Il Mantegna impossibile 8882909123


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Il Mantegna impossibile
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NALE STI LAST

FRANCO COSI -OSIM

..«. Potremmo continuare per pagine e pagine a elencare dipinti e disegni grotteschi, da Michelangelo a Caravaggio, per non parlare di Dùrer e Brueghel. Ma forse la palma del gioco satirico dovremmo consegnarla a Mantegna, che è capace in ogni situazione, anche la più drammatica, di catapultare dentro le sue opere donne, uomini, cavalli,

bimbi che rovesciano la logica in un mondo di follia. Meraviglia sempre però che la gran parte degli studiosi, e fra questi uomini di notevole cultura, non si renda conto di questo paradosso narrativo, e quando non può far a meno di notarlo liquidi il gioco satirico quasi con fastidio, minimizzando come se si trattasse di un trascurabile incidente. Non vogliono assolutamente rendersi conto che quello di innescare lo sghignazzo dentro il dramma è un contrappunto essenziale e determinante in ogni opera d’autentico valore. Ma noi, che siamo notoriamente scostumati e campioni della provocazione, faremo in modo di non perdere occasione per mettere in grande evidenza ogni lazzo, giocondo o crudele, che Mantegna ci porterà davanti agli occhi, perché ognuno possa finalmente scoprire che la punta più alta dell’intelligenza umana sta proprio nel gioco umoristico della vita. Dario Fo

Di Dario Fo, Franco Cosimo Panini Editore

ha pubblicato La vera storia di Ravenna (1999), Il tempio degli uomini liberi. II Duomo di Modena (2004) e Caravaggio al

tempo di Caravaggio (2005).

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/ilmantegnaimposs0000foda

Dario

Fo

Il Mantegna impossibile

a cura di Franca Rame

FRANCO

COSIMO

PANINI

Ha collaborato all’ideazione e realizzazione:

Alessandra Demonte

Si ringraziano: Assessorato alla Cultura del Comune di Mantova Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te Museo Civico di Palazzo Te Museo della Città Palazzo di San Sebastiano Biblioteca Mediateca “Gino Baratta” del Comune di Mantova

Fondazione Mantova Capitale Europea dello Spettacolo Cooperativa Verona 83 Assessorato alla Cultura della Provincia di Mantova

Un ringraziamento vivissimo va ad Allegra Bernacchioni, Lisa Masetti, Roberta Monopoli, allieve dell’Accademia di Brera, Corso di Scenografia del Professor Gastone Mariani, fantastiche nel loro appassionato lavoro per la realizzazione dei pannelli della mostra nel Tempio di San Sebastiano a Mantova.

Realizzazione editoriale a cura di Rolando Bussi Assistente: Anna Dotti www.francarame.it

Progetto grafico: Silvano Babini

© 2006 FRANCO COSIMO PANINI EDITORE SpA viale Corassori, 24 - 41100 Modena - Italy tel. 059 343572 - fax 059 344274 - e-mail: [email protected] ISBN 88-8290-912-3 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma e attraverso qualsiasi mezzo elettronico o meccanico, incluse fotoco-

pie, senza il preventivo permesso scritto di Franco Cosimo Panini Editore. L'editore resta a disposizione per regolare le spettanze d’uso in caso di involontaria omissione di eventuali diritti di riproduzione.

Indice

Prologo

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Il Mantegna impossibile

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“Egl’è tanto molesto...’ La cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani

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Storie dei santi Giacomo e Cristoforo

36

La Madonna Butler, 1454 49 Sant'Eufemia 54 L’orazione nell'orto 55 La Pala di San Zeno 56 Mantegna e i Gonzaga 62 Il Trittico degli Uffizi. La circoncisione 65 | Gonzaga 68 L’Ascensione di Gesù 70 La Madonna con il Bambino dormiente (Madonna di Berlino) 73 La Camera degli Sposi 74 | disegni 95 La discesa di Gesù agli Inferi SM La deposizione dalla croce IOI | Trionfi di Cesare 103 Cesare sul carro del trionfo 110 La sfilata dei senatori 112 Musici e portainsegna iS Prigionieri e comici 118 Battaglia di Fornovo, 1495 122 Portatori di bottino e di trofei 127 Tori sacrificali ed elefanti INS Portatori del bottino, con tori sacrificali e trombettieri 85

I carri trionfali Portatori di trofei Trombettieri e portatori di insegne Isabella e lo studiolo Il Parnaso II trionfo della Virtù | ritratti | monocromi Le fatiche di Ercole

La flagellazione Il Cristo risorto La deposizione nel sepolcro La Pietà La Madonna della Vittoria L’introduzione del culto di Cibele

Cristo “in scurto” (Cristo morto) La vecchiaia di Mantegna

a Roma

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I Mantova, Sant'Andrea, cappella di San Giovanni Battista. Mantegna (?), Autoritratto (?), busto bronzeo, inizi del xvi secolo.

Prologo

3,4

5

Mi ha sempre creato enorme sorpresa e soddisfazione scoprire che tutti i grandi artisti d'ogni tempo nelle proprie opere riservano grande spazio all’ironia satirica e all’umorismo poetico. Giotto nel suo grande affresco nella Cappella degli Scrovegni di Padova offre nella scena del Giudizio Universale, in particolare nelle sequenze dell’Inferno, atteggiamenti buffi perfino in situazioni tragiche come quella dei dannati aggrediti da demoni assatanati: glutei al vento, falli malmenati, peccatrici con poppe scodinzolanti e così via. Lo stesso discorso vale per Bosch, sempre negli inferni, con animali paradossali e impossibili, incrociati con oggetti da cucina e da lavoro, sederi che si affacciano alle finestre, pesci con ali da pipistrello e grosse trote che se ne vanno nel cielo sormontate da vele maestose. Questo bisogno di uscire dal normale e dalla convenzione per immergersi nel fantastico è una scelta che però viene prodotta soltanto da pittori e scrittori, nonché da poeti, di talento eccezionale. Dante è un vero e proprio campione dell’impossibile, del sovraumano. Chi ha mai immaginato e messo in scena grappoli di amanti ignudi che abbracciati appassionatamente se ne vanno per l’aria sospinti da un vento amoroso, come stormi di volatili travolti dalla passione, se non il sommo poeta? Ma lo stesso discorso lo possiamo riservare per Leonardo che in diecine di suoi disegni e pitture racconta con feroce sarcasmo la bieca violenza degli uomini, come nell’Adorazione dei Magi agli Uffizi di Firenze. Sul fondo, in contrapposizione all’inchinarsi dei tre re, vediamo guerrieri a cavallo con lance e spade caricare uomini e donne, cadaveri gettati dalla scalinata e gente che fugge atterrita, il tutto mentre è appena nato il Figlio di Dio. In un altro bozzetto scorgiamo un angelo che soffiando den-

2 Padova, Cappella degli Scovegni. Giotto (1267?-1337), Giudizio Universale (1303-1305), particolare dell’Inferno.

3 Firenze, Uffizi.

Leonardo (1452-1519), L’adorazione dei Magi (1481 -1482), 246 x 243.

tro una lunga tromba spernacchia nell'orecchio di un cherubino stordendolo. In un codice, sempre Leonardo mostra una bellissima donna ignuda che abbraccia e bacia il suo amante, ma frammezzo i suoi glutei spunta un pungiglione ritorto pronto a scattare come la coda di uno scorpione.A sua volta l’innamorato ha già sollevato il braccio per trafiggere con un pugnale l’innamorata. Potremmo continuare per pagine e pagine a elencare dipinti e

disegni grotteschi, da Michelangelo a Caravaggio, per non parlare di Direr e Brueghel. Ma forse la palma del gioco satirico dovremmo consegnarla a Mantegna, che è capace in ogni situazione, anche la più drammatica, di catapultare dentro le sue opere donne, uomini, cavalli, bimbi che rovesciano la logica in un mondo di follia. Meraviglia sempre però che la gran parte degli studiosi, e fra questi uomini di notevole cultura, non si renda conto di questo paradosso narrativo, e quando non può far a meno di notarlo liquidi il gioco satirico quasi con fastidio, minimizzando come se si trattasse di un trascurabile incidente. Non vogliono assolutamente rendersi conto che quello di innescare lo sghignazzo dentro il dramma è un contrappunto essenziale e determinante in ogni opera d’autentico valore. Ma noi, che siamo notoriamente scostumati e campioni della provocazione, faremo in modo di non perdere occasione per mettere in grande evidenza ogni lazzo, giocondo o crudele, che Mantegna ci porterà davanti agli occhi, perché ognuno possa finalmente scoprire che la punta più alta dell’intelligenza umana sta proprio nel gioco umoristico della vita.

Dario

Fo

Il Mantegna impossibile

6 Berlino, Staatliche Museen. Mantegna, La presentazione al tempio (1465-1466), particolare con autoritratto dell’autore.

“Egl’è tanto molesto... Qual è l’immagine fisica che abbiamo di Andrea Mantegna? Di lui conosciamo più di un autoritratto, a cominciare da quello che

lo vede ancora giovane nella Presentazione al tempio, proprio alle spalle del sacerdote. Ma il primo autoritratto che di lui ci viene in mente risale a più di quindici anni prima. La scena è quella del Giudizio di san Giacomo nella cappella Ovetari a Padova. Davanti a un arco di trionfo si svolge il processo. Il despota, Erode Agrippa, è seduto su un alto scranno.Ai suoi piedi ci sono soldati e senatori che circondano il santo da condannare. Sulla sinistra, completamente isolato, c'è un ufficiale, con tanto di corazza finemente decorata. Il suo viso è l’autoritratto di Mantegna, ma non rappresenta un ragazzo di soli diciassette, diciotto anni — questa è l'età che il pittore aveva in quel tempo. Il suo è un volto severo, di persona matura, accigliato, con la fronte segnata da rughe. In poche parole Mantegna, nei panni del guerriero scorato, esprime un intenso dolore per il supplizio che il santo sarà prossimo a subire. Nella Camera degli Sposi dal fondo di uno degli affreschi il possibile autoritratto del pittore (per molti il personaggio ritratto è invece il re Cristiano di Danimarca) spunta con l’atteggiamento di un curioso forse privo dell’invito a partecipare a quell’incontro. Bizzarramente, però, Mantegna si ritrae nella stessa Camera anche in forma di maschera silvestre con pennacchi di rami e fiori. Ma il ritratto più conosciuto è il busto in bronzo che appare sulla sua tomba: ci mostra un Mantegna possente, aggressivo, in età matura, un personaggio con il quale di certo è consigliabile non aprire discussione di sorta. Come per la maggior parte dei pittori, scultori, architetti fra i più noti del Rinascimento, anche per Mantegna molti critici tranciano spesso giudizi drastici e definitivi, sia riguardo il suo carat-

7 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il giudizio di san Giacomo (1451), distrutto nel 1944, particolare con autoritratto dell'autore.

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8 Mantova, Palazzo Ducale. Mantegna, Camera degli Sposi (1474), parete ovest, L’incontro, particolare con possibile autoritratto dell’autore.

9 Mantova, Palazzo Ducale. Mantegna, Camera degli Sposi (1474), particolare con autoritratto dell’autore.

tere e la sua personalità, sia sui vari stili che ne definiscono il linguaggio e la forma d’arte. Di Andrea Mantegna si dice tout-court che fosse irascibile, attaccabrighe, prepotente... insomma un Caravaggio ante litteram. Tant'è che l’Aliprandi, suo contemporaneo, parlando dell’“Andrea pictore”, dichiarava di lui: “Egl’è tanto molesto e rincrescevole, che non è homo nè vicino che possa pacificar con lui”. Un pittore che presentava le sue figure come fossero di pietra: Andrea Mantegna “scolpiva in pittura”, diceva infatti di lui un altro suo contemporaneo, poeta, Ulisse Aleotti.

Per alcune opere di un certo periodo, questo “scolpir pittando” fu un elemento palese del suo linguaggio, quasi una ricerca di monumentalità delle figure e del paesaggio. Non per niente all’inizio della sua carriera Andrea si scelse come

maestro, fra gli

altri, Donatello (1386-1466), presente in quel tempo (14431453) a Padova, dove era stato chiamato per eseguire il monumento equestre a Gattamelata e le sculture per l’altare maggiore della Basilica di Sant'Antonio. Il giovane Andrea fu fortemente attratto dalle opere del maestro fiorentino di cui studiava i bassorilievi e le sculture. Come ci ha insegnato Bernard Berenson: “Un artista bisogna saperlo leggere nella sua totalità, seguirlo minuziosamente nei suoi vari periodi, partecipare come attenti testimoni ai suoi incon-

tri con altri uomini e donne di grande personalità e prestigio”.

Venendo al dunque, cominciamo con l’analizzare la sua origine, l'infanzia e la pubertà. Andrea Mantegna nasce nel 1430 o 1431 al confine fra Vicenza e Padova, a Isola di Carturo, una frazione di Piazzola sul Bren-

ta. In quel tempo il fiume si allargava, abbracciando lo spazio dal quale affiorava il villaggio di Carturo, per questo detto l’Isola.

10 Padova, Basilica del Santo, altare maggiore. Donatello (1386-1466), Il miracolo della mula (1447-1450), particolare.

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| | New York, Metropolitan Museum. Mantegna, L’adorazione dei pastori (1450-1451), 37,8 x 53,3.

C'è un'antica ballata che si canta ancora oggi nelle lagune da pesca che così si esprime: “Tèra e acqua, acqua e ziélo, drénta e fora su ‘ste lagune. Spigne la pèrtega pe’ navigare e no’ cascar de soto de soto al batèl.Voga ligér come fuèsse in del cielo”. Questo è il fondale che ritorna spesso nella memoria del pit-

tore di Isola di Carturo. Infatti strisce di rogge e di fiumi spuntano fra le rupi scolpite dall’acqua nell’Orazione nell’orto di Londra e nell’Adorazione dei pastori di New York, e un intiero lago appare dalla finestra nella Morte della Madonna ora a Madrid. È lo stesso lago, attraversato dai murali della peschiera, che ancora oggi appare affacciandoci da un finestrone del castello dei Gonzaga a Mantova. Il padre di Andrea è falegname. Egli per primo e con lui tutti i parenti notano nel piccolo Andrea una predisposizione straordinaria per le arti plastiche e figurative. Il padre a dieci anni lo por-

Dai Il 2:

12 Madrid, Museo del Prado.

Mantegna, La morte della Madonna (1461), 54 x 42.

ta a Padova (da poco annessa alla Repubblica di Venezia) dove sa che è in funzione da tempo una scuola per apprendisti pittori e scultori, diretta da un maestro di nome Francesco Squarcione. Lo Squarcione si vantava di aver allevato nella sua scuola d’arte ben centotrentasette

pittori di talento, ma nell'ambiente era ri-

tenuto un mediocre esecutore.A testimonianza di ciò, val la pena di citare il commento di un suo allievo: “Ei se sforsa a disegnar fughe in prospettiva, ma non ce ha vantaggio per lo che non l'è capace”. Come in ogni bottega del Quattrocento, anche in quella dello Squarcione, oltre ad apprendere le numerose tecniche del dipingere (pittura a tempera, disegno, incisione, pittura a olio, affre-

sco), si imparava l'anatomia, lo studio del nudo, l'architettura, l’ornato, la scultura. Padova, inoltre, era una delle città più colte d’Italia e poteva vantare, fin dal Medio Evo, una prestigiosa università, e anche le scuole a disposizione del ceto medio inferiore (artigiani, piccoli mercanti) erano efficienti e in gran numero. Quest'ultimo particolare ci assicura che il piccolo Mantegna, ancora fanciullo, avrà certamente goduto di questo vantaggio: imparare a scrivere, a leggere e a far di conto. Tutti i grandi artisti nati in quel tempo, Leonardo, Michelangelo, Giambellino, Raffaello ecc., hanno appreso il mestiere stando a bottega, diretti da straordinari maestri.

La bottega del Rinascimento era una vera e propria Accademia. In Toscana e nel Veneto i giovani apprendisti studiavano geometria e matematica, scenografia e prospettiva, s'applicavano nella fusione dei metalli (soprattutto il bronzo) e nella ceramica, nella pittura a fuoco, nell’ideazione e messa in atto di macchine per la costruzione di ponti, fortificazioni e dighe, nonché, in alcune botteghe, anche nella progettazione di armi da guerra, dalle colubrine ai cannoni.

13 Padova, Musei Civici.

Francesco Squarcione (1394/97-1468), San Girolamo fra i santi Lucia, Giovanni Battista,

Antonio abate e Giustina (1449-1452).

13

Nella scuola dello Squarcione, compagni di Mantegna erano Cosmè Tura, diventato il maggiore fra i pittori di Ferrara, Marco Zoppo, e forse per breve tempo persino il Foppa. Lo Squarcione, che possedeva nel suo vasto studio una notevole collezione di pezzi di antiquariato, metteva a disposizione dei ragazzi molto materiale essenziale all’apprendistato: statue antiche, greche e romane, bassorilievi, un gran numero di disegni originali e copie di artisti noti, incisioni ecc. Dobbiamo però segnalare che il “maestro” sfruttava in modo indegno i suoi giovani allievi. Li aveva in gran parte accolti come figli, ma al solo scopo di poterne trarre gran vantaggio. Si faceva pagare una retta e inoltre li incaricava di riprodurre disegni e stampe, realizzare copie di sculture, eseguire pale d’altare, affre-

14 Modena, Galleria Estense. Cosmè Tura (1433 ca-1495), Sant'Antonio da Padova (1485 ca).

schi e addirittura tagliare e cucire abiti sontuosi... tutto a suo profitto! Lo sfruttamento era a dir poco da negrieri, pari a quello che ancora oggi si mette in atto verso i ragazzini in certi paesi dell’Asia e dell’Africa e fino a poco tempo fa anche da noi, specie nel Sud. In quella bottega il tempo dedicato al riposo e allo svago era ridotto al minimo, non c'erano limiti all’orario di lavoro, e per

chi non stava alle regole scattavano punizioni anche corporee. Tant'è che Andrea, giunto all’età di diciassette anni, denunciò questo suo padre putativo, lo Squarcione... un nome che è tutto un programma!, per sfruttamento. Il tribunale di Venezia, sotto la cui giurisdizione Padova era stata da poco accolta, liberò il ragazzo condannando questa specie di mangiafuoco a un risarcimento di duecento ducati. Da qui si evince che nella Repubblica di Venezia, già nel Quattrocento, la giustizia funzionava rapida e immediata. Niente a che vedere con l’inefficienza cronica dei tribunali dei nostri giorni. Nello stesso anno, 1448, sempre all’età di diciassette anni, il giovane Mantegna poteva finalmente realizzare un’opera tutta sua e firmarla. Si tratta della Pala di Santa Sofia a Padova, oggi perduta. E a dimostrazione di quanto il suo valore fosse considerato, nello stesso anno venne designato come perito per la valutazione di un’opera di Pietro da Milano. In questa occasione si ritrovò come parte avversa nel giudizio proprio lo Squarcione. La querelle fu vinta dal “liberto” Andrea. L'incredibile è che lo Squarcione del suo metodo a dir poco tirannico e brutale nell’allevar giovani talenti non fece mai ammenda, anzi, come scrive Maria Bellonci, il maestro “di tali contrasti si gloriava, se, anni dopo, quando la fama del Mantegna era

15 Padova, chiesa degli Eremitani, la cappella Ovetari dopo il bombardamento del marzo 1944.

stabilita, gridava ai suoi allievi tra promessa e minaccia: ‘ho fatto un uomo de Andrea Mantegna come farù de ti!””.

La cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani Ancora nello stesso anno 1448 il giovane pittore riceve, insieme al compagno Nicolò Pizzolo, più grande di lui di dieci anni e proveniente dalla bottega di Donatello a Padova, la commissione di affrescare la cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani. Pur-

16 a-f Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Storie dei santi Giacomo e Giovanni (1450), prima del bombardamento.

troppo l'affresco è stato fortemente danneggiato da un bombardamento subito durante la seconda guerra mondiale. In conseguenza di quell’attacco aereo, oggi dell’intero affresco di Mantegna (scomparsi i dipinti degli altri maestri che completavano il ciclo), rimane leggibile meno della metà e godibile solo qualche particolare. Per fortuna ci sono pervenute alcune antiche copie di buona fattura e soprattutto fotografie in bianco e nero, scattate qualche mese prima del disastro, che ci testimoniano come dovesse apparire l'affresco integro, che oggi è in corso di restauro con l’applicazione di metodi d’avanguardia. Osservando quelle immagini siamo presi dallo stupore. È incredibile che un ragazzo di quell’età, seppure assistito da un altro pittore, fosse già in grado di creare un capolavoro di simile livello, dimostrando grande perizia scenografica e architettonica e soprattutto una personalità tanto compiuta, che normalmente si ritrova solo in un artista maturo e di grande esperienza. La plasticità delle figure e l'architettura scenica non preannunciano ancora lo stile inciso con durezza che affiorerà nelle opere di Mantegna di lì a qualche anno: le immagini sono compatte, ma la loro plasticità è morbida e allo stesso tempo possente. Originali sono anche l'assetto scenografico e la composizione: ipersonaggi sono

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76,168

visti di scorcio, dal basso verso l’alto.

Nel Martirio e nel trasporto del corpo di san Cristoforo una colonna dipinta si erge nel centro della parete in proscenio a dividere le due azioni. La prospettiva segue i dettami scientifici di Piero della Francesca e di Leon Battista Alberti. Infatti il punto di fuga è situato nel centro del dipinto, così da forzare l’inclinazione del terreno, pro-

prio come in un declivio teatrale. È da sottolineare che le immagini delle monumentali abitazioni non seguono gli ordini classici

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reali, ma rispondono a una reinvenzione dell’antico. Di lì a qualche tempo, esattamente il 23 maggio 1449, il giovane maestro risulta chiamato da un committente a eseguire un lavoro a Ferrara, dove è da immaginare abbia incontrato l’amico e compagno di bottega Cosmè Tura, suo coetaneo e più che un fratello, giacché fin da ragazzini hanno sofferto insieme la mortificazione dello sfruttamento coatto e brutale, imposto loro dallo Squarcione. Andrea, con la scuola dei Ferraresi, continuerà per gran parte della sua vita a mantenere rapporto, anche di lavoro. È il caso della collaborazione con Lorenzo Costa, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, cioè gli autori delle straordinarie pitture nel Palazzo Schifanoia a Ferrara. Come fa notare più di uno studioso, questo è il tempo in cui giunge nella Padania, in particolare a Padova, Verona, Mantova, Ferrara e Venezia, uno stuolo di maestri di grande prestigio e valore, provenienti quasi tutti dalla Toscana: il già nominato Donatello, Filippo Lippi, Piero della Francesca, Leon Battista Alberti, Andrea del Castagno, Antonello da Messina. Costoro danno un impulso formidabile verso un rinnovamento non solo dell’arte, ma “della geometria scenica e della meccanica dello spazio pinto”. Nel settembre dello stesso 1449 attraverso un arbitrato del tribunale viene scissa la società tra Mantegna e il Pizzolo per la cappella Ovetari. Quest'ultimo non riesce a sopportare la tendenza al protagonismo di Andrea, in particolare quella sua già evidente volontà di uscire da ogni schema e disciplina, sia per quanto riguarda la composizione scenica sia per la concezione cromatica dell’opera. Sempre negli stessi anni, icommittenti della cappella Ovetari propongono a Mantegna di ultimare l’altra parete, giacché Giovanni d’Alemagna, al quale era stata affidata la realizzazione di

17 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Bono da Ferrara, San Cristoforo traghetta Gesù Bambino, distrutto nel 1944.

18 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Ansuino da Forlì, La predica di San Cristoforo, distrutto nel 1944.

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una parte degli affreschi, è nel frattempo deceduto (1450). Mantegna accetta, però con protervia impone di redigere un nuovo contratto a lui più vantaggioso. Quindi si presenta con un nuovo progetto e soprattutto con

altri cartoni da lui disegnati. |responsabili della cappella gli fanno notare che il progetto dell’affresco era già stato preparato da Giovanni d’Alemagna così come i cartoni. Pare che Mantegna abbia risposto: “La decisione riguardo l’affresco da questo momento tocca a me, sono io che dipingo. Se lo volete come da progetto iniziale richiamate il morto”. Grazie a questa secca risposta abbiamo immediatamente il quadro della personalità piuttosto decisa e allo stesso tempo spietata di Andrea Mantegna ragazzo.A testimoniare questa sua durezza di carattere ricordiamo il commento di un suo contemporaneo, che così dichiarava: “Come homo che fusse incarcerato o engiustamente tenuto in cattività. Esto giovine padovan se vene in fastidio svalza come catapulta che lanci p[i]etre”. Ma come dicono gli uomini di scienza che studiano il formarsi del carattere dei fanciulli, tutto dipende da dove essi nascono, dove vivono e crescono nella prima infanzia. Ora, che cosa ci si poteva aspettare da un ragazzino costretto a sopravvivere in quella condizione di schiavitù, sfruttato per anni e costretto a subire castighi e vessazioni? Un fanciullo che da sé solo riesce a riguadagnare la propria libertà è chiaro che difenderà sempre i propri diritti con una grinta giusta e sacrosanta. È straordinario come l’infanzia della gran parte degli artisti del Rinascimento sembri spuntare da uno stesso ramo e ognuna si sovrapponga all’altra quasi in una impossibile copia a stampa. Piero della Francesca non ebbe padre che lo riconoscesse, tanto da portare il nome della madre, Francesca appunto. Lo stesso capitò a Beolco, detto Ruzzante. La vita di Leonardo è una

19 Berlino, Staatliche Museen. Mantegna, La presentazione al tempio (1454), 67 x 86.

fotocopia di quella di Piero e simile è l’infanzia di Raffaello, rimasto orfano di padre e di madre a pochi anni di età, privo di una famiglia, allevato dal suo maestro e autentico padre, il Perugino. Così è per Mantegna, carcerato in giovinezza con una terribile, costante nostalgia di una tenerezza di cui non ha mai goduto. Abbiamo già accennato come in quel tempo Padova fosse stata incorporata nel dominio della Serenissima. Venezia era il centro più importante, dell'economia e delle arti, di tutto il nord Italia. Era logico quindi che ogni giovane del mestiere vi facesse

20 Venezia, Fondazione Querini Stampalia. Giovanni Bellini (1432 ca-1516), La presentazione al tempio (1460 ca), 80 x 105.

visita ad ogni occasione. A Venezia Andrea ventiduenne incontra una famosa famiglia di maestri, i Bellini: il padre Jacopo e i due figli, Giovanni, detto il Giambellino, e Gentile. Inoltre conosce la figlia di Jacopo, il capo famiglia: Nicolosia, una fanciulla di straordinaria bellezza. Se ne innamora e la chiede in sposa.A sua volta la ragazza s'è innamorata di lui. Abbiamo testimonianza dell’avvenuto consenso del padre Jacopo grazie a un “suo ritiro in banco” di alcuni anticipi che dovranno servire per coprire una parte della dote della figliola. Tutta la bottega dei Bellini è affascinata dal giovane padovano e soprattutto dalla sua personalità e dal suo nuovo linguaggio pittorico, tant'è che le opere dei tre maestri veneziani subiscono una evidente trasformazione.

21 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il martirio di san Giacomo (1453-1457), particolare durante il restauro.

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Nel 1454 Mantegna dipingerà la Presentazione al tempio ora a Berlino dove vediamo ritratta parte della famiglia dei Bellini a partire dal padre Jacopo, al centro nei panni di san Giuseppe, e dalla giovane sposa di Andrea accanto alla Vergine, quasi una bambina. E sul lato opposto l’autoritratto dello stesso Andrea ancora ragazzo. Lo stesso soggetto è stato riprodotto qualche anno dopo dal cognato, il Giambellino, in un dipinto ora alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, il quale ci ha aggiunto il proprio autoritratto e il viso di un’altra giovane ragazza, forse una sua sorella o la sua sposa. Importante è osservare che mentre tutti i personaggi messi in scena da Mantegna hanno lo sguardo rivolto dentro lo spazio del dipinto, in quello di Giovanni Bellini c'è un solo personaggio che punta il proprio sguardo verso l’esterno, addirittura frontalmente, verso chi guarda. Si tratta del volto dello stesso Giambellino.

Nello stesso anno del matrimonio (1453) muore il Pizzolo, suo ex socio nella cappella Ovetari, e ancora a Mantegna vengono affidate le parti che avrebbe dovuto dipingere il deceduto. Sembra la sequenza di una tragedia greca di Euripide dove tutti gli antagonisti dell'eroe vengono tolti di mezzo dalla solita terribile dea, che parteggia per il protagonista.

Storie dei santi Giacomo e Cristoforo

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In tutta la serie d’affreschi, iniziati nel 1448, cioè a diciassette anni, domina l'architettura scenografica. Nei due dipinti con San Giacomo battezza Ermogene e con San Giacomo in giudizio il punto di fuga di entrambi è collocato nello spazio libero tra i due

22 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, ll martirio di san Giacomo (1453-1457), particolare durante il restauro.

dipinti. Di certo il gusto per l’ordine architettonico degli antichi è incombente ma godibilissimo, giacché non indugia nella mera riproduzione archeologica. Prendendo in prestito il linguaggio del Ruzzante, diremo che “tutto è rivissuto con un arbitrio fantasticante”. A tutte le scene fanno da contrappunto dei ragazzini: in basso bambini della strada, in alto dei piccoli angeli che giocano arrampicandosi e oscillando sui festoni che attraversano il cielo. Nel primo affresco, La vocazione dei santi Giacomo e Giovanni, scorgiamo per la prima volta rocce e montagne che paiono scolpite. Le figure sembrano cavate da quella roccia come in un basso rilievo. Nella seconda scena, La predica di san Giacomo, l’apostolo dialoga con i demoni evocati dal mago Ermogene. San Giacomo sta in alto su un pulpito. Sotto c’è un fuggi-fuggi di gente colta dal terrore. Un gruppo sulla destra rimane allocchito, pietrificato dall’incredibile evento. Lassù nella lunetta un putto sgambetta per aria buttandosi alla fuga. Passando alla scena in cui San Giacomo battezza il mago Ermogene, scorgiamo subito sulla sinistra due bambini, uno dei quali sta appoggiato con la schiena al primo pilastro; entrambi osservano senza alcuno stupore il rito al quale assistono dei curiosi, che non sembrano affatto coinvolti dall’avvenimento. In alto i soliti ragazzini volanti fanno gran baccano, lanciandosi dai terrazzi verso i festoni come piccoli Tarzan, e mostrano spudoratamente natiche tonde volte al cielo. Il gioco dei bambini alati prosegue festoso anche nella scena in cui campeggia possente un arco imperiale. Davanti al monumento Erode Agrippa giudica e condanna l’apostolo. Appeso sopra il capo del re c'è un grande baldacchino bianco che fa da contrappunto all'arco. Un bambino in primo piano s'è calzato in

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23 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il martirio di san Cristoforo (1452).

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24 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo (1452).

25 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il martirio di san Cristoforo (1452), particolare.

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26 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, Il trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo (1452), particolare.

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27 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, ll trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo (1452), particolare.

capo un grande elmo e s’appoggia con studiata pomposità a uno scudo lasciato incustodito da un soldato. Insomma la sensazione prima e l’aspetto che più ci colpiscono di queste storie sono la leggerezza e il distacco quasi divertito con cui è impostata la regia della rappresentazione. Questa assenza di ogni misticismo retorico ci comunica immediatamente la certezza di ritrovarci davanti a uno straordinario impianto,

quasi metafisico. 16e

Nella scena successiva si racconta del santo portato al martirio. Un carceriere si pone in ginocchio davanti a lui e dichiara di

essersi convertito al cristianesimo; quindi chiede a Giacomo la benedizione. In centro al dipinto un armato, la cui spada è appesa trasversalmente sul fondoschiena, partecipa commosso e stupito al gesto di devozione del suo compagno d’armi. Sul lato destro un intruso, che sta irrompendo nella scena sventolando una lunga asta imbandierata, viene bloccato duramente da uno sbirro che così gli impedisce di rompere il clima mistico che s'è appena creato. Il cielo in alto è nero; la prospettiva che disegna una fuga vertiginosa di pareti e di volte esaspera vieppiù il clima drammatico raddoppiato dalle figure dei personaggi visti dal basso in uno scorcio volutamente forzato. Nella scena che segue assistiamo al supplizio del santo. La storica Erika Tietze-Conrat ci fa notare come il carnefice, che con inaudita foga sferra colpi di mazza addosso al condannato, abbia un volto ben riconoscibile: il suo viso è il ritratto di Marsilio de’ Pazzi, forse considerato dalla tradizione popolare un emerito criminale. Ma tutto il dipinto è pretestualmente inteso a colpire personaggi del potere ben conosciuti e invisi alla popolazione. Infatti il cavaliere che sta entrando in campo dalla destra altri non sarebbe che messer Bonramino, e così di seguito gli altri partecipanti alla scena hanno tutti un nome e una ben chiara collocazione sociale e politica nell’alta gerarchia di Padova. Altri ricercatori non sono d’accordo nel vedere un’intenzione di denuncia satirica da parte di Mantegna.A loro modo di vedre quei personaggi collocati in ruoli di persecutori, tiranni o addirittura di carnefici non esprimerebbero indignazione e condanna da parte del giovane pittore, ma un semplice lazzo beffardo e del tutto bonario verso quelle persone oltretutto stimate da ogni cittadino. Può darsi... Ma ci sembrerebbe da parte di Mantegna un vezzo tutt’altro che giocoso quello di ritrarre uo-

MGEZAL 22

28 Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari. Mantegna, L’Assunzione della Vergine (1456).

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mini illustri travestendoli da assassini e spietati persecutori. Ma la maggior parte degli storici dell’arte insiste e fa notare che, nella scena con San Giacomo in giudizio, come abbiamo già sottolineato all’inizio del nostro discorso, Mantegna ha posto anche se stesso nei panni di un guerriero, come a dire: “certo che si tratta di una bonaria ironia, tant'è che ci si è messo anche lui in mezzo agli sbirri ... e in prima persona!”. Noi potremmo subito ribattere che quell’autoritratto recita uno sconforto indicibile da parte dell’autore-attore, ma — già lo sappiamo — il nostro commento non verrebbe ascoltato. Le due ultime immagini dipinte a fresco nella cappella Ovetari raccontano il martirio di san Cristoforo che vediamo gigante in proscenio nel primo dipinto, sotto un gran pergolato che disegna il cielo a graticciata. Il santo gigante chiamato Cristoforo, cioè portatore di Cristo, è rappresentato in molte pitture del Quattrocento mentre in riva al fiume si accinge a traghettare Gesù bambino caricato sulle sue spalle. Il bambino ci appare sempre straordinariamente divertito.

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In questo affresco, Il martirio di san Cristoforo, Mantegna colloca il santo traghettatore legato ai polsi contro lo stipite che fa da cornice al dipinto. Come ci racconta la Leggenda aurea, il tiranno che assiste al supplizio da una finestra del palazzo reale ha ordinato ai suoi arcieri di trafiggere il gigantesco cristiano. Ma come i suoi sgherri scoccano le frecce, ecco che si realizza un prodigio. Le frecce si rifiutano di colpire san Cristoforo. Giunte in prossimità del suo corpo eseguono un repentino dietro front e schizzano a rovescio in tutte le direzioni. Uno di quei dardi impazziti va a conficcarsi proprio nell’occhio del tiranno affacciato alla finestra. Nell'affresco è raccontato esattamente il momento in cui gli arcieri

si guardano intorno stupiti per tanto capovolgimento fuor d’ogni logica. Qualcuno di loro volge lo sguardo in alto verso il palazzo e resta sconvolto per la grottesca disgrazia capitata al suo padrone. Più di uno studioso di Mantegna ci segnala che uno degli sgherri, alle spalle del santo, ha le sembianze indubbie dello Squarcione, che come gli altri della masnada si guarda intorno sgomento. Particolare questo, che platealmente butta all’aria la tesi di una satira bonaria, quasi goliardica, da parte dell’Andrea padovano. In poche parole Mantegna usa l'espediente della metamorfosi nei personaggi con l’intento di spietato sarcasmo, proprio alla maniera di Michelangelo nella Cappella Sistina, però qualcosa come vent'anni prima... Qualche studioso, davvero fissato nella ricerca, è riuscito a

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dare nome e collocazione civica a gran parte dei partecipanti alla tentata trafittura. C'è da notare che Mantegna pone quasi tutti gli arcieri di schiena rispetto allo spettatore, ma ogni viso è torto a destra e a sinistra in modo da esser riconosciuto. Lo stesso espediente registico viene messo in atto anche nella seconda scena, quella in cui san Cristoforo è stato appena decollato e la sua testa è rotolata addirittura in proscenio. Una buona metà dei protagonisti di tanto crimine si presenta di spalle quasi volesse evitare d’esser riconosciuta da noi che li osserviamo dentro il quadro. In entrambi i lati del dipinto stanno in bella evidenza due boni homines che indossano sontuose e lucenti corazze. Son posti nel classico atteggiamento prassitelico, cioè appoggiano tutto il corpo su una sola gamba, torcendo il busto, e si aggrapppano a una lancia per contrastare il fuori equilibrio plastico. Gli sgherri di bassa forza hanno legato il corpo del gigantesco martire e insieme con grande sforzo cercano di trascinarlo

fuori dalla piazza dove da sotto gli archi s'è affacciata una folla

che resta lontana, preoccupata dalla potenza che quel santo continua a incutere anche se privo di testa.Vicino al bonus homo di destra c'è un bambino con abiti sontuosi. Di certo è il figliolo del nobile guerriero che sembra dirgli: “Vedi figliolo, noi ammazziamo anche i giganti, specie se non sono d’accordo con noi. Impara!”. Le due scene sono collocate in uno stesso ambiente. Il palazzo nobiliare della prima scena prosegue identico anche nella seconda. Pure questa volta il punto di fuga è posto a metà della colonna centrale che divide le due sequenze. L'apporto scenografico dell’architettura, pilastri, arcate, lo scorcio di case... tutto concorre ad esaltare la straordinaria drammaticità degli eventi, attraendo noi spettatori fin dentro lo spazio scenico.

La Madonna

Butler, 1454

La Madonna col Bambino e serafini, ora al Metropolitan Museum di New York, è la prima di una lunga serie dove Bambino e Vergine sono visti in scorcio dal basso. È un quadro senza dubbio dipinto dal vero. Basta notare l’espressione del bimbo prossimo al pianto e la madre che raccogliendolo con immensa tenerezza fra le braccia e con le splendide mani cerca di consolarlo. Anche lo sguardo della Madonna che con il viso si appoggia alla fronte del bimbo ci comunica un amore struggente. Ma l'invenzione di maggior valore che Mantegna mette in atto negli abbracci fra il Figlio e la Vergine Madre è quella inerente alla positura scenica del piccolo Gesù. Per la prima volta il Bimbo non è rappresentato nel suo aspetto di divino fanciullo simile a un putto greco, sveglio e benedicente. È un neonato, dall'espressione quasi ubriaca di latte e di sonno, la bocca addirittura spalancata in

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29 New York, Metropolitan Museum. e serafini (Madonna Butler) (1454), Bambino col Mantegna, La Madonna 43//Dc29,6:

un lieve, leggero russare soddisfatto, come stesse ancora nel ventre della madre.

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In una di queste Maternità (Madonna. col Bambino, 1479-1480 ca, Bergamo, Accademia Carrara), Gesù è rappresentato

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addormenta proiettando anche un ruttino. Egli dorme con gli occhi aperti, le pupille che si nascondono a metà della palpebra. Lo stesso atteggiamento è anche nella Madonna con Bambino dormiente (14701480 ca), ora a Milano, Museo Poldi Pezzoli. È chiaro che quello stato d'animo non nasce in Mantegna per ca- 290 so: sono immagini che ha tratto giorno dopo giorno dal comportamento dei propri figli, che sappiamo essere più di cinque, e dei propri nipoti. Esistono anche disegni preparatori di Maternità.Ve ne proponiamo uno di straordinaria suggestione. Vede la sola testa del Bambino disegnata con una attenzione e precisione di segno degna di Leonardo. Il Bambino anche in questo caso dorme ad occhi aperti e bocca semichiusa. In un secondo tempo ci si rende conto che dietro il viso del piccolo Gesù spunta ap-

30 Bergamo, Accademia Carrara. Mantegna, Madonna col Bambino (1470-1480 ca), 43 x 31.

31 Milano, Museo Poldi Pezzoli. Mantegna, Madonna col Bambino (1485-1495 ca), 43 x 45.

32 Rotterdam, Museum Boymans-van Beuningen. Mantegna (?), Studio di Madonna col Bambino e altre figure, 29,2 x 19,7.

33 Napoli, Gallerie Nazionali di Capodimonte. Mantegna, Sant'Eufemia (1454), 174 x 79.

pena indicata l’immagine della Madonna. Di lei si leggono solo i segni delle pupille, delle narici e un lieve filo che indica le labbra. Il lavoro non produce affatto la sensazione d’esser stato abbandonato durante l'esecuzione. L'averlo interrotto a quel punto — potrei giurarlo — è stata una decisione cosciente e definitiva di Mantegna. Aggiungere altri segni, ombre o colore non avrebbe mai sortito quella irripetibile magia.

Sant'Eufemia Nel 1454 Mantegna dipinge la Sant'Eufemia ora a Capodimonte, una tela che esce dagli schemi dell’iconografia religiosa del tempo. La santa è rappresentata da una figura giovane, austera e possente. Ricorda le statue dedicate a Cerere dai Romani: una regale dea madre. Non a caso dall’arco che la sovrasta pendono frutti rigogliosi, dono della primavera.

34 Londra, National Gallery. Mantegna, L’orazione nell'orto (1455), 63 x 80.

L’orazione nell’orto Nel 1455 Mantegna dipinge l’Orazione nell'orto, oggi alla National Gallery di Londra. In primo piano tre apostoli dormono sdraiati su una roccia. Un albero secco, dove solo un ramo butta un pugno di foglie, sale torcendosi dalla terra e produce vieppiù un senso di angoscia che già incombe su tutto il dipinto. Su uno dei rami un corvo sta aggrappato puntando lo sguardo verso Gesù. | tre apostoli stanno sdraiati come affranti in un sonno da incubo. Sembrano pla-

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smati come la roccia che fa loro da giaciglio. Poco più in alto, inginocchiato su una larga pietra, Gesù prega. La sua tristezza è insopportabile, disperata. La stessa che ci comunica il getto delle rupi che s’innalzano al cielo, contrappuntate dalle torri e dalle mura di una città da incubo. Sul fondo, lontano, una truppa di soldati e sacerdoti sta salendo verso il teatro della cattura. Quegli uomini, condotti da Giuda, disegnano un lungo serpente di corpi che avanza, badando di non far rumore. Unico suono: sembra di udire le parole di Cristo rivolte a suo padre. Parole disperate... L'uomo Gesù ha paura. Bisogna ammettere che siamo di fronte a una drammatizzazione straordinaria. Mantegna fin dalle sue prime opere ci dimostra di possedere un ineguagliabile talento per la composizione scenica.

La Pala di San Zeno

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Nella Pala di San Zeno ci offre una dimostrazione da autentico maestro della capacità di organizzare lo spazio. Vogliamo sottolineare subito che qui l'impianto geometrico è il maggior motore di questa drammatizzazione. Questa sapienza proiettiva trabocca soprattutto nella predella della Crocifissione ora al Louvre. La croce dove è issato Gesù sta esattamente nel centro del dipinto dividendolo in due parti uguali: sul lato sinistro sotto la croce del primo ladrone sta il gruppo delle donne che sorreggono Maria, sull'altro lato quattro soldati si giocano a dadi la veste rossa di Gesù. L'arcata della collina disegna un cerchio nella parte inferiore che raccoglie il gruppo con la Vergine e san Giovanni. Di fronte a

35 Verona, San Zeno.

Mantegna, Pala di San Zeno (1457-1459), 220 x 115.

36 Verona, San Zeno. Mantegna, Pala di San Zeno (1457-1459), particolare. 37-40 Verona, San Zeno. Mantegna, Pala di San Zeno (1457-1459), particolari.

4| Parigi, Louvre. Mantegna, Crocifissione, dalla Pala di San Zeno (1459-1460), 67 x 93.

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specchio un largo semicerchio abbraccia i soldati e due cavalieri. Dall’angolo del lato sinistro parte una diagonale che attraversa il primo cerchio e si ferma a metà della prima croce. A rovescio un’altra diagonale parte dalla base della stessa croce e giunge a tagliare tutto il restante della scena, fino all’angolo opposto in alto. La sequenza grafica crea un incrociarsi di ritmi geometrici di grande suggestione. Il dramma si svolge senza grida né rumore, in un silenzio pietrificato, davvero assordante. Qui Mantegna anticipa di una buona decina d’anni l’invenzione di Antonello da Messina. Entrambi allungano a dismisura i pa-

42 Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts. Antonello da Messina (1430 ca-1479), Crocifissione (1475).

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li delle tre croci issando Cristo e i due suoi compagni di patibolo in alto così che le tre figure inchiodate si stagliano sole nel cielo quasi terso, con leggere bave di nuvole.

Mantegna e i Gonzaga Nel 1456, all’età di venticinque anni, Mantegna viene invitato dal marchese Ludovico III di Mantova come pittore di corte. Accetta ma non vi si reca subito. Prende tempo, soprattutto per trattare con maggior vantaggio il suo contratto. Tant'è che due anni dopo riesce a stabilire un nuovo accordo: il Gonzaga si impegna a elargirgli uno stipendio di 15 ducati annui, cui aggiungere alloggio, grano per sei persone, viaggio e trasloco di mobili, bauli di casa e di bottega, e inoltre tutto il materiale per dipingere. Il marchese metterà anche a disposizione uno studio vasto dove preparare cartoni e ritratti.

Mantegna prometteva: “Sto arrivando... Avanti però, debbo liberarmi di certi impegni presi qui a Padova. Tengo una casa da vendere, una tela da terminare... Abbiate pazienza, mio signore, sarò da voi al più presto. Son qua... eccomi, giungo... No, rimando...”.“E no basta! Non si decide mai quel tanghero!” — urlava il marchese — “per di più ho saputo che si è preso altri impegni per una pala perfino a Verona”. Il marchese è costretto ad accordargli una proroga di qualche mese per la Pala di San Zeno a Verona, ma scalpita perché Mantegna non prenda altri impegni e si decida a raggiungerlo. Scrive lettere ad amici influenti e perfino all'abate di San Zeno perché intercedano presso il pittore. All'ennesimo bidone il Gonzaga ha una crisi e, per quanto ritratto dai suoi contemporanei come uomo mite e comprensivo,

colto dal furore, pensa di organizzare una spedizione armata per catturare quel figlio d’'androcchia che si permette di prendersi gioco di un principe di tanto rango! Ma desiste. Mantegna è protetto da una potente congrega di monaci e dal principe massimo di Verona... meglio lasciar correre! Qui è il caso di domandarci: ma perché tanta passione da parte del Gonzaga per quel pittore, che oltretutto si permette a ogni piè sospinto di mancargli di rispetto? È semplice. In quel tempo, alla nascita dell’Umanesimo e del Rinascimento, per un signore che volesse farsi una reputazione di uomo illuminato, ed esser considerato almeno magnificente, era assolutamente d'obbligo poter ricevere gli ospiti illustri, compresi re e imperatori, in luoghi adeguati, cioè palazzi progettati da architetti di fama, offrire una straordinaria cucina, approntare in piazze incantevoli spettacoli degni di una corte regale, con compagnie di attori che sapessero recitare tanto i classici greci e latini che la farsa dei mariazzi. E soprattutto sculture monumentali, giardini da favola e pitture da far gridare alla meraviglia. Per comprendere cosa portasse i signori del Rinascimento a questa ansia di accaparrarsi ad ogni costo l’esclusiva di artisti di genio non ci resta che paragonare quel clima con l’attuale fanatismo per i grandi campioni di calcio. Così come oggi un uomo di potere sborsa miliardi per acquistare un attaccante brasiliano che dia prestigio alla sua squadra e a se stesso, similmente nel Quattro-Cinquecento conti, marchesi e duchi, per non parlare dei pontefici, letteralmente si svenavano pur di acquistare i servizi di valenti artisti che decorassero le stanze dei loro palazzi e le chiese delle loro città. Specie i cosiddetti parvenus facevano carte false per accaparrarsi nomi di prestigio: il duca di Montefeltro a Urbino vendette una coppia di stupendi cavalli da torneo pur di ottenere Piero

della Francesca al proprio servizio insieme allo straordinario scultore, architetto e urbanista Luciano Laurana.A Ferrara ai duchi d’Este riuscì il colpo di appropriarsi in un sol botto di Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Francesco del Cossa e Lorenzo Costa. Ludovico il Moro a Milano offrì ingaggi da capogiro pur di far decidere Vincenzo Foppa, Bernardino Luini e addirittura Leonardo a recarsi da lui nella sua corte. | dogi di Venezia avevano la fortuna di poter attingere a un inesauribile vivaio di casa: il Bellini, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Vittore Carpaccio e altri ancora, così da poter gareggiare con Firenze e Roma che avevano collezionato un tal numero di poeti, architetti, scultori e pittori da poterne far mercato e scambio fra di loro. Noi italiani, grazie alla munificenza dei nostri padroni, eravamo i maestri del bel vivere. All’estero, da Carlo VIII a Ferdinando

di Spagna, si diceva“Il faut regarder bien à la lecon des italiens”. Attenti, non si creda che questi nostri signori fossero tutti magnanimi e comprensivi verso gli uomini d’arte eccelsa. La cronaca del Rinascimento è stracolma di atti di ferocia e disprezzo verso artisti d'alto valore, teatranti di fama, capocomici e grandi autori ai quali i signori non versavano

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quando si lamentavano li scacciavano a calci nel sedere o addirittura li imprigionavano. Siamo nel 1460 e Mantegna ha quasi trent'anni. Sia chiaro: il comportamento da eterno indeciso del pittore nei riguardi del suo prossimo magnate non era dettato da capricci da prima donna come qualcuno tenta di farci credere, ma dal timore ben fondato di ritrovarsi prigioniero nella corte, dopo le solite promesse e blandizie di rito, immancabilmente posto nella condizione di famiglio di buon rango... ma sempre famiglio... come già sperimentato da altri suoi colleghi.

In più di un saggio sulla condizione di pittore e scultore di corte vissuta da Mantegna, gli autori dei testi hanno sottolineato come lo stesso Ludovico Gonzaga si dichiarasse commosso parlando del suo protetto: “Egli è per noi come uno della famiglia”. Ebbene, questa espressione è più o meno la stessa che abbiamo sentito ripetere da quasi tutti i magnati del Rinascimento, a partire da Lorenzo il Magnifico per arrivare al duca di Montefeltro, da Ludovico il Moro a Borso d'Este, tutte le volte che si trovavano invitati a dare un giudizio sui maestri della propria scuderia. Ma bisognerebbe aggiungere a quei complimenti anche una postilla riguardante la condizione finanziaria e sociale in cui spesso versavano quei campioni del pensiero e della creatività. E scopriremmo quanti di loro furono costretti a fuggire da tanta affettuosità dei principi e andarsene in cerca di un lavoro sicuro, fuori di quelle terre, se volevano tornare a campare con dignità.

Il Trittico degli Uffizi. La circoncisione La Vergine conduce il figlio al tempio per la circoncisione. La reazione del piccolo Gesù che si rende conto di doversi sottoporre all'intervento operatorio è del tutto inattesa. È la prima volta nella storia della pittura che assistiamo a un atto di sgomento così esplicito da parte del Figlio di Dio. Il sacerdote tiene nella mano destra una piccola lama affilata e con l’altra mano sta per afferrare il piccolo sesso di Gesù. Il bambino si divincola e cerca disperatamente protezione fra le braccia della madre, quasi arrampicandosi sul suo corpo. Nella parte sinistra del dipinto un ragazzino nei panni d’assistente solleva verso il religioso un piatto d’argento con una benda arrotolata e un leggero tovagliolo. Il fanciullo indossa una ve-

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Firenze, Uffizi.

Mantegna, La circoncisione (1464-1470), 86 x 42,5, e particolare. 45 Amburgo, Kunstalle. Mantegna (?), Madonna col Bambino, 28 x 10.

ste chiara ben drappeggiata. Il suo atteggiamento è solenne, tutto compreso nel rito. Sul lato opposto della scena ci sono due donne, una anziana — la madre di Maria — e un’altra più giovane che tiene in gesto di protezione una mano sul capo del bambino che le sta accan-

to. ll bambino, che preoccupato si succhia un dito, si intuisce abbia da poco subito lo stesso intervento. La memo-

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ria troppo recente della circoncisione lo turba non poco. Infatti volge il viso dall’altra parte per non vedere. Attraverso queste semplici annotazioni Mantegna riesce a comunicare uno stato d’animo di intensa commozione che contrasta con l’autorità solenne del tempio, teatro del rito.

I Gonzaga Nel 1460 Mantegna dopo parecchie incertezze decide finalmente di accogliere l’invito di Ludovico Gonzaga e si reca, armi e bagagli, famiglia compresa e bimbi in quantità, a Mantova. Ma prima di presentare la nuova condizione di pittore di corte, alla quale Mantegna si adattò specie all’inizio con una certa difficoltà, è bene dare notizia, almeno sommaria, di chi fossero e da dove nascessero i suoi nobili committenti. Come dice un antico adagio pavano:“Il buon massaro è quello che riuscendo ad arricchire il padrone arricchisce anche se stesso”. Questo proverbio ben s’addice alle origini dei Gonzaga. La famiglia dei marchesi di Mantova è una stirpe di nobiltà relativamente recente. Nemmeno un secolo prima della nascita del ducato di Mantova, iCorradi di Gonzaga erano ancora contadini che lavoravano e gestivano le terre di un potente monastero benedettino, lascito di Matilde di Canossa. Erano lavoratori che servivano con lealtà e soprattutto erano capaci di procurare vantaggio ai monaci. Per la loro alacrità e affidabilità furono premiati ricevendo dai monaci terre incolte e da “purificare”. | Gonzaga, famiglia numerosa affiancata da villani in abbondanza, riuscirono a bonificarle e a trarne vantaggio. Insomma, divennero a loro volta possessores.A ‘sto punto presero casa in città, a Mantova.

46 Mantova, il castello di San Giorgio visto dal lago.

Anche a Mantova ebbero fortuna, soprattutto nella compravendita di case e palazzi. Quindi il loro cognome, che proviene da un termine dispregiativo della piana lombarda, gonzo — stupido, imbranato, babbeo — da cui Gonzaga, si dimostra ingiusto e fortemente errato. In quel momento a gestire Mantova era la famiglia dei Bonacolsi, grandi mercatari arraffatori, che avevano da poco, attraverso un colpo di mano, ottenuto il potere della città. |Gonzaga divennero loro antagonisti. Una forte fazione di cittadini, boni homines, appoggiò gli ex-massari che contestavano ai Bonacolsi una amministrazione tutta tesa a trarre vantaggi a dir poco pirateschi senza alcun rispetto per le regole civiche. Quindi a loro vol-

ta in pieno mese d’agosto del 1328 i Gonzaga e i loro sostenitori, con l’ausilio di Cangrande della Scala, despota veronese, organizzarono un nuovo golpe che si tramutò in un vero massacro. | Bonacolsi furono imprigionati e in parte eliminati; altri si salvarono a fatica. Quindi i vincitori divennero i nuovi padroni della città. Dopo quindici giorni Luigi Gonzaga si fece eleggere capitano del popolo e vicario imperiale, bloccando così sul nascere le mire di Cangrande. Col passare del tempo l’appetito dei Gongaza crebbe a dismisura: in meno di un secolo divennero di fatto i padroni fisici di gran parte del territorio mantovano, compresi i fiumi, le foreste e i laghi. Ma a protezione dell’arraffo occorreva un’investitura e soprattutto un titolo araldico autentico. Nel 1433 a Ludovico, giovane erede dei Gonzaga, fu proposto un affare: il matrimonio con Barbara di Brandeburgo, nipote dell’imperatore germanico, più il titolo di marchese. Il tutto in blocco per la modica cifra di 12.000 fiorini d’oro.

L’Ascensione di Gesù

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Nel 1462-1464 Mantegna dipinge L’Ascensione di Gesù. Non dobbiamo dimenticare che Mantegna era anche scultore di alto valore. Come abbiamo spesso dichiarato i suoi disegni, anche quando erano preparatori a dipinti, fanno pensare ad abbozzi per bassorilievi o, addirittura, ad altorilievi in pietra. È il caso di questo disegno preparatorio al dipinto con V'Ascensione che ha per titolo Otto apostoli assistono all’Ascensione. Le figure dei santi sono poste su piani diversi, a scalare in una

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di Giove è messo sempre in bell’evidenza nei pressi delle natiche del contendente. Naturalmente in fase di palese riposo. Scurrili sì, ma c'è sempre un limite. È questione di stile, un po’ di decenza perdio!

La flagellazione La flagellazione del maestro padovano ci riporta subito a quella di Piero della Francesca. Anche in questo disegno, preparatorio per un dipinto, sulla destra vediamo una coppia di soldati che discutono fra di loro. Sul fondo un porticato senza tettoia, un elemento da scena teatrale.Ai lati di Cristo legato alla colonna, due energumeni lo battono con ferocia. Ma mentre in Piero del-

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la Francesca i personaggi in primo piano sembrano disinteres-

sarsi completamente del supplizio e discutono di problemi del tutto personali, nel suo bozzetto preparatorio Mantegna ci rappresenta i due militari partecipi della drammaticità. Salvo per il personaggio che sta seduto contro la cornice di sinistra, dall’espressione assente, tutti gli altri agiscono frenetici dentro una prospettiva a punto di fuga centrale piuttosto esasperato. Il declivio scosceso e la copertura del porticato fortemente rastremato concorrono a imporre l’attenzione sulla figura di Cristo, collocandola in grande evidenza. In questo caso è la macchina scenica a determinare la situazione tragica.

Ma anche cancellando per intiero le linee di fuga e di piano, eliminando i battitori e gli sbirri, un pittore della forza di Mantegna, servendosi di pochi segni, è in grado di produrre un’opera d’arte davvero eccelsa. Ce lo dimostra l’abbozzo del Cristo alla colonna, rappresentato in due posizioni, quasi conseguenti. Anche nel caso di questo disegno alcuni studiosi discutono se sia opera

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108 Berlino, Staatliche Museen.

Mantegna La flagellazione, 44,2 x 34,3. ’

109 Urbino, Palazzo Ducale. Piero della Francesca (1415/20-1509), La flagellazione (1455), 59 x 81,5.

110, III Londra, Courtald Institute. Mantegna, Cristo alla colonna e Due studi su Cristo, 23,4 x 14,4, recto e verso.

112 Monaco, Staatliche Graphische Sammlung. Mantegna CriISTORI isorto fra I san ti Andrea e Lon gino, 9054285)

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di Mantegna o di Giovanni Bellini. Ma evidentemente fra i due era nata ormai una simbiosi espressiva straordinaria. Se si pensa poi che al tempo in cui furono eseguiti questo e altri numerosi schizzi entrambi i pittori avevano circa trent'anni, c'è davvero di che fare gran meraviglia!

Il Cristo risorto Leonardo da Vinci diceva in uno dei suoi appunti: “Spesso bisogna impiegare il minimo per ottenere il massimo. Il minimo dei gesti a cominciare dall'impianto geometrico ridotto all’essenziale. Non abusare degli effetti d'ombra in modo che la luce abbracci tutta la scena”. È proprio il caso di questa Resurrezione di Cristo. Il Salvatore è appena risorto e sta in piedi appoggiato all’asta che issa una striminzita bandiera. Con l’altra mano accenna una benedizione. È ancora stordito dalla luce. Tiene la testa reclina. Le due figure che lo accompagnano sono personaggi anacronistici: due santi che nulla hanno in comune con la resurrezione, ma che sostengono ed equilibrano il sorgere di Cristo dalla sua tomba. Il disegno è fra i più essenziali che sia dato di vedere: è proprio quella povertà di segni e di gesti che lo rende magico.

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La deposizione nel sepolcro Prima di Mantegna nessun pittore aveva pensato a una simile positura. Cristo calato nella fossa è visto dal basso e di piedi. Due seguaci lo reggono, Cristo è avvolto nel telo, entrambi i discepoli tirano a sè il lenzuolo per rallentarne la discesa. La Ma-

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113 Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia. Mantegna, La deposizione nel sepolcro, 13 x 9,5. 114 Venezia, Galleria dell’Accademia.

Mantegna, La Pietà, 12,7 x 9,8.

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donna sta nel centro tutta protesa verso il figlio. Non è solo un'originale inquadratura, ma quel taglio di sguincio produce una potente suggestione. Quello di cui parliamo è solo uno schizzo. Della Deposizione finale possediamo disegni diversi, e copie di suoi discepoli, tutte rappresentazioni molto potenti, ma nessuna si avvicina alla drammaticità di quel semplice schizzo. | disegni e le incisioni che ci sono pervenuti sono carichi di effetti: rocce che s’aprono nel centro del dipinto scoprendo una caverna, alberi contorti, nubi che solcano minacciose il cielo, la Madonna svenuta vicino al sepolcro sorretta da altre donne... tutto suggestivo, di grande teatralità. Ma la sintesi essenziale del primo schizzo dimostra la verità del consiglio di Leonardo: ‘Spesso bisogna impiegare il minimo per ottenere il massimo”.

115 Londra, British Museum. Mantegna, Cristo morto, 12,2 x 8,9, recto. 116 Londra, British Museum. Mantegna, Uomo giacente su una lastra di pietra, 16,3 x 14.

La Pietà Il corpo di Cristo è visto di fronte seduto, inerte sul soglio del sepolcro. Il segno corre veloce, descrivendo i gesti essenziali.

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Sono accennate teste, mani e braccia ma non per intiero, i parti-

colari sono quasi volutamente tralasciati eppure il clima tragico risulta altissimo. Sempre restando nella serie dei disegni “ex tempore” — abbozzi estemporanei — su uno stesso foglio troviamo due lavori. L'uno è uno studio di Cristo morto in varie posizioni, di cui quello centrale rappresenta Gesù visto di scorcio. L'altra immagine, qui non riprodotta, descrive la Madonna, o la Maddalena, in ginoc-

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"ato pg

117 Parigi, Louvre. Mantegna, La Madonna della Vittoria (1496), 280 x 166. 118 Parigi, Institut Néerlandais. Mantegna, Madonna con il Bambino, 16,8 x 12,1.

chio, forse protesa verso il corpo di Gesù, vista tanto di fronte che di schiena. Entrambi i disegni esprimono la magia di una incredibile rapidità del segno. Il pittore, per riuscire a raggiungere una grazia tanto limpida, deve aver acquisito nell'esercizio grafico una memoria visiva del corpo umano e dei suoi gesti veramente straordinaria. Il grande suonatore di liuto o di violino nel produrre un concerto non si avvale di partitura e non ha nemmeno bisogno di osservare e controllare i propri movimenti. Spesso i grandi maestri chiudono addirittura gli occhi, ogni gesto è pura espressione del pensiero. Essi suonano per immagini. Lo stesso accade per pittori a livello di Mantegna, Raffaello e Leonardo: di sicuro potevano disegnare a occhi chiusi, anzi bendati, e nessuno si sarebbe accorto del prodigio.

La Madonna

della Vittoria

Della Madonna della Vittoria del Louvre,

dipinta per celebrare la battaglia di Fornovo, con il Gonzaga ai piedi della Madonna, oltre al dipinto esiste un'incisione a punta secca con carta preparata su fondo azzurro scuro poi lumeggiata. Questo è il disegno preparatorio del quadro ed è di una bellezza sconvolgente. Il bambino sta all'impiedi in equilibrio e appoggia i piedi su una gamba della Vergine. La Madonna lo trattiene ritto quasi per misurarne la forza. Ancora una volta la figura disegnata fa pensare a Raffaello e a Leonardo. La posa

119 quasi prassitelica con cui si atteggia Gesù contrasta fortemente con l’espressione malinconica del suo viso. È la stessa situazione che ritroviamo nel Battistero degli Ariani di Ravenna, dove il Figlio di Dio è rappresentato giovane, all’impiedi, completamente nudo con le gambe immerse nell'acqua mentre riceve il battesimo da Giovanni. Identica è la sua malinconia.

L’introduzione del culto di Cibele

Mz

a Roma

Questo è forse uno degli ultimi dipinti di Mantegna. Infatti viene collocato come esecuzione da molti studiosi tra il 1504 e il 1505, circa un anno prima della sua morte. Il committente dell’opera è indicato con il nome di Francesco

119 Londra, National Gallery. Mantegna, L'introduzione del culto di Cibele a Roma (1504-1505), 718:552268!

Cornaro, probabilmente della stessa famiglia di Alvise che nella parte iniziale del xvi secolo fu lo scopritore del Ruzzante e suo mecenate. Sembra quasi il progetto per un grande bassorilievo, dove si racconta l’arrivo a Roma di un busto di donna. Si tratta di un’immagine di Cibele, dea della Terra. Portatori sorreggono con fatica il baldacchino sul quale vediamo l'effigie della dea, che pare scivolare sull'acqua come una barca. In ginocchio davanti a lei c'è una donna e dietro un giovane dall’aria possente, seguito dalla sua corte. Si tratta di Cornelio Scipione, al quale un oracolo ha ordinato di rintracciare il busto a Pergamo e portarlo nell’Urbe: “Solo così riuscirai a battere l’armata cartaginese”. La giovane inginocchiata è Claudia Quinta, indicata dalla pubblica opinione come una vanesia peccatrice. Ma a questo punto è il caso di of-

frirvi il racconto di Ovidio (Fasti, libro IV) al quale Mantegna si è ispirato.

La nave che porta la statua “aveva toccato la foce [Ostia] dove il Tevere si disperde nell’alto mare e scorre in uno spazio più libero: tutti i cavalieri e i seri senatori mischiati insieme alla plebe le vanno incontro alla foce del fiume. Procedono accanto le madri, le figlie e le nuore, e le vergini che tutelano i sacri fuochi. Gli uomini affaticano le attive braccia con il tiro alla fune: la nave avanza a stento nella corrente contraria. La terra era secca da tempo, l’erba era bruciata dalla sete: la nave resiste incagliata nel guado fangoso. Ognuno partecipa allo sforzo, e si affatica quanto può, e aiuta le mani forti con le grida: la nave sta ferma in mezzo all'acqua come se fosse un'isola. Sbalorditi di fronte al fenomeno gli uomini si fermano e si impauriscono. Claudia Quinta discendeva dalla stirpe dell’antico Clauso (e il suo aspetto non era da meno in quanto a nobiltà), virtuosa essa passava per non esserlo: voci ingiuste, accuse infondate, avevano attaccato la sua reputazione; il suo abbigliamento, l'eleganza delle sue acconciature le avevano fatto torto e, secondo i vecchi severi, la sua lingua era troppo pronta. Consapevole della propria rettitudine se la rise delle menzogne che si dicevano in giro, e tuttavia noi altri siamo gente facile a credere nel male. Come quella si avanza dal gruppo delle caste matrone, e raccoglie con le mani l’acqua pura del fiume, e per tre volte si bagna il capo, tre volte alza le mani al cielo (tutti quelli che guardano pensano che sia impazzita), e inginocchiata fissa il volto nell'immagine della dea, e sciolti i capelli dice queste parole: “Alma e feconda Madre degli Dei, accogli la preghiera di questa tua supplice in una condizione sicura. Si nega che io sia casta: se tu mi condanni, affermerò che l’ho meritato; pagherò con la morte la colpa, per giudizio divino; se invece la colpa è as-

sente, tu darai con un gesto la prova della mia purezza, e casta, tu seguirai mani caste!”. Ciò detto, ella senza grande sforzo tira la corda; dirò una cosa che fa stupire, eppure attestata anche in teatro: la dea si avvia, segue la donna che la guida e, seguendola, la giustifica. Un clamore che esprime la gioia sale fino agli astri”. Il disegno colorato rappresenta con rigore l’episodio: tutti i presenti sono stupiti e commossi, ma Mantegna non poteva chiude-

re senza un contrappunto. Infatti al termine della processione pone un giullare che batte sul tamburo e soffia sul flauto a giocondo commento.

Cristo “in scurto”’ (Cristo morto) Scurto significa “di scorcio”, o meglio, visto di scorcio. Questa figura di Cristo morto steso sulla pietra funebre è uno dei capolavori giustamente più conosciuti della pittura di Mantegna. Insieme alla scenografia e alla cosiddetta “fuga architettonica delle scene” lo studio dello scorcio fu il maggior impegno dell’“excelso pintor paduano”. Questa tecnica viene chiamata anche legger di sguincio. Ma spesso i dipinti realizzati applicando questa scienza vengono letti solo per l’artificio che producono, la meraviglia dell’illusione, il trompe-l’oeil. Mantegna ha eseguito decine di dipinti con figure in scorcio di fattura perfetta, a cominciare dai tre apostoli sdraiati sul piano roccioso, addormen-

tati mentre Gesù prega nell’orto del Getsemani, fino al satiro ubriaco portato in braccio dai suoi compagni di sbronza, gli studi per la Deposizione, l’uomo giacente su una lastra di pietra, la Madonna sdraiata ai piedi della tomba. Ma nel concepire il progetto del Cristo morto, Mantegna come tutti i grandi pittori del suo tempo, vedi Leonardo, Michelangelo,

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ss 22 116

120 Milano, Pinacoteca di Brera. Mantegna, Cristo morto (1500 ca), 66 x 81.

Giorgione, non applica con rigore geometrico le regole dello scorcio. In questo dipinto si percepiscono varianti del tutto arbitrarie ma di grande effetto. Se osservate con molta attenzione il dipinto a scorcio, vi renderete conto che i piedi del Cristo non sono a giusta misura, ma più piccoli di quanto lo sguincio imporrebbe.Al contrario, la testa appare più grande di quanto sarebbe logico. È un errore? Personalmente per mezzo del computer ho rimontato il dipinto inserendo le giuste misure dettate dalle rego-

le prospettico-convenzionali. Ebbene, all’istante la figura diventa normale, ma la drammaticità dell'immagine, l'angoscia che comunica quella sequenza paradossale degli arti fuori regola svanisce. In poche parole, in quel Cristo ucciso l’errore diventa il catalizzatore essenziale e insostituibile del dramma visuale.

La vecchiaia di Mantegna Gli ultimi anni della vita di Mantegna non furono quelli di una vecchiaia felice. La splendida moglie Nicolosia, sorella del Giambellino, era morta da molti anni. Per quella sua compagna portava un amore tenero e insostituibile. La ricordava spesso. Quella scomparsa lasciò nel pittore un vuoto incolmabile. Mantegna a Mantova s’era fatto costruire una bellissima casa — che esiste ancora ed è stata da poco restaurata — con molte stanze, un quadriportico interno e intorno un ampio giardino. Il progetto l’aveva disegnato di suo pugno. Sul lato sud aveva acquistato un podere, uno spazio che gli permettesse una larga visuale e nulla che proiettasse ombre sulle finestre dello studio. È lì, in quella stanza, che aveva dipinto le opere più importanti, come il “Cristo di scurcio” che si tenne per sè in quella stessa “camara” fino alla sua morte insieme al grande disegno con il busto di Cibele che sbarca a Roma. Per tutto il palazzo erano sparsi reperti archeologici di grande valore raccolti in anni e anni. Fra questi il preziosissimo busto romano di Fausta che Mantegna in grave difficoltà finanziaria fu costretto a vendere alla duchessa Isabella proprio qualche anno prima di andarsene. Infatti in quel tempo il pittore se la stava passando proprio male, anche fisicamente.

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MIS:

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Mantova,

La casa di Mantegna.

Ma come poteva esser giunto a tanta difficoltà finanziaria? Fra l’altro Andrea continuava a produrre opere di grande valore, specie per il Gonzaga che però evidentemente era, come si dice ancora a Mantova, di braccio corto riguardo i propri debiti. Fatto sta che da tempo Mantegna non vedeva un quattrino. Ne fa testimonianza una lettera di Isabella recapitata d’urgenza al duca suo marito che testualmente così gli comunicava: “Voglio sollecitare una attenzione particolare per il nostro Andrea pittore che si truova in malo stato, campando in ristrettezza. Sarebbe d’uopo che voi gli andassi in aiuto con qualche elargizione, poiché se non lo facessi c'è pericolo che più non lo trovassi vivo e la dipintura (allude alle ultime tele dei Trionfi), che per vostro vanto et piacere bene sarebbe fuesse a compimento, puotria restare encompiuta con vostro forte disdoro e danno”. Insomma, non per correttezza e senso umano bisognerebbe correre in aiuto al malpagato Mantegna, ma solo per interesse! Un’opera incompiuta vale molto meno sul mercato di una terminata.

Infatti un secolo appresso (1627) Carlo | Gonzaga-Nevers, trovandosi completamente rovinato dallo sperperare denari e terre a volontà, costretto a vendere l’intiera sequenza delle tele glorificanti Cesare e il suo trionfo a Carlo | d'Inghilterra, chiese una cifra a dir poco mastodontica e la ottenne quasi per intiero. Nel portarsi via il “bottino” il suddito inglese incaricato al trasporto, preoccupato che il Gonzaga ci potesse ripensare e buttasse all’aria il contratto, pur di fare in fretta staccò di netto le pitture dai telai, tagliando lunghe strisce dei dipinti specie nella parte bassa, così che d’ogni sequenza segò i piedi ai personaggi, ai cavalli e perfino agli elefanti. C'è di che essere certi: il pittore nella sua tomba alla vista di quello scempio avrà eseguito senz'altro un vero e proprio salto

mortale con tanto di bestemmia apocalittica. A proposito di tomba, Mantegna sborsò parecchi scudi d’oro per comprarsi lo spazio in cattedrale dove allestire un sepolcro per sè e per la sua famiglia: addirittura una cappella, privilegio che si potevano permettere solo mercanti facoltosi e nobili in ottime condizioni finanziarie. Quel volersi collocare fra i maggiori della città non era certo dettato dall’ansia di glorificare la memoria di sè, quanto piuttosto di dare a figli e nipoti una discendenza degna: una tomba pomposa è meglio di un sontuoso palazzo. Mantegna non era stato molto fortunato con i suoi eredi. Tanto per cominciare fra figlie e figli in pochi anni ne perse più della metà. Inoltre soprattutto i due maschi non facevano che creargli dispiaceri. Il maggiore in particolare, Ludovico, era rissoso, pieno di sè, pettegolo e maldicente, specie con i cortigiani dei Gonzaga. La misura straripò quando tentò di infangare la credibilità del marchese stesso, del quale era cameriere, insinuando che se la facesse con una setta di eretici. Francesco Gonzaga lo cacciò su due piedi. Il padre Andrea si umiliò, buttandosi in ginocchio ai piedi di Isabella e piangendo disperato. La marchesa si commosse e intercedette presso il marito perché perdonasse lo scellerato. Non ci fu niente da fare, nonostante Isabella avesse messo in campo tutta la sua autorità e passione: “Attento Francesco, Andrea è in mala salute. Un colpo così lo può uccidere”, insistette. “Vada in malora lui e tutta la sua famiglia”,fu più o meno la risposta del marito.

Mantegna, pur al limite delle forze, continuava a dipingere. suo studio si susseguivano visitatori illustri. Era l’unico conforto. In quel tempo aveva iniziato a preparare i cartoni gli affreschi della sua tomba. Con sè aveva un figlio, discreto

Nel suo per pit-

tore, e alcuni allievi fra i quali molto probabilmente un giovane di nome Antonio Allegri, detto il Correggio. C'è di che chiedersi: era buon maestro Mantegna? Potrebbe qui rispondere di sua voce Leonardo:“Non necessita tener concione agli allievi e agli aiuti che ti sono appresso. Basta mostrar loro il tuo mestiere, le cose che ti vengono facili e l'altre dove ti scopri affaticato e in difficoltà. Chi di loro ha occhio curioso e doti acconce impara, l’altri restano allocchi come pria”. Abbiamo già visto che fin da quando, ancora ragazzino, Mantegna viveva nella bottega dello Squarcione, i suoi maestri e la sua ossessione furono gli antichi. Li copiava, li riproduceva anche in cotto e in pietra, ma si salvò dal divenirne schiavo proprio facendo diventare quei bassorilievi e i dipinti oggetti della quotidianità. In poche parole, non li ritenne sacri, non ne rispettò i moduli nè tanto meno gli “ordini”. Se ne serviva ma con distacco, facendone il pretesto per un gioco. È lo stesso atteggiamento che avevano gli autori e i comici

del nuovo teatro italiano del Rinascimento, il Calmo, Machiavelli, il Bibbiena, Della Porta e primo fra tutti Angelo Beolco, detto il Ruzzante. Costoro si servivano dei classici, da Aristofane a Plauto e Terenzio, ma ne trasportavano le varie situazioni ai giorni

nostri, li rivestivano di una straordinaria attualità. Il linguaggio usato era il volgare della strada; del tempo reale erano anche i costumi,gli oggetti e gli eventi storici, nonché i personaggi con il ruolo di protagonisti, maschi e femmine. | signori e le signore coinvolte ne erano lusingati ma il più delle volte indispettiti, se non addirittura indignati. Non era di certo piacevole scoprirsi ritratti nel ruolo di truffatore o ruffiano, e per quanto riguarda le signore vedersi trasformate in femmine di ambigua moralità. In ogni commedia, dell’Aretino o di Giordano Bruno, così come nelle tele di Mantegna, Leonardo e Michelangelo, si alludeva

a un nuovo modo di pensare, di leggere il creato, a cominciare dalla sistemazione degli astri nella volta celeste. Si rasentava spesso l’eresia, si mettevano alla berlina principi e papi, inquisitori e imbonitori da strapazzo, sia della politica che della fede. Arricchirsi di scienza e conoscenza era allora un dovere e una necessità. Non si poteva rimanere indietro nella cavalcata frenetica del sapere, occorreva scoprire, sperimentare, produrre. Il presente era già passato. Perfino il futuro in ogni attimo stava già passando. Per ragioni difficili da stabilire, in quel cerchio che raccoglie Padova e Venezia, Verona e Mantova con Ferrara si era creato una specie di crogiolo dell’Umanesimo. Redigere il numero e le qualità dei maestri che vi dimorarono o vi transitarono è un’operazione impossibile. Nell’Università di Ferrara vennero a studiare scienziati del livello di Keplero, si fermò in cerca di rifugio, in quanto perseguitato, Rabelais, che di certo visitò anche Mantova. Mantegna, da ragazzino analfabeta qual era al suo esordio a Padova, come una spugna assorbì tutto il sapere possibile che gli galleggiava intorno, come stesse dentro un acquario: a bocca spalancata e occhi stupiti ingoiava immagini, espressioni, dottrine, follie con una avidità da eterno affamato. Pur così incostante e neghittoso non si lasciava sfuggire chiunque gli potesse comunicare qualsiasi nuovo concetto o sapere.

Il suo grande maestro, che con Donatello gli squarciò il mondo dello spazio iscritto nella geometria strutturale, fu senz'altro Leon Battista Alberti, architetto, letterato e filosofo. Fu lui a leggergli per primo le Metamorfosi di Ovidio e i dialoghi di Luciano di Samosata, dai quali abbiamo visto Mantegna trasse grande ispirazione. E soprattutto il doppio segno della dialettica, cioè la coscienza che nulla è definitivo e assoluto. Ogni regola ha il suo contrario, sotto il tragico sta sempre nascosto il grottesco: è la

violenza del dubbio che lo fa emergere. Perciò vedrete spesso nei dipinti di Mantegna, di fianco alla malinconia o nel piano più profondo del dolore, spuntare una coppia di conigli che si rincorrono e appresso un piccolo cane sperduto, laggiù tagliatori di pietra che battono con la mazza sulla roccia, un impiccato appeso a un pergolato, due innamorati che si baciano tra le fronde, nel cielo una nuvola trasformata in un volto, una donna affacciata alla finestra, un ragazzino appoggiato al muro, un corvo in equilibrio su un lungo palo, un pavone che si sporge dall’oculo della volta e bimbi che spuntano da ogni dove. Attenti, non sono appunti decorativi: sono il mondo.

Fotolito Zincografica Vaccari, Modena

Finito di stampare nel mese di luglio 2006 da NuovaGrafica, Carpi

Dario Fo nasce a San Giano sul Lago Maggiore nel 1926 da Felice, capostazione e attore in una compagnia amatoriale, e da Pina Rota, donna di grande fantasia e talento che pubblicherà un libro, Il paese delle rane, negli anni ’70. Oltre al fratello Fulvio e alla sorella Bianca, la famiglia comprende il nonno agricoltore ortolano in Lomellina, presso il quale Fo bambino andrà spesso in vacanza. ll nonno, un autentico fabulatore,

per attirare gli avventori racconta

favole

grottesche mischiate alla cronaca dei fatti

accaduti in paese. Seduto sul carro, tra frutta e verdura, Fo apprende i rudimenti della narrazione popolare. Dopo la guerra, la famiglia Fo si trasferisce a Milano, dove Dario frequenta l'Accademia di Brera e la facoltà di Architettura al Politecnico.A 23 anni avviene l’incontro artistico con Franco Parenti e Giustino Durano, con iquali scrive e allestisce spettacoli satirici. E qui che incontra Franca Rame, con la quale inizia il sodalizio artistico e familiare che si concretizza nel matrimonio e nella nascita del figlio Jacopo. Nel corso di quasi 50 anni di straordinaria carriera, Dario Fo ha scritto, interpreta-

to e messo in scena oltre 60 commedie per le quali ha disegnato anche scene e costumi. | suoi spettacoli sono sempre stati indirizzati alla ricerca di un linguaggio popolare in grado di sovvertire quello ufficiale e di dar voce alle verità nascoste e taciute, oltre che

a un costante impegno civile per denunciare le tante ingiustizie del mondo, scelta che gli varrà ostracismi, censure, e anche un arresto. Le sue commedie sono state messe in scena in tutto il mondo. _ Nel corso della sua carriera Dario Fo * ricevuto numerosi premi, tra cui ricordia-

mo il Premio Sonning dell’Università di Copenhagen (1981), il Premio Nobel per la Letteratura (1997), la nomina a Commandeur de l’ordre des arts et des lettres della Repubblica Francese (1998). ISBN 88-8290-9 2-3

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MIEBGRIE TARANTOLA

BELLUNO

1926

| III 9"788882"909123