’incalzante successione degli eventi rivoluzionari, nonché il passaggio dalle tenebre della situazione prerivoluzionaria alla luce (Lenin,
la Rivoluzione). La Terza, dedicata “Al Primo Maggio”, celebra
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invece le conquiste del socialismo sovietico con un linguaggio più consonante e diatonico e riceve dalla varietà dei ritmi, dal ricorso frequente della percussione e dall’orchestrazione sfavillante, un carattere gioioso e festivo. La Quarta (1935-36) rappresenta un importante approdo del sinfonismo di Sostakoviè poichéi caratteri linguistici e strutturali già affermati nelle opere precedenti (la concezione rapsodica della sinfonia, innanzitutto, utilizzata in senso ironico e dissacratorio
nella Prizza ed invece piegata a finalità celebrative nelle due successive), distesi in un organismo più ampio, pervengono a più me-
ditati ed approfonditi sviluppi. Più che nel movimento iniziale (Allegretto poco moderato), frammentato in numerosi episodi che presentano tratti stilistici del primo Sostakovié, nel secondo (Moderato con moto), in forma pentapartita e di ascendenza inequivocabilmente mahleriana, e specialmente nel terzo, organizzato in cinque sezioni che si succedono secondo una gradazione espres-
siva: da una marcia funebre (Largo) iniziale, passando attraverso ad episodi più mossi in cui talora Sostakovié pare divertirsi a rifare il verso ad un valzer viennese o ad un richiamo militare, si arriva
al Finale ove, su un pedale di do ed un ritmo ostinato dei timpani, è intonato dagli ottoni un solenne corale che si spegne gradualmente su delicati rintocchi della celesta. Ritirata dal compositore stesso in séguito alle censure comparse sulla «Pravda»a proposito della Lady Macbeth, ed eseguita poi la prima volta venticinque anni dopo (1961), la Quarta, composta all’epoca in cui si svolgeva il dibattito sull’applicazione del realismo socialista ai vari generi, rappresenta la soluzione personale del problema in campo sinfonico: l’innesto, cioè, di una molteplicità e varietà di gesti compositivi su un organismo che dal tardoromanticismo mutua la dilatazione del tempo e il gesto narrativo. Con la Quinta Sinfonia (1937), da Sostakoviè intesa come «La mia risposta creativa», il compositore fece pubblica ammenda del “modernismo” di cui era stato duramente accusato: ridusse innanzitutto l'organico strumentale, sostituì quindi all’episodica articolazione strutturale della Quarta lo schema formale della sinfonia classica e semplificò infine il linguaggio. La “risposta creativa” consistette dunque in una chiarificazione dei nessi strutturali e sintattici ed in una maggior connessione fra le sezioni. Se ne risulta
smorzata la verve della “prima maniera”, confinata per lo più nel-
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l’Allegretto in forma di Scherzo ed in parte anche nel finale (Allegro non troppo) scopertamente ottimista ed ufficiale, assume particolare evidenza la linea melodica, in special modo nel primo tempo (Moderato), in cui ad un primo tema di carattere drammatico fa riscontro un secondo tema lirico a valori ampi, e nel terzo (Largo) dalla sonorità rarefatta per l’esclusione degli ottoni. La Sesta (1939), composta in luogo di una progettata sinfonia corale ispirata al poema Vladimir Il'ic Lenin di Majakovskij, ricalca, sotto il profilo linguistico, le orme della Quinta e però presenta un’originale strutturazione dei movimenti: un Largo iniziale di dimensioni superiori a quelle dei due movimenti successivi, Allegro e Presto, sommati assieme.
La cesura fra il primo e gli altri movimenti è accentuata inoltre dal contrasto espressivo fra il lento melodizzare dei fiati che nel Largo, in funzione solistica, intessono struggenti melopee ed il brio e la vivacità ritmica dei due movimenti successivi: più vicino allo spirito stravinskijano ed hindemithiano il secondo (Allegro) per certe angolosità strutturali e tematiche; un divertimento musicale l’ultimo (Presto) in cui si mescolano, in un ritmo sempre incalzante, temi che rifanno il verso a Rossini, motivi cabarettistici e financo
una canzone popolare messicana (Celito Lindo). La Settima (1941), iniziata a Leningrado durante i primi mesi
dell’assedio della città e ad essa dedicata, è la prima delle sinfonie “descrittive” non corali di Sostakovié. Va chiarito che la denominazione di sinfonia “descrittiva” è qui riferita solamente alle sinfonie in cui vi è una puntuale corrispondenza tra immagini e schemi narrativi e la rappresentazione musicale di essi, e non comprende invece quelle sinfonie (la Quinta, ad esempio) di cui il compositore indicò un programma così vago ed estendibile a gualsiasi altra sinfonia (lo sviluppo della personalità umana, nel caso specifico, e simili), da intendersi come un’«intonazione» generale — per usare un termine di Asaf’ev — se non solamente come una sorta di infingimento e di precauzione del compositore nei confronti di una critica affamata di contenuti. Nella Settizza, imovimenti esplicitamente programmatici (in un primo tempo Sostakoviè aveva intenzione di denominare ognuno dei quattro movimenti con un titolo: “La guerra”, “Evocazione”, “Grandi spazi animati”, “La vitto-
ria”) sonò in effetti solamente quelli estremi: il primo (Allegretto), in cui un impressionante crescendo, che coinvolge progressivamente
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l’intera orchestra e ripete ossessivamente un motivetto in ritmo di marcia, raffigura l'invasione nazista, e il quarto ed ultimo (Allegro non troppo), in cui è invocata con gran dispiegamento di forze orchestrali la vittoria finale. Nei due movimenti centrali, di natura introspettiva, rispettivamente uno Scherzo, moderato (poco allegretto), ed un Adagio concepiti entrambi in forma tripartita con un episodio centrale più mosso e ritmico, prevale invece l'aspetto melodico che nello Scherzo si colora di una velata malinconia, mentre nel tempo lento assume un carattere decisamente lirico. Composta a soli due anni di distanza, l’Ottava (1943) presenta carat-
teri espressivi, linguistici ed orchestrali molto simili alla Settima da cui fu però posta in ombra per la vastissima popolarità che la sinfonia “di Leningrado” si conquistò immediatamente non solo in URSS, ma anche nei paesi alleati dove fu eseguita e radiotrasmessa numerosissime volte. La struttura generale è invece sui gene ris: dopo un Adagio tripartito con un episodio centrale (Allegro) in cui si scarica la tensione accumulata nel corso di un crescendo incalzante, seguono due Scherzi (Allegretto e Allegro nen troppo), un Largo costruito su un tema di passacaglia e un Allegretto finale ben poco ottimistico. Dopo le due sinfonie “di guerra”, gravide di angoscia per iìluttuosi avvenimenti bellici, sarebbe stata di prammatica (e pare che Sostakoviè l'avesse promessa) una grandiosa sinfonia patriottica, un inno alla pace ed alla vittoria. Il compositore interpretò invece, con la Nona Sinfonia (1945), il tripudio generale nello spirito del divertimento orchestrale. Gli infingimenti neoclassicè'del tema introduttivo così come l’impertinente melodia dell’ottavino preceduta da una cadenza bandistica del trombone all’inizio del primo tempo (Allegro) annunciano il tono gaio e festoso dei movimenti veloci: il Presto, trascorso da rapide figurazioni degli strumentinîi in un ritmo incalzante e concitato, e l'Allegretto, che assume atteggiamenti quasi clowneschi. I movimenti lenti sono invece caratterizzati da un’intonazione mesta e desolata espressa, nel secondo tempo (Moderato), da una malinconica melopea dei legni, nel quarto (Largo) da una trenodia del fagotto. La Decima Sinfonia (1953), composta l’anno della morte di Stalin, a ben otto anni di distanza dalla Nona, segna il ritorno di Sostakoviè alla sinfonia di impianto monumentale di ispirazione tardoromantica. Si può considerare come un monumento sinfonico eretto
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da Sostakovié al proprio genio musicale, in quanto nel terzo movimento è introdotto improvvisamente l’anagramma musicale del proprio nome (DSCH = re, mi bemolle, do, si bemolle), ripreso poi ancor più solennemente dagli ottoni nel movimento conclusivo. Il nucleo principale della sinfonia è l’estesissimo movimento iniziale (Moderato) in cui tre temi non molto dissimili per la comune tortuosità del disegno melodico, dopo un'esposizione affidata agli archi bassi e ai legni, sono sviluppati dall’intera orchestra. La densità armonica, lo spessore del tessuto orchestrale e la lentezza del tempo comunicano al movimento una gravità ed una dimensione epica. Nei due movimenti successivi (Allegro e Allegretto) prevale invece l’aspetto ritmico: il primo è un “folle volo” dell’orchestra sferzata da interpunzioni ritmico-percussive, mentre il secondo è caratterizzato da un andamento anapestico. L'ultimo movimento è bipartito: un Andante iniziale in cui i legni (oboe, flauto, fagotto) espongono una melopea ove sono delineati i contorni del tema della seconda sezione (Allegro) cui partecipa invece l’intera orchestra. Le due Sinfonie seguenti, dedicate rispettivamente alla fallita rivoluzione del 1905 ed a quella del 1917, anche se rispondono entrambe alla medesima concezione della sinfonia “a programma” - i singoli movimenti recano un sottotitolo che si riferisce alla scena rappresentata in termini sonori — presentano una fondamentale differenza: l’Undicesima (1957) è interamente trascorsa da canzoni rivoluzionarie (Siete caduti vittime, nel III movimento, una marcia funebre dedicata alla “Memoria eterna”; Andate via tiranni e La varsovienne, nell'ultimo “Allarme”) o da canti popolari e di prigionia (Ascolta! e Detenuto, nel primo movimento, “Piazza del Palazzo”, una rievocazione della russia zarista dipinta come una
tetra galera), mentre la Dodicesima (1961), seppur peryasa da uno spirito russo di ascendenza borodiniana, non si serve della citazione testuale; nel complesso è però piuttosto statica e enfatica,
poiché le manca quasi totalmente quella “dialettica timbrica” che in Sostakovié assolve una funzione drammatica e vitalizzante di primaria importanza. Le due sinfonie successive sono invece in forma di suite lirica: la Tredicesima (1962) trae testi ed ispirazione da cinque poemi di Evtusenko (fra cui Babi Yar, che determinò
il temporaneo ritiro dell’opera), mentre la Quattordicesima (1969) è una meditazione sul tema della morte in undici episodi su testi poetici di Apollinaire, Rilke, Garcia Lorca, Kiichelbecker. In en-
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trambe l’orchestra amplifica i contenuti testuali ora n atteggiamenti ironici e dissacranti (ne “L’umorismo”, e“Una car-
riera”, della Tredicesimza) quando non addirittura ai a (il secondo episodio della morte nella taverna su testo di Garcia Lorca, nella Quattordicesima), ora evocando atmosfere cupe e inquietanti (“Timori” nella Tredicesima; “De profundis”, nella Quattordice-
sima); ne risultano una ricchissima gamma sonora ed una varietà di atteggiamenti espressivi che, in assenza di temi celebrativi e di forme monumentali, rendono le due sinfonie, come pure la seguente e le versioni orchestrali delle raccolte di liriche composte negli ultimi anni, particolarmente vicine al gusto occidentale. Il tema della morte compare pure nella Quindicesizza ed ultima sinfonia (1971), questa volta però come citazione wagneriana nell’Adagio, quarto ed ultimo movimento in cui Sostakovié riprende il tema della morte della Wa/kiria, seguìta dal ritmo della musica funebre di Sigfrido; conclude questa serie di citazioni wagneriane la ripresa del motivo iniziale del Tristano, che però funge da preludio ad un Allegretto dal carattere danzante. Nel primo movimento (Allegretto) Sostakovié invece prende a prestito il famoso tema di cavalcata del Guglielmo Tell rossiniano per inserirlo con finissima ironia in un divertimento orchestrale dal nobilissimo gioco timbrico nella cui sezione centrale introduce un intricato episodio polimetrico. Questa introduzione di tecniche aggiornate, assieme all’utilizzazione accordale e melodica di serie dodecafoniche - come negli episodi solistici del secondo movimento (Adagio) venato di mestizia che nella parte centrale esplode in una marcia funebre, o nel terzo movimento (Allegretto) dalle sonorità pungenti e dal carattere scherzoso =, arricchisce il sinfonismo di Sostakovié di nuove dimensioni sonore ed espressive riaprendo un dialogo con
l'avanguardia occidentale, ovviamente filtrata attraverso una coscienza creativa profondamente radicata nella cultura sovietica. La morte colse il compositore mentre stava lavorando ad una Sedicesima Sinfonia rimasta allo stadio d’abbozzo.
Le esperienze creative delle sinfonie Tredicesima e Quattordicesima aprirono un nuovo cammino nella tarda produzione di Sostakoviè, una serie di composizioni sinfonico-vocali che rappresentano un culmine non solo cronologico ma anche creativo. L'ideale musorgskiano di una declamazione vocale amplificata dai timbri orchestrali raggiunge in questi ultimi lavori di Sostakoviè una tra-
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sfigurazione affatto moderna. Dall’orchestra Sostakoviè ritaglia impasti ora incandescenti, ora cristallini, ora scurissimi, selezio-
nando i timbri e riducendo il contenuto tematico all'essenziale: ora un intervallo o un ritmo ripetuto, ora semplici accordi, talvolta ara-
beschi sonori, talaltra celestiali cari//ons. Inaugurata con un paio di versioni orchestrali di raccolte liederistiche risalenti a decenni prima (Da/la poesia popolare ebraica op. 79, del 1948, e le Sei liriche su versi di poeti inglesi op. 62, del 1942, rispettivamente orchestrate nel 1963 e nel 1971) fu poi continuata con una serie di composizioni nuove su testi della Cvetaeva (Sei poemi di Marina Cvetaeva op. 143a, del 1973) e di Michelangelo Buonarroti (Suite su versi di Michelangelo Buonarroti op. 145a, del 1974) e conclusa poi con un’ultima raccolta unicamente liederistica (i Quattro versi di Capitan Lebjadkin op. 146, sempre del 1974 per basso e pianoforte, su testi tratti dai Derzoni di Dostoevskij). Le Sei liriche su testi di Marina Cvetaeva iniziano con un brano (I miei versi) la cui cellula germinale è una ritorta serie dodecafonica esposta prima dal violoncello solo, ripresa poi dalla voce, e termina con una trenodia in memoria della poetessa Anna Achmatova che si svolge su un continuum sonoro di accordi legati degli archi contrappuntati per lo più dalle campane. La Suite su versi di Michelangelo Buonarroti presenta invece una struttura identica alla Quattordicesima, la successione, cioè, di 11 liriche con ripresa ciclica
dell’introduzione strumentale dalla prima (Verità) alla decima (Morte): nel caso specifico, un dicizium atonale di trombe. L’undicesimo brano (Imzzzortalità) — così come la Conclusione su testo di Rilke nella Quattordicesima - rappresenta dunque, con palese significato simbolico, un’esténsione, in’apertura successiva, al cui breve
preludio strumentale il tema del Finale della Quinta di Beethoven, camuffato dalla cristallina veste timbrica, presta lo spunto melodico. Trattando delle Sinfonie si è posto in rilievo il gran numero di passi in cui Sostakoviè affida allo strumento solista il c6mpito di interpretare una parte melodica - piuttosto che impiegare un'intera sezione orchestrale — e la sua preferenza per i legni. Ci si aspetterebbe di conseguenza, in campo concertistico, una copiosa pro-
duzione, fra cui qualche opera affidata ai prediletti legni. Nulla di tutto ciò: la produzione concertistica di Sostakoviè comprende complessivamente tre coppie di opere dedicate rispettivamente al pia-
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noforte (op. 35, 1933; op. 102, 1957), al violino (op. 99, 1947-48; op. 129, 1967), al violoncello (op. 107, 1957; op. 126, 1966): agli strumenti dunque, consacrati al concertismo dalla tradizione romantica. Il Primzo Concerto per pianoforte è una composizione divaricata fra il gesto romantico e il sarcasmo graffiante. La tromba concertante esaspera l’uno e l’altro carattere, orta riprendendo, nel movimento lento, il tema del valzer triste e conferendogli un’espressione ancor più nostalgica, ora accentuando il tono caricaturale, specialmente nell'ultimo movimento (Allegro con brio), che termina con una specie di clownesco galop. Il Secondo Concerto per pianoforte, contemporaneo alla Undicesima Sinfonia, è invece dominato da un pianismo brillante, martellante, nello spirito di un divertimento neoclassico, con un Andante centrale in cui, ad
un tema malinconico dall'andamento di pavana o di folià, segue una patetica romanza per pianoforte. Pure nello spirito del divertimento è il Concertino per due pianoforti (1953) contemporaneo alla Decima, e, più precisamente, l’Allegretto, intercalato da alcune riprese del preludio lento iniziale in cui i due strumenti conducono un dialogo a botta e risposta. Nel Prizzo Concerto per violino, che, composto nel periodo Zdanoviano, dovette attendere epoche più liberali per la sua prima esecuzione, la concatenazione dei quattro movimenti è combinata in modo che ad un tempo lento di teso lirismo in cui il violino snoda la sua melopea' succeda un tempo veloce, in cui lo strumento solista si sbriglia in un indiavolato virtuosismo trascinando con sé l’intera orchestra. Mentre nel Notturno iniziale l'orchestra crea uno sfondo dalle tinte spesso cupe e magmatiche, ma talora di una purezza celestialè assecondando il violino nelle zone iperacute con timbri cristallini (arpa e celesta), nella Passacaglia la ripetizione del tema ostinato asseconda la progressiva tensione lirica del violino che, dopo aver assunto in proprio il tema di passacaglia, con un decrescendo di intensità fonica e dinamica, rimane infine solo per esibire il suo virtuosismo nella cadenza. Nel Secondo Concerto per violino, invece, in tre movimenti, lo strumento solista assume il ruolo di assoluto
protagonista relegando l’orchestra, privata di trombe e tromboni, ad una funzione decisamente subalterna. Solamente sette anni intercorrono tra i due Concerti per violoncello di Sostakoviè, ma sono anni di profondo mutamento stilistico. Il Primzo Concerto per violoncello ripropone la formula tradi-
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zionale dei movimenti esterni in tempo veloce dominati da una notevole vitalità ritmica e di uno centrale (qui raddoppiato) di effusione lirica: nel primo, Moderato, che precede la cadenza solistica, un momento di particolare fascino è quando, alla fine, il violoncello ripresenta il tema in zone acutissime, con effetto flautato, accompagnato solamente dalla celesta e da un cromatismo strisciante dei violini in sottofondo. Effetti magici che nel Secondo Concerto diventano la norma in quanto Sostakoviè fa dialogare il violoncello solista spesso con voci orchestrali isolate, in un raffinatissimo e quanto mai cangiante*gioco di combinazioni orchestrali. Come lo spazio orchestrale tradizionale è spezzato da tale modernissimo atteggiamento concertante, così il tematismo è quanto mai nucleare, oppure, se si diffonde melodicamente come nel caso del Largo iniziale, le spire melodiche esauriscono, alla fine del periodo, il totale cromatico. Anche la forma tradizionale è rivoluzionata, con un
movimento lento in prima posizione che da solo copre quasi la metà della durata del Concerto, seguìto da due tempi veloci. 9.2 e PROKOF'EV
Il fatto che Prokof'ev al suo ritorno nell’URSS abbia lasciato trascorrere quattordici anni tra la composizione dell’ultima Sinfonia “europea” (la Quarta, 1930) e la sua prima Sinfonia “sovietica” dice molto dell’imbarazzo del compositore di fronte alla tradizione sinfonica sovietica. A prescindere dalla Sinfonia classica (1916-17, composta quindi ancora in patria), in cui rivestì di panni moderni la struttura della sinfonia classica, nessuna delle tre rima-
nenti nacque per un urgente richiamo della struttura sinfonica rigorosamente intesa: non la Seconda (1924), in due soli movimenti,
animata da furori “costruttivistici” che esplodono in un ritmo frenetico ed in violente folgorazioni sonore emergenti da un tessuto musicale denso e complesso; e neppure la Terza (1928) e la Quarta (1930), che mutuano temi (sezioni intere, addirittura, nella Quarta)
dai due lavori scenici di cui rappresentano la versione sinfonica e riflettono i caratteri espressivi: l’oscura e violenta natura drammatica dell'Angelo di fuoco, interpretata nella Terza da una scrittura orchestrale turgida e tumultuosa, che solamente nell’ Andante - ispirato dall’inizio del quinto atto dell’opera, ambientato in un convento — assume un carattere sereno e diatonico; la felice vena
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melodica del Figlio! prodigo che tuttavia nella Quarta, per il suo carattere rapsodico, non riceve, in particolar modo nei tempi estremi, un adeguato sviluppo sinfonico. Il canone della “sinfonia sovietica”, così naturale per Sostakovié che contribuì in modo de
niia alla sua edificazione, sor-
tì invece un effetto raggelante su Prokof'ev. Gravano infatti sulle prime due Sinfonie sovietiche — la Quinta (1944) e la Sesta (1947) — ed in particolar modo sui movimenti iniziali e su quelli lenti, un’enfasi oratoria ed un’orchestrazione massiccia, sicché i
temi, seppur suggestivi (la melodia éajkovskijana dell’ Adagio della Quinta), sono bloccati nel loro sviluppo melodico in una dimensione espressiva neutra e uniforme. Gli episodi si succedono più per giustapposizione che per una logica intrinseca allo sviluppo sinfonico, di modo che l'estensione delle sinfonie nonè giustificata da un’intrinseca necessità espressiva. I passi più riusciti sono da ravvisare nei movimenti veloci, ma, anche in essi, più nei temi ner-
vosi e scattanti, magistralmente scolpiti (la melodia del clarinetto nell’ Allegro marcato ed il tema dell’ Allegro vivace della Quinta), che non negli sviluppi e nelle lunghe code. 1 Sinfonia della giovinezza fu salutata la Settizza di Prokof'ev (1952) in occasione della sua prima esecuzione moscovita. Ma, a
ben vedere, i suoi slanci lirici sono come bloccati, non riescono
ad espandersi, il brio e la vivacità dei movimenti di’'danza sono pallide ombre del passato, la chiarezza e la leggerezza dell’orchestrazione sconfinano sovente nel semplicismo. Non è il senso di una giovinezza effettivamente ritrovata, che si coglie, quanto piuttosto la patetica volontà di risultar giovane a tutti i costi: espressione non solo di un improvviso quanto tardivo sussulto di vitalità senile, ma anche risposta alle pressanti richieste di vitalismo ottimistico da parte del regime. Già durante il soggiorno europeo, Prokof'ev aveva aumentato il numero delle composizioni orchestrali traendo da ogni balletto una suite sinfonica; un caso a sé stante è la Suite scita (1914-15),
poiché il balletto da cui deriva, essendo dispiaciuto al committente (Djagilev), non vide mai la luce. Sebbene rifletta chiaramente l’in-
fluenza stravinskijana nella violenza ritmica e nel timbro orche-
strale, reso opaco dall'impiego di un’ingente sezione di ottoni (in particolare nel secondo episodio, “Il dio nemico e la danza degli spiriti neri”) gli elementi musicali rispondono a schemi narrativi ed
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a categorie compositive totalmente diverse da quelle del Sacre. Nel periodo sovietico, a motivo del favore accordato al genere dalla critica e dal pubblico, la produzione di suites si infittì e Prokof'ev prese a trarne più di una dallo stesso balletto (tre da Romeo e Giulietta e da Cenerentola; quattro da La favola del fiore di pietra) e a ricavarne inoltre da film (Il tenente Kize, Le notti egiziane) e da
opere (Serzén Kotko, Matrimonio al convento). Un posto di particolare rilievo occupa, nella produzione orchestrale di Prokof'ev, Pierino e il lupo (1936), una favoletta sinfonica i cui protagonisti sono Leitmotive interpretati da strumenti
diversi; la favola si prefigge infatti la funzione didattica di educare i fanciulli a riconoscere i diversi timbri strumentali. La straordinaria capacità di Prokof’ev di tratteggiare un carattere con un disegno melodico (il tema sornione del gatto, quello grave del sonno, la melodia sbarazzina di Pierino, interpretati rispettivamente dal clarinetto, dal fagotto e dall’intera sezione degli archi) e di far vivere tale disegno all’interno di una struttura narrativa (memorabile la
scena del gatto che si arrampica sull’albero all’arrivo del lupo) fanno di Pierino e il lupo non solo uno dei capolavori della musica per l'infanzia, ma anche uno dei più freschi lavori sinfonici composti da Prokof’ev durante il periodo sovietico. La produzione concertistica di Prokof'ev è quasi interamente compresa tra il primo periodo russo e il rientro in patria; l’ultimo lavoro, il Concerto in mi minore per violoncello e orchestra op. 58 (1938), fu terminato in coincidenza con la sua ultima toumée occi-
dentale, cinque anni dopo il suo ritorno in URSS. Una seconda redazione — più raddolcita in quanto rivolta espressamente al pubblico sovietico — del Secondo Concerto per violoncello (prima versione, 1935; seconda versione, 1950-52, poi intitolata Sinfonia concertante per violoncello e archi) e due Concerti i incompiuti (op. 132
e 133) rispettivamente per violoncello e pianoforte, composti nel penultimo anno della sua vita, testimoniano un rinnovato quanto tardivo interesse per il genere concertistico. I Concerti per pianoforte rappresentano la parte più cospicua della sua produzione concertistica (cinque Concerti per pianoforte, contro due per violino e quelli per violoncello menzionati in precedenza); furono essi, oltre alle opere per pianoforte solo, a determinare l'affermazione del compositore in Europa e negli USA, nella duplice veste di virtuoso della tastiera e di compositore “modernista”
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I primi due Concerti (in re bemolle maggiore op. 10, 1911-12 e in sol minore op. 16, 1913, di cui il compositore allestì una seconda versione nel 1923) contengono già pienamente espresse le caratteristiche salienti del linguaggio pianistico di Prokof'ev: motorismo percussivo e aggressività ritmica nei tempi veloci; intenso lirismo nei tempi lenti. Nel Terzo Concerto (1917-21) i tratti stilistici di Pro-
kof'ev sono innestati su un edificio sonoro che dalla tradizione classica mutua non solo la struttura formale dei primi due movimenti (Allegro di sonata con un preludio lento iniziale, Tema e cinque variazioni) ma anche la chiarezza della linea melodica sagomata dal timbro pianistico: il primo tema dell’ Allegro iniziale, nervoso e scattante, ed il secondo, angoloso e incisivo; la nostalgica gavotta dell’Andantino trasformata nel ritmo e nel disegno melodico nel corso delle successive variazioni pianistiche. In così netta preminenza dell’aspetto ritmico e percussivo, particolare rilievo assumono i due
movimenti in cui prevale la melodia: il breve preludio iniziale (Andante) sviluppato poi, assieme ai due temi principali, nel successivo Allegro, e l'intensa ed accorata melodia che interrompe (nell Allegro ma non troppo) la pulsazione ritmica del tema principale. Il Quarto Concerto (1931), come quello in re maggiore di Ravel, il Parergon zur Symphonia Domestica (1925) e il Panathendenzug (1927) di Richard Strauss, fu scritto per la sola mano sinistra in quanto dedicato al pianista austriaco Wittgenstein, mutilato del braccio destro durante la guerra (quest’ultimo però si rifiutò di eseguirlo perché affermava di non comprenderlo). Il Quinto (1932) ed ultimo concerto, con cui il compositore intese «creare una tec-
nica che differisse da quella dei [...] concerti precedenti», presenta un maggior sviluppo della parte orchestrale e dell’elaborazione tematica a scapito dell’evidenza dei tratti melodici. Se i Concerti per pianoforte traggono dal tocco pefcussivo e dall'elemento ritmico i caratteri salienti, i due Concerti per violino danno invece risalto all'aspetto melodico. Nonostante siano stati composti a distanza di quasi un ventennio (1916-17 il primo, in re maggiore; 1935 il secondo, in sol minore), presentano una note-
vole affinità espressiva. Nel primo, il cui tempo veloce occupa la posizione centrale, lo sviluppo tematico è molto elaborato, di modo che i tempi estremi comunicano l'impressione di un unico slancio melodico; nel secondo invece, ed in special modo nell’ Allegro moderato iniziale, i nuclei tematici sono maggiormente diversificati.
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Negli anni Venti, nel campo della musica cameristica e pianistica si registrano due tendenze principali: da un lato chi, come Glazunov, Glière, Aleksandrov, Ljapunov, Mjaskovskij, Kabalev-
skij, era sostanzialmente ancorato alla tradizione tardoromantica e chi invece, come Sebalin, Roslaveé, Popov, si allineava su posi-
zioni più avanzate, “moderniste” e talora futuriste (un esempio di quest’ultima tendenza sono Le ferrovie, 1926, di Desevov). I lavori composti da Sostakoviè in quegli anni (Tre danze fantastiche per pianoforte op. 5, 1922; Preludio e Scherzo pet ottetto d’archi op. 11, 1924; Prima Sonata per pianoforte op. 12, 1926; Dieci afo-
rismi per pianoforte op. 13, 1927) riflettono la lezione di Prokof'ev, Stravinskij, Hindemith, seppur interpretata (come già si è posto in rilievo a proposito della Prizza Sinfonia) in una chiave stilistica ed espressiva personale, dimostrando, già fin da questi primi saggi, un’adesione “di superficie” al linguaggio contemporaneo e l’emergenza di un fondo radicato in una solida tradizione. Il rilievo e l’importanza attribuiti dal realismo socialista ai generi ufficiali fecero sì che la musica da camera dalla metà degli anni Trenta si trovò ad essere meno esposta alle critiche ed agli sbalzi d’umore del partito, e a concedere quindi maggior spazio allo sviluppo di tematiche più legate alla sfera “soggettiva” ed in ultima analisi alle ricerche linguistiche. Ciò non significa che essa sia estraniata dal dibattito ideologico e dalle istanze della nuova estetica di regime. Ad esempio, l’utilizzazione di melodie tratte dal patrimonio popolare non fu prerogativa esclusiva dei generi musicali dianzi trattati, bensì anche di numerosi lavori cameristici: melodie armeng e georgiane ricorrono nella Sonata per violino e pianoforte e nel Trio per pia-
noforte, violino e clarinetto, entrambi del 1932, di Khataturjan; Sebalin, che nel Terzo (1939) dei suoi nove quartetti tentò di conciliare gli antichi modi russi con le innovazioni linguistiche occidentali, nel Quinto Quartetto (1942), detto “slavo”, utilizzò tanto
melodie popolari russe ed ucraine che melodie polacche, slovacche e serbe, mentre il Secondo Quartetto (1955) di Vlasov illustra cinque quadri cecoslovacchi, con melodie di quella regione. Anche la tematica celebrativa non rimase estranea all’àmbito cameristico: il Settimo Quartetto (1952) di Levitin, ad esempio, utilizza il motivo
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popolare per celebrare, in una sorta di poema quartettistico, una giovane eroina caduta in guerra. Gli esempi potrebbero ovviamente moltiplicarsi. Rimane però il fatto sostanziale che, pur tenendo conto delle connessioni che intercorrono, al pari degli altri generi, fra l’estetica sovietica e la musica cameristica, quest’ultima fu tuttavia un porto più sicuro durante i periodi più procellosi. La maggior tranquillità con cui i compositori si applicarono al genere fece sì che l'evoluzione stilistica potesse compiersi in modo più rettilineo e conseguente. Questo discorso vale specialmente per i compositori maggiori: Mjaskovskij, ad esempio, prolifico anche nel campo cameristico ed in particolar modo in quello quartettistico con una produzione di tredici Quartetti, maturò uno stile di stampo polifonico, così come Sostakoviè, che esplorò anche, nel periodo del “disgelo”, il campo dolenti Nel caso di Prokof’ev, che si dedicò sporadicamente al genere cameristico, la continuità stilistica si evidenzia invece in particolar modo nella produzione pianistica. 10.1e SOSTAKOVIÉ
Analizzando la produzione sinfonica ed operistica di Sostakovit si è posto in rilievo come nella Lady Macbeth e nella Quarta Sinfonia il compositore avesse iniziato ad inglobare tratti stilistici ed espressivi romantici e tardoromantici senza peraltro rinunciare alle caratteristiche più corrosive del suo “primo stile”. La chiave di volta di questo processo che, bloccato dal caso della Lady Macbeth, continuò su altri sentieri ma sempre nella medesima direzione, sono i Ventiquattro Preludi op. 34 per pianoforte (1932-33). Lo spirito da cui sono animati non è il gusto della deformazione satirica, pur pronunciata in alcuni preludi (la ridicolizzazione del tempo di marcia del n. 6, la cui melodia sembra riecheggiare l’inno fascista Giovinezza; il “valzer al quadrato” del n. 15; la spigolosità marionettistica del n. 24, così marcatamente prokof’eviana), quanto piuttosto un’interpretazione ironica ed arguta di certi gesti del pianismo romantico. Lo schema generale della raccolta è simile a quello dei Preludi di Chopin: la successione, cioè, delle tonalità maggiore-minore secondo il ciclo ascendente delle quinte per i diesis ed in senso discendente per i bemolli, laddove però la tonalità base affermata all’inizio ed alla fine del brano è un mero pretesto per
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una costante evasione da essa nel corso dello sviluppo. Ciò che maggiormente colpisce in questi preludi è proprio il tenuissimo velo di ironia che li ammanta; non solo lo scatto improvviso che mette in forse per un istante la serietà del discorso (il tremolo, il ritmo terzinato e l’accordo f{f che interrompe l’a/lure chopiniana del n. 3, ad esempio), ma pure l'ambiguità espressiva del ciclo nel suo complesso: l'ironia discreta, cioè, di chi si riconosce nell’oggetto
ironizzato. L'ultimo lavoro cameristico che precede la crisi del 1936, la Sonata per violoncello e pianoforte (1934), presenta invece una
netta linea di demarcazione tra il fluente e romantico melodizzare dei tempi dispari (Moderato e Largo) e il “modernismo” degli altri due (l’aggressività del timbro pianistico del Moderato con moto; la deformazione neoclassica dell’ Allegretto finale).
Dopo la crisi, l’attività cameristica di Sostakoviè, vuoi per i minori pericoli che essa comportava, vuoi per il successo riportato
con il Quintetto con pianoforte op. 57 che gli valse il Premio Stalin, si infittisce e, specialmente nel genere quartettistico, diviene continuativa. I primi lavori (Prizzo Quartetto op. 49, 1938; Seconda Sonata per pianoforte op. 61 = originariamente op. 63 —, 1943) sono
caratterizzati da un linguaggio relativamente semplice e lineare. Il Quintetto con pianoforte op. 57 (1940), momento centrale di questo primo periodo creativo, è, tanto sotto il profilo espressivo che sotto quello linguistico, una filiazione cameristica della Quinta Sinfonia. Alla desolazione ed all’infinita tristezza dei tre movimenti lenti (Preludio e Fuga iniziali, Intermezzo) in cui i procedimenti
imitati sono animati da. un pathos intenso, fa riscontro il ritmo martellante e sfrenato di quelli veloci (Scherzo e Finale); ne scatu-
risce un’accentuata divaricazione espressiva che è una delle sigle
di Sostakovié. Un altro lavoro di questo periodo, anch'esso insignito del Premio Stalin, che rappresenta un importante approdo del compositore in campo cameristico, è il Trio per violino, violoncello e pianoforte op. 67 (1944). Anche in quest'opera è notevole lo stacco fra le sezioni in tempo lento, ancora in stile imitato (1'An-
dante fugato iniziale, con una melodia introdotta sulla tessitura acuta del violoncello, che sembra provenire da lontananze ancestrali, ed il Largo in forma di passacaglia, di un’immobilità glaciale) e quelle veloci (il séguito del primo movimento in formasonata, lo Scherzo —- Allegro non troppo — e l’Allegretto finale, in forma mista sonata-rondò). I diversi movimenti sono però mag-
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giormente articolati, sviluppati dialetticamente e l’ultimo, il cui ritmo ossessivo quasi satanico è interrotto da spettrali ritorni del fugato iniziale del primo movimento e del tema accordale del Largo, conferisce al Trio una struttura ciclica. Con il contemporaneo Secondo Quartetto (1944) in quattro movimenti, anche il linguaggio quartettistico evolve verso una tecnica compositiva più matura a motivo di una maggior articolazione delle componenti musicali. Il primo significativo raggiungimento di questo processo di maturazione è il Terzo Quartetto (1946), ultima opera cameristica composta prima della bufera Zdanoviana. Vi si possono ravvisare, compiutamente espresse, alcune caratteristiche salienti
dello stile di Sostakoviè: la tendenza all’integrazione — piuttosto che alla contrapposizione — dei nuclei tematici (i due temi principali dell’ Allegretto, ad esempio, sono due differenti proiezioni dello stesso tema di otto battute); le frequenti mutazioni ritmiche (il terzo movimento, Allegro non troppo, alterna continuamente il 2/4 al 3/4); la commistione e la fusione del linguaggio omofonico con quello contrappuntistico.
Una tappa importantissima sulla via del recupero del contrappunto e del suo impiego in campo non solo concertistico sono i Ventiquattro Preludi e Fughe per pianoforte op. 87 (1950-51) — un omaggio a Bach composto al ritorno da un viaggio commemorativo a Lipsia in occasione del duecentesimo anniversario della morte — che rivelano il desiderio di ancorare a solidi princìpi formali la struttura musicale. All’interno di essa, gli atteggiamenti espressivi sono molto vari. I Preludi, in particolar modo, presentano un vasto repertorio di forme musicali — una sarabanda (n. 1), uno stu-
dio pianistico (n. 2), un corale figurato (n. 4), una passacaglia (n. 12) - oppure riecheggiano moduli espressivi tipici del canto russo (nn. 3, 9, 16, 20). Le Fughe, vincolate ad un principio formale
più rigido, mutano invece nel numero delle voci (da due a cinque) e nell'impiego di temi più o meno diatonici o cromatici, ad eccezione di quella conclusiva, che è piuttosto una via di mezzo fra uno studio ed un Allegro di sonata. L'influenza di questa importante esperienza è rispecchiata, nell’àmbito quartettistico, non solo nell'impiego di forme contrappuntistiche, ma anche in un’integrazione fra temi e relativi sviluppi, evidente nel primo tempo del Quinto Quartetto (1952) che, già fin nell'esposizione, consiste nell’intersezione di frammenti tematici
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modalmente ambigui. Tre movimenti si succedono senza stacchi, con un motto iniziale cromatico e tortuoso che ricompare continuamente nel corso dei due movimenti estremi assumendo l’aspetto di un monito fatale, ora quello di un valzer grazioso. Specialmente nell’ Allegro non troppo iniziale, Sostakovié espone un certo numero di cellule tematiche rimacinate nel corso dello sviluppo; insieme alla salita verso regioni sempre più acute, questa saturazione fonica e dinamica progressiva comunica un senso di vero e proprio stordimento. . Con l’Ottavo Quartetto (1960), sotto le spoglie di quella sigla musicale autografa già ricorrente nella Decizza Sinfonia ed anche, permutata, nel Quinto Quartetto (primo movimento), il linngiagio quartettistico di Sostakoviè (in particolar modo nel Decimo, 1964, e nel Dodicesimo Quartetto, 1968) introduce in misura consistente il motivo cromatico fino a delineare la serie dodecafonica (inizio del Dodicesimo Quartetto). Contemporanea al Dodicesimo Quartetto e con numero d’opera immediatamente successivo è la Sonata per violino e pianoforte op. 134. Anche in essa, Sostakovié utilizza una serie come motivo tematico nel primo movimento (Andante), nell’introduzione del Largo
finale in forma di passacaglia e come controsoggetto nella nona variazione. Anche in quest’opera — ed è caratteristica costante della concezione dodecafonica di Sostakovié — la serie non è sviluppata secondo il principio permutatorio (nell’ Andante ricorre come motivo tematico, assieme a due altri temi, l’uno cromatico, l’altro ritmico),
ed il cromatismo è contraddetto da una struttura fondamentalmente tonale (l’Andante, ad esempio, ha come centro tonale il sol maggiore). Le variazioni, inoltre, put sortendo esiti cromatici e armonicamente accidentati, non si snodano attorno ad una-serie, bensì ad un tema cromatico non dodecafonico.
Anche il Tredicesimo Quartetto (1970), in un solo movimento tripartito, inizia con una serie dodecafonica della viola i cui sviluppi —- sempre tematici — occupano le due sezioni estreme; quella centrale è invece un ostinato ritmico-melodico sferzato di quando in quando dalla percussione dell’archetto sulla cassa degli strumenti. Un recitativo del violoncello riconduce al tempo primo (Adagio), in cui sulla trama della trenodia dodecafonica dell’inizio, ancor più grave e mesta, ricorrono echi e frammenti della sezione centrale, ivi compresa la percussione dell’archetto. Ognuno dei tre movi-
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menti (Allegretto-Adagio-Allegretto) del Quattordicesimo Quartetto ruota attorno ad un paio di nuclei melodici principali con il violoncello che assume diverse volte un ruolo protagonistico in quanto la composizione fu dedicata al violoncellista del Quartetto Beethoven. Gli sperimentalismi sono banditi, tranne una specie di hoquetus nel terzo movimento, in cui ognuno dei quattro strumenti,
a turno, protrae il discorso musicale a grandi salti intervallari. Il Quindicesimo Quartetto (1974), con cui si conclude la produzione quartettistica di Sostakovi&, è un compianto funebre dedicato alla memoria del secondo violino del Quartetto Beethoven, Vasilij Sirinsky, come già l’Undicesimo. L'occasione è celebrata con una successione di sei movimenti lenti che si avvicendano come in una funebre teoria. Il secondo movimento (Serenata) è introdotto da un episodio che riprende un effetto praticato dall’avanguardia europea, che consiste nella successione di note singole in crescendo,
concatenate precedente. figurazione di elementi
fra loro da una brusca interruzione a strappo del suono L’Intermezzo (terzo movimento) introduce invece una di biscrome che nell’Epilogo si intercala alla ripresa dei movimenti precedenti fra cui la Marcia funebre
(quinto movimento), assumendo un aspetto quanto mai fantoma-
tico, spettrale. L'itinerario creativo di Sostakovi& si conclude con una Sonata per viola e pianoforte (1975) improntata, nei movimenti estremi,
alla più pura esaltazione del rze/os; nel movimento conclusivo (Adagio) la citazione beethoveniana (dell’ Adagio sostenuto della Sonata quasi una fantasia “ Al chiaro di luna” op. 27 n. 2) si apfe ad una continua reinvenzione lirica, in cui la fantasia melodica di Sostakovié si sbriglia in lunghe LI estenuate melopee, in arpeggi dodecafonici, in soste tonali. 10.2 e PROKOF’EV
A differenza di Sostakovié, Prokof'ev non dimostrò, nell’àèm-
bito della musica da camera, di prediligere particolarmente una forma o un insieme strumentale; prescindendo dalle opere incomplete o perdute e dalle trascrizioni, solamente il quartetto compare due volte nella sua produzione cameristica (op. 50, 1930, e op. 92, 1941). Ciò non esclude che opere quali la Sonata per flauto e pianoforte (1943, trascritta poi per violino e pianoforte l’anno
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seguente), la Prizza Sonata per violino e pianoforte (1938-46) e il Secondo Quartetto, di ispirazione folclorica, mettano in luce la fresca vena melodica del compositore. Il pianoforte occupa invece, nella carriera compositiva ed artistica di Prokof'ev, una posizione centrale. Come è già stato posto in rilievo trattando dei concerti per pianoforte, fu proprio il suo personalissimo tocco pianistico a richiamare l’attenzione del pubblico e della critica sul giovane musicista: uno «staccato sul filo del pianoforte», come lo definì Poulenc, particolarmente adatto a porre in risalto le taglienti linee melodiche caratteristiche del suo stile compositivo. Il nucleo cen-
trale della produzione pianistica di Prokof'ev è formato da nove Sonate che, fra i generi da lui trattati, sono quelle meno influen-
zate dagli sbalzi stilistici. L'evoluzione linguistica segue infatti una logica intrinseca alla forma, arricchendosi eventualmente di esperienze stilistiche maturate in brani di minor impegno formale. Se la Primza Sonata in un solo movimento (prima versione, 1907;
versione definitiva, 1909) è ancora largamente in debito con il pianismo romantico (Schumann, Liszt) e skrjabiniano, già nella Seconda (1912) si avverte quel bipolarismo espressivo che caratterizzerà l’opera pianistica del compositore: accentuato lirismo dei movimenti lenti e vitalismo ritmico di quelli veloci. È tuttavia in due brani di minor estensione (la Suggestion diabolique, ultimo dei Quattro pezzi op. 4, del 1908 e la Toccata op. 11, ispirata idealmente a quella di Schumann) e nella raccolta intitolata Sarcasmze (1912-14) che si affermano violentemente i tratti più scabri e percussivi del pianismo di Prokof'ev. Contemporaneo della Terza e della Quarta Sonata, composte entrambe nel 1917 utilizzando abbozzi che risalgono al 1907-08, è il ciclo dei veni brani aforistici intitolato Visions fugitives. Sono pagine di un diario intimo in cui il composigore espresse in termini sonori per lo più delicati ed evanescenti (ma il tempo della xrv è indicato come «feroce» e la xIx si ispira alla Rivoluzione d’ottobre) “impressioni” personali degli anni 1915-17; di un anno posteriori sono i Racconti della vecchia nonna, quattro semplici melodie di sapore popolaresco. La Quinta Sonata (1923), più “costruita” di quelle precedenti nei movimenti estremi, nell’Andantino centrale si sbriglia in una danza meccanica. Più di un quindicennio separa la Quinta dalla serie delle ultime quattro Sonate, interamente comprese nel periodo sovietico. Le prime (Sesta, 1939-40; Settima, 1939-42; Ottava, 1939-44), deno-
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minate convenzionalmente «sonate di guerra» in quanto composte nel periodo del secondo conflitto mondiale, rappresentano il vertice della produzione pianistica del compositore in quanto le caratteristiche salienti del suo linguaggio pianistico sono calate in una struttura formale maggiormente controllata. Nella Settizza, forse il capolavoro nel genere della sonata pianistica, tutti e tre i movimenti presentano una struttura ternaria che pone in particolare rilievo i disegni tematici e ritmici, stringati ed essenziali: il ritmo martellante dell’Allegro inquieto introduttivo e le evanescenze impressionistiche dell’ Andantino che costituiscono i due nuclei tematici del primo movimento, posti a confronto in una concitata sezione centrale di sviluppo; il tema dell’Andante caloroso, una raffinata trasfigurazione quasi-satieiana di una canzone sentimen-
tale riesposta dopo un progressivo crescendo dinamico e espressivo (Poco più animato — Più largamente — Un poco agitato); l’osti-
nato ritmico del finale (Precipitato) che, dopo un divertimento ritmico centrale, conclude il movimento e la Sonata. La Nora (1947)
con cui termina il ciclo di Sonate (di due altre in cantiere ci sono pervenuti solo alcuni abbozzi) rispecchia invece quella nuova semplicità che il compositore si prefiggeva di perseguire negli ultimi anni quale nuova mèta espressiva.
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11 € LA FONDAZIONE DELL’IMPERO STATUNITENSE E L’ISOLAZIONISMO
Con la conclusione della guerra civile (1865) e la vittoria degli
Stati dell’Unione ha inizio la vertiginosa ascesa economica statunitense; nel breve spazio di un quarantennio la produzione industriale quintuplicò e gli Stati Uniti si collocarono al primo posto tra le nazioni industrializzate. Una così rapida trasformazione fu resa possibile da un concorso di cause che si possono sintetizzare nei seguenti punti: ricchezze naturali e materie prime più abbondanti di qualsiasi altra nazione del mondo; incremento dei trasporti adeguato (talvolta perfino esorbitante) ad un’economia in via di sviluppo; potente stimolo alla ricerca di nuove tecnologie ed all’invenzione di nuove macchine (676 000 brevetti concessi tra il 1860 ed il 1900); mano d’opera abasso costo reperita in particolar modo tra gli immigrati (dalle 300 000 unità annue di immigrati del decennio 1870-80 si passò alle 900 000 unità nei primi anni del xx secolo); grande capacità di assorbimento del mercato interno, continuamente incrementato dagli immigrati; assenza di barriere doganali tra gli Stati dell’Unione; forte protezionismo nei confronti della concorrenza estera. L’interazione di questi fattori rese possibile un’accumulazione estremamente rapida di capitali. Nello spazio di pochi decenni furono fondati imperi economici faraonici che concentrarono smisurate ricchezze nelle mani di pochi avventurieri del dollaro: la Carnegie Steel Company, fondata dal figlio di un maestro tessitore scozzese, Andrew Carnegie; la Standard Oil Company di John D. Rockefeller, che nel 1904 assorbiva l'80% della produzione statunitense di petrolio raffinato per illuminazione. L’impero bancario di John Pierpont Morgan rappresenta, invece, mediante la fusione di interessi industriali e di capitale finanziario, una nuova fase del capitalismo statunitense: la tendenza delle compagnie industriali a riunirsi in corporations, gigantesche società per azioni che, me-
diante accordi finanziari (il trust, o combinazione di diverse corporations, ed il pool, o cartello tariffario), invece di farsi concorrenza
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l’un l’altra istituirono un regime di vero e proprio monopolio. Questa crescente concentrazione monopolistica fece sì che nel 1930 duecento società (circa 1/700 dell’1% del totale delle imprese) con-
trollassero la metà del capitale di tutte le imprese statunitensi. Per comprendere in che misura il Congresso appoggiò tale processo di accumulazione del capitale basato sul trust finanziario ed industriale, basti pensare che una legge approvata il 2 luglio 1890 (legge Sherman), che avrebbe dovuto limitare il regime monopolistico delle
corporations, si ritorse invece contro la classe operaia divenendo una potente arma puntata contro di essa. L’ultimo atto della fondazione dell'impero fu l’inizio dell’imperialismo economico in America latina. Completata ormai, con l’annessione degli ultimi stati dell'Ovest, la scacchiera degli Stati Uniti (gli ultimi due, Alaska e Hawaii, saranno annessi rispettiva-
mente nel 1958 e nel 1959), il capitalismo statunitense andò alla ricerca di nuove frontiere. Con la guerra ispano-americana, conclusasi nel giro di quattro mesi con la pace di Parigi (10 dicembre 1898), ha inizio una progressiva ingerenza degli Stati Uniti nell’economia dei paesi dell’ America latina che, secondo gli atteggiamenti assunti dai vari presidenti, fu definita «politica del grosso bastone» (Theodore Roosevelt), «diplomazia del dollaro» (Taft),
«politica del buon vicinato» (Franklin Delano Roosevelt). Alla politica degli investimenti, gli Stati Uniti affiancarono quella degli interventi militari diretti (a Panama nel 1917, 1918 e 1925; ad Haiti,
dal 1915 al 1934; nella Repubblica Dominicana, dal 1916 al 1924; nel Nicaragua, nel 1912 e nel 1915; nel Messico, nel 1914 e nel
1916).
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Nei confronti dell’Europa, dopo l’intervento a fianco degli alleati nel conflitto mondiale ed il fallimento del sogno wilsoniano di una «Società delle Nazioni» che avrebbe dovuto «promuovere la pace e la sicurezza internazionale», gli Stati Uniti si chiusero in un ostinato isolazionismo. Uno dei primi effetti di questa politica furono leggi sempre più restrittive nei confronti dell’immigrazione. Gli anni Venti (la mitica età del jazz fitzgeraldiana) furono caratteriz-
zati da amministrazioni repubblicane molto ben disposte nei confronti del capitale e molto poco invece nei confronti del movimento operaio. La rivoluzione bolscevica ed il trionfo di Lenin e del comunismo sovietico avevano creato nell’opinione pubblica, abilmente manipolata, un’isteria collettiva nei confronti del “pericolo rosso”
L’ETÀ
DORATA
E L’ETÀ
DEL
JAZZ
che diede origine a violenti episodi di intolleranza politica e giudiziaria; il più famoso fu il processo contro i due operai anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, conclusosi con la loro
condanna a morte. L'entrata in vigore del proibizionismo (29 gennaio 1919) creò, oltre ad un lucrosissimo traffico clandestino gestito dalla malavita, il fenomeno opposto a quello che avrebbe voluto sortire: uno smodato consumo di alcool in ambienti ove prima era ritenuto sconveniente bere. L’alcool, oltre ad assurgere a simbolo ribellistico, era diventato un vezzo snobistico, un conformistico
anticonformismo medio e alto-borghese. Le crisi economiche nel settore agricolo, alimentare tanto dai dazi protezionistici a vantaggio dei prodotti industriali quanto da eccessi di produzione e da restrizioni creditizie, crearono un costante movimento migra-
torio verso le grandi città industriali (Chicago, New York, Detroit) che divennero metropoli sempre più caotiche e disumanizzanti. Il primo periodo dell’impero statunitense si concluse con il crollo finanziario del 25 ottobre 1929 e con la conseguente crisi economica che affondava le radici nella sconsiderata politica degli anni Venti.
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12 e L’ETÀ DORATA E L’ETÀ DEL JAZZ
Gli intellettuali statunitensi, posti di fronte a così rapide e radicali trasformazioni, reagirono in modi diversi. Da un lato vi fu chi,
più o meno direttamente, giustificò il nuovo stato di cose, quando non creò ad esso un supporto ideologico, una giustificazione filosofica. È il caso della teoria pragmatista di William James (18421910) per la quale «la percezione ed il pensiero esistono solo in vista della condotta» e la verità si identifica con l’utilità. E ancora il caso del darwinismo sociale per il quale la storia più che indagata deve esser giustificata, estendendo alla sfera sociale la teoria della selezione biologica; trapiantato negli Stati Uniti incontrò molti consensi — il sociologo ed economista William Graham Sumner (1840-1910) ne fu uno dei più accesi sostenitori — poiché rappre-
sentava la giustificazione teoretica del liberalismo economico e della politica governativa del /aissez faire. Un altro atteggiamento fu l'evasione dalla nuova realtà statunitense. Vi fu chi evase spiritualmente, come i cosiddetti «bramini
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della Nuova Inghilterra» (la definizione, che oggi suona in modo irrisorio, fu coniata da uno di loro, Oliver Wendell Holmes), un
gruppo di poeti e storici (Longfellow, 1807-1882; Lowell 18191891; Holmes, 1809-1894; Prescott, 1796-1859; Motley, 1814-
1877; Parkman, 1823-1893) che, imbevuti di cultura bostoniana,
voltarono le spalle ai nuovi fermenti linguistici provenienti dal West e continuarono a coltivare una tradizione raffinata illudendosi di arginare, con il loro isolazionismo intellettuale, la barbarie dei nuovi
tempi. Strenuo difensore del purismo linguistico, e dunque pontefice massimo dei “bramini” sul versante della critica, fu Thomas Bailey Aldrich (1836-1907) che, dalle colonne dell’«Atlantic
Monthly» di cui fu direttore per un decennio (1881-90), impiegò tutte le sue forze per conservare l’ordine simmetrico della “tradizione garbata”. Altri scrittori, appartenenti sempre a questà seconda
categoria, scelsero una soluzione più radicale: espatriarono e si stabilirono in Europa, dove non perdettero di vista 1’America. Inesorabilmente il loro americanismo si tradusse in una sorta di cosmopolitismo, pur esplicantesi in una gamma differenziata di atteggiamenti espressivi: il realismo introspettivo di Henry James (1845-1916), fratello del già menzionato William; lo sperimentalismo di Gertrude Stein (1874-1946); l’“imagismo”
e le evocazioni
linguistiche di Ezra Pound (1885-1976), l’ermetismo di Thomas Stearns Eliot (1888-1965).
i
Vi furono poi intellettuali che, nei modi più diversi, condannarono l’opportunismo e lo sfrenato individualismo che si celavano dietro l'apparenza del mito del progresso e del benessere collettivo. Mark Twain (pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, 1835-1910) smantellò con il suo umorismo corrosivo i falsi miti
della gi/ded age (l’età dorata) — è il titolo di un racconto pubblicato nel 1873 da Twain e da Warner in cui sono illustrati lo sfruttamento e la corruzione assunti a normale prassi politica, titolo che venne poi attribuito all’epoca delle facili fortune industriali. Walt Whitman (1819-1892), che nuove foglie cadute dal ramo della guerra di secessione andava aggiungendo alle sue Leaves of Grass (Foglie d’erba) pubblicate per la prima volta nel 1855, seppur sempre fiducioso nella «maestà e vitalità del popolo americano er masse», condannava lo squallore morale della nuova epoca in Derzocratic Vistas (Orizzonti democratici,
1871).
L’ETÀ
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Nasceva poi a quell’epoca, nel genere del romanzo, una nuova tendenza letteraria realistica, gravida di futuri sviluppi. Inaugurato da William Dean Howells (1837-1920) - in romanzi quali The Rise of Silas Lapham (L’ascesa di S.L., 1885), in cui è descritta la carriera di un se/fmzade man bostoniano, o A Modern Instance (Un’esigenza moderna, 1882), ove è affrontato il problema del divorzio - il nuovo realismo, posto in mano a scrittori delle nuove generazioni, diventerà un vero e proprio specchio della realtà sociale, che di decennio in decennio si faceva vieppiù drammatica. Così Sister Carrie (Nostra sorella Carrie, 1900) di Theodore Dreiser (1871-1945) che narra la storia della seduzione di una povera ragazza
di campagna venuta in città, e che indignò i benpensanti dell’epoca; oppure Maggie: a Girl of the Street (M.: una ragazza di strada, 1893) di Stephen Crane (1871-1900) la cui protagonista era una prostituta, pubblicato a spese dell’autore poiché nessun editore aveva voluto assumersene la responsabilità; ed ancora The Octopus (La piovra, 1901) di Frank Norris (1870-1902) che tratta della lotta fra gli agricoltori californiani e la ferrovia che tende a fagocitare i campi e le colture. Nei primi decenni del xx secolo, un gruppo di poeti dell’Illinois, Carl Sandburg (1878-1967), Vachel Lindsay (1879-1931) ed Edgar Lee Masters (1869-1950), ponendosi in un’ot-
tica diversa da quella degli “espatriati” (The Waste Land di Eliot è del 1922; i primi due libri dei Cantos di Pound, del 1925 e del
1930) cercarono di inglobare nelle loro poesie la realtà mediante un filtro linguistico di stampo whitmaniano. La più famosa fra le raccolte poetiche dei tre autori è senza dubbio la Spoon River Anthology (Antologia di Spoon River, 1915) di Edgar Lee Masters, una raccolta di epitaffi recitati dai defunti che «dormono sulla collina» e che, tessera accanto a tessera, ricostruiscono nella dimensione
del ricordo la vita del villaggio con le sue nevrosi e le sue ipocrisie. Il periodo compreso tra la fine della Prima guerra mondiale ed il crollo finanziario del ’29 fu definito da uno dei suoi più sofisticati protagonisti ed interpreti, lo scrittore Francis Scott Fitzgerald (1896-1940), jazz age (età del jazz). I suoi racconti (Flappers
and Philosophers, Maschiette e filosofi, 1920; Tales of the Jazz Age, Storie dell’età del jazz, 1922) e romanzi (This Side of Paradise, Di
qua dal paradiso, 1920; The Beautiful and Damned, I belli e i dannati, 1922) e specialmente il suo capolavoro, The Great Gatsby (Il
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grande Gatsby, 1925) ci offrono un’immagine viva e partecipata dello sfrenato edonismo e della convulsa eccitazione che caratterizzarono gli anni Venti. Il jazz non fu l’unico simbolo dell’epoca; lo furono ad egual diritto il cinema, la radio, il proibizionismo,
il fonografo, ma il jazz è indissolubilmente connesso con ognuno degli altri. «La parola jazz nella sua marcia verso la rispettabilità», scriveva Fitzgerald nel 1931 «ha significato prima sensualità, poi danza, infine musica. È associata ad uno stato di eccitazione ner-
vosa, non dissimile da quello di grandi città alle immediate retrovie del fronte». Quando Fitzgerald parlava di «età del jazz», si riferiva al jazz bianco di Whiteman e Gershwin e non già al filone negro che, dopo la chiusura dei bordelli di Storyville (12 novembre 1917), aveva trapiantato le sue radici a Chicago: la Creole Jazz Band di Joe “King” Oliver (1885-1938) che nel 1922 si arricchì della più prestigiosa tromba jazz di tutti i tempi, Louis Armstrong (1900-1971), le cui incisioni di quegli anni con gli Hot Five e gli Hot Seven costituiscono il vertice del jazz chicagoano; il pianista Jelly Roll Morton (1885-1941) che con molta modestia si autode-
finiva «il più grande compositore di temi hot del mondo», e che fu personaggio centrale nella storia del jazz delle origini, e numerosi altri. L’età del jazz vide inoltre l’acutizzarsi del problema razziale al Nord in relazione alla massiccia immigrazione interna dagli stati del “profondo sud” (109 000 negri a Chicago nel 1920 contro i 44 000 del 1900), la creazione di ghetti negri nelle grandi città e, d’altro canto, la moda del negro inteso come “personaggio” esotico (un negro è, ad esempio, il protagonista di Emperar Jones del drammaturgo Eugene O’ Neill, del 1920) e non già compreso negli enormi problemi a lui posti dall’immigrazione. Il jazz ed i jazzisti contribuirono in modo determinante alla creazione di questa moda, tant'è vero che i bianchi, sentendosi minacciati nel loro monopolio culturale, reagirono cercando di appropriarsi del nuovo idioma musicale. Sorse il “jazz bianco” che oscillò, a livello estetico e di significati, tra una slavata ed edulcorata scopiazzatura di quello
negro — di cui Paul Whiteman (1890-1967) con le sue orchestre da ballo ed il suo “jazz sinfonico” fu l'esponente più tipico — ed una fusione del genuino idioma jazzistico con stilemi della musica célta, che negli anni Venti raggiunse la sua più perfetta e compiuta realizzazione con il trombettista Bix Beiderbecke
(1903-1931),
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l’anima bianca del jazz di quell’epoca. I negri, dal canto loro, sentendosi osservati come “personaggi” reagirono per lo più in due modi diversi: o cercarono di creare un parnaso negro da contrapporre o meglio elevare al livello di quello bianco — tale fu la cosiddetta Manhattan Black Renaissance, rappresentata da poeti quali James Weldon Johnson (1871-1938), Jean Toomer (1894-1967), Claude McKay (1890-1948), e specialmente Langston Hughes (1902-1967) - oppure affermarono senza mezzi termini la loro negritudine con la violenza fonica del jazz e con l’aggressivo linguaggio del blues.
13 € LA MUSICA AMERICANA TRA I DUE SECOLI: “TRADIZIONE GARBATA” E FOLCLORE
Gli anni che seguirono la guerra di secessione furono caratterizzati da un gran fervore operativo che, per quanto concerne la musica, si concretò nella fondazione di Conservatorii (ad esempio
il New England Conservatory di Boston, il Chicago Musical College ed il Cincinnati Conservatory, tutti creati nel 1867), di sale di audizione (Music Hall di Cincinnati, 1878; Auditorium di Chi-
cago, 1889; Carnegie Hall di New York, 1891; Symphony Hall di Boston, 1900; Metropolitan Opera House di New York, 1883)
e di complessi strumentali (Boston Symphony Orchestra, 1881; Philadelphia Orchestra, 1900; Minneapolis Symphony, 1903). Lo studio della musica, inoltre, che era già stato introdotto nelle scuole inferiori durante il periodo precedente la guerra civile, fu esteso anche ai colleges ed alle università. Ad una così forte spinta di rinnovamento nel campo delle strutture non corrispose però un altrettanto forte stimolo ad un rinnovamento linguistico; per un quarantennio circa, la musica colta nordamericana guardò costantemente all’ Europa quale unica depositaria di un idioma musicale valido. Poco importa se questo idioma era di stampo brahmsiano-schumanniano-schubertiano, come nel caso di quel gruppo di musicisti bostoniani variamente definiti «Boston Academics», «Boston Classicists» o «Second New England School» (John Knowles Paine, 1839-1906; Arthur William Foote,
1853-1937; George Whitefield Chadwick, 1854-1931; Arthur Whiting, 1861-1936; Horatio William Parker, 1863-1919; Amy Marcy
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Cheney Beach, 1867-1944; Daniel Gregory Mason, 1873-1953); oppure di stampo lisztiano-wagneriano come invece nel caso di Edward MacDowell (1861-1908). In entrambi i casi il curriculum artistico e l’atteggiamento estetico erano i medesimi: viaggio di prammatica in Europa, anzi in Germania (Paine studiò a Berlino nel periodo 1858-61; Chadwick a Lipsia e a Monaco, nel 1877-80; Whiting a Monaco nel 1883-85; Parker pure a Monaco, nel 1882-85; MacDowell, dopo un biennio parigino, soggiornò in diverse città tedesche, tra cui Weimar, nel 1882, dove conobbe Liszt); quindi, al ritorno in patria, una carriera compositiva carat-
terizzata da un profondo ossequio alla “regola tedesca”. Questa la tendenza generale. I compositori più vitali mostrarono poi atteggiamenti differenziati pur nel rispetto della regola: una certa vena umoristica caratterizza alcuni lavori sinfonici di Chadwick (la Suite syrphonique, 1911; la ballata sinfonica Tar O’ Shanter, 1915); Parker predilesse invece la musica corale sacra e specialmente nella sua composizione più celebre, l'oratorio Hora Novissima, scritto nel 1891-92 ed eseguito l’anno seguente, operò
una sintesi abbastanza equilibrata tra la “regola tedesca” dei fugati e l’effusione lirica delle arie; così MacDowell, quelle rare volte che depose la maschera romantica rinunciando agli ampi sviluppi e focalizzò la sua ispirazione sulle forme brevi, pervenne ad un’espressione intima e sincera (ad esempio, nelle raccolte pianistiche Sea
Pieces op. 55, 1898; Woodland Sketches op. 51, 1896; New England IdyIs op. 62, 1902). I Boston Classicists furono in sostanza l’equivalente musicale dei “bramini della Nuova Inghilterra” e, come questi ultimi, trovarono un potente alleato nella persona di un critico, John Sullivan Dwight (1813-1893), fondatore e direttore del «Dwight's Journal of Music» dal 1848 al 1852, accanito germanofilo e strenuo difensore della “tradizione garbata”. Apparentemente in contrasto con la “tradizione garbata”, si fece sempre più viva, alla fine del secolo, la tendenza ad utilizzare temi e motivi del folclore negro ed indiano. Perfino i cultori della “regola tedesca” non si erano dimostrati del tutto insensibili alle lusinghe della musa esotica: Chadwick, nella sua Seconda Sinfonia (1888), nella Sinfonietta (1904) e nel primo brano dei Symphonic Sketches (1895-1907), intitolato “Jubilee”, aveva introdotto temi ispirati alle melodie negre o costruiti su scale pentatoniche: MacDowell aveva composto una Indian Suite (op. 48, 1896) per orchestra
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— una delle opere più mature del compositore - i cui cinque movimenti (Legend, Love Song, In War Time, Dirge, Festival) impiegano temi tratti dal folclore musicale di diverse tribù indiane. Verso la fine del secolo la tendenza folclorica ricevette particolare impulso dall’esempio e dalla predicazione di Antonin Dvot4k. Il compositore boemo, all’apice della sua fama, aveva accettato l’invito ad assumere la direzione del National Conservatory of Music di New York. Trasferitosi nella metropoli statunitense nel quadriennio 1892-95, fu particolarmente colpito dagli spirituals eseguiti da un suo giovane allievo di colore, il baritono Henry Thacker Burleigh (1866-1949), ed in alcune opere composte in quel periodo introdusse melodie tratte dal folclore negro; fra queste, la Sinfonia dal Nuovo Mondo incontrò entusiastici consensi. In diverse occasioni egli poi sollecitò icompositori americani ad usare
i temi folclorici negri, ravvisando in essi il vero patrimonio popolare statunitense. Diversi compositori accolsero l’invito: Henry Franklin Gilbert (1868-1928), ad esempio, scrisse lavori orchestrali (Comedy Overture on Negro Themes, 1905; Negro Rbapsody, 1913) o pianistici (Negro Episode, Negro Dances, 1914) dai titoli eloquenti;
nella produzione di William Grant Still (1895-1978) il riferimento alla cultura negra è costante (ad esempio i lavori sinfonici Darker America, 1924; From the Black Belt, 1925, per orchestra da camera;
Africa, 1930). Altri compositori si ispirarono invece ai temi del folclore indiano: ad esempio Arthur Farwell (1872-1952) in Arzerican Indian Melodies (1901), Impressions of the Wa-Wan Ceremony of the Omakas (1906), From Mesa and Plain (1905), tutte per pianoforte (un brano tratto dall’ultima raccolta citata, Navajo War
Dance, fu orchestrato poi per 18 strumenti nel 1923); lo stesso Gilbert (Indian Sketches per orchestra, 1921) ed altri ancora (Charles Wakefield Cadman, 1881-1946; Charles Sanford Skilton, 1868-
1941).
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Verso la fine del secolo xtx, dunque, i compositori americani cominciarono a provare un senso di sazietà e di insofferenza nei confronti del romanticismo tedesco ed avvertirono l’esigenza di forgiarsi un idioma nazionale, come già gli stati europei; l’impiego di temi negri o indiani parve soddisfare momentaneamente queste esigenze. Vi erano diverse contraddizioni insite in operazioni di questo genere fra le quali due erano particolarmente vistose: da un lato l’ispirazione folclorica, introdotta in un organismo musi-
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cale tradizionale, non modificava per nulla la sintassi, sicché il mezzo linguistico impiegato era, in ultima analisi, di derivazione euro-
pea; d’altro lato non si comprende perché i temi indiani o negri avrebbero dovuto caratterizzare particolarmente la realtà nazionale statunitense in un’epoca in cui profondi mutamenti socioeconomici e la massiccia immigrazione stavano trasformando radicalmente il volto degli Stati Uniti. Il folclorismo negro o indiano fu dunque in definitiva un’operazione culturale ambigua. Nel primo decennio del xx secolo, il polo di attrazione europea iniziò ad inclinare verso Parigi: Saint-Saéns, d’Indy, Fauré,
Debussy e Ravel furono i nuovi maestri che vennero presi a modello dai colleghi d'oltreoceano. Arthur Shepherd (1880-1958), Edward
Burlingame Hill (1872-1960), John Alden Carpenter (1876-1951), Charles Tomlinson Griffes (1884-1920) furono i primi compositori attratti dalle nuove essenze armoniche che venivano distillate negli alambicchi parigini.
14 € IL RINASCIMENTO MUSICALE CHARLES EDwaARD IVES
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La ricerca di un idioma e di una identità nazionali fu tanto più difficoltosa in campo musicale perché i compositori non scorgevano, nel passato prossimo della loro tradizione, un punto di riferimento paragonabile, per coerenza ideologica e solidità culturale, a quella stagione filosofica e letteraria che Francis Otto Matthiessen definì «Rinascimento americano». Il New England; che nei due decenni precedenti la guerra civile era diventato l’Atene americana per merito di quel gruppo di intellettuali che gravitavano attorno all’orbita del trascendentalismo emersoniano (Nathaniel Hawthorne, 1804-1864; Henry David Thoreau, 1817-1862; Herman Melville, 1819-1891; Walt Whitman), in campo musicale aveva
invece prodotto - lo si è visto - un’accademia di puro stampo tedesco. I compositori si trovarono perciò di fronte ad una gamma di stimoli e di scelte culturali vasta quanto lo era il territorio statunitense (gli spiritua/s, il folclore indiano, le fuguing tunes degli vankees della Nuova Inghilterra, il ragtizze, le melodie dei blackface minstrels, i cowboy songs, i ritmi afrocubani, la tradizione bandi-
stica, e molti altri ancora) ma non era comparso ancora il «genio
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dall’occhio di tiranno» per dirla, con Emerson, che tentasse una sintesi delle diverse tradizioni. Questo genio si incarnò nella persona di Charles Edward Ives (Danbury, Connecticut, 1874 - New York, 1954). Nell’infanzia e
nella prima giovinezza ebbe modo di venire a diretto contatto con i genuini prodotti di quella tradizione popolare che animava le cerimonie religiose, civili e private delle cittadine di provincia. Vi erano le funzioni in chiesa (Church Meetings) e quelle all'aperto (Camp Meetings), le danze, le sfilate della banda cittadina ed i concerti bandistici in cui i classici erano interpretati dalla robusta voce di flicorni e tromboni. Era un mondo musicale pittoresco ed a suo modo affascinante, le cui caratteristiche più spiccate erano la violenza dell'emissione sonora e l’eterofonia derivante dal fatto che ognuno partecipava all’espressione corale portando il suo contributo, secondo le proprie forze e la propria capacità. Il padre di Charles, Edward, che dirigeva la banda cittadina, era un accanito sperimentatore, ed amava ricavare effetti insoliti dalle fonti sonore più diverse, banda compresa. All’età di 18 anni, Charles, già educato dal padre nel campo musicale secondo princìpi didattici a dir poco insoliti (largo spazio eta dedicato ad esperimenti politonali e poliritmici), abbandonò la natia Danbury per frequentare l’università di Yale dove, nella persona di Horatio Parker, venne a contatto con l’accademismo bostoniano. L'impatto fu traumatico. Dapprima Ives sottopose al giudizio di Parker alcuni lavori sperimentali, come una fuga in quattro tonalità; quindi, accortosi che l’unica reazione suscitata era l'ironia, nell’èmbito scolastico rispettò più o meno rigorosamente l’ortodossia parkeriana (ad esempio nella Prima Sinfonia in re minore, 1895-98) dando sfogo alla sua libertà creativa in brani liturgici tanto corali (Salzzi 24, 25, 54, 67, 90, 100, 135, 150; Processional: Let there Be Light, 1907) che organistici (preludio all’ Adeste fideles, 1897; Prelude e Postlude for Thanks-
giving Service, 1897) composti per le funzioni religiose delle chiese ove sostenne in quegli anni mansioni di organista (Center Church, New Haven, 1894-98; First Presbyterian Church, Bloomfield, 1898-99; Central Presbyterian Church, New York, 1899-1902).
Caratteristica comune di questi brani è lo sperimentalismo che interessa tutte le componenti musicali (poliritmi, melodie a toni interi, effetti spaziali del suono, politonalità, eccetera).
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A Yale, inoltre, Ives ebbe modo di approfondire la sua conoscenza della filosofia trascendentalista che divenne, di lì in avanti,
la sua guida spirituale ed estetica. Ad essa dedicò una delle sue opere più famose, la Seconda Sonata per pianoforte (1907-15) che, con il sottotitolo “Concord Mass 1840-60”, composta di quattro movimenti dedicati rispettivamente ad Emerson, Hawthorne, gli Alcott e Thoreau, fu pubblicata privatamente nel 1920, unitamente ad una voluminosa introduzione letteraria (Essays before a Sonata) che è una via di mezzo tra un saggio critico ed una professione di fede trascendentalista. Considerazioni di ordine pratico e morale influenzarono la scelta del lavoro. Volendo preservare la sua ispirazione musicale dagli inevitabili compromessi con il gusto del pubblico in un’epoca in cui non esisteva ancora un circuito alternativo (il primo tentativo in tal senso, la Wa-Wan Press di Arthur Farwell ebbe vita breve: dal 1901 al 1912) e non intendendo rinun-
ciare al benessere economico che in quegli anni gli Stati Uniti parevano dispensare a piene mani a chi dimostrava intraprendenza negli affari, Ives, dopo la laurea, si impiegò alla Mutual Life Insurance
Company (1898) divenendone uno dei più dinamici assicuratori, e, nel 1909, assieme al socio Julian Soutball Myrick, condirettore di una filiale newyorkese. Gli anni compresi tra l’inizio della sua cartiera assicurativa ed un attacco cardiaco (1918), che minò irri-
mediabilmente la sua salute, furono anche i più fecondi nel campo musicale cui dedicava il tempo libero dal lavoro. Dopo il 1920 la sua attività compositiva rallentò progressivamente fino a cessare del tutto dopo il 1930, anno in cui si ritirò pure dagli affari. Trascorse gli ultimi ventiquattro anni della sua lunga vita iniùno stato di semiinvalidità, assistendo in disparte ai crescenti favori che la sua opera riceveva dalla critica e dal pubblico. La produzione musicale ivesiana, considerata globalmente, presenta due caratteristiche principali: da un lato non si possono isolare periodi caratterizzati da stili differenti, anzi spesso le tecniche sperimentali più avanzate convivono nello stesso brano con idiomi tradizionali; dall’altro, sovente sono riutilizzati frammenti,
talora intere pagine, di lavori precedenti, sicché l’intera opera ivesiana può essere interpretata come un work in progress. Sebbene
Ives impieghi indifferentemente le tecniche più disparate, dai quarti di tono (Like a Sick Eagle, tanto nella versione cameristica del 1908, quanto in quella liederistica del 1920; Three Quarter-tone Piano Pie-
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EpwarDp
Ives
ces, per due pianoforti sfasati di 1/4 di tono, 1923-24) e dalla serie dodecafonica (il song Soliloguy, A study in 7ths and Other Things, 1907) intuita ma non sviluppata, alla costruzione di accordi formati da ogni genere di intervalli (quarte in The Cage, 1906, per orchestra da camera; dalla quinta giusta alla seconda minore, secondo un procedimento di sottrazione progressiva, nel sorg Or the Antipodes, 1923), ai clusters pianistici (nel secondo movimento,
“Hawthorne”, della Concord Sonata), gli aspetti maggiormente caratterizzanti la sua sintassi musicale sono una sorta di contrap-
punto eterofonico e poliritmico e l’impiego delle citazioni. Fin dalle prime composizioni (secondo e quinto movimento, Allegro ed Allegro molto vivace della Seconda Sinfonia, 1897-1902; quarto movimento, “Postlude”, del Prizzo Quartetto per archi, 1896), Ives cercò di dilatare il linguaggio tradizionale mediante l’uso di sovrapposizioni melodiche; nelle opere successive il contrappunto eterofonico divenne un efficacissimo mezzo espressivo che il compositore impiegò tanto per realizzare violentissime esplosioni sonore (Browning Overture, 1908-12; secondo movimento, Allegro, della Quarta
Sinfonia), quanto per creare estatiche zone di decantazione timbrica (In the Night, 1906; quarto movimento, Largo della Quarta Sinfonia). La citazione di temi musicali ricorre costantemente nel-
l’opera ivesiana, sia nella veste popolare (sorgs, inni, musiche bandistiche, eccetera), sia in quella colta (ad esempio il tema della Quinta Sinfonia di Beethoven nella Concord Sonata). La citazione ivesiana non è quasi mai testuale, ma è piuttosto un’evocazione,
un sofferto procedimento mnemonico che distorce a tal punto le fattezze del tema da renderlo quasi irriconoscibile: una sorta di “flusso di coscienza” joyciano, insomma. Specialmente nel campo sinfonico l’impiego della citazione viene a raffigurare veri e propri paesaggi della memoria, in cui il ricordo si confondercon la realtà. Fra essi, i più suggestivi sono senza dubbio la Holidays Symphony (1904-13) ed i Three Places in New England (1908-14). Il primo è un polittico formato da quattro deliziosi affreschi sonori dedicati ognuno ad una festività della Nuova Inghilterra, intessuti di ricordi infantili quali l’incontro delle bande che eseguono brani diversi (nel Decoration Day, 1912) — una delle tante sperimentazioni del padre — o i temi patriottici che si avvicendano e si sovrappongono in modo convulso e parossistico (in Fourth ofJuly, 1913). Il secondo rievoca invece tre immagini della Nuova Inghilterra:
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la statua del colonnello Robert Gould Shaw, che durante la guerra civile aveva guidato un reggimento di negri (“The St. Gaudens” in Boston Common, Col. Shaw and His Colored Regiment”);
il
parco dedicato al generale Israel Putnam nel luogo dove aveva tenuto i quartieri d'inverno al tempo della rivoluzione americana (“Putnam’s Camp”) e lo “Housatonic at Stockbridge”, un fiume legato ad un ricordo personale, una passeggiata con la moglie lungo le sue rive durante la luna di miele. Mentre i primi due movimenti sono intessuti di canzoni patriottiche e di motivi militari, l’ultimo è uno stupendo affresco impressionistico in cui il ricordo personale si fonde e si confonde con la descrizione naturalistica. Un'altra caratteristica tipicamente ivesiana è la tendenza alla rappresentazione concettuale, alla simbolizzazione. Nella Concord Sonata, ad esempio, la differente personalità dei trascendèntalisti
tratteggiata nei quattro movimenti suggerì ad Ives l’impiego di mezzi linguistici diversi (Emerson: estensione del principio della forma-sonata e struttura sintattica densa e concettosa; immagini
fantastiche di Hawthorne: scherzo poliritmico e percussivo; intimità familiare degli Alcott: diatonismo con breve episodio bitonale; Thoreau: evanescenze impressionistiche). Così i quattro movimenti della Quarta Sinfonia vogliono simboleggiare la domanda che lo spirito dell’uomo si pone sull’esistenza (Maestoso iniziale) e le
tre differenti scelte etiche in relazione alle diverse risposte (caos poliritmico dell’ Allegro contrapposto agli inni dei Padri Pellegrini: materialismo contrapposto allo spiritualismo; Fuga: formalismo e ritualismo; Largo: esperienza religiosa). Il capolavoro ivesiano di queste rappresentazioni concettuali, vero e proprio dranitma metafisico in forma strumentale, è The Unanswered Question (1906);
sullo sfondo di un continuum sonoro degli Druidi) la tromba ripete un tortuoso disegno zione dell’uomo sul significato dell’esistenza) frasi vieppiù concitate dei flauti (gli uomini
archi (il silenzio dei atonale (l’interrogaintercalato talora da che si beffano della
domanda). La Universe Symphony, rimasta allo stadio di abbozzo, avrebbe dovuto essere un’epitome di queste rappresentazioni meta-
fisiche: raffigurare i concetti di universo e di eternità mediante la sovrapposizione di tre sezioni orchestrali diverse simboleggianti il passato (la formazione delle acque e delle montagne), il presente (la terra, l'evoluzione verso l’umano ed il naturale), il futuro (il
cielo, l'ascesa di ogni cosa verso la sfera spirituale).
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VENTI:
JAZZ
E SPERIMENTALISMO
Alcune tra le più suggestive realizzazioni del neomadrigalismo ivesiano sono contenute nei songs, la maggior parte dei quali furono da Ives riuniti in un volume (114 Sorgs) pubblicato privatamente nel 1921. È una serie di bozzetti che illustrano una vasta gamma di temi e di argomenti ed al tempo stesso una variopinta antologia dei mezzi espressivi ivesiani: dalle zuccherose romanticherie della canzone da salotto di argomento familiare (The Children's Hour, 1901; Two Little Flowers, 1921), all’impegno civile (An Election, 1921; Tom Sails away, 1917), alla rappresentazione metafisica (The Cage, 1906; Duty e Vita, 1921; Mayority o The Masses, 1921), e
numerosi altri ancora. La musica di Ives è un’esperienza unica nella storia della musica americana perché, pur mantenendo una sua precisa identità, è frutto di una sintesi fra culture (dotta e popolare), tendenze (sperimentalismo e tradizionalismo), suggestioni letterarie (trascendentali-
smo, umorismo twainiano, eloquenza whitmaniana) diverse; se è vero che l’eclettismo — come afferma Gilbert Chase — è la caratteristica più spiccata della musica statunitense, Ives gettò veramente le basi di un rinascimento musicale americano.
15 e GLI ANNI VENTI: JAZZ E SPERIMENTALISMO
Il messaggio ivesiano non fu tuttavia colto dalla successiva generazione di compositori pet il semplice fatto che, essendosi egli posto in disparte dalla scena ufficiale, la sua musica non era conosciuta. Fu infatti solamente negli anni Venti che furono create le premesse per la diffusione della nuova musica. Tra il 1928 ed il 1931, due giovani compositori, Aaron Copland (1900-1990) e Roger Sessions (1896-1985), istituirono una serie di concerti in cui érano eseguiti
brani di compositori americani; anche importanti direttori d’orchestra, quali Serge Koussevitzky (1874-1951) e Leopold Stokowski (1882-1977), sposarono la causa della nuova musica americana. Inol-
tre vennero fondate società di compositori allo scopo di creare un circuito alternativo: le più importanti tra esse furono la International Composers’ Guild fondata da Edgar Varèse e Carlos Salzedo (1885-1961), che ebbe vita breve (1921-27); la Pan-American
Society of Composers fondata nel 1926; la League of Composers la cui rivista, «Modern Music» (1924-46), divenne un importante
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LA
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AMERICANA
veicolo di diffusione delle nuove correnti; la New Music Society, creata da Henry Cowell nel 1927, che due anni dopo la fondazione pubblicò il secondo movimento della Quarta Sinfonia di Ives: era questo il primo brano del compositore pubblicato dopo l’edizione dei 114 Songs. L’anno seguente Nicolas Slonimsky (1894-viv.) diresse i Three Places in New England, che nel 1932 fece conoscere anche in Europa inserendoli in una serie di concerti parigini dedicati ai compositori americani. Iniziò dunque in quegli anni la scoperta di Ives; era però una scoperta tardiva, poiché la musica americana nel frattempo aveva imboccato altre strade. La strada più frequentata era quella parigina. Parigi era infatti diventata un centro di intensi scambi tra la cultura americana e quella europea. Così come in campo letterario Gertrude Stein veniva accogliendo ed influenzando con le sue tecniche sperimentali i giovani scrittori americani espatriati (Ezra Pound ed Ernest Heming-
way, ad esempio), Nadia Boulanger (1887-1979), insegnante dal 1920 presso la Scuola per americani di Fontainebleau, divenne in quegli anni la ninfa Egeria dei giovani compositori statunitensi. Rober Russell Bennett (1894-1981), Marc Blitzstein (1905-1964), Elliott Carter (1908-viv.), Aaron Copland, Roy Harris (1898-1979), Walter Piston (1894-1976), Virgil Thomson (1896-viv.) che si affer-
marono nel decennio successivo, provenivano tutti dalla “boulangerie” (in francese “panetteria”: così veniva chiamatà scherzosamente la scuola della Boulanger). Monete di scambio nei rapporti franco-americani erano da un lato l’esperienza stravinskijana, che fin d'allora iniziò ad esercitare un notevole fascino sui giovani compositori americani, dall'altro il jazz, che proprio nell’ambiènte parigino incontrò notevoli favori venendo a soddisfare l'esigenza cabarettistica ed antiromantica particolarmente sentita in quell’epoca. Il jazz fu ovviamente introdotto anche dai compositori americani nella musica colta divenendo fonte di ispirazione e mezzo espressivo al tempo stesso. Esercitò sui giovani compositori un
fascino maggiore e più duraturo del folclore negro ed indiano perché questi ultimi erano per loro natura circoscritti ad un’area culturale limitata mentre il jazz era divenuto veramente un idioma
popolare e si era diffuso rapidamente in tutto il territorio americano. Aaron Copland, che fra gli allievi della Boulanger prima menzionati fu quello che dimostrò nella sua lunga carriera maggior capacità di rinnovamento linguistico, in questo periodo impiegò in
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E SPERIMENTALISMO
diverse occasioni ritmi jazzistici e blue notes: ad esempio in Music for the Theatre (1925), una suite pet piccola orchestra in cinque movimenti, oppure nel Concerto per pianoforte e orchestra (1926), ed in particolar modo nel secondo movimento di entrambi. Fra i diversi compositori che negli anni Venti impiegarono ritmi afro-americani nelle loro opere sono degni di menzione Alden Carpenter (1876-1951, nei balletti Krazy-Kat, 1921 e Skyscrapers, 1926) e Louis
Gruenberg (1884-1964, nella Jazz Suite per orchestra, 1929 ed in Daniel Jazz, 1925, e The Creation, 1924, questi ultimi due per voce ed otto strumenti). L’impiego di moduli jazzistici da parte dei compositori americani non differiva sostanzialmente da quello dei colleghi europei, da cui i primi avevano tratto, come già si è detto, un gran numero di stilemi; «era un facile mezzo per far musica americana» ebbe a dire Copland a esperienza conclusa. Se spogliato di ogni pretesa di. originalità era un mezzo lecito come ogni altro tipo di assunzione di un idioma popolare da parte della tradizione colta, come operazione culturale era invece doppiamente ambigua. Non coglieva infatti l’essenza del jazz, il suo fondamento, e cioè l’improvvisazione, ed inoltre non era il jazz ad essere preso a modello ma la sbiadita versione offerta da Tin Pan Alley, la fabbrica della canzonetta americana.
A differenza di quei compositori, George Gershwin (1898-1937) aveva percorso il cammino inverso. Divenuto negli anni Venti dit-
tatore assoluto di Tin Pan Alley con celeberrime canzoni quali The Man I Love (1924), Liza (1929), So Are You (1929), e con comme-
die musicali di gran successo (Lady Be Good, 1924; Oh, Kay!, 1925; Funny Face, 1927), elaborò poi l’idioma jazzistico-canzonettistico in due lavori sinfonici che incontrarono entusiastici consensi: la
Rhapsody in Blue (1924) e An American in Paris (1928) che, fra i vari tentativi di utilizzazione di elementi jazzistici in “ambito dio
sono comunque quelli maggiormente fedeli allo spirito originario per il loro andamento rapsodico e per la struttura melodico-ritmica dei temi che ricalca quella della canzonetta sincopata. Il primo, originariamente composto per jazz band e pianoforte, fu orchestrato dall’arrangiatore Ferde Grofé e presentato da Paul Whiteman il 24 febbraio 1924 in occasione di un concerto che recava il roboante titolo di Experiment in Modern Music e che iniziava con un blues di La Rocca, Livery Stable Blues; scopo del concerto era il lancio
del “jazz sinfonico”, la purificazione cioè del jazz dalle scorie delle
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sue origini plebee e la sua assunzione nelle alte sfere dell’arte. Per rendersi conto di quanto fosse sentita l'esigenza della commistione fra la musica popolare e la musica colta, va ricordato che quattro mesi prima del memorabile Experirzent, nella medesima sala, l Aeolian Hall, si era svolto un altro concerto altrettanto memorabile:
la cantante Eva Gauthier, dopo aver interpretato alcuni brani di Barték, Hindemith, Sch6nberg ed altri musicisti europei contemporanei, eseguì alcune canzoni di Walter Donaldson, Jerome Kern, George Gershwin, nonché la Alexander's Ragtime Band di Irving Berlin. I due lavori che, con il Concerto in fa (1925), compongono la triade delle opere sinfoniche più celebrate di Gershwin e che assieme alle meno fortunate Second Rbapsody (1931) e Cuban Overture
(1932) rappresentano il massimo sfotzo da lui compiuto in campo sinfonico per affermarsi come compositore “serio”, presentano una struttura pressoché simile: tre sezioni principali (o tre movimenti nel Concerto) con un tempo lento centrale (il nostalgico Andan-
tino moderato della Rhapsody in Blue, lo stupendo blues grandioso di An American in Paris) ed una coda finale in cui sono ripresi alcuni frammenti dei temi principali. Una struttura collaudata, dunque, in cui i temi, di un’estrema comunicativa, si avvicendano come
fotogrammi di un vivacissimo film, eludendo un vero e proprio sviluppo. La natura filmica di queste composizioni, unitamente al linguaggio impiegato - un’astuta mescolanza degli idiomi colto, popolare e jazzistico — sono forse gli elementi che hanno contribuito in modo determinante all’enorme successo di pubblico.riscosso da Gershwin. Acclamato dal pubblico, Gershwin è stato spesso frainteso dalla critica, che ai suoi tempi gli rinfacciò l'ambiguità della sua posizione nel mondo musicale e più recentemente ne ha interpretato la figura da un’ottica piuttosto sociologica. Ora, se è vero che egli venne ad incarnare il mito del se/f-rzade man tanto come uomo di successo quanto come compositore in un’epoca bramosa
e al tempo stesso carente di eroi da celebrare (Ives e Varèse erano ancora sconosciuti; gli allievi della Boulanger si affermeranno negli anni Trenta), seppe forgiarsi uno stile inconfondibile che lo condusse alla creazione di autentici capolavori, specialmente nell’àmbito del teatro musicale (Porgy and Bess, in particolar modo, di cui si dirà al $ 22). Parallelamente alle suggestioni esercitate dal jazz sulla musica
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colta, negli anni Venti iniziò a delinearsi un’altra tendenza che avrà un ruolo determinante nella scena musicale americana: la sperimentazione di nuovi mezzi espressivi. Il rinnovamento del linguaggio musicale non era un’esigenza avvertita solamente in America, ma nel nuovo continente trovò un terreno particolarmente fertile per la coincidenza di stimoli culturali ed ideologici quali il mito pionieristico, la fede nel progresso e nella tecnologia. Inoltre la sperimentazione genuinamente americana si differenzia da quella europea poiché, lungi dal formare nuovi sistemi, vive di un attualismo espressivo a mezza via tra lo happening e l’esperienza di laboratorio. Per Ives - lo si è visto — la sperimentazione era un mezzo espressivo al pari di qualsiasi altro: non lo interessava l'esperimento in sé, ma l’immagine simbolica che stava dietro ad esso, l’«indirection», per usare un termine emersoniano.
Un altro compositore della Nuova Inghilterra e della stessa generazione di Ives che sotto certi aspetti ricorda il musico-assicuratore di Danbury è Carl Ruggles (1876-1971). La sua scarsa produzione musicale, che negli anni Venti è illustrata da Men and Angels (1921) per 5 trombe e tromba bassa, Men and Mountains (1924) per orche-
stra da camera e Portals (1926) per orchestra d’archi, è caratterizzata da un tipo di contrappunto eterofonico ed animata da un misticismo molto affini alle medesime categorie ivesiane. Sono tuttavia affinità apparenti. A differenza di Ives, la musica di Ruggles rifiuta infatti la citazione ed il riferimento esterno; laddove Ives utilizza le medesime idee per comporre un gran numero di opere,
Ruggles compose invece pochissimi lavori dei quali alcuni continuò a rimaneggiare in tempi diversi (tre versioni di Angels: 1921, intitolata allora Men and Angels, 1943 e 1960; due versioni di Mer
and Mountains, 1924 e 1936). Ma le differenze più rimarchevoli, che collocano piuttosto Ruggles fra gli antesignani della serialità americana, sono il rifiuto programmatico di ripetere successioni
identiche di note nella linea melodica e l’impiego dell’intervallo, piuttosto che di un tema, quale cellula generatrice del discorso musicale: gli intervalli di seconda minore e di quarta giusta sono alla base tanto della seconda delle 4 Evocations per pianoforte (1943, rev. 1956) quanto del suo più esteso lavoro sinfonico (Sun-Treader, 1932; in quest’ultimo assieme ad un’altra coppia di intervalli: seconda e terza minore). Uno dei più vivaci esponenti dello sperimentalismo americano,
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che già nel decennio precedente gli “anni ruggenti” aveva iniziato a ricercare nuovi mezzi espressivi, fu Henry Cowell (1897-1965). Con un bagaglio di esperienze acustiche infantili comprendenti tanto il canto gregoriano quanto la musica orientale e le canzoni popolari, che ricevettero una prima sistemazione sotto la guida di Charles Seeger, Cowell, tra il 1912 ed il 1930, introdusse tecniche esecutive che saranno alla base del pianismo d’avanguardia: clusters di note — aggregati sonori formati dalla sovrapposizione di seconde maggiori o minori, in The Tides of Manaunaun (1911) e Tiger (1928) - eseguiti con l’avambraccio, con il pugno o con la mano piatta, secondo l’ampiezza; manipolazione diretta delle corde del pianoforte in diverse combinazioni: in Aeolian Harp (1923) una mano preme i tasti senza suonarli e l’altra manipola le corde; in The Banshee (1925), che richiede due esecutori dei quali uno tiene
premuto il pedale del pianoforte, mentre l’altro manipola le corde in vari modi; in Sirister Resonance
(1930) il suono è prodotto
mediante la percussione dei tasti con una mano, mentre l’altra manipola le corde alterando il timbro. Una composizione che suscitò grande scalpore durante gli anni Venti fu il Ballet mécanique di George Antheil (1900-1959), un americano espatriato stabilitosi
definitivamente a New York nel 1936, eseguito alla Carnegie Hall nel 1927 in una versione in cui l’aspetto bruitistico era stato esasperato per la mania di spettacolarità e di pingui incassi del produttore che aveva allestito il concerto: oltre al raddoppio del numero dei pianoforti della prima versione parigina, erano stati introdotti incudini, clacson ed anche un motore di aeroplano. Sulla strada dell’emancipazione del suono e della costruzione di un universo sonoro più ampio, contenuti ben più profondi del futurismo di Antheil sono racchiusi nell’opera di Edgar Varèse (Parigi, 1883 - New York, 1965). Di origine francese, dopo un primo periodo trascorso per lo più a Parigi ed a Berlino, durante il quale ebbe modo di venire a contatto con i più importanti esponenti dell’intellighenzia culturale europea, si trasferì a New York nel 1915, divenendo nel 1927 cittadino americano. Negli anni Venti, oltre a produrre una serie di opere in cui, in modo personalissimo ed affatto indipendente dalle soluzioni schénberghiane, weberniane e bartokiane, perseguì costantemente l'abbattimento delle barriere tradizionali tra suono e rumore, Varèse contribuì ad animare la
vita musicale americana con una serie di iniziative che avevano
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come scopo la diffusione della musica contemporanea. L’itinerario varesiano di questo primo periodo creativo è una lucida e progressiva conquista di un nuovo spazio musicale in cui il suono, svincolato dalle funzioni tradizionali, vive una sua vita autonoma ed
indipendente, diventando la cellula germinale di un processo di aggregazione cui partecipano i timbri dei vari strumenti: un processo di «cristallizzazione», come lo definì Varèse traendo l’ana-
logia dal mondo fisico-scientifico a lui particolarmente caro. I primi due lavori, Arzériques (1918-22) e Offrandes (1921), pur contenendo già in nuce tutti gli elementi essenziali del lessico varesiano —- l’uno per l’impiego di un’orchestra sinfonica (di dimensioni mahleriane, nella prima versione, poi ridotta nel 1926), l’altro per gli influssi debussyani ravvisabili specialmente nella linea vocale - sono ancora in certa misura debitori nei confronti della tradizione musicale mitteleuropea intensamente frequentata. Con Hyperprisrm (1923), Varèse compie il passo definitivo verso la propria identità stilistica ed espressiva. Senza più alcun residuo di influssi esterni, i caratteri fondamentali del suo linguaggio musicale assumono piena evidenza in una partitura concisa ed essen-
ziale nei suoi nessi strutturali: la preferenza (qui esclusiva) accordata ai fiati ed alla percussione, che ripartiscono lo spazio sonoro in due zone intersecantisi in un mobilissimo intreccio di compari-
zioni e sparizioni di singoli strumenti o gruppi strumentali, cui sono affidate cellule ritmico-melodiche elementari; la ripetizione della stessa nota in diverse varianti ritmiche con l'eventuale aggiunzione di appoggiature cromatiche; gli intervalli di seconda, settima, nona,
che creano frizioni acustiche e battimenti fra i suoni. In assenza
di sviluppo melodico, il ritmo e il timbro diventano valori assoluti, in un continuo spostamento di piani sonori, in un avvicenda-
mento di aggregazioni strumentali sempre diverse, donde il titolo allusivo alla scomposizione prismatica. Il lavoro successivo, intitolato Octandre (1923) poiché l’orga-
nico è composto da otto strumenti, trasporta in una dimensione
sonora priva di strumenti a percussione, circoscritta ai fiati (più un contrabbasso), gli stilemi evidenziati in Hyperprism. In assenza
della percussione, la dialettica ritmica è creata unicamente dai fiati che, mutando continuamente aggregazioni timbriche, lasciano spazio ad ogni strumento di ritagliarsi un episodio solistico. Nuovamente le presenze tematiche si riducono alla ripetizione della stessa
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nota eventualmente preceduta da appoggiature superiori o inferiori, ed a disegni atonali. Caso unico nella produzione varesiana, l’opera è suddivisa in tre brevi movimenti (Assez lent, Tres vif et nerveux, Grave) ulteriormente frazionati al loro interno, e con-
tiene un fugato a tre voci (oboe, fagotto, clarinetto in mi bemolle): concessioni straordinarie di un compositore così avverso a schemi
formali tradizionali quali Varèse. Intégrales (1925) è forse il lavoro più perfetto di questa terna di composizioni cameristiche di Varèse. Più esteso e complesso di Hyperprism, più compatto ed icastico di Octandre, nella sua estrema rarefazione tematica, nella grande varietà di combinazioni timbriche, realizza pienamente quella sorta di caleidoscopico scontro e incontro di piani e masse sonore con cui Varèse intendeva creare un
equivalente sonoro della proiezione di una figura su uî solido rotante aprendo alla musica una dimensione spaziale. Non è un caso che Varèse, intenzionato nel suo ultimo periodo creativo a rielaborare un precedente lavoro servendosi del mezzo elettronico, avesse scelto proprio Intégrales: se il progetto fosse stato realizzato si sarebbe potuto comprendere appieno in che misura i processi compositivi e gli effetti sonori prodotti con strumenti tradizionali presagissero potenzialità espressive e creative della musica elettronica. Con Arcana (1925-27) Varèse ritorna alla grande orchestra sinfonica. Il titolo del lavoro, assieme all’epigrafe postà accanto al titolo tratta dall’ Astrononzia ermetica di Paracelso, intende alludere
al «bisogno di un nuovo cielo della musica, al [...] bisogno di un universo musicale in espansione». Scomparsa ogni traccia di chia-
roscuri debussyani, l’orchestra è un serbatoio di impasti timbrici incandescenti e mobilissimo l'intreccio di piani sonori, che raggiunge momenti di parossismo fonico per poi assottigliarsi a poche voci strumentali e tendere ad un nuovo clizzax. Attorno-a due nuclei tematici fondamentali (la spola melodica ascendente con cui inizia il lavoro e una fanfara di corni) è un saettante comparire e scom-
parire di temi accessori in cui prevale la dimensione ritmica (ad es. la nota ripetuta in diverse sequenze ritmiche). Il ruolo fondamentale svolto dalla percussione in questi lavori (20 strumenti a percussione in Arzériques, 16 in Hyperprism, 17 in Intégrales) fa pre-
sagire il carattere eccezionale del lavoro che corona il primo periodo di attività creativa di Varèse: Ionisation, concepito a Parigi nel corso di un soggiorno di cinque anni nella capitale francese, per un orga-
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ED
IL
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DEAL
ROOSEVELTIANO
nico formato unicamente da strumenti a percussione. I temi rit-
mici, evidenziati dal timbro specifico dei 41 strumenti in esso impie-
gati (membranofoni, metallofoni, idiofoni, a frizione e scuotimento
oltreché a percussione, 2 sirene ed un pianoforte usato esclusivamente per produrre c/usters al registro grave), dialogano fra loro costituendo un universo sonoro organizzato secondo princìpi e strutture formali razionali, senza indulgere a effetti emotivi ed a esotismi di sorta.
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ED IL NEW
DEAL
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Il crollo di Wall Street segnò l’inizio di un periodo di grave recessione che nel corso di un quinquennio ridusse almeno della metà gli indici economici primari facendo piombare nella miseria più nera quegli strati della popolazione che negli anni Venti si erano illusi di poter raggiungere un relativo benessere. Molte furono le cause che condussero alla crisi più lunga ed acuta della storia degli Stati Uniti, ma tutte si possono ricondurre ad un comune denominatore: il capitalismo, nella sua fase più avanzata e selvaggia. La politica del /aissez faire aveva favorito l'insorgenza di tali e tanti squilibri, che ad un certo punto la situazione sfuggì ad ogni possibile controllo mandando letteralmente in pezzi l'apparato produttivo: la produzione e la distribuzione della ricchezza erano monopolizzate da una ristretta cerchia di famiglie (nel 1929, la stessa quota di reddito nazionale, il 13%, andava tanto a 12 000 000 di famiglie dei ceti più bassi — il 42,5% del totale delle famiglie statunitensi - quanto a 36 000 famiglie dei ceti più abbienti — lo 0,1%); la produzione superava di gran lunga le possibilità di assorbimento del mercato, vieppiù limitate a causa della disoccupazione e della scarsità monetaria; l’ipertrofia dell’apparato industriale e la parallela recessione dell’agricoltura avevano provocato una progressiva riduzione dei prezzi agricoli e del tenore di vita degli agricoltori (nel decennio 1920-30 il reddito agricolo diminuì di 2/3: da 15500000 000 di dollari a 5 500000 000). L’8 novembre 1932 - l’anno più nero della crisi, con un numero di disoccupati che superava i 12000000, con più di 5 000 banche chiuse e 32 000 fallimenti commerciali - fu eletto presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt.
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Il nuovo presidente, rieletto per tre legislazioni successive (1933-45), si propose come obbiettivo principale vaste riforme nel sistema di produzione e distribuzione della ricchezza senza tuttavia ledere i princìpi della proprietà privata e della libera concorrenza, le basi stesse del capitalismo. Il New Deal (nuova gestione) - così fu chiamato l’insieme di riforme rooseveltiane - rappresentò in sostanza il passaggio da una fase capitalistica sfrenatamente liberistica ed individualistica — ed in quanto tale autodistruttiva — ad una più evoluta ed efficiente, controllata ed organizzata dallo Stato. Troppo spazio richiederebbe l’analisi dei mezzi apprestati da Roosevelt per la realizzazione degli obbiettivi del New Deal; ad essa si sostituisce una semplice elencazione dei principali piani varati: protezione dei depositi bancari da fallimenti improvvisi mediante una copertura governativa (Federal Deposit Insurance Corpora-
tion); assistenza sociale a favore degli anziani e degli inabili al lavoro sotto forma di assistenza diretta, e dei disoccupati sotto forma di impiego in opere pubbliche con salari ridotti (Work Progress Administration); riorganizzazione globale del mondo del lavoro mediante l’abolizione del lavoro minorile, la riduzione della giornata lavorativa, il riconoscimento del sindacato e della contrattazione sinda-
cale e, a vantaggio degli imprenditori, l'abolizione delle leggi antitrust (National Industrial Recovery Act, poi National Labor Relac-
tion Act); forti investimenti nel campo dei lavori pubblici (Public Work Administration); ristrutturazione e potenziamento dell’agricoltura (Agricultural Adjustement Administration); rilancio dell’edilizia popolare (United States Housing Authority). . _ Pur continuando a prodursi le contraddizioni del capitalismo avanzato (durante le prime due legislazioni di Roosevelt il numero dei disoccupati continuò ad aggirarsi attorno agli 8 000 000; il piano dell'edilizia popolare sistemò solamente un numero ridotto di famiglie, eccetera), il New Deal permise di superare la crisi economica, di attenuare la questione sociale e conferì alla società statunitense
i tratti salienti della fisionomia che la caratterizzerà negli anni a venire. Pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni (proprio in quest'epoca inizia a concretizzarsi, con la creazione di una Commissione parlamentare per l’investigazione delle attività antiamericane, nel 1938, quell’atteggiamento violentemente anticomunista che ebbe notevoli ripercussioni anche nel campo artistico) la
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politica interna rooseveltiana si può considerare un esempio di “buon governo”, specialmente se la si confronta con quella degli anni Venti. Non altrimenti si può dire della politica estera. Il neutralismo politico, tanto in America latina (definito politica “del buon vicinato”) quanto in Europa ed in Asia, in effetti lo fu solamente di nome, e si tradusse praticamente in una copertura di regimi
fascisti, dittatoriali e comunque aggressivi (Vargas in Brasile, Batista a Cuba - in questo caso gli Stati Uniti intervennero direttamente -, Martinez a San Salvador, Trujillo a Santo Domingo, Ubico in Guatemala; Franco in Spagna; l'imperialismo giapponese, prima di Pearl Harbour). Anche l'intervento degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale fu più una fatalità che una libera scelta. La vittoria degli alleati, la creazione delle Nazioni Unite (26 giugno 1945) ed il nuovo assetto mondiale seguìto alla fine della guerra segnarono un definitivo abbandono dell’isolazionismo statunitense ed una sempre più vasta ingerenza, diretta o mediata, tanto in Europa
quanto in America latina.
La grande depressione ed il New Deal ebbero influenze dirette anche nel campo della cultura e delle arti. Laddove, ad esempio,
i motivi prediletti dai romanzieri della /ost generation riflettevano pet lo più un disagio esistenziale, negli anni Trenta si manifesta nella narrativa una maggior apertura alla comprensione del sociale. Particolarmente rappresentative di questa nuova istanza sono la trilogia USA (The 42nd Parallel, 42° parallelo, 1931; 1919, 1932;
The Big Money, Un mucchio di quattrini, 1936) di John Dos Passos (Chicago, 1896-1970), il più valido esempio di romanzo sociale dell’epoca per l'annullamento dei confini tra narrazione e cronaca, ed un’altra, di James Thomas Farrel (Chicago, 1904-1979), che ha per protagonista un giovane, Studs Lonigan, di cui, è narrata, in una serie di tre romanzi ambientati nei bastioni di Chicago (Young Lonigan, 1932; Manhood of Studs Lonigan, 1934; Judgment Day,
1935), la progressiva degenerazione fisica e spirituale. Persino Ernest Hemingway (1898-1961), almeno in un romanzo, To Have and to Have not (Avere e non avere, 1937), tralasciò il tema fon-
damentale della sua narrativa, l'ossessione della morte (svolto ad esempio in Death in the Afternoon, Morte nel pomeriggio, 1932) per ampliare isuoi orizzonti ad una non troppo convincente trattazione delle differenze di classe. Se la grande depressione offrì agli intellettuali una tematica vasta quanto lo erano i problemi eco-
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nomici e sociali del paese, il New Deal mobilitò uno stuolo di artisti che altrimenti sarebbero andati ad ingrossare le file dei disoccupati. Poiché le prestazioni richieste dai dipartimenti della Work Progress Administration, espressamente creati per far fronte ai problemi di pittori e musicisti, avevano per lo più una destinazione sociale (pitture murali; musiche per film e per trasmissioni radiofoniche; raccolta di materiale etnomusicologico, eccetera), il New
Deal contribuì, assieme alla crescente importanza assunta dai mass media, a stimolare nella coscienza dell’artista il problema della comunicazione e dell’intelligibilità del messaggio. Un'altra conseguenza del nuovo habitus professionale assunto da musicisti e pittori che lavoravano per la Work Progress Administration fu l'insorgenza di istanze associative che si concretarono nella creazione di organizzazioni corporativistiche, quali ad esempio, in campo musicale, 1’ACA (American Composers Alliance, dal 1937), la BMI (Broadcast Music Inc., dal 1939) e ’AGMA
(Ame-
rican Guild of Musical Artists, 1936). Parallelamente all'impegno sociale dî romanzieri e di pittori come Ben Shahn, Philip Evergood, William Gropper e Joseph Hirsch, si sviluppò negli anni Trenta un movimento che interessò nuovamente tanto l’àmbito pittorico che quello letterario: il regionalismo, ed in particolar modo il regionalismo meridionale; una rivalutazione, cioè, della cultura degli stati del Sud conseguente alla sfiducia nei confronti delle “magnifiche sorti e progressive” degli stati settentrionali ingenerata dalla disumanizzante espansione industriale. In campo pittorico questa tendenza non superò i limiti di una idealizzazione arcadico-populistica realizzata con mezzi espressivi di maniera (i principali esponenti furono Thomas Hart Benton, Grant Wood, John Steward Carry, Aaron Bontod, Joe Jones). In campo letterario William Faulkner (1897-1962) e John Steinbeck (1902-1969)
espressero invece, con una violenza verbale che raggiunge talora toni epici, l'amara realtà sociale ed i gravi squilibri provocati dalla guerra di secessione e dalla grande depressione rispettivamente nel tessuto sociale ed economico del Sud-est (La mitica contea faulkneriana di Yoknapatawpha in cui sono ambientati The Sound and the Fury, L'urlo e il furore, 1929; Light in August, Luce d’agosto, 1932; Absalom Absalom!, Assalonne, Assalonne!, 1936 ed altri
romanzi) e del Sud-ovest (In Dubious Battle, L’incerta battaglia, 1936; The Grapes of Wrath, Mésse d’ira, 1939, di Steinbeck).
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AMERICANA
Accanto a questi movimenti che intendevano privilegiare la comunicazione, altri ne sorsero, specialmente in campo poetico (il geo-
metrismo linguistico di Marianne Moore, 1887-1972; gli espedienti tipografici di Cummings, 1894-1963; gli influssi eliotiani di Hart
Crane, 1899-1932; e Allen Tate, 1899-1979); e pittorico (l’astrattismo cubistico di Stuart Davis, 1894-1964; Arshile Gorky, 19051948; Carl Holty, Karl Knaths, e numerosi altri) che, più attenti
alla lezione europea, perseguirono un rinnovamento linguistico.
17 e TENDENZE E SVILUPPI DELLA MUSICA AMERICANA NELL’ETÀ ROOSEVELTIANA
La politica culturale del New Deal fece emergere, come si è visto,
il problema della comunicazione del messaggio artistico a più ampi strati della società americana. Nel campo musicale, come in quello pittorico, la soluzione più frequente fu l’impiego di temi popolari e la semplificazione del linguaggio. Principale interprete delle istanze populistiche dell’età rooseveltiana fu Aaron Copland. Superata la fase jazzistica, in alcuni lavori composti nella prima metà degli anni Trenta (Variazioni per pianoforte, 1930; Short Symphony, 1933; Statements per orchestra, 1934) Copland aveva polarizzato la sua attenzione su una tecnica compositiva caratterizzata da una notevole
rarefazione tematica e da sviluppi brevi che conferiscono al linguaggio musicale un carattere aforistico e spigoloso. Forse il lavoro maggiormente rappresentativo di questa fase creativa coplandiana, che è stata definita «periodo di austerità», sono le Variazioni per pianoforte, un ciclo di venti variazioni più una coda che trasfor-
mano mediante permutazioni, diminuzioni e trasposizioni di ottava, un tema di undici battute la cui cellula principale è formata da un laconico motto di quattro note (mi-do-re#-do#). Resosi conto che i mass-media stavano rivoluzionando il circuito artistico tradizionale e che il suo stile “severo” era fruito e compreso da un pubblico troppo esiguo, Copland decise di semplificare il linguaggio musicale introducendovi motivi tratti dalla tradizione popolare. Nacquero così E/ Salon Mexico (1936) per orchestra ed i balletti Bi//y the Kid (1938), Rodeo (1942) e Appalachian Spring (1944): raffinatezza formale e scaltra contaminazione di elementi colti e popolari compongono un linguaggio neoclassico
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sui generis in cui la lezione stravinskijana convive con i cowboy songs e le square dances. Si dedicò inoltre alla composizione di colonne sonore (Of Mice and Men, 1939; Our Town, 1940) e di opere espressamente pensate per complessi scolastici (The Second Hurricane, 1937; An Outdoor Overture, 1938). Pagato con il Lincoln Portrait
(1942) per voce recitante e orchestra il suo tributo più diretto alla celebrazione del mito americano, dopo alcune opere essenzialmente diatoniche (Terza Sinfonia, 1946; Concerto per clarinetto, 1948) in cui riecheggiano in un tono più sommesso motivi jazzistici e popo-
lari, Copland negli anni Cinquanta tornò ad impiegare lo stile “severo”, confortato questa volta dalla tecnica seriale, in lavori
quali il Quartetto per pianoforte e archi (1950), la Fantasia per pianoforte (1957) ed il Nonetto per archi (1960). La serialità.coplandiana, tuttavia, lungi dal sortire esiti espressivi viennesi, ricorda
piuttosto le opere del periodo austero e ricrea atmosfere bartokiane e debussyane. L’iter artistico di Copland, con le alterne fasi di stile più o meno “severo”, è emblematico della crisi espressiva in cui
si vennero a trovare i compositori statunitensi degli anni Trenta, attratti per un verso dalle suggestioni populistiche del New Deal, per un altro sedotti dalle novità linguistiche provenienti d’oltreoceano. Un altro compositore, venuto alla ribalta della scena musicale negli anni Trenta ed affermatosi per il suo americanismo, fu Roy Harris (1898-1979). Il suo stile, meno elaborato di quello coplandiano, si impose tuttavia per una schietta ed ingenua camunicativa ed incontrò vasti consensi in un'epoca bramosa di rifitracciare pionieri su cui fondare una tradizione nazionale. Rimpatriato dal rituale periodo di perfezionamento con Nadia Boulanger, particolarmente nel Quintetto con pianoforte (1936) e nella Terza Sinfonia
(1939) portò a piena maturazione le caratteristiche salienti del suo stile: temi fluenti, spesso modali, riecheggianti motivi popolari o innici; armonia bi o politonale; ritmi e frasi asimmetriche in cui
il compositore ha ravvisato uno degli aspetti più tipici dell’autentica tradizione musicale americana; frequente impiego di procedimenti imitati e contrappuntistici (i tre movimenti del Quintetto sono intitolati rispettivamente: Passacaglia, Cadenza e Fuga). La Terza Sinfonia, in un solo movimento, si articola in cinque sezioni indicate e descritte schematicamente così da Harris:
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MUSICA
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1) Tragica-sonorità degli archi bassi 2) Lirica-archi, corni, legni 3) Pastorale-legni con sottofondo politonale degli archi 4)) Fuga-drammatica a) Prevalenza di ottoni e percussione
b) Sviluppo a canone di elementi della sezione 2 che serve da sottofondo ad un nuovo sviluppo della fuga 5) Drammatica-tragica
a) Riesposizione del tema del violino della sezione 1: tutti gli archi a canone con tutti i legni mentre gli ottoni e la percussione sviluppano un motivo ritmico del climax della sezione 4 b) Coda-sviluppo di materiali tratti dalle sezioni 1 e 2 su un pedale di timpani
Oltre a Copland ed Harris (la cui Sinfonia seguente, n. 4, con coro, è intitolata Fo/ksong Symphony, 1940) numerosi altri compositori utilizzarono temi tratti dal patrimonio popolare, ed anche da quella tradizione innodica dei secoli xv e xvm, originaria del New England che, divenuta oggetto d’interesse della musicologia, offriva al nazionalismo musicale una solida base su cui reggersi. L’elencazione di alcuni titoli è sufficiente per evidenziare il crescente interesse per l’innodia puritana: Syrphony on a Hymn Tune (1928) di Virgil Thomson; Pi/grim Psalms (1945) per soli, coro e
orchestra e Hymn, Fuguing and Holiday per orchestra (1943), di Ross Lee Finney (1906 - viv.); diversi Hymns and Fuguing Tunes per vari organici strumentali (dal 1942) di Henry Cowell; Williarz Billings Overture (1943) di William Howard Schuman (1910 - viv.). Se il nazionalismo ed il populismo agirono sui compositori dell’età rooseveltiana come due potenti stimoli ideologici, sul piano linguistico va rilevata in questo periodo una notevole stagnazione dei fermenti sperimentali. Dopo l’intensa stagione creativa degli anni Venti, coronata dalla conquista dell’organizzazione e dell’utilizzazione sintattica del rumore (Iorisation, 1934), Varèse com-
pose ancora due lavori, Ecuatorial e Density 21,5. Ecuatorial (19331934) - il testo è tratto dal Popo/ Vub, il libro sacro dei Maya fu composto per basso, quattro trombe, quattro tromboni, pianoforte, organo, percussione e, originariamente, due onde Teremin
(uno strumento elettronico che produce suoni di altezza ed intensità variabili, il cui nome deriva da quello dell’inventore, il russo Lev Teremin), mentre, in una revisione successiva (1961), le due
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sb?
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onde Teremin furono sostituite da onde Martenot e la voce solista da un coro all’unisono. Density 21,5 per flauto solo (1936; il
titolo si riferisce alla densità del platino poiché il brano fu scritto per il flauto di platino di Georges Bartère), sfumatissima ed ipnotica melopea in forma tripartita che esplora la gamma espressiva
dello strumento, trattato sia come aerofono che come idiofono (la
percussione delle chiavi nella parte centrale). L’attività compositiva di Varèse conobbe quindi un lungo periodo di stasi durato poco meno di un ventennio (unica interruzione l’Etude pour Espace, eseguito nel 1947, tratto da una composizione incompiuta, Espace) in cui il compositore attendeva il perfezionamento dei mezzi elettronici che gli avrebbero permesso di realizzare le opere della sua estrema stagione creativa (Déserts, 1950-54; Poème électronique, 1957-58) che già stava maturando in
silenzio. Déserts è il capolavoro di Varèse. Vi confluiscono e si decantano esperienze creative maturate nel corso di trent'anni di ricerche e di attività compositiva. In nessun altro lavoro i piani sonori si intersecano con tanta frequenza e la dinamica è trattata con tanta fluidità. Fra le improvvise esplosioni dei fiati, gli altrettanto improvvisi assottigliamenti dei piani sonori e il crepitio delle percussioni, si realizza una continua e sfumatissima variazione dinamica della densità sonora in cui sono incastonati episodi di grande suggestione: il puntillismo quasi weberniano dei fiati e del pianofoîte cui rispondono le percussioni —- anch'esse molto atomizzate - poco prima della seconda interpolazione elettronica, le inquietanti serpentine sonore che si insinuano fra gli scoppi più fragorosi e le più rettilinee perorazioni della stessa nota ripetuta, la evanescente dissolvénza finale. La parte strumentale è interpolata da tre episodi di suono “organizzato” elaborato elettronicamente ed emesso stereofonicamente: due mondi sonori sono posti a confronto come abitanti di diversi pianeti che si osservano incuriositi. La realizzazione del padiglione Philips per l’Exposition Universelle del 1958 in collaborazione con Le Corbusier e con Xenakis offrì a Varèse l’occasione di realizzare la sua unica opera interamente elettronica (il Poèmze électronigue) fondendo insieme suoni sintetici e suoni naturali tra cui la voce, elaborati elettronicamente
su nastro magnetico. Diffuso da un sistema di altoparlanti incorporati nella struttura architettonica del padiglione simultaneamente alla proiezione di luci ed immagini, il Poéme électronique rappre-
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MUSICA
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senta ad un tempo un importante esempio di arte integrata e di effettiva spazializzazione del “suono organizzato”. L'ultima opera di Varèse pervenutaci incompleta e ultimata da Chou Wen-choung sulla base di abbozzi del maestro, Nocturna/, conferma l’alto grado di rarefazione linguistica raggiunta dal compositore nella tarda maturità: rarefazione intesa non solo nel senso di scorporazione del tessuto sonoro, ma anche del testo verbale, in una successione di frasi
slegate, perorazioni, sillabe prive di senso, evocatrici di una scena onirica di allucinante efficacia. Non è forse una semplice coincidenza, bensì una più che comprensibile reazione al clima nazionalistico dell’età rooseveltiana, il fatto che i fermenti sperimentali del decennio compreso tra il 1935 ed il 1945 fossero stati ispirati da una sorta di esotismo che esprimeva un implicito rifiuto tanto della tradizione occidentale quanto della «scena americana» (fu chiamato con questo termine generico il tipo di realismo pittorico, accademico e populistico del New Deal che si ispirava a scene della vita americana, il cui più tipico esponente fu Hart Benton): così le due opere di Varèse anzidette, come le atmosfere orientali del pianoforte “preparato” di Cage, ed ancora il “corporealismo” di Harry Partch, che affonda le radici addirittura nella preistoria musicale, in quell’attitudine,
cioè, primitiva e modernissima ad un tempo, di considerare come unità inscindibile l’espressione musicale e lo strumento che la produce. Partch (1901-1974) perseguì il suo ideale di concretezza musicale fondendo un tipo specialissimo di “armonizzazione del parlato” con l’accompagnamento fornito da strumenti di sua invenzione che esulano dal sistema temperato (la divisione dell’ottava si spinge fino ai 43 microtoni) ed il cui elenco e la cui descrizione richiederebbero uno spazio molto esteso. Si citano a titolo esemplificativo: le cloud-chamber bowls, campane fabbricafe con damigiane di pyrex divise a metà; vari strumenti a corde “adattati”, derivati dalla trasformazione di strumenti tradizionali in cui però l'ottava è divisa in microtoni, oppure viene loro aggiunto un gran numero di corde (viola “adattata” con 31 microtoni, kithara a 72 corde); mzarimzbe variamente elaborate (tipo la wzarizba eroica, ampli-
ficata elettronicamente) e numerosi altri. Inizi cageani e partchiani esclusi, la scena musicale americana degli anni Trenta fu dominata da compositori che o abbracciarono decisamente la tradizione classico-romantica del passato, oppure elaborarono uno stile personale senza sposare tuttavia la causa spe-
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rimentale. Fra i compositori appartenenti alla prima categoria, due almeno vanno citati: Howard Hanson (1896-1981) e Samuel Barber (1910-1981). Il primo, nato da genitori svedesi, direttore della
Fastman School of Music di Rochester per un quarantennio (1924-64), professò il suo tardoromanticismo di ascendenza nordica specialmente nelle Sinfonie (Nordic op. 21, 1922; Romantic
op. 30, 1928-30; Sacra op. 43, 1954) e nelle cantate (The Lamzent for Beowulfop. 25, 1925; Songs from Drum Taps op. 32, 1935; The Cherubic Hymn op. 37, 1949; Song of Human Rights, 1963). La musica di Barber si emancipò parzialmente dal 1940 in poi (il secondo Essay per orchestra, 1942, contiene una fuga politonale; la Symphony Dedicated to the Air Forces, 1944, impiega armonie dissonanti; nella Sonata per pianoforte op. 26, 1949, ricorrono procedimenti dodecafonici); negli anni Trenta invece è caratterizzata da uno stile che, per la linea melodica fluente e l’eloquenza espressiva, è stato definito “neoromantico” (Dover Beach, per voce e quartetto d’archi, 1931; Sinfonia in un movimento, 1936; Concerto per violino e orchestra, 1940). i Due compositori meritano particolare menzione come campioni
della seconda tendenza: Roger Sessions (1896-1985) e Virgil Thomson (1896-viv.). La produzione musicale del primo è alla confluenza di influssi diversi (Ernest Bloch, di cui fu allievo, Stravinskij, Schòn-
berg e Richard Strauss) che lo condussero attraverso vari stadi evolutivi: neoclassicismo diatonico (Prizza Sinfonia, 1927 e Prima Sonata per pianoforte, 1930), dilatazione del sistema tonale (Concerto per violino, 1935 e Primo Quartetto per archi, 1936), accentuazigne del cromatismo (Seconda Sinfonia e Seconda Sonata per pianoforte, 1946), serialità (Quintetto per archi, 1957). Momenti cruciali della sua evoluzione furono il Concerto per violino in cui il compositore affermò il principio di una strutturazione formale che scaturisce da trasformazioni continue del materiale impiegato evitando cristallizzazioni e ripetizioni, e la Seconda Sinfonia in quattro movimenti (Molto agitato-tranquillo e misterioso; Allegretto capriccioso; Adagio tranquillo ed espressivo; Allegramente). Quest'ultima contiene alcune caratteristiche salienti del suo stile maturo: complessità tematica e formale (il movimento iniziale alterna due sezioni tematiche, la
prima delle quali, di 21 battute, è formata da quattro membri di frase; il terzo movimento è tritematico); notevole tensione espressiva derivata dall'impiego di un tessuto armonico e contrappuntistico dis-
a DISTINTI
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sonante e dalla frequente alternanza di timbri strumentali diversi (i quattro membri di frase del Molto Agitato, ad esempio, sono esposti rispettivamente dai legni e dai corni su rapide figurazioni degli archi, dagli ottoni, dall’oboe); vigore ritmico (nei due movimenti pari) potenziato nell’ultimo movimento dalla percussione. Se la cifra dello stile di Sessions sono un tessuto sonoro estremamente denso e la notevole estensione dei periodi (la lorgline, per dirla con Sessions), di natura opposta è la musica di Thomson, che maturò uno stile apparentemente semplice e lineare, in effetti estremamente sofisticato ed aggiornato secondo il gusto parigino. Lunghi e frequenti furono infatti i suoi soggiorni nella capitale francese, ove mantenne stretti contatti con il Gruppo dei Sei, con Satie, con la Stein (autrice dei libretti delle sue due opere Four Saints in Three Acts, 1928, e The Mother of Us AI, 1947) e Cocteau, oltreché, ovviamente, con la Boulanger di cui fu allievo. Tanto in lavori neoclassici, come la giovanile Sonata da chiesa (1926) in tre movimenti (Corale, Tango, Fuga) per clarinetto in mi bemolle, tromba in do, viola, corno in fa e trombone, quanto in opere ispirate piuttosto ad un certo romanticismo di maniera (la Sonata per violino e pianoforte, 1930; i due Quartetti per archi, 1931, 1932; il Concerto per violoncello ed orchestra, 1949), Thomson impiega strutture tradizionali reinterpretate secondo l’ispirazione del momento, talora nostalgica, talora dissacrante e caustica in senso satieiano. Così, ad esempio, dei tre movimenti del Concerto per violoncello ed orchestra, il primo (Riders on the Plains) è in forma-sonata con due cadenze dello strumento solista; il secondo (Variations on a Southern Hymn) comprende 10 variazioni su una melodia tratta dalla Southern Harmony-(1835) di William Walker (particolarmente
suggestive la prima e l'ottava variazione che mantengono l’arcaica struttura armonica dell’originale); il terzo ed ultimo (Children's Games) è invece in forma di Rondò. Anche nei momenti di più
intenso coinvolgimento in correnti estetiche neoromantiche o nazionalistiche, l’arte musicale di Thomson ha mantenuto sempre una sua lucida razionalità, una certa propensione all’ironia maturata a diretto contatto con la produzione musicale e la poetica del maestro d’Arceuil e dei suoi proseliti. Uno stile piuttosto collagistico contraddistingue le colonne sonore per documentari e films (The Plough that Broke the Plains, 1936; The River, 1937; Louisiana Story,
1948) e le opere direttamente ispirate alla tradizione americana,
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come la Syrapbony on a Hymn Tune (1928) in cui gli sviluppi tematici dell'inno How Firm a Foundation secondo procedimenti classicobarocchi (forma-sonata, preludio, passacaglia, fuga, rondò) sono accostati a stralci di melodie tratte da tradizioni diverse (canto gregoriano, marce, cowboy songs e simili). Non stupisce, dopo l’esperienza ivesiana, che proprio in àmbito sacro, nella Missa pro defunctis (1960), Thomson abbia realizzato, mediante l'annullamento del centro tonale - attuato spostando continuamente l’intervallo di terza maggiore sull’intera scala cromatica -, una specie di sospensione delle funzioni armoniche tradizionali.
La tendenza eclettica, già viva ed operante nella tradizione musicale americana, ricevette ulteriore impulso dall’immigrazione di molti compositori europei determinata dalle intolleranze e dalle persecuzioni dei regimi nazifascisti. Lo schema nella pagina a fronte offre alcuni dati relativi ai più importanti compositori. Con il trasferimento, temporaneo o definitivo, di molti fra i
più importanti esponenti dell’intellighenzia musicale europea (tanto nel campo della composizione quanto in quello della musicologia: Alfred Einstein, Curt Sachs, Karl Geiringer, Leo Schrade) si con-
clude l’epoca del rituale viaggio di studi in Europa. I colleges e le università americane divennero a loro volta centri di intensi scambi culturali e stimolarono quel processo di aggiornamento linguistico che caratterizzerà il periodo postbellico. I due compositori che incisero maggiormente sulla realtà musicale americana nel decennio pre e postbellico furono Stravinskij e Sch6nberg: a loro si rivolsero molti compositori statunitensi, sommersi dall’onda dell’eclettismo e desiderosi di padri spirituali. La serialità”americana sarà però trattata nel $ 19, poiché raggiunse il periodo di maggior sviluppo nel decennio 1950-60. Qui ce ne occuperemo, ma solamente in rapporto agli ultimi sviluppi stilistici di Stravinskij. Con La carriera di un libertino (1951) il compositore aveva toccato il culmine dell'esperienza neoclassica semplificando ancora ulteriormente il linguaggio in senso diatonico; questa tendenza ad una semplificazione linguistica caratterizza in larga misura anche i lavori composti durante il primo decennio trascorso negli USA. Furono anni di ambientamento nel Nuovo Mondo, durante i quali Stravinskij, oltre ad eludere le committenze dell’industria cinematografica hollywoodiana (l’impiego del Sacre nel cartone animato Fartasia di Walt Disney fu un abuso, legale ma contrario alla volontà del compositore), aveva anche pagato il suo tributo alla nuova patria
TENDENZE
Compositori
ARNOLD SCHONBERG
E
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Data del trasferimento e, tra parentesi, dell'eventuale assunzione della cittadinanza
1933.
(1941)
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AMERICANA
Conservatorii, colleges, università presso cui insegnarono e relativi
periodi
Malkin Conservatory (Boston e New York, 1933-34); South California University (Los Angeles, 1936-44)
KurT WEILL
1935
(1940)
PAUL HINDEMITH
1940
(1946)
Yale University (New Haven, 1940-53); Harvard University (Cambridge, 1945-50)
ERNST KXENEK
Vassar College (Poughkeepsie, New York, 1939-42)
STEFAN WOLPE
IGOR STRAVINSKIJ
Vari
1939
(1945)
Harvard University (Cambridge, 1939: ciclo di conferenze sulla poetica musicale)
DaARIUS MILHAUD
Mills College, Oakland
1940
(California)
(1952)
Princeton University (19411943).
BoHusLAv MARTINÙ
1941
BéLA BARTÒK
1940
Columbia University (19411943: incarico di trascrizione e classificazione di una raccolta di melodie popolari jugoslave)
HAnnNs EISLER
1936-47
New School for Social Research (New York); Sou-
thern California University (Hollywood)
LZ
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LA
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AMERICANA
d’adozione con la celebrazione di due miti americani: il circo (Circus Polka, 1942) ed il jazz (Ebony Concert, 1946). Fra i diversi generi coltivati in questo decennio (quello sinfonico: Sinfonia in do, 19381940; Sinfonia in tre movimenti, 1942-45 e quello ballettistico: Dan-
ses concertantes per orchestra da camera, 1941-42; Scènes de ballet per orchestra, 1944; Orpheus, 1947), riemerge, a oltre dieci anni di distanza (dopo la Sinfonia di salmi, 1930, aveva composto sola-
mente tre cori a cappella su testi slavi negli anni 1932-34), l’interesse per i temi religiosi che si concretò dapprima in una breve cantata, Babel (1944), commissionata da un editore musicale, Natha-
niel Shilkret, per un’opera biblica composta da lavori di diversi autori (fra cui Schénberg, Milhaud, Castelnuovo-Tedesco e Bloch),
quindi in una Messa (1944-48) scritta per un’intima esigenza creativa e non legata ad alcuna committenza. Ispirazione religiosa e serialità sono i due cardini — spirituale e stilistico — dell’ultimo ventennio compositivo di Stravinskij. Fu negli anni Cinquanta, nel periodo dunque della crescente fortuna della serialità negli USA, che il compositore — mentore il direttore d’orchestra Robert Craft - ebbe modo di approfondire la sua conoscenza delle opere della Seconda scuola viennese e di Webern in particolare. La sua conversione dodecafonica si attuò in modo progressivo. Iniziò con l’impiego di permutazioni di serie non dodecafoniche: nei due ricercari “The Maiden’s Came” e “Tomorrow shall be”, della Cantata (1951-52); nella Passacaglia
e nella Giga del Settizzino (1952-53); nei Tre canti da William Shakespeare (1953); nei due canoni funebri (Preludio e Postludio) e canto per tenore, quartetto d’archi e quattro tromboni, Ir memzoriam Dylan Thomas (1954). La tappa successiva fu l’impiego di più di una serie dodecafonica nella medesima opera. I due lavori costruiti secondo questo principio, il Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis (1955-56) ed il balletto Agon (1953-57) rivelano una complessa strutturazione formale che risponde tanto a motivi simbolici (nel Carticurz la struttura pentapartita è stata messa in relazione con le cinque cupole della basilica marciana) quanto alla precisa volontà di reinterpretare in chiave contemporanea e dodecafonica il senso di una ritualità antica: la solennità dei riti marciani con le contrapposizioni antifonali (tra coro e organo in Euntes in mundum; tra cori in Spes) e le raffinate concatenazioni di danze cortesi con le alternanze di musica “alta” e “bassa” in Agon. Mentre in questi due lavori le parti strutturate secondo prin-
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AMERICANA
cìpi dodecafonici convivono con parti organizzate secondo princìpi seriali od anche libere da tali vincoli strutturali, Threni: id est lamentationes Jeremiae Prophetae (1957-58) è costruito interamente
su un'unica serie dodecafonica dalle cui permutazioni è ricavato l’intero lavoro. Anche in questo caso, il desiderio di Stravinskij di porre in rilievo l’aspetto liturgico dell’opera (le Lamzentationes fanno parte delle funzioni della Settimana Santa connesse all’Ufficio delle Tenebre) traspare dalla conservazione, innanzi ai versetti biblici, delle lettere alfabetiche ebraiche la cui scansione corale ricrea un’aura sacrale particolarmente intensa.
A questo punto l’itinerario stilistico di Stravinskij si biparte. Da un lato, nei lavori strumentali (Moverzents per pianoforte e orchestra, 1958-59 e Variations pet orchestra, 1963-64) il linguaggio seriale diventa sempre più complesso; la parcellizzazione della serie originale, la riduzione della durata a dimensioni aforistiche e l’accentuato dinamismo timbrico sortiscono esiti espressivi molto simili a quelli weberniani. Nelle opere vocali invece, per lo più di carattere sacro, il compositore pone in rilievo le caratteristiche tonali latenti nella struttura seriale accentuando, in particolar modo ne Il diluvio (1961-62) e nei Requiem Canticles (1966), l'aspetto rappresentativo-drammatico: la plastica raffigurazione del caos primigenio (un totale cromatico formato da sei quinte), o l'episodio del diluvio (un vero e proprio vortice di note) nell'opera omonima; oppure, nei Requiem Canticles, la violenza con cui sono enunciate
le locuzioni « Dies irae, Dies illa», declamate dal coro e precedute da un’esplosione sonora degli archi, dei timpani e del pianoforte, o lo stupendo Postludio, con il celestiale scampanio conclusivo. Anche in un brano di dimensioni molto più ridotte come l’Introitus (T. S. Eliot in memoriam) l’arte stravinskijana fonde, con pochi tratti che si possone' paragonare per essenzialità e valenza espressiva al grafismo dell’ultimo Picasso, due immagini estremamente intense: il lento incedere del rituale funebre (la cupezza timbrica dello strumentale formato da arpa, pianoforte, due timpani, due tam-tam, viola e contrabbasso; l’interpunzione di una cadenza formata da tre accordi dell’arpa e del pianoforte) con un senso quasi fisico della morte (i «parlando sottovoce» del coro che sembrano
un'ultima fievole percezione prima del silenzio tombale). Riguardo agli influssi stravinskijani, prima ancora del trasferimento del compositore negli Stati Uniti, essi erano già una pre-
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senza costante nello stile di molti colleghi d’oltreoceano. La rivisitazione delle forme della tradizione classica, le dissonanze, le asimmetrie ritmiche (che apparvero come una giusta via di mezzo tra un aggiornamento della tradizione colta e la tradizione popolarefolclorico-jazzistica) esercitarono una particolare attrazione sui compositori americani. Pontefice massimo del neoclassicismo stravinskijano fu Walter Piston (1894-1976) che trasformò l’Università
di Harvard in una vera e propria accademia di tale tendenza stilistica. Il periodo compositivo di più intensa produzione di opere in stile neoclassico fu per Piston il decennio 1930-40 con lavori quali la Sonata per flauto e pianoforte (1930), il Concerto (1933) ed il Preludio e fuga per orchestra (1934), i due primi Quartetti per archi (1933 e 1935) ed il Concertino per pianoforte ed orchestra da camera (1937). Fra gli allievi di Piston numerosi furono quelli che, almeno
nella prima fase della loro attività creativa, si affermarono come eredi della tradizione neoclassica (Copland li definì la «Stravinsky school»). I più importanti furono: Arthur Berger (1912-viv.) con la Serenade Concertante (1944) per violino, quartetto di fiati e piccola orchestra, la Partita per pianoforte (1947), i Tre pezzi per Quartetto d’archi (1945); Harold Shapero (1920-viv.), con il Prizzo Quartetto per archi (1940), la Serenata in re maggiore per orchestra d’archi (1945), la Sonata per pianoforte a quattro mani (1941); ed ancora Irving Fine (1914-1962), Alexej Haieff (1914-viv.) ed altri.
Alcuni accoliti della “Stravinsky school”, inoltre, furono fedeli
seguaci del maestro anche dopo la sua svolta dodecafonica, e così nella seconda metà degli anni Cinquanta si misero a comporre opere seriali (la Chamber Music per tredici strumenti, 1956, ed il Quartetto per archi, 1958, di Berger, ad esempio). Nel lessico jazzistico l’età rooseveltiana prende il nome di swing era (età dello swing). Caratteristiche salienti di questa nuova stagione del jazz sono, per quanto riguarda l’aspetto ritmico, l’accentuazione di tutti e quattro i tempi di battuta (nel jazz tradizionale erano accentuati solamente quelli dispari) e la trasformazione del piccolo complesso strumentale in big band, suddivisa nelle tre sezioni degli ottoni (trombe e tromboni), delle ance (saxofoni e clarinetti) e dei ritmi (chitarra, contrabbasso, pianoforte e percussione). L’am-
pliamento dell'organico strumentale fece emergere la figura dell’arrangiatore su quella del solista e trasformò quindi l’originale eterofonia dei complessi di New Orleans in senso antifonico facendo
TENDENZE
E
SVILUPPI
DELLA
MUSICA
AMERICANA
dialogare le sezioni orchestrali fra di loro e limitando l’improvvisazione ad alcuni passi solistici più o meno brevi. Questi fattori,
se da un lato ampliarono gli orizzonti armonici e formali del jazz
e contribuirono enormemente alla sua diffusione (àmbito colto com-
preso: all’inizio del 1938 l’orchestra di Goodman diede un concerto alla Carnegie Hall ed altri ne seguirono), d’altro canto resero incerti i confini tra il jazz e la musica commerciale e spesso quest’ultimo aspetto prevalse sull’originalità espressiva. Tale discorso vale ovviamente per il fenomeno osservato nella sua globalità ed esclude alcune orchestre — l'orchestra di William “Count” Basie (1904-1984) e di Edward Kennedy “Duke” Ellington (1899-1974)
soprattutto — e molti musicisti che nelle file delle big bands tennero vivo il più autentico spirito jazzistico (molti strumentisti di
Ellington, ad esempio: i sassofonisti Johnny Hodges, 1906-1970, e Harry Carney, 1910-1974, i trombettisti James Wesley “Bubber” Miley, 1903-1932, Charles Melvin “Cootie” Williams, 1908-1985, e Cat Anderson, 1916-1981, il trombonista Lawrence
Brown). Furono tuttavia il genio di Duke Ellington, la sua fervida inventività melodica e l’abilità nello sviluppo tematico, prima di lui sconosciuta in campo jazzistico, a raggiungere con l’orchestra i più alti risultati espressivi mediante inediti impasti strumentali ed armonici costruiti su misura per musicisti d’eccezione. Diversi
brani composti nel periodo più fulgido (1927-39) della sua lunga carriera musicale rappresentano ad un tempo il culmine espressivo della swing era e del “sinfonismo” ellingtoniano: Black and Tan Fantasy (1927), Blues of the Vagabond (1929), Mood Indigo (1930), Sophisticated Lady (1933), Solitude (1934), Caravan (1937), Crescendo e Diminuendo in blue (1937), The New East St. Louis Toodle-Oo
(1937). Alcuni dei musicisti che militavano nelle big bawds di Count Basie, Benny Goodman, Fletcher Henderson e Duke Ellington (rispettivamente il tenorsassofonista Lester “Prez” Young, 1909-1959, il chitarrista Charlie Christian, 1919-1942, il trom-
bettista Roy Eldridge, 1911-viv., il contrabbassista Jimmy Blanton, 1918-1942), con il loro personalissimo fraseggio additarono inoltre la strada a quel radicale movimento innovatore, il bebop, che uscì allo scoperto nel 1944 e diede origine, come vedremo, al jazz moderno.
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LA
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MUSICA
AMERICANA
GLI ANNI DEL DOPOGUERRA: DALLA “GUERRA FREDDA” AL “cASO WATERGATE”; DALLA “BEAT GENERATION” ALLA “HIP GENERATION”; DAL “BEBOP” AL “FREE JAZZ”
La seconda guerra mondiale modificò radicalmente la geografia politica internazionale e si venne a configurare un bipolarismo derivato dalla spartizione del mondo in due zone d’influenza controllate rispettivamente dagli Stati Uniti e dall'Unione Sovietica che incrementarono a dismisura il loro apparato bellico affiancando alle armi tradizionali le armi nucleari. La prima fase di questa spartizione fu caratterizzata da acute tensioni politiche (“guerra fredda”) derivate dalla sovietizzazione degli stati satelliti dell’Unione Sovietica e dal sempre più vistoso controllo dei paesi della Nato e dell’ America latina (con l’ausilio della CIA, di governi-fantoccio e di pressioni economiche o, al contrario, di aiuti, secondo le circostanze) da parte degli Stati Uniti; in Asia; inoltre, la guerra di Corea (1950-53) condusse il mondo
alle soglie di un nuovo conflitto mondiale. Con la morte di Stalin (5 marzo 1953) e la nomina di Nikita KruSéév a primo segretario del Comitato centrale e poi a primo ministro (1958) da un lato e la presidenza Kennedy (1961-63) dall’altro, si afferma la tesi della
“coesistenza pacifica”, messa a dura prova da eventf quali la crisi cubana (22-28 ottobre 1962), sorta a proposito dell’installazione di basi missilistiche sovietiche a Cuba (conseguente ad un tenta-
tivo di aggressione all'isola da parte di fuoriusciti cubani il 17 aprile 1961 coperto ed istigato dal governo di Washington), ntiovamente condusse il mondo intero sull’orlo di un conflitto. Le presidenze successive all’assassinio di Kennedy (22 novembre 1963), Johnson (1964-68) e Nixon (1969-72 e 1972-74), mostrarono, con l’escala-
tion in Vietnam (dal 1964) e l’appoggio al go/pe cileno (1973), il volto più aggressivo dell’imperialismo statunitense, incrinando il carisma dell’incorruttibilità e dell’infallibilità presidenziale (“caso
Watergate”), riconquistato poi, negli anni Ottanta, da quel Grande Comunicatore che è stato Reagan (1980-88), abilissimo nel garan-
tirsi un consenso popolare, facendo leva sui più consolidati luoghi comuni del conservatorismo statunitense. In effetti, imperialismo e convergenza del potere industriale e di quello statale non sono fatti nuovi nella storia statunitense; ciò che è mutato nel dopoguerra (ed in modo determinante nel corso
GLI
ANNI
DEL
DOPOGUERRA
delle ultime presidenze) sono i parametri quantitativi e le modalità. Dal 1946 al 1968, nel bilancio nazionale la voce “spese militari” gravò per il 57,29% (904 miliardi di dollari), laddove quella relativa ai “costi sociali” rappresentò solamente il 6,08% (96 miliardi) del totale; alle forme tradizionali di neocolonialismo (acquisto di materie prime a basso costo ed esportazione di manufatti di qualità scadente) si è sovrapposta, in special modo nell’ America latina, una progressiva razionalizzazione dei rapporti di sfruttamento in cui le dipendenze dal capitale e dalla tecnologia statunitensi svolgono un ruolo determinante. Le influenze del capitale industriale sui poteri statali si fecero poi particolarmente strette in occasione del secondo conflitto mondiale e da allora in poi non fecero che aumentare. Il volere delle corporations, ed in special modo di quelle connesse alla tecnologia ed all’industria bellica, venne a coincidere con quello del Presidente e del suo entourage che, valendosi di uomini fidati reclutati nei servizi segreti, posero sotto controllo non solamente gruppi al di
fuori del sistema politico sospetti di sinistrismo (sistema già in atto al tempo di Roosevelt e pof divenuto una pratica costante) ma anche i “nemici dell’Amministrazione” che si annidavano fra i democratici (donde il “caso Watergate”).
La politica americana del dopoguerra distrusse dunque i fondamenti di quella mitologia libertaria che gli Stati Uniti avevano esibito all'Europa come alternativa democratica ai governi totalitari. Le reazioni degli intellettuali statunitensi alla caduta dei miti nazionali rappresentano uno dei capitoli più vivaci e stimolanti del panorama culturale postbellic6. L’alienazione ed il disadattamento sociale e esistenziale in tutti i suoi risvolti (etico-sessuali-politico) del singolo di fronte alla civiltà industriale - tema centrale della cultura occidentale del dopoguerra — negli Stati Uniti sono trattatifin un’ampia gamma di sfumatute da romanzieri, sociologi, registi. Ne sono esempi, fra i più famosi, i romanzi: The Catcher in the
Rye (letteralmente “Colui che afferra nella segale”, conosciuto in Italia come I/ giovane Holden di Jerome David Salinger (1919-viv.), cronaca tragicomica di due giorni trascorsi dal protagonista, Holden Caulfield, a New York, dopo la sua espulsione da una preparatory school della Pennsylvania; Lolita (1955) del russo-americano Vladimir Nabokov
(1899-1977), storia dell’amore di un quaran-
tenne per una “ninfetta” minorenne, che si conclude con l’omicidio di un rivale e la pena di morte per il protagonista; Henderson
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LA
MUSICA
AMERICANA
the Rain King (Il re della pioggia, 1959) di Saul Bellow (1915-viv., forse il più grande scrittore statunitense del dopoguerra), narrazione di un picaresco viaggio africano del protagonista miliardario, Gene Henderson, alla ricerca di una risposta al problema esistenziale; i due saggi sociologici The Lonely Crowd (La folla solitaria, 1950) di Riesman, Glazer e Denney, e The Organization Man (L'uomo
dell’organizzazione, 1956) di Whyte, che pongono in evidenza l’assorbimento del singolo nella società massificata e la sua identificazione con l’organizzazione industriale. Accanto all’esperienza per così dire “privata” degli scrittori citati, un’altra, a mezza via tra il fatto culturale e quello di costume,
ha svolto un ruolo notevole nell’ America del dopoguerra, offrendo alle giovani generazioni non solo stimoli culturali, ma anche e specialmente modelli comportamentali ed esistenziali: il movimento beat degli anni Cinquanta (beat generation), che creò le premesse della proliferazione di movimenti giovanili degli anni Sessanta, genericamente riconducibili alla comune denominazione di bippies. Principali esponenti del movimento beat furono quel gruppo di poeti e romanzieri che verso la metà degli anni Cinquanta diedero vita ad una corrente letteraria (chiamata poi Rinascimento di San Francisco), la cui caratterizzazione principale consiste nell’attualizzazione dell'esperienza whitmaniana mediante l’impiego di una prosodia libera e spigolosa come il fraseggio del bebop e di un’eloquenza oratoria resa particolarmente violenta dal sistematico impiego dello slang: Allen Ginsberg (1926-viv.) e Gregory Corso (1925-viv.) rispettivamente con le raccolte di poesie How/ (Urlo, 1936) e Gasoline (Benzina, 1958), e Jack Kerouac (1922-1969) con il romanzo On the Road (Sulla strada, 1957). L’anticonformismo, la contestazione
del razionalismo e della tecnologia, la ricerca di nuovi valori in un misticismo di derivazione orientale (dalla dottrina Zen in particolare), l'identità tra arte e vita, l’enfasi posta sul gesto - quanto più possibile casuale, indeterminato ed improvvisato (action painting) — più che sul risultato finale dell’esperienza artistica, l'introduzione di materiali quotidiani e massificati nel processo creativo (donde la pop art) sono le caratteristiche salienti della beat generation ed al tempo stesso le matrici ideologiche del movimento bippy. Con la differenza che quanto nel decennio precedente era nel segno della negazione e dell’isolamento - l’ultimo frutto della stagione esistenzialista — negli anni Sessanta divenne fenomeno di massa, rito collettivo: l’assun-
GLI
ANNI
DEL
DOPOGUERRA
zione di droghe, per «allargare l’area della consapevolezza» (l’espressione è di Ginsberg); il rapporto sessuale disinibito assunto a valore quasi sacramentale; la creazione di comunità agricole hippies, eccetera. La beat generation e la hip generation non furono movimenti politici, ma nacquero sotto lo stimolo di avvenimenti politici. La prima fu stimolata dalla repressione anticomunista del primo decennio postbellico (1946-56) — riflesso interno della “guerra fredda“ - che culminò in una vera e propria caccia alle streghe scatenata dal senatore Joseph McCarthy (morto nel 1957) contro i sospetti di “attività antiamericane”, in gravi attacchi alle libertà democratiche (legge McCarran-Nixon, 1950, che sancì vere e proprie liste di proscrizione dei sospetti sovversivi; McCarran Act, 1952, che discriminò
l'immigrazione sulla base della fede politica), in persecuzioni e diffamazioni di uomini politici e di artisti, in grottesche censure nei confronti dell’arte informale o comunque stilisticamente avanzata (secondo il rappresentante repubblicano del Michigan, Dondero, uno dei più accaniti censori, «l’arte moderna è comunista perché è distorta e brutta, perché'non glorifica il nostro bel paese, il nostro popolo gioioso e sorridente, il nostro progresso materiale»), nella distruzione di pitture murali giudicate sovversive (gran parte di quelle dipinte durante il New Deal) o nella copertura delle parti ritenute offensive (ad esempio, di opere di Orozco, Rivera, Refrie-
ger). La seconda, invece, fu originata dall’escalation in Vietnam che, assieme ad altri eventi politici quali la rivoluzione cubana (1959) e la rivoluzione culturale cinese (iniziata nel 1966), con-
dusse alla progressiva péliticizzazione di diversi settori del mondo giovanile, alla conseguente creazione di una nuova sinistra (New Left) in cui si sono stratificati apporti culturali diversi (bippies compresi) ed all’esplosione di moti studenteschi (14 sett&mbre 1964 4 gennaio 1965 all’Università di Berkeley) e di manifestazioni di protesta collettive (marcia sul Pentagono del 21 ottobre 1968). La radicalizzazione del dissenso negli anni Sessanta ha segnato una svolta qualitativa anche nell’àmbito della negritudine: il progressivo spostamento cioè dal tradizionale tema rivendicativo dell’integrazione e della parità dei diritti civili alla presa di coscienza dell’appartenenza ad una comunità di origine africana culturalmente distinta da quella bianca. Per cui, accanto al movimento riformista non violento di Martin Luther King (assassinato il 4 aprile 1968),
ebbero un notevole peso negli anni Sessanta il movimento del Black
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Power (Potere nero) fondato da Stokely Carmichael e il Black Pan-
ther Party (Partito delle pantere nere) fondato da Huey Newton e Bobby Seale e poi diretto da Eldridge Cleaver, entrambi ispirati al nazionalismo negro predicato da Malcom X (assassinato nel febbraio del 1965), orientati, però, verso una diversa strategia rivoluzionaria.
Di carattere intellettuale, il primo mirava piuttosto alla riappropriazione della cultura africana originaria; il secondo vedeva invece nello scontro diretto ed armato l’unica possibile via rivoluzionaria. È ancora una volta il jazz, tra i generi artistici, lo specchio più fedele dell’area culturale negro-americana di questo ultimo periodo. Laddove i boppers degli anni ’44-’50 (il trombettista John Birks “Dizzy” Gillespie, 1917-viv.; il sassofonista Charles Christopher “Charlie” o “Bird” Parker, 1920-1955; il pianista Eart “Bud” Powell, 1924-1966, ed il batterista Maxwell Roach, 1925-viv.) epu-
rarono il jazz dalle commercializzazioni della swing era e iniziarono una nuova éra creativa, i jazzisti più avanzati degli anni Sessanta (i sassofonisti: Ornette Coleman, 1930-viv., Albert Ayler, 19361970, Archie Shepp, 1937-viv.; i trombettisti: Donald “Don”
Cherry 1936-viv., Donald Johnson “Don” Ellis, 1934-viv.) lo ricondussero, con il free, alle originarie fonti africane.
Trait d’union fra il bop ed il free jazz sono stati lo hard bop (letteralmente “bop duro”, che ha riportato il jazz, dopo le edulcorate operazioni estetizzanti del coo/- jazz freddo -—, alla pulsazione ed al blues originari, e fu rappresentato da musicisti quali il trombettista Clifford Brown, 1930-1956, i batteristi Art, Blakey, 1919-1990, ed il già menzionato Max Roach, il pianistà Horace Silver, 1928-viv., il sassofonista Julian “Cannonball” Adderley,
1928-1979) ed i vari Jazz Workshops (laboratori di jazz) di Charles Mingus (1922-1979), un contrabbassista-compositore-pianista che,
potenziando l’improvvisazione di gruppo e rompendo gli schemi tradizionali mediante l'introduzione di asimmetrie ritmiche, for-
mali, armoniche, ha indicato la strada ai free-jazzmzen degli anni Sessanta. Un’analisi comparativa delle principali caratteristiche dello swing, del bebop e del free jazz (v. schema in pagina a fronte) può offrire un quadro sintetico delle due più importanti tappe (il bebop e il free) del processo di riappropriazione, nel dopoguerra, di una tradizione jazzistica negra, costantemente saccheggiata da commer-
cializzazioni di ogni genere e edulcorata mediante operazioni culturali estetizzanti (il coo/ jazz).
GLI
Elementi di raffronto
Percussione e ritmo
Swi
ANNI
Sezione petcussiva (batteria, pianoforte, chitarra); ritmo regolare di 4/4 scandito sulla grancassa e sul tomtom
DOPOGUERRA
;
Free jazz
Bebop
LIE
DEL
Batteria con funzione ritmico-solistica; ritmo ri-
Poliritmi
partito fra piatti, tamburelli e colpi occasionali alla grancassa
Temi
Canzonettistici
Originali e canzonettistici “rigenerati” mediante deformazioni melodico-armonicoritmiche
Liberi, secondo l’estro improvvisatorio
Armonia
Giri armonici tradizionali .
Cromatismi che possono condurre alle soglie dell’atonalità
Eterofonia
Improvvisazione
Limitata
Solistica
Collettiva
Strumenti
Orchestra divisain
Piccolo complesso
Tradizionali usati
3 sezioni
(combo)
al limite dell’esten-
-
sione melodica ed effetti particolari (fischi d’ancia, col-
i
pi di tasto e simili); strifmenti esotici (schenai, gamelan, balafon, eccetera)
d
Titoli
Canzonettistici originali
o
Originalioreintitolazione di melodie “rigenerate”: Anthropology di Parker +I Got Rhythm di Gershwin;
Groowin'
High di Gillespie + Whispering
Frequenti riferimenti all'Africa: Ethiopia, Uburu Na Umoja, Homage to Africa e simili
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LA
MUSICA
AMERICANA
19 e LA MUSICA NEL DOPOGUERRA: SERIALITÀ, INDETERMINAZIONE, ALEA E GESTUALITÀ, IMPROVVISAZIONE
Il panorama della musica americana del dopoguerra è caratterizzato, almeno fino all’inizio degli anni Sessanta, da due tendenze
fondamentali ed antitetiche: da un lato la razionalizzazione del processo compositivo mediante l’impiego della serialità, dall’altro il rifiuto di un principio struttutalizzante e la sostituzione ad esso dell’indeterminazione e dell’alea. La crescente espansione dei massmedia ha inoltre accresciuto notevolmente quel processo osmotico di fusione e di scambio fra stili e generi diversi accentuando in tal modo, specialmente dopo gli anni Sessanta, la naturale tendenza eclettica dell’arte americana. L’impiego di tecniche seriali da parte di compositori come Sessions e Copland (rispettivamente nel Quintetto per archi e nella Fantasia per pianoforte, entrambi del 1957, ad esempio) pone in rilievo l’attrazione esercitata, negli anni Cinquanta, dalla serialità sui compositori americani. Va però tenuto presente che, innestandosi su
un tessuto culturale ben diverso da quello europeo, essa è stata assunta dai compositori d’oltreoceano come un metodo fra i tanti, ed è stata quindi spogliata delle implicazioni storico-filosofiche schònberghiane; tutt’al più viene a coincidere con il mito tecnologico di una totale razionalizzazione della struttura sonora (Babbitt). Partendo da queste premesse si comprende meglio d’atteggiamento di Schénberg nei confronti degli allievi americani che si iscrivevano al suo corso per apprendere un metodo collaudato per comporre, e la delusione di questi nel vedersi invece proporre un riesame delle nozioni basilari di contrappunto, composizione, armonia anche se in una prospettiva “strutturale” e non accademica. Poiché, tranne pochi fedelissimi (tra cui Gerard String, Leonard Stein e Dika Newlin), gli allievi dopo qualche tempo lo abbandonavano insoddisfatti, molto maggior peso ebbero sugli sviluppi della serialità in America gli europei emigrati (Ernst Ktenek e Stefan Wolpe) o gli americani che avevano appreso la serialità in Europa (Adolf Weiss, ad esempio) a diretto contatto con i rappresentanti della Seconda scuola viennese. Vi furono delle premesse agli entusiasmi seriali degli anni Cin-
ia.
LA
MUSICA
NEL
DOPOGUERRA
quanta, poste negli anni Trenta da musicisti come Adolf Weiss (1891-1971) e Wallingford Riegger (1885-1961) che, al ritorno del loro viaggio di apprendistato a Berlino (Weiss fu il primo allievo americano di Sch6nberg), si misero ad impiegare la serialità. La libertà che Riegger si concede nei confronti della serialità è particolarmente rivelatrice di quell’atteggiamento tipicamente americano cui si è accennato. A prescindere dal Prizzo Quartetto per archi op. 30 del 1938-39 in cui il compositore si attiene al rigore schònberghiano, nelle altre opere ove essa compare viene a delineare melodie atonali trattate come temi, alcuni elementi dei quali sono poi sviluppati ritmicamente (le due serie, di 11 e 10 note, più 3 ripetute, di Dichotomy op. 12, per orchestra da camera del 1931-32, una pietra miliare nella storia della serialità americana); inoltre,
invece di dare origine a permutazioni, la serie è innestata su un tessuto liberamente dissonante ed atonale (Evocation op. 17, per pianoforte a 4 mani, trascritto anche per orchestra, op. 17/a, nel 1933; Secondo Quartetto per archi op. 43, 1948) e ritorna più o meno saltuariamente nel corso della composizione (nella Terza Sinfonia
op. 42, 1946-47, ad esempio). Ross Lee Finney (1906-viv.), allievo sia di Nadia Boulanger a Parigi, sia di Alban Berg a Vienna, iniziò ad introdurre stabilmente nelle sue opere la serialità dal 1950 (Sesto Quartetto per archi), impiegandola secondo un criterio personale (3 serie nel predetto quartetto; una struttura esacordale piuttosto che seriale nel Divertissement per 4 strumenti, 1964; medesima serie formata da due esa-
cordi: nel Quintetto per archi, 1958, nella Seconda Sinfonia ed in Edge of Shadow per 5 strumenti e percussioni, entrambi del 1959); quindi, verso la fine del decennio (dalla Seconda Sinfonia, 1959,
in poi), serializzò anche altri parametri (durante, pàuse, tempi). Altri compositori:come Ben Weber (1916-1979) e George Rochberg (1918-viv.) hanno piuttosto assecondato un afflato lirico — riscontrabile peraltro anche in Finney — che tende a modellare la serie dodecafonica in temi di sapore espressionistico piuttosto che accentuarne la struttura intervallare. In un’ottica diametralmente opposta si situa l’esperienza musicale di Milton Babbitt (1916-viv.), allievo di Sessions. Iniziando
dalle opere composte nel biennio 1947-48 (Three Compositions for Piano, Composition for Four Instruments, Composition for Twelve Instruments) ha inteso realizzare un sistema sonoro totalmente deter-
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LA
MUSICA
AMERICANA
minato, serializzando non solo le altezze ma anche altri parametri sonori (durata, dinamica, formazione degli accordi) mediante procedimenti permutatori, secondo una concezione molto simile — e però totalmente indipendente e contemporanea — a quella che sorregge il Mode de valeurs et d’intensités (1949) di Messiaen. La tappa successiva ed inevitabile dell’evoluzione artistica di Babbitt fu l’impiego del sintetizzatore dal 1959, quando, assieme a Luening, Ussachevsky e Sessions, assunse la direzione dei centri di musica elettronica delle Università di Columbia e Princeton; nacquero composizioni quali Composition for Synthesizer, Vision and Prayer (entrambe del 1961), Enserzbles for Synthesizer (1964) e Philomel (1963-64) per soprano, flauto diritto e accompagnamento di sintetizzatore.
y
Un itinerario simile è stato percorso anche da Mel Powell (1923-viv.). Allievo di Hindemith a Yale, dopo una prima stagione neoclassica si è convertito, verso la fine degli anni Cinquanta, al postwebernismo ed alla serializzazione totale (Quintetto con pianoforte, 1956; Miniatures for Baroque Ensemble, 1958; Filigree Set-
ting per quartetto d’archi 1960); quindi, alla musica elettronica (First e Second Electronic Setting, rispettivamente 1960 e 1962; Events, 1963; Analogs I-IV, 1966; Immobiles I-IV, per nastro e/o orchestra, 1967). La teoria babbittiana della serializzazione totale non
è stata tuttavia l’unico tentativo di estensione del procedimento dodecafonico. Un altro compositore, George Perle (1915-viv.), allievo privato di Kfenek, ha elaborato un “sistema modale dodecafonico” consistente in una specie di armonizzazione della serie
dodecafonica (derivata dal principio della sovrapposizione accordale dei suoni adiacenti — antecedente e conseguente - di due serie)
che ha impiegato in diverse sue opere (ad esempio, nella Suite per pianoforte, 1940; nei Three Movements per orchestra, 1960; nel Sesto Quintetto per archi e nella Toccata per pianoforte, entrambi del 1969).
All’estremo opposto dell’iperdeterminazione seriale di Babbitt e del modalismo dodecafonico di Perle si colloca l'itinerario artistico di John Cage (Los Angeles, California, 1912-viv.) che, ponen-
dosi come alternativa al postwebernismo europeo, ha influenzato in modo determinante la Nuova Musica americana (ed anche, in certa misura, quella europea del successivo decennio). I lavori del
suo primo periodo compositivo (1933-50), per lo più pianistici (per
LA
MUSICA
NEL
DOPOGUERRA
Ria
pianoforte: da Music for Xenia, 1934 a Suite for Toy Piano, 1948; per pianoforte “preparato”: da Bacchanale, 1938 a Music for Marcel Duchamp, 1947, di cui la maggior parte composti per accompagnare i balletti di Merce Cunningham) o per diversi complessi di strumenti a percussione (dal Quartetto, 1935 a Imaginary Landscape n. 3, 1942) mostrano chiare influenze dello sperimentalismo cowelliano e varesiano ed invece, tranne qualche rara eccezione (Six Short Inventions, 1933 o Music for Wind Instruments, 1937) una pressoché totale impermeabilità nei confronti del costruttivismo seriale sch6nberghiano. Di entrambi i maestri, Cowell e Schénberg, oltreché di Weiss e di Buhlig, Cage fu allievo nel periodo 1933-37. La “preparazione” del pianoforte (l’inserzione, cioè, di viti, pezzi di plastica, di sughero, di gomma, monete, eccetera) divenne, in questo primo periodo, uno dei principali mezzi apprestati dal compositore per ricavare nuove possibilità timbriche dallo strumento che, privato delle qualità sonore del pianismo ottocentesco e novecentesco, somiglia piuttosto ad un gazzelar giavanese. Vera e propria “summa” delle possibilità espressive del pianoforte “preparato” sono le 16 Sonate ed i 4 Interludi composti nel triennio 1946-48, che vogliono riprodurre, secondo quanto afferma Cage, «gli immutabili stati d’animo della tradizione indiana: l’eroismo, l'erotismo, lo stupore, la gioia, la tristezza, la paura, l’ira, l’odio,
e la loro comune tendenza verso la quiete». Altri aspetti, anche questi di derivazione orientale, o quanto meno di un Oriente filtrato attraverso la lezione di Debussy e di Varèse, sono: il sistematico rifiuto delle funzioni armoniche tradizionali e la sostituzione, ad
esse, di accordi irrelati o di linee melodiche modaleggianti (ad esempio: nei brani per pianoforte, in genere, “preparato” e non; nella Sonata per clarinetto solo, nei Tre pezzi per due flauti'hella Sonata per due voci, tutte del 1933; nel Quartetto per archi, 1950); un particolare interesse nei confronti delle percussioni estrinsecatosi in
una serie di composizioni pet sola percussione (Quartetto, 1935; Trio, 1936; First, Second e Third Construction in Metal, rispettivamente del 1939, 1940, 1941; Imzaginary Landscape n. 2 e 3, 1942;
Double Music, 1941) o per percussione assieme ad altre fonti sonore - radio o grammofono, parlato — (Irmzaginary Landscape n. 1, 1939, esempio di.musica concreta ante litteram; Living Room Music, 1940, per percussioni e speech quartet; Credo in Us, 1942, per percussio-
ni e pianoforte, radio e grammofono) oltreché in una serie di con-
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LA
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certi in collaborazione con Lou Harrison (1939-41); la tendenza
ad organizzare la struttura della composizione secondo schemi numerici simili ai t/a indiani (First Construction in Metal presenta una struttura condizionata dalla sequenza numerica 4-3-2-3-4 e dal totale, 16;16 sono le sezioni che compongono il brano, suddivise
in periodi di 16 battute, a loro volta articolati in frasi di 4-3-2-3-4 battute l’una). Oltre ai brani già citati, due meritano ancora paricolare menzione: Azzores (1934) in quattro movimenti, i cui due
estremi contengono alcuni fra i passi più suggestivi per pianoforte “preparato”, ed incorniciano i due movimenti centrali destinati invece alla percussione (il secondo per 9 tomz-tomzs e pod-rattle; il terzo per 7 woodblocks), ed il Quartetto per archi (1950) in 4 movimenti ove alcuni brandelli tematico-ritmici ricorrono stancamente, quasi per un’oscura fatalità, immersi in un’armonia statica, trat-
teggiata dai quattro strumenti che suonano come una fisarmonica lontanissima, surreale. Decisivo, per la successiva evoluzione artistica del compositore, l’incontro con il buddismo Zen, avvenuto nel 1947 alla Columbia
University nella persona del filosofo giapponese Daisetz Teitaro Suzuki. Se le suggestioni orientali nella produzione precedente si erano manifestate in una forma, pur aggiornata e personalissima, di esotismo, le nuove convinzioni filosofiche stimoleranno Cage ad un sovvertimento dei parametri musicali tradizionali ed alla ricerca di metodi compositivi catartici. Le teorie estetiche cageane, esposte dal compositore in due voluminose raccolte di articoli, saggi, conferenze (Silence, 1961 e A Year from Monday, 1965) scritti in
forma letteraria più o meno tradizionale, richiederebbero un’ampia trattazione. In questa sede si intende solamente tratteggiarle per sommi capi, limitatamente al campo musicale. Cage parte dal presupposto che il silenzio non esiste, in quanto ebbe a sperimentare di persona che, in una stanza anecoide (immersa, cioè, nel più assoluto silenzio), continuava ad avvertire due suoni: la circola-
zione del sangue ed il sistema nervoso. Ne deriva che, siccome tanto il suono che il silenzio (relativo: i suoni che non sono stati scritti) hanno in comune la durata, è su questo parametro che si deve fondare la Nuova Musica. In secondo luogo, l’emozionalità della musica deve essere evitata in vista di una nuova epifania dei suoni, percepiti finalmente come entità oggettive («Un suono non considera se stesso come pensiero, come necessità, come elemento cui occorre
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un altro suono per chiarirsi...»). La musica deve essere perciò sperimentale («È sperimentale quell’azione della quale non si prevede il risultato») e cémpito del compositore è «scoprire i mezzi che consentono ai suoni di essere se stessi, anziché veicoli di teorie
umane o espressioni di sentimenti propri dell’uomo». Coerente con questa poetica, Cage, dopo il 1950, iniziò a sperimentare nuovi sistemi per svincolare i suoni della sudditanza espressiva, introducendo nel processo compositivo e in quello ese-
cutivo il concetto di indeterminazione. I principali riti di questa nuova liturgia sonora possono sintetizzarsi nei seguenti punti: a) composizione — nel senso etimologico di “mettere insieme, com-
binare” — mediante procedimenti aleatori: ad esempio, in Music of Changes per pianoforte ed in Imaginary Landscape n. 4 per 12 apparecchi radio, entrambi del 1951, cardini della rivoluzione cageana, i parametri dei suoni, pianistici o radiofonici, sono stati ricavati dal lancio delle monete dell’I Ching (Libro dei mutamenti, un sistema cinese per ottenere oracoli mediante il lancio di tre monete e l’interpretazione delle combinazioni così ottenute); b) composizione ottenuta con procedimenti aleatori e lettura “casuale” mediante la sovrapposizione di un foglio trasparente le cui imperfezioni indicano i suoni che si devono eseguire, determinati in alcuni parametri, secondo i casi (in Music for Piano nn. 1-84); c) indeterminazione dei mezzi esecutivi: le 20 pagine di accordi che compongono Wirter Music, 1957, possono essere eseguite tanto in successione quanto in sovrapposizione da 1 a 20 pianisti; nel
Concerto per pianoforte é orchestra (1957-58) — la cui parte pianistica formata da 84 moduli compositivi notati in 63 pagine, può essere eseguita tutta, in parte e secondo qualsivoglia ordine - Cage lascia piena libertà anche di orchestrazione, che può”variare dall'assenza totale dell’orchestra all'impiego di un’orchestra sinfonica; HPSCHD (le consonanti di “harpsichord”, clavicembalo), del 1969,
per 51 nastri magnetici e 7 clavicembali - oltre a proiezioni di films e diapositive — può essere eseguita in tutte le combinazioni possi-
bili, anche solo da un nastro ed un clavicembalo; d) sovrapposizioni collagistiche di composizioni diverse: ad esempio Atlas Eclipticalis, 1961-62, ricavato dalla trascrizione in suoni di mappe celesti, per 86 parti strumentali - ovviamente eseguibili tutte, in parte, secondo qualsivoglia durata e combinazione strumentale —- può essere abbinato a Winter Music; il Solo, per voce, n. 2 (1960) può
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essere abbinato al Concerto per piano e orchestra (1957-78), a Fontana Mix (1958) ed a Cartridge Music (1960) per rumori microfo-
nici (cartridge è appunto la cartuccia della testina del giradischi) prodotti e trasformati elettronicamente secondo le indicazioni di uno schema da cui gli esecutori devono ricavare le loro patti. Oltre alle diverse situazioni di indeterminazione, due altre ten-
denze assumono particolare rilievo nell’esperienza artistica cageana successiva al 1950: il rapporto tra suono e silenzio, e la gestualità. A proposito del primo, la teoria esposta in sede poetica si traduce praticamente nella dilatazione del silenzio fino a quel celebre 4’ 33” (1952) in cui l’esecutore — e Cage tiene a specificare «per ogni
strumento o combinazione strumentale » - semplicemente tacet, non suona per tutto il tempo indicato, che rappresenta la durata del brano, ed esegue perciò il silenzio di cui fan parte gli occasionali rumori del pubblico. La gestualità è invece esaltata da tutto quel rituale da compiersi prima e/o contemporaneamente all’emissione sonora. Vi sono però alcuni brani in cui questo aspetto è predominante: il celeberrimo Music Walk (1950), una “passeggiata musicale” appunto, in cui le varie azioni — che comprendono misurazioni e spostamenti in scena, oltreché operazioni sonore con una radio e con il pianoforte suonato sulla tastiera, internamente, ester-
namente, con sordina — sono determinate dalla sovrapposizione delle linee tracciate su un trasparente ad alcuni pallini segnati su una serie di dieci fogli; Water Music (1952) per pianoforte, radio, fischietti, contenitori d’acqua, mazzo di carte; oppure le più recenti Variations III e IV (1963) rispettivamente «per una @ un certo
numero di persone che eseguono alcune azioni» e «per quanti si voglia esecutori, qualsiasi suono o combinazione sonora prodotta con qualsiasi mezzo, con o senza altre azioni», entrambe munite di foglio esplicativo e trasparente regolamentari. La caleidoscopica personalità di Cage ha provocato, come è prevedibile, entusiastici consensi e drastici rifiuti creando il «caso»
più radicale e oltranzista di sperimentalismo inteso come drastico e ironico ripudio della stessa tradizione compositiva occidentale. Per essere pienamente compreso occorre proiettarlo sullo sfondo che l’ha generato, cercare di cogliere le motivazioni profonde e delimitarne le conseguenze: la poetica di Cage e i risultati che ne derivano si inseriscono perfettamente in quel filone culturale americano rappresentato nell’arte figurativa dall’astrattismo gestuale di
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Pollock, Kline, De Kooning, e dalla pop art così come l’attrazione
verso la filosofia orientale è, da Thoreau in poi, una costante della cultura statunitense e rappresenta, nei paesi a capitalismo avan-
zato, una reazione, irrazionalistica e misticheggiante, al tecnologismo; la musica e le operazioni gestuali-musicali di Cage sono diventate un vero e proprio repertorio lessicale per i compositori d’avanguardia americani e va sottolineato che Cage è stato il primo com-
positore americano che ha influenzato a vasto raggio l’area europea. Primi apostoli del Verbo cageano sono stati tre compositori che, fin dall’inizio degli anni Cinquanta, si sono orientati verso una concezione “aperta” del principio compositivo: Morton Feldman, Christian Wolff e Earle Brown. Caratteristica principale della musica di Morton Feldman (1926-1987) è una quasi totale assenza di movimento che permette di degustare le lente trasformazioni dell’edificio sonoro in tutte le implicazioni acustiche e le riverberazioni. La stessa indeterminazione, presente fin dalle sue prime opere (nella serie di Projections, 1951, per diverse combinazioni da camera, così come in Intersection I e Marginal Intersection per orchestra, sempre
del 1951, sono indicate su un grafico tre differenti gamme — grave, media, acuta — ma non le altezze dei suoni), assume un’importanza secondaria rispetto a questa stasi sonora. Negli anni Sessanta è tor-
nato a scrivere su pentagramma, lasciando qualche elemento indeterminato (la durata dei suoni, in Durations 1-5, 1960-61, per diverse combinazioni cameristiche, o in The Swallows of Salangan, 1961, per coro muto e strumenti) o determinando tutti i parametri sonori
(ad esempio in Structuresfor Orchestra, 1960-62) ed ha rivolto una particolare attenzione al continuum sonoro prodotto dall’aggancio immediato di un suono-alla dissolvenza di quello precedente (ad esempio in De Kooning per pianoforte, violino, violontello, corno francese e percussione, 1963).
Christian Wolff (1934-viv.) ha iniziato il suo itinerario compositivo utilizzando un ridottissimo numero di suoni (quattro nel Trio I per flauto, tromba e violoncello, 1951; nove in Nire per 9 strumenti, 1951, ed in For Piano I, 1952); quindi, dal Duo for Pia-
nists (1957) in poi, ha inteso aprire la composizione a scelte operative degli esecutori ed a ogni tipo di evento sonoro (ad esempio in For 1,2,3 People, 1964).
Earle Brown (1926-viv.) invece, dopo esser stato attratto dai princìpi compositivi su base matematica del russo-americano Joseph
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Schillinger (1895-1943), sotto l'influenza dell’action painting di Pollock e dai rzobiles di Calder ha iniziato a comporre partiture leggibili in ogni senso del foglio, utilizzando grafie inusitate (i Folio Pieces del 1952-53; la Music for Cello and Piano, 1955; Hodograph I, 1959, per 6 strumenti). Un genere assai simile di “apertura” della partitura caratterizza le Available Forms I (1961, per 18 strumenti) e II, (1962, trascrizione per grande orchestra e 2 direttori): ogni pagina delle sei che compongono la partitura contiene quattro o cinque “eventi” la cui scelta e le cui combinazioni sono a discrezione del direttore. Il compositore si è poi rivolto a forme più statiche che contengono tuttavia al loro interno un certo grado di indeterminazione (ad esempio, Corroboree per tre pianoforti, 1964, ed
il Quartetto d'archi, 1965). . Se l’indeterminazione guidata e la concezione spaziale del tempo sono i princìpi cageani che ricorrono con maggior frequenza nelle opere dei suoi tre più diretti discepoli, la gestualità è l'aspetto che ha influenzato maggiormente gli autori emersi negli anni Sessanta. Lo happening, il teatro cioè in cui le azioni semplicemente avvengono senza giustificazioni psicologiche o di altra natura, e la confluenza di arti diverse — musica pittura scultura mimica cinema —
in un unico organismo scenico sono filiazioni dirette di un precetto di Cage secondo il quale «l’azione importante è teatrale (la musica — separazione immaginaria dell’udito rispetto agli altri sensi — non esiste), inclusiva e intenzionalmente priva d’intenziona-
lità. Il teatro avviene di continuo...». Le università (alcune in particolare: Michigan, Illinois, California) sono divenute i lupghi d’ele-
zione di queste attività. Un’organizzazione che le ha particolarmente stimolate è stato lo Once, un gruppo di giovani artisti sorto nel 1960 con sede a Ann Arbor (Michigan) per promuovere le manifestazioni di arti “integrate”. A scopo esemplificativo si citano alcune opere di compositori affiliati allo Once: in Public Opinion Descends Upon the Demonstrators (1961) di Robert Ashley (1930-viv.) un operatore regola l'emissione di suoni preincisi sugli atteggiamenti assunti dagli spettatori, secondo un codice prefissato, sicché il pubblico si trasforma in esecutore inconsapevole; sulla falsariga di Cage, lo stesso Ashley, in un lavoro intitolato In memoriam Kit Carson (1964), mescola suoni radiofonici, televisivi,
fonografici, conversazioni; sulla partitura di Meanwbile. A Twopiece (1961) per pianoforte, percussione, suoni elettronici prein-
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cisi ed «un altro strumento in cui gli esecutori siano versati», di Gordon Mumma (1935-viv.) non compare alcuna notazione musicale, bensì i gesti che gli esecutori devono compiere per produrre i suoni; in The Emperor of Ice Cream (1962) per 4 voci maschili
e 4 femminili, piano, vibrafono, percussione e contrabbasso, di Roger Reynolds (1934-viv.) non sono indicati solamente i suoni che si devono produrre ma anche gli spostamenti da compiersi sulla scena. L’impiego di mezzi espressivi appartenenti ad arti diverse ricorre molto spesso in queste forme di teatro gestuale per realizzare un coinvolgimento totale del pubblico: Mandolin (1963) e Play! (1964) di Morton Subotnick (1933-viv.) sono stati concepiti rispettivamente per violino, nastro magnetico e proiezione di luci il primo, e per quintetto di legni, pianoforte, nastro e film da 16 mm, il secondo. Un altro stimolo cui si sono dimostrati particolarmente sensibili i compositori degli anni Sessanta è l’improvvisazione, non tanto veicolata da Cage - che, si è visto, ha incentrato la sua atten-
zione sull’indeterminazione controllata - quanto piuttosto dal jazz. Un compositore che, partendo dal jazz, ha introdotto nei suoi lavori successivi operazioni improvvisatorie è Larry Austin (1930-viv.)
fondatore del gruppo di improvvisazione New Music Ensemble (nel 1962). Fino al 1964 ha composto lavori di ispirazione jazzistica (Fantasy on a Theme by Berg for Jazz Band, 1960; Improvisation per orchestra sinfonica e solisti jazz, 1961), quindi ha scritto parec-
chie opere in “stile aperto”, comprensive cioè di diverse indeterminazioni che stimolano-l’improvvisazione (Changes per trombone e nastro magnetico, 1965; Catharsis, per due complessi di improvvisazione, nastro e direttore, 1965; The Maze, per tre percussionisti, nastro, proiezioni e direttore, 1965).
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Altre radici culturali ha invece l’improvvisazione di Lukas Foss (1922-viv.). Dopo una produzione musicale di stampo neoclassico, nel 1957 ha fondato all’Università di California l’Improvisations Chamber Ensemble formato da pianoforte, clarinetto, violoncello,
percussione, con l’intento di «far rivivere in un linguaggio moderno l’arte classica dell’improvvisazione». L'attuazione pratica di questo principio nella serie di Echoi (1961-63) per il quartetto sopra menzionato consiste nelle diverse aperture lasciate nella partitura, che vengono colmate dall’interpretazione improvvisatoria; ad esempio: note in “campo aperto”, notazione senza indicazioni di bat-
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tuta o di accenti, la cui determinazione ritmica deriva perciò dal rapporto con quella degli altri esecutori, passaggi in cui si può scegliere fra alcune indicazioni dinamiche, ritmiche, eccetera, con-
trastanti. Un interessante esempio di reinterpretazione dell’atteggiamento neoclassico alla luce delle nuove sperimentazioni sono le Baroque Variations in tre movimenti del 1967, in cui Foss propone una rilettura di tre famosi brani barocchi (il Larghetto dal Concerto grosso op. 6 n. 12 di Handel, la Sonata K. 23 di Scarlatti,
il Preludio dalla Partita in mi bemolle maggiore per violino solo di Bach) mediante una tecnica di cancellazione del suono ottenuta con l’abbassamento dell’intensità sonora fino ai limiti dell’udibile ed il ritorno al livello normale che crea continui “buchi” nel tessuto musicale tradizionale.
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Un compositore che dall’immediato dopoguerra ha percorso un cammino autonomo, incurante delle radicalizzazioni delle tendenze
sopra menzionate é Elliott Carter (1908-viv.). Nel 1950 Carter avvertì l’urgente necessità di interrompere la routine della vita newyorkese per rifugiarsi nella solitudine e nel silenzio di una località desertica dell'Arizona in ritiro creativo. Allora quarantaduenne aveva alle spalle una carriera musicale già ben delineata. Folgorato dalla rivelazione di capolavori d’avanguardia come il Sacre du Printemps, ancora ragazzo aveva decisg*di diventare compositore nonostante i divieti opposti dai genitori che consideravano la sua vocazione creativa un tralignare dalle solide tradizioni commerciali della famiglia. Introdotto dal suo insegnante di musica delle secondarie nei circoli d'avanguardia di New York, non tardò ad entrare nella stima di Charles Ives, che al suo ingresso all’Università di Harvard lo aveva munito di una lettera di presentazione in cui non risparmiava parole di elogio e di ammirazione per il giovane amico. Ad Harvard Carter si appassionò allo studio della filosofia, della matematica, della letteratura classica
e di quella in lingua inglese, ma rimase deluso dall’accademismo dei suoi insegnanti di musica. Dietro consiglio di Walter Piston si trasferì allora a Parigi per continuare gli studi musicali sotto la guida di Nadia Boulanger.
BTLIOTTI
Nei quattro anni (1932-35) trascorsi alla
CARTER
“boulangerie” Carter
cominciò a rivelare una spiccata personalità. Rivoltando contro la stessa insegnante una delle sue massime preferite, secondo cui il vero artista si riconosce specialmente dalla qualità delle sue ripulse, anziché uniformare il proprio stile ai modelli da lei prediletti (Stravinskij e i Sei), si appassionò allo studio delle tecniche contrappuntistiche, delle cantate di Bach e della polifonia prebachiana e medioevale. Tornato in patria, si dedicò alla composizione di una serie di lavori corali che sotto i modernismi del linguaggio lasciavano trasparire tracce ispirative molto più remote.
Gli influssi stravinskijani e parigini sarebbero piuttosto emersi in lavori orchestrali come la Sinfonia n°1 (1942), la Holiday Overture (1944) e il Quintetto di fiati (1948), oppure nei due balletti Pocahontas (1939) e The Minotaur (1956) nonostante, a ben vedere,
questi influssi riguardassero più l’orchestrazione di quanto non incidessero sul linguaggio musicale in senso tematico e strutturale. Già in questi lavori, sebbene Carter rispetti ancora le forme tradizionali e l’invenzione rimanga ancora melodica, comincia ad avvertirsi una parcellizzazione tematica ed una volumetria sonora che rispondono ad una concezione del tempo e del linguaggio in corso di profonda revisione e mutamento. Nelle successive composizioni queste tendenze si radicalizzano. Nella Sonata per pianoforte (1945-46) certe tracce anche piuttosto evidenti della tradizione pianistica del passato permangono, ma come riflesse in una dimensione puramente gestuale. Nella Sonata per violoncello e pianoforte (1948) la differente caratterizzazione dei due strumenti, nell’astrazione tematica derivata da un’armonistica intervallare, crea un ser-
ratissimo dialogo contrappuntistico. Giunto a questo punto della sua evoluzione stilistica, Carter si rese perfettamente conto di essere ad un nodo cruciale della carriera creativa: il passo successivo avrebbe potuto condurlo all’ermetismo e al solipsismo. Il ritiro nel deserto non era solamente una delle tante repliche di quel mito del rifugio solitario celebrato nel Wa/den di Thoreau e riconsacrato dai compositori della linea pionieristica, da Ives a Varèse; rispondeva ad un ineludibile biso-
gno di chiarezza e di autocoscienza. Carter risolse creativamente questo dilemma immergendosi nella composizione del Prizzo Quartetto per archi (1951): una soluzione radicale, in quanto Carter condusse alle estreme conseguenze strutturali ed espressive quella
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dimensione dialogica connaturata al genere quartettistico e già enfatizzata nel Secondo Quartetto (1907-13) di Ives. II discorso quartettistico divieneun purissimo gioco contrappuntistico di movimenti delle voci strumentali, astratto nella sua essenza intervallare, drammatico nel confronto fra i gesti espressivi, in continua,
inesausta trasformazione cinetica: un azalogon dell’action painting di Jackson Pollock e Willem De Kooning: un’action playing, per così dire, quale risultato sonoro ed esecutivo di un processo compositivo rigoroso e totalmente determinato.
Tornato nel consorzio civile, Carter fu piacevolmente sorpreso dalle accoglienze più che favorevoli riservate dagli estimatori della musica contemporanea alla sua ascetica composizione, scritta con
l’intenzione di non tenere in nessun conto i problemi di comunicazione che avrebbe potuto creare. Eran state così poste le basi della sua fama internazionale che nel corso degli anni e dei decenni successivi non ha fatto altro che aumentare in un inarrestabile crescendo. Negli anni in cui la musica d'avanguardia si stava polarizzando attorno alle correnti postweberniana e cageana,: Carter continuò, imperturbabile, sul proprio cammino, proiettando la personale concezione dialogica e contrappuntistica, sperimentata in quel prototipo stilistico, su diversi scenari sonori cameristici (Sonata per flauto, oboe, violoncello e clavicembalo, 1952; Duo. per violino e pianoforte, 1974; Quintetto di ottoni, 1974; i 3 successivi quartetti), orchestrali (Variazioni per orchestra, 1955; Concerto per orchestra, 1969; Una Sinfonia per tre orchestre, 1976), pianistici (Night Fanta-
sies, 1980) in un processo di progressiva rarefazione linguistica e tensione drammatica creata da forti opposizioni di movimenti e di volumi sonori; donde la preferenza per le soluzioni concertistiche, per la suddivisione d’insiemi cameristici ed orchestrali in gruppi che dialogano e si intrecciano fra loro in un caleidoscopio di rifrazioni timbriche, intervallari, ritmiche e dinamiche.
L’ultima frontiera dell’arte musicale di Carter è il rinnovato interesse nei confronti della vocalità in una serie di lavori recenti (A Mirror on which to dwell, 1975; Syringa, 1978; In Sleep, in Thunder, 1981), in cui l'orchestra da camera riverbera l’intonazione
vocale in una varietà di soluzioni timbriche raffinatissime. Nonostante Carter non avesse scritto partiture vocali per un trentennio, non aveva mai diminuito il suo interesse per la poesia e per i suoi poeti prediletti (Hart Crane e Robert Lowell). Un interesse
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non puramente letterario, bensì uno stimolo costante di fantasie musicali anche per lavori risolti poi in termini esclusivamente strumentali, come Una sinfonia per tre orchestre, ispirata dalle immagini poetiche di The Bridge di Hart Crane. Sullo stile maturo di Carter hanno certamente influito modelli illustri dell’avanguardia musicale americana, come la polifonia eterofonica di Ives — nei confronti del quale ha mantenuto nel corso dei decenni un rapporto piuttosto ambivalente (v. in appendice Lettura n. 11) o come la spazializzazione sonora di Varèse. In Carter però questi modelli, così come certe riverberazioni di correnti stilistiche più recenti, sono ridotti al denominatore comune della personale astrazione stilistica in un itinerario creativo che da quel fatidico ritiro nel deserto presenta caratteri di una classicità affatto moderna, contemporanea. Che vi è di più classico della tendenza a distillare in un linguaggio di assoluto rigore quartettistico, a scadenze pressoché fisse (1951-1959-1971-1986), i succhi della progressiva evoluzione stilistica?
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Nel 1960 La Monte Young (1935-viv.) concepì una serie di Corz-
positions nello spirito degli happenings di Cage. La n. 7 consisteva in una situazione musicale di questo tipo: una quinta giusta (si-fa#) deve esser fatta risuonare per un tempo indeterminato. La massima cageana, per la quale, cémpito del musicista è permettere che i suoni non siano altro che suoni, che sian lasciati vivere come oggetti natu-
rali, come organismi viventi («E qual è lo scopo di scrivere musica? Un primo scopo, naturalmente, è non avere nessuno scopo, ma occuparsi dei suoni»), era stata messa in pratica nel modo più radicale. Una quinta giusta «to be held for a long time» non può rimandare ad alcun contenuto emotivo estraneo, non può narrare nulla; può solamente essere se stessa, far risuonare le sue armoniche e i suoi batti-
menti. Ad un ascolto di tipo dinamico, in cui si instaurano relazioni tra i suoni, si sostituisce un ascolto statico, una concentrazione udi-
tiva tesa alla percezione delle più sottili riverberazioni acustiche. La Monte Young negli anni Sessanta continuò su questa strada, riducendo ai minimi termini le componenti sonore e creando le condizioni più idonee per un ascolto statico ed estatico.
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Riduzione ai minimi termini delle componenti sonore, dunque minimal music. Manca però ancora un elemento fondamentale per la creazione di quel movimento interno ad un tempo statico che è caratteristica fondamentale della mzinizzal americana: la ripetizione. Negli anni in cui La Monte Young realizzava con il suo gruppo (The Theatre of Eternal Music) le ipnotiche performances nella sua «Dream House», Terry Riley (1935-viv.) pianista e compositore californiano attivo in quell’area musicale tipicamente americana in cui il pop, il jazz e la tradizione cu/tivated si mescolano e si sovrappongono, concepiva una serie di Keyboard Studies in cui venivano ripetute continuamente cellule melodiche formate da pochissimi suoni. Estese poi questa tecnica improvvisativa di carat-
tere ripetitivo a complessi musicali più vasti; nacquero brani come In C per complesso ad libitum, in cui sono ripetuti 53 nuclei tematici in un ritmo regolato dalla figura della croma. Fu Steve Reich (1936-viv.) a condurre la mzinizzal music nell’alveo di una tradizione compositiva razionalmente controllata fin nei più piccoli dettagli. La tecnica che gli ha permesso:di raggiungere un alto grado di stilizzazione e di perfezione formale è quella del progressivo sfasamento delle cellule tematiche (gradual phase shifting) per cui la composizione assume l’aspetto di un processo in divenire, che si trasforma continuamente attraverso minimi ma
percettibili sfasamenti del materiale, come un caleidoscopio che viene ruotato in un tempo lentissimo, permettendo di gustare le benché minime trasformazioni del disegno e del colore. La scoperta di questo processo e l'intuizione delle sue potenzialità compositive, secondo la migliore tradizione sperimentale, furono casuali. Nel 1965, mentre stava lavorando con due registratori su un frammento di discorso di un predicatore, si accorse che le differenze di scorrimento del nastro fra i due apparecchi creavano uno sfasamento fra le due identiche fonti sonore. I primi frutti maturi dell'applicazione di questo principio alla composizione musicale furono lavori come Piano Phase e Violin Phase del 1967; il processo fu poi applicato alle percussioni (Drumz7zing, del 1971) e quindi a lavori che impiegano organici di una notevole ampiezza, come Music for 18 Musicians, del 1976, e Music for a Large Ensemble, del 1979.
Music for 18 Musicians trae origine dalla successione di undici accordi, ognuno dei quali viene elaborato separatamente in una “forma ad arco” del tipo ABCDCBRA.
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Se la desincronizzazione, la sfasatura e processi compositivi derivati, sono i sistemi prediletti da Steve Reich, il quarto evangelista della zzinimal music, Philip Glass (1937-viv.) ha dimostrato invece una spiccata predilezione per un’elaborazione motivica basata sull’aggiunzione di note a cellule basi, una specie di crescita organica per addizione progressiva. L’India è sullo sfondo della wzinizzal music; tanto La Monte
Young che Terry Riley sono stati allievi del musicista indiano Pandith Pran Nath, e Philip Glass, nella seconda metà degli anni Sessanta, compì alcuni viaggi in India e in Tibet. Steve Reich fu invece influenzato dalla musica africana (studiò percussione sotto la guida di un negro appartenente ad una tribù del Ghana) e dal garzelan balinese. Tra le tecniche ripetitive della 72717724) music ed i princìpi che governano le variazioni ritmico-melodiche all’interno di schemi prefissati (tipo raga e té/a) di certe culture musicali extraeuropee si possono notare analogie piuttosto evidenti.
Dell’influenza di John Cage già si è detto. Tutte le categorie antipsicologiche, antisoggettive, antinarrative che sono alla base
della poetica della m27mi724/ music si possono far risalire al verbo cageano: l'abolizione del tempo psicologico sostituito da un tempo oggettivo, la composizione-esecuzione intesa come un processo ir
fieri e simili. C’è però un punto in cui la minimal music diverge profondamente dalla filosofia di Cage. Nelle sue realizzazioni più raffinate e complesse la mzizizza! music è frutto di una mentalità schiettamente tecnologica. Alla casualità ed all’aleatorietà di Cage, la minimal sostituisce un processo calcolato con razionale freddezza e con estremo rigore: la spersonalizzazione dell’ascolto ed il coinvolgimento passivo nulla hanno a che spartire con i rituali dello happening di Cage; si possono piuttosto porre in relazione con i ritmi ossessivi di certa comunicazione audiovisiva. Non per nulla l’affermazione della r2izizza! in campo internazionale è un fenomeno parallelo all’introduzione di procedimenti ripetitivi nell’àmbito della musica pop o di quella di certa transavanguardia, e si è realizzata principalmente nell’àèmbito del teatro musicale con la produzione di minizzal operas e di spettacoli multimediali. Philip Glass, che aveva già alle spalle un’intensa attività musicale in collaborazione con gruppi teatrali d'avanguardia, nel 1976 mise in scena assieme a Bob Wilson Etrstein on the Beach una rivisitazione minimalista della figura del grande scienziato. Seguirono,
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in collaborazione con altri registi e scenografi, Sazyagraba (1980) e Akbnaten (1983), minimal operas ispirate rispettivamente alle figure del giovane Gandhi e del faraone rivoluzionario vissuto nel xv secolo a. C. La formula impiegata in ognuno dei pannelli di questo trittico (trilogia la definisce Glass) è la stessa; uno sfondo musicale ripetitivo dato ad azioni sceniche statiche, lente in modo estenuante, che talora funge da accompagnamento a sfoghi canori non necessariamente ripetitivi. Ciò che muta, da opera ad opera, non sono tanto le formule, quanto la loro manipolazione — che in Einstein on the Beach accompagna gustosi episodi di sillabazione e di recitazione testuale -, la loro sonorizzazione, la loro veste foni-
ca — che in Akbraten assume, ad esempio, atteggiamenti pomposi da kolossal, in sintonia con il soggetto. Confortato da, crescenti successi, il minimalismo multimediale di Glass, nel corso degli anni Ottanta, si è applicato ai soggetti ed ai media più disparati, dal teatro da camera (The Photographer, 1982; The Juniper Tree, 1984; The Fall of the House of Usher, 1988; Jukebox all’idrogeno, 1990), al cinema (Koyaanisqatsi, 1982; Mishima, 1984) al-balletto (A Descent into the Maelstrom, 1985; In the Upper Room e Phaedra,
1986), di volta in volta adattando manipolazioni sonore e sonorizzazioni ai diversi soggetti. Quanto questo tipo di spettacolarizzazione musicale si trovi in sintonia con un certo gusto, tipicamente americano, per la riduzione ai minimi termini della comunicazione spettacolare, lo dice il fatto che all’epoca di Etrsteîr in the Beach, Glass, per sbarcare il lunario, faceva il taxista, mentre oggi, a soli quindici anni da quel periodo, gli è stata'offerta la commissione di un’opera commemorativa del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell'America per la cifra di 325 000 dollari, la cifra più alta mai pagata ad un autore per la composizione di un’opera. Un'altra opera minimalista degli anni Ottanta (1987) che ha fatto scalpore è Nixon in China di John Adams (1947-viv.) su libretto
di Alice Goodman; e non tanto e non solo per il soggetto tratto dalla recentissima storia patria, quanto perché, con la trasformazione di Chou En-Lai, Kissinger, Mao e Nixon con relative con-
sorti in personaggi melodrammatici, con l’impiego di lunghi monologhi, duetti e concertati, con la rievocazione di atmosfere sonore da Wagner a Debussy, Ravel, Stravinskij e altri, vuole dare l’illu-
sione di essere una vera opera: finalmente il melodramma, che dopo
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tanta agonia, risorge. E invece non è così, perché il cinismo mini-
malista che sta dietro all'operazione omologa e neutralizza tutto racchiudendolo in sacchetti di plastica che uccidono la vis dramzatica per asfissia.
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DEI GENERI. IL TEATRO MUSICALE
Come gli sviluppi più recenti della w2irîr24/ music stanno a dimostrare, in questi ultimi decenni ha assunto particolare evidenza una tendenza che rappresenta uno dei fili conduttori dell’intera vicenda della musica statunitense del nostro secolo: la fusione e la confusione fra i vari generi musicali, incentivata dall’omologazione culturale operata dai mass media. Le influenze ed i reciproci scambi si possono riassumere nei seguenti rapporti: musica colta + jazz; jazz + musica popolare; musica popolare + musica colta. Per quanto riguarda il primo punto, già si è sottolineato nei capitoli precedenti il fascino esercitato dal jazz sui compositori americani ed europei. Nel dopoguerra, il più pugnace assertore della fusione fra i due generi è stato Gunther Schuller (1925-viv.), autore di fondamentali monografie sul jazz, che ha perseguito questa sintesi in molte opere (Transformation,
per orchestra, 1956; Seven Studies on Themes of Paul Klee per orchestra, 1959; Prima Sinfonia, 1964). Nel campo jazzistico il momento
di maggior avvicinamento tra i due mondi è stata la breve stagione del cool jazz (1948-52), in cui lo swirg (qui inteso nell’accezione non epocale di “pulsazione ritmica”) serve a levitare ritmicamente
strutture armoniche e melodiche raffinatissime, fortemente intel-
lettualizzate per i frequenti riferimenti a temi, forme esstilemi della tradizione colta (il contrappunto, Bach ed i virginalisti inglesi, ad esempio). I principali esponenti di questa corrente che rappresentò
una sorta di reazione nei confronti della violenza del bop furono: il trombettista Miles Davis (1926-viv.); i sassofonisti Lee Konitz
(1927-viv.) e Gerald “Gerry” Mulligan (1927-viv.); i pianisti John Lewis (1920-viv.) - fondatore del Modern Jazz Quartet, un complesso formato da pianoforte, vibrafono, contrabbasso e percussione il cui controllatissimo sound divenne il simbolo stesso del coo/ — e Dave Brubeck (1920-viv.) allievo di Milhaud e Schénberg; l’arrangiatore Gil Evans (1912-1988).
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I confini tra il jazz e la musica popolare sono stati quelli forse più frequentemente valicati. L'area culturale in cui si situa il jazz, in bilico tra il mondo dello spettacolo e l’ascolto di tipo cameristico o concertistico, si presta particolarmente a questi sconfinamenti. Lo swing, ora inteso come stile (swing era), già lo si è visto,
inoculò nel tessuto jazzistico un'abbondante dose di temi canzonettistici e ballabili. Nel dopoguerra, moneta di scambio tra i due generi è stato il rock, un prodotto commerciale fortemente sincopato, in cui sono confluite diverse altre forme popolari: il country and western (la musica bianca di frontiera), il jazz e soprattutto il rhythm and blues, un blues urbano in ritmo per lo più terzinato affermatosi con Little Richard (1935-viv.), Chuck Berry (1926-viv.),
Antoine “Fats” Domino (1928-viv.) ed in particolar modo Ray Charles (1932-viv.). Lanciato verso la metà degli anni Cinquanta dal cantante-chitarrista Elvis Presley (1935-1977) il rock, nella ver-
sione ballabile del rock 414 ro//, riscosse un delirante successo presso il pubblico dei giovanissimi e, parallelamente allo sviluppo dell’elaborazione elettronica del suono, divenne componente essenziale dei complessi pop degli anni Sessanta; verso la fine del decennio fu poi assunto nel jazz, soprattutto da Miles Davis e da musicisti gravitanti nella sua orbita, dando origine a un ibrido, chiamato jazz-pop, jazz-rock o, con termine più usuale, fusion. Esponenti di spicco di questa corrente sono Chick Corea (1941-viv.), Gary Burton (1943-viv.), Keith Jarrett (1940-viv.), ed altri ancora.
(1945-viv.),
Herbie
Hancock
Il teatro musicale (musica! theatre) èla sede in cui le aspirazioni della musica di consumo ad elevarsi di grado e della musica colta a vestirsi di panni popolari hanno contribuito a differenziare dai modelli europei i due generi più importanti: la commedia musicale (musical comedy, o semplicemente musical) e l’opera. La prima, dopo essersi emancipata dagli schemi dell’operetta ed aver rifiutato i più esteriori meccanismi scenico-erotici della rivista, raggiunse con Show Boat (1927) di Jerome Kern (1885-1945) la sua consa-
crazione a genere autonomo. L’enorme successo riscosso da numerosi r2usicals negli anni Quaranta e Cinquanta deriva da una sapiente e “strategica” combinazione dei tre aspetti costitutivi della commedia musicale — musica, danza e recitazione — e da una trama
arguta, spesso “collaudata” in quanto tratta dai classici (My Fair Lady da Pigmalione di Shaw; West Side Story da Romeo e Giulietta
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di Shakespeare, trasposto in chiave contemporanea), interpretata da personaggi verosimili nei quali il pubblico, blandito da temi fortemente evocativi e memorizzabili (Ok/aboma, dall'omonimo wmusi-
cal; Maria e Tonight da West Side Story, ad esempio), può riconoscersi. Traducendo in cifre alcuni dei successi più clamorosi, Show Boat fu replicato 572 volte; My Fair Lady (1956) di Frederick Loewe (1904-viv.), 2717; Oklahoma (1943) di Richard Rodgers (1902-
1979), 2212; West Side Story (1957) di Leonard Bernstein (1918-
1990), 734, per citare solamente i più noti di una vera e propria schiera (162 musicals prodotti tra il 1940 ed il 1950). Una posizione del tutto particolare occupa, nella storia del teatro musicale americano del nostro secolo, Porgy and Bess (1935) di George Gershwin. Frutto di un duplice compromesso, tra la cultura negro-americana, da cui il compositore trasse ispirazione, ed il mondo del musica! da cui egli proveniva, ed ancora tra la sua ventennale esperienza di canzonettista e le sue aspirazioni di operista “colto”, Porgy and Bess ottenne un enorme successo negli Stati Uniti (124 repliche del primo allestimento contro una media di 7 o 8 delle altre opere) ed all’estero. La difficoltà di classificare l’opera di Gershwin secondo i parametri tradizionali creò imbarazzo e perplessità nella critica, specialmente in quella dell’epoca, che osservava il lavoro piuttosto dall’ottica del 72usica/, accusando ad esempio i recitativi di debolezza. Certamente Gershwin tenne il piede in due staffe, e, se da un lato il fascino dei sorgs, che senza dubbio
rappresentano il nerbo dell’opera, contribuì in modo determinante al suo successo, d’altro canto la rappresentazione dei personaggi e delle situazioni raggiunge una forza drammatica notevole: Sporting Life, autentico genio del male, caratterizzato da temi beffardi («It ain’t necessarily so», II atto, 1 scena) o subdolamente accattivanti (« There's boat dat’s leavin’ soon for New York», III atto,
i scena); la disperazione di Serena di fronte al cadavere del marito («My man's gone now», con l’agghiacciante glissando finale ripreso dal coro, I atto, 1 scena); lo sfumatissimo personaggio di Porgy nei diversi atteggiamenti di gioia («I got plenty o’ nuttin’», II atto, I scena), di trasporto amoroso (il duetto «Bess, you is my woman now», II atto, m scena), di disperazione e di fiduciosa e ferma determinazione («Oh, Bess, oh where's my Bess» e «I'm on my way», III atto, scena finale); il turbamento di Bess di fronte a Crown
nell’isola di Kittiwah («Oh... What you want wid Bess», II atto,
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mi scena). È indubbio che la comunità di Catfish Row da cui è animata la scena di Porgy and Bess corrisponde ad una visione stereotipata ed oleografica della cultura negra, che il dramma è incentrato sul solito triangolo amoroso (Porgy-Bess-Crown) della tradizione borghese-romantica, e che i moduli del folclore negroamericano sono filtrati attraverso il vaglio di categorie estranee ad esso. Il compositore trasse infatti ispirazione da alcuni momenti del folclore musicale negro (lo spiritual! antifonico: «Where is brudder Robbins?», I atto, 1 scena; il work song: «I take a long pull to get there, huh!», II atto, 1 scena; le grida dei venditori: «Oh dey’s so fresh an’ fine», II atto, Im scena; la ninna-nanna blue:
«Summertime», I atto, I scena) e però contaminò le formule originali (le blue notes o gli schemi armonici del blues) con il jazz canzo-
nettistico di Broadway, con convenzioni vocali di stampo pucciniano e con altri stilemi “colti”; spesso si distanziò molto dal modello (l’improbabile «Da-doo-da» iniziale è emblematico), talora invece ne riprodusse quasi integralmente le caratteristiche strutturali (la polifonia eterofonica dello stupendo spîritua/ «Oh, Doctor Jesus», II atto, IV scena).
Ciò che conta è il risultato finale di questa fusione: un originalissimo stampo stilistico di cui Gershwin intese servirsi per realizzare un’opera nello spirito del folclore negro e però coh tratti assolutamente personali, secondo precise scelte poetiche che traspaiono da queste sue parole: Scrivendo Porgy and Bess ho cercato con ogni sforzo difripetere le forme più tipiche dello stile popolare, negro soprattutto, ma ho respinto sempre la strada più comoda del rifacimento o della citazione. In Porgy and Bess non vi sono temi presi dal folclore o appena camuffati, ho scritto io i miei blues, i miei spirituals, i miei songs. Mi illudo ché questa musica, nonostante la sua origine, sia ancora popolare. E anche mi illudo che il materiale popolare non giunga a soverchiare la forma tradizionale dell’opera. Se ciò è vero, Porgy and Bess è un’opera popolare. (Da: DAvID EwEN, The Life and Music of. G.G., New York 1956).
Se Porgy and Bess è il capolavoro operistico di un songster di straordinario talento che ambì per tutta la sua pur breve carriera ad acquisire il rango di compositore “colto”, Leonard Bernstein è il caso specularmente opposto di un compositore colto che con West Side Story raggiunse la popolarità mondiale cimentandosi in
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un genere “leggero”. È vero che se si osserva in filigrana la sua biografia si viene a conoscenza, oltreché del suo pedigree accademico di altissimo rango, anche di una sua giovanile attività nel‘ambito della popular music e del jazz, tra l’altro proprio presso gli eredi della ditta che venticinque anni prima aveva offerto il primo impiego a Gershwin. Ma è pur vero, come egli riconosce in un famoso articolo riportato in lettura (v. Lettura n. 13), che “scrivere una bella canzone alla Gershwin” richiede un tipo di creatività musicale infrequente presso compositori che maturarono applicandosi ben più all’elaborazione che non all’invenzione tematica. Vero è che West Side Story è la perla più vistosa di una collana di lavori teatrali il cui carattere dominante è la comunicazione diretta e spettacolare: l’operina Trouble in Tahiti (1952), l’operetta Candide, messa in scena l’anno prima di West Side Story, oppure quello show colossale che è Mass (1972) in cui l’ecumenismo dello spirito conciliare è espresso con un pluralismo, un eclettismo linguistico sorprendente; oppure ancora A Quiet Place, del 1983, vero e proprio résumzé della sua intera carriera creativa. L’eclettismo di questi lavori, e, più in generale, dell’intera produzione musicale di Bernstein, non era frutto di infingimenti intellettualistici; era il suo modo “naturale” di comunicare con la musica, di condividere con il pubblico la “gioia della musica” (è questo il titolo della sua raccolta di saggi più famosa) con la medesima estroversione da lui posta nella direzione d’orchestra, che comunque rimase la sua attività principale. Anche se Bernstein proveniva dall’opposta sponda di Gershwin e da un r2/teu culturalmente e sociologicamente diverso, era come lui animato da un innato senso dello spettacolo, da una disinvolta comunicativa-che lo portava naturalmente ad abolire barriere e steccati fra generi “alti” e “bassi”, fra musica “seria” e musica “leggera”. La rivalutazione del ragtirze (trasformatosi in quest’ultimo decen-
nio in un fenomeno a metà strada tra la moda culturale e l'interesse commerciale) ha portato alla ribalta l’unica opera pervenutaci di Scott Joplin (1868-1917), il più importante compositore di ragtirze, autore del celeberrimo Maple Leaf Rag (1899). Treemonisha — è questo il titolo dell’opera — offre l'occasione di stabilire un interessante confronto con Porgy and Bess (aspetto cronologico a parte: fu composta negli anni 1903-11), tanto più che anch’essa è ambientata in una comunità negra e rappresenta pure il più intenso
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e sofferto sforzo compiuto dal compositore negro per affermarsi come operista “colto”. Circostanze storiche avverse — soprattutto la sua condizione di uomo di colore - impedirono a Joplin di pubblicarla e rappresentarla nell’orchestrazione originale, sicché ci è pervenuta unicamente nella versione per canto e accompagnamento
pianistico. Gli aspetti più interessanti che emergono dal confronto -— a parte l’indubbia inferiorità e naiveté di Treemonisha - sono: sul piano dei contenuti, l’assenza del motivo erotico-sentimentale e la presenza invece di un principio etico (il trionfo della cultura, impersonata appunto da Treemonisha, sull’ignoranza) quale nucleo centrale dell’opera, la caratterizzazione dei personaggi che, come in una favola, divengono raffigurazioni allegoriche; sul piano musicale, il costante intervento del coro che assurge al rango di personaggio principale e una molto più marcata separazione fra la cultura negra (i trascinanti rags corali: «O we're goin around», n. 4; «Aunt Dinah has blowed de horn», n. 18; «A real slow drag», n. 27; lo spiritual antifonico «Lis’en friends», n. 9, ad esempio) e la
cultura occidentale ricalcata sui moduli espressivi dell’operetta piuttosto che su quelli dell’opera. Gli scompensi che gravano maggiormente su Treezzonisha sono la mancanza di un’autentica tensione drammatica
e l'eccessiva lunghezza di certi monologhi
(«One
Autumn night in bed I was lying», n. 6; «We brought you up to believe», n. 8; «Never treat your neighbors wrong», n. 22). L’impiego di motivi folclorici e jazzistici, accanto a stilemi “colti”, è pure rilevante nelle due opere più famose di Marc Blitzstein (1905-1964): The Cradle Will Rock, la cui prima ràppresentazione (1937) rimase famosa negli annali del teatro musicale ame-
ricano perché, a causa di un divieto della Work Progress Administration, i cantanti eseguirono l’opera mescolati tra il pubblico in platea, accompagnati solamente dal pianoforte suonato da Blitzstein sulla scena; Regiza (1949), che trae il titolo dal nome della
protagonista, la madre dispotica e malvagia di una famiglia di ricchi proprietari terrieri del profondo Sud, i Giddens, in piena decadenza, il cui patrimonio è insidiato dai fratelli di Regina. L’uso dei temi popolari in Blitzstein è tuttavia diametralmente opposto a quello di Gershwin; non serve, cioè, a ricreare una particolare
atmosfera nostalgicamente rivissuta, bensì, sulla traccia ideologica Brecht-Weill-Eisler, intende evidenziare il carattere dei personaggi che diventano simboli stereotipi di una parabola a sfondo politico
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ed i cui aspetti più aberranti sono volti nella categoria del grottesco, come nelle caricature di Grosz: così, per far un esempio, la
sfrenata bramosia di possesso di Regina è posta in rilievo da un valzer che si trasforma in un vero e proprio ga/op («There are diamonds that sparkle and shine»). Un altro autore che ha sintetizzato in un’unità stilistica personale fonti disparate, con risultati molto originali, è Virgil Thomson nelle sue due opere Four Saints in Three Acts (1928) e The Mother of Us Al (1947), entrambe su testo di Gertrude Stein. . Le qualità prosodiche dei testi di quest’ultima lo spinsero a compiere esperimenti di versificazione musicale dapprima condotti su testi di breve e media estensione (Susie Asado, 1926; Preciosilla, Capital Capitals, 1927), i cui risultati convinsero la Stein a scri-
vere il testo di un’opera appositamente concepita per esser messa in musica dal compositore americano: Four Saints in Three Acts. Tra il fraseggio poetico della Stein — con la sua frantumazione e ricomposizione delle forme linguistiche tradizionali mediante ripetizioni ossessive, elencazioni ed enumerazioni, assonanze ed allitterazioni, accostamenti di parole della medesima natura fonica ma
di diverso significato - questo respiro lungo, questa inesorabile vena di parole e frasi in libertà, e la declamazione musicale di Thomson — realizzata con una cantillazione gregorianeggiante su materiali neutri o su frammenti di melodie paraliturgiche assemblate come in una centonizzazione di medioevale memoria — si venne a creare una particolare sintonia, un potenziamento esplosivo, incandescente, del testo poetico. Più tardi, quando la Stein era ormai scomparsa, il compositore ripetè l'esperimento operistico con The Mother of Us All (1947); al “presente storico continuo” del testo della Stein, cen i suoi fitti dialoghi tra personaggi che il rispetto della cronologia storica non permetterebbe di accostare e di far convivere in una stessa scena, corrispondeva questa volta un linguaggio musicale modellato sui temi della tradizione patriottica e da intrattenimento dell’Ottocento americano, ma il risultato è molto simile: all’“estasi verbale”
della Stein fa riscontro uno stato di “estasi musicale” in cui Thomson finge di annullare la propria personalità creativa congelando formule e stereotipi in una dimensione metastorica e nascondendosi dietro di essi. La tradizione popolare, anche se ha stimolato, come si è visto,
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la nascita di alcuni fra i lavori più validi, non è stata comunque certamente l’unica fonte di ispirazione degli operisti americani. Declinato l’influsso romantico e postromantico, l'Europa ha continuato ad esercitare una forte attrazione su diversi operisti americani, alcuni dei quali oriundi europei. L'italiano Gian Carlo Menotti (1911-viv.), ad esempio, contaminando un certo idioma
verista (in particolar modo quello pucciniano) con i meccanismi scenico-narrativi di Hollywood, ha creato un genere di melodramma che ha incontrato un notevole successo negli Stati Uniti: The Medium (1946), The Telephone (1947), The Consul (1950) sono tra le prime sue opere di una produzione che non si è mai arrestata. Anche in quella più recente, Menotti rimane sostanzialmente fedele alle sue scelte melodrammatiche iniziali, magari introducendo nell'organico il nastro magnetico (nel fantascientifico He/p, Help, the Globolinks!, del 1968); con Juana la Loca (1979) si è accostato per
la prima volta ad un soggetto storico. Hugo Weisgall (1912-viv.) ha seguìto invece, nel suo linguaggio operistico, l'esempio dei mae-
stri dell’espressionismo europeo; sono sorte così opere; prevalentemente in un atto (The Tenor, 1952; The Stronger, 1952; Purgatory, 1958), che hanno in comune la tendenza allo scavo psicolo-
gico dei personaggi e l’impiego di un’orchestra di ridotte dimensioni. »
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1 e LEÒS JANAÉEK Tanto lo studio delle curve melodiche della lingua parlata quanto la constatazione dell’intima connessione, nei canti popolari moravi, tra aspetto lin-
guistico ed aspetto musicale, esercitarono una notevole influenza sullo stile maturo di Janàtek e in particolar modo sulla sua produzione vocale. Su questi argomenti riportiamo due stralci tratti rispettivamente dai saggi di Jan4Cek: Gli aspetti musicali del canto popolare moravo pubblicato come introduzione alla Raccolta di canti popolari moravi, Accademia Ceca di Scienze e Arti, Praga 1901, a cura del dialettologo ceco F. Bartoì e dello stesso Jandéek, e Sulla linea di demarcazione fra linguaggio e canto, nel n. 4 della rivista «Hlfdka», Brno 1906, entrambi ricavati dalla versione tedesca della raccolta antologica Leds Jandtek in Briefen und Erinnerungen, Artia, Praga 1955, a cura di B. Stédroî.
Che il canto popolare si sia sviluppato su/la parola lo dimostra la particolare natura dei ritmi che vi ricorrono. Non è sempre possibile costringerli entro i limiti di una unità di tempo uniforme e, a motivo della loro varietà, si possono classificare solamente sulla base della parola. I particolari caratteri ritmici del canto popolare moravo rendono impossibile comporre una melodia e quindi adattarvi le parole. Nel canto popolare, perciò, ogni battuta è logica, vera, ogni ritmo funzionale e singolare, e l’intero canto animato
da un gran numero di-tempi. Ad ogni nota è connesso, per così dire, un frammento concet-
tuale. Si ometta afiche una sola nota della melodia e ci si accorgerà che essa non è più unitaria e logica. Ogni nota è reale nel nostro canto e noi lo chiamiamo dunque determinato sotto il profilo melodico.
Dovremmo poter disporre di lessici con le normali inflessioni melodiche del linguaggio. In tal modo si potrebbe tramandare alle generazioni future la sonorità della parola ceca. Si tratterebbe di un Dizionario linguistico-melodico della lingua ceca viva che conterrebbe tutte le inflessioni melodiche delle parole ceche. Facciamo
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LETTURE
un esempio. Mentre la sig.ra Uprka dipingeva una cassapanca, si mise a parlare dei colori:
Mi
—
Sa
—
né
ty
bar —
vy
(I colori mescolati)
Il suo conversare era pacato e calmo ed io non volevo disturbare il suo lavoro. È questo il genere di inflessioni melodiche che io chiamo normali. Non sono alterate da amarezza, collera, ironia o tristezza. Le pronunciamo allo stesso modo di mattina o di sera quando andiamo a dormire. A conferma della loro universalità, tutti le esprimono con la medesima intonazione comune. Non si rivolgono domande, né si impartiscono ordini, né si àdula il prossimo con la normale inflessione melodica di un nome: è un’impassibile riverberazione, codificata da un uso plurisecolare, della sua essenza fonematica. La sua corretta intonazione risulta armoniosa, la sua alterazione, in bocca ad un forestiero, molesta. È la ricchezza obliata
della lingua. Su di essa si fonda un’elementare propotzione fra le durate dei singoli suoni che si accorda con la naturale emissione della voce. Ogni dialetto la plasma in un modo differente e tuttavia è compresa da tutto il popolo. Ogni individuo la colora poi di una propria sfumatura espressiva, da cui desumiamo gli ànni, l’età,
riconosciamo le persone note. Tali inflessioni melodiche del linguaggio corrispondono ad ottave ed intervalli determinati e rappresentano una prerogativa del linguaggio normale di ogni uomo.
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BéLA BARTÒK Dall’abbondantissima messe di scritti e saggi di Barték sulla musica popo-
lare si riportano tre passi tratti rispettivamente da La musica popolare ungherese e la nuova musica ungherese (1928), Lo studio dei canti popolari ed il nazionalismo (1937) e L'importanza della musica popolare (1931), ricavati dalla raccolta antologica Scritti sulla musica popolare, Boringhieri, Torino 1977, i primi due relativi ai rapporti fra musica popolare e nazionalismo musicale, il terzo
al problema dell’elaborazione colta delle melodie popolari.
BéLA
BARTOÒK
Io sono convinto che ognuna delle nostre melodie popolari, popolari nel senso stretto della parola, sia un vero modello della più alta perfezione artistica. Nel campo delle forme semplici ritengo quelle melodie senz'altro dei capolavori, esattamente come nel campo delle forme complesse lo sono una fuga di Bach o una sonata di Mozart. Certo, è proprio per la loro concisione e la loro insolita maniera espressiva che difficilmente fanno effetto sulla media dei musicisti o dei musicofili. Generalmente al musicista di livello medio ciò che interessa di più in ogni opera musicale sono le solite, banali formulette che ormai conosce bene. Solo i luoghi comuni a cui è avvezzo gli fanno piacere; nessuna meraviglia, quindi, se tra questi musicisti la musica
popolare non abbia avuto grande fortuna. Dunque, a parte ogni altra considerazione, si può senz'altro dire che la musica popolare insegna l’essenzialità dell’espressione e cioè in sostanza proprio quello che noi cercavamo, dopo la prolissa espansività dell’epoca romantica. Esaminiamo le stesse melodie, e troveremo nella musica del-
l'Europa Orientale un'incredibile varietà di linee melodiche e di scale. Qui infatti vivono ancora di vita vera le scale più svariate, come la dorica, la frigia, la misolidia, l’eolica. Si trovano tuttavia anche scale di carattere orientale (con la seconda aumentata), nonché
una specie di pentatonismo. Nella maggior parte di questi modi, la quinta non ha carattere di dominante come invece nei modi maggiori e minori. Questo fatto ha avuto un grande peso sui nostri procedimenti di armonizzazione. L’interdipendenza della tonica e della dominante, cui tanto ci ha abituati la musica tradizionale, perde qui gran parte della sua importanza. Potrei ricordare anche altri elementi che hanno influito sulla nostra armonia ma in questa occasione voglio limitarmi a richia-
mare l’attenzione su un solo fatto. La settima minore della scala è, specie nelle melodie pentatoniche, consonante. Sotto l'influsso di questo fenomeno, già nel 1905 ho terminato una mia composizione in fa diesis minore con il seguente accordo: fa#-la-do#-mi. In questa cadenza la settima figura come consonante. In quel tempo una cadenza siffatta era molto insolita; analogie se ne trovano solo nelle composizioni di Debussy che risalgono pressappoco alla stessa epoca, e precisamente nell’ac-
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cordo finale in maggiore: la-do#-mi-fa#. Va detto però che in quel tempo io ancora non conoscevo queste composizioni di Debussy.
Potrei ricordare ancora l'incredibile varietà ritmica dei canti popolari. Nelle nostre melodie in parlando-rubato troviamo la più affascinante libertà di ritmi. Ma perfino nelle melodie che sono ritmicamente regolari, come quelle di danza, si riscontrano le più singolari variazioni. Ed è naturale che fatti del genere ci abbiano aperto nuove possibilità nella “musica colta”. Non v'è dubbio che il primo stimolo allo studio dei canti popolari, ed in genere di ogni arte popolare, sia coinciso con il risveglio del sentimento di nazionalità. La scoperta, infatti, di valori cultu-
rali insiti nella poesia e nella musica popolare fu un notevole contributo al formarsi dell’orgoglio nazionale, anche perché, non essendovi all’inizio di queste ricerche la possibilità di studi comparati, ciascun popolo finiva col credere che simili tesori fossero suo esclusivo e peculiare privilegio. Così le piccole nazioni, e in special modo quelle politicamente oppresse, credettero di trovare in quel “privilegio” una consolazione del loro stato, se non addirittura la prova della loro raggiunta maturità nazionale: e, comunque, nello studio e nella divulgazione di quei valori culturali, esse ravvisarono un mezzo adatto per ravvivare il sentimento nazionale delle classi colte della nazione, sentimento che, in seguito all’oppressione, aveva
subito non pochi danni. I Ben presto, però, una certa delusione smorzò gli entusiasmi iniziali. Per poco che ci si fosse occupati di valori analoghi posseduti dalle nazioni vicine, ci si imbatteva inevitabilmente, sia pure di tanto in tanto e involontariamente, in qualche pezzo proveniente dal loro patrimonio culturale, e ciò naturalmente significava l’inizio di un mare di guai. Il sentimento nazionale, offeso dal fatto che un popolo vicino si fosse trovato in possesso di un tesoro che fino ad allora era stato considerato come proprio esclusivo patrimonio, doveva assolutamente correre ai ripari. E poiché d’altra parte la nazione vicina pensava anch'essa la stessa cosa, così ebbero inizio le polemiche e i litigi che durano ancora ai nostri giorni.
Generalmente si ritiene che armonizzare le melodie popolari sia, tutto sommato, una cosa relativamente facile, o almeno molto
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MUSICA
E
POLITICA
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più facile che scrivere una composizione senza alcun aiuto tematico. Infatti, si suol dire, il lavoro di armonizzazione offre al compositore il vantaggio di essere 4 priori liberato da una parte della fatica: cioè appunto quella dell'invenzione dei temi. Simili idee sono completamente sbagliate. Saper trattare le melodie popolari è in realtà uno dei lavori più ardui che esistano e può considerarsi senz'altro pari, se non addirittura più difficile, a quello del compositore di musiche “originali”. Non si deve infatti dimenticare che l’essere obbligati a una data melodia significa già di per sé vedersi gravemente limitati nella propria libertà e quindi trovarsi subito di fronte a una prima difficoltà non indifferente. Un’altra difficoltà, poi, consiste nella individuazione dello specifico carattere della melodia popolare, che richiede appunto di esser elaborata pur conservandole la propria tipica fisionomia, cioè dandole il dovuto rilievo. Insomma, per elaborare un canto popolare non serve certo meno ispirazione, come si usa dire, di quanto ne occorra per una qualsiasi altra composizione. .
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Quale esempio di critica musicale di orientamento “antiformalista” riportiamo (nella traduzione di M. Molla da Musica e politica, a cura di M. Messinis e P. Scarnecchia, La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 1977) la sto-
rica stroncatura della Lady Macbeth del distretto di Mzensk di Sostakoviè comparsa sulla «Pravda» del 28 gennaio 1936 e intitolata Caos anziché musica.
Insieme al generale sviluppo culturale del nostro paese è cresciuta anche l'esigenza di buona musica. In nessun. tempo e luogo
i compositori hanno avuto davanti a sé un uditorio,così grato. Le masse popolari sono in attesa di canzoni belle, di buone composizioni strumentali e di opere di buona qualità. Alcuni teatri offrono al nuovo pubblico sovietico, culturalmente cresciuto, come novità
l’opera di Sostakovié Lady Macbeth del distretto di Mzensk. La critica musicale premurosa porta alle stelle questa opera creandole intorno una fama rumorosa. Il giovane compositore ascolta solo complimenti entusiastici invece di critiche serie e pratiche che potrebbero essergli solo d’aiuto nei suoi prossimi lavori. Chi ascolta l’opera rimane sbalordito fin dal primo istante da
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un torrente di suoni volutamente caotici e privi di armonia. Frammenti di melodia, embrioni di frasi musicali vengono sommersi,
si sprigionano e scompaiono di nuovo tra fracasso, stridore e strilli. È difficile seguire questo tipo di “musica” ed è impossibile ricordarsela. Questo avviene praticamente durante l’opera intera. Sulla scena il canto viene sostituito dalle urla. Quando poi, per caso, il compositore intraprende un sentiero fatto di musica semplice e comprensibile, sembra spaventarsi di tale disgrazia e si getta a capofitto nel caos musicale che a volte si trasforma in cacofonia. L’espressività che l’auditorio vuole è sostituita da un ritmo indiavolato. Il rumore musicale deve esprimere le passioni. Tutto ciò non è dovuto alla mancanza di talento del eompositore, né alla sua incapacità di esprimere in musica sentimenti sem-
plici e intensi. Questa musica è fatta appositamente “alla rovescia”, in modo da non ricordare in nessuna maniera la musica operistica classica, in modo da non aver nulla in comune con i suoni sinfo-
nici, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti. Questa musica si fonda sul principio della negazione dell’opera, su quello stesso principio secondo il quale l’arte sinistroide nega in genere, nell’ambito del teatro, la semplicità, il realismo, la com-
prensibilità dell'immagine, il suono naturale della parola. Si tratta della trasposizione centuplicata in musica dei tratti più negativi del cosiddetto “stile alla Mejerchol'd”. Si tratta di caos sinistroide anziché di musica naturale e umana. La capacità della buona musica di trascinare le masse viene sacrificata a favore di tentativi formalistici piccolo-borghesi, con la pretesa di creare qualcosa di originale ricorrendo a un’originalità di bassa lega. Si tratta di un gioco astruso che può finire molto male. Ì Il pericolo, rappresentato da tale corrente in seno alla musica sovietica, è evidente. La mostruosità sinistroide in campo operi-
stico risale alle stesse fonti delle mostruosità sinistroidi in pittura, poesia, pedagogia e scienza. L’“innovazione” piccolo borghese comporta un distacco dall'arte vera, dalla vera scienza e letteratura. L’autore di Lady Macbeth ha dovuto prendere a prestito dal jazz
quella musica nervosa, convulsa ed epilettica, per rendere i suoi eroi “appassionati”. Mentre la nostra critica, compresa quella musicale, è fedele al realismo socialista, il teatro ci offre con l’opera
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di Sostakovié il naturalismo più grossolano. Tutti, mercanti e popolo, vengono rappresentati in maniera uniforme a mo’ di bestie. La mercantessa rapace, che ha raggiunto ricchezze e potere attraverso omicidi, viene rappresentata come “vittima” della società borghese. La novella di Leskov viene interpretata in maniera impropria. Tutto ciò è grossolano, primitivo e volgare. La musica grugnisce, rimbomba, sbuffa, ansima per rendere le scene amorose quanto
più verosimili. E l’“amore” viene trascinato per tutto l’arco dell’opera nella forma più volgare. Il lettone matrimoniale nella casa dei mercanti è il fulcro della scenografia. È su di esso che si risolvono tutti i “problemi”. Nella stessa maniera grossolanamente naturalistica è rappresen-
tata la morte per avvelenamento e le fustigazioni che avvengono quasi in palcoscenico. Probabilmente il compositore non si è dato briga di prestare orecchio a quello che il pubblico sovietico si aspetta e ricerca nella musica. Sembra che faccia apposta a cifrare la musica, a confonderne i suoni di nîodo che la sua musica sia comprensibile soltanto agli esteti formalisti che hanno perso ogni sano gusto. Egli non ha tenuto conto dell’esigenza della cultura sovietica di scacciare da tutti gli angoli del costume sovietico la grossolanità e la crudeltà. Alcuni critici chiamano satira questo glorificare la libidine del ceto mercantile. Non c’è traccia di satira in tutto questo. L’autore cerca con tutti i mezzi espressivi, sia musicali che drammatici, di attirare la simpatia del pubblico verso le aspirazioni e le azioni grossolane e volgari di Katerina Ismajlova. Lady Macbeth ha successo presso il pubblico borghese all’estero. Forse l’approvazione borghese è dovuta al fatto che l’opera è caotica ed assolutamente apolitica? Forse quest’opera solletica i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica? I nostri teatri hanno fatto di tutto per mettere in scena l’opera di Sostakoviè con molta accuratezza. Gli attori hanno dimostrato notevole talento nel riuscire a superare il rumore, gli urli e lo stridore dell’orchestra. Con la loro interpretazione hanno cercato di riscattare lo squallore melodico. Purtroppo questo ha evidenziato ancora di più tutti i tratti grossolanamente naturalistici dell’opera. La bravura degli interpreti merita un riconoscimento, mentre i loro sforzi un rammarico.
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Di Sostakovié riportiamo (nella traduzione di M. Molla e di A. Guarnati da Musica e politica cit.) l'intervento al Congresso dell’Unione dei Com-
positori Sovietici tenutosi nel febbraio del 1948: un atto di contrizione e di autocritica pronunciato in séguito alle accuse di “formalismo” mosse ai compositori sovietici dal segretario del Comitato Centrale Andrej Zdanov. Si noti che, fra i “propositi per il futuro”, è menzionata la composizione di un’opera, La giovane guardia, che invece non fu mai scritta (fu ricavata una suite sinfonica dalla musica per il film). L’operetta fu invece composta (Mosca, quartiere Cerémuskî), ma nel periodo del “disgelo”, dieci anni più tardi (1958). x
Prima di tutto voglio scusarmi di fronte ai delegati del congresso per non essere un buon oratore. D'altra parte, credo che sia per me impossibile non prendere parte, nel limite delle mie possibilità, a tutto ciò a cui stanno lavorando tutti i miei compagni, per
trovare strade concrete alle direttive dateci dal Comitato Centrale. Ho già fatto un intervento a una riunione aperta del partito, subito dopo la deliberazione del CC. Parlai allora sia di problemi generali che personali. Dissi allora che, per quanto fosse stato duro per me ascoltare una condanna della mia musica, e ancora di più perché da parte del CC, sapevo che il partito aveva ragione e che mi augurava il meglio, e che io dovevo cercare e trovare nuove concrete strade creative, che mi portassero verso l’arte popolare del realismo socialista. A Capisco che questa strada non sarà per me facile, che cominciare a scrivere in maniera nuova non sarà così semplice, e non sarà così veloce come vorrei io e, probabilmente, ‘anche i miei compagni.
Ma non cercare queste nuove strade per me è impossibile, perché io sono un artista sovietico, sono stato educato in Unione Sovie-
tica, e io devo cercare e voglio trovare la strada al cuore del popolo. Dalla deliberazione del CC sono passati due mesi e mezzo, e alcuni sentimenti predominanti in quel periodo si sono trasformati in idee, che voglio dividere con i partecipanti al congresso. Molti compagni che hanno preso la parola al congresso si sono rivolti ai compositori, nominati nella deliberazione del CC, come
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a rappresentanti della corrente formalista, me compreso, con la spontanea domanda: che farò nel futuro? Purtroppo io sono un cattivo teorico e forse anche un pessimo pubblicista. Preferirei di gran lunga rispondere a questa domanda con nuove composizioni. Ma per ora voglio dividere con i compagni del congresso le idee che attualmente mi dominano. Molto di ciò che prima non rappresentava per me un problema lo è diventato ora e in maniera dura. Il primo problema riguarda l’inizio melodico della mia musica. Vedo le mie future composizioni come un pensiero melodico ben definito. Forza motrice deve essere la melodia, che dovrà esprimere l’idea base, il pensiero e l’immagine principale della composizione.
Le immagini melodiche possono essere molto varie, come molto varia e ricca è la realtà e gli uomini che ci circondano. Ma questa immagine melodica deve necessariamente entrare in contatto con la musica popolare. Secondo me, la melodia non può e non deve essere realizzata solo in un motivo lirico: può essere invece collegata anche alla sfera intellettuale, esprimere un pensiero e fare appello a un pensiero, può esprimersi in varie forme. Credo che alla base del secondo studio di Chopin ci sia una immagine melodica ben definita, anche se espressa con passaggi cromatici. Un esempio molto chiaro, anche se diverso, è racchiuso
nel balletto di Rimskij-Korsakov I/ volo del calabrone e nella terza parte della Sesta Sinfonia di Cajkovskij. Sono convinto che le immagini melodiche nella musica sovietica debbano riflettere tutta la ricchezza spirituale del popolo sovietico. Che, sia come sia, la melodia deve essere, in primo luogo,
il motivo principale, in secondo luogo deve essere collegata con la musica popolare (melos). La dipendenza degli altri elementi musicali alla melodia è, per me, fondamentale. L’immagine melodica deve definire l'armonia,
la polifonia, la strumentazione ecc. Inoltre l'armonia non deve e non può avere funzioni passive, essendo nel suo genere un supplemento alla melodia. Il suo compito, ancora più profondo, è di scoprire l’immagine, di renderla più chiara, più realistica, più vitale, più ricca. Una brutta
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armonia in contrapposizione al pensiero melodico può distruggerlo, oscurarlo e togliergli ogni significato. Credo che i ritmi neuropatologici, su cui ha fissato l’attenzione il Comitato Centrale, sono senz’altro di rottura con la musica popolare. Se il compositore non possiede un grande pensiero melodico, nelle sue opere allora non si sentirà la verità della vita. Sarà allora forse notato per i mezzi ritmici, cosa che noi ascoltiamo spesso nelle opere dei compositori moderni borghesi; e spesso anche nelle mie composizioni. Mi è ora assolutamente chiaro che la programmazione, l’avere un soggetto, il collegamento con le immagini letterarie danno al poema sinfonico una grande efficacia, sottraggono la percezione dell’auditorio da un’assimilazione passiva. E ormai invecchiato quel tipo di concerti da camera e sinfonici, basati su una percezione passivamente contemplativa. L’ascoltatore sovietico è un ricostruttore del mondo, la sua filo-
sofia è viva e funzionante. Naturalmente l'ascoltatore esige dal compositore-di vedere e ascoltare nelle opere e nelle sinfonie immagini moderne, e il compositore deve, per prima cosa, rivolgersi a lui. Allontanarsi da loro è in una qualche maniera essere disertori e per un vivace e attivo artista sociale questo non è ammissibile. L’ascoltatore deve ricevere da queste opere la risposta ai duri problemi posti a lui dall’epoca attuale. Una giusta risposta può darla l'artista che si è munito della teoria d’avanguardia marxistaleninista, e che si colloca nel mezzo della vita sociale sovietica. Da
questo punto di vista, io devo cambiare la mia vita di artista, che è troppo chiusa, staccata dai grandi circoli sociali, tra i quali l'Unione dei Compositori Sovietici. Devo anche dire che nella musica sovietica non devono esistere opere fredde e indifferenti, una gelida registrazione, come, per esempio, la musica di Reger. Anche l’indifferenza e il distacco portano al formalismo, e ciò deve essere estraneo all’artista sovietico.
All’estero, questo tipo di musica fredda e indifferente appare sempre più spesso. E il risultato della progressiva desolazione dei compositori. E inammissibile l’influenza della musica estera sui compositori sovietici per molti motivi. Nella musica americana è molto svilup-
pato il cosmopolitismo, basato sul fatto che essi mancano di una tradizione nazionale.
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La musica russa è una musica secolare, con una cultura e una
tradizione secolari alle spalle. Noi siamo internazionalisti, saldamente ancorati alla ricca cultura nazionale, e il distacco dalle proprie tradizioni culturali avrebbe potuto portare molti alla catastrofe, se non ci fossero state le tempestive indicazioni del CC. Il CC ha giustamente dimostrato che, nelle mie opere, ho lasciato il posto al cosmopolitismo; dovrò dunque trovare una concreta strada artistica per poterlo eliminare. Parlando di me stesso, devo dire che il lavoro svolto nell’am-
bito della musica sinfonica e strumentale da camera è risultato negativo. Mi ritrovo in difficoltà anche nell’ambito della musica vocale. E una mia grande carenza, che mi separa dalle forme musicali presenti nella natura. Era anche giusto il rimprovero fattomi che io lavoro in maniera riservata. Fino a ora io ho sempre portato all'Unione dei Compositori o, in generale, ho fatto conoscere alla opinione pubblica le.mie composizioni già completate, mettendo i miei ascoltatori di fronte al fatto compiuto. Questo lo giudico ingiusto. Ora, alla sede dell’Unione dei Compositori devono essere istituite le condizioni tali da permettere a ogni compositore di portare le sue opere non finite per una verifica, in modo di ricevere durante il processo lavorativo una critica, dei consigli, delle indicazioni dai suoi compagni.
Attualmente, ho appena finito un concerto per violino. Presto vi chiederò di ascoltarlo. Sto terminando la musica per il film La giovane guardia e sto lavorando all’opera La giovane guardia. Penso di scrivere una serie di. romanze e canzoni e una serie di piccoli componimenti sinfonici del tipo ouverture o poemi. Elo anche un grande desiderio di cimentarmi nell’operetta. Nel processo lavorativo dell’operetta e di altre composizioni chiederò ai compagni l’aiuto dei loro consigli e della loro critica. Ecco, dunque, alcune considerazioni sul mio futuro cammino artistico, ecco dunque i piani che vorrei assolutamente portare a termine.
La situazione all’interno dell’Unione dei Compositori, dopo le decisioni del CC del partito, è senz'altro cambiata in meglio. E questo, senza dubbio, si riflette sull’atmosfera creativa della musica sovietica. E noi, compositori sovietici, dobbiamo applicare tutte
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le nostre forze affinché la storica deliberazione del CC del partito riguardante l’opera La grande amicizia si trasformi nel nostro lavoro in opere musicali brillanti e belle.
5 e SERGEJ SERGEEVIÈ PROKOF'EV Dopo il lungo periodo di permanenza in Occidente, Prokof'ev ritornò in URSS proprio negli anni in cui il canone del “realismo socialista” di recente elaborazione stava diventando il principio normativo in tutti i settori dell’arte sovietica. A testimonianza dello sforzo da lui compiuto per comprendere il senso di questa svolta estetica ed ideologica e per uniformare ad essa la sua successiva produzione, riportiamo alcuni passi tratti dalla raccolta antologica di scritti del compositore a cura di E. Zanetti contenuta “nel n. 13 dell’«Approdo musicale» dedicato a Prokof'ev tradotti dalla versione inglese dell’antologia di scritti su e di Prokof'ev intitolata S. P. Autobiography. Articles. Reminiscences (Foreign Languages Publishing House, Mosca 1959, a cura di S. Shlifstein).
Quale musica si debba scrivere oggi è questione di grande importanza per molti compositori sovietici. Ho molto riflettuto su questo problema negli ultimi due anni e credo che la seguente possa essere la soluzione giusta. Quel che occorre innanzitutto è della grande musica, della musica, cioè, che tanto nella forma quanto nel contenuto risponda alla grandezza dell’epoca. Essa dovrebbe costituire uno stimolo per il nostro sviluppo musicale e rivelare la nostra realtà ‘all’estero. Disgraziatamente è assai serio il pericolo per i moderni compositori di divenire provinciali. Allo stesso tempo, volgendo la sua attenzione alla musica seria, significativa, il compositore avrà presente che nell'Unione Sovietica la musica si indirizza a milioni di persone già prive o quasi di ogni contatto con essa: il nuovo, immenso auditorio che il moderno compositore sovietico dovrà sforzarsi di raggiungere. Quanto al tipo di musica che più necessita, penso sia quella che chiamerò “leggermente seria” o “seriamente leggera”. Non è certo cosa agevole trovare l’idioma conveniente. Esso dovrà essere innanzitutto melodioso e dalla melodia chiara e semplice, senza peraltro cadere nel derivativo o nel triviale. Molti compositori già trovano
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piuttosto difficile qualsiasi tipo di melodia, una melodia presa in sé avente una qualche definita funzione da svolgere. Lo stesso vale per la tecnica e la forma, che esigono chiarezza e semplicità, ma non alcunché di stereotipo. E ciò può raggiungersi soltanto dopo che il compositore sia divenuto padrone dell’arte di comporre seriamente, significativamente. Premessa indispensabile per acquisire la tecnica di esprimersi in termini semplici e tuttavia originali.
È passato il tempo in cui la musica veniva creata per un manipolo di esteti. Oggi vaste folle popolari sono giunte faccia a faccia con la musica seria e ne stanno in attesa con ardente impazienza. Compositori, abbiatelo in mente. Se respingete queste masse, vi abbandoneranno per volgersi al jazz o alle volgarità. Mentre se ne avrete cura, conquisterete un pubblico come il mondo non ne ha mai conosciuto l’eguale. Ma questo non significa che dobbiate cadere nell’adulazione. L’adulazione implica l’insincerità, dalla quale non può venire niente di buono. Le folle anelano la grande musica, la musica di grandi eventi, di grandi amori, di vivide danze. Esse
capiscono assai più di quanto credano taluni compositori e vogliono approfondire la propria comprensione. La ricerca di un idioma musicale appropriato all’epoca del socialismo è un degno, ma difficile compito per il compositore. Nel nostro paese la musica è divenuta retaggio di vaste masse di popolo, il cui gusto artistico e le cui richieste crescono con sorprendente rapi-
dità. E questo è qualcosa che il compositore sovietico ha da tenere presente in ogni suo nuovo lavoro.
Rassomiglia in certo modo al tiro a un bersaglio*mobile: soltanto mirando avanti, al domani, eviterete di essere lasciati indie-
tro al livello dei bisogni di ieri. Motivo per cui considero uno sbaglio per un compositore lo sforzo di semplificarsi. Ogni tentativo di “abbassarsi” al livello dell’ascoltatore è un’inconscia disistima della maturità culturale di questi e dello sviluppo dei suoi gusti; un tale tentativo contiene un elemento di insincerità. E la musica insincera non può durare. Nella mia produzione di quest'anno fruttuoso ho mirato alla chiarezza e alla melodiosità; nel contempo, ho scrupolosamente evitato l'inganno di ricorrere ad armonie familiari.
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Una vasta, sintetica panoramica sulla musica sovietica degli anni Ottanta ci è offerta da un saggio della musicologa Valeria Cenova, Arte contemporanea: sulla musica dei compositori sovietici, comparso in traduzione sul n. 22 (aprile 1987, pp. 65-82) della rivista «Musica/Realtà». Dai passi stralciati per la lettura ci si può fare un’idea dell’ansia di rinnovamento dei musicisti sovietici in séguito alle aperture della perestrojka, del desiderio di reinserire la loro tradizione nell’alveo della cultura contemporanea. Anjuta Ganéikov).
(Traduzione di
In Unione Sovietica operano compositori di varie tendenze stilistiche ed estetiche. Nella coscienza del pubblico essi si’suddividono, a seconda dell’età, in ben definiti gruppi “generazionali”. Tuttavia, nonostante l'appartenenza a tendenze artistiche a volte del tutto contrastanti, un certo filo invisibile lega compositori dell’una e dell’altra generazione. Attualmente, sembra possibile individuare tre generazioni di compositori viventi: la più vecchia i cui inizi risalgono gli anni Trenta-Quaranta (T. Chrennikov, N. Pejko,
O. Taktakisvili); la generazione di mezzo, quella oggi portante, che ha incominciato a produrre negli anni Cinquanta-Sessanta (B. Kutavi$jus, E. Denisov, S. Gubajdulina, T. Mansutjan, N. Sid-
el’nikov, S. Slonimskij, A. Snitke, R. Séedrin, B. Cajkovskij); all’ultima generazione appartengono autori che hanno incominciato a farsi conoscere negli anni Settanta: G. Dmitriev, E. Fifsova, A.
Knaifel’, N. Korndorf, V. Lobanov, S. Pavlenko, D. Smirnov, A. Zograbjan, a cui si affiancano anche i compositori nati negli anni Sessanta (i “giovanissimi ”).
La produzione musicale sovietica è multiforme e non riconducibile ad un’unica tendenza o scuola. Tale variegato quadro è caratterizzato dalla presenza e coesistenza di stili e orientamenti creativi diversissimi, talora assolutamente incompatibili tra loro. Ma ciò che accomuna tutti gli artisti sovietici è l’impegno culturale che segna la loro produzione e l'aspirazione ad affermare nuove idee sul piano creativo, ad esprimere ciò che tende ad un autentico valore musicale e che giustifica le sperimentazioni più audaci. Non limitandosi ad esplorare il mezzo musicale in sé, i compositori si studiano di dar vita ad un ricco contenuto formale e concettuale. [....]
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Le più recenti ricerche in campo letterario s’indirizzano alla tradizione orale e scritta dell’antica Russia. Vengono musicati testi folkloristici “in versione originale”. Si attinge anche agli inestinguibili tesori delle cronache russe (per esempio, l'oratorio Dalla cronaca dei tempi passati di Georgij Dmitriev dal testo del primo corpus cronachistico nazionale russo). Le fonti antiche attraggono i compositori per la ricchezza delle immagini, dei concetti e dei sentimenti che conservano ancor oggi la loro attualità. E di non trascurabile importanza è il fatto che i suoni della lingua di un tempo ormai lontano, con le sue caratteristiche articolazioni del fraseggio, offrono ulteriori stimoli all'espressione musicale. Inoltre, stranamente, si sviluppa anche la tendenza a musicare testi in lingua straniera: in francese sono le opere di Edison Denisov Pena dnej (La schiuma dei giorni da Boris Vian) e Cetyre devuSki (Le quattro fanciulle da Pablo Picasso); in tedesco è Perception, ciclo vocale-strumentale di Sof'ja Gubajdulina e la cantata Istorija doktora Ioganna Fausta (Storia del dottor Johannes Faust) di Alfred
Snitke; in inglese Sest' stichotvorenij Blejka (Sei poesie di Blake) di Dmitrij Smirnov; in tre lingue - inglese, francese e tedesco — sono Requiem di Denisov e Tre madrigali di Snitke. Mentre l’opera Muzyka dlja zivych (Musica per i vivi) di Gija Kanteli è eseguita in sumerico, inglese, francese, italiano e georgiano. [...] Nel contesto dell’attività musicale del nostro tempo i compositori sovietici sviluppano sotto varie forme la tradizione classica russa e sovietica, quella di Cajkovskij, Musorgskij, Rachmaninov, Stravinskij, Sostakovié, Prokof'ev. Ma pur mantenendo un fertile rapporto con la tradizione, i compositori contemporanei affrontano coraggiosamente ricerche di vario genere per esplorare nuove possibilità espressive. Lo sperimentalismo investe tutti gli ambiti specifici del linguaggio della musica contemporanea: l'armonia (tonale, modale, dodecafonica, di sonorità), il discorso melodico e il tema-
tismo, la polifonia, il ritmo e la struttura timbrico-strumentale, ed esplora anche le nuove tecniche del xx secolo: l’alea, il collage, la serialità. Tra queste ultime la tecnica del collage è quella che ha incontrato maggiore fortuna nella musica sovietica. La praticano
compositori di diverse tendenze stilistiche, non esclusi coloro la cui concezione estetica complessiva non si fonda sul principio della “sonorizzazione” di materiale altrui nella propria musica. A que-
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sto proposito citiamo: Andrej Espaj che nel balletto Krug (Il cerchio) per caratterizzare musicalmente l’“epoca dei valzer viennesi” utilizza il tema del poema sinfonico La valse di Ravel; Sof'ja Gubajdulina che nella sonata Ser‘ slov (Sette parole) riprende un frammento dell’omonimo oratorio di Schiitz; Vitautas Barkauskas che ha impiegato la tecnica del co/lage nel concerto Toccamzento per archi e pianoforte. Qui l’autore propone una sua singolare maniera di “toccare” la musica di due grandi compositori, Bach e Beethoven, e di richiamarsi attraverso il tempo alle grandi verità, alle sacre reliquie dell’arte universale.
L’impiego del co/lage su vasta scala dà luogo persino a intere forme musicali di ampio impegno, costruite integralmente mediante questa tecnica. Ne è un esempio Lebenslauf per insieme di strumenti a percussione di Snitke. L'originale assunto iniziale ha portato il compositore a concepire la struttura di questa opera come un ininterrotto co//age. L'idea di un racconto autobiografico scritto con i mezzi della musica ha suggerito a Snitke di rappresentare gli avvenimenti principali della propria vita avvalendosi di citazioni musicali. A volte è sufficiente una semplice frase per descrivere musicalmente un momento della vita del compositore (per esempio, il matrimonio è caratterizzato dalla citazione di un frammento della Marcia nuziale di Mendelssohn). Ne risulta una composizione di carattere strettamente personale che può essere definita “forma biografica”.
Le citazioni musicali svolgono una serie di importanti.funzioni: esse pongono il materiale tematico, recepito oggettivamente, in una nuova situazione; servono per mettere in rilievo contrapposizioni
e contrasti stilistici e anche per conferire maggiore concretezza alle idee dell’autore, cioè la citazione non è mai utilizzata in maniera astratta, ma s'inserisce attivamente nell’azione musicale. Per esempio, in Pena dnej (La schiuma dei giorni) di Denisov le citazioni
delle canzoni di Duke Ellington sono funzionali all’azione drammatica. Esse sono già presenti nel romanzo di Boris Vian, fonte letteraria dell’opera. Lo stesso Denisov afferma: «Nel romanzo di Vian c’è un discreto numero di riferimenti diretti alla musica di Duke Ellington. La protagonista Cloe fa la sua prima apparizione nel romanzo al suono della omonima canzone di questo autore. Io mi sono permesso di includere nella partitura frammenti delle com-
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posizioni di Ellington e, per conferire alla musica il tocco di sensualità che è proprio del jazz, ho introdotto nell’orchestra sinfonica i sassofoni e due chitarre elettriche». Oggetto di sperimentazione è anche l'estensione temporale della musica che ora si comprime in microdimensioni (la cosiddetta micromusica di certe composizioni di Vasilij Lobanov e di Nikolaj Korndorf), ora si dilata fino a raggiungere la macrodimensione, per esempio, di Muzykal'noe prino$enie (Offerta musicale) di Rodion Stedrin che ha una durata di due ore e mezza circa. La composizione non risponde a nessuno dei principi che di solito impongono regole e limiti alla forma musicale: l’azione si dispiega diffusamente e, non finalizzata all’unitarietà di un ascolto globale, si presenta semplicemente come una suite di composizioni autonome, pensate per varii insiemi di strumenti: tre flauti, tre fagotti, tre tromboni, un
organo in combinazioni diverse. La presenza di più gruppi timbrici, il loro contrapporsi, il loro scontrarsi a volte persino conflittuale, conferiscono alla composizione di Sèedrin i caratteri tipici del genere concertistico. Si tratta di un’originale suite-concerto in cui il concetto stesso di concerto assume un significato duplice: concerto in quanto genere (definito dal competere degli strumenti) e concerto in quanto esecuzione di più pezzi musicali (serie di brevi composizioni musicali autonome che si succedono l’una all’altra come facessero parte di un programma concertistico ideato per un’intera serata). [...]
Una delle tendenze più significative presenti nel panorama della musica sovietica dei nostri giorni è l'aspirazione a raggiungere equi-
librio stilistico, chiarezza, semplicità di linguaggio, viva tensione emotiva. Oggi, la musica sovietica (e non solo quella soyietica) vive un periodo di sintesi totale che si riferisce non soltanto all'impiego di procedimenti che ancora di recente apparivano del tutto rivoluzionarti, ma anche alla riappropriazione di quelle tecniche antiche che sembravano ormai appartenere irrimediabilmente al passato. Alcuni procedimenti elaborati dalla musica d'avanguardia degli anni Cinquanta-Settanta sono divenuti ora di uso comune, sono stati acquisiti, hanno perduto il loro significato innovativo e sono stati posti al servizio di solidi e impegnativi contenuti musicali. Per esempio, nella Seconda sinfonia di Snitke sulla tessitura intonativa dei canti gregoriani si innestano raddoppi dissonanti ed elementi com-
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plessi della tecnica polifonica; e nell'opera Pena dnej (La schiuma dei giorni) di Denisov il collage di citazioni tratte dalle canzoni di Ellington e le allusioni alla musica degli charsonniers francesi convivono con l’impiego di una trama intonativa antica, legata al salmodiare monotono dei testi della preghiera latina. In sostanza, questo fenomeno denota da parte dei compositori contemporanei un nuovo modo di rapportarsi al materiale storico. A differenza di quanto avveniva per il compositore del xv-xIx secolo che aveva presente sempre e solo il formalismo e il materiale armonico proprio della sua epoca, ora si è acquisita la percezione della distanza storica. L’opera musicale contemporanea si avvale sia dei materiali armonici della musica moderna, sia di quelli di epoche anche molto lontane nel tempo, ponendoli su un piano di completa parità. Buon conoscitore della letteratura musicale, il compositore contemporaneo non soltanto ha presente un qualche prototipo storico, ma introduce nella sua composizione anche il materiale che caratterizza quel prototipo. È come se il compositore afferrasse con lo sguardo tutte le epoche ad un tempo. Di qui, sorge la questione del significato del termine “moderno”: “moderno” significa prodotto nel xx secolo oppure utilizzato nel xx secolo? Evidentemente, nel definire il concetto di modernità occorre tener presente il primo di questi significati (= prodotto nel xx secolo), poiché comunque tutte le scritture antiche vengono rivisitate dai compositori alla luce del linguaggio musicale attuale. [...] -* Molti autori sovietici si rapportano alla musica popolare con grande interesse, senza alcuna presunzione accademica. È curiosa
la posizione del compositore ucraino Valentin Sil’vestrov il quale ritiene che la musica pop sia un aspetto particolare di quel folklore industriale che contrassegna la vita dell’uomo moderno. Non si può semplicemente rifiutare questa musica. Essa riflette una situazione precisa, un momento catturato di realtà, e in questo senso può eser-
citare una importante influenza sui compositori contemporanei. Il folklore delle varie nazionalità sovietiche offre molte nuove idee ai compositori sul piano melodico e armonico. L'atteggiamento più diffuso tra i compositori sovietici nei confronti della musica popolare può essere così sintetizzato: il folklore va studiato, non
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sfruttato. Per esempio, Espaj, che ampiamente attinge al folklore dei Marii, popolazione del gruppo ugro-finnico, ritiene che esistono due tipi di approccio al problema. Il primo risponde al seguente interrogativo: è legittimo correggere un capolavoro dell’arte popolare, quale è il canto popolare da cui, nel corso dei secoli, è stata già eliminata ogni parola superflua, ogni suono falso, insomma si ha il diritto di “rielaborarlo” (il folklore)? E il secondo: io cono-
sco la mia lingua materna, perché mai non dovrei potermi esprimere in questa lingua, usando parole mie proprie? Questo secondo quesito definisce la natura del rapporto che àncora al folklore tutta una serie di compositori sovietici: questi sono convinti che il compositore nasca e la personalità artistica maturi proprio lungo la via che dal modello folkloristico porta alla “parola propria”. Tipico è l’interesse dei compositori per l’hum4s più antico dell’espressione artistica del popolo. A questo proposito molte interessanti scoperte si devono ai compositori delle repubbliche sovietiche. Otar Taktakisvili ha utilizzato in una serie di composizioni gli antichi canti georgiani, l’antica musica religiosa armena ha permeato lo stile di Avet Terterjan, elementi delle antiche canzoni lituane si ritrovano nella produzione del compositore lituano Bronjus Kutaviéjus, l’estone Vel’o Tormis applica alle sue composizioni corali i procedimenti della polifonia popolare. Si può affermare che l’antico folklore consente ai compositori di gettare un ponte sulla voragine dei secoli, di penetrare nel cuore stesso della propria nazione, di percepire più a fondo lo spirito del proprio popolo. Anche nel campo degli organici strumentali, a cui i compositori sovietici affidano l'esecuzione della propria musica; si possono rilevare fenomeni interessanti e di diverso segno. Numerose sono le opere scritte per strumenti e formazioni tradizionali, sul genere dei quartetti d’archi, delle sonate per violino, violoncello e pianoforte, dei cicli per voce e pianoforte. Parallelamente, però, un’altra corrente si muove alla ricerca di nuovi coloriti timbricostrumentali, di combinazioni timbriche non tradizionali. Per esem-
pio, per le parti solistiche vengono utilizzati alcuni strumenti antichi e popolari [nella Quinta sinfonia di Terterjan l’assolo è sostenuto dallo strumento a corde armeno kemanca e nella sonata Serz' slov (Sette parole) della Gubajdulina dal popolare bajar russo], si asso-
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ciano strumenti eterogenei che danno luogo ad insiemi originali di tipo non tradizionale, a volte con combinazioni di suoni molto esotiche: viola, flauto ed arpa nel trio Sad radosti i pecali (Il giardino della letizia e della tristezza) della Gubajdulina; sassofono, oboe e violoncello in Serenata di Smirnov. [...] Un posto particolare nell'attività dei compositori sovietici contemporanei occupano i cosiddetti generi sintetici in cui, oltre alle risorse della musica, ci si avvale dell’apporto di altri generi d’arte: coreografia, lettura artistica, teatro. Si crea così un livello ulteriore
di espressività che dilata i confini dello stimolo emotivo esercitato sull’ascoltatore (= spettatore). L'entrata e l'uscita degli esecutori, gli spostamenti sulla scena, gli effetti di luce, sono tutti ingredienti che contribuiscono a creare un grumo supplementare di sensazioni: nasce così il teatro strumentale in cui i musicisti assumono il ruolo di attori e il gesto e il dialogo tramite gli strumenti sono gli elementi di una astratta azione musical-teatrale. Il diffuso, profondo interesse per questo genere di musica ha avuto inizio dopo la Seconda guerra mondiale. Composizioni di questo tipo si devono a Mauricio Kagel, Karlheinz Stockhausen, John Cage. Si ritiene che la prima composizione con elementi di teatralizzazione nella musica sovietica sia il Nonetto per sette strumenti, voce e danzatore plastico di Vladimir Séerbacév (1919), direttore della Scuola di composizione di Leningrado. E tra le opere più recenti che fanno riferimento al teatro strumentale ricordiamo la Prima sinfonia di Snitke, Novgorodskja pliaska (Danzadi Novgorod) di Slonimskij, Rozdestvennoe kaprièèio (Capriccio natalizio) per
fagotto e archi di Pavlenko, la sinfonia Confessiones di Korndorf, la composizione Mozart è la Haydn di Snitke. [...] AI fenomeno del teatro strumentale si avvicinano le cosiddette composizioni varianti, cioè le composizioni di struttura generale non stabile. Tali composizioni varianti (o aleatorie) sono il risultato di quel processo di personalizzazione del fatto musicale iniziatosi nel xvi secolo che ha, come ultima.conseguenza logica, la personalizzazione di ogni singola esecuzione della stessa opera. Ne sono esempio due opere della Gubajdulina, Dia/og magnitofonnoj plénki i improvizacii (Dialogo tra nastro magnetico e improvvisazione)
e Cét i nècet (Pari e dispari). Nella prima l'elemento stabile, il nastro magnetico, si sovrappone costantemente all’elemento mobile,
LA
MUSICA
SOVIETICA
CONTEMPORANEA
improvvisazione scenica dell’esecutore che reagisce alla musica del magnetofono. La reazione del musicista varia di volta in volta. Di conseguenza, anche l’elemento stabile acquista sfumature sempre diverse, mentre la forma nel suo insieme scopre ad ogni esecuzione nuovi orizzonti. La seconda composizione Cétinécet (Pari e dispari) è coerente al senso stesso della parola “alea”, “caso”. Qui il com-
positore stabilisce soltanto il carattere del materiale (che è prevalentemente sonoro), mentre lo sviluppo, la forma psicologica vengono determinati dal pronosticare secondo il Libro delle mutazioni cinese che consiste di 64 esagrammi. Per sceglierne uno, ciascun esecutore lancia per sei volte una moneta (a “testa o croce”). Come
elementi invariabili di struttura si assumono: (1) il corso irreversibile del tempo: i sei strumenti utilizzati nella composizione, sono ripartiti secondo i sei episodi della struttura, cosicché il suono alto gradualmente si trasforma in suono basso, con la progressione di clarinetto in mi bemolle, sax soprazino, sax contralto, sax tenore,
sax baritono, clarinetto basso. Il compositore paragona questa successione di timbri strumentali con il trascorrere della giovinezza
nella vecchiaia. (2) La successione dei sei episodi, definiti dall’autore come inizio, sviluppo all’interno, crisi, soggiorno nel mondo, sviluppo all’esterno, declino. Tutto il resto si modifica nella forma in relazione all’esagramma del Libro delle mutazioni tirato a sorte. Niente prove, nessuno studio preliminare. In sostanza, l’opera è
un esperimento su un nuovo modo di far musica, atto peculiare di cui sviluppo e caratteristiche vengono di volta in volta determinati tramite il “lancio della moneta”.
La musica dei nostri giorni è di particolare, eccezionale interesse. Come particolare documento sonoro di un’epocayessa è inter-
prete di tutti i suoi problemi. I compositori più impegnati, più sensibili investono le proprie opere di complessi, inquietanti problemi; ciò facendo, essi costringono gli ascoltatori a riflettere e a modificare in qualche modo il proprio interiore modo di essere. Il quadro della creatività musicale è oggi brillante e variegato. Si può affermare che nella storia della musica sovietica gli ultimi anni rappresentano un periodo di grandi trasformazioni.
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AMERICANA
Due fra i maggiori ostacoli alla divulgazione delle opere dei capifila di quel movimento, che nei primi decenni del xx secolo condusse alla fondazione di un’avanguardia storica statunitense, furono l’ottusità della critica e le limitazioni — tecniche e culturali - degli interpreti. Negli scritti di Ives, la satira di questi due personaggi - il critico e l'interprete — che ritardarono la conoscenza e la comprensione di quasi tutte le sue opere più significative ricorre alla stregua di un amaro Leitrzotiv. Alla citazione di due passi di Ives tratti dai Merzos (Norton, New York 1972, a cura di J. Kirkpatrick), segue il manifesto (tratto invece da Varèse.
A Looking-Glass Diary, Norton, New
York 1972, di L. Varèse) della International Composers’ Guild fondata da Edgar Varèse e Carlos Salzedo nel 1921, appunto per creare un circuito alternativo. a
Ma per arrivare a Rollo Henderson [Rollo è un personaggio immaginario, un bambino curioso in ogni ramo del sapere, protagonistadi una fortunata collana didattica molto popolare negli Stati Uniti nella metà del sec. x1x — i Rollo Books - ideata da J. Abbott, i cui singoli volumi eran dedicati ognuno ad un argomento specifico; nel pittoresco lessico ivesiano, Rollo sta a simboleggiare l’in-
dividuo — ed il critico in particolare — saccente e restio alla comprensione di ogni novità che non rientri in schemi tradizionali; W. J. Henderson (1855-1937), critico musicale del «New York Times» dal 1883 e del «New York Sun» dal 1902, è appunto considerato da Ives un “Rollo”. N. d. T.], egli ha ascoltato per più:di sessant'anni — ed ora li conosce — alcuni accordi gradevoli (le tre triadi
fondamentali e quelle poche altre che per 150 anni su per giù le hanno contornate come un grazioso bouquet). Conosce anche la Quinta Sinfonia, se è stata o non è stata eseguita, ed anche quando è stata eseguita: l’ha ascoltata probabilmente dalle 365 alle 721 volte. Per diversi anni ha anche saputo distinguere una fantasia che si mascherava da ouverture od una suite travestita da sinfonia — ma vi è di più: ora egli è in grado di dire quando un compositore rallenta il ritmo del valzer fino ad assumere quello della polacca. Non inarca le sopracciglia di fronte a Brahms e non taccia Wagner di pazzia (vedi il libro di Rollo alle pag. 3 e 4 [si riferisce al libro What Is Good Music?, New York 1898, di Henderson, da cui Ives riprende ironicamente le due frasi precedenti]). Le sue orecchie, per
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STORICA
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cinquant’anni circa, sono state massaggiate più e più volte in modo così raffinato dalla ripetizione degli stessi ritmi e degli stessi passaggi, zuccherosi e consonanti, da sviluppi sempre delicati in un’arte per l'’85% effeminata, che quando afferma «In America la grande musica è totalmente assente» uno comincia a persuadersi che è la prova più sicura che invece non lo sia affatto. La prova [di Decoration Day. N.d.T.] ebbe luogo alla Carnegie Hall. Il sig. Eisler, un vicedirettore della Metropolitan Opera, si alzò e li fece attaccare impugnando una graziosa bacchetta. Alla fine di ogni sezione l’unico che suonava ancora era un minuto violinista nella fila posteriore, mentre gli altri si eran persi per strada. Quando iniziarono dalla lettera B partirono tutti insieme, ma il violinista della fila dietro fu nuovamente l’unico che riuscì a raggiungere la C. Nuovamente si partì dalla C allo stesso modo, e così
fino al termine della marcia. Alla fine di essa una grancassa ed il violino furono gli unici superstiti. Quando un esecutore rimaneva indietro e quindi si fermava, normalmente si girava intorno e sorrideva (uno continuava a sputare nel fazzoletto) — un sorriso simile
a quello di una signora grassa, un po’ arrabbiata ed un po’ imbarazzata, che corre per prendere un tram. Dopo “l’esecuzione”, che sollevò tra il pubblico risa e imprecazioni, il sig. Eisler, arrabbiato, si avvicinò e mi restituì la partitura soggiungendo: «C'è un limite alle capacità esecutive» (ed io non gli risposi, come avrei voluto, che i limiti più notevoli erano i loro).
Questo è un esempio lampante di quanta acqua possa correr sotto i ponti nel giro di pochi anni. Questa “esecuzione” ebbe luogo nel 1919, 13 anni fa; oggi questa partitura potrebbe essere appresa ed eseguita senza difficoltà da qualunque orchestra sinfonica, con poche prove. È stata infatti eseguita recentemente dall’Havana Symphony Orchestra il 27 dicembre 1931 e apparentemente con poca difficoltà. Il compositore è l’unico fra gli artisti creativi di oggi cui è negato un diretto contatto con il pubblico. Quando la sua opera è terminata egli è messo da parte e subentra l’interprete, che non si sforza di comprendere la composizione, ma la giudica con superficialità. Non trovandovi traccia delle convenzioni espressive cui è abituato,
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la toglie dai programmi concertistici tacciandola di incoerenza e di incomprensibilità. Nelle altre branche artistiche il creatore viene in qualche modo a diretto contatto con il pubblico. Il poeta ed il romanziere traggono soddisfazione dalla pagina stampata, il pittore e lo scultore | dalle porte aperte della galleria, il drammaturgo dalla libertà di assistere ad uno spettacolo. H compositore invece deve dipendere da un intermediario, l’interprete. i È vero che per soddisfare le richieste del pubblico le nostre organizzazioni ufficiali inseriscono di quando in quando nei programmi un’opera nuova con tanto di nomi famosi, ma essa è scelta accuratamente fra le opere contemporanee meno avanzate e più slavate, tagliando fuori del tutto i compositori che rappresentano il vero spirito del nostro tempo. Soccombere è prerogativa degli stanchi. I compositori d’oggi non vogliono soccombere. Si son resi conto della necessità di associarsi e di lottare per assicurare ad ogni individuo il diritto di “leale e libera esecuzione della propria opera”. È da tale volontà collettiva che è nata la International Composers’ Guild. Scopo della International Composers’ Guild è quello di far emergere le opere odierne, di riunirle in programmi organici e coerenti e, con l’ausilio di valenti cantanti e strumentisti, di presentarle in
una versione quanto più possibile fedele al loro significato originario. La International Composers’ Guild rifiuta ogni limitazione nella sfera volitiva come in quella pratica. La International Composers’ Guild condanna tutti-gli “ismi”; nega l’esistenza di scuole; riconosce solamente ciò che è individuale.
8 e EDGAR VARÈSE Per Varèse la fondazione di una nuova musica non può prescindere dalla radicale trasformazione dei parametri tradizionali, sonori e concettuali; è una
rivoluzione che deve coinvolgere tutti gli aspetti della creazione e dell’esecuzione, dagli strumenti musicali all'impiego tematico della percussione, alla stessa ispirazione, svincolando la musica dallo psicologismo che l’ha condizionata per secoli. Sulle convinzioni estetiche di Varèse riportiamo tre brani tratti, i primi due da V. A Looking-Glass Diary cit., ed il terzo da V., Éditions du Seuil, Parigi 1973, di O. VIvIER, a sua volta ripreso da Entretiens avec E. V., Belfond, Parigi 1970, a cura di G. Charbonnier.
EDGAR
VARÈSE
Bisogna arricchire il nostro alfabeto musicale. Avvertiamo inoltre l'esigenza di nuovi strumenti in un modo molto errato. Sotto questo aspetto i futuristi (Marinetti e i suoi bruiteurs) hanno compiuto un grave errore. Strumenti nuovi devono suggerire combinazioni
diverse e non semplicemente riproporci quelle strasentite. Gli strumenti, dopo tutto, si debbono considerare solamente come mezzi espressivi provvisori. I musicisti dovrebbero occuparsi molto seriamente di questo problema con l’aiuto di tecnici esperti. Nelle mie opere musicali ho sempre avvertito l’esigenza di nuovi mezzi espressivi. Mi rifiuto di limitarmi a sonorità che sono già state udite. Ciò che vado cercando sono nuovi mezzi tecnici che si prestino ad ogni espressione concettuale e mantengano rapporti con la sfera concettuale. La musica non è un racconto, non è un’illustrazione, non è un’a-
strazione psicologica o filosofica. È molto semplicemente la mia musica. Ha una forma definita che può essere percepita più correttamente ascoltandola che non elucubrandovi sopra. Ripeto ciò che ho già scritto prima: l’analisi è sterile. Spiegare per mezzo di essa significa scomporre, mutilare lo spirito dell’opera. Il titolo di una partitura non ha poi nessuna importanza. Serve semplicemente
come comodo mezzo per classificare l’opera. Ammetto che mi diverto a scegliere i titoli delle mie opere — un genere di passatempo paterno come la scelta del nome di un neonato, un’incombenza molto diversa da quella ben più intensa della procreazione. Non trovo invece nessun divertimento nei cognomi. Spesso prendo
i titoli a prestito dall’alta matematica o dall’astronomia solo perché queste scienze stimolano l'immaginazione e mi danno l’impressione di movimento, di ritmo. Traggo maggior ispirazione musicale dalla contemplazione delle stelle - preferibilmente attraverso un telescopio — e dalla profonda poesia di certe spiegazioni matematiche che dalla più sublime chiacchiera di umane passioni. Tuttavia non si devono cercare pianeti o teoremi nella mia musica. Siccome credo che la musica sia una forma particolare di pensiero, non può esprimere altro che se stessa. Ad ogni modo so di essere proprio il primo ad aver scritto composizioni che impiegano la sola percussione. Che ne può derivare? Come la si può utilizzare? La percussione, per la propria natura
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sonora, ha una vitalità che manca agli altri strumenti. Innanzitutto dispone di una gamma che gli strumenti non hanno. Ha un aspetto di un organismo vivente; una qualità sonora più vitale, più imme-
diata degli altri strumenti. L'attacco del suono è più netto, più rapido. Infine le composizioni ritmiche basate sulla percussione sono prive degli aspetti aneddotici che troviamo nella nostra musica. Quando la melodia predomina, la musica diventa soporifera. Non si può fare a meno di andar dietro alla melodia quando essa appare, e con la melodia si introduce l’aneddoto. La melodia compare in modo insidioso e rapidamente. Non resta che opporvi il rumore dei timpani e quello degli strumenti a suono indeterminato. x
Varèse, in occasione di una conferenza tenuta alla Princeton University nel 1959 (pubblicata in Perspectives of New Music, V, 1, 1966), chiarisce alcuni
capisaldi della sua poetica focalizzando l’attenzione su ciò che egli intende per principio compositivo. Particolarmente interessante in questa testimo-
nianza è l’analisi retrospettiva del suo “iter compositivo” innestato umanisticamente sulla tradizione del passato, in implicita polemica tanto con certa avanguardia pretestuosa, quanto con certi critici codini affetti da miopia storica.
La mia battaglia per la liberazione del suono e perl mio diritto di far musica con qualunque suono e con tutti i suoni è stata talvolta fraintesa come desiderio di denigrare e perfino di rifiutare la grande musica del passato. Ma proprio in essa affondano le mie radici. Per quanto originale o diverso possa sembrare ufì compositore, egli ha solamente innestato un po’ di sé medesimo sulla vecchia pianta. Ma gli dovrebbe esser concesso di compiere questo innesto senza esser accusato di voler uccidere la pianta. Egli vuol solamente produrre un nuovo fiore. Non importa se dapprima possa sembrare più simile ad un cactus che ad una rosa. Molti dei maestri del passato sono miei amici intimi, tutti sono colleghi rispettati. Nessuno di loro è morto in santità — in effetti nessuno di loro è morto — e le regole che hanno creato per sé non sono inviolabili ed eterne. Ascoltando la musica di Perotin, Machaut, Monteverdi,
Bach o Beethoven, noi ci accorgiamo di esser in presenza di sostanze viventi; essi sono “vivi nel presente”. La musica scritta secondo canoni stilistici del passato è invece prodotto di un’operazione cul-
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turale e, per quanto attraente e confortevole possa esser quella cultura, un artista non dovrebbe soggiacere ad essa. La più acuta anno-
tazione critica che André Gide abbia scritto fu questa confessione che deve essersi estorta con un atto di autotortura: «Quando leggo Rimbaud o il sesto canto di Maldoror mi vergogno delle mie opere e di tutto ciò che è solamente prodotto di cultura». Poiché per moltissimi anni mi sono battuto per l’introduzione di nuovi strumenti con uno zelo che può esser sembrato fanatico, sono stato accusato di auspicare niente meno che la distruzione di tutti gli strumenti musicali così come di tutti gli interpreti. Ciò è, a dir poco, un’esagerazione. Il nostro nuovo mezzo di liberazione — quello elettronico — non è destinato a rimpiazzare gli strumenti musicali tradizionali che i compositori, me compreso, con-
tinueranno ad usare. L'elettronica è un fattore integrativo, non distruttivo, nella pratica artistica come nella teoria musicale. La musica occidentale ha un patrimonio così ricco e vario proprio per-
ché nuovi strumenti sono stati costantemente aggiunti a quelli vecchi. È Per quanto dobbiamo esser grati al nuovo mezzo non dobbiamo aspettarci miracoli dalle macchine. La macchina può solo restituirci ciò che noi introduciamo in essa. I princìpi musicali rimangono i medesimi sia che un compositore scriva per l'orchestra sia per un nastro magnetico. Il ritmo e la forma continuano a rimanere i suoi problemi più importanti e le due componenti musicali più fraintese. Il ritmo è troppo spesso confuso con la metrica. La cadenza o la successione regolare di scansioni e di accenti ha poco a che vedere con il ritmo di una composizione. Il ritmo è la componente musicale che dà vita ed unità alla composizione. E la componente stabilizzatrice, il principio formante. Nelle mie composizioni, ad esempio, il ritmo deriva dall'interazione simultanea di elementi irrelati che accadono come errori previsti ma non euritmici. Il che è più simile alla definizione fisica o filosofica di ritmo inteso come «una successione di situazioni alterne ed opposte o correlate». Per quanto riguarda la forma, Busoni scrisse: «Non è singolare richiedere ad un compositore di esser assolutamente originale e porre però il veto nei confronti della forma? Non c’è da meravigliarsi che se un compositore è originale sia accusato di esser informale». L’equivoco è derivato dal concepire la forma come un punto di partenza, un modello da seguire, uno stampo da esser riempito.
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La forma è un risultato, il risultato di un processo. Ogni mia composizione rivela una sua propria forma. Non avrei potuto adattarla ad alcuno dei recipienti storici. Se si vuole riempire una scatola rigida di forma definita bisogna introdurvi qualcosa che abbia la stessa forma e dimensione o che sia abbastanza elastico o soffice da poter esser adattato. Se però si vuole introdurvi forzosamente qualcosa di forma differente e di consistenza più solida, anche se il volume e le dimensioni concordassero, la scatola si romperebbe. La mia musica non può adattarsi ad alcuna delle scatole della musica tradizionale. Siccome concepisco la forma musicale come un risultato — il risultato di un processo — fui colpito dall’analogia che mi pare intercorra fra il principio formale delle mie composizioni ed il fenomeno della cristallizzazione. Mi sia concesso citare la descrizione cristallografica fattami da Nathaniel Arbiter, professore di mineralogia alla Columbia University: «Il cristallo è caratterizzato da una forma esterna e da una struttura interna definite. La struttura interna è basata sul complesso cristallino: il raggruppamento più piccolo degli atomi che contiene l'ordinamento ed il principio compositivo della sostanza. L'espansione dell’unità nello spazio forma l’intero cristallo. Ma nonostante la varietà abbastanza limitata delle strutture interne, le forme esterne dei cristalli song illimitate».
Quindi il sig. Arbiter aggiunse: «La forma stessa del cristallo è un risultato [ho usato proprio la stessa parola a proposito della forma musicale] piuttosto che una caratteristica primaria... La forma
cristallina è la conseguenza dell’interazione delle forze d'attrazione e di repulsione e del raggruppamento ordinato dell’atomo». Ciò può suggerire, più che ogni mia ulteriore spiegazione, credo, il processo secondo il quale sono costruite le mie opere. Vi è un’idea, il principio di una struttura interna, in espansione e frazionata in diverse strutture o in gruppi sonori che cangiano costante-
mente forma, direzione e velocità, attratte e respinte da diverse forze. La forma dell’opera è il risultato di questa interazione. Le forme musicali possibili sono altrettanto illimitate quanto le forme esterne dei cristalli. Connessa alla controversa questione della forma musicale è la distinzione veramente futile tra forma e contenuto. Non vi è nessuna differenza. Forma e contenuto sono la medesima cosa. Abo-
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lite la forma e non vi sarà contenuto, e se non vi è contenuto vi
è solamente più una giustapposizione di schemi musicali, ma non una forma. Alcuni arrivano al punto di supporre che il contenuto di ciò che si chiama musica a programma si identifichi con il soggetto descritto. Questo soggetto è solamente il motivo apparente
di cui ho parlato, che nella musica a programma il compositore cerca di palesare. Il contenuto è ancora solamente musicale. La medesima diàtriba insensata continua ad aver luogo a proposito di stile e contenuto nella poesia. Potremmo benissimo trasportare in àmbito musicale ciò che Samuel Beckett dice a proposito di Proust: «Per Proust il fattore linguistico è più importante di ogni altro, sia esso etico od estetico. Egli non fa proprio nessuno sforzo per dissociare la forma dal contenuto. L’una è la concrezione dell’altro, la rivela-
zione di un mondo». Rivelare un nuovo mondo è la funzione creativa di tutte le arti, ma l’atto creativo sfida l’analisi. Un compositore conosce così poco come chiunque altro da dove derivi la sostanza del suo lavoro. Come epigrafe al suo libro (Entwwurf einer neuen Aesthetik der Tonkunst, 1907, pubblicato in versione inglese con il titolo di Sketch of a New Esthetic of Music, 1911) Busoni impiega questo verso tratto da un poema del poeta danese Oelenschliger: Cosa cerchi? Dillo! Cosa aspetti? Non lo so; vorrei possedere l’Ignoto! Cosa a me è noto è senza limite; vorrei andare
oltre il conosciuto: l’ultima parola è ancora mancante. (Der mdachtige Zauberer) E così è per l’artista.
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Molto spesso le opere di Ives traggono ispirazione da programmi concettuali o comunque extramusicali che ne condizionano in qualche modo la struttura musicale. Fra queste, alcune rispondono ad una problematica metafisica che Ives sentiva in modo particolarmente intenso. La più complessa di queste rappresentazioni metafisiche avrebbe dovuto essere la Universe Symphony, una raffigurazione cosmogonica di cui Ives lasciò alcuni abbozzi ed un commento su di essi e sul progetto dell’opera; quest’ultimo, contenuto nei Memos, anche se richiederebbe per una sua piena comprensione un’ana-
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lisi degli abbozzi, ci sembra particolarmente rivelativo del figurativismo concettuale del compositore e quindi lo riportiamo integralmente.
Durante il periodo di soggiorno a Keen Valley, sull’altipiano, alla fine del 1915 [...] iniziai a lavorare ad un progetto che avevo in mente da qualche tempo e di cui avevo già steso alcuni abbozzi qualche anno prima, cioè la sperimentazione di un nuovo modo “parallelo” di ascolto della musica, suggerito dall’osservazione di un panorama 1) con gli occhi rivolti al cielo o alla cima degli alberi, completando intuitivamente il paesaggio sottostante o in primo piano - cioè, non concentrando lo sguardo su di esso — 2) quindi guardando il paesaggio terrestre e completando intuitivamente la parte superiore, il cielo. In altre parole, la realizzazione di un brano musicale in due parti eseguite però simultaneamente: le parti gravi (i contrabbassi, i violoncelli, le tube, i tromboni, i fagotti, eccetera) elaborano qualche struttura musicale che rappresenta la terra, e si ascolta innanzitutto quella parte; le parti acute (archi, strumentini, piano, campane, eccetera), invece, rappresentano il cielo ed il firma-
mento. Questo brano sarà eseguito due volte: la prima volta l’ascoltatore concentrerà la sua attenzione sulle parti gravi, sulla musica terrestre, la seconda volta, invece, sulle parti acute, sulla musica celeste. ‘ Tutto ciò mi venne suggerito da poche righe dell’abbozzo di un progetto di una Unzverse Symphony o “L'Universo, Passato, Presente e Futuro” espresso in termini musicali [...]. I. (Passato) Formazione delle acque e delle montagne. II. (Presente) Terra, evoluzione nella natura e nell’umanità.
III. (Futuro) Cielo, l'ascesa di ogni cosa verso la sfera spirituale. [...] La sezione terrestre è rappresentata da linee che partono da diversi punti e con differenti intervalli — una specie di contrappunto irregolare e sovrapposto che talvolta raggiunge 9 o 10 differenti parti che rappresentano gli scogli, le rupi, i boschi e la formazione della terra linee di alberi e foreste, prati, strade, fiumi,
eccetera — e linee ondulate di montagne in distanza che si colgono in un vasto paesaggio [...]. E con questo contrappunto, alcuni stru-
menti appartenenti alla stessa famiglia di quelli che eseguono le linee melodiche sono riuniti in un gruppo che esegue blocchi di accordi costruiti attorno a vari tipi di intervalli ognuno disposto su una linea. Ciò vuole rappresentare la massa terrestre donde sor-
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gono le rocce, gli alberi e le montagne. Da 5 a 14 gruppi di strumenti o di gruppi orchestrali separati, ognuno dei quali deve conoscere la propria parte prima di unirsi al gruppo, poiché le varie linee contrappuntistiche hanno una parte principale e due secondarie. Ogni “continente” ha un proprio accordo esteso formato dagli intervalli: 1) Vedi foglio [si riferisce agli abbozzi. N.d.T.] 2 ed 3) 4° e 5°, eccetera
4) 3° DIO 6) 7° 7) Intervalli armonici perfettamente intonati
8) Armonici superiori perfettamente intonati 9) Scala dell’estensione di 3 ottave senza nessuna ottava (vedi scale a quarti e ottavi di tono)" 10) Accordi a quarti di tono (realizzati con il violino)
11)
Scale tradizionali perfettamente intonate, scalette ben temperate, scale composte da armonici superiori con i gradi il più vicino possibile a quelli determinabili con strumenti acustici, scale i cui gradi sono formati da intervalli più piccoli di un semitono, scale i cui gradi sono più grandi del tono intero, scale senza ottave o senza ottave per diverse Ottave* ma tutte generate da una nota prep
* Intende qui un tipo di scala a quarti di tono di sua invenziBne in cui i vari gradi distano fra loro 5 quarti di tono — un quarto in più, cioè, della scala temperata — per cui, dalla progressiva sfasatura dei gradi rispetto agli intervalli della scala temperata, risulta che la prima ottava di questa nuova scala coincide con la 10% minore della scala temperata (do’ - do” = do’ — mi b”): Scala temperata do
mi b do#
re | ref
mi
badi
| do
do#
do | doè
re
al re
re
mi
Scala a 5 quarti di tono per ogni grado
la
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do
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fissata, 32°, iniziano da un pedale di la, la quinta ottava sotto. La scansione della pulsazione della vita-universale è suggerita dalla sezione percussiva, che esegue futta la sua parte prima che intervenga qualche altra sezione. Tra il gruppo inferiore e quello superiore c’è uno spazio vuoto di 4 toni interi tra il sib naturale ed il mi naturale. [...]. La parte dell'orchestra che rappresenta i cieli ha un suo proprio sistema di accordi, ma il suo contrappunto è di tipo accordale. Ci sono 4 o 5 gruppi in alcuni passi divisi in 4 o 5 sottogruppi. [...].
L’abbozzo di questa parte non è completo e potrei ampliarlo in un’opera più estesa di quella concepita originariamente (o inserirlo nella Universe Symphony con cui è imparentata). Ma i
temi ed il piano generale sono indicati abbastanza chiaramente nell’abbozzo. Voglio terminarlo quest'estate. [...] Sto appunto trattando dell’argomento di cui sopra perché, nel caso non riesca a completarlo, qualcuno possa cercare di portare a compimento questo progetto, e perciò l’abbozzo che io ho già. steso possa aver maggior significato per chi lo stia osservando con questa spiegazione.
10 € JoHN CAGE Al concetto di musica sperimentale Cage ha dedicato diversi scritti. Tra questi riportiamo alcuni passi ritenuti particolarmente significativi, tratti dalle dichiarazioni fatte dal compositore in occasione del congresso ‘della Music Teachers National Association di Chicago nell’inverno del 1957, quindi incluse in Silence e qui riportate nella traduzione di R. Pedio per la raccolta J. C. Silenzio pubblicata da Feltrinelli (1971).
[...] in questa musica nuova non accade niente altro che suoni:
suoni che sono stati scritti e suoni che non lo sono stati. Quelli
che non lo sono stati appaiono, nella musica scritta, silenzi, aprendo la strada della musica a quei suoni che, casualmente, si verificano
nell’intorno fisico. È un’apertura che esiste anche nella scultura e nell’architettura moderna. Gli edifici di vetro di Mies van der
Rohe riflettono l’intorno fisico, offrendo all'occhio immagini di nuvole, alberi o erba, secondo dove si trovano. E quando si guar-
JOHN
CAGE
dano le costruzioni in filo metallico dello scultore Richard Lippold è inevitabile che si vedano altre cose, compresa la gente, se capita che ci siano persone in quel momento, attraverso il reticolo dei fili. Né lo spazio vuoto né un tempo vuoto esistono. Qualcosa da vedere, qualcosa da udire c’è sempre. In realtà, proviamoci con tutte le nostre forze a fare “silenzio”: non ci riusciremo. Talvolta,
per certe finalità tecniche, è desiderabile una situazione il più possibile silenziosa. Un ambiente di questo tipo è detto camera anecoide; le sue sei superfici sono di un materiale assorbente speciale; è una stanza del tutto priva di risonanze. Diversi anni fa entrai, all’Università di Harvard, in una stanza così; e sentivo due suoni, uno alto e uno basso. Quando li descrissi al tecnico di servizio,
m’informò che il suono più alto era il mio sistema nervoso in azione; quello basso il mio sangue in circolazione. Finché non sarò morto esisteranno due suoni: e seguiteranno dopo la mia morte. Non c’è da temere per il futuro della musica. [...] Si deve scegliere. Se non si vogliono abbandonare i tentativi di controllare il suono, si potrà complicare la propria tecnica musicale tendendo ad approssimarsi alle possibilità nuove ed alla nuova consapevolezza. (Impiego il termine “approssimarsi” per-
ché una mente che prenda le misure mai potrà misurare definitivamente la natura). Oppure, come ho detto, si potrà abbandonare ogni intento di controllare il suono, sgomberarsi la testa dalla musica e mettersi a scoprire mezzi che consentano ai suoni di essere se
stessi, anziché veicoli di-teorie umane o espressioni di sentimenti propri dell’uomo. A molti questo progetto potrà apparire temibile ma, esaminan-
dolo, non offre motivodi allarme. n [...] L'emozione si produce nella persona che già la possiede. E i suoni, quando si consente loro di essere se stessi, non esigono che chi li ascolta li ascolti senza alcun sentimento. Quanto si intende per capacità di risposta è appunto il contrario.
Musica nuova: ascolto nuovo. Non il tentativo di comprendere qualcosa che si dice, perché, se qualcosa si dicesse, ai suoni si conferirebbero le forme delle parole. Soltanto un’attenzione all’attività dei suoni. Chi è impegnato nella composizione di musica sperimentale trova modi e mezzi per distaccarsi dalle attività dei suoni che produce.
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Alcuni impiegano operazioni aleatorie, tratte da fonti antiche come il Libro dei Mutamenti (I King) cinese, o moderne come le tabelle dei numeri casuali che anche i fisici usano nelle proprie ricerche. Ora, analogamente al test di Rorschach in psicologia, l’interpretazione delle imperfezioni della carta sulla quale si sta scrivendo può dar luogo ad una musica libera rispetto alla memoria ed alla fantasia di chi la scrive. Si potranno adottare mezzi geometrici basati su sovrapposizioni spaziali che presentino certi scarti rispetto all’esecuzione definitiva. Il campo totale delle possibilità si può ripartire con approssimazione più o meno grande, e i suoni esistenti
all’interno di tali ripartizioni si possono numerare, ma la scelta fra essi si può affidare all’esecutore o al montatore. In quest’ultimo caso, il compositore somiglia a un fotografo che, dopo aver sistemato la macchina, consenta a qualcun altro di scattare la fotografia. Lo sperimentalismo cageano dal campo musicale si estende anche alla sua attività saggistico-letteraria. Non sono infrequenti gli scritti del compositore in cui ricorrono, oltre alle massime della filosofia ze e del proprio credo estetico, strutture grafiche e linguistiche inconsuete determinate da strutture matematiche o da operazioni casuali. Riportiamo, come esempio, uno stralcio della Conferenza su niente, dell’agosto 1959, da Silence (nella traduzione di R. Pedio per l’antologia John Cage. Silenzio cit.), e due note esplicative di Cage. Questa conferenza è stata pubblicata su «Incontri Musicali » dell’agosto 1959.
In ogni riga si hanno quattro misure, e dodici righe in ciascuna unità della struttura ritmica. Tali unità, ciascuna dunque di quarantotto misure, sono anch'esse quarantotto; e si raccolgono in cin-
que sezioni principali, nella proporzione di 7, 6, 14, 14, 7. Le quarantotto misure di ciascuna unità sono pur esse ripartite allo stesso
modo. Il testo è stampato su quattro colonne per facilitarne la lettura ritmica. Ogni riga va letta, attraverso l’intera pagina, da sinistra a destra, e non in colonna, nella sequenza verticale. La lettura non va condotta in modo artificioso (come potrebbe accadere se si tentasse di essere troppo rigorosamente fedeli alla collocazione delle parole sulla pagina), ma con quel rubato che si impiega nella comune conversazione.
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LETTURE
Nota alla Conferenza su niente
Coerentemente con l’idea espressa più sopra, che una discussione non è niente di più di uno spettacolo, ho preparato per le prime sei domande che mi venissero poste, indipendentemente da quali fossero, sei risposte. Nel 1949 o ’50, quando tenni la conferenza per la prima volta (all’ Artists’ Club, come ho accennato nella nota introduttiva), furoro, di fatto, sei domande.
Ma nel 1960, quando ripetei la conferenza, dopo due domande il pubblico capì e, non volendo uno spettacolo, si astenne dal chiedermi altro. Le risposte sono:
1. È un’ottima domanda. Non vorrei rovinarla con unarisposta. 2. La testa ha intenzione di dolermi. 3. Se lei avesse ascoltato nell’aprile scorso, a Palermo, Marya Freund che cantava il Pierrot Lunaire di Sch6nberg, mi chiedo se mi avrebbe domandato questo. 4. Secondo Barbanera è falsa primavera. 5. Può ripetere la domanda, per favore? ancora una volta?... ancora una volta?... 6. Non ho altre risposte. 11
ELLIOTT CARTER
Si riporta la conversazione introduttiva di Elliott Carter per prima esecuzione del suo Quintetto per ottoni nell'àmbito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Ives (BBC, 20 ottobre 1974). L’occasione lo ha stimolato ad un suggestivo flashback sui suoi anni giovanili e sul rapporto di amicizia e di stima che lo legava al patriarca della musica americana, Charles Ives: una presenza spirituale che ritorna costantemente negli scritti di Carter, la presenza di un maestro mitico che non poteva però diventare modello linguistico per il salto generazionale che li separava. Ugualmente suggestiva ed emblematica è la seconda esplicazione del Quintetto, simile, per certi versi, a quella che Ives ci offre del suo Secondo Quartetto. Con la differenza che, mentre in Ives veniva assunta una metafora colloquiale, di quattro amici che parlano fra loro, in Carter la metafora è musicale («l’incontro di cinque suonatori di strumento a fiato che si sono trovati per suonare della musica lenta e solenne»): dall’idealismo metaforico al pragmatismo dell’action playing. La lettura è tratta dal volume su Carter a cura di E. Restagno (EDT, Torino 1989, pp. 281-283).
ELLIOTT
CARTER
Sono particolarmente felice che la prima mondiale del mio Quintetto per ottoni venga eseguita nell’ambito delle celebrazioni della BBC per il centenario della nascita di Ives, lo ritengo un tributo che gli spetta per tutto quanto gli devo sia sul piano musicale sia su quello personale. Nel 1924-25, quando facevo i miei goffi tentativi giovanili come compositore, Ives, che io ero solito vedere, mi incoraggiò e inoltre per molti anni si interessò alle mie aspirazioni di musicista. La sua personalità straordinaria mi è sempre stata di grande ispirazione e anche più di questo lo sono state le copie della Concord Sonata, dei 114 Songs che aveva fatto stampare a proprie spese, e la copia fotostatica della Primza Sonata per vl. che mi diede e che furono sempre la mia bibbia in quegli anni di formazione e, se pur con qualche perplessità, sempre di grande stimolo. Ricordo con chiarezza il nostro ultimo incontro quando, studente universitario, avevo incominciato a scrivere quel genere di musica neoclassica alla maniera di Hindemith, tipica dell’atteggiamento ribelle degli allora giovani compositori contro le dissonanze e le confuse tessiture romantiche del periodo precedente. Dopo aver esaminato una piccola sonata per pianoforte, forse un po’ deluso, mi portò a fare una passeggiata nei boschi che guardavano sulle valli di Redding, nel Connecticut, dove egli soleva trascorrere le vacanze estive. La natura era nel pieno del suo rigoglio, e io ricordo bene il sole a macchie sui sentieri e sui sassi e il suo volgersi verso di me tutto a un tratto per dirmi qualcosa del tipo: «Come si può negare che ci sia una grande personalità dietro tutto questo?», esprimendo così la sua visione panteistica che io conoscevo già molto bene. Visto ripensandoci, ciò avrebbe potuto essere una specie di rimprovero nei riguardi della musica piyttosto artificiosa che io cercavo di scrivere, ma sul momento, sopraffatto dalla
bellezza di quella giornata e dal profondo rispetto per l’uomo Ives, non la pensai così, pur rendendomi conto che le nostre direzioni cominciavano ad allontanarsi. E tuttavia mi accorgo che molte delle nostre finalità erano simili, specialmente per quel che riguarda l’interesse primario per la capacità espressiva della musica. Nel mio caso questa qualità si può elevare, concentrare, e anche enfatizzare se necessario, sia nei detta-
gli sia in una relazione più ampia, in un modo che Ives non considerò sempre interessante. Anche a me, come a lui, piace scrivere
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musica costantemente varia e mutevole, ma nei limiti di un carattere sonoro e di uno stile musicale più concentrato e coerente di quanto stesse a cuore a Ives. Venendo poi in un periodo poste-
riore io mi sono preoccupato molto più della flessibilità e della varietà del tessuto e del suono, mentre Ives, come molti altri dei primi modernisti, si affidò talvolta a procedimenti quasi di routine per creare dissonanze, come il pedante canone di From the Steeples and Mountains, o l’uso rigidamente sistematico d’armonie costruite su intervalli diversi dalle terze, quali si trovano in The
Fourth of July e nella canzone Soliloquy. Diversamente da lui, mi sono impegnato a trovare un linguaggio che servisse a esprimere questa visione speciale che, peculiare di ogni lavoro, gli conferisce una propria identità, differenziandolo da tutti gli altri. Per questa ragione ho evitato la citazione deliberata di altre musiche, eccetto che in quell’unico caso che è il mio Quartetto per archi n. 1 del 1951 in cui ho citato il tema di apertura della Prizza Sonata per vl. di Ives, come tributo al compositore le cui opere hanno ispirato alcune delle ideè generali della mia musica. E invero la musica di Ives è una delle fonti del concetto di tessuto stratificato su cui mi sono impegnato fin dal 1948, avendo naturalmente utilizzato, come altre fonti, le opere di Mozart, di Verdi e di Musorgskij. Il Quintetto per ottoni, che ascolterete fra poco, fu scritto l'estate scorsa per gli attuali esecutori, l'American Brass Quintet. È rappresentativo di molte delle cose che ho detto. Essendo come il mio Quartetto per archi n. 2 quasi costantemente pluristratificato, separa
gli esecutori distinguendone le parti, ma non in modo còsì netto come nel quartetto d’archi, poiché ciascuno strumento condivide parte del suo repertorio con uno degli altri. La prima tromba, per esempio, quasi all’inizio suona in trio con la seconda tromba e il trombone tenore mettendo in evidenza una sesta minote con accordi leggeri e irregolari il cui carattere e intervallo divengono parte del repertorio dei tre strumenti partecipanti. Un po’ più tardi la prima tromba suona un altro trio con il corno e il trombone basso, che
tratteggia delle fanfare e una musica maestosamente calma basata su una quinta regolare, che diventa poi parte del repertorio di questi tre strumenti. Il corno, comunque, che ha la parte più estesa di tutti, usa sovente anche la quarta aumentata che non condivide con nessuno degli altri. Tutti questi caratteri contrastanti e i loro relativi intervalli musi-
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CARTER
cali formano un pezzo pluristratificato costruito secondo il seguente modello: ogni intervallo di terza (cioè la prima, la quarta, la settima, ecc.) delle sue 19 brevi sezioni accavallantesi, è un breve insieme di cinque parti a piacere in cui gli strumenti si oppongono
l’un l’altro con le parti contrastanti dei loro singoli repertori. Tra questi si trova un duo preceduto o seguito da un trio in cui i due o tre strumenti si riuniscono in una musica di carattere simile. Cia-
scun duo e ciascun trio hanno una differente strumentazione. Tanto per chiarire il disegno generale descriverò la forma di alcune delle sezioni iniziali. Il quodlibet iniziale comincia come se ci fosse un movimento lento, ma viene all’improvviso interrotto dal corno. Ciò provoca un’esplosione di suono di tutti e cinque gli strumenti, che partecipano ciascuno con una frase caratteristica. Immediatamente comincia il primo trio con le due trombe e il trombone tenore che suonano accordi brevi e lievi con un ritmo irregolare, mentre il corno e il trombone basso continuano la musica lenta dell’inizio. Queste ultime due si fermano per un momento e poi cominciano un duo veloce,.un po’ arruffato, in cui il trombone basso prende una posizione di guida. Il trio continua ancora al di sopra, si ferma e poi riprende la musica lenta che porta al secondo quodlibet. Questo schema generale è seguito per quasi tutto il pezzo con varianti di enfasi, di tempo e naturalmente con contrasti di espressione e di carattere. A un certo punto, per esempio, le due trombe e il corno suonano una musica bassa, rapida, scorrevole
che subito si combina con un duetto dei due tromboni che suonano dei glissando. Il disegno generale viene interrotto a metà dell’opera da un “a solo” del corno abbastanza lungo e senza accompagnamento, che viene troncato dalle irose ottave degli altri strumenti. La musica lenta che inizia il,.pezzo e forma la musica di fondo dei primi tre quodlibet viene abbandonata dopo l’ultimo di questi, per ritornare in forma più estesa solo alla fine. Tutta la composizione si può ascoltare infatti come un lungo movimento lento con delle interruzioni. C’è però anche un altro modo di ascoltare il pezzo: considerarlo come l’incontro di cinque suonatori di strumenti a fiato che si sono trovati per suonare della musica lenta e solenne. Non appena cominciano l’esecuzione, entrando l’uno dopo l’altro, l'elemento debole del gruppo, il corno, intercala motivi banali, di rottura, che sconvolgono momentaneamente il piano costruttivo. Data l’atmo-
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sfera di discordia che sorge tra i suonatori, ciascuno inizia a farsi avanti, unendosi agli altri in piccoli gruppi mentre gli elementi esclusi cercano di riprendere la musica lenta. I duo e i trii lievi, comici, scorrevoli, agitati o lirici, che si sono uditi tra i passaggi in cui tutti e cinque altercano, gradualmente si allontanano dal progetto di suonare musica lenta. A metà esecuzione il corno deplora la sua estraniazione in un lungo “a solo” non accompagnato che provoca negli altri un duo per trombe minaccioso e un irritato trio per tromboni e corno. Tutto ciò porta a un violento bisticcio che viene alla fine composto da un accordo per continuare la musica lenta dell’inizio. Dopo un lungo spazio di concordia i suonatori cominciano nuovamente a essere in disaccordo; il trombone tenore,
che a differenza degli altri non ha mai avuto un “a solo”; l’interrompe per eseguire il suo, che è accompagnato da una tromba con la sordina. C’è una conclusione improvvisa e aggressiva. Questo Quintetto, piuttosto che sfruttare tutte le risorse di
colore possibili con le moderne sordine per ottoni, si avvale soprattutto della materia lineare dei tessuti e del virtuosismo strumentale per cui è famoso l’American Brass Quintet.
12 € PHILIP GLASS
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Le riflessioni estetiche di Philip Glass sulle esperienze musicali e teatrali che condussero alla creazione di Einstein on the Beach, primo pannello del trittico minimalista del musicista, sono una testimonianza moltò igteressante di un atteggiamento pragmatico tipicamente americano, che volge ad esiti di comunicazione spettacolare postmoderna poetiche maturate nell’èmbito dell'avanguardia europea. Il brano è tratto da Opera on the Beach (Faber and Faber, Londra 1988).
Bob ed io potemmo imbarcarci fiduciosi in un lavoro di così vaste proporzioni qual è Einstein on the Beach, composto da così tanti elementi inusuali, per un unico motivo: molto di ciò che noi conoscevamo del teatro (e delle teorie estetiche contemporanee relative) lo avevamo appreso da una generazione precedente la nostra; una generazione alla quale appartenevano diverse fra le più grandi personalità creative ancora in piena attività. Bob spesso mi diceva
che il mondo della danza aveva avuto un ruolo molto importante
T ARTZZONN
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nella maturazione del suo pensiero, specialmente i lavori di George Balanchine e di Merce Cunningham. Per me un effetto pressoché identico aveva sortito la rivelazione del nuovo teatro europeo di Brecht e di Beckett, e le dirette esperienze di lavoro in quell’èmbito. Premessa indispensabile alla nostra collaborazione era stato il principio che toccava al pubblico completare l’opera. Affermazione che non è una semplice metafora, che noi intendevamo in senso affatto letterale. Nel caso di Einstein on the Beach il “racconto” risultava dai percorsi immaginativi del pubblico, e noi non potevamo in alcun modo prevedere, anche se lo avessimo voluto, quale poteva essere il racconto adatto ad ogni singola persona. Ero giunto a questa determinazione attraverso le mie prece-
denti esperienze teatrali con il gruppo dei Mabou Mines, formatosi a Parigi nel 1965: esperienze che furono di importanza cruciale per me, perché radicarono sul solido terreno della pratica teatrale il mio approccio che si stava sviluppando in senso puramente teorico.
Un’esperienza che è stata per me particolarmente memorabile fu la collaborazione a Play di Samuel Beckett. Questo affascinante dialogo a tre si svolge dopo la morte dei tre personaggi. Si vedono le loro facce in cima a tre urne funerarie - due donne ed un uomo — e, in tre separati monologhi che si interrompono continuamente,
essi raccontano la storia del loro triangolo amoroso, mentre i riflettori si spostano da una faccia all’altra facendo scattare le diverse narrazioni. JoAnne Akalaitis, Ruth Maleczeck e David Warrilow erano gli attori, Lee Breuer il regista, ed io scrissi la musica: una serie di cinque o sei pezzi brevi separati da identici periodi di silenzio. ; La musica di P/ay, come l’ho testé descritta, consisteva semplicemente di due parti sovrapposte, ognuna composta di due note. Lavorando con Jack Kripl al saxofono soprano registrammo un brano che durava un’ora, quanto il dramma teatrale, e forniva ad esso un mosaico sonoro di sottofondo. Per quanto concerne la sola musica, era il primo di una serie di brani minimali e ripetitivi che mi occuparono negli anni seguenti, e indicò la direzione che l’ensemble prese infine, tre anni dopo. La prima messa in scena parigina fu rappresentata diverse volte; le due dimensioni gli permettevano di adattarsi ad ogni genere di piccolo spazio teatrale. In seguito, Play fu rappresentato spesso a New York, a La Mama.
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Di conseguenza assistetti a tante e.tante rappresentazioni e ascol-
tai la musica registrata da sola ed assieme al dramma: un’altra esperienza che incise sulla mia formazione.
Come musica di scena, Play sortì un effetto cruciale sul mio pensiero. Scoprii, durante le diverse rappresentazioni, che ogni volta fruivo la musica in modo diverso. Più esattamente, mi accorsi che l’intensificazione emotiva (o epifania) del lavoro sembrava acca-
dere in momenti diversi del dramma ad ogni rappresentazione, nonostante tutti gli elementi del dramma, luci, musica e parole, fossero rigorosamente fissati e ricorressero quindi allo stesso modo e con le stesse cadenze in tutte le rappresentazioni. Questo fatto mi lasciò stupefatto ed al tempo stesso mi incuriosì non poco, poiché il teatro tradizionale “funziona” in modo molto diverso. Ogni volta che assistete ad una rappresentazione di Arzleto, ad esempio, la catarsi, o il punto di massima tensione
emotiva del dramma cade sempre allo stesso punto. Si può dire che un dramma classico o tradizionale sia una macchina costruita in un dato modo per far sì che l’acmé emotiva cada sempre nel punto stabilito dall’autore. Le diverse messe in scena, ivi compresi gli elementi scenici, i costumi, gli stili interpretativi delle diverse scuole, sono concepiti in modo che la macchina funzioni con precisione. Questa eredità del teatro occidentale risale all’epoca greca: nella Poetica di Aristotele queste regole drammatiche sono fissate in modo preciso. Può risultare stupefacente quanto esse siano durate nel tempo, ma a ripensarci non è poi così sorprendente perché, dopo tutto, si tratta di meccanismi psicologici che al tempo stesso coinvolgono in modo profondo su un piano personale e in modo estensivo su quello universale. Ma per me il punto focale della questione era questo: messo di fronte a Play di Beckett, ero costretto a constatare che il meccanismo psicologico funzionava in modo molto diverso dai lavori strutturati secondo criteri più tradizionali. Altrimenti, perché e come potevo fruire Play in modi così differenti ad ogni diversa rappresentazione?
Questo fatto mi colpì profondamente per parecchio tempo, ed alla fine trassi la conclusione che Beckett agiva su di me in quel modo perché ron era un oggetto teatrale munito di un meccanismo interno che serviva a suscitare una specifica risposta; mi venne in mente che l'emozione del teatro di Beckett non risiedeva we/
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lavoro drammatico in modo che desse l’avvio ad un complicato processo di identificazione per far scattare la risposta. È questa identificazione con un dramma (0, più precisamente, questa fusione fra noi e la persona drammatica) che sta realmente alla base del teatro tradizionale. No, Play funzionava in modo diverso. Per dirla semplicemente, Play di Beckett non esiste separatamente dallo stretto rapporto con lo spettatore, che è inglobato, fa parte integrante del contenuto del dramma. È questo il meccanismo al quale ci riferiamo quando affermiamo che il pubblico “completa” il lavoro. La scoperta, la novità di P/zy di Beckett è questo inglobarci, come pubblico, in un modo diverso rispetto al teatro tradizionale. Invece di sottopotci un meccanismo interno insito nel lavoro, ci permette, con la nostra presenza, di entrare in relazione
con il dramma, di completarlo, di personalizzarlo. La potenza drammatica del lavoro è direttamente proporzionale al grado in cui noi riusciamo a personalizzarlo. Estendendo la teoria di Beckett ad altri àmbiti, non sarebbe
troppo azzardato affermare che gli oggetti artistici — siano essi quadri, quartetti o drammi - non esistono, non funzionano per se stessi
in quanto tali, come entità astratte. Funzionano ed acquistano significato soltanto quando si trovano in presenza di qualcuno che li fruisce. Messa la cosa in questo modo, si può rispondere con molta facilità a quel vecchio indovinello. Quando l’albero cade nella foresta produce un suono se non c’è nessuno che lo ode? La risposta, naturalmente, è: no. Tuttavia molta gente ancora si comporta come
se l’arte in qualche modo avesse una propria esistenza indipendente. L’arte e la cultura sono invenzioni. Noi le produciamo, altrimenti non esistono. Viviamo in contatto così stretto con la nostra
cultura che pensiamo all’arte come a qualcosa dotaterdi una propria esistenza indipendente, come ad un fatto naturale. Ma non è così. Non ho alcun dubbio che se un uomo vivesse da solo abbastanza a lungo, cesserebbe di produrre oggetti artistici perché l’arte ha a che fare con la gente. Ovviamente, nessuno vive completamente solo, isolato dalla società circostante. Anche un eremita si
porta con sé la società nel suo romitaggio. La società umana e la cultura sono fatte di cose che la gente crea assieme, e questo principio è vero per l’arte come per qualsiasi altra cosa [...]. Iniziando da quel lavoro di Beckett a Parigi, nel 1965, cominciai a trovare il mio modo di concepire la musica ed il teatro in
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sincronia con una visione autenticamente contemporanea. Mi ispirò l’idea di un contenuto artistico collegato alle relazioni che noi instauriamo con esso, un’idea che è alla base di un’estetica autenticamente moderna, o forse postmoderna. Un’estetica che, inoltre, col-
lega gli artisti attivi in ogni campo dell’arte agli altri àmbiti del pensiero contemporaneo: quello filosofico, quello scientifico, quello psicologico. Tra il 1965 ed il 1975, per dieci anni produssi lavori musicali e teatrali che, nella maggior parte dei casi, si sono basati su questi principi. Einstein on the Beach è stato l’ultimo passo su un sentiero che avevo imboccato diversi anni prima.
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Oltreché compositore, pianista e direttore d’orchestra, Leonard Bernstein era anche un brillantissimo divulgatore radiofonico e televisivo. I suoi scritti, spesso elaborazioni di tali interventi, ne conservano l’immediatezza e la verve. Perché non scrivi una bella canzone alla Gershwin? (Aprile 1955), che fa parte della prima e più popolare raccolta di scritti, emblematicamente intitolata The Joy of Music (La gioia della musica, Simon and Schuster, New York 1959, e, in trad. it., Longanesi, Milano 1982, pp. 38-44) è una gustosissima “intervista immaginaria” a se stesso, cui fa da spalla un PM (Professional Manager) che, trovando le sue canzoni troppo artificiose, lo stimola a «scrivere per la gente, non per i critici», a «imparare ad essere semplice» sul modello di Gershwin. È così introdotto il tema principale, il contrasto fra la diversa creatività del compositore di estrazione colta e di quella del musicista popular; la pars destruens, la critica alla naiveté delle e@mposizioni orchestrali di Gershwin che ambiscono alla sfera “colta”, è un esempio quanto mai tipico di un preconcetto molto radicato nella cultura americana, almeno fino a poco tempo fa, che tende a separare la parte “genuina” della creatività gershwiniana, da quella “artificiosa”, anziché considerare entrambe dall’ottica, unica e unificante, della comunicazione spettacolare.
(Attraverso le vetrate dell’ English Grill di Radio City si vedono i pattinatori che girano sulla pista di ghiaccio evitando, miracolosamente, di scontrarsi fra loro. Impossibile seguirli per più di qualche secondo mentre piroettano e poi si dissolvono nella luce accecante del sole invernale. Le uova in camicia sono già scomparse dai nostri piatti e la seconda tazza di caffè ci consente, provvisoriamente, di sfuggire all’inevitabile conversazione. La colazione con
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P.M. è uno di quegli avvenimenti accidiosi che vengono imposti dall’obbligo sociale newyorchese di far colazione “una volta almeno”, e a qualsiasi costo, con qualcuno del mondo dei propri affari. Come se mangiare assieme per novanta minuti servisse a cementare qualsiasi relazione, ogni relazione, per tenue che sia. P.M. è quel che nell'ambiente viene chiamato un manager di professione: lo sciagurato deve far sì che la musica pubblicata dalla sua ditta venga effettivamente eseguita. Questo esige che egli debba conoscere, più o meno intimamente, un esercito di esecutori e
almeno qualche compositore. Ai suoi tempi doveva essere stato un uomo ben piantato, forte, pieno di energia e di ideali, di idee giovani e circonfuso di gloria per gli stretti legami che lo univano ai
giganti dell’età dell’oro delle canzoni di grande successo. Ma i molti anni trascorsi l'avevano esaurito riducendo le sue idee a formule;
gli ideali erano sepolti nel passato e la sua forza di persuasione s’era molto affievolita. Eppure conosce, è affezionato a due generazioni di musica popolare americana; il che gli conferisce un certo calore, un certo zelo e una funzione nella vita. Tutto sommato a me il tipo piace. Ma perché mi ha invitato a colazione? Abbiamo già passato in rassegna tutti gli argomenti disponibili e ho il sentore che voglia parlarmi di qualcosa in particolare, ma non sa da dove cominciare. Nel Grill tutti conversano, alcuni animatamente, altri celiando. Il nostro interesse, invece, sembra fissato a un pendolo che oscilla
fra due punti: i pattinatori sulla pista da un lato, la tazza di caffè
dall’altro. Non potendone più, rompo il silenzio.) L.B.
Come vanno gli affari? (È una domanda nata morta ma
P.M. ne è grato lo stesso: è servita a qualcosa.)
P.M. Gli affari? Be, sai, la musica stampata non'si vende più come ai bei tempi! Oggi ci sono i dischi. L'editore non è più un editore ma un agente. Stampare è l’ultima cosa. L.B. (incalzando, con eccessiva impazienza) Ma questo dovrebbe produrre buoni affari, no? La cosa essenziale è di avere la musica, averne i diritti... P.M. Certo, ma avere i diritti di una musica non ne garantisce la vendita. Prendi per esempio la musica del tuo ultimo musical. (Eccola ragione dell'invito a colazione. Ma io faccio lo gnorri.) L.B. Il mio musical?
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P.M. (premuroso)
Come sta andando?
L.B. (come se fosse un altro argomento) sere fa e sembra ancora fresco.
Bene, ci sono stato due
P.M. (con cautela) È strano, molto strano quel che succede col tuo musical. È un grande successo, piace al pubblico, tiene il cartello da cinque mesi e non c’è una sola canzone che sia diventata popolare. Come lo spieghi? (La bomba è scoppiata, il polso si accelera.)
L.B. E debbo essere io a spiegarlo? Non è piuttosto il tuo mestiere? Sei tu che vendi canzoni al pubblico. La popolarità di una canzone dipende dal modo in cui vien messa in vendita. Non domandare a me; io sono solo il vecchio compositore. P.M. Non riscaldarti. Se fossi stato in questo mestiere a lungo quanto me, sapresti che ogni cosa presenta due aspetti. Non c’è
costrutto a dare la colpa a questo o a quello. Il successo di una canzone popolare è dato da una combinazione di fattori: la sua bontà, il lancio da parte di un buon cantante, il momento giusto e l'aggressività dei sistemi di vendita. Ora, non è sempre possibile averli tutti insieme questi fattori. Nel caso tuo, abbiamo fatto il nostro massimo sforzo. Non ricordo esattamente quando... L.B. Vabene, ho capito. Vuoi dire che il materiale consegnatovi non era di buona qualità. Non pretendo giustificazioni. Io non scrivo canzoni commerciali, questo è tutto. Perché non lacerate il mio contratto? P.M. Andiamo L.B., oggi sei d’umor nero. Non ti ho invitato
a colazione per farti arrabbiare. Tutti vogliamo fare ‘del nostro meglio per la tua musica, è vantaggio reciproco. Ho pensato che avremmo potuto parlarne un po’ con calma, costruttivamente e, chissà, venirne fuori con qualcosa che potrebbe... L.B. Mi dispiace, ma sono piuttosto sensibile su questo argomento. Certo sarebbe piacevole sentire una volta tanto qualcuno fischiettare per caso qualcosa di mio, una sola volta almeno. P.M.
TI capisco.
L.B. Io m'illudevo che nella partitura ci fossero almeno tre canzoni destinate all'immediato successo popolare. E non si sentono mai, né alla radio, né alla TV. Qualche registrazione dimenticata, una con la Muzak, mi sembra, e questo è tutto. Devi ammet-
tere che è un po’ deprimente.
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P.M. Via, su. Pensa a quei compositori che non hanno mai scritto canzoni di grande successo e nemmeno la musica per un musical di grande successo. Tu sei fortunato, lo sai? E non dovresti lamentarti. Non tutti possono scrivere Booby Hatch e vendere un milione di dischi in un mese. Pensa un po’, ricordo, che George
diceva sempre... L.B. George chi? P.M. Gershwin naturalmente. Quale altro George esiste? L.B. Grazie. Ora, mi parli di un uomo che aveva il tocco magico. Non so come facesse ad avere tutti quei successi. C’è gente che ci riesce sempre, per loro è come respirare. Non riesco a capire.
P.M. (affondando nell'argomento) Be’, visto che l’hai toccato tu stesso questo tasto, non sarebbe una cattiva idea da parte tua pensarci un po’ su qualche volta. Cerca di imparare da George.
Le tue canzoni sono troppo artificiose, questo è tutto. Un piccolo effetto dissonante nell’accompagnamento fa felice te e i tuoi amici intellettuali, ma pregiudica il grande successo. Sei troppo imbrigliato in accordi insoliti, strani passaggi della linea melodica e forme eccentriche. Sono soltanto un gioco col quale ti diverti. George non ci pensava affatto: scriveva motivi, dozzine di motivi, sem-
plici motivi che la gente poteva cantare e ricordare per cantarli di nuovo. Scriveva per la gente, non per i critici. Tu devi imparare a essere semplice, ragazzo mio. L.B. E tu credi che sia semplice essere semplice? Per niente. Mi ci sono provato con accanimento per anni. Dopotutto, non è
la prima volta che mi sorbisco questa lezione. Qualche settimana fa un compositore serio, mio amico, e io parlavamo proprio di questo, e non riuscivamo a persuadercene. Perché non dovremmo, anche noi, essere capaci di scrivere una canzone di graide SUCCESSO, ci chiedevamo, visto che il livello medio è così basso? Ne con-
cludemmo che l’unico mezzo era quello di metterci nello stato mentale di un idiota e scrivere una canzone ridicola qualsiasi. Ci mettemmo al lavoro decisi, impegnandoci a scriverne migliaia, senz'altro fare che i semplici di mente. Lavorammo per un'ora poi dovemmo interrompere, in preda a disperazione isterica. Era impossibile. Dovemmo constatare che continuavamo a “esprimere noi stessi”, nonostante tutti gli sforzi possibili per inventare una musica semplice, di quel basso livello mentale sul quale cercavamo
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di porci. Ricordo che a un certo punto cominciammo a fare come i bambini, cercando di trovare un motivo una nota per volta, un
motivo che non avesse nemmeno bisogno di armonia. Arrivammo a tale degradazione. Niente. Fu un esperimento rivelatore, lo ammetto, anche se ci lasciò con la vaga sensazione di essere condannati all’insuccesso. Come dicevo prima, perché non annullate il mio contratto? P.M. (con il tono di un allenatore di pallacanestro) Macché insuccesso. Scommetto un mese di stipendio che se veramente ti ci metti
puoi scrivere un motivo semplice: ma da solo, non insieme con un altro compositore. Dopotutto, George era come te, un intellettuale, con un piede nella Carnegie Hall e l’altro nel Varietà*. Scrisse anche musica da concerto, e questa era tutta imbastita di armonie capricciose, di contrappunto e orchestrazione. Ma sapeva quando
doveva essere semplice e quando no. L.B. Credo che ti sbagli. Gershwin era un uomo del tutto diverso. Non c’è nessuna relazione fra lui e me. P.M.
Tu sei modesto, o vuoi fare il modesto. Dopo l’ultimo
tuo musical, quel critico non dichiarò che forse eri il secondo Gershwin, un nascente Gershwin o qualcosa del genere? L.B. (segretamente lusingato) Questo era soltanto nella testa del critico, ma non trova nessuna corrispondenza nella realtà dei fatti. In effetti, Gershwin e io provenivamo da punti opposti, e se capita che c’incontriamo è puramente per l’amore che nutro per la sua musica. Tutto qui. Gershwin era un compositore di canzoni che diventò un compositore di musica seria. Io, invece, sono un compositore di musica seria che cerca di comporre canzoni! Lui seguì una strada che di gran lunga è la più giusta: iniziò dalle forme musicali minori e di lì si sviluppò. La mia traiettoria è confusa: io ho composto una sinfonia prima di scrivere una sola cànzone di successo. Come puoi pretendere che io abbia il suo tocco di semplicità? P.M. (paternamente) sciuto?
L.B.
Ma George... A proposito, l’hai cono-
Mi sarebbe piaciuto, ma morì quando io ero ancora un
ragazzo, a Boston.
* Nel testo «Tin Pan Alley»: quartiere di città statunitense, in particolare New York, dove erano generalmente concentrati gli editori di musica leggera. [N.d.T.].
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P.M. (con sguardo illuminato) Se l’avessi conosciuto avresti capito che George era in tutto e per tutto un compositore di musica seria. Pensa alla Rapsodia in Blue, all’Americano a...
L.B. Un momento P.M. Sai meglio di me che la Rapsodia non è una composizione. E una successione di episodi diversi messi assieme con una colla leggera di acqua e farina. Comporre, dopotutto, è cosa assai diversa dallo scrivere motivi di canzoni. Trovo che i temi, o i motivi, chiamali come vuoi, della Rapsodia sono splen-
didi, pieni d'ispirazione, doni di Dio veri e propri; almeno quattro di essi, e non è dir poco per un pezzo che dura dodici minuti. Sono perfettamente armonizzati, di proporzioni impeccabili, orecchiabili, limpidi e pieni d’intenso sentimento, e i ritmi sono sempre giusti. Sono tutti di “qualità”, come i suoi migliori motivi di musical. Ma non basta mettere insieme quattro motivi, anche se di divina ispirazione, e chiamare il pezzo una composizione. È vero che comporre significa mettere insieme; ma messi insieme, i vari
elementi debbono formare un tutto che si integra organicamente. Compono, componere...
P.M. Risparmiaci il tuo latino. Vuoi dire che la Rapsodia în Blue non è un lavoro otganicamente concepito? Non è possibile! Ma se in ogni battuta circola la stessa linfa, dal principio alla fine, attraverso tutti i cambiamenti di umore e di tempo. Vi si respira l’aria dell’ America: la gente, la società cittadina che George conosceva bene, il ritmo della sua vita, la nostalgia, il nervosismo, la maestosità e... L.B. ...gli sviluppi alla Cajkovskij, le tortuosità debussiane, i fuochi di artificio pianistico alla Liszt. È americana quanto vuoi, se consideri i temi a sé stanti, ma appena scatta quel piccolo con-
gegno che si chiama sviluppo, ecco che l’America vola via dalla finestra e Cajkovskij entra dalla porta con tutti i suoi seguaci. Il guaio è che la vita di una composizione dipende dal suo sviluppo. P.M. Vorrei un’altra tazza di caffè. Cameriere! L.B. Anch'io. Non era mia intenzione mettermi a parlare di tutte queste cose, e non voglio certo calpestare i piedi d'argilla del tuo idolo. È anche il mio idolo, ricordalo. Credo che non ci sia stato un melodista con un'ispirazione come la sua dal tempo di Cajkovskij, sè vuoi sapere come la penso. Lo considero al livello di uno Schubert e degli altri grandi. Ma se tu vuoi parlarne come di
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un compositore, questa è un’altra faccenda. La “tua” Rapsodia in Blue non è una composizione nel senso che ciò che vi accade sia inevitabile, o quasi. Tu puoi toglierne una parte senza danneggiare l'insieme, l’abbrevi soltanto. Prova a togliere una qualsiasi delle parti che la compongono e il pezzo procede lo stesso, benissimo. Puoi anche cambiare la posizione delle parti senza arrecar danno all’insieme. Puoi perfino tagliare una delle parti, aggiungere nuove cadenze o suonarla con una combinazione qualsiasi di strumenti, anche solo col pianoforte; può diventare un pezzo di cinque, sei o dodici minuti. Ed è proprio quello che fanno ogni giorno. E rimane sempre la Rapsodia in Blue. P.M. Bada che quello che dici potrebbe essere un grosso elogio. Se un pezzo è così solido, compatto, da sopportare-qualsiasi intervento senza perdere valore intrinseco, deve avere una salute di ferro. Ci deve essere qualcosa che resiste a ogni attacco, una autenticità, una vitalità, non ti pare?
L.B.
Certamente: sono quei motivi bellissimi, che però messi
insieme non riescono a formare una composizione.
P.M. Magari hai ragione sulla Rapsodia: è un lavoro giovanile, dopotutto, il suo primo tentativo di comporre musica in una forma più estesa; aveva soltanto 26 anni o giù di lì, non dimenticarlo; quando la scrisse, non era nemmeno in grado di orchestrarla. Ma che ne dici dei suoi lavori successivi? Dell’ Arzericano a Parigi. Non
c'è dubbio che sia ben tessuto, organicamente... L.B. Hai ragione. A poco a poco i suoi lavori miglioravano perché era intelligente, era uno studioso serio e lavorava con impe-
gno. Ma anche l’Americano a Parigi è uno studio su motivi: motivi belli che rimangono separati e disgiunti. Nel frattempo però aveva scoperto alcuni trucchi compositivi: il modo di legare i temi fra loro, di combinarli insieme sviluppandoli e di ottenere una struttura orchestrale. Ma questi sono trucchi presi in prestito da Strauss, Ravel e chi sa da chi altro. Tutto considerato, rimane un pezzo debole, perché nessuno di questi trucchi era farina del suo sacco. Non sono dettati dalla natura stessa della musica, ma son presi in prestito e applicati a essa: come appliques su un vestito. All’ascolto,
il primo tema è un godimento; poi, durante il periodo di connessione, cioè durante “la imbottitura”, rimani in attesa del secondo.
E questo succede per due terzi della composizione. L'altro terzo
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è bellissimo, perché formato dai tempi stessi. Ma dov'è la composizione? P.M. (cor astuzia)
Ls:
Ma tu la dirigi sempre, no?
BiapCerto:
P.M. E l'hai perfino incisa. inBnsGerto:
P.M. Ma allora ti deve piacere. L.B. L’adoro. Ah, ecco il caffè. P.M. (cor un sospiro) Non ti capisco. Come puoi adorare qualcosa che critichi per ogni verso? Come puoi amare una cattiva composizione? L.B. Ciascuno è portato a distruggere ciò che ama. Certo, penso che si possa amare una cattiva composizione per ragioni non
compositive, per ragioni di sentimento, di associazioni evocate, per lo spirito che l’anima. Ma credo che Ur americano a Parigi mi piaccia soprattutto per la sua sincerità: c'è uno sforzo tremendo per riuscire a essere una buona composizione. È pieno di buone intenzioni.
P.M. Insomma, ti piace per i suoi difetti. L.B. No. Ma ciò che ha di buono è tanto buono da risultare irresistibile. Se per aver grano devi mietere anche la gramigna, vale la pena mieterla. Io l’amo perché ci indica quello che Gershwin avrebbe fatto se fosse vissuto. Guarda il progresso dalla Rapsodia al Concerto in fa per pianoforte, e dal Concerto a... P.M. (raggiante) Ah, il Concerto in fa è un capolavoro!
L.B. Locredi tu. Il Concerto è il lavoro di un giovane di genio che fa rapidamente progressi. Ma solo con Porgy and Bess la vocazione di Gershwin comincia a delinearsi con chiarezza. P.M.
Veramente non riesco a seguirti. Non vi si ritrovano gli
stessi difetti? Mi è stato sempre detto che, nonostafite le splendide melodie, è forse la sua composizione più debole. Pensava di fare un melodramma e, tutto sommato, come tale è un fallimento. Ogni volta che vien messa in scena e riscuote un vero successo t’ac-
corgi che è stata presentata come una specie di operetta. Tolgono tutte le parti cantate di “raccordo” che vengono invece parlate; vi lasciano solo i pezzi principali. E questo a me pare abbastanza indicativo. L.B. No, è indicativo soltanto per gli impresari. Strano: quando ascolto Porgy nella versione ridotta finisco sempre col non accor-
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germi delle parti di raccordo. Forse riesce meglio così; presso il pubblico ha certamente più successo. Sarà perché tanta parte di quel recitativo sembra estraneo al carattere del canto e ricorda invece Tosca e Pelléas. Ma si corre il rischio di gettar via l’acqua del bagno insieme col bambino, perché in alcuni punti quel recitativo è senz'altro in carattere con il canto e s'inserisce perfettamente nell'opera. Ricordi la scena di Bess con Crown sull’isola? Bess dice (cantando): È così, Crown,
Io sono l’unica donna che Porgy abbia mai avuto... P.M. (con rapimento, cantando anche lui): E sto pensando che succederà questa sera x quando tutti gli altri negri L.B.
ritornano a Catfish Row e P.M. (insieme in un crescendo di entusiasmo) Rimarrà seduto a guardare il gran cancello d’uscita e le conterà una per una aspettando Bess. E quando l’ultima donna...
(Nel ristorante stanno tutti a guardare e a sentire). * Stiamo dando spettaP.M. (sussurra, ma in maniera udibile)
colo. L.B. (sussurra, ma con trasporto) È quello che volevo dire io! È entusiasmante, non ti pare? Non ti sembra che sià”un tipo di musica con la quale Gershwin avrebbe raggiunto la perfezione? Per questo non mi rassegno al fatto atroce della sua morte. Improvvisamente, con Porgy t’accorgi che Gershwin era un grande, ma proprio un grande compositore di teatro. Lo era sempre stato. Ed è forse per questo che la sua musica da concerto è poco convincente:
si trattava in effetti di musica per teatro portata in sala da concerto. Immagina cosa avrebbe prodotto per il teatro entro un’altra decina o ventina d’anni. E sarebbe stato ancora giovane! Che perdita! Chissà se l'America si accorgerà mai della perdita sofferta? Non hai neppure toccato il caffè. P.M. (commosso) L.B. (esauritosi di colpo) S'è fatto freddo. In ogni modo devo andare a casa e mettermi a comporre. Grazie per la colazione, P.M.
LEONARD
BERNSTEIN
P.M. Grazie a te per essere venuto. Ne sono assai contento. Facciamo ancora altre colazioni, d’accordo? Abbiamo tante cose
di cui parlare. L.B. (dando uno sguardo alla pista con i pattinatori)
pio?
Per esem‘
P.M. Tanto per dirne una: il tuo musical. È molto strano. È un grande successo, piace al pubblico, tiene cartello da cinque mesi e non c'è una sola canzone di successo. Come te lo spieghi?
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BIBLIOGRAFIA
N.B.: I numeri seguìti da e si riferiscono ai paragrafi.
1-3 € Per quanto riguarda le notizie storiche relative alla dominazione absburgica nei paesi dell'Est europeo si rimanda ai capp. 19 $ 3, 24 $ 5, 30 $ 5 della Storia dell’età contemporanea, Loescher, Torino 1976, di M. L. SALVADORI. Sui rapporti fra dominazione absburgica, fermenti indipendentistici e situazione culturale nei paesi dell'Est, con particolare riferimento al campo musicale, una breve ma acuta analisi è contenuta nel cap. m, I problemi dell’anticonformismo del musicista di L. PesTALOZZA, nel fascicolo de «L’Approdo Musicale», n. 10, 1960, pp. 8-12, dedicato a L. Janéek. Sulle notizie storiche ed i princìpi metodologici della scienza etnomusicologica si rimanda alle relative voci delle enciclopedie, DEUMM, UTET, Torino 1983-90 (voce Etnomusicologia di D. CARPITELLA, vol. II) e Enciclopedia della Musica, Rizzoli-Ricordi, Milano 1972 (voce Etnomusicologia-Gli studi etnomusicologici relativi all'Europa, di R. EevyDI, vol. II de I/ lessico); al Dizionario della musica popolare europea, Bompiani, Milano 1970, a cura di R. Leydi e S. Mantovani (voce Etmomusicologia) e, per una trattazione più estesa, alla prima parte (capp. 1,2,3) de La musica dei primitivi, Il Saggiatore, Milano 1961, di R. LEvDI. Su Janaéek l’opera fondamentale è in tedesco, L. J. Leben und Werk, Artia, Praga 1958 (ediz. inglese, 1962) di J. VoGEL, cui si affianca la monografia di H. HOLLANDER, L. ]., His Life and Work, Londra e New York 1963 (ediz.
tedesca, Atlantis Verlag, Zurigo 1964). Fino ad oggi, l’unico saggio di autore italiano che esamina l’intera produzione musicale di Janàtek soffermandosi sulle opere più importanti è quello di L. PesrALOZZA, L. J., contenuto nel X fascicolo de «L’Approdo Musicale», pp. 3-74, 1960, cui è allegato un utilissimo Prospetto cronologico della vita e delle opere, di V. FELLEGARA. Si veda inoltre il saggio di F. PuLcInI, Le opere teatrali inedite di L. ]:#nel n. 4, 1975 della «Nuova Rivista Musicale Italiana», pp. 552-567 che, seppur dedicato ad un argomento specifico e circoscritto, per i continui rapporti instaurati
con l’intera produzione operistica di Jandéek, ne rappresenta un'importante introduzione; ed ancora, a cura dello stesso F. Pulcini, il commento e la tra-
duzione dell'articolo (Basta!) in cuiJ. riporta le impressioni ricevute dal suo unico viaggio italiano, sempre nella «Nuova Rivista Musicale Italiana», n. 2, 1976, J. in Italia, pp. Dostoevskij a J.: “Da una italiana di Musicologia», una casa di. morti”, nei
259-263. E ancora, dello stesso PULCINI, i saggi: Da casa di morti” e la sua genesi librettistica, nella «Rivista n. 2, 1983, pp. 220-252; Aspetti della musica di “Da «Quaderni della Civica Scuola di Musica”, n. 11,
1985, pp. 38-61; “Kata Kabanovd” uno struggente adulterio in alfabeto Morse, nel volume pubblicato dal Teatro Comunale di Firenze in occasione della
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BIBLIOGRAFIA
rappresentazione dell’opera (novembre 1989), che contiene una raccolta di documenti, sempre a cura di F. Pulcini. Per quanto riguarda la bibliografia bartékiana si consigliano, fra le opere in lingua, le monografie: The Life and Music of B., Oxford University Press, New York 1953 (ediz. rived., 1964) di H. STEVENS; B., Editions du Seuil, Parigi 1963, di P. Crrron; B., Atlantis Verlag, Zurigo 1973, di T. A. Z1eLINSKI, queste due ultime rispettivamente in francese ed in tedesco. Fondamentale, per una nuova e affascinante interpretazione critica e analitica del linguaggio di B., il saggio La sezione aurea nelle strutture musicali bartokiane, di E. LENDVAI, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», nn. 2 e 3, 1982, pp. 157-181 e 340-399. In àmbito italiano i più importanti contributi sul compositore ungherese sono di M. MIra: il saggio La natura e il mistero nell'arte di B. B., in «La Rassegna Musicale», 1951, pp. 95-105 (ampliato in «Chigiana», XXII, 1965, pp. 147-168), in cui l’autore pone in rilievo uno degli aspetti più affascinanti, nascosti ed obliati dell’arte bartékiana; la voce B. nell’enciclopedia DEUMM cit., e la serie di saggi contenuti nell’opera collettiva a dispense La musica moderna, Fratelli Fabbri, Milano 1967-69, fascicoli 9,25,84,85,87, in cui la produzione bartékiana è analizzata nei suoi con-
tenuti stilistici ed espressivi nonché inquadrata nel clima culturale del periodo ed illuminata dalla poetica del compositore. Per i rapporti fra B. e la didattica: B. e la didattica musicale, Atti del Convegno (Ravenna 1981), a cura di F. Masotti, quaderno n. 2 di «Musica/Realtà», Unicopli, Milano 1983. Sempre in àmbito italiano, indispensabili per un approfondimento sui rapporti fra B. e l’etnomusicologia e sulla biografia del compositore, sono le raccolte antologiche Scritti sulla musica popolare, Boringhieri, Torino 1977, a cura di D. Carpitella, con un’utilissima introduzione del curatore e Lettere scelte, Il Saggiatore, Milano 1969, a cura di J. Demény. Per i rapporti fra l’opera di B. e la musica popolare si veda: J. W. Downey, La musique populaire dans l’aeuvre de B. B., Publications de l’Institut de Musicologie de l’Université de Paris, Parigi 1966; Les gammes populaires et le système chromatique dans l’aeuvre de B. B., in
«Studia Musicologica», 1969; G. ApAMO, B. al di
là del folclore, in «Musica/Realtà», 1982, pp. 227-240. 4-10 * Per quanto riguarda la storia dell'URSS, oltre ai capp. ad essa dedicati nella Storia dell’età contemporanea, di M. L. SALVADORI cit., per una trat-
tazione più particolareggiata si rimanda ad una delle diverse monografie quali la Storia dell'URSS, Editori Riuniti, Roma 1976, diJ.ELLEINSTEN, in 2 voll., o la Storia dell’Unione Sovietica (1917-1941), Mondadori, Milano 1976, di
G. BoFFA, tenendo presente che la trattazione più ampia per il periodo rivoluzionario e quello immediatamente postrivoluzionario (1917-29) è la monumentale opera di E. H. CARR, Storia della Russia sovietica, Einaudi, Torino
1963 e sgg., in 6 voll. Sui più recenti sviluppi della storia politica dell’Unione Sovietica si veda La rivoluzione di Gorbatév. Cronaca della perestrojka, di G. CHiesa e R. MepvenEv, Garzanti, Milano 1989.
Sulla letteratura sovietica si consiglia la lettura di una delle tre seguenti storie letterarie: la Storia della letteratura sovietica, di G. StRUVE, Garzanti,
9 VOTA BIBLIOGRAFIA
Milano 1977, dedicata all’epoca leniniana e staliniana, o quella dal medesimo titolo di M. SLonIm, Rizzoli, Milano 1969, che contiene alcuni capitoli dedicati al periodo del‘disgelo” e al “dissenso”, e ancora La letteratura russosovietica, Sansoni-Accademia, Milano 1968. Sul significato del “dissenso” sovietico e dei paesi satelliti si rimanda alla recente raccolta antologica Dissenso e socialismo, Einaudi, Torino 1977, ed all’introduzione di V. STRADA.
Specificatamente per la storia della musica sovietica si consiglia, fra le opere in lingua, una delle due recenti monografie: ST. D. KRrEBS, Soviet Composers and the Development of Soviet Music, George Allen and Unwin LTD, Londra 1970, articolata in una I parte dedicata ai rapporti fra musica ed ideologia, in tre parti successive II-IIT-IV, ognuna dedicata ad una generazione di musicisti con 21 capp. monografici su importanti compositori sovietici ed in un’ultima parte sui giovani compositori; B. ScHwarz, Music and Musical Life în Soviet Russia (1917-70), Norton, New York 1972 (di cui nel 1983 è uscita
una ediz. ampliata, aggiornata fino al 1981), che non contiene invece capitoli monografici sui singoli compositori ma confronta costantemente il periodo storico, la politica culturale e le vicende musicali. L’unica trattazione di autore italiano, la Storia della musica sovietica, in 2 voll., Centro dell’Università di Pavia, Pavia 1964-65, di V. GIBELLI, è utile come repertorio di dati e di notizie ma nel complesso è disorganica e scarsamente rilevante sotto il profilo critico; si veda anche il cap. La musica nell'Unione Sovietica, di G. ABRAHAM, nel X ed ultimo vol. (La musica moderna, 1890-1960) della Storia della Musica
della Oxford University Press, nella trad. italiana pubblicata da Feltrinelli (1974). Sull’opera sovietica, in particolare, si consulti il cap. m di C. MarINELLI ad essa dedicato nel vol. II, tomo II, della Storia dell’opera, UTET, Torino 1977, in 6 voll.
Sui rapporti fra musica e politica culturale in URSS si consiglia la lettura della sezione “voci sull’Est” della raccolta antologica Musica e politica, a cura di M. Messinis e P. Scarnecchia, La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 1977, e Zdanov l’immortale, di R. TEDESCHI, Discanto, Fiesole 1980. Sul con-
cetto di “realismo socialista” in àmbito musicale, si veda il saggio di S. P. ScHER, I/ concetto di realismo della musica, nella «Nuova Rivista Musicale Italiana», n. 2, 1977, pp. 167-184. Si vedano inoltre i seguenti articoli di L. PesTALOZZA su «Rinascita» dedicati all’avanguardia sovietiéa: Nuove ricerche linguistiche nell’URSS (8/1/71); Idee vecchie e musiche nuove (25/1V/74); Dodecafonica e seriale in URSS (19/XII/75); sempre sul medesimo argomento e sulla medesima rivista, Tradizione ed avanguardia a Leningrado, di F DecrADa (4/VI/76). Una vasta panoramica sulla vita musicale sovietica negli
anni Ottanta è La musica in URSS: Cronaca di un viaggio, di L. PESTALOZZA, Ricordi-Unicopli, Milano 1987; si veda inoltre: Dall'immagine e la forma al simbolo e alla metafora. L’arte sovietica negli anni ‘20-30 e la musica di oggi,
in «Musica/Realtà», n. 15, 1984 o 1989, pp. 85-105, di A. IvASKIn e la Lettura n. 6.
Sui due più.importanti compositori sovietici, Prokof'ev e Sostakoviè, le più recenti monografie in lingua sono: C. SAMUEL, P., Éditions du Seuil, Parigi 1960; F. STRELLER, S. P., Breitkopf & Hartel, Lipsia 1960; M. R. HOFMANN,
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BIBLIOGRAFIA
S. P., Parigi 1963; H. A. BrocKHAuS, S. P., Lipsia 1964; L. e E. HANSON, 1228 the Prodigal Son, Londra e New York 1964: M. RavyMEnT, P., Londra 1965; V. SEROFF, S. P., a Soviet Tragedy, New York 1968 (Load 1969); D. Rasinovié, D. $., Lawrence & Wishart, Mosca e Londra 1959; H. A. & Hartel, Lipsia 1962; R. M. HoFMAnN, BROCKHAUS, D. S., VEB Breitkopf Chostakovitch, Ailivole du Seuil, Parigi 1963; la riediz. americana (New York 1969; Westport, Connecticut 1970) del vol. D. dvdislali Martvnov, Muzgiz, Mosca 1946; N. Kay, $., Oxford University Press, Londra 1971. È uscito recentemente il alcza copie delle opere di S. a cura di M. MacDoNALD, Boosey & Hawkes, Londra 1977. In àmbito italianoi contributi su Prokof'ev sono: la monografia di G. PANNAIN, S. P., contenuta nel n. 13 de «L’Approdo Musicale», 1961, pp. 5-67, assieme ad una antologia di scritti del compositore a cura di E. Zanetti e ad un prospetto cronologico della vita e delle opere a cura di S. Jarocinski; il saggio di C. MARINELLI, Rozzanticismo di P. , in «La Rassegna Musicale», 1959, pp. 143-154; la voce P. del DEUMM cit., a cura di E. Restagno. Si ricorda inoltre la serie di saggi di R. VLAD (fascicolo 36) e di C. RostAnD (fascicoli 88,90,91) dedicati a P., contenuti in La musica moderna dei Fratelli Fabbri op. cit. Su Sostakovié: le discusse e ormai celeberrime Merzorie di D. S. (Testimonianza) raccolte e curate da S. VoLkov, Mondadori, Milano 1979; sulla vita e opera di S. la recente monografia di F. PuLcini, Sostakovié, EDT, Torino 1988; sulla produzione sinfonica, Le Sinfonie di S.,Giappichelli, T'usine 1988, di F. TAaMmMaro. Vedi anche la voce su $. dellenciclopedia DEUMM di G. Vinay,e, del medesimo autore, l’articolo È., Za morte e il monaco nero, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», 1988, pp. 57-69. 11-22 * Per uno sguardo panoramico sulla storia politica degli USA, fra le numerose opere tradotte nei due ultimi decenni, si consigliano i due agili volumetti Storia degli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1960, di A. NEvINSs e H. STEELE COMMAGER e Storia popolare degli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1977,
di L. HUBERMAN. Sui rapporti fra storia politica e cultura, foridamentale è la Storia della cultura americana (fino al 1920) in 3 voll. di V. L. PARRINGTON, Einaudi, Torino 1969; si consiglia inoltre, come fonte di informazione “alter-
nativa” sui rapporti fra arte e cultura, l’interessante antologia a cura di E. Battisti intitolata L’a/bero solitario, Guaraldi, Rimini 1973. Sulla letteratura statunitense si vedano: la Storia della letteratura americana, Einaudi, Torino 1958 (nuova ediz. aggiornata, 1970; 2? ediz., 1976), di M. CUNLIFFE e La letteratura nord-americana, Sansoni-Accademia, Milano 1967, di C. Izzo. Fino ad oggi le uniche due trattazioni storiche sulla musica statunitense tradotte in italiano erano la Breve storia della musica in America, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1963, di J. TAskeR Howarp e G. KENT BELLOWS, ricca di informazioni ma disarticolata oltreché molto mal tradotta, e la Musica nel nuovo mondo, Einaudi, Torino 1975, di W. MELLERS, al contrario stimolante e però tlorad inesatta e approssimativa sotto il profilo musicologico ed arbitraria sotto quello critico. E uscita, mentre il vol. era in stampa, La musica degli Stati Uniti, Ricordi/Unicopli, Milano 1990, di C. HAMM (a
BIBLIOGRAFIA
cura di F. Fabbri) in 2 voll. L’opera fondamentale in inglese è Arzerica’s Music, McGraw - Hill Book Company, New York 1955 (2° ediz., 1966) di G. CHASE; di dimensioni più ridotte, ma molto stimolante e ben articolato, è il volume Music în the United States: a Historical Introduction, Practice-Hall, Inc., Englewood Cliffs, New Jersey 1969, di W. HrrcHcocx. Il capitolo dedicato alla musica americana dal primo dopoguerra ad oggi (La . musica americana 1918-60) di R. F. GoLDMAN, contenuto nel X vol. della Storia della Musica della Oxford-Feltrinelli cit., è ricco di dati e di notizie, ma scarsamente organico e sbrigativo su argomenti importanti (Cage, ad esempio). Sui compositori minori e su quelli di cui non esistono fino ad oggi opere monografiche e di cui, per motivi di spazio, non si daranno ulteriori dati bibliografici, si avverte che numerosi saggi e bilanci critici della loro produzione e della loro fisionomia artistica sono contenuti nelle riviste americane «Musical Quarterly» e «Perspectives of New Music» facilmente reperibili in biblioteche specializzate; inoltre, indicazioni bibliografiche non complete ma abbastanza esaurienti sono contenute nella bibliografia sulla musica americana in appendice al menzionato X vol. della Storia della Musica della OxfordFeltrinelli, oltreché nella bibliografia dei voll. del CHase e dello HrrcHcoc€, anch'essi già citati. Per quanto riguarda il jazz, si rimanda alla bibliografia (punto 8) del precedente volume di questa Storia della Musica (La nascita del Novecento, di G. SALVETTI) con l’integrazione, per la parte contemporanea, dei voll. Free Jazz/Black Power, di P. CARLES e J.-L. Comotti, Einaudi, Torino 1973, e Canto nero. Il free jazz degli anni sessanta, Guaraldi, Rimini 1973,
di G. CANE. Sul trascendentalismo, sui suoi più importanti esponenti, e sul clima culturale della Nuova Inghilterra nella metà del sec. x1x si consiglia la lettura di Rinascimento americano, Einaudi, Torino 1954, di F. O. MATTHIESSEN e, sui rapporti tra Ives e il trascendentalismo, Charles Ives. The ideas behind the music, di J. P. BurkHoLDpER, Yale University Press, New Haven and Londra 1985. Su Ives, in inglese, alla prima monografia di H. e S. CoweLL, C. I. and His Music, Oxford University Press, New York 1955 (2° ediz., 1966) si affiancano opere più recenti quali Frorz the Steeples and Mountains. A Study of C. I, Alfred A. Knopf, New York 1974, di D. WooLDRIDGE, estremamente stimolante in quanto metodologicamente e stilisticamente poliedrica, e C. I. and His America, Liveright, New York 1975, di Fr. RossirER. Per quanto riguarda i documenti ivesiani, oltre alla raccolta di saggi Essays Before a Sonata, The Majority and Other Writings, Norton, New York 1961, a cura di H. Boatwright, un’indispensabile fonte biografica meticolosamente curata sotto il profilo musicologico è C.E.L: Memos, New York 1972, a cura di ].
Kirkpatrick, cui si affianca il recente vol. C. I Remembered: An Oral History, Yale University Press, New Haven and London 1974, a cura di V. Perlis,
una storia “orale” in quanto ricostruita sulla base di interviste. L'unica monografia in italiano è L'America musicale di C.I., Einaudi, Torino 1974, di G. Vinay autore anche della voce I. del DEUMM cit. La bibliografia gershwiniana indulge spesso all’aneddotica a scapito dell’approfondimento critico; fa eccezione a questa norma la monografia C. M.
217
218
BIBLIOGRAFIA
Scuwartz, G. G.: His Life and Music, Boldos-Merrill Company, Indianapolis 1973, che, oltre a demolire la mitologia gershwiniana, per il dovizioso corredo di appendici, di indici e per la bibliografia, rappresenta la più aggiornata fonte in lingua inglese sul compositore assieme a Gershwin. A biography, di E. JasLonsKI, Doubleday, New York 1987. In italiano, oltre alle traduzioni di The Story of G. G. (I ediz. New York 1943), di D. Ewen (A. Martello, Milano 1956), e di G. (Amiot-Dumont, Parigi 1959), di R. CHALUPT (Edizioni Accademia, Milano 1959), alla monografia di M. Pasi, G. G., Guanda, Parma 1958 e di quella, più recente, di W. Mauro, Newton Compton, Roma 1987, si consiglia, per una visione problematica sul “caso Gershwin”, la lettura del saggio di C. Hamm, Verso una nuova lettura di G., in «Musica/Realtà», n. 25, 1988, pp. 23-45; e, di G. Vinay, Gli anni di G., in «Musica Dossier», n. 8, 1987, e L’opera come aspirazione: Porgy and Bess, in «Il Verri», marzo-giugno, 1988, pp. 143-157.
Su E. Varèse l’opera principale è quella di F. QUELLETTE, E. vi Seghers, Parigi 1966, ristampata in ed. ampliata da Christian Bourgois, Parigi 1989; si consiglia inoltre la lettura di due agili volumetti di O. Vivier, V., Éditions du Seuil, Parigi 1973 e di H. JoLiveT, V., Hachette, Parigi 1973, €; in italiano, il saggio di G. MANZONI in La musica na dei Fratelli Wi cit., (fascicolo 97) e la voce E. V. di G. Vinay sul DEUMM cit. Importanti fonti documentarie sono gli Entretiens avec E. V., Éditions Pierre Belfond, Parigi 1970, a cura di G. Charbonnier (con una cronologia della vita e notizie concernenti le opere della maturità, a cura di H. Halbreich) e V. A
Looking-Glass Diary, vol. I: 1883-1928, Norton, New York 1972, diL VARÈSE, e la raccolta di scritti di V. sulla musica in traduzione TATO nel volume intitolato I/ suono organizzato, Ricordi-Unicopli, Milano 1985. Su A. Copland, oltre il breve saggio di G. CHASE per La musica moderna dei Fratelli Fabbri cit., non esistono monografie in italiano; occorre dunque rivolgersi ad opere in lingua, di cui le più recenti sono: A. DogrIn, A. C., New York 1967, e C. O. PEARE, A. C., New York 1969. Per V. Thomson, su cui non esistono saggi in italiano, le monografie più recenti in lingua sono: K. O. Hoover e J. Cage, V. T., Thomas Yoseloff, New York 1959; V. THomson, V. T., Da Capo Press, New York 1966 e J. Cage, V. T., New York 1970. Su R. Sessions si veda il saggio di H. WEINBERG e P. PETROBELLI, R. S. e la musica americana nel II numero del 1971 della «Nuova Rivista Musicale Italiana», pp. 249-263. Sull’ultimo periodo della storia politica americana si consiglia la lettura dei due volumetti di M. TEoDORI, La Nuova Sinistra americana. Nascita e sviluppo dell'opposizione al regime negli Stati Uniti degli anni '60, Feltrinelli, Milano 1967 e La fine del mito americano, Feltrinelli, Milano 1975; sui rapporti fra potere ed intellettuali in America si consiglia invece il volume di N. CHomsky, I nuovi mandarini. Gli intellettuali ed il potere in America, Einaudi, Torino
1969 e, per quanto riguarda la cultura “alternativa” degli anni Sessanta, l’antologia L'altra America negli anni '60, Nuova Officina, 1971-72, di F. PrvAno.
BIBLIOGRAFIA
SuJ. CAGE, un’importante fonte di notizie è il volume ]. C., New York 1970, a cura di R. Kostelanetz che contiene, oltre ad una trentina di brevi scritti di C., una tavola cronologica della vita (a cura di E. J. Snyder), un catalogo delle opere e tre bibliografie, di cui una dedicata agli scritti di C. In italiano, oltre al saggio di M. HARRISON per La musica moderna dei Fratelli Fabbri cit. (fascicolo 102), fondamentale per un orientamento estetico è quello di H. K. METZERR, ]. C. o della liberazione, in «Incontri musicali», 1959; si veda inoltre, La musica per pianoforte di J. C., di B. CANINO, in «Quaderni della Rassegna musicale», n. 5, Einaudi, Torino 1972, pp. 75-96 e Dopo di me il silenzio?, Emme Edizioni, collana Hocuspokus, Milano 1978. Per quanto riguarda l’attività saggistica e pamphlettistica di C. esiste in italiano un’antologia tratta da Silence e da A Year from Monday - le due più importanti raccolte - intitolata J. C. Silenzio, Feltrinelli, Milano 1971, a cura di R. Pedio e Per gli Uccelli. Conversazione con Daniel Charles, Multipla Ed., Milano 1977. La monografia più completa su E. Carter è The music of E. C. di D. SCHIFF, Eulenburg Books, London 1983. Altro indispensabile sussidio per lo studio
di C. in Italia è il volume pubblicato nel 1989 (EDT, Torino) della serie curata da E. Restagno per Settembre Musica, che contiene Un ’'autobiografia dell’autore raccontata dal curatore e una scelta di scritti vari di C., diversi dei quali sono contenuti anche nel numero speciale dei «Quaderni della Civica Scuola di Musica» curato da*A. Melchiorre, Milano 1986. Ai minimalisti è stata dedicata in Italia una mostra a Ferrara nei mesi giugnoluglio 1988 di cui è stato pubblicato il catalogo a cura di R. Masotti, edito dalla Nuova Alfa Editoriale. Opera on the Beach è intitolata una raccolta di scritti di P. GLass pubblicata da Faber and Faber, Londra 1988. Un’analisi
approfondita sul musical americano è The American Musical Theatre, Macmillan, New York 1967, di L. EncEL. Sulla musica ripetitiva americana,
vedere la raccolta di saggi ad essa dedicati sul n. 26, 1977, di «Musique en jeu» (I. SToIANOVA, Musique répétitive, pp. 64-74; D. CAUX, Cette musique
que l’on dit répétitive, pp. 81-86); nel n. 11, 1973, della medesima rivista, vedere inoltre su La Monte Young la traduzione dell’articolo di D. ScHNEBEL, Composition 1960: La Monte Young, pp. 7-16, tratto da Denkbare Musik, M. Du Mont Schauberg, Colonia 1972.
DIS
»
YA
bi
ed
331
Ala n
INDICE
*DET
NOMI
AcHMaTOva Anna Andreevna, pseud. di Gorenko Anna Andreevna, 67 Apams John, 144
ApperLEY Julian Edwin, detto Cannonball, 126 AFANAS‘EV Aleksandr Nikolaevié, 53 ALCOTT Amos Bronson, 94, 96 ALcoTT Louisa May, 94, 96
ALpRICH Thomas Bailey, 86 ALegsanpRrOv Aleksandr Vasiljevié, 73
ANDERSON Cat, pseud. di Alonzo William,
121
ANTHEIL George, 102 APOLLINAIRE Guillaume, pseud. di De Kostrowitzky Wilhelm Apollinaris, 65 ArmsTRONG Daniel Louis, 88 Asar'Ev Boris Vladimirovié, 32,
BeLJAEV Viktor Michajloviè, 32 BeLLow Saul, 124 BENNETT Robert Russell, 98 BenToN Thomas Hart, 108, 113 Bere Alban, 32, 44, 129 BeRrGER Arthur, 120 BERLIN Irving, pseud. di Balin Israel, 100 BERNSTEIN Leonard, 147, 148-9
Berry Chuck, pseud. di Anderson Charles Edward, 146
BezruÈ Petr, pseud. di Vasek Vladimir, 11 Birjugov Nikolaj Zotoviè, 55 BLAKEY Art, 126 BLANTON Jimmy, 121 BLITZSTEIN Marc, 98, 150 BLocH Ernest, 114, 118
BLox Aleksandr Aleksandroviè, 57-8 BoMmBAsT von HoHENHEIM Philipp Theophrast, 104 BonroD Aaron, 108 BouLANGER Nadia, 98, 100, 110,
23:85 OS AsHLEY Robert, 136 Austin Larry Don, 137 AvyLER Albert, 126
Bragin V., 46
BasBITT Milton Byron, 128, 129-30 BacH Johann Sebastian, 76, 138-9,
BrecHT Bertolt, 150 BreZNEV Leonid Il’iè, 38 BrITTEN Benjamin, 36
145
IM5
5
BaLAzs Béla, 19 BARBER Samuel, 114. BARRÈRE Georges, 112 BARTÒK Béla, 5, 6-9, 15, 17-27, 36, 1008117
MI29S138
Brjusov Valerij Jakovleviè, 50 Brown Clifford, dettò Brownie, 126 Brown Earle, 135-6 Brown Lawrence, 121 BruBEcK David W., detto Dave, 145
Basie William, detto Count, 121
BATISTA Y ZALDIVAR Fulgencio, 107 Bazov Pavel Petrovié, 55
BeAcH Amy Marcy Cheney, detta Mrs. H.H.A., 89
BucHarin Nikolaj Ivanoviò, 33 BuHxÒie Richard, 131 BuonarroTI Michelangelo, 67 BurLEIGH Henry Thacker, 91 Burton Gary, 146
BeetHoveNn Ludwig van, 19, 27, 67, CapMman Charles Wakefield, 91
95
BeIDERBECKE Bix, 88
Leon Bismark, detto
Cace John, 143
113,
130-4,
135-7,
141,
224
INDICE
DEI
NOMI
CaLpeR Alexander, 136 CARMICHAEL Stokely, 126 CarnEGIE Andrew, 83 CArnEY Harry Howell, 121 CARPENTER John Alden, 92, 99
Desevov Vladimir Michajloviè, 43, 73 Disney Walter Elias, detto Walt, 116 Dyaciev Sergej Pavloviè, 70 Domino Antoine, detto Fats, 146
Carry John Steward, 108 CARTER Elliott Cook, 98, 138-41
DonaLpson Walter, 100 Donpero George A., 125 Dos Passos John, 107 DosroevskJ Fédor Michajlovié, 12, 67 DreiseR Theodore, 87 DvoXAKk Antonîn, 5-6, 8, 91 DwicHT John Sullivan, 90 DzeERZINsK1y Ivan Ivanoviò, 46,
CasreLNUovo-TeDEScO Mario, 118
CecHov Anton Pavloviè, 46 Cenova Valeria, 39 CHapwicK George Whitefield, 89-90
CHARLES Ray, pseud. di Robinson Raymond, 146 CHase Gilbert, 97 CHerry Donald Eugene, detto Don,
126 CHopiN Fryderyk, 74 CHou En-Lai, 144
CHou Wen-choung, 113 CHRISTIAN Charles, detto Charlie,
‘121
Cisko Oles, 46 CLEAVER Eldridge, 126 Cocteau Jean, 115 CoLEMAN Ornette, 126
47-8, 56
Ecorov P., 39 EinsTEIN Alfred, 116 FisLeR Hanns, 117, 150
EJzENSTEJN Sergej Michajlovié, 56 ELpRrIDGE David Roy, detto Little Taza, 21 ; ELior Thomas Stearns, 86-7 ELLINGTON Edward Kennedy, detto Duke, 121
CopPLAND Aaron, 97, 98-9, 109-10, 111, 120, 128
Corea Armando Anthony, detto Chick, 146
Corso Gregory, 124 CoweLL Henry Dixon, 98, 102, iS
ELLIS Alexander John, 7 ELLIs Donald Johnson, detto Don, 126 Emerson Ralph Waldo, 93-4, 96
ERENBURG Il’ja Grigoreviè, 36 Evans Ian Ernest Gilmore Green, detto Gil, 145 EvercooD Philip, 108
CraeT Robert, 118 CRANE Hart, 109, 140-1
CRANE Stephen, 87 Cummines Edward Estlin, 109 CuNnNINGHAM Merce, 131 CveTtAEVA Marina Ivanovna, 67
"»
EvLacHov Orest Aleksandroviè, 55 EvrusENKo Evgenij Aleksandroviè, 38, 58, 65 EweN David, 148
Davis Miles Dewey jr., 145-6
FARREL James Thomas, 107 FarwELL Arthur, 91, 94 FAULKNER William, 108 Fauré Gabriel, 92 FELDMAN Morton, 135
Davis Stuart, 109
FEWwKES Jesse Walter, 7
DanIeL Julij, 38 Dan'KEvI© Konstantin Fedorovié, 36, 47
DeBussy Achille-Claude,
14, 92,
131, 144
De Koonine Willem, 135, 140 DenIsov Edison Vasil’eviè, 39 DENNEvY Reuel, 124
Fisonacci Leonardo, 23 Fine Irving Gifford, 120 FINNEY Ross Lee, 111, 129 FITELBERG Grzegorz, 4 Frrz6ERALD Francis Scott, 87-8
a
INDICE
Foore Arthur William, 89 Foss Lukas, 137-8 Franco BAHAMONDE Francisco, 107 GANDHI Mohandas Karamchand, 144 Garcia Lorca Federico, 65-6 GAUTHIER Eva, 100 GEIRINGER Karl Johannes, 116 GERSHWIN George, 88, 99-100, 127, 147-9, 150
GILBERT Henry Franklin Belknap, 91 GiLLespIE John Birks, detto Dizzy, 126-7
GinsBerc Allen, 124-5 GLADKOVvSsKIJ Arsenj Pavlovié, 43
Grass Philip, 143-4 GLazeR Nathan, 124 GLazunov Aleksandr Konstantinoviè, 73 GuièRE Reinhold Moritseviè, 52-3, DORATO
GLucK Christoph Willibald, 53 GNESIN Michail Fabianovié, 58 GocoL’ Nikolaj Vasil’evié, 44, 46 Goonman Alice, 144 Goonpman Benjamin David, detto Benny, 121 Gor’'KkJ Maksim, pseud. di Peskov Aleksej Maksimoviè, 34, 55 Gorky Arshile, 109 Gossec Fransgois-Joseph, dé Gozzi Carlo, 50 GRÉTRY pa ETA
53
Gropper William, 108 Grosz George, 151 GRUENBERG Louis, 99 GusaypuLIna Sof'ja Asgatovna, 39, n:
Hareee Alexej, 120
HancocK Herbert Jeffrey, detto Herbie, 146
NOMI
Hanson Howard Harold, 114 Harris Roy, 98, 110-1 Harrison Lou, 132 HawTHORNE Nathaniel, 92, 94, 96 HeMmIncwaAY Ernest, 98, 107 HENDERSON James Fletcher, 121
Hr Edward Burlingame, 92 HinpEMITH Paul, 36, 44, 73, 100, MASO
HrrscH Joseph, 108 Hopces John Cornelius, detto Johnny, 121 HoLmes Oliver Wendell, 86 HoLry Carl, 109 HonecceER Arthur, 36 HortHy DE NacvBÀNnYA Miklos, 24 HoweLrs William Dean, 87 HucHes Langston James, 89 Inpv Vincent-Paul-Marie-Théodore d’, 92
Ives Charles Edward, 93-7, 98, 100-1, 138-41
Ives Edward, 93 JAMES Henry, 86 JAMES William, 85-6 JANACEK Ledì, 5-6, 8-17, 24 JARRETT Keith, 146 JoHNSON James Weldon, 89 JoHNsoN Lyndon Baines, 122 JoNnEs Joe, 108 JonIN Grigorij, 44 JoPLIN Scott, 149-50
Grirres Charles Tomlinson, 92 GrorÉ Ferde, pseud. di Grofe Ferdinand Rudolph von, 99
HiAnpeL Georg Friedrich, 138
DEI
KABALEVSKIJ Dmitrij Borisoviè, 35, 42, 46-8, 56-7, 59, 73 Kaxkov N., 59 KAMENEv Lev Borisovié Rosenfeld, detto, 33
KareTNIKov Nikolaj Nikolajeviè, 55 KarLowicz Mieczyslaw, 4 KastaLsKJ Aleksandr Dmitrevié, 58 KaraEv Valentin Petroviè, 51 KennEDY John Fitzgerald, 122 KeRN Jerome David, 100, 146 Kerouac Jack, 124 KHACATURJAN Aram Il’ié, 35-6, 42, PERSONE.
225
226
INDICE
DEI
NOMI
KurennIKov Tikhon Nikolaeviè, 35, 38, 42, 46, 56 Kinc Martin Luther, 125 KissinceR Henry, 144 KLINE Franz, 135 KnaTHs Karl, 109
‘Marcom X, pseud. di Little Malcolm, 126 Mao Tse-tung, 144 MartINnEz Maximiliano Hernandez, 107
MARTINÙ Bohuslav Jan, 117
KwxippeER Lev Konstantinoviè, 43, 59
MASARYK Toma,'3
KopALy Zoltàn, 6-7 Konitz Lee, 145 KossicHin Aleksej Nikolaeviè, 38
Mason Daniel Gregory, 90 Masters Edgar Lee, 87
KossuTH
McCarTtHyY Joseph Raymond, 125 McKay Claude, 89 MepveDEV Roj, 38 MénHut Étienne-Nicolas, 53 MerercHoL'D Svevolod Emil’eviè,
Ferenc, 4
KossuTtH Lajos, 4 KoussEvITZKY Serge, 97 KovaL' Marian Viktoroviè, 46-7, DIGI Krejn Aleksandr Abramovié, 43, 58 KkENEK Ernst, 44, 117, 128, 130 Kruséev Nikita Sergeevié, 37-8, 49, 122
KucHeLBEcKER Wilhelm, 65 Kun Béla, 24 LAMmM Pavel Aleksandroviè, 32
LA Rocca Dominick James, 99 LE CORBUSIER, pseud. di Jeanneret Charles-Edouard, 112 LenpvaI Erné, 23
LenIN Nikolaj, pseud. di Ul’janov Vladimir Il’'ié, 49, 61, 84
LEvITIN Jurij Abramoviè, 73 Lewis John Aaron, 145 Linpsay Vachel, 87 Liszt Franz, 79, 90
LrrtLE RICHARD, pseud. di Penniman Richard, 146 Ljapunov Sergej Michajlovié, 73 Loewe Frederick, 147 LoneFeLLow Henry Wadsworth, 86 LoweLL James Russell, 86 LoweLL Robert, 140 LuenING Otto Clarence, 130 LuLLy Jean-Baptiste, 53 LUNACARSKIJ Anatolij Vasil’eviè, 31 MacDoweLL Edward Alexander, 90 MayakovsKI Vladimir Vladimiroviè, 31,57).63
Maxsimov
Vladimir, 38
MaTTHIESSEN Francis Otto, 92
50 MeELvILLE Herman, 92 MenortTI Gian Carlo, 152 MessiaEN Olivier, 130
Micey James Wesley, detto Bubber, 12201 MirHauDp Darius, 36, 117-8, 145
Mingus Charles, 126 MyaskovsKij Nikolaj Jakovleviè, 32, 35, 42, 57, 60, 73-4
Motrtanov Kirill Vladimiroviè, 48 Moore Marianne,
109
Morcan John Pierpont, 83 Morton Jelly Roll, 88 Mosorov Aleksandr Vasil’eviù, 33,
58
»
MorLEY John Lothrop, 86 Muxrusov
Boris, 46
MuLLIGAN Gerald Joseph, detto Jerry, 145 e MumMA Gordon, 137 MurapELI Vano Il’iè, 35-6, 47, 48 MyricK Julian Soutball, 94 NaBokov Vladimir, 123 NATH Pandith Pran, 143 Nest’ev Izrail’ Vladimiroviè, 52 NewLIN Dika, 128 NewTOoN
Huey, 126 Nrxon Richard Milhow, 144
Norris Frank, 87
122, 125,
INDICE
OFFENBACH Jacques, 56 OLIVER Joe Joseph, detto King, 88 O’ NerLL Eugene Gladstone, 88 ORFF Carl, 36 Orozco José Clemente, 125 OsTRovsKIy Aleksandr Nikolaeviè, 12
Pane John Knowles, 89-90 PARACELSO, v. BOMBAST von
HoHEnHEIM Philipp Theophrast PARKER Charles Christopher jr., detto Charlie o Bird, 126-7 PARKER Horatio William, 89-90, 93 PARKMAN Francis, 86 PARTCH Harry, 113
PastENKO Andrej Filippovié, 43-4 PAszrtory Ditta, 20 PERLE George, 130 PestALOZZA Luigi, 39 Picasso Pablo, 119 Piston Walter Hamor, 98, 120, 138 PoLLock Jackson, 134, 136, 140 Popov Gavriil Nikolaevié, 35, 73 PoTocxi1 Sergej, 43 PouLenc Francis, 36, 79 Pounp Ezra, 86-7, 98 PoweLL Earl, detto Bud, 126 PoweLL Mel, 130 PRrATOLINI Vasco, 48 PreJs Aleksandr Germanoviè, 44
PrescoTT William Hickling, 86 PresLEy Elvis Aaron, 146 ProKoF’EV Sergej Sergeeviè, 35-6, 41-2, 43-4, 50-7, 69-72, 73-4, 78-80
PrusaK Evgenij, 43
7
Puskin Aleksandr Sergeevié, 55, 60 PuTNnAM Israel, 96 RaveL Maurice, 72, 92, 144
RAZIN Stepan Timofeevié, 60 REAGAN Ronald, 122 REFRIEGER Anton, 125 ReIcH Steve Michael,
142, 143
ReyNoLDs Roger, 137 Rieecer Wallingford Constantin, 129 RIEsMAN David, 124
DEI
NOMI
RiLey Terry Mitchell, 142, 143 RiLke Rainer Maria, 65, 67 Rimsxg-Korsakov Georgij Mihajloviè, 33 Rimskg-Korsakov Nikolaj Andreevi&, 33 RIvERA Diego, 125 RoacH Maxwell, detto Max, 126 RocHBERG George, 129 RocKEFELLER John Davidson, 83 Ropcers Richard Charles, 147 RoLLAND Romain, 46 RooseveLT Franklin Delano, 84, 105-6, 123
RooseveLT Theodore, 84 RosLaveé Nikolaj Andreeviè, 33, 73 Rossini Gioacchino, 63 Rézycxi Ludomir, 4 RucgLes Carl, 101
SABANEEV Leonid Leonidoviè, 32 Sacco Nicola, 85 SAcHs Curt, 116 SAFAREVIÈ A., 38 SAINT-SAENS Charles-Camille, 92 SALINGER Jerome David, 123 SaLmanov Vadim Nikolaeviè, 57 SaLzeDo Carlos Léon, 97 SanpBURG Carl, 87 SAPORIN Jurij Aleksandroviè, 47-8, 56-7 Satie Erik-Alfred-Leslie, 115 SCARLATTI Giuseppe Domenico, 138 SéeDRIN Rodion Konstantinoviè, 48, 55 o
ScHILLINGER Joseph Moiseyevich, 135 ScHONBERG Arnold, 100, 114, 116-8, 128-9, 131 ScHRADE Leo, 116 ScHuLLER Gunther, 145 ScHuman William Howard, 111 SCHUMANN Robert Alexander, 6, 14, 19
SeaLE Bobby, 126 SeBALIN Vissarion Jakovleviè, 35, 42, 48-9, 56, 59, 73
SeecER Charles Louis, 102
207)
228
INDICE
DEI
NOMI
SekHTER Boris Seménoviè, 59 SerLy Tibor, 27 Sessions Roger Huntington, 97, 114-5, 128-30 SHAHN Ben, 108 SHaxespeare William, 147
SÒÙapero Harold Samuel, 120 Shaw George Bernard, 146 SHaw Robert Gould, 96 SHePHERD Arthur, 92 SuÒepp Archie, 126 SHERIDAN Richard Brinsley, 51 SHERMAN John, 84 SHiLKRET Nathaniel, 118 Silver Horace, 126
SinjAvsKij Andrej Donat'’eviò, 38
SrrInsK Vasilij Petrovié, 78
SkiLton Charles Sanford, 91 SLonIMSsKI Sergej Michailoviè, 48 SLonimsKy Nicolas, 98 SMETANA Bedtich, 6 SNITKE Alfred Garrieviè, 39 SoLoKHov Michajl Aleksandroviè, 48 SoLov'Év Vladimir Sergeevié, 50 SoLZENITSyn Aleksandr Isaevié, 37-8 SosTAKOVIE Dmitrij Dmitrevié, 27, 35-8, 39-46, 47, 51, 53, 56-8, 61-9, 70, 73, 74-8 SPADAVECCHIA Antonio Emmanuilovié, 48 STALIN Josif Vissarionovié Dzugasvili, detto, 35, 41, 47, 64, 22
STEIN Gertrude, 86, 98, 115, 151 STEIN Leonard, 128 STEINBECK John, 108 STEINBERG Maksimilian Oseevié, 59 StIiLL William Grant, 91
StokowsKI Leopold Anthony, 97 STOssLovA Kamila, 16 STRANG Gerard, 128 STRAUSS Richard, 6, 19, 72, 114 STRAVINSKIJ Igor Fédorovié, 9, 19, 26, 36-7, 44, 73, 114, 116-9, 120, 139, 144
StumpF Friedrich Carl, 7 SuBoTNICK Morton, 137 SuMNER William Graham, 85
Suzuki Daisetz Teitaro, 132
Sviripov Georgij Vasil’evié, 56-7 SzELUTO Apolinary, 4 SzymanowSKI Karol, 4-5 TarrT William Howard, 84 TaTE Allen, John Orley, 109 TEREMIN Lev, 33, 111 THomson Virgil, 98, 111, 114, 115-6, 151
THoreAU Henry David, 92, 94, 96, 19599: TooMER Jean, 89 TrocKk Lev Davidoviè, 31, 33 TruJiLLo y MoLINA Rafael Le6nidas, 107
TwAIN Mark, pseud. di Clemens Samuel Langhorne, 86 Usico Jorge, 107 UssacHeEvsky Vladimir, 130 VANZETTI Bartolomeo, 85 VarÈsE Edgar, 21, 97, 100, 102-4, IIS
BOAT
Vargas Getulio, 107 Vasienko
Sergej Nikiforoviè, 43,
DORSO
Vrasov Vladimir Aleksandroviè, 73 Vogakg K., 50
VoLkov Solomon, 41 » WAGNER Richard, 144 WaLker William, 115 WARNER Charles Duddley, 86 WEBER Ben, 129 WEBERN Anton von, 118 Weir Kurt, 49, 117, 150
WeEIScALL Hugo, 152 WeEIss Adolf, 128-9, 131 WHITEMAN Paul, 88, 99 Wurrine Arthur, detto Battelle, 89-90
WrHITMAN Walt, 86, 92 WHvTE William H. jr., 124 WirxLiams Charles Melvin, detto Cootie, 121 WiLson Bob, 143
INDICE
WITTGENSTEIN Paul, 72 WoLFF Christian, 135 WoLpe Stefan, 117, 128 Woop Grant, 108 XENAKIs Iannis, 112 Youne La Monte, 141, 142-3 Younc Lester Willis, detto Prez, IgzAl
DEI
NOMI
ZAMJATIN Evgenij Ivanovié, 44 ZpANOV Andrej Aleksandrovié, 34-5, 47, 49
ZeLoBINsKJ Valerij Viktorionovi&, 46 Zinov‘ev Grigorij Jevsejevié Apfelbaum, detto, 33 ZOLOTAREV Vasilij Andreeviè, 43 ZUKOVSKIJ German Leonteviè, 36, 47
229
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Finito di stampare nel settembre 1991 presso G. Canale & C. S.p.A. - Borgaro (TO)
Fotocomposizione LIV-Rivoli (TO)
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9° ©
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Musica e Spettacolo Storia della Musica
Storia dell’opera italiana
a cura della Società Italiana di Musicologia
a cura di Lorenzo Bianconi e Giorgio Pestelli
Giovanni Comotti
4. Il sistema produttivo e le sue competenze
. La musica nella cultura greca e romana 208 pagg., ISBN 88-7063-108-7
XIV-398 pagg.,
Giulio Cattin . La monodia
XVI-464 pagg., 49 ill., ISBN 88-7063-052-8
DI La spettacolarità
nel Medioevo
284 pagg. ca., ISBN 88-7063-112-5
134 ill., ISBN 88-7063-053-6
6. Teorie e tecniche, immagini e fantasmi X-550 pagg., 48 ill., ISBN 88-7063-054-4
F. Alberto Gallo
. La polifonia nel Medioevo
200 pagg., ISBN 88-7063-100-1
Autori e opere Michael Talbot
Claudio Gallico
. Vivaldi
. L’età dell’ Umanesimo e del Rinascimento 224 pagg., ISBN 88-7063-106-0 Lorenzo
296 pagg., 10 ill., 32 es. mus., ISBN 88-7063-005-6
Alberto Basso
Bianconi
. Il Seicento
392 pagg., ISBN 88-7063-099-4
Alberto Basso . L’età di Bach e di Haendel
304 pagg., ISBN 88-7063-098-6
Giorgio Pestelli . L’età di Mozart e di Beethoven 368 pagg., ISBN 88-7063-097-8
. Frau Musika. La vita e le opere di J. S. Bach 2 voll., 1792 pagg., 43 ill., 55 es. mus., ISBN 88-7063-011-0 (I vol.), 88-7063-028-5 (II vol.)
Winton
Dean
. Bizet 352 pagg., 10 ill., 77 es. mus., ISBN 88-7063-013-7
Sergio Sablich Renato Di Benedetto
. Busoni
. Romanticismo e scuole nazionali 7 nell'Ottocento 336 pagg.,
ISBN
88-7063-105-2
Michelangelo Zurletti . Catalani
Fabrizio Della Seta
. L’opera in Italia e in Francia nell'Ottocento
392 pagg., 14 ill., ISBN 88-7063-022-6
i
260 pagg. ca., ISBN 88°7063-113-3
256 pagg., 44 es. mus., ISBN 88-7063-025-0
Gastone Belotti . Chopin
Guido Salvetti . La nascita del Novecento
270 pagg. ca., ISBN 88-7063-114-1
656 pagg., 23 ill., 45 es. mus., ISBN 88-7063-033-1
Paolo Fabbri
Gianfranco Vinay hi, Il Novecento nell'Europa orientale e negli Stati Uniti
256 pagg., ISBN 88-7063-107-9 Andrea
Lanza
12. Il secondo Novecento 270 pagg. ca., ISBN
88-7063-115-X
. Monteverdi 472 pagg., 16 ill., 60 es. mus., ISBN 88-7063-035-&
Julian Budden
8. Le opere di Verdi (3 voll.) Da Oberto a Rigoletto 616 pagg., 360 es. mus.,
ISBN
88-7063-038-2
Dal Trovatore alla Forza del Destino 616 pagg., 357 es. mus., ISBN 88-7063-042-0
Da Don Carlos a Falstaff 640 pagg., 355 es. mus., ISBN 88-7063-058-7
. Donatoni
La vita 14 ill., ISBN
a cura di Enzo Restagno 336 pagg., 39 es. mus., ISBN 88-7063-051-X
Autori Vari
William Ashbrook . Donizetti (2 voll.) 280 pagg.,
Autori Vari
. Carter
88-7063-041-2
a cura di Enzo Restagno 292 pagg., 4 ill., 13 es. mus., ISBN 88-7063-083-8
Le opere 416 pagg.,
100 es. mus., ISBN 88-7063-047-1
Documenti
Franco Pulcini
. Sostakovit 304 pagg., 28 ill., ISBN 88-7063-060-9 Carl Dahlhaus
Charles Burney . Viaggio musicale in Italia 432 pagg., 16 ill., ISBN 88-7063-009-9
. Beethoven e il suo tempo
. Viaggio musicale in
296 pagg., 16 ill., 86 es. mus., ISBN 88-7063-074-9
Germania e Paesi Bassi
x
320 pagg., 9 ill., ISBN 88-7063-039-0
Christian Martin Schmidt
12. Brahms
Antonio Serravezza
236 pagg., 24 ill., 22 es. mus.,
. La sociologia della musica
324 pagg., ISBN 88-7063-012-9
ISBN 88-7063-079-X
Autori Vari
Giovanni
15° Tosti
Guanti
. Romanticismo e musica. L’estetica musicale da Kant a Nietzsche
a cura di Francesco Sanvitale
308 pagg., ISBN 88-7063-094-3
352 pagg.,
ISBN
88-7063-016-1
George Bernard Shaw.
Musica contemporanea
. Il wagneriano perfetto
168 pagg., 6 ill., ISBN 88-7063-015-3
Autori Vari
. Ligeti
Folco Portinari
a cura di Enzo Restagno 280 pagg., 20 es. mus., ISBN 88-7063-036-6
. Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma otfocentesco attraverso i suoi libretti
Autori Vari
296 pagg.,
ISBN
88-7063-017-X
. Henze a cura di Enzo Restagno 456 pagg., 27 es. mus., ISBN 88-7063-045-5
Autori Vari
Ugo Duse . Per una storia della musica del Novecento e altri saggi 280 pagg., ISBN 88-7063-018-8
. Petrassi a cura di Enzo Restagno 368 pagg., 51 es. mus., ISBN 88-7063-044-7
Autori Vari . Nono a cura di Enzo Restagno 336 pagg., S1 es. mus., ISBN 88-7063-048-X
Harvey Sachs . Toscanini 440 pagg., 31 ill., ISBN 88-7063-019-6
Massimo 224 pagg.,
Autori
Mila
. Cent'anni di musica moderna 11 es. mus.,
ISBN 88-7063-020-X
Vari
Richard Wagner
. Xenakis a cura di Enzo Restagno 332 pagg., 22 es. mus., ISBN
10. La mia vita 88-7063-059-5
612 pagg., 32 ill., ISBN 88-7063-026-9
Stendhal
I manuali EDT/SIdM
LEE, Vita di Rossini seguita dalle Note di un dilettante 468 pagg., 35 ill., ISBN 88-7063-027-7
Bellasich-Fadini-Leschiutta-Lindley . Il clavicembalo 256 pagg., ISBN 88-7063-031-5
Paolo Gallarati
12. Musica e maschera.
Walter Piston
Il libretto italiano del Settecento 248 pagg., ISBN 88-7063-032-3
John Mainwaring
13° Memorie della vita del fu G. F. Hàndel a cura di Lorenzo Bianconi 208 pagg., ISBN 88-7063-034-X
. Armonia a cura di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay 576 pagg., 966 es. mus., ISBN 88-7063-049-8
Jean-Jacques Nattiez . Musicologia generale e semiologia a cura di Rossana Dalmonte 216 pagg., ISBN 88-7063-062-5
John Rosselli
Guido Facchin
14. L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento 296 pagg.,
. Le percussioni a cura di Giovanni Gioanola 512 pagg., 399 es. mus., 282 ill., ISBN 88-7063-068-4
14 ill., ISBN 88-7063-037-4
Enrico Fubini
Ian Bent
15. Musica e cultura nel Settecento europeo
360 pagg., ISBN 88-7063-046-1 Autori Vari
. Analisi musicale a cura di Claudio Annibaldi 408 pagg., 203 es. mus., ISBN 88-7063-073-0
16. L’esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione a cura di Gianmario Borio e Michela Garda
232 pagg., ISBN 88-7063-063-3 Rubens Tedeschi LIZA I figli di Boris.
3 L’opera russa da Glinka a Sostakovit
264 pagg., ISBN 88-7063-071-4
Franz Niemetschek Friedrich von Schlichtegroll
18. Mozart #
a cura di Giorgio Pugliaro 136 pagg., 17 ill., ISBN 88-7063-082-X
Richard Strauss
7
19, Note di passaggio. Riflessioni e ricordi a cura di Sergio Sablich 224 pagg., 11 es. mus., ISBN 88-7063-089-7
Allorto-Chiesa-Dell’ Ara-Gilardino . La chitarra a cura di Ruggero Chiesa 296 pagg., 238 es. mus., 71 ill., ISBN 88-7063-081-1
Anthony Baines . Gli ottoni a cura di Renato Meucci 328 pagg., 50 es. mus., 139 ill.,
ISBN 88-7063-091-9
Atti 5°
Atti del XIV Congresso della Società Internazionale di Musicologia (Bologna 1987) a cura di Angelo Pompilio, Donatella Restani, Lorenzo
. Round
Bianconi,
F. Alberto Gallo
Tables
776 pagg., 46 es. mus., ISBN 88-7063-084-6
Fuori collana Glenn Gould. No, non sono un eccentrico a cura di Bruno Monsaingeon 252 pagg., 60 ill., ISBN
88-7063-050-1
19 ill.,
. Study Sessions 328 pagg., 17 es. mus., ISBN 88-7063-075-7
. Free Papers 944 pagg., 184 es. mus., 43 ill., ISBN 88-7063-070-6
Patrick Humphries
Cataloghi e Annuari
4. Vita di Tom Waits 152 pagg., 19 ill., ISBN 88-7063-090-0
Harvey Sachs
. Arturo Toscanini dal 1915 al 1946. L’arte all’ombra della politica 160 pagg., 90 ill., ISBN 88-7063-055-2
. Arturo Toscanini from 1915 to 1946.
Art in the shadow of politics
Robin Denselow . Agit-pop. Musica e politica da Woody Guthrie
a Sting 352 pagg., ISBN 88-7063-103-6
160 pagg., 90 ill., ISBN 88-7063-056-0
. Opera ’87 Annuario EDT dell’opera lirica in Italia a cura di Giorgio Pugliaro 320 pagg., 243 ill., ISBN 88-7063-057-9
. Opera ’88 Annuario EDT dell’opera lirica in Italia a cura di Giorgio Pugliaro
458 pagg., 373 ill., ISBN 88-7063-061-7 . Opera ’89 Annuario EDT dell’opera lirica in Italia a cura di Giorgio Pugliaro 480 pagg., 397 ill., ISBN
88-7063-067-6
Spettacolo Autori Vari
. L’economia dietro il sipario. Teatro, opera, cinema, televisione a cura di Milena I. Boni
168 pagg., ISBN 88-7063-064-1
Merce Cunningham
s
. Il danzatore e la danza 208 pagg., 42 ill., ISBN 88-7063-076-5
Autori Vari
. Agnès Varda
. Opera ’90 Annuario EDT dell’opera lirica in Italia a cura di Giorgio Pugliaro
408 pagg., 292 ill., ISBN 88-7063-088-9
a cura di Sara Cortellazzo e.Michele Marangi 152 pagg., 64 ill., ISBN 88-7063-072-2
Autori Vari
Confini (Popular Music) Manu
l. Tre chili di caffè. Vita del padre dell’ Afro-Music 136 pagg., 44 ill., ISBN 88-7063-078-1
Artemy Troitsky
256 pagg.,
193 ill., ISBN 88-7063-065-X
. VII Festival Cinema Giovani
Catalogo generale (Torino 10-18 novembre 1989) 224 pagg., 170 ill., ISBN 88-7063-066-8
DI Tusovka. Rock e stili nella nuova cultura sovietica 120 ill., ISBN
Cinema italiano 1945-1949 a cura di Alberto Farassino
Dibango
240 pagg.,
. Neorealismo.
88-7063-080-3
Simon Frith . Il rock è finito.
Miti giovanili e seduzioni commerciali
. Racconti crudeli di gioventù. Nuovo cinema giapponese degli anni ’60 a cura di Marco Miiller e Dario Tomasi
328 pagg., 96 ill., ISBN* 88-7063-087-0 . VIII Festival Cinema Giovani
nella musica pop
Catalogo generale (Torino 9-17 novembre 1990)
284 pagg.,
192 pagg.,
ISBN 88-7063-085-4
147 ill., ISBN 88-7063-086-2
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STORIA DELLA MUSICA
LA RINASCITA MUSICALE NEI PAESI DELL’EST EUROPEO Indipendenza nazionale e tradizione popolare. L’etnomusicologia * Leòs Janàtek * Béla Bartok
LA MUSICA
NELL’UNIONE
SOVIETICA
Musica e politica culturale in URSS e L’opera * Prokof'ev e l’opera © Il balletto * La musica per film e la cantata * Il sinfonismo, la sinfonia e il concerto * La musica cameristica e pianistica "
LA MUSICA AMERICANA La fondazione dell’impero statunitense e l’isolazionismo * L’età dorata e l'età del jazz è La musica americana tra i due secoli: “tradizione garbata” e folclore * Il rinascimento musicale americano: Charles Edward Ives e Gli anni Venti: jazz e sperimentalismo * La grande depressione ed il New Deal rooseveltiano e Tendenze e sviluppi della musica americana nell’età rooseveltiana * Gli anni del dopoguerra: dalla “guerra fredda” al “caso Watergate”; dalla “beat generation” alla “hip generation”; dal “bebop” al “free jazz” * La musica nel dopoguerra: serialità, indeterminazione, alea e gestualità, improvvisazione * Elliott Carter * I minimalisti e la musica ripetitiva * Fusione e confusione dei generi. Il teatro musicale
GIANFRANCO VINAY è nato a Torino nel 1945 e insegna Storia della Musica presso il Conservatorio G. Verdi di Torino. Autore delle monografie L'America musicale di C. Ives (Einaudi, Torino 1974) e Stravinsky neoclassico (Marsilio, Venezia 1987), ha indirizzato prevalentemente le sue ricerche musicologiche nell’àmbito delNovecento.
Impegnato nella divulgazione musicologica, collabora con la Società Italiana di Musicologia, in particolare per la promozione di iniziative volte all’aggiornamento didattico degli studi musicali e musicologici, fra le quali la collana / manuali EDT/SIdM.
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