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Italian Pages 133 [126] Year 2009
Il messianismo ebraico A cura di liana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo
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Giuntina
Università degli Studi Roma Tre Dipartimento di Filosofia
Il messianismo ebraico A cura di Ilana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo
Giuntina
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre, Prin 2006
Copyright © 2009 Casa Editrice Giuntina, Via Mannelli 29 rosso, Firenze www.giuntina.it ISBN 978-88-8057-346-3
Indice
Ilana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo, Prefazione . . . . . . . . .
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Riccardo Di Segni, I testi: Torà e Talmud . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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David Gianfranco Di Segni, Messianismo e Halakhà . . . . . . . . . . . . . . . .
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Roberto Della Rocca, Maimonide e il messianismo . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Giada Coppola, Yemot ha-mashiach. Maimonide e l’era messianica . . . .
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Alessandro Guetta, Messianismo, anti-messianismo, a-messianismo nella tradizione italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Gabriele Guerra, L’eresia mistica. Il messianismo di Šabbetay Sevi . . . . .
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Saul Meghnagi, Ebrei nella storia: genesi ed evoluzione dell’idea di nazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Antonio Demma, Franz Kafka: il luogo messianico . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Tamara Tagliacozzo, Messianismo e teologia politica in Walter Benjamin
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Dario Gentili, Etiche e politiche del messianismo: Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Ilana Bahbout, Il messia alle porte della città. Per una filosofia della marginalità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Glossario, a cura di Giada Coppola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Ilana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo Prefazione
Questo libro rappresenta l’esito di un lavoro seminariale, durato un intero anno accademico (2007-2008), che ha visto protagoniste diverse personalità del mondo culturale ebraico e non solo, e ha affrontato e discusso la questione del messianismo, privilegiando appunto il punto di vista ebraico. L’iniziativa è nata nell’ambito del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, dove da tempo si discute del messianismo nelle sue diverse sfaccettature, di cui si vuole evidenziare la capacità ermeneutica di leggere una varietà di fenomeni culturali, soprattutto novecenteschi. In tale contesto, l’iniziativa del seminario dedicato al «messianismo ebraico» rispondeva all’esigenza di interrogare l’origine e il significato ebraico del termine e, più in generale, quella tradizione a cui si rifacevano molti dei pensatori che, agli inizi del Novecento, hanno ridato vigore all’idea messianica. Infatti, in quel periodo, il messianismo ha rappresentato il luogo d’incontro e di fusione di istanze e suggestioni provenienti da religioni e contesti culturali diversi, dando così vita a una sua interpretazione del tutto originale e peculiare. Tuttavia, tale coacervo straordinario di influssi di varia e a volte contraddittoria origine – in cui elementi filosofici, politici, artistici e religiosi sono intrecciati in maniera inestricabile – ha finito per rappresentare il paradigma dell’«idea messianica» tout court. Nel Novecento, il messianismo ha svolto spesso una funzione di intensificazione di motivi prettamente filosofici – di filosofia della storia per esempio – etici e politici, ma raramente, nei diversi pensatori che vi hanno attinto, si riscontra un’analisi approfondita o almeno accurata della tradizione religiosa e testuale da cui l’idea messianica trae origine. Un’altra caratteristica tipica del messianismo novecentesco, inoltre, è proprio quella di non aver considerato come decisive le differenze tra le diverse religioni messianiche (soprattutto quelle ebraica e cristiana), anzi, è la loro sinergia la cifra peculiare di un messianismo volto completamente al rinnovamento delle categorie filosofiche tradizionali e all’orientamento e alla definizione delle utopie politiche: questa è stata la sua ricchezza e, al contempo, il suo limite. L’intenzione del seminario è stata di ridimensionare l’apporto del messianismo novecentesco rispetto all’idea messianica in generale: il Novecento sarebbe soltanto una delle epoche in cui l’idea messianica è stata attualizzata e ha agito nella storia. Esso appartiene piuttosto a una storia molto più ampia e variegata, quella dell’interpretazione del messianismo, alla stessa stregua di altre epoche cariche di tensioni e lacerazioni politiche e religiose. Per leggere il messianismo al di là del Novecento, la prima operazione è stata quella di sciogliere il nodo che, intorno al messianismo, ha legato e confuso elementi, tra loro anche radicalmente eterogenei, dell’ebraismo e del cristianesimo: il seminario, infatti, è stato dedicato alla tradizione propria del messianismo ebraico. È per questo motivo che abbiamo chiesto ai relatori invitati,
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Ilana Bahbout, Dario Gentili, Tamara Tagliacozzo
alcuni dei quali con specifiche competenze di esegesi biblica e talmudica, di aprire squarci diversi all’interno della storia della tradizione messianica ebraica. Ebbene, per chi è abituato a considerare il messianismo soltanto sulla base delle esperienze novecentesche, è stato interessante verificare come la storia del pensiero ebraico restituisca una concezione del messianismo molto più complessa, che ne mette talvolta in discussione la centralità. La struttura del libro, e del seminario da cui è derivato, intende appunto ampliare il più possibile la costellazione ebraica dell’idea messianica e, senza presumere la completezza, fornire quantomeno le tracce di alcuni dei diversi itinerari che il messianismo ha percorso all’interno del pensiero ebraico. Per introdurre il tema messianico, ci siamo rivolti all’analisi dei testi biblici e talmudici per ricostruire il contesto originario a cui il termine mashìach appartiene (il termine «messianismo», invece, è coniato di recente, nell’Ottocento, e si diffonde specialmente in ambito filosofico). La prima parte del libro, attraverso punti di vista diversi, ricostruisce alcuni momenti importanti dell’interpretazione e dell’approfondimento dell’idea messianica nel Medioevo e nell’Età Moderna; è interessante evidenziare come ai movimenti messianici sia corrisposto spesso una sorta di contro-movimento di resistenza e reazione in seno alle comunità ebraiche: entrambi i momenti fanno parte della storia del messianismo. La seconda parte, infine, tenta una duplice operazione: considerare il messianismo novecentesco e i suoi esponenti principali all’interno del contesto più ampio del messianismo ebraico e, inoltre, pensare oggi ciò che resta del messianismo dopo l’esperienza incandescente del Novecento, dopo la Shoah e la creazione dello Stato d’Israele. I saggi che compongono Il messianismo ebraico lasciano aperta, in fondo, la questione dell’attualità del messianismo: quale sarebbe, se c’è, l’orizzonte messianico del nuovo millennio, quali sono le paure e le speranze proprie del nostro tempo? Non è possibile, ovviamente, fornire una risposta univoca, eppure importanti pensatori di fine millennio non hanno affatto eliminato il messianismo dal lessico filosofico, anzi ne hanno estratto nuove potenzialità di senso, che evidenziano il significato, soprattutto esistenziale, che oggi potrebbe assumere. Un messianismo che, pertanto, si rivolge al singolo ed è caratterizzato, ad esempio, dalla finitezza, dalla responsabilità, dall’ospitalità e dalla marginalità come spazio messianico per eccellenza. E se di politica in chiave messianica ancora si può parlare, rinnovando così un tipico paradigma novecentesco, si prospetta un’inedita e inusuale connessione tra messianismo e democrazia. Ringraziamo tutti gli autori che hanno contribuito alla realizzazione di Il messianismo ebraico. Nel libro, per diversi motivi, non sono presenti i testi di alcuni relatori del seminario, che ringraziamo: Erri De Luca, Benedetto Carucci Viterbi, Gavriel Levi, Rachel Levi. Ringraziamo inoltre il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre e il suo Direttore Elio Matassi, per aver ospitato il ciclo d’incontri e averlo seguito con interesse; ringraziamo Giacomo Marramao per aver sostenuto l’iniziativa e la pubblicazione del libro. Un ringraziamento particolare va a Katrin Tenenbaum, che ha ideato e organizzato con noi il seminario e ha contribuito in modo determinante alla sua riuscita.
Riccardo Di Segni I testi: Torà e Talmud
Questo libro affronta le molteplici facce di una grande questione a proposito della quale mi è stata affidata una sorta di introduzione alle fonti bibliche e rabbiniche. In questo contesto posso dare solo qualche informazione. Soltanto parlare del messianismo nella Bibbia impegnerebbe un intero corso annuale; si racconta che al Collegio Rabbinico il Professor Umberto Cassuto dedicò un corso monografico completo a una sola frase messianica della Genesi, quella che dice «finché verrà Shiloh».1 Per iniziare, bisogna spiegare cosa significa la parola Messia. Messianismo è un termine «tecnico» e le profezie messianiche nella Bibbia molto spesso non usano questa parola; successivamente, nella storia ebraica e nella storia di altre fedi, il messianismo diventa un concetto generale che si riferisce alla liberazione finale. Tuttavia, c’è anche un messianismo politico riferito nel linguaggio comune a ideali e progetti politici, come quelli per esempio del socialismo. Il termine ha origine in un contesto meramente rituale e bisogna seguire l’ordine del racconto biblico, che dal punto di vista della fede ebraica va preso come è, e come tale rispettato in linea di massima; ma secondo la critica biblica l’ordine del racconto non è quello cronologico della scrittura. C’è l’episodio di Giacobbe che fugge dalla sua terra;2 lungo la strada si ferma a dormire, prende delle pietre per giaciglio, ha il sogno della scala,3 al risveglio considera il posto dove sta come sacro, prende la pietra che gli è servita
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Genesi 49, 10. Genesi 28. 3 L’episodio del sogno di Giacobbe è narrato in Genesi 28, 12-17: «Fece un sogno: vedeva una scala posata in terra, la cui cima arrivava al cielo e per essa gli angeli di Dio salivano e scendevano. Il Signore stava in cima ad essa e gli diceva: “Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e di Isacco, la terra sulla quale stai coricato la darò a te e alla tua discendenza”» (Genesi 28, 12-13). La complessità di questo episodio suggerisce alla tradizione molteplici interpretazioni, non soltanto per il linguaggio oscuro, ma anche per la grande portata simbolica che questa visione rappresenta. Un’interpretazione del sogno è riportata nel Midrash Tanhumà (Vajetzè, 2), in cui Giacobbe/Israele assiste all’ascesa e alla decadenza di popoli e imperi (Babilonia, Persia, Grecia) e, infine, assiste anche alla caduta dell’impero di Edòm (Roma) – questa interpretazione viene anche accettata da Maimonide. Un’altra interpretazione che può essere addotta è quella per cui la scala di Giacobbe rappresenta il legame tra il cielo e la terra, tra il mondo materiale e quello spirituale: infatti, la scala poggia sulla terra, ma il suo sostegno sta in cielo, cosicché tutte le nostre azioni dovranno tendere il più possibile al divino (cfr. Elia Kopciowski, Invito alla lettura della Torà, La Giuntina, Firenze 1998). 2
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Riccardo Di Segni
per dormire, la erige come stele e ci versa sopra dell’olio.4 Il versare l’olio è un atto rituale che qui incontriamo per la prima volta, ma che si ripeterà nella Bibbia molte altre volte. Ungersi con l’olio era il procedimento che si seguiva per profumarsi, sia con il solo olio d’oliva, che usando l’olio d’oliva come veicolo di profumi. Oggi, nei profumi abbiamo come veicolo e solvente principale l’alcool etilico; nell’antichità e fino a due o tre secoli fa, l’ingrediente principale del profumo era l’olio, per cui «ungersi» nel linguaggio comune significava anche «profumarsi». Dunque, c’era un uso profano dell’olio, per farsi belli, e c’era un uso rituale dell’olio, che veniva impiegato – oli speciali in composizioni particolari – per dare sacralità agli oggetti e alle persone, per trasformarli da profani in sacri. L’esempio che troviamo per la prima volta nella Bibbia con Giacobbe è il primo caso di trasformazione di un oggetto dalla profanità alla sacralità; troveremo questo gesto sistematizzato nell’inaugurazione del santuario in Esodo,5 quando gli oggetti che vengono adibiti all’uso sacro vengono anch’essi cosparsi, unti con l’olio. Questo non riguarda solo gli oggetti, ma anche le persone, che quando sono designate, nominate, incaricate di particolari funzioni sono unte con l’olio. Queste persone appartengono nella Bibbia essenzialmente a tre categorie. La prima è quella dei sacerdoti. I sacerdoti presso gli ebrei sono i membri della famiglia di Aronne,6 fratello di Mosè; il sacerdozio è ereditario: chi è figlio di sacerdote a sua volta è sacerdote, se il sacerdote padre si è unito con una donna a lui consentita. Pertanto, se la trasmissione di una funzione è ereditaria, non c’è bisogno di rinnovare l’unzione di padre in figlio; se invece la nomina a una carica non è ereditaria, in questo caso bisogna procedere a una nuova unzione. Una carica speciale del sacerdozio è quella di Gran Sacerdote, che deve essere nominato per questa funzione: nasce sacerdote, ma deve essere «unto». Con questa stessa cerimonia sono designati i re d’Israele. Nel caso di un cambio di dinastia, bisogna ungere con un olio speciale il nuovo re. Anche i profeti vengono destinati a una funzione speciale. Abbiamo, quindi, tre categorie: i sacerdoti, i re, i profeti, che sono tutti chiamati nella Bibbia mashìach. L’atto dell’ungere è il verbo mashach e colui che viene unto è mashìach, che per traslato può significare sacerdote e re, e talvolta anche profeta. Dunque, Mashìach diventa nel corso dell’evoluzione linguistica sinonimo di queste categorie e, a un certo punto, indica re particolari. Qualsiasi re, anche non ebreo, può essere chiamato mashìach e difatti, nel Deutero Isaia (la seconda parte di Isaia, che si pensa non sia stata scritta da Isaia ma da un autore successivo, vissuto ai tempi del ritorno dall’esilio babilonese), il re persiano Ciro (Koresh) è chiamato mashìach: «così dice il Signore al suo unto»,7 come se Dio l’avesse no-
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Genesi 28, 18. Esodo 40, 1-33. 6 Esodo 28-29; Esodo 40, 12-15; Numeri 3. Aronne è fratello di Mosè, discendente della tribù di Levi (terzogenito di Lia). Aronne sarà consacrato sacerdote per bocca di Mosè direttamente dal Signore: «Tu poi avvicina Aron tuo fratello insieme ai suoi figli di mezzo ai figli d’Israele, perché esercitino il sacerdozio in Mio onore, Aron, Nadav, Avihù, El’azar e Ithamar figli di Aron» (Esodo 28, 1). Inoltre, è scritto in Esodo 28, 43: «statuto perpetuo per lui e per la sua discendenza dopo di lui»; tutti i discendenti di Aronne, chiamati kohanìm, saranno pertanto consacrati alla carica di sacerdote. I kohanìm furono incaricati, dopo l’episodio del vitello d’oro, di compiere diversi servizi connessi a particolari sacrifici e rituali del Santuario. 7 Isaia 45, 1. 5
I testi: Torà e Talmud
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minato. Pertanto, mashìach non è necessariamente un re d’Israele, ma anche un re al di fuori dell’ambito di Israele. Parlare di mashìach nella Bibbia significa riferirsi genericamente a varie categorie che sono state incaricate di funzioni speciali. Questo per quanto riguarda lo sviluppo tecnico del nome. Diversa è la storia dell’idea, perché l’idea messianica rappresenta la speranza di tempi migliori rispetto a tante questioni; è un contenitore molto ampio in cui convergono cose differenti, anche molto differenti. In situazioni di crisi e di sofferenza emergono speranze di tempi migliori. Le situazioni di crisi e di sofferenza sono tante e ognuna ha il suo quadro di soluzioni e di speranze particolari. Il prototipo della sofferenza da cui si esce è quello della schiavitù egiziana,8 pertanto tutto il vocabolario di redenzione ebraica nasce là, con i famosi quattro termini che indicano la liberazione e la redenzione.9 Quando si parla di redenzione-liberazione nell’ebraismo il concetto è prima di tutto politico-sociale; per capire questi concetti, chi proviene da un ambiente, da un’educazione, da una cultura cristiana si deve per un momento spogliare di tutte le immagini della sua cultura perché queste sono uno sviluppo molto particolare e speciale di un’idea che nell’ebraismo originariamente è non solo differente, ma molto più articolata; quindi, quando si parla di redenzione, di salvezza, ciò ha un significato prima di tutto politico-sociale, il cui prototipo è quello della schiavitù egiziana. Un problema che assume poi una connotazione messianica è quello della sottomissione del popolo ebraico a potenze straniere. Nel momento in cui gli ebrei sono sottomessi ad altri popoli, chiedono l’indipendenza, coltivano l’idea di redenzione politica: non vogliono l’invasore. Tante situazioni del genere sono già configurate nel libro dei Giudici, dove questo motivo è ripetuto: il popolo pecca, viene punito con un’oppressione straniera, il popolo si pente di ciò che ha fatto, il Signore manda un liberatore, un «giudice», che li libera e poi per un certo periodo il Paese vive in pace. Un ulteriore modello messianico è quello della giustizia, soprattutto della giustizia sociale: in una situazione, anche d’indipendenza, in cui lo Stato è ingiusto, è governato da re e da un intero apparato che esercita la violenza, nasce l’esigenza di cambiare radicalmente la struttura della società e s’immagina un re, pieno di saggezza, che eserciterà la giustizia. Anche questa è un’idea messianica: è lo Stato che deve essere completamente riformato a partire da questa prospettiva di giustizia, l’idea di giustizia sociale regolata da un’autorità ispirata. Altro tema fondamentale è quello dell’esilio: il popolo ebraico viene disperso a causa delle sue colpe; frammentato, va in giro per il mondo e l’idea messianica è quella della raccolta delle dispersioni, la raccolta delle diaspore. Già alla fine del libro del Deuteronomio,10 è detto: «quand’anche la vostra dispersione fosse agli estremi del cielo, di là vi raccoglierà Dio, di là vi farà venire». Queste idee sono tutte originarie del testo biblico. Un ulteriore problema riguarda i rapporti con i popoli del mondo, sia a proposito dell’idolatria che della violenza. Per quanto riguarda l’idolatria, l’idea messianica risolve la situazione critica in cui le genti s’inchinano e adorano falsi dei e il momen-
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Esodo 6, 6-7. Ibidem: «Vi farò uscire dalle sofferenze dell’Egitto, vi salverò dal loro lavoro, vi libererò con braccio disteso e grandi atti di giustizia e vi prenderò come popolo». 10 Deuteronomio 30, 4. 9
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Riccardo Di Segni
to che si attende è quello in cui tutti i popoli conosceranno l’idea di un Dio unico. Per quanto riguarda la violenza universale, l’idea messianica consiste nell’attesa di un mondo in cui non ci saranno più guerre, in cui un uomo non alzerà la spada contro l’altro. Il messianismo comprende anche questo. Ciò è radicato nella realtà quotidiana, è storia. Pensare che le diaspore vengano raccolte è un ideale politico, come anche pensare a un mondo giusto; in questo senso non si va oltre la storia, ma si va oltre la storia in altre prospettive. Per esempio, quando s’immagina un mondo in cui non solo metaforicamente ma anche realmente gli animali non divoreranno altri animali, il lupo dimorerà con l’agnello.11 Questa è una delle prospettive possibili. Un’altra prospettiva, che emerge in varie profezie messianiche, accanto a quella materiale della raccolta delle diaspore, è quella del superamento della morte. Nel capitolo 38 di Ezechiele, c’è la visione delle ossa che riacquistano vita, che si ricompongono, dove non è chiaro se si tratti di una grande metafora di un corpo che si considera morto e che torna in vita, del corpo politico d’Israele che deve recuperare la sua vita, o se, invece, si tratti anche o soprattutto o soltanto dell’idea dei morti che risorgono. Tutte queste idee sono disseminate nella Bibbia, non sono organizzate coerentemente in una disciplina organica, fanno parte di un grande deposito, da cui il singolo autore, il singolo profeta, la singola profezia estrae dei concetti e li sviluppa. Molto spesso questi concetti sono concentrati intorno a un’immagine regale: un re ispirato che porterà a compimento il progetto. Si tratta sempre – ecco una precisazione metodologica fondamentale – di ideali e speranze di cui si nutre il popolo ebraico in momenti duri della sua storia. L’Ebraismo mantiene e promuove queste idee, ma al limite potrebbe farne a meno. È una speranza: speriamo che succeda così. Ma l’ebraismo può esistere anche senza il messianismo. A differenza del Cristianesimo: la parola Christòs è la traduzione di «messia», che – come abbiamo visto prima – corrisponde esattamente al concetto di «unto». Il Cristianesimo è religione messianica, la speranza realizzata ne è il fondamento: il Cristianesimo senza messianismo non esiste, perché è tale per definizione. Si tratta di un approccio fondamentale a una questione che, nell’ebraismo, è completamente differente. Per fare un esempio di profezia messianica nella Bibbia, soffermiamoci su Isaia, 2, 1-4, che ha un parallelo in un’altra profezia molto simile, in un profeta di due secoli posteriore, Michà, in Michea 4, 1-5. La profezia di Isaia è: «Visione che ebbe Isaia figlio di Amoz su Yehudà e Gerusalemme. Avverrà in un giorno lontano – in un momento lontano, quanto lontano non lo sappiamo, se si fa un’analisi filologica stretta potrebbe significare nello spazio di sessant’anni, ma può significare anche alla fine della storia – il monte della casa del Signore sarà posto in cima ai monti, sarà più sollevato delle colline e tutti i popoli affluiranno a lui. Molti popoli andranno e diranno: “Andate! Saliamo al monte del Signore, la casa del Dio di Giacobbe, c’insegni le sue strade, percorreremo i suoi sentieri perché da Sion uscirà la Torà – l’insegnamento – e la Parola di Dio da Gerusalemme”. Giudicherà tra le nazioni, ammonirà molti popoli. Spezzeranno le spade per farne degli strumenti agricoli, le loro lance per farne delle falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non studieranno più la guerra».12 Questa è una profezia fondamentale che
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Isaia 11, 6. Isaia 2, 1-4.
I testi: Torà e Talmud
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ha segnato la storia dell’umanità; è anche incisa sul muro del palazzo dell’ONU, a New York. È una profezia strana, intanto perché non parla di Messia: per arrivare al Messia bisogna leggere il capitolo 11 di Isaia; qui non si parla di Messia, si parla di un’epoca in cui tutto sarà completamente stravolto. Non è uno stravolgimento politically correct, in cui ognuno proseguirà per la sua strada. No, non c’è niente del genere. C’è assoluto monoteismo, tutti quanti conoscono la giustizia dell’ideale Dio unico, Gerusalemme è il centro di questa idea e Gerusalemme esercita la funzione di giudice tra le nazioni. In conseguenza di ciò non ci sarà più bisogno di fare la guerra, e questo è un modo molto sui generis di affrontare il tema messianico, che serve per introdurre un altro concetto importante. Nella Bibbia ci sono tante profezie tipicamente messianiche, ma ci sono numerose situazioni che apparentemente non hanno niente a che fare con il Messia, e che in realtà ne sono la premessa. Faccio degli esempi. Nel Capitolo 11 della Genesi è raccontata la storia della Torre di Babele: i popoli confluiscono tutti in un unico posto, costruiscono una torre, Dio vede questa torre come una situazione rischiosa e, quindi, confonde la lingua delle nazioni, che da quel momento si disperdono. La storia non è così isolata; per capire quella storia e per capire Isaia, bisogna mettere Isaia, 2 insieme alla Torre di Babele e, allora, si vede che c’è una linea, centrifuga all’inizio che diventa centripeta dopo. Le due cose non sono isolate. La storia della Torre di Babele è il presupposto della profezia messianica di Isaia, così come dopo ci sarà la profezia di Tzefanyà (Sofonia),13 che dirà che i popoli parleranno un’unica lingua: è lo sviluppo di una catena fatta di tanti anelli e alcuni anelli, che non sembrano messianici, lo sono alla luce degli sviluppi successivi. E ancora, per esempio, nel capitolo 11 di Isaia, si parla del famoso «lupo che dimora con l’agnello»; per capire questo capitolo, bisogna avere in mente il confronto tra l’inizio del libro della Genesi, capitolo 1, e il capitolo 9, da cui si apprende – non è detto esplicitamente, ma tra le righe, c’è bisogno di esegesi per capirlo – che l’umanità all’inizio era vegetariana e soltanto dopo il diluvio cominciò a mangiare carne, a usare violenza sulla natura. Il confronto di questa storia con la profezia di Isaia, 11 mostra che con l’epoca messianica il cerchio si chiude: l’umanità all’inizio non era violenta, neanche il mondo animale lo era; lo sono diventati a un certo punto, ma con l’epoca messianica si tornerà alle origini e la violenza scomparirà un’altra volta. Il racconto che è all’inizio ha senso insieme al racconto che segue. C’è poi un’altra serie di storie. Il libro della Genesi è profondamente messianico, non solo per il riferimento a Shiloh, che citavo all’inizio, ma per una quantità di altre tracce: per esempio, è fondamentale nel discorso messianico il riferimento alla casa di David. Il Messia discende da David, e David viene dalla tribù di Giuda, uno dei figli di Giacobbe. Le storie dei patriarchi vanno lette anche in chiave messianica; vi sono allusioni disseminate nel testo che preparano la strada a una linea teorica che poi si conclude. Il patriarca Giacobbe ha due mogli, una amata e l’altra no. Dalla moglie amata, Rachele, nascono Beniamin e Yosef. Yosef è il primogenito e diventerà viceré in Egitto. Da Beniamin deriverà una linea regale, quella di Saul, la prima linea regale, che poi perderà il regno. Invece, dall’altra moglie Lea nasceranno un primo figlio, Reuven, che si comporterà male, Levi, che darà origine a un’esperienza regale – quella di Mosè – e poi al sacerdozio, e finalmente Yehudà, colui che alla fine arriva
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Sofonia 3, 10.
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Riccardo Di Segni
al potere. La scena di Yehudà che litiga con Yosef alla corte del Faraone è una raffigurazione di evento messianico, e questa lettura non è un’esercitazione esegetica, è piuttosto la traccia sotterranea che percorre il racconto. Un altro esempio sarà particolarmente interessante per chi ha conoscenze cristiane. Nel primo capitolo di Matteo,14 c’è la genealogia di Gesù, che si dimostra discendere da Adamo attraverso David per 42 generazioni (14 x 3). In questa genealogia, tutta maschile, in perfetto stile biblico, compaiono quattro donne: Tamar, Rachav, Ruth e Batsceba (Betsabea, che non è nominata, ma è chiamata la «madre di Salomone»). Questi quattro personaggi femminili hanno, tra i vari aspetti comuni condivisi, una storia controversa dal punto di vista sessuale. Tamar si traveste da prostituta per farsi mettere incinta dal suocero Yehuda. Rachav è la donna di Gerico che faceva di professione la prostituta. Ruth, l’antenata di David, discende dal popolo di Moab, che è il prodotto di un incesto, ed è protagonista di una strana scena notturna nell’aia con Boaz, suscettibile di varie interpretazioni. Batsceba è presa da David con un adulterio. Queste quattro storie disperse nella Bibbia hanno senso insieme: l’idea che la discendenza messianica passa attraverso comportamenti sessuali fuori dalla regola. Il testo biblico non lo dice esplicitamente – va ricavato – sarà poi la tradizione successiva a dirlo e non sarà una stranezza dell’esegesi ebraica, ma un’esegesi perfettamente condivisa da quella cristiana, come appunto documenta il primo capitolo di Matteo, che aggiunge alla lista delle antenate messianiche anche il nome di Rachav, che la Bibbia ebraica e i midrashim non collegano al Messia. Qualche accenno a come la tradizione rabbinica sviluppa questi concetti. Nella tradizione post-biblica le fonti che si occupano del problema messianico sono numerose e non ci sono soltanto le fonti rabbiniche, basti pensare a Filone d’Alessandria, Giuseppe Flavio, gli apocrifi dell’Antico Testamento, gli Pseudo-epigrafi. Si tratta di una quantità rilevante di fonti, il cui contatto con quelle rabbiniche è evidente per allusioni, che non dicono lo stessa cosa. Le fonti rabbiniche ricoprono un ampio arco di tempo, per cui è possibile riconoscere tutta una serie di evoluzioni, di ramificazioni e di problematiche. Alcuni dei problemi che affrontano i rabbini sono legati essenzialmente a mutate condizioni politiche, per cui la tradizione rabbinica si coagula praticamente da subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme (da parte di Tito nel 70 e.v.) con la perdita dell’unità politica; dunque, i temi che vengono alla ribalta nelle attese messianiche dell’epoca sono fondamentalmente politici, ma anche i temi spirituali non sono messi da parte; c’è di tutto e raccontato in maniera particolare. Nelle fonti rabbiniche abbiamo delle informazioni sparse, ma anche dei brani concentrati, e uno dei testi che ha la concentrazione di informazioni più grande e più stimolante è il trattato di Sanhedrin del Talmud Babilonese, capitolo XI. In questo capitolo si discute come e quando il Messia si manifesterà. Quali saranno i segni che lo annunciano; per esempio, c’è un insegnamento15 in cui si dice che nella settimana – che può significare anche, e più probabilmente, settenario – in cui il figlio di David viene, nel primo anno si avvererà il verso di Amos 4, 7, che dice «farò piovere su una città e non su un’altra città», nel secondo anno «le frecce della fame vengono lanciate», nel terzo anno «c’è la grande carestia e muoiono uomini,
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Matteo 1, 1-16. Sanhedrin 97a.
I testi: Torà e Talmud
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donne e bambini, pii e uomini d’azione e la Torà viene dimenticata da quelli che la studiano», il quarto anno «ci sarà la sazietà, ma non ci sarà sazietà», il quinto anno «ci sarà grande sazietà, per cui si mangerà e si berrà e si sarà tutti allegri e la Torà tornerà a quelli che la studiano», il sesto anno «ci saranno delle voci», il settimo anno «ci saranno delle guerre», all’uscita del settimo anno «arriverà il figlio di David». Questo è un piccolo esempio di quanto sia complessa l’ideologia, perché ognuno di questi temi, di queste voci, delle cose che vengono evocate è in realtà un’evocazione di altri sistemi, di altre allusioni, per cui ciò che emerge in una sola frase «apocalittica» è soltanto la facciata di un problema molto più articolato. Sempre in questa linea, in un’altra tradizione, «nella generazione in cui il figlio di David arriverà, i ragazzi svergogneranno gli anziani, gli anziani si dovranno alzare di fronte ai ragazzi, la figlia si ribellerà alla madre, la nuora alla suocera, la faccia della generazione sarà come il volto di un cane, il figlio si vergognerà del padre; nella generazione in cui il figlio di David arriverà la sfrontatezza si moltiplicherà, ciò che è prezioso sarà ridotto senza significato, la vite darà il suo frutto ma il vino sarà caro e tutto il regno – quello del potere politico – diventerà eretico» (questa è una possibile allusione all’accettazione da parte del potere romano della religione cristiana). Sempre in questo brano del Talmud c’è l’idea dei settemila anni: il mondo dura seimila anni e poi si riposerà nel settimo millennio. Ci sono poi le date sull’arrivo del Messia. Un insegnamento prevede che il Messia dovrebbe arrivare nell’anno 531 dell’era volgare oppure cinquant’anni prima, nel 481 (stranamente questa data, non se ne sono accorti al momento, corrisponde a quella della caduta dell’Impero romano d’Occidente). Tuttavia, sempre in questo brano è detto: «Siano maledette le ossa di coloro che si mettono a contare la fine»; per «fine» s’intende la data, perché nel momento in cui arriva questa data, se non viene il Messia, la disillusione che ne deriva è drammatica. Questi brani introducono fenomeni che si sono ripetuti ossessivamente nella storia ebraica: la periodica comparsa di persone che hanno detto «secondo i miei conti, secondo quel verso, secondo quella circostanza, il Messia arriverà in quel momento»; molta gente lo ha atteso, poi il Messia non è venuto. Nel Talmud c’è già la critica di quelli che illudono la gente ed è anche detto che bisogna attendere e avere speranza e non perdere la speranza nell’attesa. In queste pagine compare una discussione fondamentale e interessante per chi studia filosofia, in cui si scontrano due visioni su cos’è che promuove la storia. Rav, «il maestro», – all’inizio del terzo secolo – dice: «Tutti i termini prefissati sono finiti e la cosa dipende soltanto dal pentimento e dalle buone azioni».16 Perché arrivi il Messia bisogna pentirsi e comportarsi bene e Lui arriverà. Shmuel, il suo contrapposto, dice: «Basta che chi sta in lutto stia nel suo lutto». Il lutto ritualmente, nell’ebraismo, comprende tempi prefissati,17 bisogna stare fermi determinati giorni
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Sanhedrin 97b. Il periodo del lutto, in ebraico avelut, si articola secondo tempi prefissati e stabiliti: Avelut è il primo periodo del lutto, dal decesso alla sepoltura; Shivah (in ebraico letteralmente «sette») è il secondo periodo che sta ad indicare propriamente i sette giorni di lutto a partire dalla sepoltura – in questa settimana viene sospesa qualsiasi mitzvà e attività, anche quella dello studio della Torà, è tuttavia permesso leggere il Libro di Giobbe, Lamentazioni, Geremia e il Trattato Semachot del Talmud (trattato che concerne le disposizioni sul lutto); il terzo periodo è quello di Sheloshim (in ebraico letteralmente «trenta»), che indica i trenta giorni a partire dalla sepoltura, 17
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Riccardo Di Segni
e con certi rigori; infatti, il «lutto» significa tempi precisi: quando è finito il periodo è finito il lutto. Che cosa dice Rav? Se vuoi che il Messia arrivi, devi pentirti. Cosa dice Shmuel? C’è un tempo prefissato, quando finirà quel tempo il Messia verrà, a prescindere dal comportamento. Il Talmud dice che la divisione tra questi due maestri si rifà a una divergenza più antica ancora, che è quella tra Rabbi Eliezer e Rabbi Yehoshua. Rabbi Eliezer è un famoso rigorista elitario, che venne scomunicato perché rifiutava di accettare la regola della maggioranza. Rabbi Eliezer dice: «Se Israele si pente viene redento, altrimenti non viene redento». La chiave della redenzione è la modificazione del comportamento. Invece, Rabbi Yehoshua dice: «Se non si pentono non vengono redenti, ma il Signore mette sopra loro un re che ha dei decreti più duri di quelli di Aman – Aman è il ministro persiano che tentò di eliminare il popolo ebraico – e quindi gli ebrei sono costretti a pentirsi». Secondo Rabbi Yehoshua c’è bisogno di pentimento, ma se la gente non arriva da sola al pentimento è il Signore che penserà a predisporre questo processo storico, li farà maltrattare da un re malvagio, loro si pentiranno e a questo punto, volenti o nolenti, arriverà il Messia. È interessante evidenziare che, nel Talmud, a questo punto i due Maestri si scatenano in un esercizio esegetico, in cui ciascuno porta a sostegno della propria tesi il verso che sostiene la necessità del pentimento. Ciascuno può pescare abbondantemente nella letteratura biblica, perché c’è di tutto, in un senso o nell’altro. Quello che è interessante è che, almeno in questa fonte, Rabbi Yehoshua, colui che dice che i tempi sono prefissati, porta come prova finale il capitolo 12 di Daniele, che contiene una profezia in cui ci sono tempi precisi per l’arrivo del Messia, molto misterioso da interpretare. Di fronte a questa citazione di Daniele, Rabbi Eliezer tace. Non tace per dare ragione all’avversario, ma almeno non ha risposte su questo punto.
dopo i quali la persona in lutto ritorna gradualmente alla vita normale, come infatti è scritto anche in Deuteronomio 34, 8: «I figli d’Israele piansero Mosè nelle pianure di Moav per trenta giorni, e terminarono i giorni del pianto per il lutto di Mosè» – questi trenta giorni comprendono anche il periodo di Shivah. L’ultimo periodo, Shneim asar chodesh, si conclude dopo dodici mesi a partire dalla sepoltura.
David Gianfranco Di Segni Messianismo e Halakhà
La Halakhà è la Legge ebraica. Prima di spiegare in dettaglio come è strutturata la Halakhà ed entrare nel merito delle interconnessioni fra messianismo e Halakhà, vorrei illustrare la rilevanza del problema con un esempio tratto dalla cronaca recente. Un non-ebreo giunto in Israele dalla Russia ha chiesto al Tribunale rabbinico israeliano competente in materia di avviare il processo di conversione all’ebraismo. (Sono numerosi i non-ebrei giunti in Israele dalla Russia insieme a centinaia di migliaia di ebrei, in genere loro parenti acquisiti.) Come è noto, si può essere ebrei o per nascita (da madre ebrea) o tramite conversione secondo la procedura stabilita dalla Halakhà, che prevede l’accettazione di tutte le norme della tradizione ebraica e un bagno rituale, nonché, per gli uomini, la circoncisione. Il candidato russo alla conversione ha affermato davanti al Tribunale rabbinico di essersi preparato studiando presso i Lubavitch: questi sono una corrente chassidica particolarmente importante, per numero e influenza, negli Stati Uniti e in Europa, ma non così tanto in Israele. Il movimento Lubavitch (noto anche come Chabad) è stato fondamentale per la rinascita dell’ebraismo nei paesi dell’ex Unione Sovietica: se oggi l’ebraismo in Russia e nei paesi circostanti è in continua crescita e molti ebrei sono tornati a manifestare la propria identità ebraica e a emigrare in Israele è certamente dovuto in buona parte alla benemerita opera di questo movimento. Il problema, tuttavia, e non è un problema da poco, è che il movimento Lubavitch è caratterizzato da una forte componente messianica. Nella fattispecie, negli ultimi anni di vita del Rebbe (Rabbi Menachem Mendel Schneerson, 1902-1994), il leader carismatico del movimento Lubavitch, si è diffusa fra gli aderenti la credenza che il Rebbe fosse il Messia. Neanche la sua morte ha attenuato tale convinzione in molti ebrei Lubavitch. Quando, dunque, il candidato alla conversione si è presentato al Tribunale rabbinico, i giudici del tribunale gli hanno chiesto se credesse che il Rebbe fosse il Messia, ed egli ha risposto di sì. I giudici hanno quindi bloccato la conversione, reputando che tale credenza andasse in conflitto con i presupposti della Legge ebraica. È chiaro quindi come il rapporto fra messianismo e Halakhà non abbia solo un interesse accademico e teorico, ma anche molto pratico e attuale. Struttura della Halakhà La Halakhà ha una complessa stratificazione.1 Il testo fondamentale è ovvia-
1 Il migliore testo in italiano sull’argomento è A.M. Rabello, Introduzione al Diritto ebraico, Giappichelli, Torino 2002.
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David Gianfranco Di Segni
mente la Torà, ossia il Pentateuco (i cinque libri di Mosè), che costituisce la prima componente della Bibbia ebraica (Tanàkh). Riguardo al messianismo, però, a differenza di altri aspetti della normativa ebraica, assumono fondamentale importanza i libri dei Profeti, che sono la seconda parte della Bibbia (la terza è costituita dagli Agiografi, i libri sacri, in cui sono inclusi i Salmi, Giobbe, il libro di Ruth e il Qohèlet, per citarne solo alcuni). Altrettanto fondamentale quanto la Bibbia è, per qualsiasi discussione sulla Legge, il Talmud, che racchiude tutta la tradizione interpretativa e applicativa della Torà. Il Talmud è composto, da un lato, dalla Mishnà («ripetizione», perché all’inizio era tramandata oralmente), il primo codice legale, risalente al II secolo dell’e.v. e redatto da Rabbi Yehudà Ha-Nasì, e dall’altro lato dalla Ghemarà («studio»), che è essenzialmente la registrazione delle discussioni che si svolgevano fra gli studiosi nelle accademie della Terra d’Israele e di Babilonia, dove viveva la maggior parte degli ebrei nei sec. III-V. Abbiamo due redazioni del Talmud, il Talmud Yerushalmì, o di Gerusalemme – intesa come città emblematica della Terra d’Israele, anche se in realtà agli ebrei non era consentito viverci, dopo la sua conquista ad opera dei Romani –, e il Talmud Bavlì, babilonese. La Ghemarà è uno studio approfondito della Mishnà, che viene sviscerata in tutti i suoi aspetti, e così facendo si arriva a parlare e a discutere dei più svariati argomenti, spesso molto lontani dalla Halakhà, includendo racconti sulla vita dei Maestri, apologhi morali, interpretazioni del testo biblico, insegnamenti di tipo filosofico e teologico e quant’altro. Tutto ciò che non è Halakhà è chiamato dai Maestri del Talmud, in una parola, Aggadà. La Mishnà è un commento alla Torà; la Ghemarà è un commento alla Mishnà. Questa forma di studio, ossia il commento e il commento del commento, è tipica della produzione letteraria ebraica. Tutti i principali testi ebraici sono dei commenti o commenti di commenti (a parte il primo, la Torà, e forse anche la Torà è, in un certo senso, un commento...). Anche lo studio del Talmud non può prescindere da quello dei suoi commenti, i più importanti dei quali sono il commento di Rashì (Rabbi Shelomò Itzhaqì, 1040-1105) e di Tosafòt («aggiunte» – dovute alle Scuole formate dagli allievi e discendenti di Rashì). Quando si vuole determinare la norma per un particolare caso, si parte dalla Torà, ma dato che nella Torà non sono riportati molti dettagli, bisogna consultare la Mishnà, la Ghemarà, i commenti al Talmud e tutti i codici legali che, basandosi sul Talmud, hanno fissato la norma. I codici principali sono il Mishnè Torà del Rambam, o Rabbi Moshè ben Maimon (Maimonide), nato a Cordova (1135-8) e morto al Cairo (1204), che fu rabbino, medico, filosofo; il Tur di R. Ya‘aqov ben Asher di Toledo (1268-1340); lo Shulchàn Arùkh, di Rabbì Yosef Caro (1488-1575), nato in Spagna ed espulso nel 1492, vissuto poi a Salonicco e infine a Safed. Essendo Rav Caro di origine sefardita, Rabbì Moshè Isserles, detto il Ramà (Cracovia 1525-1572), aggiunse delle note al testo dello Shulchan Arukh, affinché esso fosse accettato anche nel mondo ashkenazita. Il Ramà non scrisse un codice diverso, ma aggiunse le sue note al codice di Rav Caro, dove la regola originale era differente da quella in uso presso gli ebrei ashkenaziti. Egli infatti non voleva che ci fossero due codici distinti, che avrebbero spaccato l’unità del popolo ebraico. Benché ci siano diverse usanze, dato che per forza di cose, a causa della dispersione, gli ebrei si sono allontanati gli uni dagli altri e le tradizioni e le usanze si sono diversificate, si voleva che il codice fosse unico, preservando all’interno dello stesso codice la pluralità degli usi. Lo Shulchan Arukh è l’ultimo codice legale, e nessuno oggi ha l’autorità di andare
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contro ciò che è stabilito in esso; e siccome è posteriore al codice del Maimonide, prevale anche su questo. Un concetto fondamentale che bisogna avere presente è quello di mitzvà (ordine, precetto). Nella Torà i Maestri del Talmud hanno identificato 613 mitzvòt (pl. di mitzvà), di cui 365 divieti e 248 azioni da compiere, che coprono tutti gli aspetti della vita dell’uomo, di carattere rituale, sociale, religioso, morale: p. es., la conoscenza e la ricerca di D-o; la lettura mattina e sera dello Shemà’ Israèl – l’affermazione dell’unicità di D-o; l’osservanza del sabato e delle feste; il rispetto delle norme alimentari (kashrut); il divieto di rubare e di uccidere; i rapporti fra uomo e donna; le norme che riguardavano il culto del santuario; e tante altre. Le norme sul Messia Nel Talmud c’è una discussione – non così ampia, a dire il vero, rispetto alla monumentale mole dell’opera – sull’era messianica e sulla venuta del Messia. La prima domanda da porsi è se ciò che afferma il Talmud riguardo all’epoca messianica rientra nella componente halakhica (legale) o aggadica (non-legale). La distinzione non è accademica: nel primo caso, possiamo aspettarci che i codici legali ne trattino, altrimenti no. Il Mishnè Torà del Maimonide ne parla, alla fine dell’opera. Il Rambam tratta l’argomento anche in altri contesti, nella Lettera allo Yemen e nel Commento alla Mishnà, e include la fede nella venuta del Messia fra i tredici principi di fede (insieme a credere che D-o è Uno, incorporeo, che Mosè è il profeta a cui D-o ha rivelato la Torà, ecc.). Si sarebbe potuto pensare che il Rambam mettesse le regole sul Messia dove tratta di questi principi di fede, ossia all’inizio del Mishnè Torà. Invece ne parla alla fine, nel libro che riguarda i Giudici, al termine della sezione sui Re. Si tratta solo di due brevi capitoli (rispetto ad altri casi in cui il Rambam si dilunga). Così facendo probabilmente il Rambam voleva rimuovere tutte le possibili implicazioni metafisiche che l’argomento poteva avere. Leggiamo alcuni dei passi del Mishnè Torà (Regole dei re, capp. 11 e 12) relativi al Messia e all’epoca messianica: Il Messia [lett. il Re Messia: ha-Mèlekh ha-Mashìach] verrà e restaurerà il regno di David nella sua potenza originaria. Ricostruirà il Santuario e riunirà i dispersi di Israele [come preannunciato dalla Torà e dai Profeti]. Nei giorni del Messia, tutte le leggi saranno ristabilite come nei tempi antichi. I sacrifici saranno di nuovo offerti; gli anni sabbatici e i giubilei saranno osservati seguendo esattamente le prescrizioni della Torà. Colui che non crede nella venuta del Messia o che non aspetta questa venuta rifiuta non solo gli altri Profeti ma anche la Torà e il nostro Maestro Mosè.2
2 La traduzione segue essenzialmente quella di David Banon, Il messianismo, La Giuntina, Firenze 2000, p. 36 (fra parentesi quadre alcune mie annotazioni). La traduzione si trova in buona parte anche in G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 138-140. È interessante notare che questi due capitoli sono stati in parte censurati dalla censura ecclesiastica, in particolare dove si accenna al cristianesimo e all’islam. Vedi nota 4.
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Il Messia è quindi un profeta che si ricollega a tutta la catena dei profeti precedenti, a partire da Mosè. Il Maimonide dice esplicitamente cosa il Messia deve fare (questo punto è importante, ci torneremo riguardo al caso del convertito russo che credeva al Rebbe-messia). Tutto è regolamentato: il re deve restaurare il regno di David ed essere riconosciuto come re, deve inoltre ricostruire il santuario e radunare i dispersi del popolo d’Israele. Il Maimonide riporta alcuni versi biblici: «Il Signore tuo D-o farà tornare tutti coloro che sono dispersi e li radunerà da tutti gli angoli della terra: anche se tu fossi disperso al capo estremo del cielo, da lì il Signore tuo D-o ti radunerà e da lì ti prenderà e ti porterà nella terra che i tuoi padri hanno ricevuto in possesso» (Deuteronomio 30, 3-5). Il Rambam non riporta i passi dei profeti perché, così dice, essi sono ovvi ed evidenti e tutti i loro libri «sono ripieni di ciò».3 Aggiunge poi: Non crediate che il Messia debba dare segni e fare miracoli, che debba instaurare un nuovo stato di cose nel mondo, resuscitare i morti ecc. Non sarà così [il Rambam non rinnega questo aspetto, semplicemente questo non è un compito del Messia]. Le leggi stabilite dalla Torà sono valide per l’eternità, niente vi sarà aggiunto o tolto4. Se sorge un re della Casa di David che studia la Torà e mette in pratica i suoi precetti [...] in accordo sia con la Torà scritta che con la Torà orale, che chiama tutto Israele a camminare nelle vie della Torà [...] allora possiamo presumere che egli sia il Messia (haré hu bechezqat mashiach). E se egli riesce a ricostruire il Santuario nel suo luogo e a riunire i dispersi di Israele, allora avrà dato la prova che è certamente il Messia. Egli inviterà il mondo intero a servire il D-o unico, come è detto: «E quindi tramuterò la lingua dei popoli in una lingua pura, sì che invochino tutti insieme il Nome del Signore e Lo servano tutti indistintamente (Tzefanyà 3, 9)». E se non è riuscito a compiere tutto ciò o viene ucciso è chiaro che non è lui di cui parla la Torà, ma è un re come tutti gli altri della casa di David [...].5
Il brano che inizia con quest’ultima frase fino alla fine del capitolo non è presente nella versione censurata, ma compare nelle edizioni di Soncino, di Roma e di Amsterdam non censurate e nel ms. dello Yemen. In esso il Maimonide parla esplicitamente di Gesù e di Maometto. È chiaro che la censura non poteva lasciar passare una frase dove si delegittima un messia che viene ucciso. Così scrive il Rambam nel brano censurato: Ma i pensieri del Creatore del mondo non possono essere compresi dall’uomo, perché le nostre vie non sono le Sue vie e i nostri pensieri non sono i Suoi pensieri [da Isaia 56, 8], e tutte queste cose che hanno fatto Gesù il nazareno e l’Ismaelita sorto dopo di lui hanno avuto lo scopo di preparare la strada per il Re Messia e rendere il mondo atto a servire tutto insieme il Signore [...]. Nessuno pensi che nei giorni del Messia cesserà il corso naturale
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Vedi p. es. Isaia 11, Mikhà 4, Malakhì 3, Salmi 72, Daniele 12, e altrove. Nel manoscritto dello Yemen e nelle prime edizioni a stampa, non censurate, di Roma e Amsterdam è aggiunta la seguente frase: «Chiunque aggiunge o toglie o stravolge il senso della Torà e non interpreta le mitzvòt secondo il loro vero significato, ecco questo è sicuramente un malvagio e un eretico» e nel ms. dello Yemen è detto che «è un impostore». È chiaro il motivo per cui questa frase è stata censurata dal Vaticano: si poteva pensare che si riferisse a Gesù, considerato Messia dai cristiani, perché lui o i suoi successori avevano stravolto o eliminato le leggi della Torà. 5 D. Banon, Il messianismo, cit., pp. 36-37. 4
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del mondo o che saranno introdotte innovazioni nella creazione. Il mondo continuerà il suo corso naturale. Le parole di Isaia «Il lupo dimorerà con l’agnello, si coricherà il leopardo con il capretto» [Isaia 11, 16] sono una parabola e un’allegoria che sta a significare che Israele abiterà in sicurezza anche tra i malvagi delle nazioni pagane che vengono paragonati al lupo e al leopardo. Perché tutte (le nazioni) accetteranno la vera fede e non si abbandoneranno più al saccheggio né alla distruzione. Tutti i passi simili della Scrittura che parlano del Messia devono essere considerati come allegorie. Solamente nei giorni del Messia tutti comprenderanno cosa significano le metafore e a cosa si riferiscono. I saggi dicono: «La sola differenza fra il mondo presente e i tempi del Messia è la sottomissione di Israele alle nazioni» [Sanhedrin 91b e Berakhot 34b] [...]. A proposito di tutte quelle cose e di altre simili, nessuno sa come si svolgeranno prima che succedano effettivamente, perché su questo argomento le parole dei profeti non sono chiare [...]. Per questo su tale tema ci sono opinioni diverse. In ogni caso, la modalità e i dettagli di quegli eventi non sono principi religiosi fondamentali. Pertanto non dobbiamo accordare troppo credito né dedicare troppo tempo ai racconti aggadici e ai midrashim che trattano di queste questioni e di altre simili [...].6
Vediamo quindi come secondo il Maimonide le parabole dei profeti non vanno prese alla lettera. La frase di Isaia sul lupo e l’agnello, che molti interpretano per dire che ci sarà una pace universale anche fra gli animali, viene intesa dal Maimonide in tutt’altro senso. Il mondo rimane così come è strutturato adesso, e dato che in natura il lupo divora l’agnello, così sarà anche quando verrà il Messia. Il senso è invece che Israele abiterà in sicurezza anche tra i malvagi delle nazioni pagane, paragonati al lupo e al leopardo. Ma non tutti pensano come il Rambam, ed egli stesso lo ammette. Altri infatti ritengono che l’epoca messianica sarà diversa da quella attuale. G. Scholem sottolinea che il Rambam è molto preciso nel suo testo e ognuna delle frasi usate ha delle connotazioni polemiche: Nella sua sobria accortezza, questo testo codifica la protesta contro l’apocalittica, contro la fantasia esuberante degli aggadisti e contro gli autori dei midrashim popolari, zeppi di descrizioni degli stadi della fine e delle catastrofi naturali e storiche che dovrebbero accompagnarla. Tutto ciò viene cancellato con un solo potente gesto da Maimonide. Egli non fa alcun cenno ai miracoli o ad altri segni messianici. Il tempo messianico porta con sé, in negativo, la libertà d’Israele dal presente asservimento, e, come contenuto positivo, la libertà che gli consente di adire alla conoscenza di Dio. Ma perché si arrivi a ciò non è necessario che venga meno né la legge dell’ordinamento morale, la rivelazione della Torà, né la legge dell’ordine naturale. Né la creazione né la rivelazione saranno trasformate [...]. Per Maimonide non è l’interferenza di cielo e terra a costituire il criterio di legittimazione del Messia e della sua missione; egli riconosce soltanto un criterio pragmatico: il successo del Messia nella sua opera.7
È chiaro ora perché il Maimonide abbia dedicato al Messia solo due capitoli della sua opera principale, a differenza di altri autori come il Maharal e Abrabanel che hanno trattato a lungo l’argomento. Il Maimonide infatti pensa che il Messia faccia parte della storia, «qui ed ora» («ora» può essere adesso, o fra un anno, fra dieci anni, fra un secolo ma è sempre «ora», nella storia, non oltre la storia). Un’attività principale dei «messianici» era di calcolare quando il Messia sarebbe venuto (come
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Ibidem, pp. 37-38 (trad. parziale). G. Scholem, Concetti, cit., pp. 107-147, in part. p. 140.
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fece Abrabanel); secondo il Maimonide, invece, «non si deve calcolare ma aspettare e avere fiducia». Il timore è infatti che se si calcola il tempo in cui il Messia dovrebbe venire e poi non arriva, ciò porterà a un indebolimento o annullamento della fede nelle parole dei Saggi. I falsi-messia e lo stravolgimento della Halakhà Fin qui abbiamo affrontato la connessione fra messianismo e Halakhà esaminando i criteri che permettono di riconoscere chi è il Messia, cosa egli dovrà fare e ciò che avverrà nell’era messianica. C’è un’altra connessione, del tutto speculare a questa: la non-osservanza della Halakhà da parte di coloro che sono stati considerati «messia» e che poi si sono rivelati dei falsi-messia. Un caso esemplare è quello di Shabbetai Tzevi, che sconvolse l’Europa e il Mediterraneo, dalla Turchia all’Italia e a vari altri paesi, dal Centro-Europa al Nord-Africa.8 Questo sommovimento durò circa 150 anni, ben oltre la conclusione della vicenda personale di Shabbetai Tzevi che, come noto, finì per convertirsi all’Islam. Un altro caso è quello di Jacob Frank, «un tipo corrotto e senza scrupoli», «forse ciarlatano, forse degenerato [...] che non aveva nessuna istruzione nel campo delle fonti ebraiche e menava vanto della sua ignoranza»9 che alla fine si convertì al cristianesimo.10 Come poté la gente che aveva visto in costoro il Messia accettare la loro conversione? È chiaro che non c’è sovvertimento maggiore della legge di una conversione a un’altra religione. Il Maimonide afferma che il Messia verrà a compiere le mitzvòt. Su cosa si basavano gli adepti di Tzevi e Frank per giustificare il loro comportamento? Non si tratta soltanto delle masse popolari, anche alcuni studiosi si lasciarono trascinare dalla frenesia messianica. Il Talmud è estremamente vasto ed è possibile trovare alcune affermazioni che, avulse dal loro contesto, possono essere addotte come giustificazione per abrogare o stravolgere la legge. Una di queste citazioni afferma che «la trasgressione della Torà è il compimento della Torà» (Talmud Bavlì, Menachòt 99b): per poter mettere in pratica la Torà, bisogna trasgredire la Torà. È un’affermazione paradossale che, estratta dal suo contesto, può giustificare qualsiasi sovvertimento della legge. Il senso contestualizzato è invece molto più specifico. Scrive il Talmud nel passo citato: «Resh Laqish disse: A volte l’annullamento della Torà è il suo fondamento. Si impara dal fatto che quando Mosè ruppe le Tavole della Legge [alla vista del vitello d’oro], D-o Santo Benedetto gli disse: Hai fatto bene». In altre parole, le Tavole vengono distrutte da Mosè per poter mettere in pratica la Torà: dato che buona parte del popolo stava commettendo idolatria, era meglio distruggere la Torà piuttosto che darla in mano
8 Cfr. G. Scholem, Šabbetay Sevi: il messia mistico, 1626-1676, Einaudi, Torino 2001; Id., La trasgressione come adempimento della mitzwah, in Mistica, utopia e modernità. Saggi sull’ebraismo, Marietti, Genova 1998, pp. 49-146 (ora anche Id., La redenzione attraverso il peccato, in L’idea messianica nell’ebraismo, Adelphi, Milano 2008). 9 G. Scholem, Mistica, cit., pp. 122-123; p. 60. 10 Su J. Frank, vedi anche: Laura Quercioli Mincer (a cura di), «Un ebreo resta sempre un ebreo». Vicende dell’ebraismo e del messianesimo nella cultura polacca, Bibliotheca Aretina, Arezzo 2008.
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agli idolatri. Infatti, le stesse orge che gli ebrei facevano attorno al vitello d’oro, le avrebbero fatto attorno alle Tavole della Legge.11 A commento di questo passo Rashì spiega in quali casi si può applicare il principio secondo cui la trasgressione è il compimento: p. es., quando si interrompe lo studio della Torà per accompagnare la salma in un funerale; oppure, quando si va incontro alla sposa per festeggiarla. In questi casi, l’interruzione dello studio della Torà equivale a un suo compimento, è un modo per osservare le mitzvòt. Chiaramente, il significato dell’affermazione di Resh Laqish è ben diverso da quello che gli si è voluti attribuire (vediamo qui un esempio in cui la lettura di un brano talmudico senza l’ausilio del commento rimane incomprensibile). Un’altra fonte su cui si basano i fautori del sovvertimento della legge è il concetto talmudico espresso in Nazìr 23b secondo cui ha più peso una trasgressione intenzionale che il compimento di un precetto senza intenzione. Rashì spiega che «trasgressione intenzionale» significa «una trasgressione finalizzata all’adempimento di un precetto», come il caso di Tamar e Yehudà, dalla cui unione nacque l’antenato del Messia (Genesi, cap. 38). Un altro passo del Talmud che poteva servire di appoggio è quello secondo cui la venuta del Messia sarà preceduta da un periodo di depravazione morale del popolo. Quanto più esso sprofonderà nella trasgressione, tanto più si accelererà la venuta del Messia. Sulla base di queste affermazioni e altre analoghe, i sabbatiani e i frankisti arrivarono a giustificare i comportamenti più trasgressivi. Ad esempio, prima di mangiare un frutto della terra, la Halakhà prescrive di recitare una benedizione in cui si afferma: «Benedetto Tu o Signore D-o [...] creatore del frutto della terra», e così per gli altri casi. I sabbatiani dicevano invece, accingendosi a mangiare cibi proibiti: «Benedetto Tu [...] che permetti ciò che è proibito». In una delle Epistole Rosse che circolavano nel movimento frankista era scritto: «Sappiate che è venuto il tempo in cui il Signore dice: “Trasgredite la mia Legge” e che è venuto il tempo anche di ciò che hanno detto i nostri maestri di benedetta memoria, che il messia non verrà prima che il Regno non si sia dato interamente all’eresia [...]».12 Si dava una veste religiosa alla trasgressione: in questo modo, Shabbetai Tzevi e Jacob Frank potevano, pur dopo l’apostasia, essere considerati come messia. Dal sabbatianesimo alla riforma Un aspetto fondamentale, secondo Scholem13 (ma la sua opinione non sempre è accettata da altri studiosi), è che i centocinquant’anni in cui la Halakhà non è stata osservata da parte dei sabbatiani e dai frankisti o ne è stata stravolta hanno avuto come sbocco naturale la nascita della Haskalà (l’illuminismo ebraico) e successivamente della riforma, nelle sue varie denominazioni. Come è noto, oggi il mondo
11 Vedi il commento Meshekh Chokhmà di Rabbi Meir Simcha Hakohen al relativo passo della Torà (Esodo cap. 32, 19). In italiano, da me tradotto e pubblicato in Shalom, n. 6, giugno 1999, p. 35; anche in http://www.morasha.it/zehut/gd04_perche.html. 12 Cit. in G. Scholem, Mistica, cit., pp. 140-141. 13 Ibidem, cap. II.
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ebraico religioso si divide in tre correnti principali: i tradizionalisti (o ortodossi), i riformati e i conservative, che sono una costola dei riformati nata per attenuare il processo di riforma. In Israele (e in Italia) predominano gli ortodossi, in America e in Europa tutte e tre le correnti sono presenti in un numero consistente di aderenti. La riforma nacque in Germania e in Ungheria nell’800. All’inizio, gli aderenti al movimento riformato tentarono di riformare tutto: p. es., volevano annullare l’osservanza della milà (circoncisione), volevano trasferire l’osservanza del sabato alla domenica, il che avrebbe permesso un inserimento maggiore nel mondo del lavoro, e così via. Molte di queste riforme radicali non furono accettate dalla collettività, tanto che oggi i riformati sono molto più tradizionalisti di quanto lo fossero alla nascita del movimento, anche se sono comunque ben lontani dal livello di osservanza degli ortodossi. Scholem sostiene che nella Haskalà e poi nella riforma confluirono buona parte di coloro che avevano aderito al movimento sabbatiano e frankista. È sì vero che costoro non avevano più una credenza messianica e nessuno ormai considerava Shabbetai Tzevi come «messia», ma rimase l’atteggiamento antinomista, l’attitudine mentale e l’abitudine a sovvertire la legge. Ciò forse fu facilitato dal fatto che il sabbatianesimo si trasmetteva in modo famigliare: le famiglie che erano sabbatiane diventarono parte integrante e portante del movimento di riforma. Non è detto che ci fosse una connessione di causa ed effetto, ma è certo – dice Scholem – che il sabbatianesimo creò la mentalità adatta a passare dall’osservanza della legge al suo rifiuto: «Dopo il 1815 circa, il movimento decadde e i suoi membri vennero assorbiti nelle file dei seguaci della Haskalah».14 E anche: «Essi [gli ultimi sabbatiani] si avvicinarono allo spirito della Haskalah, quando ancora erano “credenti”, e proprio perché erano “credenti”. E, dopo che si era affievolito il fuoco della fede, rimasero maskilim, riformatori religiosi, perfetti indifferenti e veri scettici [...]. Non c’è da stupirsi se Prosonitz, la città che divenne un centro della Haskalah all’inizio del suo sviluppo in Moravia, fosse un centro sabbatiano».15 Conclusioni Per concludere, vorrei tornare al caso del convertito russo che credeva alla messianicità del Rebbe dei Lubavitch, di cui abbiamo parlato all’inizio. È evidente da quanto afferma il Maimonide nel Mishnè Torà che se il presunto Messia non raduna i dispersi di Israele e non li libera dall’asservimento alle altre nazioni, ricostituendo il Santuario di Gerusalemme, non può essere un vero Messia. Il Lubavitcher Rebbe, quindi, morto nel 1994 senza che tutto ciò sia avvenuto, difficilmente può essere considerato Messia, a meno che si ricorra a spiegazioni e giustificazioni inverosimili. Chi lo crede Messia si mette al di fuori della tradizione trasmessa dai rabbini di tutti i secoli e quindi, se non è ebreo di origine, non potrebbe entrare a far parte della comunità di Israele, dato che uno dei presupposti per diventare ebreo è appunto aderire a tutti i principi e alle pratiche ebraiche. Questa è in effetti la posizione di
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Ibidem, p. 73. Ibidem, pp. 145-146.
Messianismo e Halakhà
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Rabbi David Berger, autore di The Rebbe, the Messiah, and the Scandal of Orthodox Indifference, in cui sferra un duro attacco al movimento Lubavitch proprio sulla base della fede nel Rebbe-messia.16 Di diverso avviso è invece Shmuley Boteach, un rabbino ortodosso anche se per certi versi un outsider,17 il quale, pur affermando che la fede in un messia che muore prima di compiere la sua missione è chiaramente contro la tradizione rabbinica, essa non mette i credenti nel Rebbe-messia al di fuori del popolo d’Israele: si tratta di un errore, ma più che altro dovuto alla forte influenza che una personalità gigantesca come quella del Rebbe ha avuto sui membri del movimento Lubavitch. Il punto principale, per Boteach, è che i Lubavitch sono strettamente aderenti ai più piccoli dettagli della Halakhà. Il cristianesimo si separò dall’ebraismo non a causa del fatto che i primi cristiani credessero nella messianicità di Gesù, ma a causa dell’abrogazione della legge ad opera di Paolo. La fede degli ebrei Lubavitch nel Rebbe-messia è motivata da un attaccamento emotivo, viscerale alla memoria del Rebbe, più che a una convinzione dottrinaria. L’osservanza della Halakhà rimane, per i Lubavitch, salda come prima, e questo fa la differenza rispetto agli altri movimenti messianici sorti in seno all’ebraismo.
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Sul caso del convertito russo, Rabbi Dr. Berger ha scritto in The Jerusalem Post, 23.1.2008. Rabbi Boteach è autore del bestseller Kosher Sex e di numerosi altri libri popolari. Sul caso in questione, si è espresso in The Jerusalem Post, 20.1.2008. 17
Roberto Della Rocca Maimonide e il messianismo
Nel 1164, ad appena 26 anni, Moshè ben Maimon viene interpellato da Jacob ben Nethanel al-Fayyoumi, rabbino della comunità yemenita, a proposito della questione dei falsi Messia, in particolare a proposito di un «tale» che in quegli anni, nello stesso Yemen, si proclamava Messia, provocando scompiglio all’interno della comunità ebraica.1 Il fenomeno della comparsa di tali individui non era nuovo a Maimonide che, nell’Epistola allo Yemen, esprime la convinzione che le crescenti persecuzioni siano all’origine dei movimenti messianici. Difatti, proprio nello Yemen di quel tempo, tra gli Sciiti si era manifestata una crescita del fanatismo religioso che sarebbe poi sfociato, nel 1165, nelle conversioni forzate degli ebrei. Secondo Rambam,2 i diversi tentativi di «sradicare» l’ebraismo dal mondo, soprattutto attraverso le conversioni – a volte realizzate con la persuasione, a volte con la violenza –, raggiungono talora livelli tali da stremare il popolo ebraico, al punto da fargli perdere la fiducia in D-o e allontanarlo dalla Torà. Nel tentativo di «fermare il tempo storico», caratterizzato da oppressione e sofferenza, l’individuo proietta tutte le sue ansie in un tempo escatologico: l’ebreo perseguitato ripone tutte le sue aspettative in un Messia, il bisogno del quale è talmente immediato da fornire terreno fertile alla nascita dei movimenti messianici. Maimonide, nell’Epistola allo Yemen, rivolgerà proprio in questo senso un monito a coloro che si sono allontanati dalla Torà e si sono lasciati ingannare dalla predicazione del falso Messia. Tale consapevolezza porta Maimonide a voler puntualizzare alcuni concetti riguardo all’idea messianica, rielaborandola in vari scritti – l’Epistola sull’apostasia, l’Epistola allo Yemen, il Commento alla Mishnà, Mishnè Torà, la Guida dei perplessi –,3 così da fissare e riordinare i capisaldi dell’ebraismo. La preoccu-
1 Per un approfondimento, cfr. Maimonide, Letter to Yemen, in Rambam, Seleced Letters of Maimonides, translated and annotated by Avraham Yaakov Finkel, Yeshivath Beth Moshè, Scranton, PA 1994. 2 Acronimo di Rabbi Moshè Ben Maimon. 3 L’Epistola sull’apostasia (Iggeret ha-shemad), 1162, è una lettera rivolta agli ebrei costretti a convertirsi all’Islam, pertanto denominata anche Lettera sulla conversione forzata; l’Epistola allo Yemen (Iggeret Teiman), scritta intorno al 1172, indirizzata alla comunità yemenita, è una lettera in cui Maimonide affronta come tematica principale il messianismo e la questione dei falsi messia; il Commento alla Mishnà: Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, 1168 circa, è un commento al Sanhedrin, in cui Maimonide indica ed espone i tredici articoli di fede (shaloshah asar ikkarim); al Pèrek Hèlek si deve aggiungere anche l’altro Commento alla Mishnà: gli Otto Capitoli (Shemonà Perakim), ovvero l’introduzione al Trattato Pirke Avot; il Mishnè Torà (Ripetizione della Torà), opera ultimata nel 1180 circa, è un trattato talmudico in quattordici parti
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Roberto Della Rocca
pazione di Maimonide è innanzitutto quella di riportare l’attenzione sulla Torà, la cui osservanza è l’unica fonte di salvezza e di vita: il servizio di D-o e l’osservanza dei Suoi precetti sono il percorso necessario per conseguire la perfezione intellettuale e morale, per ottenere la vera conoscenza e la comprensione di D-o. La conoscenza della verità è fondamento e fine dell’era messianica. La redenzione messianica avrà solo un valore strumentale e funzionale: approntare i mezzi per arrivare alla conoscenza intellettuale di D-o. Tutto quindi è ricondotto alla Torà: Torà, speranza e fede sono il fine a cui l’ebreo e la sua storia devono tendere. La Torà non è un mezzo per affrettare la venuta del Messia, le mitzvòt (precetti) non sono il cammino verso l’era messianica: il senso della fede e del servizio a D-o si declinano al presente. L’obbligo di servire D-o non ha bisogno di alcun fondamento, neppure dell’ipotesi di un Messia. Ponendo dunque l’accento sullo studio e sull’applicazione della Torà, si riporta l’idea ebraica al qui e ora. È importante dunque sottolineare come lo studio della Torà sia finalizzato alla conoscenza, perché l’ignoranza è – secondo Maimonide – la causa principale di tutti i mali. La mancanza della vera conoscenza è ciò che impedisce all’uomo di vivere in società senza prevaricare il prossimo. Il concetto è espresso dalla metafora del cieco: Come il cieco a causa della mancanza della vista continuamente sbatte, si ferisce e ferisce anche gli altri, quando non c’è nessuno che lo guidi nel suo cammino, così anche le fazioni degli uomini, ciascuno secondo la misura della sua ignoranza, si infliggono l’un l’altra mali che pesano duramente sugli individui della specie (umana).4
Tutto ciò equivale a dire che, attraverso la Torà, si determinano le condizioni che caratterizzeranno l’era messianica. Allontanandosi dalla Torà, ci si allontana pertanto dallo stesso Messia. Non bisogna dunque spaventarsi di fronte alla brutalità del nemico ed è necessario resistere alle persecuzioni – così afferma Rambam nell’Epistola allo Yemen – perché queste sono prove a cui D-o sottopone il Suo popolo per fortificarlo e mostrare al mondo la fede degli ebrei verso di Lui. Maimonide ritiene infatti che, subendo il potere della «paura» – giustificata in parte dalle circostanze storiche –, gli ebrei non sanno interpretare fatti e versetti e si rivolgono invece ad interpretazioni numerologiche per definire il momento esatto della venuta del Messia o fanno affidamento su previsioni astrologiche. Appoggiarsi a queste ultime, in particolare, significa privare l’uomo del libero arbitrio e annullare il principio retributivo della giustizia divina, demolendo così i capisaldi della Torà. A questo proposito, nell’Epistola allo Yemen, Rambam scrive: Nella vostra lettera sono menzionati i calcoli che Rabbenu Saadia Gaon5 ha fatto per
denominato yad hazaqah («mano possente»); la Guida dei Perplessi (Moreh ha-Nevukim), composta tra il 1180 e il 1190, scritta in arabo, è l’opera più propriamente filosofica di Maimonide: infatti, è proprio in questo scritto che mostrerà come il pensiero filosofico classico, di Aristotele, possa essere integrato nello studio della Torà e nella tradizione rabbinica. 4 Cit. in David Banon, Il messianismo, La Giuntina, Firenze 2000, p. 31. 5 Saadia Gaon (882-942), uno dei filosofi più importanti del IX sec., scriverà numerose opere in arabo e trattati in ebraico di filologia, esegesi biblica, teologia e letteratura religiosa (tra l’altro un’opera sul calendario ebraico e numerosi commenti al Talmud). Secondo Abraham Ibn Ezra: «Saadia Gaon fu il primo a prendere la parola in tutti i campi (del sapere)». Le opere più
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computare l’arrivo del Messia.6 Dovete essere consapevoli che gli esseri umani non possono determinare esattamente la data della venuta del Messia, come Daniele ha detto: «Queste parole sono nascoste e sigillate fino alla fine dei tempi» [...].7 I nostri Saggi hanno scoraggiato il calcolo della venuta del Messia. Essi infatti temono che il volgo possa essere confuso e sviato quando si predica l’arrivo del Messia ed egli non viene.8
Rambam ribadisce dunque il grande valore della Torà, sulla cui base esclusivamente va atteso il Messia e con il cui studio il popolo ebraico si può salvaguardare da sedicenti messia e da erronee aspettative che, in quanto tali, sono necessariamente condannate a essere deluse. Delusione che comporterebbe il rischio della perdita della fede nella venuta del Messia, in contrapposizione a quanto detto in Habacuc: «È una visione che attesta un termine, e non parla di una fine e non mente, se indugia attendila, perché certo verrà e non tarderà».9 In questo modo l’idea messianica viene ad assumere un volto assolutamente terreno, ricoprendo una posizione pari a tutti gli altri precetti della Torà: essa viene depurata dai suoi contenuti mistici che hanno più volte rischiato di allontanare gli ebrei dall’Halakhà e che sovente hanno destabilizzato il popolo, facendolo deragliare verso congetture fantasiose e lidi incerti. Maimonide ritiene che l’incertezza si combatta solo attraverso il rispetto della tradizione. Cercando di mettere in guardia il popolo dalle false credenze, Maimonide fornisce i segni di riconoscimento dell’era messianica e dello stesso Messia, facendo rigorosamente riferimento alla Torà.10 Per quanto riguarda la venuta del Messia, che segna il dischiudersi dell’era messianica, il tempo avrà inizio quando cristiani e musulmani si contenderanno il dominio del mondo. Allora egli comparirà con vesti umili e riunirà queste due schiere, come si legge in Isaia: Va’, metti una sentinella che annunzi quanto vede. Se vede cavalleria, coppie di cavalieri, un uomo che cavalca un asino, un uomo che cavalca un cammello, osservi con attenzione, con grande attenzione.11
L’uomo che cavalca il cammello simboleggia il re arabo e la coppia di cavalieri rappresentano Edom e Ismaele, ovvero cristiani e musulmani. Il Messia in questa profezia si distingue per la sua umiltà, essendo colui che cavalca l’asino. Ciò contrasta fortemente con la pompa con cui avanzano gli altri re. Questa sua prerogativa è ribadita dall’immagine della sua modestia in Zaccaria:
rilevanti sono il Tafsir Kitab al-mabadi (in ebraico: Perush Sefer Yetzirah), Commento al libro della creazione, e il Kitab al-Amanat wal-I-tiqadati (in ebraico: Sefer ’Emunot we-De’ot), Libro delle credenze e delle convinzioni. 6 I calcoli di cui parla Maimonide, e che egli stesso riferisce a Saadia Gaon, sono fondamentalmente congetture operate sulla base dell’astrologia e su alcune particolari posizioni dei pianeti, delle costellazioni, oltre che sulle congiunzioni e sugli aspetti che essi stessi formano tra loro. 7 Daniele 12, 9. 8 Maimonide, Letter to Yemen, cit., pp. 40 sgg.; traduzione dei curatori. 9 Habacuc 2, 3. 10 Cfr. Maimonide, Letter to Yemen IV, cit., e Id., Commento alla Mishnà. Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, cit. 11 Isaia 21, 6-7.
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Esulta grandemente figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina.12
Inoltre il Messia si distinguerà per una dignità e uno spirito di profezia quali nessun profeta prima di lui ha avuto, come anticipa Isaia nel capitolo 11: Animato da timor di D-o, non giudicherà in base a ciò che vedranno i suoi occhi, né deciderà in base a ciò che sentiranno le sue orecchie. Difatti, su di lui si poserà lo Spirito di D-o, uno spirito di saggezza e intelligenza, spirito di consiglio e di forza, uno spirito di scienza e di timor di D-o.13
Risulta evidente come da questa prima descrizione non sia consentito avere un’idea dell’aspetto del Messia, bensì ci vengono fornite indicazioni che tendono a identificarlo soprattutto dal comportamento, caratterizzato da manifestazioni di spiritualità superiore. Ciò forse ha lo scopo di evitare che le aspettative messianiche vadano a concentrarsi su una mera apparenza piuttosto che sulla sostanza e, nel contempo, a far sì che queste caratteristiche, per la loro peculiarità, debbano essere valutate con molta attenzione. Saremo in grado di riconoscere l’autentico Messia, piuttosto che semplicemente un grande re o un grande uomo, solo attraverso una profonda analisi delle sue imprese. Questo concetto verrà ribadito ancora nell’Epistola allo Yemen: Riguardo alla questione di come e dove il Messia apparirà; noi sappiamo che farà la sua prima apparizione in Terra di Israele. Com’è scritto «Egli verrà nel suo Tempio».14 Ma noi non possiamo sapere come egli arriverà e cosa accadrà in quel momento. Il Messia non sarà una persona conosciuta [...]. I segni e i miracoli che compirà saranno la prova che egli è il vero Messia.15
L’era del Messia è determinante soprattutto per le sue ripercussioni sull’umanità tutta, non tanto per la figura di colui che fisicamente ne segna l’inizio. Caratteristica fondamentale di quest’epoca è la liberazione di Israele dal dominio delle altre nazioni e la realizzazione della sua sovranità.16 Altra caratteristica rilevante è la diffusione della «vera conoscenza», affinché gli uomini possano accedervi; l’arrivo del Messia porterà con sé benessere sociale ed economico, in modo che l’occupazione principale dell’uomo possa divenire lo studio della Torà. L’arrivo del Messia produrrà anche una terra più fruttifera e generosa, tanto che si potranno osservare i giubilei, vale a dire che gli uomini potranno lasciare che la terra produca i suoi frutti liberamente senza costringerla e piegarla al proprio volere, e questo sarà motivo ulteriore di benessere economico. È fondamentale evidenziare che l’era messianica non coincide con la fine dei
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Zaccaria 9, 9. Isaia 11, 2-3. Malachia 3, 1. Maimonide, Letter to Yemen, cit., pp. 55 sgg.; traduzione dei curatori. Cfr. Talmud Babilonese: Berachot 34 B; Shabbath 63 A,151 B; Pesachim 68 A; Sanhedrin
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tempi o con un tempo a venire – non appartiene alle realtà ultime –; è collocata piuttosto in uno spazio e in un tempo leggermente arretrati rispetto alle «cose ultime»: l’era messianica non vedrà un mutamento del corso naturale degli eventi, ma sarà un’era del tutto terrena e storica. Così Maimonide afferma nel Mishnè Torà, nel Trattato sui Re: Non si pensi che nell’era messianica possa cambiare qualcosa nell’assetto naturale del mondo o che intervenga un radicale mutamente delle condizioni dell’esistenza.17
E ancora, nel Commento alla Mishnà:18 Nulla cambierà della realtà rispetto a oggi se non il fatto che la sovranità sarà restituita a Israele.19
Si può pertanto sostenere che, nel corso della storia terrena, si potrà intendere come segno messianico che Israele vivrà in pace insieme ad altre nazioni, che non si useranno più violenza, e che tutte le genti torneranno alla «vera fede». Per «vera fede» s’intende il conseguimento della «vera conoscenza», che farà sì che si accetti in modo naturale, da parte di tutti i popoli, un modello religioso non idolatrico, secondo l’insegnamento della Torà. Saranno svelate dunque le parti più oscure della legge ebraica e il Messia ammaestrerà tutto il popolo e gli mostrerà le vie del Signore. Come afferma Rambam nel Commento alla Mishnà, il Pèrek Chèlek,20 riprendendo un versetto di Isaia: La terrà sarà piena della conoscenza, come il mare è colmo d’acqua.21
E ancora, nel Mishnè Torà, nel Trattato sui Re: L’umanità si occuperà esclusivamente di conoscere D-o.
In ciò si può ravvisare la funzione d’Israele nel mondo e come il suo compito di popolo di sacerdoti sia finalizzato all’acquisizione della vera conoscenza. Non ci saranno né schiavi né forestieri, e il lavoro non sarà elemento discriminante fra poveri e ricchi, né un bisogno, ma espressione di libera creatività. Questo mutamento dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti del lavoro si potrebbe definire come conseguenza dell’unico cambiamento nel corso naturale delle cose: la straordinaria
17 Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XI, in Giuseppe Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, Morcelliana, Brescia 1998, p. 202. 18 Nel Talmud Babilonese, il Trattato Sanhedrin è collocato al capitolo XI, ma sembra essere più corretto l’ordine indicato dal Commento alla Mishnà e dal Talmud Gerosolimitano, che inseriscono questo trattato nel capitolo X, il penultimo. 19 Maimonide, Commento alla Mishnà, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in G. Laras (a cura di), Immortalità e Resurrezione, Morcelliana, Brescia 2006 p. 83. 20 Cfr. Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in G. Laras (a cura di), Immortalità e Resurrezione, cit., p. 85. 21 Isaia 11, 9.
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fecondità della terra. La produzione dei frutti da parte della terra è un evento naturale, eppure la sua abbondanza è espressione di benedizione e, pertanto, è un aspetto caratteristico dell’era messianica. Si può notare come l’osservanza della tradizione e la speranza, in Maimonide, si fondino su un razionalismo che rende il suo pensiero non solo fedele ai testi e all’interpretazione di generazioni di rabbini e maestri del Talmud, ma lo depurano da quelle degenerazioni mistiche e apocalittiche che considerano l’era messianica come un evento extra-storico e catastrofico. Infatti, Scholem sostiene che, in Maimonide, gli elementi utopici e apocalittici del messianismo perdono la loro importanza, mentre è posto in primo piano l’aspetto della restaurazione, aspetto emergente nella tradizione talmudica e halakhika. L’originalità del pensiero di Maimonide consiste nel suo «ideale della contemplazione»: tale contemplazione è il risultato della studio della Torà e ha come conseguenza l’illuminarsi del mondo dell’Halakhà, in quanto il dischiudersi della legge nella sua interezza non ha bisogno necessariamente di un riferimento esplicito all’attesa messianica. La contemplazione in sé gioca il ruolo fondamentale: l’attesa messianica è inserita in questa visione e, come ho accennato all’inizio, essa costituisce un completamento e un perfezionamento ulteriore dell’uomo. La speranza nella venuta del Messia costituisce un elemento importante anche nell’immediato presente, nel qui e ora, all’interno del rapporto di fiducia tra il popolo ebraico e D-o: Maimonide, infatti, nei tredici articoli di fede,22 include «il credere e il ritenere vero che egli [il Messia] verrà e il pensare che non tarderà». L’articolo XII, divenuto molto popolare, in quanto ha accompagnato il popolo ebraico nei momenti più tragici, si apre così: I tempi messianici. Cioè credere ed essere persuasi che il Messia verrà, e non ritenere che ritarderà [...]. Ma non si assegni una data, né si applichi nelle Scritture il ragionamento per ridurre il momento della venuta.23
La coscienza ebraica si struttura anche attraverso la credenza e la fede nella venuta del Messia. E se il Messia non è ancora giunto, poiché egli può tardare, come è anche indicato dalle Scritture, bisogna avere fede nella sua venuta, come sostiene Habacuc.24 Bisogna aver fiducia e credere in lui, amarlo, pregarlo e chi dubita che verrà, chi attenua la sua gloria è come se rinnegasse la Torà, che annuncia esplicitamente la sua venuta. Rambam ritiene che la fiducia nell’arrivo del Messia sia tanto essenziale da inserirla tra i tredici articoli di fede, che, essendo un codice di leggi, rappresenta un tentativo ulteriore di evidenziare l’aspetto normativo e spogliare così l’idea messianica dei suoi orpelli metafisici e dei miracoli. Scholem, infatti, a proposito del messianismo di Maimonide, scrive: Egli non fa alcun cenno ai miracoli o ad altri segni messianici. Il tempo messianico por-
22 I tredici articoli di fede (shaloshah asar ikkarim), introdotti ed esposti da Maimonide nel Pèrek Chèlek, sono quei principi che permettono l’ingresso nel mondo futuro, sono i veri «fondamenti della legge» che devono necessariamente essere accettati come dogma da ogni ebreo per poter accedere al «mondo a venire». 23 Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in G. Laras (a cura di), Immortalità e Resurrezione, cit., p. 105. 24 Habacuc 2, 3.
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ta con sé, in senso negativo, la libertà di Israele dal presente asservimento e, come contenuto positivo, la libertà gli consente di adire alla conoscenza di D-o.25
L’arrivo del Messia, secondo Rambam, non sarà caratterizzato da particolari iberbolici né da sciagure; infatti, non fa nessun riferimento alle sofferenze messianiche (chevlè mashiach):26 in Maimonide, le tribolazioni che anticiperanno la venuta del Messia sono limitate soltanto a piccoli accenni. Il pensiero messianico di Maimonide è depurato da ogni elemento che non sia direttamente comprensibile dalla ragione e, come abbiamo già detto, la redenzione ha un valore prettamente strumentale. Il Messia non aggiungerà nulla alla Torà, ma spiegherà gli autentici significati delle mitzvòt, in modo tale che i precetti vengano adempiuti integralmente e serenamente: è proprio questo il segno del rinnovamento profondo che avrà luogo nel cuore degli uomini. Per Rambam, la singolarità dell’evento messianico scaturisce dalla palingenesi conseguente all’arrivo del Messia; l’indipendenza nazionale e religiosa di Israele, la convivenza rispettosa e serena tra i popoli sono tutti segni che attiveranno un’era di trasformazioni sociali del tutto terrene, come scrive Isidore Epstein: I riferimenti al messia, in tutte le profezie ebraiche, riguarderanno essenzialmente un futuro terreno.27
Con la venuta del Messia ci sarà una piena ed effettiva accettazione dell’altro: questo elemento di rispetto e accoglimento dell’alterità sarà costitutivo della società rinnovata, elemento strumentale e fondante di una realtà terrena del tutto opposta a quella attuale.
25 G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, p. 140. 26 Cfr. Talmud babilonese, Sanhedrin 98 B. 27 I. Epstein, Il Giudaismo. Studio storico, Feltrinelli, Milano 1967, p. 54.
Giada Coppola Yemot ha-mashiach. Maimonide e l’era messianica
Rispetto alla grandiosità e alla vastità della sua opera, Maimonide tratta «apertamente» della venuta del Messia soltanto in pochi passi;1 questo indubbiamente potrebbe sorprendere chiunque conosca la meticolosità del filosofo-rabbino. La scelta di Maimonide appare invece più che comprensibile a uno sguardo approfondito: infatti, qualsiasi lettore può accorgersi di come l’idea della venuta del Messia e dell’era messianica (yemot ha-mashiach) sia profondamente radicata in tutto il suo pensiero. Questo sguardo più accorto è fondamentale per riuscire a cogliere la complessità dei vari piani che in Maimonide vanno a sovrapporsi e a intrecciarsi tra il suo pensiero «originale» e la tradizione rabbinica e dei Maestri. Leggendo il Commento alla Mishnà, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, il Perèk Helek, Maimonide inserisce come XII Principio, tra i tredici articoli di fede (shaloshah asar ikkarim), la venuta del Messia: Ani ma’amin be-emunah shlemah beviat ha-mashiach;2 espresso già con queste parole nel XII Principio: «I tempi messianici. Cioè credere ed essere persuasi che il Messia verrà e non ritenere che ritarderà».3 L’era messianica è collocata qui tra il principio che stabilisce la ricompensa di chi durante la sua vita esegue tutti i precetti della Torà (XI Principio che recita: «Egli – sia esaltato – ricompensa chi esegue i precetti della Torà e punisce chi trasgredisce i suoi divieti»)4 e quello che presenta la resurrezione dei morti e il mondo a venire (XIII Principio: «La Resurrezione dei morti, di cui abbiamo già parlato».5 Maimonide a questo punto rimanda per il XIII Principio
1 I passi in cui Maimonide indica espressamente l’era messianica o introduce la venuta del Messia sono da ricercare nelle seguenti opere: Commento alla Mishnà, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek; Trattato sulla Resurrezione dei morti, scritto in arabo, tradotto da Samuel Ibn-Tibbon con il titolo di Maamar thechiyath ha-metim; Mishnè Torà (Ripetizione della Torà): Sefer Maddà (Libro della Conoscenza) composto da due diversi trattati, Hilchot yesodei ha-Torah (I Fondamenti sui quali si fonda la Torà) e Hilchot Teshuvà (Norme sulla Teshuvà ovvero sulla Penitenza), Sefer Shofetim (Libro dei Giudici), Hilchot Melachim we-Milchamotehem (Trattato sui Re e delle loro Guerre); Epistola allo Yemen, Iggeret Teiman, lettera in cui Maimonide parla dei falsi messia. 2 Letteralmente: «Io credo con completa fede nella venuta del Messia, Io credo fermamente nella venuta del Messia». 3 Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, a cura di G. Laras, Morcelliana, Brescia 2006, p. 105. 4 Ibidem, p. 104. 5 Ibidem, p. 106; cfr., Maimonide, Trattato sulla Resurrezione dei Morti in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., pp. 111-187.
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direttamente ad altri suoi scritti, ovvero al Trattato sulla Resurrezione dei Morti).6 È possibile comprendere meglio il pensiero di Maimonide rispetto alla venuta del Messia a partire proprio dalle indicazioni che implicitamente sono presenti nel Perèk Helek. Collocare l’era messianica prima della resurrezione dei morti e del mondo a venire («olam ha-ba»7) indica immediatamente che per l’autore l’era messianica è e si manifesterà in questo mondo («olam ha-ze»8). Maimonide dunque colloca la venuta del Messia (i tempi messianici) dentro i tempi ordinari della storia, come è stato appunto ricordato da Roland Goetschel nella prefazione al testo di Amos Funkenstein Maïmonide. Nature, histoire et messianisme: «Questi sono tempi che appartengono interamente al dominio della storia».9 Nella sua interpretazione Maimonide non si distacca minimamente dalla tradizione ebraica fondata su ciò che è indicato dalle Scritture, soprattutto nelle visioni dei Profeti, e dal Talmud: In futuro sorgerà il re Messia, il quale ristabilirà il regno di Davide nella sua antica gloria, riedificherà il Tempio e riunirà i dispersi d’Israele.10
Possiamo mettere in relazione questo passo del Trattato sui Re di Maimonide con due benedizioni contenute nelle Amidà – le diciotto benedizioni – stabilendo una stretta correlazione tra la quattordicesima e la quindicesima benedizione e il testo del filosofo, come ha anche osservato Reuven Kimelman in un articolo apparso in Journal of Biblical Literature:11 Voglia tu richiedere a Gerusalemme, Tua città, come hai promesso e ristabilirvi presto il trono di David Tuo servo. Ricostruiscila per l’eternità al più presto fino ai nostri giorni. Benedetto Tu, Signore, che ricostruisci Gerusalemme.12 Fa fiorire al più presto il germoglio di David, Tuo servo, e risolleva la sua gloria con la Tua salvezza poiché abbiamo sperato ogni giorno nella Tua salvezza. Benedetto Tu, Signore, che fai germogliare la gloria della salvezza.13
Ciò che possiamo rilevare è come Maimonide abbia rielaborato queste due benedizioni nel Mishnè Torà; entrambi questi passi, secondo la tradizione e l’interpretazione dei Maestri, sono connessi all’era messianica e alla venuta del Messia. Qui
6 Maimonide scrive infatti il Trattato sulla Resurrezione dei Morti per difendersi dagli attacchi di chi lo aveva ingiustamente accusato di non credere fermamente a questo principio poiché secondo i suoi oppositori il filosofo non ne avrebbe fatto alcun cenno nella Guida dei Perplessi. 7 Letteralmente «mondo a venire», quindi il «mondo futuro». 8 Letteralmente «questo mondo», ovvero il «mondo presente». 9 R. Goetschel, Prèface, in A. Funkenstein, Maïmonide. Nature, histoire et messianisme, Les èditions du cerf, La nuit surveillèe, Paris 1988, p. 16; trad. nostra. 10 Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XI, 1, in Giuseppe Laras Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, Morcelliana, Brescia 1998, p. 201. 11 Cfr. R. Kimelman, The Messiah of the Amidah: A Study in Comparative Messianism in «Journal of Biblical Literature» vol. 116, n. 2 (Summer 1997), pp. 313-320. 12 Shlomo Bekhor (a cura di), Siddur, Mamash, Milano 2006², p. 339. 13 Ibidem, p. 341.
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non si parla esplicitamente del Messia, ma per «germoglio di David» si deve intendere la sua stirpe, come ricorre in Zaccaria 3, 8: «Ecco io faccio venire il Mio servo, il germoglio», o anche in Geremia 23, 5: «Ecco verranno dei giorni, dice il Signore, in cui farò sorgere un giusto germoglio di David, un re che regnerà saggiamente e praticherà la giustizia e il diritto nel paese»; e ancora, sempre in Geremia 33, 15: «In quei giorni e in quel tempo, farò sorgere a David un germoglio di giustizia che praticherà la giustizia e il diritto nel paese»; e in Isaia 53, 2: «È salito un germoglio davanti a Lui, come una radice da terra arida, non ha figura né bellezza da esser veduta, né visione da essere desiderata». Maimonide indubbiamente nel Mishnè Torà segue la linea interpretativa ed esegetica, secondo cui il Messia sarà colui che ricostruirà il Tempio di Gerusalemme e restaurerà il regno di David. La linea della stirpe davidica è confermata dalle parole dello stesso Maimonide poco più avanti: Se dovesse sorgere, dalla stirpe davidica, un re, studioso della Torà e scrupoloso esecutore dei precetti, sia quelli della Torà scritta che quelli della Torà orale, come il suo antenato David, il quale inducesse tutto il popolo a camminare nelle vie della Torà, a rafforzare la difesa e a combattere le guerre del Signore, questi potrebbe essere il Messia. Se, poi, riuscisse a ricostruire il Tempio nel suo antico luogo, e riunisse i dispersi di Israele, sarebbe sicuramente il Messia.14
Nell’Hilchot Melachim Maimonide non si soffermerà a interpretare i segni del Messia, né i suoi prodigi o miracoli – Rambam15 si occuperà di questa tematica specifica nell’Epistola allo Yemen – ma preferirà sottolineare gli esiti della venuta del Messia in questo mondo: Non si pensi che nell’era messianica qualcosa dell’assetto naturale del mondo possa cambiare o che intervenga un radicale mutamento nelle condizioni dell’esistenza. No, il mondo continuerà a seguire il suo corso naturale.16
Maimonide ritornerà ancora su questa tematica nell’Hilchot Teshuvà: Infatti, quel re che regnerà allora – e sarà della stirpe di David – sarà più saggio dello stesso Salomone e sarà un grande Profeta, molto vicino per grandezza a Moshè Rabbènu,17 e istruirà il popolo e gli indicherà le vie del Signore. [...] I giorni messianici tuttavia fanno parte di questo mondo e come i nostri primi chakhamim18 hanno già spiegato che la solo differenza tra il nostro mondo e l’era messianica sta nella mancanza di sottomissione a domini stranieri.19
14 Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XI, 1 in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 202. 15 Acronimo di Rabbi Mosè ben Maimon. 16 Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XII, 1 in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 202. 17 Nostro Maestro. 18 Chakhamim: letteralmente saggi, da Chakham: saggezza. 19 Maimonide, Ritorno a Dio, Norme sulla Teshuvà, a cura di R. Levi, La Giuntina, Firenze, 2004, pp. 86-87.
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Anche solo da questi brevi estratti delle opere di Maimonide possiamo comprendere come per il filosofo l’attualizzazione dei tempi messianici e la venuta del Messia rientrino a pieno nell’ordine di questo mondo, ’olam ha-ze. L’era messianica non è dunque un momento di rottura o di interruzione del processo della storia ma, al contrario, ne rappresenta il punto più alto, che garantirà a Israele la vera liberazione e l’indipendenza dal dominio delle altre nazioni.20 In questi brani Maimonide diventa realmente il portavoce di una visione ebraica dei tempi messianici che non appartiene all’ordine escatologico. A partire da ciò Maimonide può essere considerato davvero come il massimo esponente di un «messianismo realista»;21 infatti nelle sue riflessioni su questo argomento non si trovano mai quelle digressioni apocalittiche o catastrofiche che spesso accompagnano il tema messianico, ma solo la conferma che la venuta del Messia è da attendere proprio nel tempo presente, qui ed ora. David Banon nel suo saggio Il messianismo22 colloca Maimonide nella prospettiva di un «razionalismo messianico»: la venuta del Messia è realizzabile solo in questo mondo, dunque nel tempo presente, nel qui e ora. Questo proprio perché una dimensione apocalittica allontanerebbe il popolo di Israele dalla vera conoscenza di Dio e lo farebbe cadere nell’errore o addirittura nell’eresia dovuta proprio a una cattiva interpretazione delle Scritture.23 Seguendo questa linea interpretativa, Banon affermerà dunque che il tempo messianico per Maimonide è un processo storico che appartiene e attiene alla realtà: Rambam precisa dunque che i tempi messianici non sono una realtà metastorica, ma un processo storico reale di cui tuttavia il momento della realizzazione sfugge ai comuni mortali.24
Maimonide, nel Commento alla Mishnà, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, aggiungerà, seguendo la tradizione di Rabbi Yehudah ha-Nasi iscritta nel Sanhedrin,25 che la venuta del Messia e il suo regno si protrarrà per almeno tre generazioni: Il Messia morirà, suo figlio regnerà dopo di lui e, infine, il figlio di suo figlio. Dio stesso ne ha già preannunciato la morte con le parole: «Non si indebolirà, né si scoraggerà, prima di aver stabilito la giustizia sulla terra».26 Il suo regno durerà molto a lungo e, altrettanto, sarà della vita umana, poiché quando vengono meno le ansie e i dolori, la vita umana si allunga. E
20 Per approfondire questo concetto rimando a un confronto con Isidore Twersky, Introduction to the Code of Maimonides (Mishneh Torah), Yale Judaica Series 22, New Haven and London, Yale University Press, New York 1980, p. 450. 21 Cfr. A. Funkenstein, Maimonide. Nature, histoire et messianisme, cit., p. 26; in part. pp. 25-29. 22 David Banon, Il messianismo, La Giuntina, Firenze 2000. 23 Cfr. Epistola allo Yemen, in Maimonide, Moses Maimonides’ Epistle to Yemen: the Arabic original and the three Hebrew versions, Edited from manuscripts with introduction and notes by Abraham S. Halkin and an English translation by Boaz Cohen, American Academy for Jewish Research, New York, 1952. 24 D. Banon, Il messianismo, cit., p. 35. 25 Sanhedrin 99a. 26 Isaia 42, 4.
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non sorprenda che il suo regno duri migliaia di anni, giacché, come già hanno detto i Maestri: quando una società è eccellente, non si sgretola facilmente.27
Questa prospettiva di Maimonide apre ad un mondo nel quale la venuta del Messia sarà per il popolo di Israele l’inizio di un tempo di pace28 e di prosperità economica e benessere sociale, liberandolo allo stesso tempo dal giogo delle altre nazioni. L’era messianica per Maimonide è dunque contemporaneamente un tempo umano e divino, che ha radici profonde e intrinseche nella storia di un popolo e nel legame con la terra promessa. Possiamo dunque ricordare il famoso verso di Isaia29 che coglie la grande «potenza rivoluzionaria» del pensiero messianico: «Allora il lupo dimorerà con l’agnello; si coricherà il leopardo con il capretto, e il vitello e il leone staranno assieme»;30 e ancora Michea: «Egli giudicherà tutti i numerosi popoli, ammaestrerà le più potenti e remote nazioni, tanto che spezzeranno le loro spade per farne delle vanghe e le loro lance per farne delle falci; nessuna nazione alzerà la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra».31 È seguendo dunque questa tradizione che Maimonide diventa il portavoce di un pensiero la cui intensità produce realmente un cambiamento radicale nell’ordine del mondo reale, dove la venuta del Messia ristabilirà una sorta di pax judaica:32 I «giorni nel Messia» indicano l’epoca in cui sarà ristabilita la sovranità di Israele e in cui [il popolo] ritornerà nella terra d’Israele. [...] Tutte le nazioni stipuleranno con lui un patto di pace e tutti i paesi gli presteranno obbedienza, a motivo della sua grande giustizia e dei prodigi che, per mezzo suo, si produrranno. [...] Nulla cambierà nella realtà, rispetto ad oggi,33 se non il fatto che la sovranità sarà restituita ad Israele. Questa è, infatti, l’espressione dei Maestri:34 «L’unica differenza tra questo mondo e l’era messianica è la cessazione del
27 Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., pp. 85-86. 28 Il Messia infatti in Isaia 9, 5 è anche chiamato sar shalom, ovvero principe di pace. 29 Maimonide sottolineerà che tutti i versi che si riferiscono al Messia, e soprattutto questo passaggio del capitolo 11 di Isaia, non sono altro che immagini metaforiche e come tali devono essere intese. Cfr. Mishnè Torà, Trattato sui Re XII, II, in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 202: «L’annuncio di Isaia: “Il lupo se ne starà con l’agnello e il leopardo riposerà con il capretto”, è una semplice metafora. [...] Analogamente, tutte le altre espressioni simili, riferite al Messia, vanno intese in senso metaforico». Maimonide sostiene che il linguaggio metaforico è l’unico metodo per poter comprendere la Torà e per poter conoscere Dio. Cfr. Maimonide, Guida dei Perplessi, a cura di Mauro Zonta, UTET, Torino 2005, I, 24: «Tu conosci il detto dei sapienti che vale per tutte le specie di interpretazione legate a questo tema: “La Legge parla nella lingua degli uomini (Talmud Babilonese: Yevamot 71a; Bava mesi’a 31b)”». 30 Isaia 11, 6. 31 Michea 4, 3; cfr. Isaia 2, 4: «Egli giudicherà fra le nazioni, ammonirà molte genti, le quali spezzeranno le loro spade per farne vomeri, e le loro falci per farne spade; nessun popolo alzerà la spada contro l’altro, e non impareranno più la guerra». 32 Cfr. A. Funkestein, Maïmonide. Nature, historire et messianisme, cit., p. 10. 33 Cfr. Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XII, 1, in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., pp, 201-204. 34 Cfr. Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XII, in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 203: «I nostri Maestri hanno affermato: “L’unica differenza fra questo mondo e l’era messianica consiste nella [cessazione dell’] oppressione dei domini stranieri”».
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dominio delle nazioni».35 In quei giorni continueranno ad esserci, gli uni accanto agli altri, ricchi e poveri, forti e deboli, e in quei giorni sarà molto più facile per l’uomo procurarsi da vivere, poiché, per poco che lavorerà, otterrà grandi risultati.36
Nelle opere che fino a questo momento ho citato appare chiaro che olam haze e olam ha-ba, mondo presente e mondo futuro, sono due piani complementari e non possono prescindere l’uno dall’altro. Nel Commento alla Mishnà, Maimonide affronta queste due dimensioni come se tra loro esistesse una sorta di continuum e, in questo continuum, la venuta del Messia fosse la tappa preparatoria e fondamentale prima dell’ingresso nel mondo futuro. Ma sarà nell’Hilchot Teshuvà che Maimonide esporrà la vera grande differenza tra l’era messianica e il mondo futuro, sostenendo che la venuta del Messia si compie totalmente all’interno dei tempi storici mentre il mondo a venire appartiene a una dimensione assolutamente spirituale: E già i nostri più remoti chakhamim ci fecero presente che l’uomo non potrà mai essere in grado di afferrare in pieno quanto sia grande il bene per il mondo futuro. E nessuno, se non il Signore soltanto, ne conosce la grandezza, la magnificenza e la potenza. E in effetti anche tutte le profezie meravigliose che i Profeti hanno vaticinato per Israele non sono altro che piacere e gioie rapportati alla capacità [limitata] dei sensi di cui dispone l’essere umano e sono riservati a rallegrare Israele nei giorni dell’avvento del Messia, quando il potere tornerà ad Israele, ma [a differenza del bene vaticinato per l’era messianica] il bene della vita del mondo futuro non può essere valutato né neppure immaginato [...] I nostri chakhamim37 dissero che tutti i Profeti, senza eccezione, non hanno profetizzato se non il bene che si vedrà nei giorni dell’avvento del Messia, ma il mondo a venire «nessun occhio ha mai potuto vedere se non il Tuo»38.39
E ancora nel Trattato sulla Resurrezione dei Morti Maimonide aggiungerà: Nel commento al X capitolo del Trattato di Sanhedrin abbiamo spiegato che la resurrezione dei morti è un principio fondamentale della Torà: chi non vi crede, non ha parte nella Torà di Mosè, nostro Maestro. Tale principio, tuttavia, non costituisce la meta ultima [rappresentata dal mondo a venire]. Abbiamo anche spiegato che nel mondo a venire non esistono i corpi, conformemente al detto dei Maestri: «Là non vi è cibo, né
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Cfr. Talmud Babilonese: Berachot 34b; Shabbath 63a,151b; Pesachim 68a; Sanhedrin
91b. 36 Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., pp. 82-83. 37 Cfr. Talmud Babilonese: Berachot 34b; Shabbat 63a. 38 Isaia 64, 3. 39 Maimonide, Ritorno a Dio, Norme sulla Teshuvà, trad. it. cit., pp. 82-83; cfr. Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., p. 78: «E già il profeta aveva spiegato che il mondo a venire non è percepibile coi sensi della corporeità come è detto: “Mai occhio umano ha veduto altro Dio all’infuori di Te, capace di fare simili cose in favore di chi confida in Lui (Isaia 64,3)”, su cui i Maestri così commentarono: “Tutti i profeti non hanno profetizzato che in vista dei giorni messianici, mentre il mondo a venire nessun occhio l’ha mai veduto all’infuori di Te, o Dio”».
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bevanda, né sesso».40 Sarebbe una menzogna (affermare) che il corpo possegga organi inutili.41
Come nota Giuseppe Laras nell’introduzione ai due trattati di Maimonide,42 il filosofo-rabbino distingue e separa questi due mondi complementari collocando il tempo messianico nel qui e ora del tempo storico ma, allo stesso tempo, disgiungendo la venuta del Messia dalla resurrezione dei morti, allontanandosi in questo modo dalla più classica delle tradizioni ebraiche. Per Maimonide la resurrezione dei morti infatti non è necessariamente un prodigio del Messia – a questo infatti fanno riferimento alcune tradizioni – ma è «volontà imperscrutabile di Dio».43 La resurrezione per il filosofo si riferisce solamente al corpo, alla forma materiale dell’uomo, mentre l’ingresso nel mondo a venire è privilegio e prerogativa delle anime, e saranno soltanto le anime dei giusti, cioè di coloro che avranno sempre rispettato gli insegnamenti della Torà e dei Maestri, a guadagnare il mondo futuro: La beatitudine, in cui verrà a trovarsi l’anima nel mondo a venire, non è in alcun modo possibile percepirla e realizzarla in questo mondo, dato che, in questo mondo, non conosciamo altro che il bene materiale, al quale aspiriamo. [...] Se lo hanno chiamato «mondo a venire», è perché nella vita sopravverrà all’uomo, solo dopo aver vissuto in questo mondo, in cui noi esistiamo sotto forma di corpo e di un’anima, com’è proprio in ogni uomo, da sempre.44
Ciò che invece è strettamente connesso con i tempi messianici e la venuta del Messia è l’osservanza dei precetti, ovvero l’assoluto rispetto delle mitzvòt. È attraverso l’osservanza dei precetti, lo studio della Torà e il rispetto di tutte le norme halakhiche dei Maestri e dei sapienti che l’uomo può raggiungere la vera conoscenza di Dio. Questa concezione rappresenta ciò che spesso dagli studiosi viene definita come teoria della «significazione dei precetti»45 (ta’amei mitzvòt). Secondo Maimonide non solo attraverso il rispetto delle norme contenute nella Torà – proprio perché è attraverso lo studio della Torà che all’uomo è garantito l’ingresso nel mondo a venire – ma anche attraverso la vera comprensione dei precetti si può raggiungere la vera conoscenza di Dio. È qui necessario, per riuscire a comprendere il pensiero di Maimonide, recuperare la sua distinzione tra hukkim e mishpatim, ovvero tra disposizioni e giudizi – distinzione già elaborata da un altro filosofo, Saadia Gaon, il quale a sua volta ha ripreso questa terminologia dal Kalam islamico. Maimonide fa una distinzione tra i precetti,46 gli hukkim, che non possono essere spiegati razionalmente (l’esem-
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Talmud Babilonese, Berachot 17b. Maimonide, Trattato sulla Resurrezione dei morti, in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 211. 42 Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., p. 19. 43 Ibidem. 44 Maimonide, Introduzione al X capitolo Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., p. 83. 45 Cfr. A. Funkestein, Maïmonide. Nature, histoire et messianisme, cit., in part. pp. 41-45. 46 Cfr. Maimonide, Guida dei Perplessi, parte III capitoli 26-49, è in questi capitoli che Maimonide distinguerà sommariamente i 613 precetti. 41
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pio specifico che Maimonide riporta è quello della «vacca rossa»47 nella terza parte della Guida dei perplessi),48 dalle norme che invece sono retaggio della tradizione classica, trasmesse dalle autorità rabbiniche e dai maestri, i mishpatim. Un’altra specificazione di queste due tipologie di «precetti» è indicata dallo stesso autore nella Guida dei perplessi: «I precetti di utilità evidente al volgo si chiamano “giudizi” (mishpatim), mentre quelli di utilità non evidente si chiamano “disposizioni” (hukkim) [...]».49 Maimonide, pur riportando questa distinzione, afferma che tutti i comandamenti, anche quelli di difficile comprensione – come lui stesso nella Guida dei perplessi affermerà – devono necessariamente essere rispettati proprio perché provengono dal Cielo e che chiunque voglia modificare la Torà sarà punito.50 Lo studio della Torà è quindi finalizzato alla conoscenza di Dio e soprattutto al conseguimento della vita eterna; ed ecco che, ancora una volta, Maimonide nel capitolo XII del Trattato sui Re sottolinea quella forte connessione tra la venuta del Messia e il mondo a venire, dunque come l’attesa dei tempi messianici sia connessa alla vita eterna: I Maestri e i profeti non hanno aspettato ardentemente i tempi messianici, né per dominare il mondo, né per asservire le nazioni, né per ottenere l’onore dei popoli, né per mangiare, bere e divertirsi, ma per potersi consacrare serenamente, senza oppressori e disturbatori alla scienza della Torà, al fine di poter conseguire la vita eterna e il mondo a venire.51
Proprio perché il premio più grande per Maimonide, riprendendo un verso del profeta Isaia,52 altro non è che la conoscenza di Dio: «La terra sarà piena della conoscenza di Dio, come il mare è colmo di acqua».53 David Banon sottolinea questo aspetto di Maimonide citando l’Epistola allo Yemen: L’obbligo che deriva dai precetti non deriva dalla venuta del Messia. Al contrario, dobbiamo occuparci della Torà e dei suoi precetti e sforzarci di perfezionare il loro compimento. Dopo che avremmo fatto ciò che dobbiamo fare, se Dio accorda a noi, ai nostri figli o ai nostri nipoti di vedere il Messia, sarà ancora meglio. Se no, non perderemo niente, ma profitteremo delle azioni che abbiamo dovuto fare.54
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Numeri 19. Maimonide, Guida dei Perplessi, III, 47. 49 Ibidem, III, 26. 50 Cfr. Maimonide, Introduzione al X capitolo Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., p. 103, IX Principio: «La trascrizione: cioè che questa Torà di Mosè è stata trascritta direttamente da parte di Dio e di nessun altro all’infuori di Lui. Nulla di essa si deve aggiungere o togliere alla Torà Scritta né alla Torà Orale. Come è scritto: “Tutto ciò che io vi prescrivo osserverete esattamente, senza aggiungere o togliere alcunché (Deuteronomio 13, 1)”». 51 Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XII in G. Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, cit., p. 204. 52 Cfr. Maimonide, Introduzione al X capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., p. 85. 53 Isaia 11, 9. 54 Maimonide, Epistola allo Yemen, cit. in D. Banon, Il messianismo, cit., p. 30. 48
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Lo studio dunque, per Maimonide, permette di raggiungere la perfezione morale ed intellettuale ed è attraverso la pratica che sì può ottenere la massima conoscenza. Così come è anche scritto nei Pirkè Avot: [...] chi aumenta la Torà aumenta la vita, chi si dedica molto a sedersi a studiare aumenta la sapienza, chi aumenta il consiglio aumenta l’intelligenza, chi dà molta beneficenza accresce la pace. Se ha acquisito un buon nome, lo ha acquisito per se stesso. Se ha acquisito per sé parole di Torà si è procurato la vita del mondo a venire.55
Il fine ultimo dell’uomo, ciò a cui tutta la sua esistenza deve tendere, è la conoscenza di Dio; l’uomo dunque attraverso lo studio e appunto una buona condotta morale può ambire alla vera conoscenza: È necessario che l’uomo sottometta tutte la facoltà della sua anima alla ragione, [...] e ponga di fronte a sé un unico fine, che è quello di avvicinarsi a Dio Benedetto, nella misura in cui è possibile all’uomo, intendo dire: di conoscerLo.56
Maimonide ritiene dunque che l’era messianica non rappresenti assolutamente una realtà che si dispiega oltre la storia, ma sia, al contrario, una dimensione radicata in questo mondo, che può darsi soltanto attraverso la pratica, ovvero lo studio della Legge e il compimento delle mitzvòt. Proprio questo studio ci permette di raggiungere la conoscenza di Dio e soprattutto la redenzione, intesa realmente come ritorno a Dio:57 E l’anima – come abbiamo spiegato – continuerà ad esistere per l’eternità come Dio stesso, che ne è la causa, avendoLo essa percepito [...]. E ciò costituisce il bene più grande a cui nessun bene può essere comparato, né alcun godimento paragonato, giacché come potrebbe compararsi l’eternità senza fine con ciò che è effimero? È quello che dice il verso: «Affinché tu sia felice e ti si prolunghino i giorni»,58 il cui significato – secondo l’interpretazione tradizionale59 – è il seguente: affinché tu sia felice: in un mondo interamente buono, e ti si prolunghino i giorni: in un mondo senza limiti!60
Come avevo accennato all’inizio, il tema messianico in Maimonide è presente – seppur non sempre espresso esplicitamente – in tutti i suoi scritti. Secondo Rambam infatti il fine ultimo dell’uomo è rappresentato dalla conoscenza vera che si dispiega anche attraverso la speranza messianica, dove l’uomo può serenamente raggiungere la più alta dimensione: quella, appunto, della conoscenza di Dio.
55 Pirkè Avot, II, 7, in Maimonide, Pirké Avòt. Lezioni dei Padri, Morashà, Milano, 1996. Cfr. Talmud Babilonese, Kiddushin 39b. 56 Maimonide, Gli Otto Capitoli. La dottrina etica, a cura di G. Laras, La Giuntina Firenze 2001, p. 77. 57 Maimonide gioca sul doppio significato che assume il termine Teshuvà, che indica al contempo «pentimento» e «ritorno». 58 Deuteronomio 22, 7. 59 Talmud Babilonese: Kiddushin 39b; Hullin 142a. 60 Maimonide, Introduzione al X Capitolo di Sanhedrin, Pèrek Chèlek, in Maimonide, Immortalità e Resurrezione, cit., pp. 76-77.
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Vorrei concludere con l’interpretazione che Yoseph Albo61 fornisce di un verso del secondo brano dello Shema’ Israel, contenuta nel Trattato sui fondamenti, Sefer ha-Ikkarim: «Si prolungheranno in tal modo i vostri giorni, e quelli dei vostri figli, sulla terra che Dio promise ai vostri padri, come i giorni del cielo sulla terra».62 Seguendo la strada di Maimonide, quella dunque di un razionalismo messianico, Albo interpreta questi versi come i premi che Dio ha promesso agli uomini tanto nella vita quanto nella morte: «affinché si prolunghino i vostri giorni» si riferisce a questo mondo; «i giorni dei vostri figli» all’era messianica; «come i giorni del cielo sulla terra» al mondo a venire, riconducendo il tempo messianico in questo mondo, nel dispiegarsi reale della storia. Maimonide. Edizioni di riferimento Mishnah im perush HaRambam (Commento alla Mishnà), a cura di Joseph Kafih, Mossad Ha-Rav Kook, Gerusalemme 1965, 3 volumi. Morè ha-Nevukim: Salomon Munk (ed.), Le Guide des égarés. Traité de théologie et de philosophie par Moïse ben Maimoun dit Maïmonide, 3 volumi, Paris 1856-1866. The Guide of the Perplexed, Translated and with introduction and Notes by Shlomo Pines, Introductory Essay by Leo Strauss, 2 volumi, The University of Chicago Press, Chicago and London 1963. Guida dei perplessi, a cura di Mauro Zonta, UTET, Torino 2005. Mishneh Torah, The code of Maimonides, Yale University Press, New Haven, 1949-2004; Mishneh Torah, Mossad Ha-Rav Kook, Gerusalemme 1957-1964, 16 volumi. Moses Maimonides’ Epistle to Yemen: the Arabic original and the three Hebrew versions, Edited from manuscripts with introduction and notes by Abraham S. Halkin and an English translation by Boaz Cohen, American Academy for Jewish Research, New York 1952. Immortalità e Resurrezione, a cura di Giuseppe Laras, Morcelliana, Brescia 2006. Ritorno a Dio. Norme sulla Teshuvà, La Giuntina, Firenze 2004. Pirké Avòt. Lezioni dei Padri, Morashà, Milano 1996.
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Yoseph Albo (1380-1444) rabbino, filosofo e talmudista spagnolo. Deuteronomio 11, 21.
Alessandro Guetta Messianismo, anti-messianismo, a-messianismo nella tradizione italiana
Secondo un’idea diffusa negli ultimi decenni – così diffusa da essere diventata un luogo comune – l’ebraismo si identificherebbe con il messianismo. L’origine di questo luogo comune è da cercarsi nel pensiero ebraico-tedesco della prima metà del ’900: un pensiero che non cede al nichilismo post-nietzschiano, alla secolarizzazione, al disincanto, alla sacralizzazione – per sostituzione – di un ente come lo Stato. È un pensiero allo stesso tempo messianico e che si dichiara ancorato alle radici ideali dell’ebraismo, ma eterodosso rispetto alla stretta tradizione religiosa. È insomma un pensiero che potrebbe fornire un orientamento a un’Europa che l’ha perso: un orientamento non dogmatico né dichiaratamente religioso, ma che non rinuncia a parlare di Dio; un messianismo moderno che diventa utopia regolatrice, che non abbandona l’istanza morale e si pone come critica permanente e radicale di un presente che aspira a essere modificato. Nel suo libro Témoins du futur. Philosophie et messianisme, che comprende i ritratti di alcuni tra i principali rappresentanti di questo pensiero,1 Pierre Bouretz si esprime così: Il fatto che questi pensatori ebrei nati all’epoca del disincanto del mondo, della «morte di Dio» e della distruzione della ragione abbiano in qualche modo salvato l’idealismo tedesco è dovuto soprattutto al fatto che sono rimasti dei metafisici. Ognuno l’ha espresso a suo modo, ma tutti hanno conservato o ritrovato la preoccupazione di non cedere al mondo così come esso funziona, al giudizio della storia e alla cancellazione proclamata del soprasensibile.2
La forza che spinge questi pensatori, secondo Bouretz, è «percepita come la sola che sopravviva al declino della Tradizione, ma abbastanza malleabile per essere interpretata per degli scopi diversi: il messianismo».3 A queste formule eloquenti, e sicuramente fondate, è necessario opporre un’osservazione. I pensatori considerati sono tutti – meno Lévinas – gli eredi di un ebraismo tedesco che presentava delle caratteristiche particolari: la percezione di uno strappo violento rispetto alla tradizione, che presentava un «prima» e un «dopo» inconciliabili; una visione radicale – e in un certo senso drammatica – della se-
1 Pierre Bouretz, Témoins du futur. Philosophie et messianisme, Gallimard, Paris 2003. I personaggi presi in considerazione sono Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Scholem, Martin Buber, Ernst Bloch, Leo Strauss, Hans Jonas e Emmanuel Lévinas. 2 Ibidem, p. 15. 3 Ibidem, p. 16.
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colarizzazione, corrispondente all’importanza attribuita all’esperienza religiosa, in particolare a quella di sensibilità protestante. Per alcuni di questi autori, l’esperienza ebraica si configura come una patria perduta e mal conosciuta, che può contenere degli elementi positivi e di orientamento nello smarrimento della modernità. Ma l’esperienza tedesca non è stata l’unica; inoltre, l’esperienza ebraica concreta è stata, probabilmente, più prosaica di quella descritta da Bouretz più avanti, con slancio lirico: Quanto all’esperienza dei giorni del Messia, essa non si è mai del tutto spenta nel corso della storia ebraica [...]. Col rischio di gravi pericoli, l’annuncio di un’epoca messianica imminente ha illuminato la vita ebraica tra le mura strette del ghetto, rianimato la speranza nelle ore che conoscevano la tentazione del suicidio, fatto intravedere una libertà che poteva incrociarsi con gli immaginari moderni della rivoluzione.4
Certamente le mura del ghetto erano strette, ed è vero che l’idea messianica non ha mai smesso di manifestarsi. Ma è lecito avere qualche dubbio quanto alla luce che questa idea avrebbe diffuso in epoche buie. Altrettante riserve si possono esprimere, almeno per l’epoca moderna, sulla pertinenza, o quanto meno preponderanza, della «tentazione del suicidio»; anche in senso figurato, come conversione. Le osservazioni che seguono si concentrano sulle comunità ebraiche d’Italia: esse approdano a delle conclusioni molto più sfumate. Nell’epoca dei ghetti, cioè dalla seconda metà del ’500 fino al ’700 inoltrato, in Italia le comunità ebraiche producevano probabilmente la cultura più creativa e variegata di tutto il mondo ebraico. È in questo paese, secondo gli studiosi che hanno esaminato il messianismo ebraico moderno, che i fermenti messianici erano presenti più che altrove; eppure, proprio in diversi autori italiani – e non certo tra i secondari – si può constatare un atteggiamento del tutto diverso, che sembra contraddire l’idea del messianismo come elemento costitutivo dell’esperienza ebraica. Lo storico David Tamar iniziava un suo importante articolo sull’attesa della redenzione nell’Italia ebraica per l’anno 1575 con le espressioni seguenti: Delle dieci misure di desiderio e aspirazione alla redenzione che sono discese nel mondo ebraico, l’Italia del XVI secolo se ne è accaparrate nove. [...] In quel secolo, le testimonianze sulle speranze messianiche, che non avevano mai cessato nel corso del Medio Evo, assumono un’espressione particolarmente vigorosa. Per tutto il periodo non ci fu paese della diaspora in cui gli annunci della redenzione si diffusero con tanta forza e in così gran numero.5
Qui sosterremo che anche l’opposto è vero: in Italia si sviluppa una coscienza ebraica che, relegando l’idea messianica al rango di nozione secondaria e accessoria, neutralizzandola, si apre a un’accettazione della storia per quello che è e non per quello che dovrebbe o potrebbe essere. Un’accettazione che, venendo da parte ebraica, prelude all’integrazione sociale, e non è meno «moderna» del messianismo utopistico di origine tedesca.
Ibidem, pp. 17-18. David Tamar, «Ha-Tzippiyah be-Italiyah li-shenath ha-gheullah shalach», in Sefunoth, 2 (1958), pp. 61-88. 4 5
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Quello che segue è un primo tentativo di costituire una tipologia ebraica italiana riguardo al messianismo in età moderna. Come abbiamo detto, si fonda sull’analisi delle opere di alcuni autori importanti: questo tipo di analisi presta ovviamente il fianco alla critica che potrebbe obiettare a una selezione di personaggi eminenti ma non necessariamente significativi di una realtà più ampia e diffusa. Anche se le posizioni che enunceremo hanno un grado di rappresentatività dell’insieme sociale difficile da determinare, è possibile trovare tra loro una regolarità di elementi che possono costituire una tipologia. Si tratta, inoltre, di una prima analisi che, in quanto tale, pecca necessariamente di una certa misura di approssimazione e generalizzazione. Il primo tra gli autori considerati è ‘Azariyah min ha-Adumym, in italiano Bonaiuto de’ Rossi (1511-1577), l’autore della celebre miscellanea Meor ‘eynayim (Il lume degli occhi, Mantova 1574).6 Non ci attarderemo qui nella descrizione di quest’opera originalissima, in cui de’ Rossi introduce nella letteratura ebraica il genere del saggio erudito, ispirandosi all’esempio umanistico della filologia. Meor ‘eynayim incontrò l’ostilità di alcuni rabbini per le sue affermazioni sul calendario ebraico, in cui si rilevavano delle importanti inesattezze, e la sua lettura fu circondata da una cautela particolare: si decretò che nessuno potesse leggere il libro senza l’assistenza di un rabbino. Per le stesse ragioni, anche se diametralmente opposte, l’opera fu riscoperta e ammirata dagli studiosi ebrei tedeschi dell’800, che la videro come l’annunciatrice della moderna Wissenschaft des Judentums, la lettura dei testi ebraici secondo un metodo storico-critico. In un capitolo di questo suo opus magnum, de’ Rossi critica severamente i mechashevey kitzyn, le persone che fanno dei calcoli numerologici per determinare la data della venuta del Messia. Per comprendere la sua critica bisogna riferirsi all’opera del suo contemporaneo Mordechai Dato, un rabbino ben conosciuto e stimato, nato nel 1525, che viveva e insegnava a San Felice sul Panaro, vicino Modena. Dato aveva scritto nel 1555 un volume, intitolato Migdal Dawyd (La torre di Davide), fondato quasi interamente sulle previsioni dell’arrivo del Messia.7 Come altri suoi contemporanei in Italia, a Salonicco e in Terra d’Israele, prevedeva che l’epoca messianica sarebbe iniziata di lì a poco, nell’anno 1575. Per raggiungere questa conclusione, Dato si fondava non solamente sul celebre e controverso versetto biblico di Genesi 48, 1 («Lo scettro non sfuggirà a Giuda né l’autorità alla sua discendenza, fino all’avvento del Pacifico [traduzione possibile dell’ebraico Shylo, il cui valore numerico è 1575], a cui obbediranno i popoli»), ma procedeva soprattutto a una serie di complicate esegesi
6 David Cassel ha ripubblicato il volume, con l’aggiunta Matzref la-kesef e un’introduzione (Vilna 1866). Joanna Weinberg ha realizzato una traduzione inglese completa con introduzione e note (New Haven / London, 2001). Il nostro testo di riferimento è l’antologia di Reuven Bonfil, Kitvey ‘Azariyah min ha-adumym, Gerusalemme 1991 (con una densa introduzione). 7 Su Mordechai Dato vedi Yoram Jacobson, Along the Paths of Exile and Redemption. The Doctrine of Redemption of Rabbi Mordechai Dato, Gerusalemme 1996 (ebraico); Reuven Bonfil, «Achath mi-derashotaiw ha-ytalkiyoth shel R. Mordechay Dato», in Italia 1 (1976), pp. 1-32; Giuliano Tamani, «Parafrasi e componimenti poetici in volgare e in caratteri ebraici di Mordekhày Dato», in Italia judaica 2, Roma 1986, pp. 233-242. Luca Baraldi è attualmente impegnato in un dottorato di ricerca sull’opera italiana di Dato.
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di versetti biblici (essenzialmente del libro di Daniele), di midrashym rabbinici e di passaggi dello Zohar. La data del 1575 era una semplice congettura, riconosceva Dato, fondata su delle operazioni intellettuali e non su una tradizione accertata. Ma questa dichiarazione di umiltà non impediva al rabbino emiliano di credere fermamente nel prossimo avvento dei giorni del Messia, che avrebbero visto il ritorno degli ebrei a Gerusalemme dopo una dura battaglia, nel ritorno delle dieci tribù disperse d’Israele – che si sarebbero vendicate dei loro nemici – e infine, in una data non precisata, nella resurrezione dei morti e nel susseguente giudizio universale. Nel 1575 non accadde nulla. Ma Dato insistette tutta la vita, anche dopo questa delusione, sulla legittimità e anche sulla necessità di attendere il Messia e di prevederne l’arrivo, attraverso l’interpretazione delle allusioni bibliche e rabbiniche. Gli ebrei avevano il diritto, e i loro maestri avevano in un certo senso il dovere, di porsi nell’atteggiamento di attesa. Nel caso di Mordechai Dato, che è considerato un rappresentante del sapere rabbinico medio nell’Italia del suo tempo, si può parlare a giusto titolo di «mentalità messianica». La venuta del Messia, e la sua imminenza, erano un’evidenza. De’ Rossi reagì con un capitolo del suo Meor ‘eynayim, il cui titolo contiene già l’essenza dell’idea che si accingeva a esporre: Non si deve sperare nella venuta del Messia nell’anno 1575 [Shylo] più che negli altri anni: ma da oggi e per sempre tutte le epoche sono uguali per la volontà divina.8
Con una dimostrazione serrata, in cui sono presi in esame numerosi passaggi del Talmud, di diversi midrashym e di autori sia «medievali» sia più vicini al suo tempo, de’ Rossi condanna i «calcolatori della fine». La sua condanna è basata essenzialmente sull’idea della totale libertà di Dio, che non è sottoposto a nessun tipo di vincolo visibile all’uomo: a maggior ragione a vincoli astrologici, che sono serviti in passato a celebri «calcolatori della fine» come Avraham Bar Chiyya e Yitzchaq Abravanel.9 De’ Rossi non nega la certezza della redenzione, annunciata da tanti testi biblici, ma la relega alla dimensione dello sconosciuto, il mistero che Dio ci impedisce di conoscere: «Ogni mistero è fuori della nostra portata».10 Ma questa concezione del mistero non dà luogo a una visione mistica, tutt’altro: relegare il sapere messianico a una dimensione sconosciuta rende l’attività umana, ed essa soltanto, oggetto possibile di conoscenza. De’ Rossi afferma in modo perentorio: In ogni caso, che [la Redenzione] sia già venuta o debba ancora venire, non la si deve aspettare per un momento preciso [bi-frat] e non si deve affidare ad essa la nostra speranza. Ma da oggi, e per l’eternità, si devono levare gli sguardi sempre, per quanto dura il mondo [ki-yemei ’olam], verso il Santo d’Israele, che sa quando porrà di fronte a sé – che sia benedetto – il termine di queste cose segrete.11
Kitvey ‘Azariyah min ha-Adumym, cit., p. 338. Ibidem, p. 345. 10 Ibidem, p. 351. 11 Ibidem, p. 356. 8
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Il tempo, nel pensiero di de’ Rossi, è indifferenziato: l’uomo vi è calato ed è tenuto a servire Dio come sempre e per sempre. Non esiste l’attesa di un evento conclusivo, come per Dato e per tutti gli spiriti messianici. La Redenzione, la cui certezza non può essere messa in dubbio in quanto annunciata dai testi, è neutralizzata. De’ Rossi si basa su un importante serie di maestri – tra cui, in modo abbastanza sorprendente, Nachmanide – per argomentare che l’idea messianica non è fondamentale per gli ebrei; ma si spinge oltre, rendendola totalmente ininfluente per il comportamento quotidiano dei suoi correligionari. Il capitolo si conclude così: Il nostro fine non è l’età messianica, ma l’osservanza della Torà e la ricompensa che speriamo riceverne nei modi e nei tempi che verranno stabiliti da Dio. E perciò, che la nostra Redenzione arrivi presto, o che ritardi tanto che non ci penseremo più [‘ad hesseach ha-da‘ath], non devieremo da tutte le parole della Torà, come ha detto il Poeta (Salmi 119, 41-42).12
De’ Rossi è una figura importante nella storia intellettuale dell’ebraismo moderno. I suoi lavori, rispettosi dell’ortodossia rabbinica ma sostanzialmente dissacranti, ponevano esplicitamente la libera ricerca che si preoccupa solo della verità – e quindi è indipendente da qualsiasi forma di autorità – come aspirazione dell’anima umana.13 Pienamente ebreo, non solo di formazione ma anche per convinzione, de’ Rossi cercò inoltre il dialogo con le «anime belle» dell’altro campo, i maestri cristiani, contando sull’esistenza di un terreno intellettuale comune sgombro da pregiudizi. Il suo tentativo, un breve testo critico sulla lingua originale dei Vangeli,14 cadde nel vuoto, i tempi non erano adatti. In ogni caso, analizzando con gli strumenti della critica delle materie lasciate in genere all’autorità della tradizione, e ammettendo nella discussione su punti sensibili della scienza ebraica delle auctoritates non ebree, infine utilizzando le sue conoscenze per una disquisizione su soggetti cristiani in italiano, de’ Rossi ha compiuto un’opera di secolarizzazione della cultura ebraica. La sua posizione sul messianismo sembra rispondere alla stessa esigenza: neutralizzando le attese, egli apre ai suoi correligionari il tempo della storia. Questi sono invitati ad abitarla, facendone la loro dimora e senza aspirare a fuggirla, come si fa per una dimora scomoda e provvisoria. La dimensione del tempo è affrontata da de’ Rossi non con la sospensione dell’utopia, ma con il disincanto che è frutto del primato del presente. Apparentemente, Azariyah de’ Rossi non ebbe dei successori diretti. Il suo atteggiamento rigorosamente filologico e aperto ai contributi esterni, sul terreno per definizione neutro della scienza, non fece degli emuli a breve termine. Alla fine del ’500 e nei primi decenni del ’600 appare e si diffonde tra gli ebrei italiani una nuova tipologia intellettuale, che si oppone allo scienziato: quella del
Ibidem, p. 364. Vedi a questo proposito Joanna Weinberg, The Beautiful Soul. Azariah de’ Rossi’s Search for Truth, in D. Ruderman, G. Veltri (a cura di), Cultural Intermediaries, Jewish Intellectuals in Early Modern Italy, Philadelphia 2004, pp. 109-126. 14 Joanna Weinberg, Azariah de’ Rossi’s Observations on the Syriac New Testament. A critique of the Vulgate by a Sixteenth-century Jew, Londra-Torino 2005. 12
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penitente.15 In alcuni racconti autobiografici, oppure riferiti da altri, la figura del penitente è quella di colui che si è consacrato in gioventù alle scienze profane ma poi si è ravveduto, abbandonando «il seno della donna straniera», seducente ma che conduce alla vanità, per ritrovare il mondo della Torà. La «bella straniera» tentatrice non è l’alterità religiosa, il cristianesimo, ma sono le scienze e la filosofia, che occupano un terreno profano e possono allontanare dalla dimensione autentica del pensiero e dell’azione dell’uomo, quella del sacro. Questa nuova figura di pietas ebraica, parallela a quella cattolica (si pensi alla biografia di Ignazio di Loyola), se conduce a un intenso fervore religioso, non ha necessariamente un aspetto messianico. Un interprete significativo di questa tendenza è il medico mantovano Avraham Portaleone (in ebraico Sha‘ar Ariyeh, 1542-1612). Portaleone incarna due personaggi diversi, quello di prima e quello di dopo la «conversione» (teshuvah): nel suo caso, la teshuvah consistette in un ritorno alla Torà in seguito a una malattia grave e ai sensi di colpa per aver trascurato gli studi sacri a vantaggio delle scienze.16 Il «primo» Portaleone è l’autore dei dialoghi latini De auro (Venezia 1584), nei quali si discute sulle presunte proprietà curative dell’oro ma, come avveniva spesso in trattati medici del tempo, si affrontano altre questioni non necessariamente correlate al soggetto principale. L’autore coglie l’occasione dell’argomentazione sull’oro per effettuare una serie di disquisizioni sull’oro nel suo senso metaforico; giunge così a chiarire la sua visione del mondo e della storia. Portaleone esamina la nozione di «età dell’oro» tipica del Rinascimento, in cui si vedeva – secondo una specie di «messianismo laico» o paganeggiante – la propria epoca come quella della possibile rinascita delle origini mitiche, l’età dell’oro: quando gli uomini vivevano in pace tra loro e in accordo con la natura, insomma in una situazione di armonia. La degradazione delle generazioni – e qui si innestava l’ottica storica ebraico-cristiana della caduta in seguito al peccato del primo uomo – aveva condotto successivamente a un mondo corrotto e disarmonico. Ma una nuova età dell’ora si annunciava, grazie alla giustizia ritornata sulla Terra e allo sviluppo delle arti e delle scienze (il «Rinascimento»). L’immagine del ritorno dell’età dell’oro, che si incrocia con il millenarismo cristiano, durò a lungo, dalla fine del ’400 (con le opere di Ficino) fino alla fine del ’500 ed oltre. In questa opera latina, Portaleone si dimostra un fautore senza riserve della «modernità», soprattutto scientifica, rispetto alla letteratura di autorità classiche che non parlano più ai contemporanei. Sarà quindi interessante vedere come un ebreo modernista della fine del ’500 interpretava questa idea del rinnovamento dell’umanità. Il dialogo si svolge tra due personaggi, Dynachrisus (l’alter ego dell’autore) e Achrivasmus.
15 Esempi tipici sono Azariyah Pixho (o Figo), in Ghidduley terumah, Venezia 1653, introduzione; Moshe Zacuto (ca. 1610-1697), cfr. Leopold Zunz, Literaturgeschichte des Synagogalen Poesie, Berlino 1865, p. 441. 16 Avraham Portaleone, Shiltey ha-Ghibborym, Mantova 1612, p. 2b. Per un esame di questo contrasto vedi A. Guetta, Avraham Portaleone from Science to Mysticism, in Judit Targarona Borrás e Angel Sáenz Badillos (a cura di), Jewish Studies at the Turn of the 20th Century, LeidenBoston-Köln 1999, pp. 40-47.
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Dynachrisus: E tu credi che quell’età si chiami aurea a causa della sua eccellenza? Achrivasmus: E perché no? D. Perché? Quante empie azioni ha commesso quella gente abominevole, quanti comportamenti perversi ha tenuto quella progenie demoniaca! A. Ma le hai sognate queste cose, o le hai concepite da sveglio? Oppure ti stai inventando dei sogni? D. Quale sogno, quali invenzioni? Ignori dunque le Scritture? Adamo, il primo uomo, fu il primo trasgressore, e sappiamo bene che, inoltre, Caino fu un fratricida. Quanto a Lemech, fu un libertino e un omicida. E i figli di Dio, non si sono forse presi con forza le loro donne, spinti dalla loro forte libidine?17 Non distrusse Dio ogni essere di quell’epoca, perché erano tutti corrotti?18
In questo dotto ebreo non c’è l’ombra di un atteggiamento messianico. Anche di fronte alla sua versione pagana, Portaleone è estremamente riservato. Il progresso, in cui crede fermamente, non implica una visione di ritorno di un’età dell’oro, perché questa età appartiene al regno del mito, e il sapiente moderno deve attenersi alla conoscenza empirica. Il presente è superiore al passato, e il futuro è promettente. Sono le Scritture stesse, lette nel loro senso immediato e senza il filtro dell’interpretazione di un qualsiasi magistero religioso, a confermare questa visione. Condannando le storie sull’età dell’oro come una favola letteraria, attenendosi alla lettura immediata della Bibbia e trascurando il midrash e l’interpretazione rabbinica medievale, Portaleone condannava anche, implicitamente, la nozione di peccato originale come caduta da uno stato di perfezione: uno degli eventi decisivi nella storia dell’umanità non solo per i cristiani ma anche per gli ebrei. Per i maestri del Talmud, per i filosofi, in seguito per i cabbalisti, in effetti, l’umanità è scesa nel livello di perfezione in occasione del peccato di Adamo, e la redenzione (la gheullah) consiste non solo nel ritorno fisico degli ebrei a Sion (che in fondo riguarda il livello materiale, superficiale degli eventi), ma la restaurazione di uno stato di armonia tra l’uomo, il mondo e Dio. La redenzione implica quindi, anche per la concezione ebraica tradizionale, un’«età dell’oro». Il Portaleone «moderno» della prima fase della sua vita negava risolutamente il modello messianico – sia pure passando per la negazione della sua versione pagana; qual era l’atteggiamento del Portaleone devoto penitente, quello della seconda fase posteriore alla conversione? La sua opera ebraica, Shiltey ha-Ghibborym (Gli scudi dei prodi, 1612), a priori, si sarebbe prestata a questo modello, perché si trattava della descrizione del Tempio di Gerusalemme, la cui ricostruzione è uno dei punti forti del pensiero messianico. Inoltre, in questo libro, Portaleone è animato da uno spirito di rivincita nazionale, che gli fa auspicare per esempio che Israel ritrovi l’uso delle armi come tutti gli altri popoli.19 Ma
17 L’espressione «figli di Dio» attribuita ai primi discendenti di Adamo è probabilmente tratta dal Kuzary di Yehudah ha-Levy (1, 95). Ma nell’opera dell’autore spagnolo la connotazione è totalmente positiva. 18 A. Portaleone, De auro, cit., pp. 83-84. Sull’età d’oro nel Rinascimento v. John S. Mebane, Renaissance Magic and the Return of the Golden Age, Lincoln / Londra 1989; Luisa Secchi Tarugi (a cura di), Millenarismo ed età dell’oro nel Rinascimento, Firenze 2003. 19 A. Portaleone, Shiltey ha-Ghibborym, cit., p. 36b. Cfr. Gianfranco Miletto, Glauben und Wissen im Zeitalter der Reformation. Der salomonische Tempel bei Abraham ben David Portaleone (1542-1612), Berlin-New York 2004, in particolare le pp. 192-198.
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questi due elementi, il Tempio di Gerusalemme e l’orgoglio nazionale, non bastano a costituire uno spirito messianico. Certamente, lo scienziato penitente attribuisce agli ebrei – con un anacronismo eloquente – le conoscenze militari più moderne, che risalgono alla Bibbia, e spinge i correligionari a prepararsi a combattere contro i nemici, «Ismael, Moav e i convertiti».20 Ma non c’è nel suo testo il minimo accenno alla figura del Messia, né – salvo in formule stereotipate ed espresse senza insistere – l’idea del ritorno a Sion. Moshe Idel ha ragione di sostenere, nel suo Messianic Mystics,21 che il misticismo ebraico non implica affatto il messianismo. Lo studioso israeliano lo afferma per la scuola di Safed, il nostro personaggio – la cui devozione può essere apparentata alla mistica, anche se non si tratta in termini stretti di un cabbalista – lo conferma per l’Italia. Ma c’è di più. Nel suo misticismo nazionalista, Avraham Portaleone rimane un discepolo, non dichiarato, di Azariyah de’ Rossi. Un confronto anche sommario tra alcuni passaggi di Shiltey ha-Ghibborym e Meor ‘eynayim lo conferma: lo studioso umanista che ha conosciuto la censura rabbinica ha ispirato l’erudito devoto che ha condannato il sapere non ebraico. Va inoltre ricordato che fin dall’inizio della sua opera ebraica Portaleone si apre alle fonti non ebraiche, soprattutto se fondate sulla conoscenza empirica, purché queste lo aiutino nella ricerca della verità: come il suo illustre e discusso predecessore, mantovano anche lui.22 Esiste quindi una corrente razionalistico-scientifica all’interno dell’ebraismo italiano, che pur nell’epoca del misticismo seicentesco rimane ancorata alla storia e all’esperienza, ponendo la mentalità messianica ai margini della sua visione, neutralizzandola o trascurandola. L’intellettuale ebreo seicentesco più vicino ai cristiani – una prossimità fisica e ideologica – fu probabilmente il veneziano Leone Modena (1571-1648). Frequentò i cristiani al di là del ruolo tradizionale di insegnante di ebraico per gli umanisti curiosi; trasformando la celebre formula letta nella haggadah di Pesach, disse di sé Kol yamay gadalty bein ha-chakhamym ha-notzrym («Sono cresciuto tra i sapienti cristiani»). Rappresentò senz’altro una tendenza modernizzatrice dell’ebraismo italiano: nel campo della religione, che probabilmente auspicava più l’ascolto delle istanze riformatrici del tempo, come avveniva in ambiente cristiano; e poi in quello della lingua, attraverso l’invito ad abbandonare il giudeo-italiano per abbracciare il toscano letterario.23 Fu inoltre uno dei critici più vigorosi e acuti della qabbalah nelle forme in cui si sviluppava nel suo tempo, che giudicava ispirate a un principio di autorità cieco e senza nessun fondamento razionale.24
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Shiltey ha-Ghibborym, p. 42b. M. Idel, Messianic Mystics, New Haven 1998; trad. italiana Mistici Messianici, Milano
22 Lo scienziato e cabbalista Shelomo Del Medigo accomuna nell’elogio i mantovani Azariyah de Rossi, Yehudah Moscato e Avraham Portaleone. V. Matzref la-chokhmah, Odessa 1866, p. 16. 23 Yehudah Ariyeh mi-Modena, Galuth Yehudah. Novo Dittionario hebraico et italiano, Venezia 1612, introduzione. 24 Yehudah Ariyeh mi-Modena, Sefer Ary nohem, Lipsia 1840.
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La posizione di questo importante rabbino «modernizzatore» sul messianismo è sorprendente. In un suo trattato di critica alla teologia cristiana, il Maghen wacherev (Scudo e spada), un testo dal tono rispettoso ma senza concessioni, fondato su dei principi di razionalità – o quanto meno di ragionevolezza – Modena si esprime sulla figura di Gesù. Prendendo in esame con un’ammirazione non dissimulata la vita di colui che i cristiani considerano il Messia, Modena scrive: Dio avrebbe potuto compiere attraverso Gesù quello che aveva destinato per l’epoca messianica. Ciò non avvenne, per cui gli ebrei continuano ad aspettare il vero Messia, che ci salverà.25
La salvezza a cui si riferisce il rabbino veneziano riguarda la condizione di impurità in cui si trova l’uomo, schiavo dei suoi appetiti sensuali. Il peccato originale è consistito proprio in questo, secondo Modena, in una caduta dalla condizione di purezza originaria del corpo, e non dell’anima: come ammette Tommaso d’Aquino, da lui citato, si trasmettono per via ereditaria i difetti del corpo, non quelli dell’anima;26 per cui il Salvatore ripristinerà l’equilibrio fisico perduto, spingendo i fedeli a un comportamento ascetico. Gesù, di cui Modena abbozza una biografia storica che è di per sé eccezionale (i cristiani vi si accinsero più di un secolo dopo), si era del resto già comportato in quel modo, costituendo un esempio di ascetismo. Il Messia di Modena non è quindi politico – colui che porrà un termine all’esilio – né intellettuale – colui che assicurerà la pienezza del sapere, come affermavano i profeti e ribadivano i filosofi medievali come Maimonide. La sua portata religiosa, inoltre, si limita al livello morale, quello dell’ascetismo. Proseguendo nel suo esame delle differenze tra ebrei e cristiani, Modena si esprime in un modo che può apparire sorprendente: Potremmo persino accettare la loro idea [dei cristiani], che il Messia è già venuto: ma continueremo ciò nonostante a essere diversi da loro, perché non condividiamo né la stessa dottrina né le stesse regole; oltre alle altre differenze che ci separano.27
Da questo passo si possono ricavare due conclusioni: 1) l’idea messianica, che è giusta e fondata, non è tuttavia fondamentale – per Modena – per la religione ebraica. L’ebraismo non è definito dal messianismo, in altre parole esso può essere concepito senza la nozione di un Messia, tanto da ammettere che questi si sia già manifestato in passato. 2) Gli ebrei sono definiti dalla loro dottrina e dalle loro pratiche. A ogni popolo corrispondono quindi credenze e comportamenti determinati, che li individuano. L’analisi è spostata dal livello teologico a quello antropologico, che fa perdere di vista la questione della Verità. Ma, in questo modo, gli ebrei – come ogni altro popolo o religione – appartengono al livello della Storia e come tali devono essere studiati, non a quello della metafisica.
Yehudah Ariyeh mi-Modena, Maghen wa-cherev, Gerusalemme 1960, p. 20. Ibidem, pp. 10-11. 27 Ibidem, p. 64. Vedi A. Guetta, «Leone Modena’s Magen va-erev as an Anti-Catholic Apologia», in Jewish Studies Quarterly, 7 (2000) n. 4, pp. 296-318. 25 26
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Un’ulteriore affermazione di Modena richiede un’interpretazione: Io sono solito dire che credo nel Messia perché sono ebreo, ma non che sono ebreo perché credo nel Messia.28
Si può proporre la lettura seguente: alla cultura ebraica appartiene l’idea messianica, per cui gli ebrei sono educati in questa idea e ci credono, ma d’altra parte questa idea non è determinante per l’essere ebreo, per due possibili ragioni: 1) perché essa è secondaria e accessoria rispetto ad altre idee; 2) perché essa non è esclusiva degli ebrei. Forse Modena allude alla forte diffusione delle attese messianiche di quegli anni in gruppi di cristiani non-cattolici, riformati dissidenti, di cui era perfettamente a conoscenza. Non si può parlare del messianismo – o dell’indifferenza nei suoi confronti – nel ’600 senza soffermarsi sulla figura di Shabbetay Tzevy, il Messia di Smirne che agitò le comunità ebraiche di tutta la diaspora, prima della sua conversione all’Islam (1666) ma anche dopo, e ben oltre la sua morte. Il fenomeno sabbatiano marcò effettivamente la spiritualità ebraica, in due sensi: nel primo, per la persistenza della fede in quel Messia, non solo da parte dei gruppi di dönmeh, i seguaci che seguirono l’esempio di Shabbetay attraverso una conversione di facciata all’Islam; ma anche da parte di numerosi Maestri dell’ebraismo – tra cui molti italiani – che trasmisero questa credenza fino al ’700 inoltrato. La storia di questo sabbatianesimo «strisciante» e dissimulato in Italia, nonostante alcuni contributi importanti, attende ancora una sintesi. È una pagina importante della storia religiosa non solo ebraica, ma anche italiana. La seconda conseguenza del sabbatianesimo fu la reazione al fenomeno dopo la fine dell’illusione: un’estrema diffidenza da parte dell’establishment rabbinico nei confronti di ogni novità, per il timore di una disgregazione sociale e religiosa. Ci furono però anche delle posizioni nettamente anti-sabbatiane, che faticavano a farsi sentire negli anni dell’apogeo della credenza messianica. Tra queste va ricordato un autore che si ricollega a quelli già esaminati, e che espresse un’opposizione dettata probabilmente non solo dalla diffidenza nei confronti della persona di Shabbetay Tzevy, ma da una mentalità tendenzialmente anti- o a-messianica. Non si tratta di un medico erudito come de’ Rossi o Portaleone né di un rabbino come Modena, ma di un poeta, Ya‘aqov Francès (1615-1667), anche lui mantovano. Estremamente colto, Francès esprime le sue conoscenze e opinioni attraverso la poesia; dal punto di vista estetico, i suoi versi sono probabilmente i migliori di tutto il ’600 ebraico italiano, per scioltezza, acutezza (uno dei requisiti principali del Barocco) e proprietà linguistica. Essi attraversano tutti i registri: il comico, il meditativo, l’amoroso, l’invettiva intellettuale o personale. Ya‘aqov scrisse in collaborazione con il fratello Immanuel una serie di poesie molto violente nei confronti di Shabbetay Tzevy e dei suoi seguaci, raccolte con il titolo Tzevy muddach (Il cervo messo in fuga). Non si devono cercare in questi testi delle osservazioni di natura teologica – che del resto pochi formulavano, in que-
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Maghen wa-cherev, p. 64.
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gli anni – ma piuttosto una polemica sui comportamenti. È anzitutto una denuncia dell’intolleranza dei correligionari messianici: Che è questo Shabbetay, chi è, i cui nemici sono sgozzati mentre si strangola chi gli volta le spalle? Senza far caso se i suoi atti siano magnifici o i suoi pensieri profondi.29 Chi si rende conto dell’impostura si chiude la bocca, per paura.30
In seguito, Francès mette l’accento sulle conseguenze disastrose del desiderio messianico incontrollato e sconsiderato: Il popolo è volubile, non ha stabilità, disprezza oggi chi ieri amava ... Con il suo aiuto [di Shabbetay] vogliono bere il latte dei Gentili, ma berranno grazie a lui il veleno dei serpenti. ... Pensano di correre al loro riscatto, ma se ne allontanano come le formiche che, giunte alla fine, aprono le ali, e si involano. Quelli che gridano oggi «Libertà!» domani, sofferenti per la sottomissione, invocheranno il Cielo; ricorderanno tra le lacrime i tempi antichi quelli che ridevano del giudizio finale. Gli uccelli che fuggono dalla gabbia la cercheranno, la desidereranno e cercheranno la quiete che oggi disprezzano, volendo quello che hanno rifiutato finora.31
Al di là di queste considerazioni dettate dalla prudenza, che hanno un carattere pragmatico (comunque «anti-messianico»), per comprendere meglio la posizione di Francès bisogna esaminare due altre lunghe poesie, in cui è esposta la visione del mondo dell’autore. Nella prima, che forse non è più di un esercizio intellettuale – il confine tra l’«autentico» e il gioco concettuale è tenue, negli autori barocchi – Francès constata le ingiustizie e le sofferenze del mondo, aspirando a una vita senza ricchezze materiali e anche senza troppa cultura. Entrambe corrompono e, quanto alla seconda, «la filosofia nega Dio, e la qabbalah lo nasconde»: in altre parole, l’esito della prima è l’ateismo, della seconda il mistero insondabile e, in definitiva, inutile o paralizzante. Vivendo in una capanna, con la compagnia del suo gregge, l’uomo semplice rifiuterà le spiegazioni di chi pensa di conoscere i segreti di Dio e del mon-
29 Peninah Naveh (a cura di), Kol shirey Ya‘aqov Franses (The Poems of Jacob Francés), Gerusalemme 1969, p. 450. 30 Ibidem p. 452. 31 Ibidem, p. 450.
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do e adotterà la semplice fede della donnicciola, che recita i Salmi senza porsi troppi problemi. Il poeta conclude così: Ma presto arriverà il Tishbita [il profeta Elia, che annuncia il Messia] in un attimo la Terra si riempirà di conoscenza. Egli rischiarerà le tue ombre, o cuore, O anima, che erri nel deserto dell’ignoranza. Dormi, pensiero, giaci fino al mattino perché è vicino il giorno della salvezza. Egli amplierà enormemente la conoscenza, la sua venuta risolverà tutti gli enigmi.32
Si tratta di un vero ideale messianico? Anche questa conclusione fa parte, probabilmente, della stessa invenzione intellettuale del modello di vita pastorale. Ciò che invece pare autentico sono lo smarrimento – morale, spirituale e intellettuale – e il rifiuto delle risposte troppo semplici da parte dei presunti conoscitori dei misteri. Lo svelamento dei misteri del mondo sembra avere un carattere convenuto, e ciò che conta veramente parrebbe essere piuttosto l’esistenza attuale degli enigmi. Il misticismo che incoraggia le fughe in avanti – e che avrebbe alimentato successivamente la fede in Shabbetay Tzevy, il «Messia mistico» – è condannato con durezza in un’altra poesia, che certamente non era un gioco intellettuale: Ashrey hagoy bachar lo Yah (Benedetto il popolo che Dio ha scelto),33 in cui si traccia il profilo intellettuale dell’ebreo ideale: Egli chiama la Torà «sua sorella» e la filosofia, «sua amica».
Prima di dedicarsi alla scienza che pretende di conoscere i misteri di Dio e del mondo, la qabbalah, quest’uomo dovrà procurarsi una solida conoscenza di ciò che è alla sua portata, la Natura e le sue leggi. Egli dovrà quindi essere religioso e competente nelle discipline filosofiche e scientifiche, diffidando di dottrine non lontane dalla ciarlataneria. La prudenza «politica» – che lo faceva diffidare degli avventurismi messianici – è accompagnata dalle raccomandazioni di moderazione intellettuale. Per esigenze pragmatiche e per convinzione, Ya‘aqov Francès traccia il profilo di una persona che vive nella realtà storica e si nega la possibilità dell’utopia, intellettualmente infondata e potenzialmente autoritaria. Questa poesia fu censurata, e probabilmente fu all’origine della partenza obbligata di Francès dalla sua città. Ancora nel 1730 fu all’origine di una reazione aspra da parte di un importante cabbalista, Avi‘ad Sar Shalom Basilea, che non esitò a scagliarsi non solo contro la poesia, ma anche contro il suo autore, considerato un ignorante malintenzionato che invita a denigrare le sacre dottrine di Israel.34
Ibidem, p. 173. Ibidem, pp. 403-408. 34 Cfr. Avi‘ad Sar Shalom Basilea, Emunath Chakhamym, Mantova 1730, pp. 31r e 31v. Su questa polemica vedi D. Ruderman, Jewish Thought and Scientific Discovery in Early Modern Europe, Yale University Press, New Haven 1995, pp. 213-228. 32
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Con l’esame sommario della produzione letteraria di questi personaggi dell’ebraismo italiano, dalla seconda metà del ’500 fino a poco oltre la prima metà del ’600, abbiamo voluto dimostrare che, se è vero che l’Italia ha ricevuto «nove misure su dieci» di aspirazioni messianiche, è almeno altrettanto vero il contrario: che una sua corrente importante ha formulato una proposta di «ritorno alla storia» e di frequentazione del presente che si opponeva al messianismo come rifiuto del tempo storico. E che questi autori a-messianici non sono probabilmente meno «moderni» dei «profeti laici», i «testimoni del futuro» ebrei tedeschi del primo Novecento.
Gabriele Guerra L’eresia mistica. Il messianismo di Šabbetay Sevi
Prologo posticipato in Palestina: L’Altneuland di Theodor Herzl (1899) Nel 1899, l’ebreo austriaco Theodor Herzl, che di lì a poco diverrà famoso come il fondatore e l’animatore del movimento sionista internazionale, pubblica un romanzo fantascientifico cui dà il titolo di Altneuland. In esso Herzl immagina come, nel 1928, la Palestina sarebbe stata equamente abitata e irenicamente condivisa tra arabi e coloni ebrei, i quali presentano tratti molto europei, anzi tipici della borghesia colta mitteleuropea, alla quale lo stesso Herzl apparteneva. Durante una delle tante scene quotidiane di cui è costellato il romanzo, i personaggi principali sono tutti riuniti per decidere come trascorrere la serata. Le signore erano già state alla toilette serale. La signora Sarah disse: «Lorsignori non potranno certo vedere qui a teatro quello che possono apprezzare a Londra, Berlino o Parigi, sebbene abbiamo qui ad Haifa una compagnia teatrale francese formidabile e la migliore dall’Italia. Intendo dire, gli spettacoli teatrali ebraici saranno di loro interesse». «Ci sono spettacoli teatrali ebraici?» si stupì Friedrich. Kingscourt motteggiò: «Non ne ha sempre sentito parlare e letto, che il teatro è tutto in mano agli ebrei?». La signora Sarah diede uno sguardo al giornale: «Oggi si recita al teatro nazionale un dramma di argomento biblico: Moses!». «Una poesia molto elevata» spiegò David. «Ma appunto troppo seria. All’opera danno Sabatai Z’wi. [...] Consiglierei l’opera».1
Nella mente dell’intellettuale bohémien di fine secolo Herzl, Mosè e Šabbetay Sevi rappresentano due corni della percezione – qui in veste significativamente teatrale – della propria ebraicità; ma mentre la «poesia» del dramma mosaico viene percepita come sì elevata, ma troppo seria, la scelta del gruppo di amici cade invece sul «Sabatai Z’wi», come forma di diletto non privo di atmosfere tese al punto giusto. Mosè e Šabbetay, dunque, rappresentano agli occhi di Herzl – e, dunque, della borghesia ebraica colta di fine secolo – due figure simili ma antitetiche di fondatori religiosi – il secondo, forse, più affascinante come può esserlo un «maledetto». Occorre allora chiedersi per quale motivo e con quale grado di fascinazione Šabbetay abbia attraversato la storia della percezione del sé ebraico, equamente diviso tra entusiasmo fideistico, condanna apodittica e – infine – fascino misterioso. Si
1 Theodor Herzl, Altneuland, in Id., »Wenn ihr wollt, ist es kein Märchen« (a cura di J. H. Schoeps), Athenäum, Königstein/Ts. 1985, p. 72.
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potrebbe perfino dire che, mentre la tradizione politica occidentale è poggiata sulla forza performativa della parola (si pensi al confronto tucidideo tra ateniesi e meli), quella ebraica si riferisce primariamente all’efficacia, altrettanto performativa, della visibilità di quella forza – dal roveto ardente a questa herzliana teatralizzazione dello statuale, per così dire. La formazione Nel XIX secolo, ovvero nel secolo della presa di coscienza storica (che per l’ebraismo significò prima di tutto l’acquisizione di una storia e di una scienza ebraiche, grazie alla Wissenschaft des Judentums ed al movimento di idee che da esso prese le mosse e che a partire da esso si sviluppò, ivi comprese le sue contraddizioni), si produsse non a caso per la figura di Šabbetay da un lato il suo regolare inserimento nel continuum storico; ma dall’altro spesso la sua liquidazione, come la figura di un folle religioso, interessante più in chiave aneddotica che storica2 – sempre tratteggiandolo dunque in maniera leggendaria, in altre parole conferendogli esattamente quell’aura da eroe da palcoscenico che gli darà Herzl, come si è visto; e questo è un elemento di cui occorre fare tesoro, visto che una caratteristica della figura di Šabbetay è proprio questa teatralizzazione del religioso, esasperazione del suo contenuto visivo, esemplarità dell’azione, in cui si condensa in fondo il portato di radicale novità del suo messaggio. Šabbetay Sevi nasce a Smirne nell’agosto del 1626, forse il 9 di Av, data della distruzione del Primo e del Secondo Tempio e a cui la tradizione rabbinica accorda una coincidenza con la data di nascita del Messia. In effetti – ricorda Gershom Scholem, che di Šabbetay è notoriamente il maggiore studioso – il 9 di Av del 5386 (1626) cadde di shabbat, il che spiegherebbe il nome datogli. Secondo i documenti del tempo ricevette un’educazione rabbinica in piena regola, ma alternando gli studi rabbinici a periodi di solitudine necessari alla formazione dell’uomo pio in senso molto rigoroso, cui Šabbetay aspirava. Le sue letture preferite erano i cinque volumi dello Zohar e i due volumi del Sefer ha-Qanah, un libro sul significato mistico delle mitzwot, dei seicentotredici comandamenti; studio cui Šabbetay attendeva da solo (benché le conoscenze cabbalistiche venissero invece acquisite in gruppi ristretti). Queste caratteristiche ci permettono di sottolineare come la formazione qabbalistica di Šabbetay sia sui generis: come sottolinea sempre Scholem, «egli è
2 Del resto, come sottolinea lo stesso Scholem, «è stato uno degli errori più strani della moderna Wissenschaft des Judentums negare la continuità dell’apocalittica giudaica» (Gershom Scholem, Šabbetay Sevi. Il messia mistico, Einaudi, Torino 2001, p. 19). È invece proprio in forza della sua (hegeliana) intrinseca coerenza che la Wissenschaft des Judentums espunge dal continuum storiografico tutto ciò che non rientra nel percorso di ascesa che intende armonicamente delineare. Per questo, già nell’introduzione all’edizione inglese del suo studio, Scholem liquida la storiografia sabbatiana imputandole una «mancanza di obiettività», una «distorsione razionalista» (ibidem, p. 5). Sulla Wissenschaft des Judentums la bibliografia è sterminata, come anche sull’Historismus, di cui la prima potrebbe alla fin fine essere considerata un caso particolare. Si cfr. almeno, per il discorso che qui si va facendo, Andreas Gotzmann, «Ambiguous Visions of the Past: the Perception of History in nineteenth-century German Jewry», in European Journal of Jewish Studies, 2008, 1-2.
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a suo agio con gli scritti degli “antichi” (cioè, con quanto era considerato ai suoi tempi letteratura antica), ma rifugge la qabbalah dei maestri più tardi, cercando la sua propria chiave per lo Zohar».3 Quel che dunque era costitutivo del processo di formazione di un mistico, di un qabbalista – ovvero il carattere generale e universale della sua dimensione4 –, in Šabbetay appare diversamente articolato, centrato piuttosto sull’attitudine individuale all’attingimento del sapere più profondo. Le fonti, ricorda ancora Scholem, sottolineano l’importanza accordata alla sephirah Tif’eret, che fa parte secondo lo Zohar delle sette sephirot inferiori, dedite alla costruzione del mondo, e in cui Tif’eret rappresenta quella centrale, identificabile con il nome ineffabile di Dio. Il mistero connesso al nome ineffabile di Dio non è declinato quindi in Šabbetay secondo le coordinate «classiche» della qabbalah più recente, strutturata sull’assoluta trascendenza costituita dall’En sof, ma in un altro senso: fondato su «la distinzione tra l’En sof, la non manifesta radice delle radici, e il Sé divino chiamato YHWH che è al di sopra delle emanazioni sefirotiche, benché si manifesti in una di esse».5 Da qui, da questa tendenza a ipostatizzare un dualismo radicale, il supposto «gnosticismo» di Šabbetay (che ha dato luogo a un processo interpretativo che Moshe Idel ha chiamato «“gnostificazione” della mistica giudaica», facendolo risalire all’influenza di Hans Jonas sull’atmosfera del tempo di Scholem, piuttosto che ad una effettiva analisi delle coordinate filosofico-religiose del sabbatianesimo),6 e che dunque va considerato piuttosto una tendenza del tempo in cui viene riscoperta la figura di Šabbetay che una sua analisi storico-religiosa complessiva: lo gnosticismo di Šabbetay, in questo senso, andrebbe considerato più una sorta di Stimmung religiosa – che coinvolge lo stesso portamento accademico di un intellettuale acuto come Scholem –, che un fenomeno storico con precisi addentellati al suo tempo. Legge, infrazione e Messia: il sabbatianesimo nella mistica europea Tornando a Šabbetay ed alla sua formazione religiosa, questa secondo Scholem non va disgiunta – sebbene gli studiosi più recenti tendano a relativizzarne l’influenza – dai pogromy cosacchi del 1648, che hanno flagellato le comunità ebraiche centroeuropee ed orientali. In ogni caso, e al di là di qualsiasi più o meno fondata relazione di causa/effetto, quell’anno pone all’attenzione, una volta di più, l’abbinamento tragico ma ermeneuticamente fecondo tra catastrofe e redenzione che spesso si presenta alla riflessione ebraica. Giulio Busi infatti, nel suo lessico dedicato ai
G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 123. «Il Sapere mistico non è affatto di natura privata, tale da potersi acquisire solo con la propria personale esperienza; anzi esso è tanto più vicino alla sapienza originaria dell’umanità in genere, quanto più è puro e completo»; Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il melangolo, Genova 1990, p. 32. Del resto, sottolinea ancora lo studioso tedesco, Qabbalah vuol dire «tradizione», il che implica un legame con il passato – nella forma di un segreto da custodire. 5 G. Scholem, Šabbetay evi, cit., p. 127. 6 Cfr. Moshe Idel, Cabbalà. Nuove prospettive, La Giuntina, Firenze 1996, p. 44. In merito G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 127 («il pensiero mistico di Šabbetay si sviluppò in una direzione decisamente gnostica»). 3
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Simboli del pensiero ebraico, alla voce ḥorbah, «distruzione», scrive: «la distruzione dei mondi viene [...] immaginata dai mistici ebrei come un’intima necessità della creazione. La rottura primordiale è infatti ciò che consente l’attuarsi del comportamento etico, grazie al quale l’ordine cosmico imperfetto può essere restaurato e la rovina del mondo riscattata».7 È chiaro, allora, che in questi termini la figura messianica scaturisce dalla necessaria giustapposizione – che è anche un reciproco porsi logico e teologico – di ḥorbah e tiqqun, di «distruzione» e di «restaurazione»; ma tale abbinamento, più che avere un valore storiografico o dialettico, è appunto un dispositivo concettuale di filosofia della storia, un teologumeno attraverso cui diviene possibile pensare la storia, o meglio un’uscita da essa: il messia arriverà, insomma, solo nella misura in cui la storia ebraica si presenta come una Leidensgeschichte da cui il popolo ebraico verrà liberato. Ancora giustamente Busi, riguardo al Tiqqun luriano, dice che esso resta «come sospeso tra due anacronismi: la promessa di un godimento prossimo e l’attesa lontana della redenzione dei mondi».8 Per il grande mistico del secolo precedente, Isaac ben Solomon Luria (1534-1572), infatti – ed ancor più per i suoi sistematizzatori – si trattava di sottolineare teologicamente quello che era avvenuto nella storia, vale a dire la cacciata degli ebrei dalla Spagna: come sottolinea Scholem, «l’innovazione decisiva, quella che fece perdurare il segreto del fascino luriano, era la trasposizione dei concetti fondamentali di esilio e redenzione da un piano storico a un piano cosmico e addirittura divino».9 Il cuore di questa Qabbalah diventa il Tiqqun, l’idea cioè di una «restaurazione» dello splendore divino nel mondo, continuamente oggetto di tentativi ma continuamente volto al fallimento. Benché ciò non sia affatto chiaro negli scritti di Luria e dei suoi continuatori, la tentazione però di stabilire un chiaro Träger, un soggetto destinato al compito del Tiqqun, è sempre molto forte nella tradizione qabbalistica: «È l’ebreo a tenere nelle sue mani la chiave al tiqqun del mondo, consistente nella graduale separazione del bene dal male mediante l’adempimento dei comandamenti della Torà».10 È a partire da questa tesissima Auseinandersetzung – teologica, politica, storica ed esistenziale – che Šabbetay evidentemente sviluppa i suoi ma’aśin zarim, le «azioni strane» che lo renderanno famoso; come tentativi cioè, attuati sul piano della pura esistenza fattuale, di realizzare quel superamento dell’attualità storica in funzione di un compimento messianico che è in fondo la dimensione più rilevante della sua predicazione e che è anche volta a una luriana restaurazione della presenza divina: «un modello di esperienza positiva – dice al proposito Scholem – che andava al di là dei limiti riconosciuti dal giudaismo storico».11 Il modello storico-religioso delineato da Scholem, in altri termini, è consapevole della difficoltà intrinseca al progetto sabbatiano; per questo si rifà a quel modello di «trasgressione come adempimento della mitzwah» che fu al centro di un saggio giovanile scholemiano, vera e propria Urzelle di vent’anni precedente al libro su Šabbetay.12 In quel sag-
Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999, p. 99. Ibidem, p. 452. 9 G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 35. 10 Ibidem, p. 51. 11 Ibidem, p. 151. 12 Cfr. Gershom Scholem, La trasgressione come adempimento della miwah, in Id., Mistica, utopia e modernità. Saggi sull’ebraismo, Marietti, Genova 1988, pp. 49-146. 7
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gio, Scholem prende le mosse dalla storia contenuta nel trattato Berakhot del Talmud babilonese: Rabbi Eliezer non trovò in sinagoga il minian, il numero di maschi adulti necessario per il culto, poiché mancava una persona; decise così di riscattare seduta stante uno schiavo, raggiungendo il numero legale ma contemporaneamente infrangendo la norma della Torà relativa al riscatto, secondo quel che sosteneva rabbi Yehudah, che in quel passo talmudico incarna le argomentazioni contrarie. Eliezer allora affermò che la trasgressione era permessa se serviva ad osservare un precetto: mitzwah ha-ba’ah be-‘averah, appunto, che è anche il titolo originale del saggio di Scholem, pubblicato in ebraico nel 1936, come anche la formula che indicava il comportamento dei sabbatiani. In tal modo tale definizione serve a porre in evidenza la dinamica strettissima che legge, sua infrazione e ricomposizione di entrambe assume nell’ebraismo quando le dinamiche di evoluzione e modificazione dell’ortoprassi ricadono nella sfera più intima del comportamento individuale; per questo si può parlare del sabbatianesimo come di una purissima manifestazione di «antinomismo» religioso. Di ciò abbiamo molti esempi nella monografia scholemiana, basti sottolinearne uno solo: un rabbino di Casale Monferrato, Shimshon Bacchi, che in un primo tempo aveva abbracciato la fede sabbatiana, salvo rifiutarla dopo l’apostasia di Šabbetay, racconta che nel 1665 Šabbetay si recò, alla testa di cinquecento seguaci, nella sinagoga portoghese di Smirne, rimproverando i suoi frequentatori di non seguire le sue posizioni; e vi tenne una funzione sabbatiana. Essa si svolse nel seguente modo: dopo aver letto da una copia stampata della Torà (e non da un rotolo manoscritto, come prescrive la liturgia), e aver mimato con le mani alla bocca il suono dello Shofàr, ingiuriò e minacciò i rabbini presenti, difendendo anche Gesù. Nel frattempo aveva anche invitato a leggere dalla Torà il fratello maggiore, «come se fosse un sacerdote e facendolo re della Turchia»; «non chiamò nessuno dei sacerdoti e leviti presenti nella sinagoga alla lettura della Torà, ma chiamò molti altri uomini e persino donne, ai quali egli distribuì regni; e costrinse tutti a pronunciare il Nome Ineffabile».13 Ma per tornare al saggio di Scholem del 1936: oltre a sottolineare la persistenza del movimento anche ben oltre la morte del suo messia – che è un aspetto centrale della sua Wirkungsgeschichte – Scholem definisce quella sabbatiana un’«eresia misterica»,14 che ne contraddistingue molto bene, a mio parere, la natura: a differenza di Michele Ranchetti, infatti, che ritiene l’aggettivo «mistico» presente nel titolo inglese della sua monografia (e che in effetti non c’è nel titolo originale ebraico) una forzatura,15 credo che invece lo stile del sabbatianesimo sia comprensibile sostanzialmente tutto all’interno di queste due coordinate storico-religiose, eresia e mistica/mistero, che vale la pena approfondire. Che quella di Šabbetay sia un’eresia, una scelta radicalmente eccentrica rispetto all’ortodossia rabbinica del tempo, è cosa evidente, e non abbisogna di ulteriori esplicitazioni; che poi sia una mistica, nel senso originario del Mysterion, è conseguenza che deriva direttamente da questa premessa: perché ci permette di capire la dimensione teologica, storica e sociologica del fenomeno. Teologicamente e
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Cit. in G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., pp. 390-392. Cfr G. Scholem, La trasgressione, cit., p. 61. Cfr. Michele Ranchetti, Introduzione, in G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. XII.
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storicamente, cioè, il sabbatianesimo comporta un ripensamento radicale di tutte le categorie di fede dominanti al tempo, con una conseguente loro «misticizzazione» – in un senso analogo, cioè, a quanto avviene per le tendenze più radicalmente riformatrici del tempo: pietismo luterano, quietismo cattolico, e molte altre. In questo senso, l’eresia di Šabbetay si inserisce assai bene nelle principali correnti religiose, spirituali, politiche e culturali della Neuzeit, sia nel senso fenomenico che in quello più profondo, riguardante la genesi e il consolidamento dell’interiorità moderna. Uno studioso molto sensibile ai fenomeni religiosi della prima età moderna come Michel de Certeau ha già rilevato come «proprio quando la mistica si sviluppa e poi declina nell’Europa moderna, compare un’erotica. Non è mera coincidenza. Scaturiscono entrambe dalla “nostalgia” che risponde al progressivo cancellarsi di Dio come Unico soggetto d’amore».16 Certo questo elemento, di attrazione erotica per un Dio che sfugge, pare ipotesi ermeneutica seducente non soltanto per capire Juana de la Cruz o Angelus Silesius, ma anzi appunto per lo stesso Šabbetay, come ha sottolineato del resto Elliot Wolfson parlando al proposito di una «creazione» [Erzeugung, Engenderment] di una politica messianica, non priva di implicazioni erotiche e sessuali – sostanzialmente in direzione di una sua femminilizzazione (aspetto che qui aprirebbe però un altro vasto capitolo di riflessione).17 Se tutto questo è vero, il sabbatianesimo può entrare a far parte delle «grandi correnti della mistica europea della prima età moderna». Ne consegue allora anche una precisa coordinata sociologica, che Scholem infatti non manca di sottolineare nel suo testo del ’36: i sabbatiani dovranno di necessità ritagliarsi una specificità «eretica», di cui entrerà a far parte «colui di fronte al quale si sono aperte le porte di un mondo spirituale nuovo, nella cui comunione vive costantemente [...]. Chi appartiene a questo genere si colloca, per certi aspetti, al di sopra delle leggi del nostro mondo, poiché realizza nella sua esperienza personale il mondo ultraterreno, il mondo della luce divina».18 L’appartenente alla setta è allora da identificare con l’uomo «pneumatico», l’uomo tutto spirituale capace di vedere al di là dell’orizzonte concreto e fattuale del suo tempo per individuare invece le direttrici che portano alla redenzione tipica del pensiero gnostico: «La setta, infatti, è il luogo adatto per coltivare
16 Michel de Certau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, p. 40. 17 Cfr. Elliot R. Wolfson, The Engenderment of messianic politics: symbolic signifiance of Sabbatai Sevi’s coronation, in Toward the millennium, Messianic expectations from the Bible to Waco, a cura di P. Schäfer/M. Cohen, Brill, Leiden 1998. In generale questo aspetto, assai interessante, di engenderment del messianismo di Šabbetay, ovvero di richiamo a tematiche di genere, e sessuali, all’interno del suo messianismo mistico, necessiterebbe un approfondimento: pagine interessanti in materia le ha scritte anche lo studioso – di scuola junghiana, ma frequentatore anche di Scholem – Siegmund Hurwitz nel suo Psiche e redenzione. Scritti di psicologia e religione, La Giuntina, Firenze 1992, in particolare pp. 111 ss. L’autore parte dalla constatazione della sostanziale rimozione della sfera sessuale da parte di Šabbetay, per dedurne una caratteristica – ascrivibile un po’ a tutte le figure messianiche – che definisce con la categoria junghiana di puer aeternus, ovvero di legame eccessivo con la figura materna. Tale meccanismo di engenderment, insomma, se da un lato dà conto della relazione problematica e complessa che la mistica ingaggia col corpo, dall’altro apre anche a una serie di riflessioni più ampie in merito al nesso corpo/religione/politica, costitutivo della Neuzeit, che esulano dal presente lavoro. 18 G. Scholem, La trasgressione, cit., p. 67.
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la sensazione di “superiorità”; è il rifugio degli “spirituali” dall’incomprensione della massa bruta».19 Insomma una tipologia religiosa che predica la salvezza in interiore homine. Ma le cose non sono così semplici, e soprattutto non si strutturano in semplice antitesi tra interno ed esterno. La conseguenza più interessante in tal senso la dobbiamo trarre, infatti, sempre partendo dal contesto storico del tempo di Šabbetay: se le «eresie» del ’600, insomma, accompagnano il formarsi e consolidarsi dello Stato-Nazione (ancora de Certeau: «Nello stato secolarizzato si organizza minoritaria una fedeltà profetica. Essa si costituisce in “rifugio”»20 – e qui de Certeau pensa a Port Royal), cosa ne è di un’eresia che esplode nel cuore di un insieme di comunità diasporiche e che è per definizione a-statuale, come l’ebraismo del XVII secolo? È a partire da questo problema che si comprende l’escalation cui sono sottoposte le idee di Šabbetay, il quale nel maggio del 1665 si proclama esplicitamente ed apertamente messia, dopo essere vissuto a Gerusalemme ed essere entrato in contatto, racconta Scholem, con circoli qabbalistici particolarmente vicini alle idee di Luria (Safed, per quanto decaduta, non è lontana), e aver girovagato per tutto il vicino Oriente. Ai fatti e alle decisioni del maggio 1665 contribuì molto una figura importante per la costruzione della dimensione messianica di Šabbetay: Avraham Nathan Aškenazi, meglio noto come Nathan di Gaza. Gli storici concordano, sostanzialmente,21 nel vedere in lui il maggiore responsabile della proclamazione a messia di Šabbetay (che tuttavia avviene prima dell’incontro con Nathan), o meglio, della diffusione e del consolidamento dottrinario e politico della sua predicazione. In ogni caso, a fronte delle oscillazioni caratteriali di Šabbetay e della sua confusionaria formazione, Nathan può davvero considerarsi, come dice Scholem, «il primo grande teologo della qabbalah eretica», che «agì come una sorta di “trasformatore” – concentrando nella sua persona, articolando e trasmettendo le forze storiche del momento».22 Mistica e politica. Il Sabbatianesimo come filosofia della storia Per riassumere i dati esposti finora: la formazione teologica e dottrinaria di Šabbetay mostra una matrice qabbalistica sia nelle fonti utilizzate, sia nelle forme di espressione della propria passione religiosa; ma se ne discosta sensibilmente quanto a esiti (non esistono fonti scritte di sua mano), e soprattutto a pratiche (non si dà una conventicola di eruditi, ma una setta di illuminati; ed è a partire da questo aspetto, forse solo da esso, che possiamo parlare di uno Šabbetay «gnostico», in quanto forma sociologica di un’elite pneumatica, ovvero che si considera eletta in una chiave tutta spirituale); tali pratiche, a loro volta, tendono ad articolarsi sempre più intorno ad un nucleo teologico, che parte dalla trasgressione come adempimen-
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Ibidem. M. de Certeau, Fabula mistica, cit., p. 57. 21 Sebbene Moshe Idel tenda a relativizzarne l’importanza per Šabbetay: cfr. M. Idel, Messianic Mystics, Yale Un. Press, New York 1998, pp. 186 ss. 22 G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 210. 20
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to della miwah, e sfocia nella trasgressione tout court. Ciò finisce per radicalizzare non solo il portato etico e teologico del movimento, ma anche quello politico e storico e renderlo quel «messianismo rivoluzionario antinomico» di cui parla Scholem:23 chi riconosce in Šabbetay il vero messia è disposto a seguirlo subito, abbandonando ogni traccia di vita passata (rituali, abitudini, commerci, parentele), e ad accettarne fino in fondo tutte le «provocazioni». Il sabbatianesimo causa insomma una secessione radicale delle comunità ebraiche europee all’insegna dell’infrazione di precetti e rituali, che dapprima inquieta l’establishment religioso (il rabbinato di Gerusalemme lo scomunica nel 1665), e poi quello politico non ebraico: il sultano ottomano appare preoccupato della piega che stanno prendendo gli eventi, dapprima lo fa imprigionare, in seguito – all’inasprirsi della tensione messianica tra le comunità ebraiche e dunque dell’instabilità sociale che ne deriva – convoca Šabbetay alla Sublime Porta per presentargli la secca antitesi: o la conversione all’Islam o la morte. La scelta dell’apostasia che Šabbetay compie si inscrive, secondo Scholem, in un contesto esistenziale e teologico davvero unico: «Nella sua febbrile e incostante carriera di entusiasmo messianico e di “trasvalutazione dei valori” escatologica Šabbetay si era avvicinato molto a questa suprema prova finale. L’ultimo passo non era più inconcepibile, una volta che il confine tra il possibile e l’impossibile si era offuscato, e le certezze e i valori tradizionali – e davvero assiomatici – erano stati rovesciati».24 Tale scenario, in fondo, rappresenta allo stesso tempo una catastrofe ed un nuovo inizio per il popolo ebraico: «la crisi scatenata dall’apostasia di Šabbetay fu un momento tragico nella storia di Israele; ma quella tragedia conteneva anche i semi di una nuova consapevolezza ebraica».25 È proprio questo passaggio concettualmente densissimo e storicamente foriero di grandi conseguenze al centro di una riflessione sulla storia ebraica che non può non vedere nel sabbatianesimo un momento assolutamente centrale di quello che l’intellettuale francese Shmuel Trigano ha chiamato «un abbandono in vista di un ritorno».26 In questo senso, se da un punto di vista filosofico-storico il sabbatianesimo comporta una rielaborazione del concetto di storia assai moderno, che affronta decisamente il nodo cruciale della secolarizzazione, da un punto di vista psicologico e religioso introduce un ulteriore elemento di modernizzazione della coscienza europea – del resto comune ad altre manifestazioni analoghe –, ovvero l’attitudine al segreto, alla doppiezza, alla dissimulazione delle proprie idee religiose in un’epoca di conflitti
Ibidem, p. 243. Ibidem, p. 667. Al di là del tono esplicitamente e consapevolmente nietzschiano di queste affermazioni di Scholem – che sarebbe tuttavia interessante approfondire – il grande studioso di mistica ebraica riconduce quest’ansia «zarathustriana» di superamento a una rilettura, compiuta soprattutto da Nathan di Gaza, delle teorie luriane: «La qabbalah luriana aveva insegnato un modo per separare le scintille sante, cioè per elevarle e sottrarle dalle grinfie del male in cui erano tenute. In effetti il male esisteva grazie alla vitalità che attingeva dalle scintille di bene che aveva catturato e che teneva prigioniere. [...] Secondo la nuova versione sabbatiana, non è sufficiente estrarre le scintille di santità dal regno dell’impurità. Per compiere la sua missione, il potere della santità – incarnato dal messia – deve discendere nell’impurità e il bene deve assumere la forma del male» (pp. 785-6). 25 Ibidem, p. 681. 26 Shmuel Trigano, Alle radici della modernità. Genesi religiosa del politico, Ecig, Genova 1999, p. 212. 23
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confessionali. In effetti, una delle conseguenze paradossalmente più visibili di questo processo di inabissamento del messia e dei suoi seguaci negli abissi del male, sta nel loro inscriversi in un processo per un verso assolutamente tradizionale nella storia delle religioni, dal marranesimo ebraico alla tāqiyah sciita;27 ma per un altro anche come fenomeno del tutto nuovo, che si situa al crocevia tra religione e politica: dalle dissimulazioni oneste28 alle «riserve mentali» sviluppate dai gesuiti in funzione antiprotestante (o viceversa).29 In tal senso il sabbatianesimo non solo si inserisce nelle correnti spirituali – teologiche e filosofiche – del suo tempo, ma diviene anche un fenomeno squisitamente politico, nella misura in cui si propone come un fenomeno religioso consapevole delle implicazioni politiche e sociali della sua prestazione dottrinaria. In questo contesto è da ricordare un saggio di Elettra Stimilli, che appunto tratta del sabbatianesimo come fenomeno politico30 e coglie un’implicazione filosofica molto importante: il fatto che «l’essenza spirituale della redenzione implica un’assoluta discontinuità tra mondo storico e mondo messianico, tra esteriorità e interiorità, a tal punto che per i sabbatiani non c’è progresso che dal mondo storico conduca a quello redento; il Messia, piuttosto, irrompe dall’interno, come con un gesto improvviso, opponendo alla condizione rovinosa dell’esilio lo stato mistico del Tiqqùn, per cui ogni cosa è precisamente al suo posto».31 Qui Elettra Stimilli forza consapevolmente il quadro analitico e storico, introducendo degli elementi però assai interessanti, specialmente un’idea di Tiqqun che suona irresistibilmente benjaminiana (e infatti concluderà il suo saggio citando proprio il filosofo berlinese). Quello che qui vorrei riprendere, però, è per così dire la filosofia della storia sabbatiana che emerge in tal modo. Lo snodo tra interiorità ed esteriorità di cui parla Elettra Stimilli è in effetti assolutamente centrale per la percezione del fatto politico-religioso dissimulatorio tipico della Neuzeit, volta a volta declinabile come criptoprotestantesimo in ambito cattolico o criptocattolicesimo in ambito protestante, quietismo mistico o riserva mentale in senso generale – o, in un contesto più vicino all’ebraismo di cui stiamo parlando, come marranesimo pratico e spirituale. Questi aspetti esulano naturalmen-
27 Su queste tematiche cfr. il bel testo di Hans G. Kippenberg, Die vorderasiatischen Erlösungsreligionen in ihrem Zusammenhang mit der antiken Stadtherrschaft, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1991. 28 Il riferimento qui è ovviamente al trattato omonimo di Torquato Accetto, del 1641. 29 Un esempio concreto per spiegare questo fenomeno: durante l’interrogatorio del prete cattolico John Ward, che nel 1606 era entrato segretamente in Inghilterra con lo scopo di uccidere la regina Elisabetta I (e facendo seguito al bando di scomunica emesso dal pontefice), allorché gli venne chiesto se fosse un sacerdote e se avesse attraversato il mare per arrivare in Inghilterra, questi rispose negativamente a entrambe le domande – poiché nel suo intimo le aveva riformulate come se esse gli chiedessero se fosse un sacerdote di Apollo e se avesse attraversato il mare dell’India. Come è stato giustamente scritto a proposito, «The speaker’s statement was held to acquire an added meaning because of some characteristic of his interlocutor, usually that this interlocutor was asking unjust or only partial questions» (Johann P. Sommerville, The ‘new art of lying’: equivocation, mental reservation, and casuistry, in Conscience and casuistry in early modern Europe, a cura di E. Leites, Cambridge Un. Press, Cambridge 1988, p. 169). 30 Cfr. Elettra Stimilli, Il nichilismo sabbatiano come fenomeno politico, in Nichilismo e politica, a cura di R. Esposito/C. Galli/V. Vitiello, Laterza, Roma-Bari 2000. 31 Ibidem, pp. 263-264.
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te da quanto si tratta qui, ma vanno richiamati alla mente nel momento in cui si deve ricordare che la scelta di Šabbetay per la conversione all’Islam viene teologicamente reinterpretata alla luce dell’assoluta impeccantia dell’uomo perfetto,32 e politicamente va considerata come una pratica dissimulatoria necessaria al pieno dispiegarsi del processo messianico: se per la tradizione ebraica la Torà di Mosè è torat emet, «torà della verità», negli scritti sabbatiani, ci ricorda ancora Scholem, l’Islam diventa torat ḥesed, la Torà della grazia (e Scholem ricorda anche che esed significa sia grazia che vergogna).33 Si potrebbe insomma dire che per certi sabbatiani, lungi dal significare una dannazione, l’apostasia diventa una arrischiata chance di salvezza spirituale, che giunge messianicamente improvvisa e impregiudicata, e va colta al volo; e tuttavia, va allo stesso tempo concepita come una complessa pratica da acquisire, non di rado attraverso una tecnica dissimulatoria delle proprie più intime convinzioni: una sorta di cairologia messianica in stato di necessità. In questa chiave, gnosi e politica, interiorità ed esteriorità, fede e apostasia si confondono, producendo un dispositivo che apre davvero al moderno: proprio come avviene per i fenomeni di religiosità «eretica» (nel senso di de Certeau) già ricordati, anche per il sabbatianesimo si tratta di riconoscerne il carattere implicitamente – o involontariamente – modernizzatore. Come ha scritto Furio Jesi, «per un fenomeno che è tanto più oscuro, quanto ormai apparentemente ovvio, dall’antinomismo e dalla esperienza di chi rispettava la legge pur credendone prossima la svalutazione, sembra essere scaturito uno degli elementi fondamentali dell’illuminismo, la libertà di coscienza».34 Questo è il senso dell’«ebraismo postmessianico» di cui parla Scholem,35 ma anche del carattere elitario del movimento sottolineato da Idel.36 Un movimento, insomma, quello sabbatiano, in cui all’implicito presentarsi di tematiche moderne (la libertà di coscienza interiore) corrispondono pratiche religiose antiche (il carattere elitario e mistico). Da qui, allora, la compresenza, nell’ebraismo post-sabbatiano, di tendenze le più diverse, dall’haskalah al chassidismo, dal frankismo all’ortodossia rabbinica, a tutti i diversi gradi di assimilazione; un fenomeno che Isaiah Berlin, il grande storico delle idee, ha equiparato a quello di un ghiacciaio sottoposto improvvisamente a un sole cocente: parte evapora subito e parte, il cuore più profondo, resta intatto; ma molta parte del ghiacciaio si scioglie, «dando luogo a una tumultuosa alluvione che si riversò nelle vallate sottostanti, in parte confluendo in fiumi e ruscelli, mentre il resto si raccoglieva in pozze stagnanti».37
Cfr. G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 795. Cfr. ibidem, p. 798. 34 Furio Jesi, Il miracolo secondo ragione, in Id., Mitologie intorno all’illuminismo, Pierluigi Lubrina, Bergamo 1990, p. 22. 35 G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., p. 779. 36 «Sabbatean messianism was essentially elitist and only rarely sought compromise with popular eschatological and messianic notions which emphasized supernatural events provoked by God’s arbitrary intervention» (M. Idel, Messianic Mystics, cit., p. 198). 37 Isaiah Berlin, Schiavitù ed emancipazione degli ebrei, in Id., Il potere delle idee, Adelphi, Milano 2003, p. 246. 32
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Conclusione. Dopo la morte e oltre Quel che avviene dopo la morte di Šabbetay nell’apostasia costituisce un classico fenomeno che potremmo definire di «dissonanza cognitiva»;38 ovvero, cosa succede a coloro che hanno creduto fermamente in qualcosa – la fine del mondo, l’arrivo del Messia, la resurrezione del Signore – e vedono che questo evento non si manifesta? Diverse sono le possibilità di elaborare quel trauma: posticipare ulteriormente l’attesa, postulare un nascondimento, un occultamento della figura salvifica, elaborare teorie per giustificarne teologicamente il fallimento o continuare semplicemente ad attenderne il ritorno, spes contra spem; e sono tutte strategie che sono state diversamente messe in atto all’indomani della morte di Šabbetay.39 Strategie che hanno portato ad una rielaborazione del suo nucleo dottrinario, che spesso finiva per comportare una sua radicale trasfigurazione: come nel caso del gruppo turcomusulmano dei dönmeh, di coloro cioè che intendono compiere sino in fondo il cammino percorso da Šabbetay, accompagnandolo quindi nell’apostasia e costituendosi in «setta» esteriormente musulmana ma intimamente sabbatiana, dalla persistente anche se sotterranea vitalità.40 In ultima analisi, la prestazione religiosa e intellettuale di Šabbetay sembra assimilabile a quella frase che de Certeau riporta nel suo classico studio sulla mistica del Seicento, attribuendola al padre gesuita Giuseppe Blondo, il quale, introducendo un’edizione italiana degli Esercizi spirituali ignaziani, sostiene che si tratta di «privarsi di Dio per amore dello stesso Dio».41 Questo assunto, preso nella sua interezza per così dire filosofico-concreta – depurato cioè da ogni intenzione trascendentale genericamente intesa – comporta, come è evidente, un processo di secolarizzazione della coscienza che è alla base della nostra età moderna. Il processo di espulsione del «religioso», in altri termini, è esso stesso originariamente religioso; e di questo sembrano essere consapevoli i principali attori di questo «dramma» teologico-politico. In questo senso può essere interpretata anche la sorte del suo profeta Nathan, il quale muore qualche anno dopo Šabbetay ed è uno dei maggiori artefici, come abbiamo visto, dell’interpretazione teologica della sua apostasia. La sua pietra tombale – andata distrutta nel corso della seconda guerra mondiale – recava tra l’altro le seguenti parole, tratte dal libro delle Lamentazioni: «è stata espiata la tua colpa, o figlia di Sion» (o anche «completa la tua punizione, figlia di Sion»),42 una frase che
38 Cfr. Leon Festinger et al., A social and psychological study of a modern group that predicted the destruction of the world, Harper, New York 1956. 39 Un’interessante discussione di tali tipologie è offerta da Stephen Sharot, Messianism, Mysticism, and Magic. A Sociological Analysis of Jewish Religious Movements, Un. of North Carolina, Chapel Hill 1982, pp. 86 ss. 40 Sui dönmeh cfr., oltre al classico studio scholemiano «Die Krypto-jüdische Sekte der Dönme (Sabbatianer) in der Türkei», Numen, VII, 1960, 2-3, pp. 93-122, anche la recente traduzione italiana di un apprezzabile libro di John Freely, Il messia perduto. La storia di Sabbatai Sevi e il misticismo della Qabbalah, il Saggiatore, Milano 2007, il quale si segnala soprattutto per le nuove ricerche compiute dall’autore, esperto di storia turca (cfr. pp. 228 ss.). 41 Cfr. M. de Certau, Fabula mistica, cit., p. 343, nt. 82. 42 Cfr. G. Scholem, Šabbetay Sevi, cit., pp. 908 ss. Scholem riferisce anche come la tomba di Nathan sia andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. Lo studioso ebreo tedesco argomenta anche, sulla base di documenti, che Nathan sia morto a Üsküb in Macedonia (l’odierna
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per di più assume valore numerico corrispondente alla data del 1680, che è la data della morte di Nathan. Scholem considera queste parole il perfetto epicedio delle vite e delle azioni di Nathan e di Šabbetay; come complexio oppositorum cioè, irresistibilmente sospesa tra espiazione e punizione, catastrofe e redenzione, salvezza e dannazione. Una parabola di fede tanto intensa da sfidare qualsiasi paradosso come quella di Nathan e di Šabbetay, insomma, descrive assai bene, se non tutto, almeno una parte significativa dell’ebraismo dell’età moderna, e ci aiuta perfino a capire, se non tutti, almeno molti dei suoi percorsi successivi. Che infine Šabbetay, dopo la morte e tutto quel che ne conseguì, fosse tratteggiato anche in termini «satanici», è un fenomeno che ritroviamo in molte circorstanze, molto diverse tra loro: come nella buona società herzliana citata all’inizio, ma anche nell’inappellabile condanna che un grande scrittore yiddish, Isaac Singer, ne fa nel suo romanzo Satana a Goray. Se da un lato infatti il grande scrittore ebreo polacco, in seguito trapiantato in America, trae lo spunto dei grandi sommovimenti sabbatiani degli anni ’60 del XVII secolo per descrivere uno shtetl polacco di quell’epoca, dall’altro sviluppa appunto l’elemento genuinamente «satanico» di quel movimento, nel momento in cui lo declina nel suo elemento specificamente erotico: la storia è infatti incentrata sull’arrivo di un dybbuk, di uno spirito che si impossessa di qualcuno e lo spinge a compiere azioni «strane», perlopiù a sfondo osceno, connesso qui ai disordini legati alla diffusione dell’eresia sabbatiana. Singer elabora un potente dispositivo epico, corrusco e inquietante, che non può che concludersi con la condanna inappellabile delle forze del male – sotto forma di un’epigrafe apposta in chiusura del romanzo («la morale del presente racconto»): «che nessuno tenti di costringere il Signore a porre termine alle nostre sofferenze nel mondo. Il Messia verrà nel momento prescelto da Dio; e libererà gli uomini dalla disperazione e dal peccato».43 In fondo, la storia di Šabbetay Sevi è tutta compresa in questa epigrafe – nel suo disperato bisogno di dare un senso alle sofferenze di ogni giorno, come anche nel fermo desiderio di affidarle a un Messia che le redima; e soprattutto nella questione del tempo, di quando questi dovrà venire a farlo.
Skopije), mentre Šabbetay sia morto a Dulcigno, nell’attuale Montenegro; Freely, in chiusura del suo studio, afferma che Šabbetay possa essere stato sepolto a Berat, in Albania (cfr. J. Freely, Il messia perduto, cit., pp. 260 ss.). 43 I. B. Singer, Satana a Goray, TEA, Milano 2002, p. 212.
Saul Meghnagi Ebrei nella storia: genesi ed evoluzione dell’idea di nazione
Tempi della storia La condizione odierna dell’ebraismo è il risultato di un processo che ne ha definito le caratteristiche, differenti da luogo a luogo: nella diaspora, o, meglio, nelle diaspore; in Israele; e nel rapporto, in costante evoluzione, tra diaspore e Israele.1 Per molti secoli, l’ebraismo – perseguitato nelle forme più diverse, ma soprattutto privato di un proprio territorio, di una relazione tra diritti e doveri connessi con l’appartenenza a un paese proprio – ha dovuto definire se stesso, in modo pressoché esclusivo, in ragione di una fede. Ciononostante, gli ebrei non sono riconducibili solo a un credo religioso. Hanno sviluppato, nel tempo, modi e approcci eterogenei nella lettura dei propri contesti, nella decodifica della realtà, nella costruzione di legami affettivi con il proprio passato. Hanno prodotto, su una base culturale unitaria, una pluralità di forme di elaborazione, costruzione, rappresentazione sociale.2 Sono un popolo che ha delle regole e che ha costruito la propria connotazione culturale attraverso usi, tradizioni, normative, sistemi di valore, modi di essere e di pensare nati da esperienze molteplici.3 Sono il risultato di un costante confronto con la storia e con altri gruppi umani con cui hanno convissuto. Sono l’esito di un processo di ibridazione, rimescolamento, riscrittura dei propri modi di essere e di pensare. La stessa identità collettiva si è evoluta assumendo un carattere di relatività rispetto a storie, tradizioni, luoghi in cui ogni sapere originario del gruppo si è confrontato e arricchito sia rafforzandosi sia modificandosi.4 Si sono così precisate le caratteristiche etiche e pratiche di una cultura che risulta difficile se non impossibile analizzare e descrivere nella sua interezza.5 È legittimo, per tutto ciò, assumere un’interdipendenza tra identità, molteplici condizioni dell’esistenza ed evoluzione, in ambiti diversi, della coscienza collettiva. Si configura uno stretto legame tra una tradizione originaria – conosciuta in toto, in parte o vagamente assunta – esperienze di vita, sensibilità soggettive rispetto a un dato
Cfr. per un quadro d’insieme, D. Bidussa (a cura di), Ebraismo, Einaudi, Torino 2008. Cfr. S. Bauman, «Exit Visas and Entry Tickets: Paradoxes of Jewish Assimilation», in Telos, n. 77, 1988, pp. 45-79. 3 Cfr., anche per i riferimenti, A. Foa, Diaspora, Laterza, Bari 2008. 4 La distribuzione delle Comunità ebraiche, in diverse parti del mondo, è descritta nel dettaglio in E. Barnavi (a cura di), Atlante storico del popolo ebraico, Zanichelli, Bologna [1992] 1995. 5 Cfr. S. Meghnagi, Un luogo nell’anima, Donzelli, Roma 2007. 1 2
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contesto, ricordi, che, in tale processo, giocano una particolare funzione organizzativa. Le memorie sono collettive, condivise da famiglie e gruppi, organizzazioni, che fanno dell’ebraismo una particolare «comunità mnemonica».6 Piuttosto che un mero aggregato di pensieri personali dei suoi vari membri, essa richiama un passato che tutti evocano. Lungi dall’essere qualcosa di strettamente spontaneo, il ricordo è guidato da norme sociali, che dicono cosa conservare e cosa dimenticare. È attraverso questa socializzazione mnemonica che s’includono nella trama biografica di un popolo elementi del passato, memorie condivise, legami interpersonali. Il passato e il presente, in questo modo, non si configurano come entità completamente distinte: nell’ebraismo, per esempio, i «giorni di festa» concretizzano la distinzione morale tra sacro e profano; i fine settimana sostanziano, spesso, nel rispetto del sabato, ambito pubblico e ambito privato; le rotture temporali fra «periodi» storici distinti aiutano ad articolare le discontinuità fra fasi della storia e della cultura. Esistono modi alternativi di suddividere il passato, nessuno dei quali è più naturale o più valido degli altri. La nostra analisi spinge a considerare quali sono gli «episodi marcatori» nella costruzione di una tradizione mnemonica ebraica: a) la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, nel 70 d.C. Da questo evento, fino all’apertura dei Ghetti, tra il 1700 e il 1800, si sviluppa un ampio processo di elaborazione, formalizzazione, scrittura dei testi fondanti la tradizione; b) la genesi, in occidente, dell’idea di nazione, nel corso del 1700. Da essa scaturisce, con l’emancipazione degli ebrei – ovvero il loro pieno riconoscimento di cittadini, con la Rivoluzione francese – il confronto, a tutto campo, con la cultura non ebraica; c) la prefigurazione, tra il 1800 e il 1900, di una «nazione ebraica» e la nascita, nel 1948, di Israele. L’assunzione di una dimensione storica, quale quella delineata, consente di legare le dinamiche interne di una collettività che non esprime valori e comportamenti marginali all’evoluzione culturale delle società in cui vive e liberamente si esprime: gli ebrei sono uomini e donne che la storia ha spesso costretto a mutare paese, incrociare altra gente, interrogarsi sulla propria cultura, sul proprio modo di essere. La tradizione ebraica si configura, in ragione di quanto esposto, come la base culturale di diverse comunità facenti parte di società più ampie, di cui sono condivisi diritti e doveri, lingue e consuetudini. Luoghi della memoria La fonte originaria per la comprensione della cultura ebraica è, com’è noto, la Torah (insegnamento), da cui discende la Halakhah, la «normativa», che esprime in termini pratici come realizzare le indicazioni del testo di partenza. La collezione delle norme e delle disposizioni halakhiche, la Mishnah, costituisce la «materia prima» del Talmud, che le raccoglie, insieme ad altro materiale descrittivo, l’Aggadah, il racconto degli eventi. Opera monumentale, il Talmud è scritto in due periodi storici
6 Cfr. E. Zerubavel, Mappe del tempo. Memoria collettiva e costruzione sociale del passato, il Mulino, Bologna [2003] 2005.
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diversi per cui ne esistono due redazioni: la babilonese (del V, VI secolo d.C.) e la palestinese (successiva al V secolo d.C.). L’insieme si propone non solo come un riferimento di fede, ma come un modo di concepire il mondo e la vita.7 Nei secoli successivi alla distruzione del Tempio, in particolare dopo il XIII secolo, si rafforza, come accennato, il riferimento alla religione rispetto a tutte le altre dimensioni dell’identità di un popolo che, in luoghi diversi, assume nuove tradizioni, nuovi linguaggi e forme specifiche, differenziandosi da paese a paese. Risulta, per questo, estremamente complessa la definizione del popolo ebraico sulla base delle «categorie nazionali» moderne.8 Nella sua ampia ricostruzione dell’antisemitismo, L. Poliakov9 apre una questione che, a circa trent’anni di distanza dalla prima pubblicazione delle opere a cui si fa riferimento, appare di estrema importanza: l’assimilazione di persone di altra cultura attraverso l’accettazione, secondo la norma dei figli di madre ebrea, l’accoglienza, secondo percorsi definiti, dei figli di padre ebreo, l’agevolazione del «ritorno» di chi è passato ad altra religione, soprattutto se questo è avvenuto in condizioni di coercizione, la conversione di proseliti. L’evoluzione culturale dell’ebraismo è il risultato di un complesso e lungo processo di incontro e di salvaguardia della propria identità, non esente da «intrecci» del gruppo originario della Palestina con altre popolazioni con cui sono stati condivisi usi e costumi e a cui si deve, tra l’altro, la presenza degli ebrei in varie parti del mondo. L’«emancipazione», come venne chiamata la concessione dei diritti civili agli ebrei, nel XIX secolo, dovette, anche per questo, confrontarsi con un indirizzo di pensiero, il Sionismo, che poneva il diritto all’«autoemancipazione» del popolo ebraico, attraverso un ritorno alla terra dei Padri.10 Tale opzione culturale proponeva di fatto un’appartenenza all’ebraismo non solo in ragione di parametri religiosi, ma secondo i principi di cittadinanza propri della tradizione democratica occidentale.11
7 Per un approfondimento cfr., A.J. Heschel, Il Sabato. Il rapporto tra Dio e l’uomo in un classico della spiritualità contemporanea, Garzanti, Milano 1999; AA.VV., Concetti basilari dell’ebraismo, Morasha, Milano 2005; E. Gugenheim, L’ebraismo nella vita quotidiana, La Giuntina, Firenze 1994; R. Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche, a cura dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, Lamed, Roma 1996; E. Kitov, Sèfer Hatoda’à - Il ciclo dell’anno ebraico - 2 Adàr - Nissàn, Morasha, Milano 2007; E. Kitov, Sèfer Hatoda’à - Tishrì - Shevat - Il ciclo dell’anno ebraico, Morasha, Milano 2006; A. Steinzaltz, Cos’è il Talmud, La Giuntina, Firenze 2004; A. Cohen, Il Talmud, Laterza, Bari 1999; G. Stemberger, Il Midrash, Edizioni Dehoniane, Bologna 1992; S.J. Sierra (a cura di), La lettura ebraica delle scritture, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995. 8 Cfr., su questo problema, J. Leibowitz, Ebraismo, popolo ebraico e stato d’Israele, Carucci/Dac, Roma [1975] 1980. 9 L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, La Nuova Italia, Firenze, 3 voll. [1955, 1968, 1974], 1974. 10 Per ciò che riguarda la configurazione più recente, sui diversi modelli dell’emancipazione, cfr. S. Trigano, L’ebraismo contemporaneo, in F. Lenoir, Y.T. Masquelier (a cura di), La religione, Utet, Torino [1997] 2001, pp. 529-544. 11 Un utile inquadramento del problema, in riferimento al rapporto tra istituzioni religiose e pubblici poteri, prima e dopo la nascita di Israele, è fornito in S.N. Eisenstadt, La politica israeliana e la tradizione politica ebraica, in Rassegna italiana di sociologia, n. 2, 1988, pp. 175-209. Sono interessanti, a questo riguardo, i saggi raccolti in R. Della Rocca e F. Francesconi (a cura di), Ebraismo e sionismo tra universale e particolare, numero monografico di La Rassegna mensile di Israel, n. 1, gennaio-aprile 2005.
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L’ebraismo si misurava, in tal modo, con la modernità, traducendo l’aspirazione messianica della propria tradizione in un’aspirazione temporale propria di un’epoca:12 la fisionomia di questo fenomeno, che si colloca all’interno della famiglia dei nazionalismi ottocenteschi, è quella di un’esperienza politica che ha prefigurato prima e forgiato poi una nuova identità ebraica.13 M. Lowy, con una sintesi interessante, ascrive una parte dei pensatori ebrei a correnti variamente definite: per esempio, gli «ebrei religiosi anarcheggianti» (Martin Buber, Franz Rosenzweig, Gershom Scholem, Leo Lowenthal) o «gli ebrei assimilati, ateo-religiosi, libertari» (Gustav Landauer, Ernst Bloch, Gyorgy Lukàcs, Eric Fromm). La tesi di uno stretto legame tra il messianesimo ebraico e le utopie libertarie consente all’Autore di mettere in luce il duplice tentativo da parte degli studiosi ebrei per definire la partecipazione ebraica alla realtà sociale: da un lato vi sono coloro che si muovono sul terreno specifico della dimensione etico religiosa, dall’altro coloro che si impegnano nel più diretto confronto con la società civile e politica.14 Le ripercussioni sull’ebraismo sono assolutamente inedite e d’importanza decisiva rispetto alla condizione odierna. Una ricostruzione utile, operata da Bensoussan, fonda tale ricostruzione su tre presupposti: il primo riguarda la dimensione della storia; il secondo la percezione del proprio ruolo nella società; la terza il profilo culturale degli attori di cui intende documentare gli eventi e le scelte.15 Per quanto riguarda la prima questione, come aveva riconosciuto lo storico Yerushalmi,16 con l’abbandono dei ghetti gli ebrei escono da una dimensione di memoria che costruisce la propria identità e cominciano a pensarsi nella storia, a misurarsi con le vicende del proprio tempo, e anche a mettersi in gioco come partecipi delle vicende del proprio contesto. Per quanto riguarda la seconda questione, gli ebrei, fuori dai ghetti, sono attori come gli altri, e la riflessione nel proprio ambito esula dalle sole questioni interne al gruppo. Per ciò che riguarda la terza questione, si evidenzia come il sionismo abbia stretti legami con l’idea di tradizione, con il tema della continuità, ma valgono anche l’idea e il principio che, nel farsi della storia, si definiscono e si ridefiniscono identità e culture. Il sionismo si caratterizza non come un’idea consolidata e prescritta, ma come risultato di un lungo confronto con l’esterno e con l’interno delle comunità ebraiche,
12 Cfr., a questo riguardo, l’analisi rigorosa di S. Trigano, Alle radici della modernità, Ecig, Genova [1994] 1999, al quale rinviamo sia per la ricostruzione del pensiero anteriore al secolo ventesimo sia per la ricca bibliografia. 13 Per una ricostruzione di ampio respiro, cfr. G. Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale, 1860-1940, 2 voll., Einaudi, Torino 2007. Per ciò che attiene all’Italia, una ricostruzione delle analisi e delle azioni concrete dopo la Shoah è in M. Toscano, La “porta di Sion”, Il Mulino, Bologna 1990. 14 Cfr., al di là della tesi accennata sulle «affinità elettive» tra messianesimo ebraico e utopie libertarie, M. Löwy, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Milano [1988] 1992. 15 G. Bensoussan, op. cit. 16 Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche, Parma [1982] 1983.
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sviluppatesi con differenze sostanziali tra l’una dall’altra.17 Con esso prende forma una fisionomia dell’ebraismo che scaturisce da scelte, decisioni, azioni che determinano, nel tempo, due configurazioni culturali: la prima legata al recupero di una connotazione giuridica nazionale nell’ambito di Israele; la seconda di ridefinizione di sé nella permanenza in altri paesi, di cui si condivide la cittadinanza. In entrambi i casi, l’identità nazionale si sviluppa avendo in particolare nella rinascita della lingua ebraica un veicolo poderoso di rielaborazione e integrazione culturale.18 Letta, parlata e scritta,19 la lingua è uno strumento fondamentale per lo sviluppo e la crescita culturale di Israele, ma, nel contempo, assume una funzione unificante degli ebrei ed è uno degli elementi connotativi dell’ebraismo mondiale, fattore decisivo dell’unità del popolo ebraico. La letteratura ebraica, anche in ragione della lingua, evolve e, con l’uso dell’ebraico, si trasforma sul piano dei contenuti: dai testi importanti della letteratura diasporica, quali ad esempio quelli di Isaac B. Singer o Philiph Roth, parte della letteratura mondiale tout court, si passa ai libri in ebraico, tra i quali quelli di Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, che, tradotti, raggiungono il pubblico di molti paesi.20 Il cinema si caratterizza, altresì, nel secondo dopoguerra, come uno dei veicoli di diffusione e di proposta della cultura ebraica, diventando oggetto di attenzione critica da parte di studiosi. Un caso particolare è quello del «cinema della Shoah», che ha la forma del documento, del documentario, del film di introspezione, di drammatizzazione, di comicità particolare. Gli ebrei, inoltre, non più costretti nell’ambito di attività limitate e, in particolare, nel commercio,21 fonte di insensate illazioni sul «particolare» rapporto con il denaro,22 si presentano nelle diverse aree della stratificazione sociale.23 Non a caso, con la nascita di Israele si afferma l’idea di un luogo in cui l’ebreo possa e debba essere in ogni mestiere, professione e classe. 24
17 Basti citare, come esempi, B. Bembassa, Storia degli ebrei sefarditi, Einaudi, Torino [2002] 2004; A. Hertzberg, Gli ebrei in America, Bompiani, Milano [1989] 1993; R. Calimani, Passione e tragedia, Mondadori, Milano 2006; R. De Felice, Gli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961 e Id., Ebrei in un paese arabo. Gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970), il Mulino, Bologna 1978. 18 Cfr. A. Luzzatto, Il posto degli ebrei, Einaudi, Torino 2003. 19 Cfr. anche su quest’aspetto, G. Bensoussan, op. cit., pp. 479-529. 20 Gli scrittori israeliani hanno progressivamente assunto il ruolo di testimoni dell’evoluzione della cultura israeliana: al di là degli autori più noti sopra menzionati, cfr., in particolare, la collana “Israeliana” della casa editrice La Giuntina. 21 Sulla funzione del lavoro nella costruzione dell’identità nazionale, cfr. S. Lanaro, Nazione e lavoro, Marsilio,Venezia 1979. 22 Cfr., al riguardo, la critica di J. Le Goff, La borsa o la vita, Mondadori, Milano [1986] 1992. 23 L’idea di una stratificazione sociale nella quale gli ebrei siano presenti in tutte le classi sociali è indicata tra le aspirazioni di molti padri fondatori del sionismo e in coloro che ne hanno dato attuazione. Cfr. a questo riguardo, G. Lerner, Introduzione a T. Herzl, Lo stato ebraico, Il Nuovo Melangolo, Genova 2003 e D. Bidussa, Introduzione a L. Pinsker, L’autoemancipazione ebraica, Il Nuovo Melangolo, Genova 2004. 24 Cfr., sul rapporto tra comunità ebraica e lavoro, l’interessante analisi svolta a Roma da A. Palagi, Etica del lavoro e comportamento sociale, Università di Roma, Facoltà di sociologia, Tesi di laurea, Roma 1986.
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Un processo analogo seguono, in una forma particolare, tutte le espressioni artistiche ed espressive.25 In assenza di un potere politico, gli edifici solenni avevano assunto, forse più di quanto non avvenisse alle origini, il carattere di un luogo d’incontro consentito. Le sinagoghe, anche per questo, rispondevano a «una concezione del culto basata sulla partecipazione di tutti i fedeli a una liturgia collettiva».26 Se permaneva, quindi, la proibizione della presenza di figure animali o umane, l’uso di mosaici e affreschi veniva consentito, con quello delle lettere dell’alfabeto ebraico, come elemento ornamentale e, appunto, artistico, a fianco di motivi floreali e geometrici.27 L’arte del libro era complementare rispetto ad altre forme espressive. La tecnica della scrittura, sviluppata in tempi remoti, si accompagnava all’obbligo della lettura della Torà, come condizione per l’entrata nell’età adulta del giovane con il Bar Mitzwah, la cerimonia della «maggiorità» religiosa. La conseguenza positiva di tale «sacralizzazione della conoscenza della lingua» è certamente l’assenza di forme di analfabetismo diffuso in ambito ebraico sin dall’antichità, con conseguenze positive sui livelli culturali delle comunità ebraiche, anche nelle aree di massima povertà. Sono pochi gli ebrei che, fino al secolo XVIII, si dedicarono alla pittura: contrariamente a quanto accadeva nel mondo cristiano, data l’alta percentuale di persone alfabetizzate e familiarizzate con la storia biblica, gli ebrei non hanno «bisogno della rappresentazione plastica come unico strumento per conoscere la Bibbia [...]».28 Spazio diverso e remoto ha viceversa la musica che, se in larga misura subisce le influenze dei contesti in cui si sviluppa, si caratterizza in forma specifica secondo tre forme: la musica liturgica, o chazzanut, propria del canto sinagogale, la musica folkloristica e la musica d’arte che, dopo l’emancipazione, vedeva un protagonismo ebraico di estremo rilievo. Scrive il direttore d’orchestra e pianista A. Gottfried: «La musica ebraica affonda le proprie radici nella cantilenazione biblica, e si caratterizza non tanto per un particolare stile ma per la sua funzione religiosa e sociale. Sottolinea i momenti significativi della vita dell’ebreo (nascita, Bar Mitzwah e matrimonio) e alterna momenti di gioia a malinconici ricordi di uno splendore passato, nell’attesa della venuta del Messia. La musica israeliana, invece, cerca di ricucire lo strappo di duemila anni di diaspora, ha un fondamento laico ed è permeata da una forte ideologia [...]».29 Le forme dell’arte assumono, di fatto, la funzione di componente integrativa dell’identità ebraica, evidenziano la progressiva recente differenziazione tra Israele – dove la costruzione dello Stato pone l’esigenza di fissare la natura sia della «re-
25 Necessariamente, in questa sede, non sarà possibile soffermarsi sulle molteplici manifestazioni artistiche. Non viene aperto, inoltre, un altro importante capitolo costituito dalla partecipazione ebraica allo sviluppo delle scienze sociali psicologiche, oltre ad altre discipline di carattere scientifico tecnologico. Si tratta di ambiti che denotano una partecipazione degli ebrei allo sviluppo della scienza piuttosto che connotarsi come ebraici in senso stretto. 26 Cfr., per un quadro d’insieme, teso a descrivere la varietà di manifestazioni artistiche ebraiche, E.R. Castellò, U.M. Kapòn, Gli ebrei e l’Europa, Fenice, Milano [1994] 2000, p. 138. 27 Ibidem, p. 152. 28 Ibidem, p. 176. 29 A. Gottfried, Musica d’Israele, Proedi Editore, Milano 2006. L’autore accenna, tra l’altro, al ballo popolare, caldeggiato dai Padri fondatori di Israele come forma di incontro di persone e gruppi provenienti da aree di diversa cultura e sensibilità musicale.
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ligione civile», con i suoi simboli e le sue manifestazioni, sia la natura stessa di un popolo che ha recuperato una sua sovranità –30 e la diaspora dove l’elemento religioso rimane fondante con una significativa incidenza del trauma subito con la Shoah. D’altro lato, «un’etica della memoria è un etica del ricordo. La questione cruciale, ossia se ci siano cose che dovremmo ricordare, ne ha una parallela, ossia se ci siano cose che dovremmo dimenticare».31 Tale dimensione ha un carattere universale. Per l’ebraismo della diaspora, fatto salvo il legame ineludibile con Israele, ciò si accompagna a un’elaborazione, tuttora in corso, sulle forme di presenza delle comunità di minoranza in una società più ampia. Una continua ridefinizione di sé L’idea delle discriminazioni e dell’annientamento del popolo ebraico, nel ventesimo secolo, si è sviluppata in Europa, nel continente dell’Illuminismo, dei valori di «libertà, uguaglianza, fratellanza», dell’autodeterminazione dei popoli, dello stato di diritto, cioè nel continente che ascrive a sé i valori fondamentali della democrazia.32 Ha trovato la sua realizzazione concreta in un continente che ha contribuito in modo decisivo alla filosofia, alla letteratura, alla musica, all’arte e che ha fatto e fa dell’Europa un luogo unico di studio, di ricerca, di elaborazione sulle forme della convivenza culturale.33 Ha visto l’applicazione programmata della scienza, da cui si attendeva un decisivo sviluppo delle condizioni di vita e di lavoro di molte popolazioni. Allo sterminio hanno collaborato non solo gli autori materiali del crimine, ma ingegneri, medici, biologi, tecnici, progettisti, impegnati nel fornire ai carnefici i mezzi più raffinati per lo svolgimento del loro compito. Nel corso del lungo processo che dai primi editti sulla «tolleranza», nell’Ottocento, ha portato alle costituzioni liberali, dando, nel mondo occidentale, pieni diritti di cittadinanza agli ebrei, si sono consumati innumerevoli misfatti, prima della catastrofe della Shoah: dai Pogrom dell’Europa orientale all’affare Dreyfus in quella occidentale. Successivamente, la fuga della quasi totalità degli ebrei dei paesi arabi ha prodotto la scomparsa dell’ebraismo sefardita. Più di recente, ebrei dei paesi del passato blocco socialista – privati della possibilità di esprimere la loro cultura e discriminati in ragione della loro «cittadinanza ebraica», indicata per iscritto sui loro documenti di identità – hanno lasciato i loro paesi d’origine, decretando la fine di una parte dalla cultura ebraica ashkenazita. Israele ha accolto popolazioni di comunità molto diverse dando vita a un complesso processo di integrazione e a una nuova connotazione dell’ebraismo stesso, in
30 Cfr., su questo tema, anche per i riferimenti bibliografici, E. Gentile, Le religioni della politica, Laterza, Bari 2001 e, in relazione a Israele, A. Margalit, Volti d’Israele, Carocci, Roma [1998] 2001. 31 A. Margalit, L’etica della memoria, il Mulino, Bologna [2002] 2006. 32 Cfr., anche per i riferimenti, M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso (a cura di), Storia della Shoah, 2 voll., Utet, Milano 2006. 33 Per un’attenzione specifica al rapporto tra ebraismo e società europea, cfr. M. Battini, La Shoah: dentro e fuori la storia, in S. Meghnagi (a cura di), Memoria della Shoah, Donzelli, Roma 2007, pp. 3-15.
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ragione non solo della varietà delle popolazioni, ma anche di un inedito percorso di ridefinizione culturale. L’ebraismo europeo, depauperato di molte delle sue risorse umane, ha faticato, dopo la seconda guerra mondiale, a ritrovare una propria originale elaborazione identitaria, fondata sulla salvaguardia della propria specificità e la partecipazione civile in un contesto democratico più ampio.34 Oggi, passati sessant’anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz, la possibilità di nuove tragedie non è esaurita. In ogni caso, nel corso del tempo, la convinzione di «potersi e doversi difendere» ha assunto il carattere di valore nella cultura diffusa tra gli ebrei. Resta il dato di una relazione ineludibile tra la memoria di un evento tragico e la percezione di un rinnovato pericolo come fattori che agiscono sulle coscienze e sulle dinamiche della costruzione identitaria. Da ciò due processi, tra loro legati, ma distinti: la ricerca di ridefinizione di sé in contesti nazionali di cui si assume la cittadinanza; l’opzione, attraverso il «sionismo», della costruzione di un’entità statale specifica, come condizione per la propria liberazione da ogni forma di discriminazione. Lo sviluppo dell’idea di nazione, nel senso moderno del termine, trae le sue origini,35 come si è cercato di evidenziare, nella dinamica che aveva accompagnato, poco prima e durante l’Illuminismo, lo sviluppo di una coscienza politica indipendente dalle forme diverse di identità religiosa e, successivamente, l’affermarsi dell’idea della separazione politico istituzionale tra Stato e Chiese. L’ebraismo tende conseguentemente a ricercare una propria declinazione identitaria in un’appartenenza nazionale accompagnata da un’identità culturale specifica, con maggiore o minore accentuazione della dimensione di fede. Abbiamo, per questo, sostenuto che lo sviluppo di un’autodeterminazione nazionale, con il sionismo, è l’esito delle elaborazioni che accompagnano dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento la presa d’atto della difficoltà, per gli ebrei, di vedere riconosciuti i propri diritti (per esempio nella Russia zarista) o di non essere soggetti a discriminazioni e abusi (come, per esempio, in Francia durante l’Affare Dreyfus). La successiva nascita di Israele concretizza una differenziazione tra ebrei che, in tale paese, godono di sovranità, residenza e cittadinanza ed ebrei che in altri diversi Stati, beneficiano di altrettanta e diversa sovranità, residenza, cittadinanza. Nel caso di Israele, tale costruzione ha una sua specificità nella relazione stabilita con quell’insieme di potenziali cittadini, gli ebrei di tutte le comunità del mondo, considerati tali indipendentemente dalla loro scelta o meno di trasferirsi nel paese. Questa condizione non è del tutto assente in altre legislazioni: per esempio, nel caso dell’Italia, i cittadini emigrati che hanno acquisito un’altra nazionalità possono riavere quella italiana. Tale condizione è peraltro preceduta dal possesso di una cittadinanza anteriore a cui si consente di tornare. La situazione peculiare degli ebrei della diaspora trae origine dalle tragedie del popolo ebraico ed è vissuta dagli ebrei stessi come una testimonianza di quel legame che nasce dalla comune esperienza di oppressione in ragione della propria origine. D’altro lato, le conseguenze della storia recente, per esempio in Italia, con l’emanazione di leggi spe-
34 35
A. Rossi Doria, Il conflitto tra memoria e storia. Appunti, in S. Meghnagi, op. cit., pp. 59-71. Cfr. S. Berti (a cura di), Trattato dei tre impostori, Einaudi, Torino 1994.
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cifiche che negavano la piena cittadinanza agli ebrei, non sono ancora totalmente superate.36 Del resto questa condizione, oggi, non ha il carattere dell’eccezionalità. «Molti dei nostri contemporanei – scrive Bauman – sono stranieri, poco sappiamo delle loro vite, meno capiamo. Assumiamo che, ove comunichiamo con loro dovremmo superare la mutua incomprensione, un ostacolo che scaturisce dalla poca chiarezza, o forse impenetrabilità dei segni che denotano le intenzioni di ciascuno».37 La costruzione delle identità va, per tutto ciò, affrontata come parte di un processo più ampio e la prospettiva attuale è quella di guardare all’azione culturale come strumento che rafforzi la capacità di fronteggiare, a livello individuale e collettivo, l’incertezza legata alla vulnerabilità, anche attraverso la ridefinizione di sé, come entità individuale e parte di un’entità comunitaria, di fronte al cambiamento.38 Il processo è complicato, contraddittorio e caratterizzato da una sostanziale «turbolenza»,39 presente ogni qual volta ci si muove sul terreno dei processi identitari. Si pongono, per tutte le comunità di minoranza, due quesiti: il primo è legato alla specifica elaborazione identitaria e, in relazione ad essa, alle forme di trasmissione attraverso istituzioni e servizi. In tale ambito, la dimensione religiosa assume un carattere predominante e la tradizione culturale viene presentata, prevalentemente, in ragione di riferimenti di fede. Tale legame è ineludibile. Si pone tuttavia la necessità di mantenere inalterata la coerenza con cui, nel corso del tempo, si è teso ad affermare i principi della convivenza civile, al di là della religione, e a sostenere la laicità come garanzia di diritti uguali per tutti i cittadini.
36 Cfr. AA.VV., 1948-1998, Il lungo cammino della libertà, Camera dei Deputati, Roma 1988; M. Toscano (a cura di), L’abrogazione delle leggi razziali (1943-1987), Senato della Repubblica, Roma 1988; E. Campelli, Figli di un dio locale, Franco Angeli, Milano 2004; M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, Angeli, Milano 2003. 37 S. Bauman, «Strangers: The Social Costruction of Universality», in Telos, n. 78, 1988-89, pp. 7-43. 38 Cfr. W. Privitera, Sfera pubblica e democratizzazione, Laterza, Bari 2001. 39 Cfr., tra gli altri, S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza, Feltrinelli, Milano 2004.
Antonio Demma Franz Kafka: il luogo messianico
Greci ed ebrei: la Moira e lo spazio La ricorrenza del termine messia nell’opera kafkiana è rara, eppure le riflessioni intorno alla redenzione sembrano dare l’aria per il respiro a molti personaggi e il fiato per il canto alla stessa Josephine, la protagonista di uno degli ultimi racconti di Kafka. Pochi sono i luoghi dove esplicitamente si pronuncia la parola messia, e tuttavia ve ne sono, e proprio da questi luoghi sembra dipanarsi la riflessione sul luogo del messianico. La prima domanda sul messia è certamente quella che chiede il quando: Il messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà solo un giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo.1
Esiste un orizzonte culturale, contemporaneo a Kafka, che potrebbe ricomprendere l’atmosfera di questa riflessione: il chassidismo.2 Questo universo fu conosciuto dallo scrittore soprattutto grazie a Jiri Langer3 a partire dal 1914. Il confronto con questo mondo e con i due personaggi che in modo diverso si proposero come mediatori tra la lingua tedesca e il chassidismo, Langer e Martin Buber, raggiungerà spesso toni aspri se non addirittura polemici, ma qualcosa di quell’atmosfera fatta di miseria e misticismo donerà a Kafka l’appiglio per le sue riflessioni sulla redenzione.
1
p. 84.
Franz Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, Mondadori, Milano 2004,
2 Non stiamo qui sostenendo una adesione acritica di Kafka al chassidismo. Dall’epistolario è facile notare come lo scrittore abbia ingaggiato un vero e proprio corpo a corpo con quel mondo che, nello squallore esteriore, lasciava intravedere qualcosa della grande mistica ebraica; il rapporto che lo scrittore instaurò con questo universo fu fortemente dialettico e vide momenti di estrema vicinanza alternarsi e integrarsi con momenti di violenta critica e prese di distanza. Per una ricostruzione di questo rapporto e un approfondimento sulle possibili fonti, si rinvia a K. Grözinger, Kafka e la Cabbalà, La Giuntina, Firenze 1993. 3 Jiri Langer, nato nel 1894, morì in Palestina, a Gerusalemme nel 1943. Si era avvicinato alla devozione ebraica fin dagli anni 1910-11, apprese l’ebraico e nel 1913 si recò nello shtelt galiziano di Belz per diventare un chassid; prima del 1914 ritornò a Praga trasformato in un chassid, gettando il discredito sulla propria famiglia di ebrei assimilati e diventando lui stesso la favola della città. Nel 1937 pubblicherà Devet bran Chasidu tajemstvi (trad. it. Le nove porte. I segreti del chassidismo, Adelphi, Milano 1967) una raccolta di racconti, leggende e memorie personali, che resta una delle poche testimonianze dirette di un mondo che pochi anni dopo sarebbe stato annientato dalla guerra.
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In un racconto chassidico riportato da Buber si parla di un mendicante alle porte di Roma; egli è il messia e aspetta; alla domanda su chi stesse aspettando la risposta del rabbi è: «te». Ognuno è atteso alle porte di Roma, non lontano dal potere, ma alle sue porte ed è da lì, nelle prossimità dello Stato, che si è attesi per lasciare avvenire ciò che è atteso, solo da lì si può ri-pronunciare la parola che dà nuovo inizio alla creazione. Il messia arriverà solo quando la sua casa sarà già pronta, non l’ultimo ma l’ultimissimo giorno, cioè quando non ci sarà più bisogno di lui, quando l’opera messianica sarà già compiuta e la creazione si sarà già redenta da sé, quando ognuno avrà già liberato la scintilla messianica del proprio agire. L’interrogazione di Kafka a questo punto sembra subire una torsione: se il messia arriverà a cose fatte, la domanda fondamentale circa il «quando» non può non trasformarsi in una domanda circa il «dove». La riflessione sul messia dovrà quindi trasformarsi in una riflessione sullo spazio, in un’indagine topografica che dovrà cercare il luogo adeguato all’accadere di quell’azione umana che lascerà venire il messia. In una lettera indirizzata a Max Brod del 7 agosto 1920 troviamo un importante commento sul mondo greco: Non posso dire di essere d’accordo con te o, dirò meglio, condivido forse soltanto il tuo accordo segreto col Paganesimo [...]. I greci conoscevano benissimo un certo dualismo, altrimenti che significato avrebbe avuto la Moira e molte altre cose? Ecco erano gente particolarmente umile (in senso religioso), una specie di setta luterana. Immaginavano il divino il più possibile lontano da sé, tutto il mondo degli dei era soltanto un mezzo per allontanare l’elemento decisivo dal corpo terreno, per dare aria al respiro umano. Un grande mezzo educativo della nazione, il quale incatenava lo sguardo degli uomini ed era meno profondo della legge giudaica, ma forse più democratico (qui non c’erano, si può dire, condottieri e fondatori di religioni), forse più libero (incatenava, ma non so con che cosa), forse più umile (poiché la vista del mondo degli dei affacciava alla coscienza questa idea: dunque non siamo nemmeno dei, e se fossimo dei che cosa saremmo?4
I greci erano gente particolarmente umile, che si serviva degli dei per allontanare l’elemento decisivo dal corpo terreno. Le divinità erano solo un escamotage per allontanare l’oscurità della Moira e di «molte altre cose». Gli dei erano un paravento all’abisso della prossimità della Moira. Lo spazio creato dall’interposizione delle divinità lascia libero il respiro, si costituisce come lo spazio illusorio entro cui muoversi, «forse» con maggiore libertà, anche se comunque è uno spazio che incatena. La Moira si presenta come quella forza oscura che deve essere allontanata dal corpo, è l’impensabile trascendente a cui gli dei stessi sono sottoposti e verso cui i greci non osano neppure sollevare lo sguardo. Solo gli dei possono avvertire la prossimità della Moira e solo essi stessi possono sopportarne il peso della presenza. I greci si sono creati il loro spazio «blasfemo» entro cui perpetuare il tentativo di una perfetta felicità terrena. In teoria esiste una possibilità terrena di perfetta felicità, quella di credere in ciò che è decisamente divino e di non aspirare a raggiungerlo. Questa possibilità di essere felici è altrettanto blasfema quanto irraggiungibile, ma i greci le furono vicini più di molti altri.5
4 5
F. Kafka, Lettere, Mondadori, Milano 2001, pp. 335-336. Ibidem, p. 336.
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L’orizzonte protetto entro cui i greci compiono il loro tentativo di felicità si mostra come quel luogo dove è possibile credere a ciò che è divino senza poter aspirare a raggiungerlo, gli dei sono il paravento protettivo e al tempo stesso l’ostacolo insuperabile sulla strada che avvicinerebbe alla Moira. Solo in questo luogo dell’illusione è possibile il tentativo dell’assoluta felicità terrena, blasfema perché libera dalla richiesta di qualsiasi istanza di legalità sulla creazione. La Moira nella sua accezione comune può essere identificata con il fato, ma Kafka sembra qui riferirsi a una nozione più complessa, che arriva a rappresentare ciò che trascende le stesse divinità olimpiche, lasciando intuire la conoscenza del dualismo del mondo ellenico. Tale intuizione è tenuta però lontana al fine di preservare quello spazio libero in cui può darsi la felicità. La Moira dunque non è il destino (nel senso paolino del termine), è qualcosa di molto più potente, è la parte nascosta dell’idea di divinità; solo l’illusione che traduce il nascondimento in lontananza rende pensabile l’ipotesi della felicità terrena che non aspira alla possibilità del giudizio. Nell’universo ebraico questa illusione non è data, la prossimità impone l’esigenza di un nuovo sotterfugio, la prospettiva greca sembra essere capovolta, nella forma del Dio prossimo che impone la domanda e obbliga all’interpretazione, lo spazio non è dato se non nell’illusione del movimento che fugge il giudizio. Ed è proprio in questa illusione che si perpetua un nuovo capovolgimento: i tribunali celesti assumono la forma del destino e i suoi esecutori prendono il posto delle divinità olimpiche. Il destino stesso si risolve nella forma del rituale illusorio in cui possono vivere le istanze legali che aumentano la distanza, e perciò la colpa, ma che impongono il compito della percorrenza. L’istanza interpretante perpetua l’utopia dello spazio nella forma dell’interpretazione, non un vero e proprio respiro, ma un singhiozzo che permette di dire ancora là dove non sembra esserci più spazio per lo stesso respiro. La scena del destino: scenografia del Processo La stesura della mappa dei tribunali, a cui assistiamo durante lo svolgimento del Processo, sembra tradursi nella costruzione di un impossibile spazio scenico. I tentativi ermeneutici del protagonista si risolvono nella raffigurazione di un’incommensurabile geometria: la narrazione di un qualsiasi destino si infrange di fronte alla sua stessa raffigurazione. L’istanza del destino si propone nella forma del diritto, ma deve infrangersi là dove il suo compimento in immagine sembra attestarne la legittimità; il tribunale sembra costruirsi come la scena di una rappresentazione, ma proprio quando il tutto sembra compiersi, l’interpretazione, come l’eco di qualcosa che viene dall’al di là del mito, infrange il silenzio del compimento del destino. I due esecutori del Processo compiono le azioni rituali, controllano il taglio del coltello per verificare che non ci siano tacche che renderebbero impura la macellazione, il rito sembra volgere al termine e l’assoluta accondiscendenza di K. sembra condurlo verso il proprio tikkun. La posizione in cui lo adagiano risulta però innaturale e scomoda: «infine lasciarono K. in una posizione che non era nemmeno la migliore tra quelle già raggiunte».6 Il cerimoniale volge al termine, e proprio nel momento in cui
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F. Kafka, Romanzi, Mondadori, Milano 1991, p. 531.
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la macellazione rituale sta per compiersi, proprio nel momento in cui Josef K. sta per far rivivere il mito della condanna e della esecuzione, una finestra si apre: come una luce guizza all’improvviso, così si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo debole e sottile a quella distanza e altezza, si sporse di colpo molto fuori e per giunta tese le braccia [...] era ancora possibile ricevere aiuto?7
Il rito nella sua forma mitica e terrifica involve su se stesso, il condannato che compie il tikkun è il nuovo Isacco salvato quando la sua testa era già sul sasso: «c’erano obiezioni dimenticate? Certo che ce n’erano. La logica è bensì incrollabile, ma non resiste a un uomo che vuol vivere».8 L’interrogazione interpretante ricomincia il processo, non può chiudersi con quella destinazione: lo stesso mito del destino e dell’esser condannati è passibile di interpretazione. Il rituale si rivela una messa in scena parziale che lascia rivivere il mito solo nella sua forma intesa come immagine parziale della verità. La morte è impossibile perché interminabile, è il processo che interroga la creazione sul come della rivelazione. «Come un cane! Disse e parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere»: la vergogna che lascia sopravvivere il non compimento di un impossibile tikkun non è la vergogna di Josef K., bensì la vergogna di tutta la creazione incapace di comprendersi per vera. Josef K. ora è un cane che pone nuovamente la sua domanda interminabile alla creazione, un cane che è già morto e perciò non potrà più morire in quell’universo colpevole dove la morte si dà come la più lontana delle utopie. La necessità del procedimento e la sua messa in scena si mostrano come una necessità non necessaria. Il riproporsi di ulteriori istanze invalida anche quell’ultima sconsolata ammissione che faceva della menzogna una regola universale. Il procedimento e la forma del destino che in esso si esprime sono l’ennesimo inganno attraverso cui l’imperativo interrogante cerca di sottrarsi alla domanda. L’ultimo tentativo di costruire un ordine nello spazio sotto la forma mitica del destino e della necessità del procedimento è invalidato dal mito stesso. La figura di Isacco sottrae il condannato al tikkun, l’esecuzione si compie, ma la restituzione dell’ordine allo spazio è negata come è negata la verità alla stessa storia di Isacco. La vergogna spande la sua eco nello spazio e ripropone l’imperativo della distanza, di uno spazio impercorribile e che per ciò stesso esige una percorrenza infinita. L’ordine dell’immagine: la torre di Babele e il paradiso La speranza di una destinazione nella percorrenza subisce l’irresistibile fascinazione del desiderio di un ordine, inteso come assetto dello spazio e al tempo stesso come comando o divieto. L’immagine pone in essere la sua aspirazione totalitaria in alleanza con il mito ma, proprio dall’interno della lettura del mito, essa dovrà mostrare la sua parzialità, il suo essere falsa. L’immagine dovrà guardare a se stessa come l’aspirazione a una verità che si dà come la negazione della possibilità stessa della rappresentazione: dovrà negare se stessa per potersi dare per vera.
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Ibidem, p. 532. Ibidem.
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La reinterpretazione del mito ripropone l’esigenza dello spazio e l’impossibilità di un ordine di percorrimento; il tentativo più blasfemo mai compiuto nella storia di porre un ordine che percorresse verticalmente lo spazio si risolve in un nulla di fatto, il vero divieto circa la torre di Babele consisteva nel divieto della sua scalata: «Se fosse stato possibile costruire la torre di Babele senza scalarla, sarebbe stato concesso».9 Ciò che viene concesso è la saga che racconta la distruzione che non è mai avvenuta, così come mai è avvenuta la stessa costruzione. Tutte le saghe e i canti che sono sorti in questa città sono pieni della nostalgia di un giorno profetizzato, in cui la città sarà annientata da un pugno gigantesco.10
Il compito totalitario si frantuma nei preparativi per la costruzione che lasciano sviluppare la torre orizzontalmente fino a dimenticarne l’originario intento verticale. Il comandamento della distanza è così rispettato senza che nessun giudizio di collera sia mai stato realmente eseguito. La torre di Babele non fu distrutta, bensì fu costruita frantumata orizzontalmente (senza ordine, o meglio in attesa dell’ordine). In altri termini, l’esecuzione della distruzione racconta solo la speranza mitica di un giudizio eseguito nella chiave della condanna che ponesse l’esplicito divieto della scalata, in realtà mai nessuno ha potuto porre nemmeno un sasso con l’intento di elevare la torre. L’azione più totalitaria che la memoria umana ricordi non è mai stata compiuta, nessuna opera che aspirasse al cielo è mai stata realizzata e la stessa punizione è solo un’aspirazione al giorno del giudizio. Nessuno ha mai posto un sasso con l’intenzione di elevare la torre, eppure la torre esiste, costruita orizzontalmente in uno spazio senza un ordine dove la profezia si rivolge a un passato mitico in cui la torre sarebbe stata distrutta, a un passato in cui la punizione avrebbe sancito la legittimità stessa del destino, ordinando lo spazio nel senso di un divieto verticale. L’infondatezza di questa aspirazione si rivolge al futuro con nostalgia, alla speranza non di una realizzazione, ma della distruzione che legittimerebbe l’inganno del destino. La distruzione però è già avvenuta nella costruzione senza ordine. Nella categoria del destino si mostra una falsa idea della verità. L’ordinarsi dello spazio sotto l’egida del destino è impossibilitato dalla stessa domanda sul vero, dalla stessa aspirazione a un compiersi del vero in immagine inteso come spazio ordinato. La tensione dall’albero della conoscenza verso l’albero della vita, da cui «ancora non abbiamo assaggiato»,11 si traduce nella più disperata delle speranze. L’aspirazione al paradiso in cui già siamo stati deve risolversi nell’aspirazione a una perfetta felicità terrena (che consiste nel credere in ciò che è decisamente divino e di non aspirare a raggiungerlo), un’aspirazione blasfema e, pertanto, forse, storica. Un anelito che sarebbe un perfetto mezzo di educazione per la nazione nel caso dei greci e che nel presente deve confrontarsi con la propria vacuità. Il non aspirare a raggiungere la felicità come rinuncia all’illusione di un’immagine compiuta e definitiva del luogo messianico. È possibile soltanto l’immagine di quel luogo senza luogo che si dà in ogni luogo: quella torre di Babele che si trova ovunque.
F. Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2004, p. 32. F. Kafka, Tutti i racconti, Newton Compton, Roma 1988, p. 281. 11 F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 96. 9
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Con Scholem possiamo affermare che le riflessioni di Kafka sono: «Riflessioni che, a dire il vero, sembrano uscite da una Kabbalah eretica».12 Ponendo la domanda sulla massima distanza pongono un’ideale confine tra religione e nichilismo: Kafka ha infatti portato a espressione in modo insuperabile il confine tra religione e nichilismo. Ecco perché i suoi scritti, versione secolarizzata di un sentimento cosmico che è proprio della Kabbalah (a lui comunque ignota),13 possiedono, per alcuni lettori odierni, il nitido splendore dei testi canonici: lo splendore della perfezione infranta.14
Gli scritti di Kafka si presentano come la radicale secolarizzazione di un sentimento cosmico proprio della Kabbalah. La versione secolarizzata di tale sentimento si traduce nella più lucida presa d’atto di una distanza, la più incolmabile che si possa dare rispetto a tale sentimento. Lo splendore della perfezione infranta ravviva l’impulso più autenticamente mistico della Kabbalah stessa. Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servire noi. La nostra destinazione è stata mutata; non è detto che sia stata mutata anche la destinazione del paradiso.15
L’interrogazione sulla destinazione del paradiso riapre lo spazio un tempo appartenuto al «chi», che ora non può che risolversi in un «dove», nell’aspirazione cioè a uno spazio verso cui è ancora possibile una tensione disperatamente utopica. Kafka non espone una teologia, egli incarna quell’impulso mistico che si rivolge per l’ultima volta al Nome, in un universo da cui il Nome si è ritratto. Le tracce della perfezione infranta lasciano vivere la tensione a un ordinarsi nello spazio di quelle tracce, di una nuova tensione simbolica che vive però lo smacco di un’impossibilità del rimando. Ciò che rimane di quello splendore è l’eco della domanda che si traduce nella forma dell’ironia, un’ironia secolarizzata e carica di disperazione, che tuttavia conserva in sé tracce della stessa ironia non secolarizzata che risuonava nelle interrogazioni profetiche. L’opera: la colonia penale La speranza messianica si traduce nella tensione a un dove così come l’arte non può che risolversi in un tentativo topografico finalizzato all’autodistruzione. La fede nell’assoluto del linguaggio, quella fede che cerca di rispondere alla domanda che si interroga sulla dignità di un linguaggio da cui Dio si è ritratto, trova forse una sua risposta nel lasciar essere, nella forma del ridicolo, «quel mistero che nel linguaggio
12 Gershom Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Adelphi, Milano 1998, p.102. 13 Alcuni recenti studi hanno mostrato come tale assunto risulti in parte errato. Kafka ebbe rapporti molto intensi con il chassidismo praghese sotto la guida di Jiri Langer. Per ulteriori approfondimenti su questo argomento, si rinvia a K. Grözinger, Kafka e la Cabbalà, cit. 14 Ibidem, p. 102. 15 F. Kafka, Aforismi di Zürau, cit., p. 84.
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è divenuto udibile».16 La forma del ridicolo ora sarà assunta nella stessa idea di opera, l’arte dovrà costruirsi nella propria insufficienza e incompiutezza in una devota tensione alla distruzione dell’immagine e nell’imprescindibile compito dell’autodistruzione: «l’arte si auto oblia, si auto sopprime: ciò che è fuga si fa passare per passeggiata, o addirittura per assalto».17 L’opera è insufficiente per la verità, essa si dà come verità parziale e rappresenta un escamotage inadeguato alla redenzione. La verità della macchina nella Colonia penale era data dalla incompatibilità con le opinioni che ne negavano la giustezza, il semplice parere di uno straniero è sufficiente a distruggerla e a condannarne il custode a una morte nella menzogna. Della stessa menzogna è carica l’effigie sulla tomba del vecchio comandante che preannuncia una resurrezione da dentro un vecchio locale per il tè. La procedura della macchina, così come quella dell’arte, risultano vere fino a quando si danno come procedure, come un rimando alla verità; il tentativo di fermare tale verità in un’immagine di certezza non si traduce in altro che in un’autodistruzione dell’arte stessa. Ciò che l’arte pretende nel suo rapporto con la verità è la tensione all’immanenza del vero nell’opera stessa. Lo stato di tensione nega tale immanenza fino al momento in cui l’opera non si compie come immagine, rinunciando alla tensione e riconoscendosi come verità parziale, come falsità, autodistruggendosi. Nella pretesa di verità che il custode avanza nei confronti della macchina si esplicano le indicazioni «spaziali» fornite dal racconto: «una vallata assolata», e poi quel singolare posizionarsi rispetto alle altre corti: «Altre corti di giustizia [...] hanno sopra di loro altre istanze, corti di grado più elevato. Qui non è così».18 Quella che doveva essere una delucidazione sulla procedura si traduce in un’indicazione spaziale, in un posizionarsi in un non-luogo rispetto alle altre procedure. Non si sta, infatti, affermando che la procedura nella colonia è al vertice di tutte le istanze, al contrario, si dice che tutte le istanze sono contenute nella macchina. La colonia si rivela come il luogo dell’assoluta immanenza, uno spazio pervaso di luce, dove la tensione alla verità implode nel tentativo di fermare la verità nell’immagine dell’opera. Si tratta di una macchina della fiducia, il tentativo folle di riprodurre nell’opera la vita sotto l’egida della giustizia, il tentativo blasfemo della legalità di darsi come legge. La distruzione arriva nel momento in cui l’opera era destinata a compiersi nella realizzazione della redenzione del proprio custode, in cui si sarebbe dovuto realizzare il «sii giusto» che egli aveva inseguito nel corso di tutta l’esistenza e che impone alla macchina come ultimo comando. Il tentativo dell’ufficiale si traduce in un tentativo di traduzione del piano etico in un piano gnoseologico, la macchina nel suo esser opera doveva essere lo strumento di redenzione, ma proprio la non coincidenza dei piani conduce alla rivolta della macchina che si mostra come istanza illegale, o meglio: legale nel senso del diritto, legale nei termini in cui persegue il diritto e non la giustizia. La sua ultima esecuzione, in cui il condannato si è riconosciuto colpevole d’ingiustizia, nega la redenzione promessa, negando lo stesso riconoscimento di colpa. La macchina si distrugge forse perché l’ufficiale era innocente o forse, più probabilmente, per ribadire l’«illegalità» della grazia. Tutta la colonia versa in un progressivo stato di dimenticanza, l’ultimo barlume di memoria è
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Ibidem, p. 90. F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 91. F. Kafka, Strafen/Punizioni, Einaudi, Torino 1997, p. 200.
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conservato dall’ufficiale, questa dimenticanza ha lasciato che la verità della macchina divenisse immemore e che la tomba del creatore venisse posta sotto un tavolo. La procedura legata al macchinario si erge come figura terrifica destinata a scomparire, come ultima forma di un mito, quello del creatore, che slegato da qualsiasi contesto aspetta un ultimo giudizio per la propria scomparsa e per una definitiva redenzione. La macchina è mostrata come relegata in un angolo della colonia, e la sua esistenza è tollerata solo grazie alla devozione del suo custode, nessuno può più decifrarne i messaggi e nessuno più è disposto a ripararne gli ingranaggi, il suo stesso compito è mutato: da strumento di giustizia si è trasformata in ordigno del terrore, un terrore la cui ragione si perde nella immemorabile opera compiuta dal suo costruttore. La macchina, un tempo realizzazione vivente della giustizia, ora è trasformata in effigie di un ricordo immemorabile; l’ultimo sguardo sulla macchina la mostra immobile con il cadavere del suo custode attaccato ai suoi aghi, nessuno più ora conserverà tracce di quella procedura, tranne quell’ultimo scritto nei locali del tè: Qui riposa il vecchio comandante [...]. Dice una profezia che dopo un certo numero di anni egli risorgerà e da questa casa guiderà i suoi seguaci alla riconquista della colonia. Abbiate fede e attendete!19
Quella lapide è custodita sotto il tavolo di un locale fumoso, il solo commento riservatole è il sorriso di coloro che la leggono, in essa non sopravvive più neanche il terrore di quel mito che la macchina incarnava. Il mito si perde nel riso insieme alla possibilità di memoria che il custode e la macchina ancora potevano rappresentare, il terrore sconfitto dall’ironia lascia spazio a un orrore più grande, all’impossibilità di qualsiasi redenzione. L’unica traccia di una promessa di redenzione viene proprio da quella ridicola profezia incisa sulla lapide. Il mito, inteso come mito della redenzione, sopravvive in ridicole tracce sparse nel presente, inadeguate ad una qualsiasi traduzione. Solo un luogo sopravvive, un dove senza direzione da cui forse viene ancora la speranza del movimento, uno spazio che dia ancora un po’ di respiro sufficiente a una messa in scena. L’utopia di un movimento impossibile lascia essere l’impraticabile speranza di una immagine del vero, la creazione artistica, la scrittura si rivela come la piena assunzione della colpa del farsi immagine, là dove l’immagine non può compiersi. Josef. K. nel Processo come eroe trovatore si muove nell’illusione di una fuga dalla bilancia, la ricerca giudicante trattiene gli elementi per un’immagine vera del tribunale, ma la memoria è straordinariamente breve e la facoltà di giudizio inadeguata a confrontarsi con gli abissi dell’interpretazione. Lo spazio è da intendersi come l’ultima forma del mito laddove la letteralità e la diacronicità della parola rendono impossibile qualsiasi speranza di movimento nell’orizzonte del narrare. Solo l’utopia dello spazio lascia ancora essere la speranza di una narrazione giudicante tesa al vero come immagine. La possibilità di muoversi nella colpa lascia essere l’imprescindibile necessità di un interpretare narrante che nel «non» della redenzione lascia vivere una non aderenza all’abisso della parola. Il divieto di interpretare la leggenda, lo stesso divieto ricordato da Josef K. all’uscita del duomo, si traduce nel divieto di farsi immagine, il piano sincronico della narrazione interpretante deve infrangersi necessariamente di fronte alla polisignificanza e alla plurinterpretabilità della parola
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Ibidem, p. 203.
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che si dischiude come abisso della diacronia. L’immagine che così si autodistrugge lascia aperto uno spazio di non coincidenza all’interno della colpa, dove la stessa immagine può sopravvivere come il «non» di se stessa. In questo non-luogo della negazione dell’immagine si perpetua la vicenda del mito dello spazio in cui deve darsi un impossibile percorrere narrante. La forma del racconto organizza uno spazio impercorribile seguendone le linee prospettiche, organizzandolo in un oggetto, ma la «verità è una corda tesa rasoterra fatta per inciampare»:20 solo la totalità delle linee svolge lo stesso oggetto nientificandolo nella totalità delle linee a esso connesse. Si è parlato di forme cinesi a proposito delle parabole kafkiane, di origami che aperti e indagati nelle loro linee costruttive tornano a essere quei fogli bianchi che erano stati in partenza; la struttura dei racconti kafkiani porta in sé questa potenzialità: essi narrano l’impossibile darsi del vero in una forma che non può non darsi come una ricerca del vero nella creazione di una forma che riscrive i segni di una avvenuta narrazione. I segni della scrittura solcano lo spazio bianco raccontando una comunicazione avvenuta e uno spazio percorso, ma proprio questa attestazione nella scrittura relega il movimento e la comunicazione in un passato nuovamente irrecuperabile e in uno spazio ormai impercorribile. La scrittura kafkiana riproduce la puntualità della preghiera solo nel suo esser da sempre postuma a se stessa. Laddove uno svuotarsi della tradizione pone il divieto di parlare delle leggende, solo una scrittura che si pone come postuma può assumersi il compito di raccontare ancora un impossibile racconto. Abramo Le aspirazioni messianiche legate all’opera dello scrittore Franz Kafka sembrano risolversi in un fallimento. Lo spazio che l’opera concede è solo quello di un’illusione. Seguendo le considerazioni di Walter Benjamin in una lettera a Scholem del 12 giugno del 1938, possiamo affermare che, sotto la luce di un impossibile racconto, si svolge la vicenda dell’enigmatica serenità di Kafka, la serenità dello scrittore Franz Kafka che sgorga da una constatazione disperata: «vi è una quantità infinita di speranza, solo non per noi. Questa frase racchiude veramente la speranza di Kafka».21 In questo «non per noi» Kafka ha trovato la legge del suo viaggio e del suo fallimento, che «gli riuscì come in un sogno».22 Il presente ha così dischiuso a Kafka la strada verso la tradizione mistica, ma a un prezzo altissimo: essa ha perso la sua dottrina e si è smarrita in un puro tramandare, una trasmissibilità vuota che trova il suo compimento solo nella follia. La tensione e il luogo di questa «follia» lasciano aperto uno spazio di non soluzione, un luogo indeciso da cui nessun presente può pretendere un ordine. Se l’oblio è il propulsore del viaggio di Kafka, la follia ne sarà la sua legge ineludibile. Insieme a Benjamin e diversamente da lui, bisogna seguire
F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 84. Walter Benjamin, Lettere 1913-1940, Einaudi, Milano 1978, p. 348. 22 Questa lettera di Benjamin si presenta come una vera e propria messa in questione del saggio su Kafka del 1934, le implicazioni delle affermazioni qui contenute richiederebbero una trattazione specifica che, oltre al saggio del ’34, dovrebbe prendere in considerazione la lettera del 7 maggio 1940 indirizzata ad Adorno (ibidem, p. 402), dove l’idea del fallimento qui espressa sembra subire di nuovo una ridiscussione. 20 21
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la legge di questa stessa follia. Un «non essere per noi» di nessun messaggio laddove nessuno potrà decidersi per alcun messaggio; laddove, in altri termini, nessuna sovranità potrà pretendere di fornire un ordine allo spazio, nessuna decisione sarà in grado di dare un’immagine al presente. Ogni tentativo di cristallizzare in immagine la tensione verso il «dove» non può non tradursi in vuoto simulacro del potere, dove è proprio il potere a sostituirsi alla fiducia, potere come luogo vuoto e distrutto che emula la vita nella legge sostituendo le gerarchie alla fiducia. Forse è proprio di fronte a questa opzione che Kafka arresta il suo viaggio e accetta il proprio «fallimento», di fronte allo specchio del futuro egli lascia uno spazio di non-decisione. In quello stesso luogo da cui Carl Schmitt poteva affermare: molto più della tecnica, il potere è sfuggito dalle mani degli uomini e gli uomini che esercitano il potere sugli altri [...] non vivono più in un contesto «umano».23
Kafka chiama in campo tutta la forza della tradizione per togliere legittimità al potere e, se Schmitt deve conclude che «Certo, essere uomini resta pur sempre una decisione»,24 Kafka delegittima Abramo, il campione stesso della decisione. Rispondendo alla chiamata più autentica della mistica, egli produce una tensione al «dove» inteso come possibilità di percorrenza dello spazio che deve infrangersi di fronte all’ironia che, dall’insondabile profondità della sua scaturigine, ribadisce qualcosa di più profondo della decisione stessa. La decisione si presenta come parzialità che traduce la verità in immagine: nessuna decisione è possibile se non nei termini della menzogna, così come nessuna teosofia può darsi in termini positivi se non nella forma dell’idolatria. L’universo ebraico-cristiano trova in Abramo il campione della scelta, ma l’Abramo di Kafka non può che confrontarsi con il ridicolo, quel ridicolo che aveva istruito Giona e Giobbe, e che ora lascia sopravvivere qualcosa dell’immemorabile eco del messaggio nelle ridicole tracce del presente. In una lettera a Klopstock del giugno 1921, Kafka scrive: Potrei immaginare un altro Abramo [...] che fosse pronto ad adempiere la richiesta della vittima, pronto come un cameriere, ma ciò nonostante non riuscisse a fare il sacrificio perché non può allontanarsi dalla casa.25
Abramo qui è chiamato e risponde lesto come un cameriere, ma qualcosa lo trattiene nella casa: egli deve mettere in ordine e questo gli impedisce di recarsi sul monte e di compiere il sacrificio. Un rinvio tra la chiamata della condanna e l’esecuzione salvano Isacco. L’ironia si concentra su un aspetto marginale della storia di Isacco: la casa di Abramo, senza cui non avrebbe neanche avuto il coltello per il sacrificio. Isacco è salvo per un rinvio, forse una scusa, in ogni caso la voce è ancora udibile. Ma accanto a questo Abramo ce n’è un altro: uno che vuole assolutamente offrire il sacrificio giusto [...] ma non può credere che tocchi a lui, l’antipatico vecchio, e a suo figlio, il sudicio giovane [...]. Egli teme che uscirà a
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Carl Schmitt, Dialogo sul potere, Il Melangolo, Genova 1990, p. 39. Ibidem, p. 45. F. Kafka, Lettere, cit., p. 394.
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cavallo in qualità di Abramo con suo figlio, ma lungo il percorso teme di trasformarsi in Don Chisciotte. Il mondo di allora sarebbe rimasto atterrito se avesse guardato Abramo, questo invece teme che a quella vista il mondo muoia dal ridere [...]. Un Abramo che arriva senza essere chiamato!26
Se il vecchio Abramo non aveva bisogno di comprendere il paradosso, «egli, però, non ha bisogno di capirlo, e perciò nemmeno di interpretarlo per se stesso»27. Il nuovo Abramo è attanagliato dall’incombenza dell’interpretazione, egli teme il ridicolo «e la sua partecipazione alla risata»,28 ma, più di ogni altra cosa, teme che la chiamata non sia rivolta a lui. Egli ha fede e crede nel paradosso, ma l’interpretabilità stessa del messaggio, e del suo indizio, lo paralizza di fronte allo spettro di Don Chisciotte: egli può smarrirsi nel viaggio e arrivare come un Abramo che non è stato chiamato. Il dubbio della chiamata lascia sopravvivere uno spazio di indecisione attraverso cui forse è possibile intuire ancora l’autentico insegnamento profetico. In un testo estratto da una conferenza del 2000 dal titolo Abramo, l’altro, Jacques Derrida afferma: sarei sempre tentato di pensare che un Kafka, per esempio, produca più futuro di tanti altri [...] con il suo richiamarci alla verità secondo cui chiunque risponda all’appello debba continuare a dubitare, a chiedersi se ha sentito bene, se non vi sia un malinteso originario, se sia risuonato proprio il suo nome, se sia il solo o il primo destinatario dell’appello, se non sia in procinto di sostituirsi violentemente all’altro, se la legge della sostituzione, che è anche la legge della responsabilità, non evochi un rilancio infinito di vigilanza e di inquietudine. [...] che ci sia ancora un altro Abramo, ecco dunque il pensiero ebraico più minacciato ma anche il più vertiginosamente, il più estremamente ebraico che io conosca fino ad oggi.29
Come vada inteso un vivere comune dove lo stesso Abramo vive nell’impossibilità di una qualsiasi scelta, come vada pensata una politica che possa prescindere dalla decisione e un mondo che possa immaginare un altro Abramo è forse l’interrogativo più profetico che l’opera di Kafka continua a dischiudere al nostro sguardo. Da una posizione che possiamo definire astorica, che tuttavia si muove nel più storico e astorico dei luoghi, la lingua, Kafka produce la sua interrogazione sulla destinazione del paradiso che lascia echeggiare la sua domanda sul nostro stesso presente. Un’interrogazione che può ancora indicare un luogo, un riparo ridicolo che lasci echeggiare il riso della profezia nei corridoi del «destino». Se i Greci avevano trovato il loro spazio nell’artificio olimpico, Kafka cerca il suo movimento in quel luogo che si dà come il «non» di ogni immagine, in quella percorrenza costruttiva che, edificando i palazzi del destino, ne mina le fondamenta. L’incidersi della scrittura si dà come un rimando all’enormità del bianco circostante; se l’istanza interpretante obbliga al movimento che costruisce ipotesi di verità, nessuna gabbia teologica sarà sufficiente a fermare il movimento, la gabbia stessa sarà
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Ibidem, p. 395. F. Kafka, Confessioni e Diari, Mondadori, Milano1996, p. 753. F. Kafka, Lettere, cit., p. 395. Jacques Derrida, Abramo, l’altro, Cronopio, Napoli 2005, pp. 91-92.
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costretta a spostarsi: «una gabbia andò a cercare un uccello».30 Si dovrà muovere per continuare a essere una gabbia, per continuare a essere ciò che impedisce il movimento, così facendo la gabbia chiede di essere ingabbiata da colui che doveva essere il prigioniero, e così all’infinito. Dagli spazi bianchi, compresi tra le linee costruttive dei tribunali, del Castello e di America (forse meglio sarebbe dire dell’America), emerge l’interrogazione sulla destinazione di un altro luogo o di quell’altra cosa rispetto a qualsiasi luogo che lascia essere ogni movimento come costruzione di spazio, dandosi come il «non» di ogni spazio. Un luogo, un dove, di cui forse bisognerebbe immaginare una destinazione, là dove nessuna destinazione può essere supposta. Il paradiso come l’antecedente di ogni destinazione che solo può indirizzare il nostro muoverci in una destinazione mutata e per ciò stesso mutevole. L’interrogazione si ripete in chiusura di discorso come l’impossibilità di qualsiasi conclusione: Noi fummo creati per vivere nel paradiso, il paradiso era destinato a servire noi. La nostra destinazione è stata mutata; non è detto che sia stata mutata anche la destinazione del paradiso.31
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F. Kafka, Aforismi di Zürau, cit., p. 30. F. Kafka, Lettera al padre. Gli otto quaderni in ottavo, cit., p. 96.
Tamara Tagliacozzo Messianismo e teologia politica in Walter Benjamin
Il tempo messianico La filosofia della storia di Walter Benjamin si sviluppa senza soluzione di continuità lungo tutto l’arco della sua produzione, da La vita degli studenti del 1914-151 alle tesi Sul concetto di storia del 1940. In essa è centrale la concezione teologica del tempo della storia come Jetztzeit (tempo-ora o adesso),2 contrapposto al tempo della meccanica omogeneo e vuoto, il tempo delle scienze naturali misurabile matematicamente: Il tempo della storia è infinito in ogni direzione, e incompiuto (unerfüllt) in ogni attimo (Augenblick). Vale a dire che non è pensabile nessun singolo evento empirico che abbia un rapporto necessario con la situazione cronologica determinata in cui accade. Per l’accadere empirico il tempo è solo una forma, ma – ciò che è più importante – una forma in quanto tale non colma (unerfüllt). L’accadimento non adempie (nicht erfüllt) alla natura formale del tempo in cui ha luogo. Poiché non si deve affatto pensare che il tempo non sia altro che il metro con cui si misura la durata di un cambiamento meccanico. Questo tempo è certo una forma relativamente vuota, che non ha senso pensare ricolma. Ma il tempo della storia è diverso da quello della meccanica. [...] la forza determinante della forma temporale della storia non può essere interamente compresa da alcun accadimento empirico, e non può essere interamente raccolta in alcuno. Un accadere siffatto, che sia perfetto (vollkommen) nel senso della storia, è invece del tutto indeterminato sul piano empirico – ossia è un’idea. Questa idea del tempo compiuto (erfüllt) è l’idea storica che domina nella Bibbia, dove ha nome: tempo messianico. [...] Il tempo tragico sta al tempo messianico come il tempo compiuto dell’individuo sta al tempo compiuto da Dio.3
Questa visione, che considera il tempo non come processo, ma come dimensione ideale (l’idea storica della Bibbia) in cui in un attimo si espone una dimensione
1 Walter Benjamin, Das Leben der Studenten, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, con la collaborazione di G. Scholem e Th. W. Adorno, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1974-1989, vol. II, tomo 1, pp. 75-87; tr. it. La vita degli studenti, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, a cura di G. Agamben, tr. di I. Porena, A. Marietti Solmi, R. Solmi, A. Moscati, Einaudi, Torino 1982, pp. 137-150. 2 Sulla genalogia del termine cfr. Fabrizio Desideri, Ad vocem Jetztzeit, in Id., La porta della giustizia, Pendragon, Bologna 1995, pp. 153-165. 3 Walter Benjamin, Trauerspiel und Tragödie (1916), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. II, tomo 1, p. 134; tr. it. Trauerspiel e tragedia in W. Benjamin, Metafisica della gioventù, cit., pp. 168-169, traduzione modificata.
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di totalità, eternità e compiutezza, si colloca nell’ambito ebraico del messianismo4 come dimensione restaurativa della storia, come ritorno a un regno di giustizia. La giustizia è nella tradizione biblica primo attributo di Dio: «Giusto è l’Eterno in tutte le sue vie e pieno d’amore per tutte le sue azioni [...] la tua giustizia è giustizia eterna».5 Essa è attributo del messia, segno distintivo dell’età messianica: «E sarà giustizia la fascia dei suoi lombi»,6 «Giustizia imparano gli abitanti della terra».7 Tra storia mondana e storia redenta si dà, nelle Tesi, un salto che ha luogo nell’immanenza, attraverso la memoria, la citazione e la conoscenza, con quel «balzo di tigre nel passato»8 che è proprio dell’azione rivoluzionaria:
4 Quasi non occorre ricordare che il punto di riferimento più importante per la formazione ebraica di Benjamin e per la sua concezione del messianismo è stato l’amico Gershom Scholem, legato a lui fin dal 1915, la cui enorme produzione su questo tema è nota. Cfr. Gershom Scholem, Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaft, Suhrkamp, Frankfurt/M., 19903, pp. 25-26 (tr. it. Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, a cura di E. Castellani e C. A. Bonadies, Adelphi, Milano 1992); Gershom Scholem, The messianic idea in Judaism and other essays on jewish spirituality, Schoken Books, New York 1971, 19952 (tr. it. L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, a cura di R. Donatoni e E. Zevi, con una nota di S. Campanini, Adelphi, Milano 2008). Cfr. ibidem, a p. 367 dell’edizione italiana, la nota di Saverio Campanini: «Il carattere essenziale dell’attesa messianica non è univoco ma contiene in sé due tendenze risolutamente contrapposte: da una parte l’aspetto restaurativo che viene a riequilibrare una Schieflage, una situazione sghemba, una condizione di disordine che genera ansia e scontento. D’altra parte, nella figura del messia i secoli della sua attesa hanno condensato una dimensione completamente opposta, la rottura, la novità radicale, la messa in causa di ciò che è e di quanto permette al mondo di sussistere, il suo carattere distruttivo o radicalmente apocalittico». Il punto culminante del progetto di Scholem sul messianismo è l’opera apparsa nel 1957 in ebraico e nel 1973 in inglese: Gershom Scholem, Šabbatay Sevi, the Mystical Messiah, Princeton University Press, Princeton, 1973 (tr. it. Šabbetay Sevi. Il messia mistico 1626-1676, a cura di C. Ranchetti, Einaudi, Torino 2001). Sulla dottrina teologica e politica di Scholem e di Benjamin cfr. Eric Jacobson, Metaphysics of the Profane. The Political Theology of Walter Benjamin and Gershom Scholem, Columbia University Press, New York 2003. Cfr. inoltre la monografia di Daniel Weidner Gershom Scholem. Politisches, esoterisches und historiographishes Schreiben, Wilhelm Fink Verlag, München 2003. Sul messianismo di Benjamin cfr. Fabrizio Desideri, «Il Messia di Benjamin», in Humanitas, N.S., anno LX, n. 1-2, gennaio-aprile 2005, pp. 278-302; Dario Gentili, «Messianesimo storico: Walter Benjamin tra Emmanuel Lévinas ed Ernst Bloch», in Links. Rivista di letteratura e cultura tedesca, II, 2002, pp. 73-90. 5 Sal. 119, 137, 142. 6 Is. 11, 5. 7 Is. 26, 10. Cfr. Gerardo Cunico, «Ripensare il messianismo. Introduzione», in Humanitas, 60 (1-2/2005), cit., pp. 5-27, p. 14: «Il messianismo non va allora definito come specifica attesa di un Messia personale, bensì come attesa di un futuro in tensione tra storia ed escatologia [...] come attesa di un compimento intrastorico ma totale, radicale e universale, che si colloca come premessa [...] di un compimento escatologico di tutta l’esistenza storico-temporale dell’uomo e del mondo. Questo compimento intrastorico è legato (nella tradizione biblica) all’idea della regalità di Dio che deve attuarsi concretamente nella storia prendendo la forma di un Regno adeguato a tale sovranità, ma si contraddistingue per i suoi contenuti indicati chiaramente dai profeti (a partire da Isaia): pace, giustizia, felicità». Cunico si riferisce in questo brano al testo di J. Klausner, The Messianic Idea in Israel from Its Beginning to the Completion of the Mishnah, tr. ingl. di W. F. Stinespring, Allen & Unwin, London 1956. 8 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 701; tr. it. Sul concetto di storia, in Id., Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 45-47 (tesi XIV).
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La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso (Jetztzeit). Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è un balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.9
In Benjamin la concezione materialistica della storia (prima della «svolta marxista» del 1926 si può parlare piuttosto di una visione anarchica e nichilistica)10 è connessa strettamente all’idea teologica del tempo come Jetztzeit: lo storico, attraverso il riscatto del passato, la sua attualizzazione e la critica al concetto di progresso, esercita una «debole forza messianica»11 e dà una direzione per l’azione politica. Questa è azione rivoluzionaria e mira a fondare la società senza classi come Regno secolarizzato, regno della giustizia. Una tesi (la XVIIa), trovata tra i materiali preparatori di Sul concetto di storia, illustra questi concetti. Il progresso è visto come processo infinito e lineare, come quel «compito infinito»12 proprio del neokantismo
Ibidem. Sulle Tesi si veda Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi “sul concetto di storia di Walter Benjamin”, Guida, Napoli 2002. Si tratta di un attento e importante commento che dispiega la concentrazione aforistica di ogni tesi nel complesso e articolato percorso filosofico di Benjamin. Cfr. inoltre Michael Löwy, Walter Benjamin: Avertissement d’incendie.Une lecture des thèses “Sur le concept d’histoire”, PUF, Paris 2001. 10 Sull’anarchismo «romantico» e messianico di Walter Benjamin, cfr. Michael Löwy, «L’anarchisme messianique de Walter Benjamin», in Les Temps Modernes, 40, 1983, pp. 772794 e Id., Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective, Paris, PUF, 1988; tr. it. Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, tr. it. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 1992, in part. il capitolo 6: Al di fuori di tutte le correnti e al crocevia di tutte le strade: Walter Benjamin. 11 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 694; tr. it. cit., p. 23. 12 Sul tema neokantiano (di Hermann Cohen e Paul Natorp) del «compito infinito», interpretato dal giovane Benjamin in termini etico-religiosi e, rispetto alle Tesi, con un’accezione positiva, cfr. Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin, Quodlibet, Macerata 2003. In questo saggio si ipotizza l’influenza su Benjamin del messianismo e di tutta la filosofia di Hermann Cohen. Il messia ha significato per Cohen in quanto idea metafisica e morale che ha origine nel profetismo ebraico, ideale proiettato nella dimensione del futuro della storia (e non in una vita ultraterrena) di fronte a cui scompare l’esistenza individuale degli uomini. Cfr. H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums (1919), Fourier, Wiesbaden, 19883 (r. a. dell’ed. Kaufmann, Frankfurt/M., 1929) pp. 291-292; tr. it. Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, a cura di A. Poma, trad. e note di P. Fiorato, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 375-376. Benjamin aveva letto quest’opera nel 1920 (cfr. la lettera di Benjamin a G. Scholem, dell’1-XII-1920 in Walter Benjamin, Gesammelte Briefe, Band II, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1996, p. 107). Per un confronto tra il messianismo di Cohen e di Benjamin si veda inoltre Hennig Günther, «Der Messianismus von Hermann Cohen und Walter Benjamin», in Emuna. Horizonte zur Diskussion über Israel und das Judentum, n. 5/6, 1974, pp. 352-359, e Pierfrancesco Fiorato, «Una debole forza messianica. Sul messianismo antiescatologico di Hermann Cohen», in Annuario filosofico, 12, 1996, pp. 299-327. Cfr. inoltre Pierfrancesco Fiorato, «Al di là del sublime. Hermann Cohen sulla virtù messianica della pace», in B@belonline/print, 4, 2008, Mimesis, Milano, 2008, pp. 51-65. Una possibile fonte per Benjamin del pensiero messianico di 9
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e della socialdemocrazia. Il tempo in esso è concepito come omogeneo e vuoto, cioè non riempito (erfüllt) e compiuto da Dio e dalla violenza/autorità (Gewalt) divina,13 dal suo potere: Nell’idea (Vorstellung) della società senza classi, Marx ha secolarizzato l’idea del tempo messianico. Ed è giusto così. La sciagura sopravviene per il fatto che la socialdemocrazia elevò a «ideale» questa idea. Nella dottrina neokantiana l’ideale viene definito come compito infinito.14 E questa dottrina è stata la scolastica del partito socialdemocratico [...]. Una volta definita la società senza classi come un compito infinito, il tempo infinito e vuoto si trasformò, per così dire, in un’anticamera nella quale si poteva attendere, con maggiore o minore tranquillità, l’ingresso nella situazione rivoluzionaria. In realtà non vi è un solo attimo che non rechi in sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede solo di essere definita come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, di fronte a un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma dalla situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi15 che tale attimo possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva16 possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica. (La
Cohen può essere stata il saggio Das Gottesreich, in cui Cohen identificava Regno di Dio e Regno del messia, pubblicato nel 1913 in Hermann Cohen, Soziale Ethik im Judentum, zur fünften Hauptversammlung im Hamburg 1913 [am 9. November] hrsg. vom Verband der Deutschen Juden, J. Kauffmann, Frankfurt/M. 1913, pp. 120-127 (ora in Hermann Cohen, Kleine Schriften V 19131915, in H. Cohen, Werke, cit., Band 16, pp. 41-50). 13 Sulla Gewalt divina cfr. Walter Benjamin, Zur Kritik der Gewalt, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. II, tomo 1, pp. 179-203; tr. it. Per la critica della violenza, in Walter Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di G. Agamben, tr. di C. Colaiacomo, R. Solmi, A. M. Solmi, A. Moscati, G. Agamben, Einaudi, Torino 1982. Cfr. sul tema della violenza e della violenza divina in Benjamin in rapporto alla filosofia politica di Kant Massimiliano Tomba, «La vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, Quodlibet, Macerata 2006. 14 Il concetto di «compito infinito» nel pensiero neokantiano è criticato in questa tesi, la XVIIa di Sul concetto di storia. Qui (ma già negli anni 1912-1915) Benjamin considera il concetto di progresso dello storicismo e della socialdemocrazia e il concetto politico neokantiano di un progresso infinito della società e della storia un «compito infinito», che trasforma la rappresentazione dell’idea messianica di un brusco realizzarsi del regno della giustizia in un «ideale», cioè in uno scopo mai raggiungibile. Questo concetto si esprimeva in un socialismo che si trovava sulle stesse posizioni della socialdemocrazia tedesca, che considerava la riflessione neokantiana la sua base teorica. Per una panoramica sul socialismo neokantiano cfr. il capitolo Il socialismo neokantiano, in Massimo Ferrari, Introduzione al neocriticismo, Laterza, Bari 1997, pp. 140-151 e per un approfondimento il volume collettaneo a cura di Helmut Holzhey, Ethischer Sozialismus. Zur politischen Philosophie des Neukantianismus, Frankfurt/M. 1994, e l’antologia a cura di H.J. Sandkühler e R. de la Vega, Marxismus und Ethik. Texte zum neukantianischen Sozialismus, Frankfurt/M.,1970; tr. it. Milano 1974. 15 Sul «potere delle chiavi» cfr. la nota dei curatori alla tesi XVIIa in W. Benjamin, Il concetto di storia, in Id., Il concetto di storia, cit., p. 55, nota 47: «Termine e concetto teologico cristiano, originariamente riferito al potere petrino (cfr. Matteo 16, 18 sgg.: “A te [Pietro] darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”) a cui Benjamin fa ricorso per indicare la possibilità di un’operazione che infrange l’immodificabilità del passato». 16 Sul tema della «distruzione» in Benjamin cfr. Maria Teresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Quodlibet, Macerata 2008.
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società senza classi non è la meta finale [Endziel] del progresso della storia, ma ne è piuttosto l’interruzione [Unterbrechung], tante volte fallita e infine attuata.)17
Lo storico recupera e conosce, nel suo fugace «guizzar via», in una immagine dialettica, un momento del passato delle classi oppresse che entra in una costellazione con le esigenze politiche attuali e le fa esplodere, dando una direzione per la prassi. L’azione rivoluzionaria si esplica attraverso un salto dialettico nel passato che avviene nell’adesso messianico − nell’«adesso della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit)» proprio del «concetto di storia»: L’immagine dialettica è un’immagine balenante. Ciò che è stato (das Gewesene) va trattenuto così, come un’immagine che balena nell’adesso della conoscibilità (im Jetzt der Erkennbarkeit). La salvazione (Rettung), che in questo modo – e solo in questo modo – è compiuta, si lascia compiere solo in ciò che nell’attimo successivo è già immediatamente perduto.18
La struttura gnoseologica del «concetto di storia»,19 che si presenta in una immagine dialettica monadica, è caratterizzata da una dimensione temporale non lineare e progressiva ma intensiva, ideale, in cui coincidono il concetto conoscitivo e l’idea (del bene, della giustizia), caratterizzata da totalità ed eternità. Emerge qui il legame tra l’ambito teologico, trascendente e ideale ma segretamente attivo nell’immanenza della redenzione e del riscatto, e l’ambito immanente del politico. Infatti il passato riscattato e redento rende presente in un momento fugace il tempo messianico, compiuto, del Regno di Dio e dà l’occasione e la direzione per la prassi, per l’azione rivoluzionaria, messianica e motivata teologicamente, tesa verso la costruzione della società senza classi. L’azione politica è resa possibile proprio dal legame con il passato, dalla capacità conoscitiva dello storico materialista di recuperare e far esplodere momenti dimenticati e di alimentare la forza distruttiva e liberatoria della classe oppressa attraverso l’immagine degli avi asserviti, senza proiettare la liberazione, come fa la socialdemocrazia, in un futuro infinito: Il soggetto della conoscenza storica è di per sé la classe oppressa che lotta. In Marx essa figura come l’ultima classe resa schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l’opera di liberazione in nome di generazioni di sconfitti. Questa coscienza, che si è fatta ancora valere per breve tempo nella Lega di Spartaco, fu da sempre scandalosa per la socialdemocrazia, che nel corso di tre decenni è riuscita a cancellare quasi del tutto il nome
17 W. Benjamin, Anmerkungen a Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 3, p. 1231; tr. it. in W. Benjamin, Materiali preparatori delle tesi, in Sul concetto di storia, cit., pp. 100-101, manoscritto Ms 1098v. 18 W. Benjamin, Das Passagen-Werk, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. V, tomo 1, pp. 591-592, N 9, 7; tr. it. I “passages” di Parigi, vol. IX delle Opere complete di Walter Benjamin, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, tr. it. di R. Solmi, A. Moscati, M. De Carolis, G. Russo, G. Carchia, F. Porzio, riveduta da H. Riediger, Einaudi, Torino 2000, p. 531, N 9, 7 e in Walter Benjamin, Materiali dal Passagen-Werk, in Id., Sul concetto di storia, cit., p. 123. 19 Sul rapporto tra il concetto di storia e la teoria della conoscenza in Benjamin cfr. Tamara Tagliacozzo, «Conoscenza e temporalità messianica in Benjamin», in B@belonline/print, n. 4, 2008, pp. 139-150.
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di un Blanqui, il cui suono squillante aveva scosso il secolo precedente. Essa si compiacque di assegnare alla classe operaia il ruolo di redentrice delle generazioni future. E recise così il nerbo della sua forza migliore. La classe disapprese, a questa scuola, tanto l’odio quanto la volontà di sacrificio. Entrambi infatti si alimentano all’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati.20
Il concetto di tempo messianico contrapposto al tempo omogeneo e vuoto fisico-matematico della visione scientifica moderna propria del neokantismo, e della socialdemocrazia come suo orientamento politico – con la sua visione di un compito «infinito» e progressivo nella direzione dell’idea della società senza classi –, viene anticipato con straordinaria pregnanza negli anni 1914-1915, nell’incipit del saggio/ conferenza La vita degli studenti: C’è una concezione della storia che, fidando nell’infinità del tempo, distingue solo il diverso ritmo degli uomini e delle epoche, che rapidi o lenti scorrono sulla via del progresso. A ciò corrisponde l’incoerenza, l’imprecisione e la mancanza di rigore delle pretese che essa avanza nei confronti del presente. Invece questa nostra riflessione fa riferimento a uno stato determinato, in cui la storia riposa quasi fosse raccolta in un punto focale, come da sempre nelle immagini utopiche dei pensatori. Gli elementi dello stato finale non sono evidenti come una tendenza informe di progresso bensì, come creazioni e pensieri sommamente minacciati, malfamati e derisi, essi stanno profondamente sepolti e dissimulati in ogni presente. Il compito storico (geschichtliche Aufgabe) è quello di dare in modo puro la forma dell’assoluto allo stato immanente della perfezione, di renderlo visibile e sovrano nel presente. Ma questo stato non è da circoscrivere mediante una determinazione pragmatica di singoli aspetti (istituzioni, costumi, ecc.), alla quale anzi si sottrae; bensì è da cogliere soltanto nella sua struttura metafisica, come il regno messianico o l’idea della rivoluzione francese.21
Appare qui evidente il nesso tra il tempo della storia intensivo e redentivo, che si trova nelle immagini degli utopisti, e la struttura metafisica come idea; e quindi il nesso gnoseologico che rende indispensabile l’individuazione dello stato della perfezione e della giustizia (lo «stato finale», il «regno messianico») nell’immanenza del presente attraverso la divisione dei fenomeni tramite concetti e il loro essere compresi, in frammenti, nell’idea.22 Benjamin attribuisce alla conoscenza, fin dagli anni 1917-1918, il compito di recuperare i fenomeni dalla loro condizione empirica, riscattandoli dalla loro fenomenicità attraverso l’astrazione, rendendoli puri ma contemporaneamente, proprio per questa azione di classificazione, frammentati e privi della loro totalità fenomenica: l’azione, come la percezione, entrano nell’adesso (Jetzt) della conoscibilità soltanto frammentate, inautentiche, non reali. Esse sono autentiche, non frammentate, nello stato del
20 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 700; tr. it. cit., p. 43 (tesi XII). 21 W. Benjamin, Das Leben der Studenten, in Id., Gesammelte Schriften, vol. II, tomo 1, p. 75; tr. it. cit., p. 137. Traduzione modificata. 22 Cfr. Erkenntniskritische Vorrede, in W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels (saggio terminato nel 1925, pubblicato nel 1928), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 1, pp. 207-237; tr. it., Premessa gnoseologica, in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, introd. di G. Schiavoni, tr. it. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, pp. 3-31.
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mondo compiuto (im vollendeten Weltzustand). [...] Esse entrano frammentate, in concetti simbolici (Symbolischen Begriffen) nell’adesso della conoscibilità, poiché questo adesso è riempito e dominato dalla conoscibilità soltanto.23
Il compito della conoscenza è poi, dopo questa opera di divisione e astrazione, quello di caricare i fenomeni di una valenza simbolica che li renda capaci di esibire un’idea, l’idea dell’«ipotesi»24 per le scienza fisiche e biologiche, l’idea di libertà per l’azione, l’idea dell’arte per le opere d’arte.25 Questa frammentazione e attribuzione di valenza simbolica nell’«ora (Jetzt) della conoscibilità»,26 che Benjamin concepisce fin dagli anni 1917-18 come «tempo logico, [che] deve essere fondato al posto del valere atemporale»,27 anticipa ed espone il momento redento dello «stato del mondo compiuto».28 Benjamin sostituisce allo schematismo kantiano un processo simbolico, all’esibizione del concetto in una intuizione l’esibizione di un’idea in un fenomeno non empirico ma linguistico,29 divenuto concetto simbolico. Nell’adesso messianico della conoscibilità il concetto dell’oggetto storico espone la «verità» (che è un «essere intenzionale formato da idee»),30 presentando un’immagine del passato che viene conosciuta e salvata in una rappresentazione fulminea e caduca. Il fenomeno monadico è immagine dialettica del regno messianico, rappresentazione e concetto simbolico dello stato della perfezione e della giustizia divina.31 Nello «stato del mondo compiuto» i fenomeni non saranno più frammentati, ma lo sono nell’«adesso» della conoscibilità, nell’immanenza e nella storia che hanno a che fare necessariamente con la conoscenza e con la caducità. L’azione rivoluzionaria, che si ispira alla dimensione «nascosta» teologico-messianica, resta cosciente del fatto che produce una realtà politica comunque transitoria, che non si fonda su una verità eterna. La verità del passato e dell’idea messianica di riscatto a essa connessa è una
23 W. Benjamin, Erkenntnistheorie (frammento attribuito agli anni 1917-18), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VI, cit., p. 46. 24 Cfr. il frammento del 1918 ca. Versuch eines Beweises, dass die wissenschaftliche Beschreibung eines Vorgangs dessen Erklärung voraussetzt (Tentativo di dimostrare che la descrizione di un processo scientifico presuppone la sua spiegazione), ibidem, p. 41. 25 Cfr. il paragrafo Die Idee der Kunst (L’idea dell’arte) nel saggio di Walter Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 1, pp. 87-109; tr. it. W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., pp. 81-103. 26 W. Benjamin, Erkenntnistheorie, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VI, p. 46. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 29 Cfr. il frammento di W. Benjamin Über die Wahrnehmug. Erfahrung und Erkenntnis (1917), Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. VI, pp. 37-38: «La filosofia è esperienza assoluta dedotta nel nesso sistematico simbolico come lingua. Per la visione della filosofia l’esperienza assoluta è lingua: lingua però concepita come concetto simbolico-sistematico». Cfr. il saggio del 1916 Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., vol. II, tomo 1, pp. 140-157; tr. it. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in W. Benjamin, Metafisica della gioventù, cit., pp. 177-193. 30 Cfr. la Erkenntniskritische Vorrede, all’Ursprung des deutschen Trauerspiels, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, cit., p. 216; tr. it. cit., p. 11. 31 Cfr. M. Tomba, La «vera politica», cit., pp. 206-255, in part. il paragrafo Göttliche Gewalt, pp. 251-255.
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«verità caduca (vergänglich)» che si presenta per un attimo e fugge via, come caduco è il passato non conosciuto e attualizzato: Vincere deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l’altro non deve lasciarsi vedere.32 La vera immagine del passato (Vergangenheit) guizza via. È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della conoscibilità (Augenblick der Erkennbarkeit) che il passato è da trattenere. «La verità non ci scapperà». Questa frase, che è di Gottfried Keller, segna, nell’immagine di storia dello storicismo, il punto esatto in cui essa è infranta dal materialismo storico. Infatti è un’immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non si sia riconosciuto inteso in essa.33 Se [...] [l’immagine del passato] è autentica, lo deve alla sua fugacità (Flüchtigkeit). Proprio perché questa verità è caduca (vergänglich) e basta un alito di vento a spazzarla via, molto dipende da essa. A prendere il suo posto, infatti, è pronta l’apparenza (Schein), che va più d’accordo con l’eternità.34
Messianismo e teologia politica: Jacob Taubes interprete di Benjamin Jacob Taubes (1923-1987) – studioso ebreo di inclinazione polemica e anticonformista, le cui posizioni filosofiche e politiche estreme l’hanno portato a forti contrasti con Gershom Scholem – in un corso su Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, tenuto alla Freie Universität di Berlino nel semestre invernale 1984-85,35 mette in risalto l’idea di Benjamin che la teologia deve rimanere nascosta, ed emergere in modo indiretto tramite l’immanenza e nell’intimo della caducità dell’umanità, nella felicità propria di ciò che passa e nell’ambito del profano. La teologia è nascosta nell’ethos immanente dell’azione rivoluzionaria: Il materialismo storico si irrigidisce, se non prende a servizio la teologia. Nella teologia sono attive forze che non sono state ancora impiegate. La teologia: qui Benjamin intende il messianesimo, il Messia. Non è possibile che sia un sogno, un mito. Anzi, il materialismo storico dovrebbe stringere un patto con esso. [...] Non c’è un semplice ricorso alla teologia, ma un prenderla a servizio per una teoria della storia, la quale, però, non viene alla luce come
32 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 693; tr. it. cit., p. 21 (tesi I). 33 Ibidem, p. 695; tr. it. cit., p. 27 (tesi V). 34 W. Benjamin, Anmerkungen a Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 3, p. 1247; tr. it. in W. Benjamin, Materiali preparatori alle tesi, in Id., Sul concetto di storia, cit., p. 73 (manoscritto Ms 440). 35 Trascritto da Josef R. Lawischka, che era presente al seminario, edito per la prima volta e tradotto nella raccolta italiana di scritti di Taubes e di sue lettere a Gershom Scholem curata da Elettra Stimilli. Cfr. Jacob Taubes, Il prezzo del messianesimo. Lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 75-104. Cfr. ibidem Elettra Stimilli, Il messianesimo come problema politico, cit., pp. 153-202. Su Taubes si veda l’importante monografia di Elettra Stimilli, Jacob Taubes. Sovranità e tempo messianico, Morcelliana, Brescia 2004.
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tale; anzi, bisogna pensarla a partire da una fine: bisogna pensare la storia a partire dalla fine. [...] La teologia deve essere presa a servizio in quanto teologia, non deve essere dissolta. Con «teologia» si intende una tendenza ben determinata: la redenzione. Una parola che emerge dal materialismo storico in tutto il suo complesso. Come deve essere introdotta la teologia? [...] Benjamin cerca di portare avanti quel «prendere a servizio» [della prima tesi], sviluppando un concetto di teologia che si accordi con l’immanenza radicale del materialismo storico. Non attraverso una trattazione teologica, ma ponendo in questione l’immanenza stessa, mettendo in evidenza gli elementi che è possibile rilevare in un «guizzo passeggero» (Tesi V): in definitiva, il fatto che l’immanenza porti aldilà di sé, che faccia riferimento a elementi trainanti, a possibilità, sviluppa una dinamica che altrimenti rimarrebbe paralizzata. Per Benjamin si tratta di risolvere questa paralisi. Gli esempi teologici non sono usati direttamente; essi piuttosto prendono corpo nell’ethos, in ciò che è costitutivo dell’umanità (passaggio rivoluzionario). Anche nel Passagen-Werk Benjamin si muove con una certa prudenza nell’avvicinarsi alla teologia. [...] Con la rappresentazione della felicità [che guarda all’ordine del profano che mette in atto il passare] vibra anche quella della redenzione.36
Benjamin stesso scrive in un appunto del Passagen-Werk, a proposito di una lettera di Horkheimer del 16 marzo 1937, che proprio in una dimensione teologica (che non deve però essere esplicitata), nel ricordo, la felicità umana incompiuta può essere compiuta, e la sofferenza riscattata.37 Lo storiografo ha il compito di salvare e redimere il passato nel ricordo: il «confronto con l’esperienza della felicità fa sì che essa venga contratta, in quanto storia, nell’individuale e nel collettivo»,38 poiché nell’esperienza naturale della felicità che si compie nel ricordo «si produce qualcosa di implicitamente teologico, che Benjamin definisce “debole forza messianica”».39 Dopo essersi chiesto se «“debole” vuol dire una trascendenza messianica di genere, o se la debolezza è il messianico presente negli uomini», Taubes conclude che bisogna «leggere “debole” in senso paolino: nel debole il messianico.40 [...] Il prendere
36 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, in Id., Il prezzo del messianesimo, cit., pp. 77-80. 37 W. Benjamin, Das Passagen-Werk, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. V, tomo 1, p. 589; tr.. it. I “passages” di Parigi, cit., p. 528; anche in Walter Benjamin, Materiali dal PassagenWerk, in Id., Sul concetto di storia, cit., p. 121 s., N, 8, 1: «Il ricordo (Eingedenken) può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto e del compiuto (il dolore) un incompiuto. Questa è teologia: ma se nel ricordo facciamo un’esperienza che ci vieta di concepire in modo fondamentalmente ateologico la storia, altrettanto poco ci è lecito tentare di scriverla in concetti immediatamente teologici». 38 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, in Id., Il prezzo del messianesimo, cit., p. 81. 39 Ibidem. 40 Il rapporto tra dimensione teologica e politica dell’intensità messianica nel Frammento teologico-politico (a cui accenneremo più avanti) e poi nelle Tesi viene analizzata da Jacob Taubes nel suo confronto tra Benjamin e Paolo di Tarso in La teologia politica di S. Paolo (cfr. Jacob Taubes, Die politiche Theologie des Paulus, a cura di A. e J. Asmann, Wilhelm Fink Verlag, München 1993; tr. it. a cura di P. Del Santo, La teologia politica di S. Paolo, Adelphi, Milano 1997). Anche Giorgio Agamben istituisce lo stesso parallelo tra Benjamin e Paolo, ma va al di là di Taubes, ipotizzando una vera e propria identificazione di Benjamin con Paolo. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 128-135, in part. pp. 129130: «Ebbene, io conosco un solo testo in cui si teorizza in modo esplicito la debolezza della forza messianica. Si tratta [...] del passo di 2 Cor. 12, 9-10 [...], là dove Paolo, che ha chiesto al messia di liberarlo dalla sua spina nella carne, si sente rispondere [...] “la potenza si compie nella debolezza”».
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a servizio la teologia avviene in termini secolari».41 La debolezza, la debole forza messianica che è però capace di redimere il passato è la caducità: Il passare è rivolto al futuro e al presente, quello atteso. [...] Redenzione non significa una rivoluzione finale, posta alla fine della storia. Qui il messianico viene disseminato all’interno della storia e delle generazioni. [...] Il giorno del giudizio non è lo spettacolo della fine; esso, piuttosto, è possibile in ogni singolo ricordo pieno [...]: la redenzione è possibile in ogni momento. Il giorno del giudizio viene introdotto nel tempo, rendendo possibile, in tal modo, la sua interruzione. [...] Benjamin introduce l’idea della fine nel tempo stesso. Ciò significa un’interruzione puntuale e fulminea. Il giorno del giudizio non è un giorno tagliato fuori dagli altri. La forma apocalittica approda così in un tempo presente. [...] Il materialismo storico di Benjamin [...] si può comprendere nei termini di ciò che è rivoluzionario, nel senso di improvviso: [...] egli possiede un modello volto all’azione.42
La redenzione si attua in ogni momento, nel cuore dell’immanenza e della debolezza di ciò che passa, interrompendo il tempo, e aprendo la possibilità all’azione politica, che in Benjamin è azione rivoluzionaria. Lo stato della redenzione è anticipato nel «concetto» storico e gnoseologico dello storico e del narratore, in loro è presente la «debole forza messianica» che permette di recuperare, salvare e redimere il passato nel concetto, nella citazione. Lo storico, il narratore, il cronista assumono secondo Taubes la funzione del Messia, poiché «solo a un’umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a un’umanità redenta il passato è diventato citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti (Augenblicke) diventa una “citation à l’ordre du jour” – giorno che è appunto il giorno del giudizio».43 Il giorno del giudizio però è il giorno del pericolo, «non è solo il giorno della felicità, ma anche quello della distruzione»:44 Ogni narrazione anticipa, nel concetto, lo stato di redenzione. Il passaggio all’umanità redenta non appartiene al mondo della fantasia, perché l’umanità redenta non sta alla fine. Ma viene preceduta dall’idea di una compresenza di passato, presente e futuro, proprio come accade nella mente di Dio; anzi, questo è ciò su cui si basa un simile concetto. [...] Il narratore ha assunto, così, la funzione del Messia. [...]: la fine viene intesa come tempo presente. La rivoluzione non si dà in un processo di maturazione. Ciò implica alcune conseguenze gnoseologiche. La comprensione del tempo si fonda sul fatto che la presenza, in quanto si identifica in ogni momento, abbia in sé anche la possibilità della rottura, e che al processo della narrazione venga attribuito un elevato stato di redenzione. [...] Benjamin non sostiene alcun futurologismo messianico; il suo è, piuttosto, un attualismo messianico. [...] A partire dall’esperienza dell’ordre du jour, la teologia può essere presa a servizio. [...] Il giorno del giudizio è il giorno della minaccia [...] [che] è la condizione [...] in cui la totalità della vita si condensa e diventa visibile.45
41 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, in Id., Il prezzo del messianesimo, cit., p. 81. 42 Ibidem, pp. 80-83. 43 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 697; tr. it. cit., pp. 33. 44 J. Taubes, Le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, in Id., Il prezzo del messianesimo, cit., p. 86. 45 Ibidem, pp. 83-84.
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Jacob Taubes mette in risalto l’importanza del pensiero di Carl Schmitt (autore della Teologia politica del 1922) per la riflessione di Benjamin sul concetto di sovranità e dello «stato d’eccezione»: la concezione schmittiana dello «stato d’eccezione»,46 come concetto teologico secolarizzato attivo nell’ambito giuridico e politico con cui il sovrano si pone al limite del diritto e lo sospende (esso è visto analogicamente come un «miracolo» rispetto alle leggi della natura),47 si trova in Benjamin cambiata di segno. Nella VIII tesi Sul concetto di storia lo stato d’eccezione è la dimensione teologica e insieme politica della temporalità messianica, che si presenta come Jetzt della rivoluzione e dell’affermazione immanente della concezione «teologico-politica» della società senza classi come regno della giustizia, l’«effettivo (wirklichen) stato d’eccezione». La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato d’eccezione» in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare l’effettivo stato d’eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance sta, non da ultimo, nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia.48
Benjamin, al contrario di Schmitt che nell’interpretazione di Taubes cerca – e ciò sarà a fondamento della sua concezione totalitaria del potere – la ricostituzione dell’identità di mondano e spirituale, tiene distinti gli ambiti del profano e del teologico;49 nell’«effettivo stato d’eccezione» nega ogni presenza immediata e con-
46 Cfr. Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität (1922), Dunker & Humblot, München-Leipzig 1934; tr. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla teoria della sovranità, in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1999, p. 33: «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Nella Ursprung des deutschen Trauerspiels Benjamin utilizza il testo di Schmitt, che collega il concetto di stato d’eccezione alla teoria della sovranità del XVII secolo, per illustrare la figura del sovrano nel dramma barocco tedesco. 47 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, cit.; tr. it. C. Schmitt, Teologia politica, cit., 61: «Tutti I concetti più pregnanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. [...] Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli. Infatti l’idea del moderno stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude l’intervento del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente». 48 W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, p. 694; tr. it. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 23-25. 49 Jacob Taubes ha evidenziato l’identità di mondano e spirituale nella concezione schmittiana del potere, indicandola come l’essenza della concezione totalitaria di Schmitt. Taubes critica, come fa Benjamin, questa identità. Cfr. Jacob Taubes, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Merve GmbH, Berlin 1987; tr. it. J. Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Quodlibet, Macerata 1996, p. 79: «Vedete cosa voglio da Carl Schmitt: mostrargli che la separazione tra il potere mondano e quello spirituale è assolutamente necessaria, se questa delimitazione non viene tracciata, ci viene a mancare il respiro. Era questo ciò che volevo gli arrivasse nell’animo, contro la sua concezione totalitaria». Cfr. inoltre F. Desideri, «Il Messia di Benjamin», in Humanitas, cit., p. 280: «Nel volgere alla storia un gesto distruttivo, che può essere solo teologico, Benjamin cor-
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creta del teologico nel mondano e afferma la provvisorietà di ogni potere politico nella caducità propria della storia.50 La teologia benjaminiana è il messianismo, preso a servizio dal materialismo storico perché si produca, nel tempo messianico e nel ricordo come Jetztzeit e «stato di eccezione» (sospensione dell’ordine politicogiuridico vigente) – e nell’azione che da esso può conseguire –, la relazione tra il materialismo storico stesso (il politico) e la teologia come redenzione. Un testo giovanile di Benjamin che si confronta con lo Spirito dell’utopia di Ernst Bloch, il Frammento teologico-politico del 1920, si occupa del problema di una teologia politica e di una politica come nichilismo: in esso il rapporto tra il messianico (il teologico) e l’accadere storico (l’ordine del profano) è determinato dal loro porsi come direzioni contrarie ma complementari. L’ordine del profano è l’ordine dell’umanità libera che aspira alla felicità come passare e tramonto, «ritmo della natura messianica»: proprio nel ribadire la centralità dell’immanenza e della caducità, e nel non porsi come momento totale della verità teologica e dell’etica, l’ordine del profano che tende alla felicità (legata al ricordo) rivela la sua natura messianica, e in esso la natura si definisce messianica. Con il nichilismo come metodo della politica mondiale, il cui compito è la ricerca della felicità anche per la dimensione naturale dell’umanità, il profano può «promuovere l’avvento del regno messianico»51 della giustizia nell’immanenza: Se una freccia direzionale indica la meta nella cui direzione opera la dynamis del profano e un’altra la direzione dell’intensità messianica, allora la ricerca di felicità dell’umanità libera diverge certamente da quella direzione messianica; ma come una forza, con il suo percorso, può promuoverne un’altra diretta in senso opposto, così anche l’ordine del profano può promuovere l’avvento del regno messianico. Il profano, quindi, non è certo una categoria del regno, ma una categoria – e certamente una delle più pertinenti – del suo più silenzioso approssimarsi. Infatti nella felicità tutto quanto è terreno aspira al suo tramonto, ma nella felicità soltanto è destinato a trovarlo. Mentre, certo, l’immediata intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore, procede attraverso l’infelicità, nel senso del soffrire. Alla restitutio in integrum spirituale, che introduce nell’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce all’eternità di un tramonto e il ritmo di questo mondano che eternamente passa, che passa nella sua totalità, nella sua totalità spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è felicità. Infatti la natura è messianica per il suo eterno e totale passare. Sforzarsi
risponde al precetto istitutivo dell’ebraismo: “non farsi immagine alcuna” del Nome di Dio. Con questo gesto egli prende distanza non solo da quella secolarizzazione dell’escatologia nello spazio profano della storia, già analizzata nel libro sul Barocco, ma anche dall’isomorfismo schmittiano tra forma teologico-metafisica e forma politica. Nell’equazione tra storia e progresso o nella sua assolutizzazione storicistica in una nuda processualità non s’incarna il Dio ebraico-cristiano, nemmeno nella forma hegeliana di un concetto finalmente compreso, bensì un’immagine idolatrica del divino, anzi un feticcio: apparenza fissata in cosa». 50 Sui rapporti tra Benjamin e Schmitt cfr. S. Heil, “Gefährliche Beziehungen”. Walter Benjamin und Carl Schmitt, J. M. Metzler Verlag, Stuttgart 1996. Sul tema dello stato d’eccezione e sul concetto di sovranità in Benjamin e Schmitt e sul rapporto tra l’ambito del passato (Vergangenheit) e ciò che è stato (Gewesene) cfr. D. Gentili, Il tempo della storia, cit., p. 85 e pp. 129-140. 51 Walter Benjamin, Theologish-politisches Fragment, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. II, tomo 1, p. 204; tr. it. Frammento teologico-politico, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., pp. 171-172, e in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 255. Vengono utilizzate entrambe le traduzioni.
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di tendere a questo passare, anche per quei gradi dell’uomo che sono natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve chiamarsi nichilismo.52
Nel nichilismo di Benjamin la caducità, come caducità eterna, è il fondamento non ontologico della storia profana. Esso non è però tanto vicino – come pensa Taubes – all’os me paolino come negazione del mondo terreno e antinomismo distruttivo che può compierlo assolutamente, quanto a una visione anarchica e rivoluzionaria positiva e materialistica, cioè a una affermazione del mondo, della natura e dei bisogni dell’uomo. Natura e bisogni che, pur aspettando la redenzione da parte dello Spirito (per Benjamin il Messia che deve ancora arrivare), la ottengono proprio nel restare corpo, «natura [...] messianica per la sua eterna e totale caducità»,53 nella felicità e nel ricordo: l’immagine di felicità che custodiamo in noi è tutta intrisa del colore del tempo in cui ci ha ormai relegati il corso della nostra esistenza. [...] In altre parole, nell’idea (Vorstellung) di felicità risuona ineliminabile l’idea (Vorstellung) della redenzione. Ed è lo stesso per l’idea (Vorstellung) che la storia ha del passato. Il passato reca in sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. [...] esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.54
52 Ibidem, p. 203-204; tr. it. cit. modificata, pp. 171-172 (cfr. W. Benjamin, Frammento teologico- politico, in Id., Sul concetto di storia, cit., p. 255 per le modifiche alla traduzione). 53 Ibidem, p. 204; tr. it. cit., p. 172. 54 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, cit., vol. I, tomo 2, pp. 693-694; tr. it. Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23 (tesi II).
Dario Gentili Etiche e politiche del messianismo: Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida
Nel 1959, nella celebre conferenza Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, dopo aver analizzato le forme principali che l’«idea messianica» ha assunto nel pensiero e nella storia ebraica, soffermandosi in conclusione sulla sua attualità, Gershom Scholem scrive: In tutto ciò sta indubbiamente la grandezza del messianismo, ma ne comporta anche la costitutiva debolezza. [...] La plaga rovente della redenzione ha concentrato su di sé, vorrei dire, come in un punto focale [Brennpunkt] lo sguardo storico dell’ebraismo. Non meraviglia, allora, che la disposizione, non più acquietabile nella consolazione, ad un irrevocabile intervento sul concreto, quella determinazione, nata dagli orrori e dalla derelizione, che solo nella nostra generazione la storia ebraica ha saputo trovare, sia stata accompagnata – allorché intraprese la via utopica del ritorno a Sion – dagli armonici del messianismo, senza tuttavia potersi votare ad esso. Poiché questa disposizione congiura ora con la storia e non guarda più ad una dimensione metastorica. Ma potrà questa disposizione all’intervento nella storia mantenersi senza precipitare nella crisi dell’istanza messianica, che con ciò è almeno virtualmente evocata?1
Si tratta del famoso brano sul «prezzo» che la storia ebraica ha dovuto pagare a causa dell’idea messianica che ha donato al mondo. Per Scholem, «L’idea messianica ha fatto della vita ebraica una “vita in condizioni di rinvio” [Leben im Aufschub], nella quale nulla può essere fatto e compiuto in forma definitiva».2 La creazione dello Stato d’Israele – «il ritorno a Sion» – comporterebbe allora un congedo dall’idea messianica? O quantomeno un suo indebolimento all’interno del pensiero ebraico? La conclusione di Scholem sembra oscillare tra queste due possibili soluzioni, che, comunque, in entrambi i casi, decreterebbero la crisi dell’istanza messianica così come è stata tradizionalmente appresa. Eppure, è stato spesso osservato3 come Scholem, nella definizione e nell’analisi del messianismo ebraico, tenda ad attribuire un peso eccessivo alla concezione apocalittica, che ne rappresenterebbe l’elemento originario e unitario e, quindi, il tratto distintivo; in sostanza, a differenza di quello cristiano che riguarda l’interiorità del singolo, il messianismo autenticamente ebraico si rivolge allo spazio pubblico della comunità e al tempo della storia, ed è fon-
1 Gershom Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, in Id., Judaica, 1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, p. 74; trad. it. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Id., Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1997, p. 147. 2 Ibidem. 3 Cfr. M. Idel, Mistici messianici, Adelphi, Milano 2004, in part. pp. 52-61.
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damentalmente apocalittico: «Per sua origine e nella sua natura profonda, infatti, il messianismo ebraico è, e non lo si sottolineerà mai abbastanza, una teoria della catastrofe. Questa teoria accentua l’elemento rivoluzionario e di sovversione nel trapasso da ogni presente storico al futuro messianico».4 Nella concezione apocalittica del messianismo delineata da Scholem, è evidente come siano i temi della politica e della fine della storia a svolgere una funzione discriminante. Pur dando credito alla critica rivolta a Scholem, non bisogna tuttavia dimenticare le forti spinte messianiche che hanno caratterizzato la cultura d’ispirazione ebraica (e non solo) nella prima parte del Novecento, soprattutto in ambito tedesco, e la loro marcata accentuazione politica.5 Si pensi quantomeno all’amico di Scholem, Walter Benjamin, per il quale una concezione della temporalità storica declinata in senso messianico è la condizione imprescindibile della rivoluzione: «Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a conoscere come un’azione messianica».6 Bisogna, pertanto, comprendere la preoccupazione di Scholem che ogni realizzazione politica possa apparire una sorta di diminutio rispetto alle attese messianiche, svalutandone così la portata storica. La prima metà del Novecento ha lasciato in eredità la questione del rapporto tra messianismo e politica; questione che Scholem, in conclusione del suo saggio, ha lasciato in sospeso. Il problema non riguarda soltanto la collocazione dello Stato d’Israele all’interno delle profezie messianiche; il nostro contributo, piuttosto, intende analizzare le concezioni messianiche di due autori, Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida, che assumono in pieno quella crisi del messianismo d’ispirazione apocalittica decretata da Scholem, prendendo tuttavia in considerazione la possibilità di una «politica messianica». Non si tratta, pertanto, di svincolare del tutto il messianismo dalla politica (e viceversa), quanto piuttosto di pensare quale politica possa corrispondere a un messianismo non apocalittico. Dal messianismo politico alla politica messianica: Lévinas È proprio il saggio di Scholem sull’idea messianica a rappresentare lo spunto per la lettura che Lévinas propone dei testi messianici del Trattato Sanhedrin: In un recente articolo su Eranos [si tratta di Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum], Gershom Scholem, con una scienza storica così mirabile e con una rilevante in-
4 G. Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, in Id., Judaica, 1, cit., p. 20; trad. it. cit., p. 114. 5 Cfr. P. Cipolletta (a cura di), Europa e Messia. Paure e speranze del XX secolo in eredità, in B@belonline/print. Rivista di Filosofia, n. 4, Mimesis, Milano 2008. 6 Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, I/2, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974-89, p. 703; trad. it. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 55.
Etiche e politiche del messianismo: Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida
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tuizione del significato sistematico dei testi studiati (intuizione spesso assente in altri storici), fa una distinzione tra il messianismo apocalittico che è soprattutto popolare e il messianismo razionalista dei maestri che ha portato alla celebre pagina sui tempi messianici che Maimonide riporta nel suo Mishnè Torà alla fine del capitolo relativo alle leggi del potere politico. Tuttavia non tutto è stato detto – come talvolta sembra credere Scholem – quando si afferma il carattere razionalista di questo messianismo. Come se la razionalizzazione significasse solo la negazione del meraviglioso e come se, nel dominio dello spirito, fosse possibile lasciare valori contestabili senza influire su altri valori. Nel mio commento vorrei mostrare il significato positivo del messianismo dei maestri.7
Lévinas, tuttavia, non si limiterà semplicemente a un approfondimento del messianismo razionalista e dei maestri, per riconoscervi un «significato positivo» di contro alla «neutralizzazione» della tensione apocalittica che vi ha invece evidenziato Scholem, ma elaborerà una propria idea di messianismo. Nel suo commento, Lévinas non tradirà mai lo spirito talmudico cercando una univocità e una sintesi impossibile tra le diverse concezioni dei tempi messianici, eppure non è affatto difficile intravedere come tesi pur diverse riescano a trovare una collocazione coerente all’interno della sua filosofia e come quest’ultima sia già profondamente improntata in senso messianico. Ne scaturisce una concezione del messianismo tout court, che – come era inevitabile che fosse – non tralascia la questione della politica. Lévinas intraprende il commento talmudico con la citazione del passo del Sanhedrin che distingue tra epoca messianica e mondo futuro, distinzione che – sulla scorta dell’insegnamento di Maimonide – finisce per rappresentare la cifra peculiare della sua concezione del messianismo, ribadita anche in altri luoghi della sua opera dedicati al pensiero ebraico:8 «Rabbi Chiia ben Abba ha detto, a nome di Rabbi Yohanan: “Tutti i profeti senza eccezione hanno profetizzato per l’epoca messianica. Per il mondo futuro nessun occhio l’ha visto al di fuori di Te, o Signore, che agirai per chi ti attende”».9 Pur dando conto della diversità delle interpretazioni, Lévinas le accomuna, secondo la tradizione più diffusa, in quanto considerano l’epoca messianica come il miglioramento o perfezionamento delle condizione esteriori dell’umanità e come «il compimento simultaneo di tutte le promesse politiche e sociali».10 Il problema riguarda piuttosto le condizioni dell’avvento dell’epoca messianica; ed è a questo punto che la questione politica diventa discriminante: Per Rabbi Yohanan il problema politico è risolto nello stesso tempo che il problema sociale, e la loro soluzione è nelle mani dell’uomo: dipende dal suo potere morale. Ci sarebbe un passaggio naturale dell’attività morale verso i tempi messianici. [...] Esso provoca la trasformazione sociale desiderata, la quale sfocia in una trasformazione politica. L’agente morale rimane il vero agente di quanto si compie, le sue intenzioni non si rovesciano nel loro riversarsi nella realtà storica. Per Šmuel, al contrario, qualcosa di estraneo all’individuo
7 Emmanuel Lévinas, Difficile Liberté, Albin Michel, Paris 1963; trad. it. E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 83-84. 8 Cfr., per esempio, E. Lévinas, A l’heure des nations, Les Éditions de Minuit, Paris 1988; trad. it. E. Lévinas, Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2000, pp. 67-68. 9 E. Lévinas, Difficile libertà, cit., p. 84. 10 Ibidem, p. 85.
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morale esiste, qualcosa che deve essere primariamente distrutto perché arrivino i tempi messianici. Il Messia è, prima di tutto, tale rottura. Per la coscienza lucida e padrona delle proprie intenzioni la venuta del Messia comporta un elemento irrazionale, o quantomeno qualcosa che non dipende dall’uomo, che viene da fuori: il disvelamento delle contraddizioni politiche. Ciò che è interessante è la categoria stessa di evento che viene da fuori. Poco importa che questo fuori sia l’azione di Dio o una rivoluzione politica distinta dalla morale.11
Sarebbe del tutto semplicistico, in base al primato dell’etica e della morale che definisce il tratto distintivo della sua filosofia, schierare Lévinas dalla parte di Rabbi Yohanan che attribuisce all’agire morale dell’individuo la risoluzione della violenza politica e dell’ingiustizia sociale. Non soltanto perché Lévinas, da profondo conoscitore dell’esegesi talmudica, sa bene che nessuna posizione presa in sé può essere depositaria della verità, ma soprattutto perché la concezione messianica che presuppone mantiene come suo elemento decisivo e suo scopo ultimo la dimensione politica e sociale. La «salvezza suprema» promessa dal giudaismo all’essere umano sarebbe di natura politica e, nel suo caso più estremo, sarebbe impersonificata da un Messia che viene «da fuori»: è per evitare questa conclusione – e, in generale, ogni conclusività o aspirazione al compimento – che Lévinas svaluta l’importanza del messianismo politico, e apocalittico, all’interno dello spirito autenticamente ebraico: Sia che il Messia sia un uomo, sia che si tratti di un re, in ogni caso la salvezza per mezzo del Messia è una salvezza per procura. Nella misura in cui il Messia è un re, la salvezza attraverso di lui non è quella in cui ognuno si salva individualmente. Perché tutto questo presuppone che si entri in un gioco politico. La salvezza per mezzo del re, fosse pure il Messia, non è ancora la salvezza suprema che si apre all’essere umano. Il messianismo è politico, il suo compimento appartiene al passato di Israele [...]. Relazione diretta – senza mediazione politica – tra l’uomo e Dio. Tutto questo supera il messianismo ancora politico che, a detta della pagina di Sanhedrin, avrà durata limitata. Il giudaismo non si fa portatore di una dottrina della fine della storia che domina il destino individuale. La salvezza non occupa il punto finale della storia, la sua conclusione. Essa rimane possibile in ogni momento.12
Questo passo rappresenta la critica più diretta alla concezione apocalittica del messianismo, ai suoi presupposti e alla sua fenomenologia. Che la «salvezza suprema» promessa dal giudaismo all’essere umano possa accadere «in ogni momento» la sottrae al calcolo della data dell’avvento del Messia e alla definizione delle condizioni per la sua venuta e, inoltre, la sottrae a ogni idea di compimento e di realizzazione storica che si vuole definitiva. Bisogna però fare attenzione a non confondere la salvezza possibile «in ogni momento» di Lévinas con l’«ogni secondo» in cui, per Benjamin, nell’ultima delle tesi di Über den Begriff der Geschichte, può arrivare il messia.13 Per Benjamin, non soltanto il messia viene da fuori la porta, ma la sua venuta non determina la fine della storia, bensì l’«interruzione» del continuum del dominio e dell’oppressione di un certo corso storico: l’avvento messianico fa
Ibidem, pp. 89-90. Ibidem, pp. 110-111. 13 «Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia» (W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Id., Gesammelte Schriften, I/2, cit., p. 704; trad. it. cit., p. 57). 11
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storia e la temporalità messianica è autenticamente storica. Per Lévinas, invece, seppur dentro la storia e l’economico, in cui s’incontra la sofferenza dell’Altro, la «salvezza suprema» dell’ebraismo è promessa all’individuo e accade all’interno del suo rapporto con Dio. E ciò non può essere oggetto di nessuna profezia messianica: ecco l’importanza decisiva che, per Lévinas, riveste la nozione di «mondo futuro», che «nessun occhio l’ha visto al di fuori di Te, o Signore». In Le Temps et l’Autre, Lévinas fornisce una definizione di futuro e avvenire, che, fondamentale per la sua concezione dell’etica come filosofia prima, sembra riguardare anche la profezia e la sua capacità di anticipazione: «Quando si toglie al presente ogni capacità di anticipazione, l’avvenire perde tutta la sua connaturalità con il presente. Esso non è sepolto in seno ad un’eternità preesistente, dalla quale noi verremmo a prenderlo. È assolutamente altro e nuovo. Ed è così che si può comprendere la realtà stessa del tempo, l’assoluta impossibilità di trovare nel presente l’equivalente dell’avvenire, la mancanza di ogni capacità di far presa sull’avvenire».14 In tal senso, soltanto in quanto «a venire» la salvezza è possibile «in ogni momento», al di là della profezia messianica. È a partire dalla sua interpretazione del «mondo futuro» che Lévinas definisce una concezione non apocalittica del messianismo. Il «mondo futuro» riguarda esclusivamente il piano dell’individuo e della sua interiorità: «Il “mondo futuro”, vale a dire il piano di vita a cui accede l’individuo attraverso le possibilità della vita interiore e che nessun profeta annuncia, apre prospettive nuove. I tempi messianici che fanno parte della storia (e in cui, di conseguenza, si rivela il senso delle nostre responsabilità reali nella storia stessa) li ignorano ancora».15 A partire dal «mondo futuro», dall’interiorità dell’individuo in quanto ambito esclusivo del rapporto con Dio, la questione messianica risulta completamente trasfigurata e concepita in modo inverso rispetto a quella versione apocalittica in cui Scholem ha individuato la peculiarità del messianismo ebraico; quel che interessa a Lévinas è ribadire il primato dell’etica nel pensiero e nella religione ebraica e, pertanto, l’agire morale non può essere al servizio delle profezie messianiche, sia di natura politica sia di qualsivoglia altra natura. Ciò che per Lévinas è «immorale» nell’idea messianica di natura apocalittica è la sua aspirazione al compimento e alla fine della storia – storia dell’ingiustizia sociale e della violenza politica – in quanto realizzazione storica del Regno di Dio e termine della responsabilità etica: L’opinione di Rabbi Hillel implica una sfiducia nei confronti dell’idea messianica, nei confronti della redenzione attraverso il Messia: Israele attende qualcosa di meglio dell’essere salvato da un Messia. È possibile interpretare in diversi modi un simile oltrepassamento dell’idea messianica. Quella a cui si è riferito Jankélévitch non è certo la meno valida: se l’ordine morale è incessante perfezionamento, allora esso è sempre in cammino e non è mai compiuto. Il compimento morale è immorale. Il compimento della moralità è assurdo come l’immobilizzazione del tempo che esso suppone. La liberazione per mezzo di Dio coinciderebbe con una moralità vivente, aperta su progressi infiniti.16
14 E. Lévinas, Le Temps et l’Autre, Fata Morgana, Paris 1979; trad. it. E. Lévinas, Il Tempo e l’Altro, il melangolo, Genova 1997, p. 51. 15 E. Lévinas, Difficile libertà, cit., p. 87. 16 Ibidem, p. 109.
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Se Israele – che per Lévinas corrisponde all’umanità intera – ha ancora bisogno dell’idea messianica, questa deve avere un’ispirazione etica che scaturisca direttamente dal «mondo futuro» dell’individuo; è allora l’agire morale di ognuno nella storia ad avere una immediata portata messianica: Il Messia è il principe che governa in maniera tale che la sovranità non sarà più sottratta a Israele. È l’interiorità assoluta del governo. C’è forse un’interiorità più radicale di quella in cui L’Io comanda a se stesso? L’ipseità è la non-estraneità assoluta. Il Messia è il re che non comanda più dal di fuori [...]. Il Messia sono Io, ed Essere Io è essere Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice «Io»? L’ipseità stessa è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri. Tutte le persone sono Messia. [...] Concretamente questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia. Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale.17
Anche Benjamin considera il messianismo dell’individuo e dell’interiorità in termini non dissimili da Lévinas: «l’immediata intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore, procede attraverso l’infelicità, nel senso del soffrire»;18 ma l’assunzione e la sopportazione della sofferenza dell’altro come compito messianico proprio dell’individuo morale non nega affatto la possibilità di un riscatto della sofferenza e di un ordine profano ed esteriore votato alla felicità.19 Tale estrinsecazione del messianico è un compito prettamente politico: «La mia definizione di politica: il compimento umano non intensificato».20 La posizione di Lévinas sembra a prima vista agli antipodi rispetto a Benjamin, e per certi versi lo è. Bisogna tuttavia considerare che l’idea di compimento mondano dell’umano, di cui per Benjamin la politica deve incaricarsi, è di natura messianica soltanto se ogni realizzazione storica è segnata dalla caducità e dalla transitorietà.21 Non vi è depositata affatto la speranza nell’instaurazione definitiva del Regno di Dio in qualche luogo del pianeta, anzi: «l’ordine del profano non può essere costruito guardando all’idea del regno di Dio, perciò la teocrazia non ha alcun senso politico, ma unicamente un senso religioso».22 La stessa avversione di Lévinas nei confronti del messianismo politico è rivolta
Ibidem, pp. 116-117. W. Benjamin, Theologisch-politisches Fragment, in Id., Gesammelte Schriften, II/1, cit., p. 204; trad. it. W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Id., Sul concetto di storia, cit., p. 255. 19 «L’ordine del profano dev’essere edificato guardando all’idea di felicità. La relazione di quest’ordine con il messianico è uno degli elementi dottrinali essenziali della filosofia della storia» (ibidem, p. 203; trad. it. cit., 255). 20 W. Benjamin, Zur Geschichtsphilosophie, Historik und Politik, in Id., Gesammelte Schriften, VI, cit., p. 99; trad. it. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 283. 21 «Alla restitutio in integrum spirituale, che introduce nell’immortalità, ne corrisponde una mondana, che conduce all’eternità di un tramonto e il ritmo di questo mondano che eternamente passa, che passa nella sua totalità, nella sua totalità spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è felicità» (W. Benjamin, Theologisch-politisches Fragment, cit., p. 204; trad. it. cit., p. 255). 22 Ibidem, p. 203; trad. it. cit., p. 255. 17
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principalmente alla pretesa di ridurre l’universalità della promessa messianica, di cui solo l’etica è portatrice, al particolarismo del nazionalismo: «Non è il messianismo che manca a un’umanità pronta a sperare e a riconoscere le sue speranze in tutto ciò che promette, si edifica, riporta la vittoria e si dà per compimento. Tutti i nazionalismi ormai sono messianici e tutte le nazioni sono elette. Il monoteismo non ha solo orrore degli idoli, ma ha anche fiuto per la falsa profezia. È necessaria una singolare pazienza – il giudaismo – per rifiutare le premature pretese messianiche».23 La distinzione radicale tra epoca messianica e mondo futuro consente a Lévinas di radicare in quest’ultimo l’istanza etica per porla così al di là del messianismo politico e dello Stato-nazione; scrive in L’au-delà du verset: Alle spalle dello Stato davidico, preservato dalla corruzione che già aliena lo Stato di Cesare, si annuncia l’aldilà dello Stato. In certi testi, Israele è pensato come società umana che ha già superato il messianismo, ancora politico e storico. In altri viene annunciato il mondo futuro o il «mondo che viene» – considerato che il messianismo e questo «mondo che viene» sono radicalmente distinti. [...] Il vero termine dell’escatologia è il mondo futuro. Esso comporta possibilità che non si strutturano secondo uno schema politico.24
E tuttavia, la critica di Lévinas al «messianismo politico» non esclude affatto la possibilità di una «politica messianica»; anzi, esonerata la politica da finalità escatologiche, la rende auspicabile. L’espressione «politica messianica» rappresenta il rovesciamento delle priorità del «messianismo politico»: «politica in subordine», scrive Lévinas nella prospettiva della pace in Terra Santa.25 Assicurato all’idea messianica il primato di quell’ispirazione etica che la mette al riparo da una sua utilizzazione politica indiscriminata, che ne snatura la promessa di universalità, in Nouvelles lectures talmudiques, Lévinas definisce i criteri per cui una politica può dirsi «messianica» e assumere il «significato positivo» di democrazia: La risposta negativa non può assolutamente significare che per Israele – e per i suoi anziani del Negev – Stato equivalga ad anarchia. Indicherebbe invece che l’ordine politico accettabile può instaurarsi tra gli uomini solo se fondato sulla Torà, la sua giustizia, i suoi giudici, i suoi maestri sapienti. Politica messianica. Attesa, attenzione estrema e storia come veglia. Odio del tirannico, tirannico che sempre «innerva» il potere politico. [...] Odio che può anche essere inteso in modo più profondo, come un grado elevato di critica e di controllo verso un potere politico in sé ingiustificabile, a cui però una collettività umana, proprio in quanto molteplicità, è – in attesa del meglio – pragmaticamente costretta. Critica e controllo implacabili, che permettono a questa autorità politica di fatto, ingiustificabile ma inevitabile, di esercitare il suo potere di fatto. Potere peraltro sempre revocabile e provvisorio, sottoposto a incessanti e regolari revisioni. Non è forse così che si designano, in questo rifiuto del politico come pura tirannia, le linee della democrazia, ossia di uno stato aperto al meglio, sempre sul chi vive, sempre da rinnovare, sempre in procinto di tornare alle persone libere che gli delegano, senza separarsene, la loro libertà promessa alla ragione? E la parola eccessiva di
E. Lévinas, Difficile libertà, cit., p. 265. E. Lévinas, L’au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, Les Éditions de Minuit, Paris 1982; trad. it. E. Lévinas, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, a cura di G. Lissa, Guida, Napoli 1986, pp. 273-274. 25 Cfr. ibidem, pp. 277-284. 23
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«odio» – odio del potere e dell’autorità politica coercitiva – non significa forse lo stato democratico proprio come eccezione alla regola tirannica del potere politico che, secondo gli anziani del Negev, non merita che odio?26
Dalla politica messianica alla messianicità senza messianismo: Derrida La concezione levinasiana della «politica messianica», seppur poco più di una suggestione, ha trovato in Jacques Derrida un interprete estremamente attento. E non poteva essere altrimenti per un autore che proprio in quel periodo andava sviluppando la propria concezione messianica all’interno dell’orizzonte di una «democrazia a venire». In Adieu à Emmanuel Lévinas, Derrida espone chiaramente la relazione non orizzontale tra etica e politica e tra messianismo e politica insita nell’accezione levinasiana di «politica messianica»: «Lo iato, il silenzio di questa non-risposta a proposito degli schemi tra l’etico e il politico, resta. È un fatto che resta, e questo fatto non è una contingenza empirica, è un Faktum. Ma lo iato deve anche restare tra la promessa messianica e la determinazione di una regola, di una norma o di un diritto politico. Esso sottolinea un’eterogeneità, una discontinuità tra due ordini, foss’anche all’interno della Gerusalemme terrena».27 Eppure, Derrida finisce per radicalizzare fino alle estreme conseguenze tale discontinuità ed eterogeneità tra messianico e politico e, pertanto, nonostante le sue premure, procede oltre Lévinas e il suo messianismo: Questo stesso dovere d’analisi mi spingerebbe a dissociare, con tutte le conseguenze che ne possono seguire, una messianicità strutturale, una promessa irrecusabile e minacciante, un’escatologia senza teologia, da ogni messianismo determinato: una messianicità prima o senza un messianismo incorporato in tale rivelazione in un luogo determinato dal nome Sinai o Monte Oreb. Ma non è forse Lévinas stesso a permetterci di separare, in più di un senso, una rivelazione della Torà prima del Sinai? O più precisamente un riconoscimento della Torà prima ancora di questa rivelazione?28
È difficile pensare che Lévinas possa seguire Derrida fino all’idea di una «messianicità strutturale» che prescinda dal contenuto della religione ebraica; sappiamo come per Lévinas etica e religione tendano a coincidere, ma senza che quest’ultima venga meno. Questo, comunque, lo sa bene anche Derrida; ma per lui la religione – a differenza di Lévinas – minaccia quanto la politica nazionalista l’universalità della promessa messianica: Se l’appello messianico appartiene propriamente a una struttura universale, al momento irriducibile dell’apertura storica all’avvenire, quindi all’esperienza stessa e al suo linguaggio (attesa, promessa, impegno nei confronti dell’evento di ciò che viene, imminenza, urgenza, esigenza del benvenuto, della giustizia al di là del diritto, pegno dato all’altro
26 E. Lévinas, Nouvelles lectures talmudiques, Les Éditions de Minuit, Paris 1996; trad. it. E. Lévinas, Nuove letture talmudiche, SE, Milano 2004, pp. 64-66. 27 Jacques Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; trad. it. J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, pp. 186-187. 28 Ibidem, pp. 188-189.
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in quanto non è presente, presentemente presente o vivente, ecc.), come pensarlo attraverso le figure del messianismo abramico? È figura della sua astratta desertificazione o della sua originaria condizione? Il messianismo abramico non era forse solo una prefigurazione esemplare, il prenome dato sullo sfondo di quella possibilità per cui qui cerchiamo un nome? Ma allora perché conservare il nome, o almeno l’aggettivo (messianico, preferiamo dire, piuttosto che messianismo, al fine di designare una struttura dell’esperienza più che una religione), lì dove nessuna figura dell’arrivante, per quanto esso o essa si annunci, dovrebbe pre-determinarsi, prefigurarsi, e neppure prenominarsi? [...] Il messianico, ivi comprese le sue forme rivoluzionarie (e il messianico è sempre rivoluzionario, deve esserlo) sarebbe l’urgenza, l’imminenza, ma anche, paradosso irriducibile, un’attesa senza orizzonte d’attesa.29
La paradossalità dell’argomentazione di Derrida riguardo al messianico si esprime eminentemente nella definizione che ne fornisce: messianicità senza messianismo. Ma perché, per parlare di una struttura di pensiero in fondo filosofica – «quasi trascendentale» o «un incontro di speech act theory e onto-fenomenologia dell’esistenza temporale o storica», come egli stesso la definisce30 – ricorrere alla terminologia messianica, che, ammette egli stesso, è carica di presupposti religiosi e politici? Proprio per questo motivo: proprio perché la «democrazia a venire», in quanto «a venire» rispetto alla forma che oggi conosciamo e di cui sperimentiamo l’ipostatizzazione, la cristallizzazione e la coazione a ripetere, ha bisogno di tali presupposti. Ha bisogno, da un verso, della fede: Nessuna critica della religione, di ogni religione determinata, per quanto necessaria e radicale tale critica possa essere, non mi sembra debba né possa colpire la fede in generale. [...] l’esperienza della credenza, del credito, della fede nella parola data (al di là del sapere di ogni possibilità «constatativa») appartiene alla struttura del legame sociale o del rapporto all’altro in generale, all’ingiunzione, alla promessa, alla performatività implicata in ogni sapere e in ogni azione politica, in particolare in ogni rivoluzione. [...] L’espressione «messianico senza messianismo» mi è sembrata appropriata, almeno provvisoriamente, alla traduzione di questa differenza tra fede e religione.31
Dall’altro verso, una «democrazia a venire» ha bisogno proprio di un’esperienza del tempo aperta alla possibilità della rivoluzione: «ho contrassegnato la parola rivoluzione con un valore positivo, affermativo, anche se la figura e l’immaginario tradizionale della rivoluzione mi sembrano richiamare qualche “complicazione...”. Ciò che pongo sotto il titolo di “messianicità senza messianismo” è impensabile senza riferimento a momenti rivoluzionari che interrompono non soltanto uno stato di conservazione, ma anche un processo di riforma».32 Nel momento in cui è chiamato a giustificare il suo ricorso al paradigma messianico, per non far evaporare la sua idea di «democrazia a venire» in una dimensione astrattamente e inefficacemente utopica, in effetti, Derrida non sembra distaccarsi poi molto dalla lezione talmudica
29 J. Derrida, Spectres de Marx, Galilée, Paris 1993; trad. it. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano 1994, pp. 210-211. 30 Cfr. J. Derrida, Marx & Sons, PUF/Galilée, Paris 2002, pp. 72, 78. 31 Ibidem, p. 81; trad. nostra. 32 Ibidem, pp. 57-58; trad. nostra.
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e dal compito etico di cui è improntata la «politica messianica» di Lévinas. E tuttavia, il ricorso a un certo motivo rivoluzionario per caratterizzare la sua «messianicità senza messianismo» rievoca lo spirito del messianismo politico e mostra come neanche la lettura messianica di Lévinas, da cui prende spunto, sia riuscita fino in fondo a esorcizzarlo. È, infatti, la possibilità dell’«azione messianica» in quanto «interruzione» della continuità e del perdurare di ogni status d’ingiustizia, che Derrida, stavolta in confronto con Benjamin, non riesce a eludere nella propria concezione messianica della «democrazia a venire».
Ilana Bahbout Il messia alle porte della città. Per una filosofia della marginalità
Il messia ... dove si trova? Alle porte della città... Talmud Babilonese, Sanhedrìn 98a
Messianismo: quel margine funzionale ai processi di cambiamento Difficilmente un’«idea ebraica» ha suscitato tanta fascinazione come quella messianica, soprattutto nell’ultimo secolo, costituendo un interrogativo fondamentale e universale non solo in tema di religione, ma anche di politica, filosofia, antropologia ed etica. Secondo Idel infatti: il messianismo può essere studiato secondo prospettive diverse. Se l’interpretazione sociologica dà rilievo alle espressioni messianiche quali si manifestano nei vari strati della popolazione e soprattutto fra le masse, la psicologia si rileva ideale per l’analisi tanto della coscienza messianica a livello popolare quanto della personalità straordinaria di un messia. Il messianismo può essere studiato anche come parte di un complesso di concezioni religiose, allo scopo di integrarle in una determinata teologia o collocarle nell’ambito concettuale della storia delle idee. È possibile inoltre indagare la relazione tra coscienza messianica ed esperienza mistica individuale.1
Questa trasversalità, a mio avviso, è data dal fatto che proprio il messianismo sembra aprire degli orizzonti di senso tali da costituire un punto di partenza, una sorta di origine attraverso cui pensare le grandi categorie di «tempo» e di «storia». Ma soprattutto, sulla scia di grandi autori, quali Benjamin e Bion, dei quali tratterò, il messianismo sembra offrire un fondamento e un valido modello interpretativo in grado di spiegare i processi di cambiamento – storico, legislativo e conoscitivo – molto più di quanto l’idea di progresso riesca a fare, riuscendo infatti a includere gli elementi di continuità e di rottura, le attese e l’irrompere degli eventi, tenendo insieme tradizione e innovazione e facendo luce sugli aspetti statici e dinamici. Il messia, che accade declinandosi in singole figure eccezionali o in movimenti spirituali, intellettuali o politici differenti, assolverebbe quindi alla funzione di rendere il cambiamento non solo pensabile, ma anche possibile. Questa condizione di possibilità si basa su una particolare caratteristica che cercherò di illustrare: essa gioca su un’ambiguità di fondo, che si esprime nell’essere al contempo dentro e fuori; dentro e fuori la storia, il gruppo, la legge e il sapere: dentro e fuori il «già codificato». Il messia è sempre ai margini: sorge e agisce in periferia. Ma cosa significa questa periferia, questa marginalità? Fantasticato, desiderato, previsto dalla legge e atteso dalla storia, egli nasce, come vedremo, secondo i testi
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Moshe Idel, Mistici messianici, Adelphi, Milano 2004, p. 17.
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della tradizione ebraica, ai limiti della città e della storia, per assolvere al compito di portare una qualche salvezza e fondare un mondo «nuovo». Di quale marginalità, funzione, fondamento e salvezza si tratti, sono tutte domande a cui vorrei tentare di rispondere. Il messia come mistico. Una teoria delle rivoluzioni Secondo Idel, il quale definisce come messianiche le idee, le concezioni e le personalità connesse a stati di redenzione presenti e futuri, «esiste uno stretto legame tra alcune forme di messianismo, in particolare le personalità messianiche che le esprimono, e alcuni generi di esperienza mistica: in molti casi l’esperienza mistica costituisce il cuore stesso di un’autocoscienza messianica [...]. Seppure molte teorie tradizionali ebraiche sostengono l’esclusione reciproca di queste due idee, perché il mistico sembra essere rivolto a ciò che è immutabile, in realtà moltissimi sono i casi di mistici e di esperienze mistiche che hanno a che fare con il rivelato e il mutevole», tanto che «il mistico, in un contesto di imitatio dei, può essere indotto ad agire nel mondo temporale soggetto a cambiamento. Si può sostenere pertanto che l’essenza di alcune forme di autocoscienza messianica o anche di un’attività messianica abbia origine da esperienze interiori affini, e talora identiche, a ciò che si definisce genericamente esperienza mistica. In altri termini, ritengo che la manifestazione di una coscienza messianica sia spesso da associare a specifici eventi spirituali interiori che possono suscitare nel singolo una consapevolezza della sua particolare importanza, la quale talvolta si esprimerà in una missione dichiaratamente messianica».2 Questo accostamento, del mistico messianico o del messia come mistico, ci permette di compiere un salto importante: iscrivere il messianismo all’interno di una cornice non escatologica, bensì terrena, e porre le basi per comprendere le caratteristiche e il ruolo che il messia può assumere nella società e nella storia. Per un’adeguata comprensione di questo «messia mistico», mi servirò del lavoro di un autore assolutamente originale, Wilfred R. Bion. Psicoanalista anglo-indiano, oltre che studioso delle religioni, Bion fu infatti uno dei primi a dedicarsi allo studio dei gruppi, lasciandoci delle preziose intuizioni e sistematizzazioni circa le dinamiche che li caratterizzano: proprio all’interno di queste analisi, Bion inserisce una riflessione dettagliata, per noi molto utile e calzante, del ruolo che il mistico assume nel gruppo e, a questo proposito, scrive: «L’idea che considero essere la controparte del mistico o del genio la chiamerò ‘idea messianica’. L’idea messianica può essere confusa con l’idea che lui, lei o esso siano il Messia. La persona la chiamerò ‘il mistico’ e userò come interscambiabili i termini ‘mistico’ e ‘genio’ (1966, p. 21)».3 Mistico, genio e messia – e altrove anche artista – diventano per Bion i termini di una medesima funzione. Descriveremo dunque, molto brevemente, l’interpretazione bioniana dell’idea messianica e il rapporto che intercorre tra questa e il gruppo.
Ibidem, pp. 19-20. W. R. Bion, Il Cambiamento Catastrofico p. 21, 1966, cit. in A. Cotugno, L. Santacecilia, Il mistico e il gruppo, in Letture bioniane, a cura di C. Neri, A. Correale, P. Fedda, Borla, Roma 1987, p. 350. 2 3
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Secondo l’autore, questo rapporto è prima di tutto caratterizzato da una essenziale conflittualità che sorge non appena il gruppo viene istituzionalizzato. Ogni gruppo infatti si dà una struttura organizzata, incarnata dall’Istituzione, senza la quale non potrebbe neanche sopravvivere o svolgere alcuna forma di attività. L’Istituzione nasce per contenere le spinte nichilistiche che si verificano nel gruppo, che potrebbero stravolgere i singoli individui qualora non avessero una organizzazione normativa di riferimento. Il mistico, in questo quadro, rappresenta proprio colui che potrebbe distruggere l’ordine dell’Istituzione, a causa del suo contatto diretto con l’ignoto, con i pensieri selvaggi e inaccessibili (l’origine, «O», nella terminologia bioniana) o, detto altrimenti, con Dio. L’Istituzione quindi è necessaria alla vita del gruppo, ma costituisce una cesura tra uomo e Dio; se da una parte essa lavora per una normalizzazione, codificazione di leggi o dogmi religiosi, il mistico si oppone alle sue pressioni conformistiche, stimolando il cambiamento nel gruppo e adempiendo, così, a una funzione mentale fondamentale, che è quella di promuovere l’evoluzione del gruppo e ripristinare un contatto vivo con «O». La società, in quest’ottica, diviene il campo in cui si manifestano i conflitti tra le idee rivoluzionarie e l’autorità tradizionale, tra messianismo e dogmatismo. Nello specifico, «il rapporto tra il gruppo e il mistico», scrive Bion, «può appartenere a tre categorie. Esso può essere conviviale, simbiotico o parassitario [...]». Nella relazione conviviale, i due partecipanti coesistono senza che l’esistenza di uno di essi costituisca un pericolo per l’altro. Nella relazione simbiotica invece esiste un contrasto, il cui risultato stimola la crescita anche se quest’ultima può essere scorta con una certa difficoltà. Nella relazione parassitaria il prodotto dell’associazione è tale da distruggere ambedue i partecipanti ad essa. [...] In una relazione simbiotica il gruppo è capace di ostilità e di benevolenza e il contributo del mistico viene sottoposto ad un’attenta disamina. Grazie a questa, la statura del gruppo come anche quella del mistico, crescono. Nell’associazione parassitaria perfino l’amichevolezza è mortale [...] l’atteggiamento assunto dal mistico verso il gruppo è che esso deve prosperare o disintegrarsi, ma non restare indifferente. [...] Il gruppo parassitario può anzitutto cercare di distruggere il mistico o le idee mistiche (messianiche); ma se non riesce in questo, allora deve «istituire» la verità del mistico o delle idee mistiche.4
Nel caso in cui avvenga un reciproco riconoscimento, le due controparti elaboreranno la loro distanza in maniera costruttiva e adempieranno alla loro funzione vitale e salvifica. Bion infatti individua anche nel mistico una funzione assolutamente vitale per il gruppo, nonostante all’inizio rischi di essere distruttiva:5 a quest’uomo,
4 Wilfred R. Bion, Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma 1973, pp. 106-108; ed. or. Attention and Interpretation, London 1970. 5 Infatti, «Bion, dapprima differenzia un mistico distruttivo da uno creativo nichilista, [...] giunge poi a sottolineare in ogni caso la qualità distruttiva, caratteristica fondamentale per spiegare la ostilità che inizialmente si manifesta da parte del gruppo verso il mistico. Infatti il vero mistico è considerato dal gruppo e tale egli in effetti si configura perché deputato dal gruppo alla realizzazione di un contatto diretto con la verità assoluta (O) che, in quanto tale, non è riscontrabile nel dominio della conoscenza e dell’apprendimento, ma in quello dell’ignoto e dell’inconoscibile. D’altra parte, però, il contatto con l’O del mistico, come già accennato, è distruttivo nei confronti degli ordinamenti, della struttura e della cultura del gruppo. Una elevata conflittualità tra tradizione e innovazione pare dunque incarnarsi nella figura del mistico, alla cui autorità, para-
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di virtù eccezionali, spetta il compito e la capacità di riasserire non solo un’esperienza diretta di Dio o di «O», di cui gli individui del gruppo, una volta istituzionalizzato, sono stati depauperati. Ma egli è colui che opera la sintesi delle idee innovative, è colui che ha la sensibilità di raccogliere le emozioni, le credenze, che aleggiano incomprese all’interno del gruppo, per restituirle sotto forma di concetti nuovi e comprensibili, grazie al suo contatto diretto ed emotivo con la «verità assoluta». In conclusione, se da una parte il mistico è essenziale alla vita del gruppo, anche il gruppo è essenziale alla vita del mistico, anzi, spiega Bion, il mistico nasce proprio al suo interno. Bion definisce infatti questa figura come una «fantasia» che nasce nel gruppo stesso, sotto forma di artista, genio, leader, messia o mistico, che, arrivando dall’esterno rispetto all’Istituzione, restituisce un senso alle esperienze del gruppo attraverso nuove «visioni» e nuove «configurazioni emotive», acquisendo una funzione vitalizzante e rigenerativa nel processo di sviluppo dell’identità del gruppo stesso. Per queste sue caratteristiche, il messia è dentro e fuori contemporaneamente, al limite ma anche all’interno del gruppo. Questa tensione tra il dentro e il fuori, tra l’immanente e il trascendente, è quella che rende la relazione tra il gruppo e il mistico così complessa. Inizialmente il mistico è destinato ad agire ai margini, dove mantiene il suo contatto con «O», per poi divenire parte del gruppo ed essere integrato dall’Istituzione; insomma, «la funzione del gruppo è quella di produrre un genio; la funzione dell’Istituzione è quella di raccoglierne ed assorbirne le conseguenze, in modo che il gruppo non ne venga distrutto».6 Il pensiero bioniano sembra offrirci, come accennato all’inizio, un valido modello interpretativo delle dinamiche che portano verso importanti e irreversibili cambiamenti e sviluppi: una teoria del cambiamento in cui l’idea messianica gioca un ruolo, è il caso di dire, fondamentale; è il messia infatti a essere quella condizione di possibilità perché il gruppo allarghi i propri orizzonti verso nuove comprensioni. Bion, allora, mostra, a partire dall’idea messianica, una «struttura delle rivoluzioni», salvaguardandone le tensioni, le possibilità, la storia e la fenomenologia: un tentativo di spiegare i mutamenti di «paradigma», per usare la terminologia del filosofo della scienza Thomas Kuhn nel suo celebre saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche7 e nel suo testo successivo Dogma contro critica.8 Secondo questo autore, infatti, lo sviluppo scientifico è frutto di un’intuizione che sorge al di là della «scienza normale» (quel sapere condiviso e codificato istituzionalmente), e agisce dal di fuori, modificando e ampliando il modello vigente, portando nuove configurazioni che includono quelle precedenti, ma allo stesso tempo le trasformano,
dossalmente, è diretto l’attacco del gruppo. [...] Accogliere il mistico per non lasciarsi sconvolgere dal nichilismo di cui sono permeate le idee messianiche è il conflitto entro cui si dibatte il gruppo. Alla soluzione di questo problema viene deputata l’Istituzione che è la “la struttura che governa la società” (Bion 1970, p. 151) e di cui “non è possibile fare a meno perché il gruppo istituzionalizzato è essenziale allo sviluppo dell’individuo, ivi compreso il mistico, tanto quanto quest’ultimo lo è ad esso” (Bion 1970, p. 103)». A. Cotugno, L. Santacecilia, Il mistico e il gruppo, in Letture bioniane, cit., p. 350. 6 Wilfred R. Bion, Attenzione e Interpretazione, cit., p. 112. 7 Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969. 8 T. Kuhn, Dogma contro critica, Cortina, Milano 2000.
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determinando un cambiamento irreversibile: «Lo sviluppo scientifico deve essere considerato come un processo guidato da dietro piuttosto che tirato dal davanti – un’evoluzione a partire da, piuttosto che un’evoluzione verso».9 Walter Benjamin si può dire che esprima questa stessa idea, in modo diverso, attraverso un’altra famosa immagine, quella dell’Angelus Novus o «Angelo della storia»: C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.10
In sintesi, i cambiamenti non sembrano avvenire secondo una logica lineare e prevedibile a priori, ma, secondo questi autori, sono conseguenti a una cesura e all’irruzione dall’«alto», o dal punto limite, di un altro significato-significante che ci porta ad assumere uno sguardo comprensivo nuovo, che include, in qualche modo, la memoria delle vecchie credenze. E, sia per Bion che per Kuhn, il destino di queste nuove configurazioni è quello di venire poi istituzionalizzate o, detto altrimenti, divenire parte del sapere normale. Anche Scholem mette in evidenza quanto l’azione del mistico si muova sempre all’interno della comunità, tra innovazione e tradizione, tra spirito rivoluzionario e spirito conservatore, tra direzioni emotive nuove da una parte e simboli tradizionali dall’altra, così come l’idea messianica è caratterizzata dalla tensione irriducibile tra utopia e restaurazione.11 E sempre Scholem descrive il rapporto tra il mistico e l’autorità religiosa in modo incredibilmente simile a Bion. Anch’egli, infatti, sostiene l’esistenza di due tipi di mistici che, a causa del loro contatto diretto con la divinità, sono entrambi portatori di un’«esperienza informe»,12 origine degli infiniti sensi e delle molteplici interpretazioni che si rivelano al mistico nel corso della storia. Ma mentre il primo cerca «la via per tornare alla forma, che è anche la via che porta alla comunità»13 e instaura un rapporto dialettico con l’istituzione e il gruppo, il secondo, «che ha sperimentato la dissoluzione come valore supremo, cerca di preservare l’informe con spirito adialettico, anziché trasformarlo in un impulso per la costruzione di una nuova forma»,14 e questi è il nichilista. Mentre il primo cerca di muoversi ai margini, tra i due poli, lavorando per una formalizzazione del proprio pensiero, il
Ibidem, p. 145. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1999, p. 80. 11 Cfr. Michael Löwy, Redenzione e utopia, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 22-35. 12 Gershom Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980, p. 15. 13 Ibidem, p. 16. 14 Ibidem. 9
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secondo rimane fuori e rappresenta l’aspetto più puro dello spirito rivoluzionario del misticismo. Quest’ultimo difficilmente riesce a costituire quell’elemento di cambiamento e di sviluppo evolutivo all’interno del gruppo, ma eventualmente ne fonda uno nuovo a partire da sé. In conclusione, anche per Scholem, se il contatto con l’informe si declina in un rapporto dialettico e mantiene il mistico in una posizione di marginalità, allora il suo messaggio assumerà un valore costruttivo e, col tempo, diventerà parte della comunità stessa. Figure messianiche: ai margini dello spazio e del tempo Questa fondamentale marginalità è molto visibile in alcune delle storie e delle figure bibliche su cui anche il Midrash e il Talmud si soffermano: vi sono personaggi che sembrano emarginati sociali, tempi che sembrano non avere storia, vicissitudini e luoghi che appaiono decentrati, eppure proprio questi diventano la sorgente messianica. Il Messia, infatti, nasce al di qua della storia e del mondo, come è scritto: «sette cose furono create prima che l’Universo fosse. Esse sono: Torà, Penitenza, Paradiso, Gehinnom, il Trono della Gloria, il Santuario e il Nome del Messia»15 e «il re Messia nacque fin dall’inizio della creazione del mondo, perché entrò nella mente (di Dio) ancor prima che il mondo fosse creato».16 Egli, inoltre, si trova alle «porte della città»17 e si fa avanti durante alcuni momenti apparentemente decadenti della storia ebraica, per via di personaggi che potremmo definire non solo marginali, ma addirittura «scomodi». Quando inizia, difatti, secondo la Torà, la storia del Messia? Dopo che Giuseppe viene venduto dai propri fratelli agli egiziani e prima che vengano descritte le sue vicende in Egitto, è scritto: E avvenne in quel tempo che Giuda si separò dai fratelli...18
E il Midrash commenta: «E fu in quel tempo»: R. Shmuel figlio di Nahman esordì: Io conosco bene i progetti che ho fatto per voi, ecc., per darvi avvenire e speranza (jer 28,11). I capostipiti delle tribù erano occupati per la vendita di Giuseppe, Giacobbe stava vestito di sacco ed in digiuno, Giuda si preoccupava di prendere moglie, ed il Santo, Egli sia benedetto, si occupava di creare la luce del Messia.19
Tra i due grandi capitoli della storia di Giuseppe, la Torà apre una parentesi per inserire un filo rosso, quello messianico. Questa parentesi, che appare nel racconto biblico come una cesura, è la storia di Giuda e Tamar, dalla cui unione sorgerà la progenie messianica. Secondo la Torà, infatti, dopo la vendita del fratello Giuseppe, Giuda si unì ad una donna cananea, da cui nacquero tre figli: Er, Onan e Shela. Poi,
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Talmud Babilonese, Pesachim, 54a. Pesikta Rabbatì, 152b. Talmud Babilonese, Sanhedrin, 98a. Genesi, 38, 1. Bereshit Rabbà, 85, 2.
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Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar. Ma Er, il primogenito di Giuda, si rese spiacevole a Dio e Dio lo fece morire. Allora Giuda disse ad Onan: «accostati alla moglie di tuo fratello, compi verso di lei il dovere di cognata e fa sussistere così una posterità per tuo fratello». Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata computata come sua, e ogni volta che si univa alla moglie di suo fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità a suo fratello. E quello che egli faceva dispiaceva a Dio, Che fece morire anche lui. Allora Giuda disse alla sua nuora Tamar: «Ritorna a casa di tuo padre in stato di vedovanza, fin quando mio figlio Shela non sarà cresciuto». Perché pensava: «Che non muoia anche questo come i suoi fratelli!». Così Tamar se ne andò e ritornò a casa di suo padre.20
Passarono molti giorni e del figlio di Giuda Tamar non seppe mai nulla. Ma quando la moglie di Giuda morì, terminato il lutto, Tamar agì di propria iniziativa e trovò un modo per rimanere incinta direttamente da Giuda: togliendosi gli abiti della vedovanza, si finse prostituta e, senza farsi riconoscere, si fece trovare da lui sulla strada. Qui si unì a lui e, dopo essersi fatta lasciare il suo sigillo e il suo bastone come pegno, tornò via. Ora avvenne che circa tre mesi dopo fu portata a Giuda questa notizia: «Tamar, la tua nuora, si è prostituita, ed anzi è incinta in conseguenza della prostituzione». E Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». Essa veniva già condotta fuori, quando mandò a dire al suo suocero: «È dell’uomo a cui appartengono questi oggetti, che io sono incinta». E aggiunse: «Riscontra, dunque, di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone». Allora Giuda li riconobbe e disse: «Ella è più giusta di me, perché io non l’ho data al mio figlio Shela».21
Tamar partorì due gemelli, Peretz e Zhera. Più avanti, nel libro di Ruth, è scritto: E questa è la genealogia di Peretz: Peretz generò Chetzròn; Chetzròn generò Ram e Ram generò Aminadav; Aminadav generò Nachshòn e Nachshòn generò Salomòn. Salomòn generò Boàz e Boàz (unendosi a Ruth) generò Ovèd. Ovèd generò Ishai e Ishai generò Davìd.22
E nel libro di Isaia: Uscirà un ramo dal tronco di Ishai e un rampollo spunterà dalle sue radici; e si poserà su di lui lo spirito del Signore, spirito di sapienza e discernimento, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor di Dio [...]. Sarà la giustizia cintura dei suoi lombi, e la rettitudine cintura dei fianchi. Allora dimorerà il lupo con l’agnello; si coricherà il leopardo con il capretto, e il vitello e il leone staranno assieme, e un piccolo ragazzo li guiderà [...].23
La genealogia parla chiaro e anche le storie che entro questa sono inserite parlano chiaro: sono le storie di Tamar e Ruth, che rappresentano e costituiscono due nodi fondamentali nella storia ebraica. Esse si svolgono tra i sentieri lontani dai
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Genesi, 38, 6-11. Genesi, 38, 24-26. Ruth, 4, 17-22. Isaia, 11.
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centri abitati o, come nel caso di Ruth, alle porte della città,24 e narrano le vicende di due donne semplici, non ebree, vedove, che reclamano, attraverso se stesse e appellandosi all’«emozione» di una responsabilità autentica, un’etica originaria,25 che diverrà la culla del futuro Messia. A partire da queste vicende, si potrebbe percorrere tutta la storia ebraica cercando di evidenziare, come per gioco, tutti quegli esempi, personaggi o gruppi di persone, che assumono, in un determinato momento, una funzione messianica. Itrò, solo per citare un esempio, è uno di questi: egli vive al di là dell’Egitto, in periferia, e da straniero si converte all’ebraismo dopo aver conosciuto molte fedi e culture. Divenuto suocero di Mosè, poi, è il solo che si mostra abbastanza saggio da dargli dei suggerimenti etici validi circa l’organizzazione della giustizia e, proprio a Itrò, la Torà dedicherà il cuore dell’etica ebraica, ovvero i dieci comandamenti.26 Ma potremmo scavare ancora più a fondo e azzardare altre analogie per scoprire come si declini ulteriormente lo spirito messianico. Nel campo della conoscenza e dello studio, un esempio significativo e forse illuminante può essere quello di Resh Lakish, uno dei maestri più famosi del Talmud. Questi è un chozher bitshuvà, ovvero un uomo che da una condizione di estrema lontananza dalla Torà, dopo alcune vicende, decide di «tornare» dentro il mondo della Torà e di dedicarsi quindi al suo studio e alla sua osservanza. Egli da vero e proprio brigante, quale era, come ci viene narrato nel Talmud, diviene maestro. Tra le caratteristiche di Resh Lakish, oltre a un’intelligenza acuta e vivace, spicca soprattutto la sua capacità di attribuire nuovamente il senso originario, anche molto semplice, a cose, azioni e oggetti che le scuole rabbiniche, a causa della loro chiusura, hanno perso. Resh Lakish, quindi, rivela quanto «l’esperienza del fuori» sia indispensabile all’Istituzione: «nessuno infatti come lui, che aveva usato le armi, sapeva prospettare infallibili sistemi per purificare dopo l’uso, e nessuno, come lui che aveva fatto teshuvà,27 sapeva escogitare il miglior modo per indurre gli sbandati a tornare sulla retta via. Le sue parole venivano quindi sempre accettate dopo un minimo dibattito, e ciò non mancava di suscitare qualche gelosia».28 Potremmo fare un salto molto più in là nel tempo e avvicinarci ai nostri giorni, pensando questa volta non tanto a una persona, quanto piuttosto a un movimento spirituale, quale il Chassidismo: qui la funzione messianica sembra incarnata da un gruppo che, pur muovendosi attorno ad alcune figure carismatiche in un primo momento fortemente osteggiate, compie una sorta di rivoluzione rispetto al precedente
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3 e 4).
La parte più saliente della storia di Ruth si svolge alle porte della città (Cfr. Ruth, capitoli
Proprio il comportamento di queste due donne verrà ricordato e utilizzato come «caso esemplare» nella legislazione successiva; in particolare quello di Ruth, che diverrà l’origine di molte halakhot (prescrizioni). Cfr. Commento di Rashì e Torà Temimà di Ruth, capitoli 2, 3 e 4. 26 I dieci comandamenti si trovano infatti nella Parashà di Itrò. (La Torà è divisa in brani – Parashot – e ognuno di questi porta un nome che i rabbini hanno attribuito in maniera non casuale). 27 Teshuvà vuol dire «ritorno» ed è appunto il termine tecnico che si usa per indicare il percorso di avvicinamento o riavvicinamento allo studio della Torà e all’osservanza dei suoi precetti, da una condizione di estraneità o lontananza da essa. 28 Talmud Babilonese, Babà Metzià, 84a. Traduzione di Giacoma Limentani. 25
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modo di vivere l’ebraismo. L’importanza e la centralità, infatti, che il Chassidismo dà al coinvolgimento emotivo, alla preghiera e all’etica, piuttosto che alla mera osservanza delle leggi o a un tipo di studio rigoroso e soprattutto intellettuale del Talmud, ha ampliato le possibili modalità di «essere ebrei» nell’età moderna. Per una filosofia della marginalità In conclusione, l’accettazione del mistico, sia esso un gruppo minoritario o un individuo, sembra permettere lo sviluppo del gruppo, che grazie al contatto con una nuova forma di sentire, salvaguarda l’unità di senso e la possibilità di un rinnovamento. Con Bion abbiamo appreso le tensioni, la tragicità e il significato che l’avventura messianica può avere e ne abbiamo evidenziato il carattere non solo spirituale, ma anche umano e «relazionale». Questo messianismo, così descritto, incarnato nell’opera e nella responsabilità di alcuni individui o gruppi «eccezionali», come abbiamo già detto, è un messianismo etico piuttosto che escatologico e «avviene» nella storia, determinando dei cambiamenti che salvaguardano la memoria e il rapporto intrinseco con il passato. Possiamo affermare, in linea con Mosè Maimonide, che il messia non viene per stravolgere, ma per ampliare la nostra conoscenza e la nostra libertà.29 Per questo, il messia si muove tra tradizione e innovazione: è radicato in entrambe, ma giace ai margini e agisce come fosse un evento che irrompe, cambiando profondamente e in maniera irreversibile il modo di percepire il mondo, mantenendo però un debito «necessario» con il passato. Questo debito strutturale diventa ancora più visibile se consideriamo il fatto che, dopo la propria missione, il messia svanisce nella normale quotidianità e diviene ricordo: diventa parte della «tradizione» e di quell’Istituzione che prima rappresentava la sua controparte. Detto altrimenti, questo è il destino di ogni angelo: creato per adempiere a una specifica missione, atteso, desiderato e pensato da un gruppo, come per necessità, svanisce come un’occasione, non appena la sua funzione non viene esaudita e il suo attimo raggiunto.30 Così il messia, compiuta la propria «missione», assume le sembianze del mondo terreno e pone fine alla propria esistenza specifica e differente. Egli sembra fallire per sua stessa natura, perché destinato a essere inglobato dall’Istituzione, qualora instauri con essa un rapporto costruttivo e di adeguato riconoscimento.31
29 Secondo Maimonide, il Messia svelerà i significati della Torà non ancora conosciuti e Israele riacquisterà la propria sovranità e non sarà più soggetta ad altri popoli: «Non si pensi che nell’era messianica possa cambiare qualcosa nell’assetto naturale del mondo o che intervenga un radicale mutamento delle condizioni dell’esistenza». Maimonide, Mishnè Torà, Trattato sui Re XI, in Giuseppe Laras, Mosè Maimonide. Il pensiero filosofico, Morcelliana, Brescia 1998, p. 202. Maimonide «non fa alcun cenno ai miracoli o ad altri segni messianici. Il tempo messianico porta con sé, in senso negativo, la libertà di Israele dal presente asservimento e, come presunto positivo, la libertà gli consente di aderire alla conoscenza di Dio». G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, p. 105. Cfr. Roberto Della Rocca, Maimonide e il messianismo, nel presente volume. 30 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi, Milano 1978. 31 Da questo punto di vista, la distinzione tra il «Mashiach Ben Josef» – ovvero il Messia che fallisce, perché non riesce a raggiungere il riconoscimento dall’Istituzione, e assume, nel migliore
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Se ci poniamo da un punto di vista ontologico, ciò vuol dire anzitutto che è «il fuori» ad avere la facoltà e il potere di istituire32 e lo fa fino a che, da altro, non diviene parte dello stesso e del mondo ordinario. Questo fuori, dunque, che è trascendente e non codificabile, che è oltre e si pone tra l’attesa e l’azione, è «il fuori» indicibile che, come sostiene anche Lévinas,33 svanisce non appena diventa parola, pensiero, atto. Ma questa «esperienza del fuori» è un’esperienza «mistica»: ci fa andare oltre noi stessi per ricongiungerci alla domanda originaria sul nostro senso, allargare sempre di più gli orizzonti del nostro sapere e comprendere «dove siamo». Il messia allora, citando Heidegger, è come fosse un «nullo fondamento»: ci richiama sempre alla nostra origine, decentrata, che, qualora la si voglia esprimere e codificare, svanisce; ma è proprio questa origine, mai codificabile, che ci pone di fronte ai limiti e alla ricchezza della nostra esistenza, di fronte al senso del nostro sentire e agire. Il messia viene a metterci in crisi quando abbiamo dimenticato cosa significhi esistere, affinché ne possiamo avvertire, nuovamente, la piena responsabilità: la nostra direzione esistenziale. Il messia, pertanto, può venire in ogni momento; egli, seppure nascosto, è presente in ogni generazione, pronto a rivelarsi in ogni istante. Perciò, la domanda diventa non più quando arrivi, ma dove trovarlo: egli «è alle porte di Roma»34 e la sua venuta può accadere «oggi stesso»;35 o piuttosto: «oggi, se voi volete udire la mia voce».36 Allora, dovremmo solo imparare ad ascoltarlo, per capire fino in fondo chi siamo o, semplicemente, a che punto ci troviamo del nostro cammino.
dei casi, una funzione semplicemente «propedeutica» per il Messia successivo – e il «Mashiach Ben David» – il Messia che invece riesce a fare breccia e diviene poi parte dell’Istituzione – sembra venire meno. Il Messia, piuttosto, pare abbia sempre entrambe le facce, che si declinano nella storia ogni volta in forma differente. 32 Cfr. Michel Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano 1998. 33 Cfr. Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1982 e Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1983. 34 Talmud Babilonese, Sanhedrin 98a. Cfr. E. Lévinas, Il messianismo, Morcelliana,Vago di Lavagno (Vr) 2002, pp. 72-73. 35 Ibidem. 36 Salmi, 95,7.
Glossario a cura di Giada Coppola
Aggadà: parola di origine aramaica, significa propriamente «narrazione». Costituisce la parte non normativa della tradizione rabbinica, difficile da definire in modo univoco poiché l’Aggadà si articola attraverso leggende, aneddoti, esortazioni di carattere morale, elementi narrativi (che talvolta completano i racconti dei testi biblici), credenze popolari e soprattutto interpretazioni a carattere filosofico e teologico. Spesso in apparente contrapposizione con l’Halakhà, in realtà è complementare a quest’ultima proprio perché la Legge Orale vede il suo fondamento in queste due componenti. Secondo l’interpretazione di Shmuel ha-Naghid (993-1056), tutto ciò che non appartiene all’Halakhà deve essere considerato come Aggadà; della stessa opinione è Chaim Nachman Bialik (1873-1934), che le definisce in questo modo: «Halakhà e Aggadà sono davvero due, ma sono un’unica cosa, due volti della stessa creatura». Secondo Mosè Haim Luzzatto, la Legge Orale è determinata proprio da queste due diverse componenti: una prettamente legale, l’Halakhà e le mitzvòt, e l’altra «segreta», l’Aggadà e la Qabbalà. Amoraim: letteralmente «interpreti, oratori»; a loro viene attribuito il commento e l’interpretazione della Mishnà (tra il 200 e il 500 e.v.), che diventerà una parte a sé stante del Talmud: la Ghemarà. Ashkenaz (da cui ashkenazita): antico nome della Germania. Gli ashkenaziti, infatti, sono gli ebrei originari della Renania, e più in generale sono gli ebrei che appartengono alle grandi comunità dell’Europa centrale e orientale. Av: quinto mese del calendario ebraico, mese in cui viene ricordata la distruzione del Primo e del Secondo Tempio di Gerusalemme; il 9 di Av, Tishà be-Av, infatti, è ricordato nella tradizione come giorno di lutto e di digiuno. Bar/Bat Mitzvà: letteralmente «figlio/figlia del precetto», ovvero la cerimonia con cui si celebra la maggiorità religiosa (12 anni per le femmine, 13 anni per i maschi). Chassidismo: deriva dalla parola chassid, letteralmente «pio». Movimento che nasce attorno al XVIII secolo in Ucraina con Rabbi Israel ben Eliezer, meglio conosciuto come Baal Shem Tov, e si diffonde in tutta l’Europa orientale. I chassidim, coloro che aderiscono a questo movimento, conducono una vita incentrata sull’ideale dello tzaddiq, ovvero della giustizia, interamente volta a Dio. Chazzanut: musica sinagogale o liturgica. Chevlè Mashiach: le sofferenze messianiche (letteralmente «doglie»), espressione che si trova in Sanhedrin 98b («Un discepolo di Rav Eleazar chiese a lui: “Come può un uomo evitare le sofferenze [che precedono la venuta] del Messia?”. “Attraverso lo studio della Torà e gli atti di carità”»). Questa espressione è
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spesso utilizzata per indicare in senso lato i segni apocalittici che precedono la venuta del Messia. Chissè: letteralmente «trono»; nella profezia di Ezechiele indica in senso lato grandezza e magnificenza di Dio (cfr. Maimonide, Guida dei perplessi I, 9). Il termine chissè può significare anche «Santuario», ovvero il Tempio di Gerusalemme (Maimonide, Guida dei perplessi I, 9). Il trono di Dio è un elemento fondamentale nella letteratura qabbalistica. Devequt: letteralmente significa «adesione»; indica la massima unione con Dio; nel lessico qabbalistico assume anche il significato di estasi, uno dei valori più alti a cui l’uomo può aspirare. Era Volgare: abbreviato e.v.; in genere questa modalità di calcolo sostituisce la datazione del calendario giuliano; era volgare, dunque, viene a sostituire la datazione a.C. e d.C. Gheonim: da gaon, che significa propriamente «orgoglio», ma in senso lato ha il significato anche di «eccellente». È un titolo che fu attribuito per la prima volta ai capi delle scuole rabbiniche di Sura e Pumbedita in Babilonia (VI sec.). Queste due scuole rabbiniche furono particolarmente rilevanti per l’interpretazione del Talmud e dell’Halakhà: infatti, fino all’XI secolo vengono considerate come i centri accademici più importanti del Medioevo. Il termine gaon nell’accezione moderna indica invece i grandi studiosi della legge e del pensiero ebraico. Ghemarà: dall’aramaico gamar, letteralmente «studiare, apprendere dalla tradizione». Generalmente si traduce con «completamento». La Ghemarà (composta tra il 350 e il 500 e.v.) costituisce, insieme alla Mishnà, il Talmud. La Ghemarà è infatti un commento e un’analisi della Mishnà e, proprio per questo, viene chiamata «completamento». I maestri della Ghemarà sono gli Amoraim. Gheullah: dall’ebraico gaal, letteralmente «liberare, redimere». La gheullah nel lessico messianico non indica soltanto la redenzione in quanto ritorno del popolo ebraico a Sion, ma anche la restaurazione dell’armonia originale tra Dio e l’uomo, l’uomo e mondo. Giubileo: in ebraico yovel, cinquantesimo anno a conclusione dei sette cicli sabbatici di sette anni ciascuno; la prescrizione sul Giubileo è indicata in Levitico 25, 10-13: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo; esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In quest’anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo». Halakhà: dall’ebraico halakh, «andare». Può essere tradotto con «via», ovvero la condotta che il popolo ebraico deve seguire per la corretta interpretazione delle Scritture. In senso lato sta a indicare il codice di leggi, o meglio l’insieme delle norme religiose contenute nella Torà Scritta e in quella Orale; inoltre, può designare semplicemente una singola legge, un singolo precetto o l’interpretazione giuridica del precetto. Haskalà: indica propriamente l’illuminismo ebraico. Questo movimento coincide con il grande mutamento politico che ha scosso l’intera l’Europa del XVIII sec.. Gli ebrei dopo secoli «escono dal ghetto» non soltanto nell’accezione fisica del termine, ma, attraverso una complessa e faticosa «emancipazione» culturale e
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spirituale, approderanno a un radicale rinnovamento dell’ebraismo. Una delle maggiori personalità dell’Haskalà è indubbiamente quella di Moses Mendelssohn (1729-1786). Kaddish: letteralmente «santificazione»; è una delle più importanti preghiere della liturgia ebraica assieme allo Shemà Israel e alle Diciotto benedizioni, l’Amidà. Il Kaddish è anche la preghiera per i morti, ma in realtà in essa viene santificata la grandezza e la magnificenza del nome di Dio. Questa preghiera è completamente redatta in aramaico, fatta eccezione dell’ultimo verso scritto in ebraico. Kawwanà: letteralmente «intenzione»; nel lessico qabbalistico indica una meditazione mistica sulle parole di una preghiera. Iggheret: in ebraico significa «epistola, lettera». Ikkar: letteralmente «principio» (pl. ikkarim). Masseket: trattato della Mishnà (pl. massekòt). Midrash: letteralmente «studio, indagine, ricerca»; è una composizione letteraria, un commento rabbinico ed esegetico della Bibbia, in cui vengono fusi diversi generi letterari come racconti, leggende e parabole. Il metodo che viene in genere utilizzato nei midrashim è quello che può essere sintetizzato dall’acronimo Pardes (frutteto), in cui l’interpretazione deve essere: Peshat («semplice»), letterale; Remez («allusione»), allegorica; Darash («ricerca, esposizione»), omiletica; Sod («segreto»), esoterica. Esistono vari generi di Midrashim come ad esempio il Midrash Rabbà, ovvero il Grande Midrash che è un commento del Pentateuco e dei Cinque Rotoli (Chamesh Meghillot). Middà: letteralmente «regola», in senso lato significa anche «qualità». Nell’interpretazione rabbinica le middot vengono utilizzate per far emergere il vero significato di alcuni passi biblici di difficile comprensione. In senso lato le middot indicano i valori o le qualità che bisogna assumere come valori etici a cui aderire (cfr. Pirkè Avòt 6,5). Miqrà: vedi TaNaKh. Mishnà: letteralmente «ripetizione», da shanah «ripetere». La Mishnà insieme alla Ghemarà dà origine al Talmud. La Mishnà è la codificazione della Torà Orale (Torah she-be-‘al peh) messa per iscritto, attorno al II sec. e.v., da Yehudah haNassì. In essa sono contenute le norme giuridiche e l’interpretazione della loro applicazione. La Mishnà è divisa in sei ordini (sedarim), ogni ordine è diviso in trattati (massekòt), in totale 63, che a loro volta si suddividono in capitoli (523 in totale). Il primo ordine è quello di Zera‘im (Sementi) composto da 11 trattati: Berachòt (Benedizioni), Peàh (Angolo di campo), Demày (Prodotti dubbi), Kilayìm (Misture), Shevi‘it (Settimo), Terumòt (Offerte), Ma‘aserot (Decime), Ma‘aser Shenì (Seconda decima), Challah (Pasta), ’Orlàh (Circoncisione degli alberi nuovi), Bikkurìm (Primizie). Il secondo ordine Mo‛ed (Stagione) consta di 12 trattati: Shabbat (Sabato), ’Eruvin (Mescolanze), Pesahim (Pasqua), Sheqalim (Sicli), Yomà (Giorno), Sukkàh (Tenda), Besàh (Uovo), Rosh ha-Shanah (Capodanno), Ta‘anit (Digiuno), Meghillah (Rotolo), Mo‘ed Qatan (Piccola Festa), Haghigàh (Offerta festiva). Il terzo ordine è Nashim (Donne) diviso in 7 trattati: Yevamòt (Cognate), Ketubbòt (Atti matrimoniali), Nedarim (Voti), Nazir (Nazireo), Sotà (Adultera presunta), Ghittìn (Atto di divorzio), Qiddushin (Santificazioni). Il quarto ordine Neziqin (Danni) è diviso in 10 trattati: Babà qammà (Prima porta), Babà mesi‘à (Porta mediana), Babà batrà (Porta posteriore), Sanhedrin (Tribunali), Makkòt (Percosse), Shevu‘òt (Giuramenti),
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’Eduyyòt (Testimonianze), ’Avodah Zaràh (Idolatria), Pirkè Avòt (Detti dei Padri), Horayòt (Decisioni). Il quinto ordine Qodashim (Cose Sacre) è composto da 11 trattati: Zevahìm (Sacrifici), Menahòt (Offerte di farina), Hullìn (Cose profane), Bekoròt (Primogeniti), Arakim (Stime), Terumah (Sostituzione), Keritòt (Eliminazioni), Me’ilàh (Sacrilegio), Tamìd (Offerta quotidiana), Middòt (Misure), Qinnim (Nidi di uccelli). Il sesto ordine Tohoròt (Cose Pure) è suddiviso in 12 trattati: Kelim (Utensili), Ohalòt (Tende), Nega’im (Piaghe), Paràh (Vacca rossa), Tohoròt (Cose Pure), Miqwaòt (Bagni rituali), Niddàh (Isolata), Mashkirin (Preparazioni), Zavìm (Persone colpite da blenorrea), Tevùl yom (Bagno durante il giorno), Yadàyim (Mani), Uqsìn (Piccioli). I Maestri della Mishnà sono i cosiddetti Tannaim. Mitzvà: dalla radice ebraica tzvah, «comando»; alcuni riconducono l’etimologia di questa parola a un altro termine, tzvàt, che significa «unirsi» e che, in questo senso, esprimerebbe implicitamente il rapporto tra Dio e l’uomo. Mitzvà comunque significa «precetto, comandamento»; le 613 mitzvòt sono tutti i precetti che Dio ha ordinato al popolo di Israele e che ogni ebreo deve rispettare (il numero totale dei precetti, 613, consta di due gruppi di comandamenti che sono suddivisi in ordinamenti negativi e positivi: 365 sono i comandamenti negativi – corrispondenti ai 365 giorni che compongono un anno solare –, 248 i positivi come il numero delle membra del corpo umano). La stessa mitzvà, come indica la seconda etimologia, ha comunque già in sé un duplice significato, al contempo «legge» e «dovere», che mettono in relazione diretta Dio e uomo. La legge infatti viene da Dio, il dovere dall’uomo (pl. mitzvòt). Musar (Mussar): movimento culturale ebraico nato intorno alla prima metà del XIX secolo nell’Europa orientale; il movimento prende nome dal termine musar, ripreso direttamente da un verso delle Scritture, Proverbi 1, 2: «Per conoscere sapienza e disciplina» (leda‘at hachemà we-musar). Musar infatti letteralmente si traduce con «disciplina, condotta», ma in senso lato indica complessivamente l’etica ebraica. L’obiettivo che sta a fondamento di questo movimento culturale è riuscire a santificare la propria anima affinché possa raggiungere la devequt: la comunione con Dio. Per ottenere questo piano di unione con Dio si utilizzano particolari metodi come la meditazione e il canto. Tra i testi che sono a fondamento di questo movimento, oltre alle Scritture e al Talmud, troviamo quelli di Mosè Haim Luzzatto e Mosheh ben Ya‘aqov Cordovero. Olam ha-ba: letteralmente «mondo a venire», termine che ricorre nella letteratura escatologica ed è in relazione con l’era messianica e la venuta del Messia. Olam ha-ze: letteralmente «questo mondo», ovvero il mondo presente. Questo termine ricorre spesso nella letteratura escatologica e messianica ebraica e sta a indicare il tempo che va dalla caduta di Adamo fino all’avvento del Messia. Parashà: suddivisione convenzionale con cui vengono divise le varie parti della Torà (Pentateuco), in totale 54, destinate alla lettura nel Tempio durante la liturgia di Shabbat nell’intero anno (pl. parashot). Pasuk: verso del TaNaKh (pl. pesukim). Qabbalah (Kabbalà, Cabbalà): letteralmente «tradizione»; in senso lato indica l’insieme delle dottrine mistiche e gli insegnamenti esoterici del pensiero e della letteratura ebraica. Elementi mistici e qabbalistici possono essere rintracciati anche alle origini della letteratura rabbinica mishnica (I-III secolo) e talmudica (III-IV secolo). I testi fondamentali della Qabbalah sono volti proprio a
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indagare il senso più profondo della creazione e il senso della vita. I segreti della creazione vengono attribuiti direttamente ad Abramo e tramandati sino ad Avraham Abulafia (1240-1291). I testi più importanti sono il Sefer Yetzirah ovvero il Libro della Creazione, il Sefer ha-Bahir ovvero il Libro dell’Illuminazione e il Sefer ha-Zohar. La letteratura qabbalistica si compone anche di numerosi trattati minori, i cosiddetti Grandi e Piccoli Hekhalot redatti attorno al V secolo. Rabbi: maestro. Rabbenu: letteralmente «nostro maestro». Sanhedrin: «tribunali», è uno dei dieci Trattati della Mishnà contenuto nel Seder Nezekin (Danni), il cui contenuto tratta principalmente di diritto penale e questioni sulle pene; usualmente viene tradotto con Sinedrio. Sedarim: plurale di séder, letteralmente vuol dire «ordine», ovvero indica le sezioni in cui è suddivisa la Mishnà. Sefarad (da cui sefardita): letteralmente occidente. I sefarditi sono gli ebrei originari delle comunità spagnole e portoghesi. Sefer Yetzirah: il Libro della Creazione, redatto probabilmente tra il III e il VI sec. e.v.; è un testo dal linguaggio molto oscuro e di difficile comprensione. Questo libro tratta degli elementi della creazione del mondo attraverso le «trentadue vie segrete della saggezza», ovvero le 22 lettere dell’alfabeto e le dieci sephirot. Sephirot: letteralmente «enumerazioni». Le sephirot nella Qabbalah rappresentano i dieci attributi di Dio, l’‘Ein sof, ovvero l’Infinito. Le prime attestazioni nella letteratura ebraica delle dieci sephirot si trovano nel Sefer Yetzirah e nel Sefer ha-Bahir, in cui queste dieci sephirot vengono indicate come emanazioni (eoni) create direttamente da Dio. Le dieci sephirot, secondo la divisione riportata nei Pirkè R. Elièzer (Detti di R. Elièzer), vengono distinte in due gruppi: le tre sephirot superiori (Keter, Corona Suprema; Chokhmà, Saggezza; Binà, Intelligenza – oppure, secondo un’altra tradizione: Chokhmà, Saggezza; Binà, Intelligenza; Da‘at, Conoscenza), e le sette inferiori (Hesed, Grazia; Gevurà, Giudizio; Tif’eret, Bellezza; Netzach, Contemplazione; Hod, Gloria; Yesod, Fondamento; Malkut, Regno). Shabbat: «sabato», settimo giorno dopo la Creazione, è il giorno del riposo; Shabbat è anche il titolo di un trattato contenuto nella Mishnà appartenente al secondo ordine, Mo‘ed (Stagione). Shekinà: dalla radice ebraica shakan che vuol dire «dimorare». Questo termine indica più in generale la manifestazione divina e ricorre più volte nella Torà quando si parla di Shekinà nella descrizione della tenda di Mosè in Esodo 40, 35. Shylo: uno dei modi in cui nelle Scritture si parla del Messia; in riferimento a Genesi 49, 10: «finché verrà Shylo» e Sanhedrin 98 b: «Rabbi Johanan disse: “Per il bene del Messia. Quale sarà il suo nome?”. La scuola di Rav Shila disse: “Il suo nome sarà Shylo, com’è scritto, finché verrà Shylo”». Shofàr: letteralmente «corno», viene suonato in alcune occasioni solenni, durante Rosh ha-Shanà (Capodanno), al termine dello Yom Kippur (Giorno dell’Espiazione) e per la proclamazione del Giubileo. Shulkan Arukh: letteralmente «tavola imbandita»; è un’opera halakhika composta da Joseph Caro (1488-1575) nel 1565, ed è articolata in quattro parti: Orakh Chaym (prescrizione dei giorni festivi e feriali), Yore Dea (legge rituale), Even Haezer (diritto matrimoniale), Choshen Mishpat (diritto penale).
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Talmud: dalla radice ebraica lmd che vuol dire «studiare»; significa propriamente «studio, insegnamento», ma può assumere anche il significato più generale di «dottrina». In esso sono contenuti gli insegnamenti e le discussioni dei Maestri e dei rabbini ed è effettivamente una codificazione di tutto il materiale tradizionale tramandato oralmente e messo per iscritto da Rabbi Yehudah ha-Nassì nel II secolo e.v. Il Talmud si compone di due parti: Mishnà (200 e.v) e Ghemarà (500 e.v.). Differenti scuole hanno contribuito alla struttura del Talmud, ma sono due le scuole talmudiche che parallelamente hanno ordinato i due distinti commenti alla Mishnà, in Giudea e in Babilonia, e proprio per questo si distinguono due differenti redazioni del Talmud: il Talmud Babilonese, Talmud Bavlì (quello a cui generalmente si fa riferimento), più esteso e completo anche se mancante di alcuni trattati della Mishnà, e il Talmud Gerosolimitano o Palestinese, Talmud Yerushalmì. Tannaim: maestri e rabbini, le cui discussioni sono il fondamento dei trattati della Mishnà. Infatti è a loro che si deve la redazione scritta delle norme e dei precetti della Torà Orale, tra il 70 e il 200 e.v. L’etimologia di Tannaim deve essere ricondotta alla parola aramaica tanna, che equivale al termine ebraico shanna, che vuol dire «ripetere» e, allo stesso tempo, assume anche il significato di «insegnare» (cfr. la preghiera dello Shemà Israel). Il periodo della composizione della Mishnà da parte dei Tannaim può essere suddiviso in cinque fasi, corrispondenti a cinque diverse generazioni di Maestri: la generazione vissuta prima della distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 e.v.), i cui i massimi esponenti sono Hillel e Shammai; la generazione della distruzione del Tempio – Rabbi Shimon ben Gamliel, Rabbi Yochanan ben Zakkai; la generazione che è vissuta tra la distruzione del Tempio e la rivolta di Bar Kokhbà – Rabbi Joshua ben Hananiah, Rabbi Eleazar ben Arach; la generazione vissuta durante la rivolta di Bar Kokhbà – Rabbi Akiva, Rabbi Eleazar ben Azariah; la generazione successiva alla rivolta di Bar Kokhbà – Rabbi Meir, Rabbi Shimon ben Gamliel II. La prima vera stesura della Mishnà si dice sia avvenuta con Rabbi Yehudah ha-Nassì, considerato appunto come il primo ad aver compilato la Mishnà, chiamato per questo semplicemente Rabbi (Maestro) o anche Rabbenu ha-Kadosh (il nostro Santo Maestro). TaNàKh: acronimo di Torà, Neviìm, Ketuvìm, ovvero le parti che molto più comunemente indicano la Bibbia ebraica, che comprende complessivamente 24 libri. Spesso per indicare le Scritture si utilizza anche il termine Miqrà, che vuol dire «lettura». La Torà consta di cinque libri, che formano il cosiddetto Pentateuco: Genesi (Bereshit, In principio), Esodo (Shemòt, Nomi), Levitico (Vaikrà, E chiamò), Numeri (Bamidbar, Nel deserto), Deuteronomio (Devarim, Parole). In ebraico i libri che compongono la Torà vengono chiamati con la prima parola del primo capoverso. La seconda parte è costituita dai Neviìm, Profeti, suddivisa in Profeti anteriori e Profeti posteriori. I Profeti anteriori, i cosiddetti «libri storici», comprendono i libri di Giosuè, Giudici, Samuele (I e II), Re (I e II). I Profeti posteriori a loro volta si distinguono in Profeti maggiori e nei dodici Profeti minori; i Profeti maggiori: Isaia, Geremia ed Ezechiele; i dodici Profeti minori: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nachum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia. La terza parte è rappresentata dai Ketuvìm, Scritti, comprendenti i Cinque Rotoli (Chamesh Meghillot) – Cantico dei cantici (Shir ha-shirim), Ruth, Lamentazioni (Eikhah), Qohelet, Ester –, Salmi (Tehillim), Proverbi (Mishlé), Giobbe, Daniele, Ezra-Nehemia, Cronache (I e II).
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Teshuvà: il termine ha un duplice significato: letteralmente vuol dire «ritorno», «risposta», ma nella tradizione ebraica assume anche un ulteriore significato, quello di «pentimento». Maimonide interpreta il concetto il teshuvà come «ritorno a Dio». Tikkun: letteralmente «restaurazione, formazione», ristabilimento dell’armonia. Nella letteratura qabbalistica dello Zohar, il Tikkun indica il compito a cui ogni uomo deve tendere. In Yitzchaq Luria, il Tikkun assume un valore ancora più profondo, quello di «redenzione». Tosafot: letteralmente «aggiunte», sono commentari medievali del Talmud. Torà (Torah): «Legge»; indica in senso stretto i cinque libri del Pentateuco, ma più in generale sta a indicare la Legge ebraica. Torah she-be-‘al peh: letteralmente «Torà Orale», tramandata per generazioni a partire dalla rivelazione di Dio sul Sinai da parte di Mosè, poi messa per iscritto nella rielaborazione del Talmud. Torah she-be-ketav: letteralmente «Torà Scritta». Tur: Arba‘ah Turim, chiamato appunto semplicemente Tur, è un codice halakhico redatto da Ya‘akov ben Asher (1270-1340 circa), soprannominato Ba‘al ha-Tur, ovvero «Autore del Tur». Il Tur si articola in quattro parti, diviso in simanim (capitoli), così come lo Shulchan Arukh: Orakh Chaym è la parte che include le prescrizioni per i giorni festivi, benedizioni, preghiere e digiuni; Yore Dea quella in cui vengono descritte le leggi rituali; Even Haezer quella che concerne il diritto matrimoniale; Choshen Mishpat tratta del diritto civile. Tzaddiq: letteralmente «giusto»; è il modello per antonomasia dell’uomo pio e giusto nel Talmud, figura fondamentale all’interno del movimento chassidico. Yeshivà: scuola talmudica (pl. yeshivot). Zohar: il Libro dello Splendore; è il testo centrale delle speculazioni qabbalistiche, composto in Spagna attorno al XIII sec. Secondo una testimonianza di Yitzchaq ben Shemuel d’Acri, l’autore di questo testo è un rabbino e qabbalista spagnolo, Mosheh ben Shem Tov de León.