Il cervello e le idee. Saggio sull'intelligenza, il linguaggio, la scienza 9788811592723, 8811592720


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Italian Pages 234 Year 1989

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Il cervello e le idee. Saggio sull'intelligenza, il linguaggio, la scienza
 9788811592723, 8811592720

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N ella stessa collana Ugo Lucio Businaro, R & S x P Afexander Woodcock e Monte Davis, La teoria delle catastrofi Jarnes D_ Watson, La doppia elica trent'anni dopo Werner Heisenberg, La tradizione nella scienza John McPhee, Il nucleare tra guerra e pace Francis Crick, L'origine della vita .Jer emy Bernstein, Hans Bethe, il profeta dell'energia John Reader, Gli anelli mancanti Benno Miiller-Hill, I filosofi e l'essere vivente Valentino Braitenberg, I veicoli pensanti Enzo Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici Michael Riordan (a cura di), Il giorno dopo Jean Piaget e Rolando Garcia, Psicogenesi e storia delle scienze Renzo Tomatis, Storia naturale del ricercatore Erwin Chargaff, Il fuoco di Eraclito Nicholas Kaldor, Ricordi di un economista Barry Commoner, Il cerchio da chiudere John C Sheehan, L'anello incantato Evelyn Fox Keller, Sul genere e la scienza Erwm Schrodinger, La mia visione del mondo J.B. S. Haldane, Della misura giusta Gianfranco Secchi, Miti e riti dell'informatica Humberto Maturana e Francisco Varela, L'albero della conoscenza Rita Levi Montalcini, Elogio dell'imperfezione Richard F. Kahn, Un discepolo di Keynes Caroly n Merchant, La morte della Natura G.B. Zorzoli, fl pianeta in bilico Max Perutz, E necessaria la scienza?

Br aitenber g, Valentino Il cervello e le idee. Presentazione di Giuseppe O Longo. (Saggi rossi). Tit orig .: Gescheit sein. Trad. di Umberto Gandini. l. Cervello 2. Intelligenza I Longo, Giuseppe O. IL Tit

153.9 Dati catalog1afici a CUI a del Servizio Biblioteche della Provincia di Milano

Valentino Braitenberg

Il cervello e le idee Saggi sull'intelligenza, il linguaggio, la scienza

Presentazione di Giuseppe

Garzanti

O. Longo

Prima edizione: giugno 1989

Traduzione di Umberto Gandini

Titolo originale dell'opera: « Gescheit sein>> © 1 987 by Haffmans Verlag AG Zi.irich ISBN 88-11-59272-0 © Garzanti Editore s p .. a .. , 1 989 Printed in Italy

Presentazione

Mi ero trascritto su un foglietto di carta i tredici comanda­ menti del dottor Dell'Antonio e, seduto in un comodo scom­ partimento di prima classe, mi stavo domandando quali avrei cancellato, quando l'amenità del paesaggio, il dondolio della carrozza e la placida smemoratezza indotta dalla digestione mi conciliarono il sonno. Mi trovai in un vasto paesaggio colorito e scintillante, at­ traversato in tutti i sensi da festoni oscillanti al vento che col­ legavano tra loro globi traslucidi e pulsanti, simi_li all'immagi­ ne che tutti abbiamo del cervello in funzione. «E la rete delle differenze», disse accanto a me la voce del dottor Dell' Anto­ nio. Lo guardai con aria interrogativa ed egli, sorridendo, continuò: « Questo che Lei vede è l'universo dell'informazio­ ne. Questi globi sospesi non sono né pendoli né pianeti, si comportano in modo del tutto diverso dagli oggetti della fisi­ ca. Guardi!» N e sfiorò uno col dito e ne suscitò una reazione assoluta­ mente sproporzionata, un lavorio, un'agitazione febbrile che, attraverso i festoni, si propagò a tutta quella policroma rete, creandovi un'oscillazione ripetuta e una commozione inde­ scrivibile. «l sistemi fisici non si comportano cosi, non Le pare?» Ne convenni, e Dell'Antonio proseguì : «L'informazione, che scaturisce e scorre dappertutto nel mondo che ci circonda, è contenuta nelle differenze: differen­ ze di forma, di colore, di intensità, che si propagano sotto

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forme diverse in quell'innumerevole rete di comunicazione che è l'universo, rete acentrica, di cui ciascun essere vivente può considerarsi il fulcro vero e unico, ricco e privilegiato. Ecco, guardi, questo globo è Lei, quello un po' più in là sono io e quello laggiù, che sembra illuminato da un sorriso canzo­ natorio e corrosivo, è il nostro amico Valentino Braitenberg. Ciascuno di questi globi è esattamente al centro dell'universo della comunicazione e dell'informazione. E, come Le dicevo dianzi, questo universo è diversissimo dall'universo fisico. Qui non ci sono urti, forze e quantità di moto, le leggi non sono quelle di Newton. Questo è l'universo mentale. » « Ma non c'è informazione senza supporto materiale» , obiettai per dimostrargli che non ero del tutto digiuno d i si­ mili argomenti, e anche per vedere come se la cavava quello strano psicologo di origine montanara. « Giusto, » replicò Dell'Antonio, «l'informazione ha biso­ gno del mondo fisico, ha bisogno di una materia per esplicar­ si nelle differenze spaziali tra le diverse parti del supporto, oppure nelle differenze temporali tra i suoi stati successivi. Ma l'informazione non è il supporto, l'informazione è nelle differenze. Queste differenze, codificate, cioè trasformate in vari modi, si propagano da un estremo all'altro dei vari cana­ li di comunicazione, giungono agli organi di senso e da qui, se superano certe soglie, entrano nel misterioso laboratorio del cervello, sono riconosciute come differenze, sono messe in relazione con altre differenze - presenti o passate - e acquista­ no un significato all'interno di quella vasta struttura che è l'e­ sperienza filogenetica, cioè specifica, e ontogenetica, cioè in­ dividuale. Le differenze, infine, sono sfruttate come punti di riferimento per agire sul mondo, e dunque per accrescere o ridurre altre differenze. I sistemi sintattici di segni, vuoti, di­ vengono così sistemi semantici e sistemi pragmatici. » Ero stupito e confuso: non mi ero aspettato tanta dottrina e tanta profondità in quell'ometto. Inoltre lo spettacolo di quei lucidi festoni ondeggianti, di quei globi pulsanti mi am8

maliava. Dell'Antonio dovette accorgersi del mio turbamen­ to. Mi prese confidenzialmente per il gomito e mi sussurrò: « Ogni essere umano costituisce un ponte fra questi due universi, un forarne problematico e misterioso attraverso il quale l'universo fisico si rovescia nel mentale e vi si contem­ pla . . . curioso circolo curioso ... Nel corpo di ogni organismo, in particolare nel suo cervello, è scritta la storia della sua spe­ cie, riassunta e compressa, vista con gli occhi di quel bizzarro artefice, intelligentissimo e privo di finalità, che è l'evoluzio­ ne. Ma anche questa storia è tale solo per noi che sappiamo interpretarla (o così c'illudiamo). Nel cervello, con parole e segni condizionati o creati da questa storia, sboccia e si di­ spiega un mondo che riproduce una parte, sia pur piccola, del mondo esterno : quella parte che, qui e ora, è per noi interes­ sante, codificata dagli organi di cui ci ha dotato la coevolu­ zione, scritta con parole in parte prefabbricate e in parte in­ ventate. « Il mondo che entra nel cervello è filtrato dagli organi di senso : l'occhio non può vedere tutte le differenze, e non tutte quelle rilevate dall'occhio vengono trasmesse al cervello. Solo le differenze che superano una certa soglia provocano eventi, cioè altre differenze . . . Questa è l'informazione. Le informa­ zioni vengono sottoposte a elaborazioni che ne comportano sempre una qualche perdita irreversibile: quelle che sopravvi­ vono si situano, secondo una gerarchia complessa e mutevole, in un punto di equilibrio fra le loro sorgenti naturali, la no­ stra posizione nell'universo e i nostri bisogni teorici e pratici la nostra interpretazione del mondo e la nostra azione in esso ... Ma adesso b asta con queste chiacchiere teoriche. Si avvici­ ni, osserviamo il cervello di Valentino. Qui c'è tutta la sua storia, ma non solo la sua storia come persona, anche quella dei suoi antenati, degli uomini e delle donne che l'hanno pre­ ceduto, e degli esseri, le scimmie, i mammiferi, gli uccelli, i pesci che nella lunga marcia filogenetica hanno tracciato il percorso che ha portato, oggi, a questo particolare individuo.

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Guardi, guardi bene le varie parti del suo cervello: in un co­ dice misterioso e intelligente la coevoluzione di specie e am­ biente ha lasciato una lunga memoria di sé che si perpetua.» «Già,» commentai, «e oggi questa traccia, questa struttura codificata riflette su se stessa e cerca di capirsi e di capire il suo posto nell'universo... Il cervello che indaga su di sé usan­ do come strumento solo se stesso . N eurofisiologia... » «Un fisico non oscuro,» m'interruppe Dell'Antonio, «af­ fermò con qualche ragione che la cosa più difficile da capire è come facciamo a capire qualcosa. Quando poi cerchiamo di capire l'organo stesso che a quanto pare è sede della com­ prensione, allora ci sembra di affacciarci sul profondo abisso del paradosso circolare. Ne spira un vento gelido, come quel­ lo che avvolgeva d'inverno le mie montagne d'un tempo.» Per non metterlo in imbarazzo finsi di non cogliere la nota di rimpianto che c'era nelle sue parole. Mi chinai sul cervello di Valentino Braitenberg e mi misi a osservarlo minutamente. «Vi sono cose piuttosto interessanti, no?» Dell'Antonio si era avvicinato e m'indicava una circonvoluzione molto pro­ fonda, che mandava un bagliore smorzato e intermittente. «Vede,» disse a voce bassissima per non disturbare il globo cerebrale nella sua attività, «queste sono le sue concezioni sulla lingua e il linguaggio, sul significato e l'informazione. È un solco che si è irrobustito molto nel corso degli anni, ap­ profondito, allargato e complicato, anche se era già presente alla nascita. Guardi, li vicino c'è anche la circonvoluzione della musica, sì quella a forma di effe allungata . . . perché, co­ me Lei sa, il nostro professore è un notevole dilettante di vio­ lino. Avrà certo assistito a qualcuna delle serate musicali del­ la famiglia Braitenberg.» «Sì, certo, nella vecchia casa di Merano, e ne ho un ricordo molto suggestivo... Ma La prego, riprendiamo il discorso sul­ l'informazione, che in questo momento mi preme tantissimo.» «Come vuole, ma non ne so molto più di quello che già Le ho detto. Bisogna che ne parli direttamente con lui, o meglio ..

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ancora che legga il suo libro Il cervello e le idee che, come tut­ ti i libri, è certo superiore al suo autore. Ci troverà molte cose e tutte hanno a che fare con l'informazione e la comunicazio­ ne. Ci sono paradossi, sarcasmi taglienti e giudizi non sempre benevoli, ma questo spirito corrosivo pesca sempre nell'intel­ ligenza. Del resto l'intelligenza è l'unico criterio in base al quale Valentino ammette una certa intolleranza... Perché una delle cose che più odia sono le sette, le conventicole, le fron­ tiere basate sui parametri esteriori, come la lingua e la razza. Gl'interessa una certa qualità essenziale, un contenuto inva­ riante rispetto a ogni possibile traduzione e rispetto a ogni possibile supporto materiale ... Ecco perché il suo libro è così leggibile: l'ha scritto per comunicare le sue idee, non per par­ lare in codice a una setta, come spesso fa chi scrive.» Mentre Dell'Antonio parlava, io continuavo a osservare il cervello che avevo sotto gli occhi e cominciavo a scoprirvi una minuta popolazione di personaggi e di fatti, di ricordi e di concetti, alcuni dei quali mi erano familiari, altri comple­ tamente nuovi. In un angolo, semisepolta in una circonvolu­ zione piuttosto aggrovigliata che stava tuttora formandosi, vidi un'immagine minuscola ma nitidissima del dottor Del­ l'Antonio che stava parlando a un personaggio barbuto nel quale faticai a riconoscere me stesso. Non mi ero ancora ria­ vuto dalla sorpresa di trovarmi proprio lì, immerso in quel colloquio, quando non lontano scoprii Il cervello e le idee, animato da un evidente desiderio di offrirsi alla mia contem­ plazione. Tra le sue pagine scorsi una valletta popolata da fi­ losofi antichi e moderni che, nelle più varie posizioni e nelle lingue più diverse, ma a me tutte stranamente comprensibili, discutevano di scienza, di significato e di comunicazione. No­ tai che ciascuno di loro, oltre a essere se stesso, era anche Va­ lentino Braitenberg: era come se le varie menti del mio amico conversassero tra loro al di là delle lingue, delle razze, delle convinzioni religiose, attuando quell'ideale di fratellanza nel­ la conoscenza che tante volte gli avevo sentito vagheggiare.

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« Guardi quegli esseri laggiù » , mormorò Dell'Antonio di­ stogliendomi dalla mia contemplazione. E in una fessura: ap­ partata del globo cerebrale vidi una folla di strane creaturine, completamente diverse dagli uomini che avevo contemplato poc' anzi. Si spostavano qua e là con movimenti graziòsi ma irragionevoli e impulsivi sotto l'occhio paternalistico e un po' beffardo di un Valentino Braitenberg che si era materializza­ to accanto a loro drappeggiato in un lungo mantello scuro da attore. « Sono le donne » , mi spiegava intanto Dell'Antonio. «Ve­ de, Tebelritter, l'amico di Braitenberg, ha di loro un concetto molto particolare, che alcuni definiscono . . . ehm, antiquato, e che lui giustifica con argomenti di tipo evoluzionistico. Ma per queste su� idee si è attirato parecchie ostilità, specie dalle femministe. E vero che Valentino non ci fa gran caso e tira dritto . . . È vero anche che fra quegli esseri ha avuto una certa fortuna. . . basta leggere la sua autobiografia.» Stanco di contemplare il cervello del mio amico, dal quale cominciavano ora a uscire le note di un concerto per violino che conoscevo ma che non mi riusciva di individuare, mi sol­ levai e mi guardai intorno. I festoni di comunicazione che collegavano tra loro i vari cervelli dell'universo dondolavano lievi nella brezza della sera imminente. Mi accorsi con stupo­ re che alcuni cervelli erano del tutto diversi da quelli che ave­ vo visto fino a quel momento. « Sono i cervelli artificiali» , mi spiegò il dottor Dell'Anto­ nio, che aveva seguito il mio sguardo. « Sono ancora molto rudimentali, sanno manipolare soltanto numeri e simboli sin­ tattici. Non sanno ancora comporre aforismi crudeli e scan­ zonati o fare rapide confessioni sulla vita, sullo scrivere e sul mondo, confessioni che vorrebbero essere beffarde ma sono anche piene della malinconica dolcezza che deriva dall'effi­ mera inconsistenza transeunte della vita ... Ma forse un gior­ no ci riusciranno. Per giungere a tanto, però, dovranno anche loro avere un luogo, un luogo natale e favoloso da ricordare,

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magari una vallata tirolese, e una pungente nostalgia dell'in­ fanzia. Allora potremo comunicare con loro come comuni­ chiamo oggi con gli uomini.» «0 con le donne», dissi io. Dal fondo della valle, tra l'ondeggiare dei globi, salivano le prime brume, e avevano forma di numeri e di funzioni mate­ matiche. «Annotta, ormai», disse il mio compagno, e c'era nelle sue parole una grande nostalgia del sole. «Ma se ci sono queste forme matematiche non ci può esse­ re il buio», replicai. «N o, certo, ma il fatto è che quella della matematica è una luce un po' artificiale. È luce riflessa, non è come quella del sole. Alcuni però ritengono che solo questa luce raffinata e pallida sia vera e possa illuminare la verità. La luce del gior­ no è per costoro troppo diretta, troppo vivida e complessa. Impedisce di vedere e capire le cose. Io credo invece che si possa capire molto anche senza la matematica, purché ci sia­ no le parole.» «Sì,» convenni, «forse non tutto si può esprimere con le formule della matematica, almeno della matematica di oggi, e molte cose vere e bellissime si possono dire, e sono state det­ te, con linguaggi diversi, forse meno universali ma non meno comunicabili ... » «Ora sono proprio costretto ad accomiatarmi. Mi creda, è stato un vero piacere parlare con Lei», e così dicendo Del­ l'Antonio mi porse un foglietto su cui stavano scritti tredici comandamenti. «Ma non sono dieci, i comandamenti?» chiesi interdetto. «Sì, però questa è un'etica diversa. Provi a leggerli con at­ tenzione, ne scarti tre e cerchi di osservare gli altri dieci. Così i conti torneranno, ma Lei si sentirà un po' più libero, un po' più responsabile e, forse, sarà anche un po' più felice.» Mi svegliai a un sobbalzo del treno. In mano tenevo ancora il foglietto coi tredici precetti, e mentre cercavo di scegliere i

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tre che meno mi sentivo capace di seguire, mi vennero in mente due frasi: «Concezione non eroica della vita» e «Cre­ sciuto per generazione spontanea». Mi parve che da certi idealismi troppo sdolcinati si potesse guarire adottando quel cinismo paradossale e corrosivo cui alludevano certi discorsi del dottor Dell'Antonio ... Entrò il controllore mi chiese il biglietto. «Secondo Lei,» gli chiesi mentre lo forava, «Che cos'è la fi­ losofia?». «La filosofia,» mi rispose senza esitare, «è il tentativo di risolvere i problemi che non esisterebbero se non ci fossero i filosofi.» Mi restituì il biglietto e solo allora mi accorsi che quel controllore aforismatico era Valentino, in uno dei suoi numerosi travestimenti. «Hai ragione,» gli dissi, «Come hai ragione quando affermi che la filosofia è quel che rimane quando la fisica ha esaurito i suoi argomenti ... Adesso però !asciami solo. Ho qui un libro tuo che voglio leggere. Ne parleremo quando arriveremo a Tubinga. Perché con te mi fa sempre piacere parlare.» GIUSEPPE O. LONGO

Università di Trieste

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Il cervello e le idee

Nota

I saggi di questo volume non hanno molto più in comune del fatto d'esser stati scritti in tedesco o in italiano Questo significa dunque anche che non erano destinati ai colleghi del mio ambito specialistico, coi quali comunico abitualmente in inglese. Come è accaduto in precedenza con altri miei titoli, i librai avranno difficoltà a collocarlo in uno specifico settore o scaffale.. Questo dipende dalla mia stessa e non precisa collocazione nella struttura accademica. Io sono cresciuto p er vegetazione spontanea. Quello che ho imparato al gin­ nasio ha poco a che fare coi miei studi successivi. La facoltà presso cm mi sono laureato è molto distante da quella in cui ho poi conseguito la libera docenza. La scienza che insegno nel piano di studi dell'università di fatto non esiste, e la ricerca che svolgo segue metodi considerati fino a poco temro fa inammissibili. Fra le facoltà, fra amici da una parte e facoltà dali altra, in mezzo agli amici e/ o colleghi constato insensatezze e vado alla ricerca di un senso .. L'interdisciplinarietà non m'interessa, il mio inte­ resse è neodisciplinare. Per propagandarlo, scrivo a volte in un modo che si discosta dai gusti dei colti delle svariate specie Dalla palude delle in­ certezze pesco 1dee relativamente solide che, così isolate, possono anche apparire umoristiche, ma non lo sono. l sei sag sul cervello ( l , 2, 3, 4, 5, 10) formano un blocco a sé. Avvici­ nano maggwrmente al mio effettivo interesse professionale, non intendo­ no fungere affatto da intrattenimento, e vanno quindi letti con un po' più d'impegno degli altri. Illuminano il tema da tre diverse angolazioni e of­ frono a1lettore la scelta fra l'aspetto computeiistico, quello psicologico e quello informatico. La varietà dei punti dì vista giustifica in parte le ine­ vitabili ripetizioni Quindici dei diciannove bram di questo volume sono stati scritti su commissione: conferenze radiofoniche (1, 2), altre confe­ renze (4, 15), saggi per periodici (3, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13, 14) o per pubblica­ zioni collettive (l, IO, 16, 17). I testi Il, 12 e 18 sono stati pubblicati per la prima volta sulla rivista culturale sudtirolese «Arunda»; 1 testi 6, 8, 9 e 14 nei numeri 78, 80, 84 e 91 di «Kursbuch»; i brani 2 e 15 sulla rivista culturale nordtirolese «Das Fenster». La «Stuttgarter Zeitung>> ha pubbli­ cato i testi l , 4, 8, 9 e 18 in terza pagina. Gli articoli 3, 5, 7 e 13 sono stati scritti in italiano per «> di Milano. Il testo numero 6 è apparso una p rima volta sulla >, ovvero, in italiano: «Quando è via la testa, if culo fa festa>> . (ndt)

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non capiscono niente, cadono puntualmente nella trappola e si ritirano sanguinanti, zoppicanti e umiliate. Si festeggia l'e­ vento . L'ozioso gioco con le sillabe, cui si sono attribuiti per 111ero passatempo significati non desumibili dal loro s uono, ha dato i suoi frutti ed è il caso di perfezionarlo. Il cervello comincia a crescere. Gli eredi dei cugini sconfitti sono con­ dann ati, per i successivi milioni di anni, all'esistenza scim­ wiesca oppure si estinguono. Quelli che hanno imparato il gioco delle sillabe diventano invece poco a poco quel che essi stessi - non senza ironia - si definiscono : i signori del creato. E mentre la festa è in corso, noi facciamo le nostre rifles­ sioni. Sembra quasi che, fin dall'inizio dell'evoluzione del lin­ guaggio, il non essere capiti fosse altrettanto importante del­ l'essere capiti : fin dalle origini, dunque, il linguaggio posto come barriera fra i (< nostri» e gli (( altri » . L'obiettivo cui si mi­ rava non era un linguaggio universale, bensì un linguaggio se­ greto, per la comprensione all'interno del gruppo a scapito altrui. Lì dove un popolo si suddivide in più popoli che pro­ seguono separatamente le loro strade, si formano in brevissi­ mo tempo (e cioè: in alcuni millenni) linguaggi del tutto di­ versi, dopo pochi secoli già reciprocamente incomprensibili. Perché, altrimenti, avremmo rinunciato a parlare tutti quel­ l'indoeuropeo antico che oggi ci tornerebbe straordinaria­ mente utile come linguaggio universale dalla California fino al Gange? Gli indiani americani sono andati anche oltre nella m oltiplicazione dei loro linguaggi, e le tribù nere dell'Africa anche. N on è affatto facile - al di là della somiglianza delle parole che definiscono i numeri semplici - dimostrare una co­ munanza fra l'ungherese e il finnico, due lingue che pure si dicono strettamente imparentate. Gli ungheresi e i finnici da un lato, i persiani, gli slavi, i celti, i greci, i latini e i germanici dall'altro si sono diligentemente dati da fare nel forgiare, me­ diante continue modifiche della loro norma linguistica, idio­ mi specifici che impara a padroneggiare solo colui che si fac­ cia improntare anche altrimenti nell'infanzia e nella gioventù

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dai canoni di ciascuna società. Questo processo non è s tato certamente un pasticciare a casaccio con una lingua che avrebbe invece voluto essere sostanzialmente unitaria : è inve­ ce un processo insito nell'evoluzione del linguaggio fin dai suoi primissimi tempi, cioè la formazione specifica di lin­ guaggi riservati agli iniziati. In piccolo, il fenomeno può esse­ re osservato anche oggi in ogni classe ginnasiale, oppure - nel corso d'un paio di generazioni - nel rapido mutamento che le lingue europee subiscono attraverso gli snobismi di pronun­ cia e di vocabolario che s'irradiano dalle corti o dalle univer­ sità (per esempio Oxford).

L'alternativa: un linguaggio scimmiesco universale

Questa funzione secondaria, di caratterizzazione nazionale, presume che il linguaggio sia per parte rilevante frutto di ap prendimento. L'alternativa - e cioè l'evoluzione di un lii:t­ guaggio vincolante per tutta la specie, sulla base di un alfabe­ to innato di significanti - sarebbe anche immaginabile nel quadro di ciò che i meccanismi del comportamento consento­ no di fare. Si immagini se il repertorio di grida e di suoni a base di grugniti, schiocchi di labbra, sibili, fischi e sbuffi di cui le scimmie sono capaci fosse stato ulteriormente elabora­ to, magari fino alla complessità del canto delle balene, o an­ che un po' più avanti, e se i singoli suoni si fossero lentamen­ te disgiunti dalle emozioni da cui scaturivano, e avessero ac­ quistato invece una salda relazione con altrettanti concetti in­ si ti nell'attività mentale degli animali. Un suono per dire so­ pra, uno per sotto; uno per davanti e uno per dietro; uno per li e uno per qui, per fuori e dentro, per più e meno, bene e male, duro e morbido, bagnato e asciutto, freddo e caldo; per cambiamento e per mantenimento, per padre e madre, figlio e amico, e ancora un paio per definire le altre specie animali e forse anche un paio di termini geografici come monte e tor­ rente e bosco e prato, e inoltre uno o due suoni che assumano il ruolo di verbi ausiliari, e infine un suono, sicuramente già ­

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presente nelle scimmie, per la negazione. Si consideri quale quantità di significanti innati (o quanto meno : generalmente umani) sono già insiti nella nostra mimica: gioia, tristezza, paura, stupore, perplessità, minaccia, corteggiamento, simpa­ tia e antipatia; e quanto vi si aggiunge con le gestualità di mani e braccia. Il repertorio di espressioni sonore con signifi­ c ati geneticamente definiti che ho appena tratteggiato non app are dunque irrealistico. Vi si potrebbe esprimere tutto ciò che interessa una scimmia o quasi un uomo, e basterebbe coll'ausilio di alcune accorte regole di concatenazione - per tutta la cultura. Sappiamo pure quale scarno corredo di segni e di concetti è apparso sufficiente a personaggi come Frege, Peano e Russell per elaborare tutta la matematica e, con la matematica - come si legge fra le righe -, l'intera descrizione del mondo.

Il marchio della tribù

Ma non è andata cosi. Il linguaggio universale delle scim­ mie, il repertorio innato di significanti fonetici è rimasto po­ vero, ed è anzi possibile che, nell'uomo, si sia ridotto rispetto a com'era nella scimmia: un paio di suoni gorgoglianti per ri­ dere, grida di dolore e di spavento, alcune inflessioni nella melodia del linguaggio (l'interrogativa, l'irritata, l'imploran­ te, la rabbonante, l'incoraggiante). In compenso ogni bambi­ no è corredato d'un meccanismo che gli consente, verso la fi­ ne del primo anno di vita, di imparare i suoni della sua lingua e più tardi le parole per formare le frasi e impiegarle nel loro giusto senso. In questa fase della cosiddetta lallazione ( «bab­ bling phase») o meglio, nella fase immediatamente successiva a essa, avviene anche un'evoluzione negativa: suoni che sono in un primo momento automaticamente a disposizione d'ogni infante, sono estinti in alcuni di loro e possono essere riatti­ vati solo con grande fatica: gli italiani e i francesi, una volta che abbiano appreso la fonetica delle loro lingue, non riesco­ no più a pronunciare la h tedesca e inglese; i tedeschi e i fran-

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cesi hanno continue difficoltà con la r linguale italiana; i francesi e i tedeschi con il th inglese, e così via. Il marchio della lingua nazionale opera spietatamente già al livello dei singoli fonemi. E a questo punto sappiamo anche già cosa pensare se rie­ merge la solita disputa: l'essenza d'una lingua, dicono gli uni è ciò che può essere tradotto senza difficoltà e senza equivo da una lingua nell'altra; e gli altri : l'essenza sta proprio in ciò che va perduto nella traduzione. E riecco così i due aspetti originariamente insiti nel linguaggio : la comunicazione e la delimitazione. La traduzione sfonda le barriere che i popoli hanno eretto fra di loro. Colui cui sta a cuore soprattutto l'e­ straneità della lingua straniera, sottolineerà l'insufficienza di ogni traduzione, rimanderà a sfumature che sono associativa­ mente evocate da parole della sua lingua e percepibili solo da coloro che siano cresciuti in uno stesso mondo. Gli effetti sono singolari. A Kiev ho visto, affissa a un edi­ ficio, una grande targa di marmo nero, recante - una sotto l'altra in dorate lettere cirilliche - le due p arole « Poctamt» e « Postamt » , il bilinguismo russo-ucraino. Una regola della fo­ netica russa suggerisce di pronunciare « Poctamt» come « Postamt » . Non è davvero il caso di ritenere che, a Kiev, un russo, posto di fronte all'una parola, o un ucraino di fronte all' altra, possano confondersi ove se ne potesse leggere una sola. Però una delle due parti della popolazione di quella cit­ tà ne sarebbe sgradevolmente colpita. Le sfumature associati­ ve sono insite nella grafia delle singole lettere. Che il termine, originariamente, non fosse né russo, né ucraino, salta all'oc­ chio del visitatore di lingua tedesca (Postamtin tedesco è l'uf­ ficio postale), ma probabilmente a Kiev se ne sono già di­ menticati. E non occorre nemmeno spostarsi tanto lontano. L'elenco telefonico sudtirolese registra, sotto « Bolzano » , tut­ ta la lista: Abart Frieda, corso Italia 1 7 ; Abate Antonio, via Gaismair 5, e così via; e poi, nello stesso volume, sotto « Bo­ zen » : Ab art Frieda, Italienstr. 1 7 ; Abate Antonio, Gaismair-

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str. 5. Lo stesso avviene per Merano, solo con «Meran» pri­ ma di «Merano» per effetto della successione alfabetica. Questa è una forma di rispetto per la lingua altrui portata fi­ no alle conseguenze estreme, e che risulta però offensiva per coloro che presumono di essere comunque in grado di ravvi­ sare sempre nella « Gaismairstrasse» la «via Gaismair», o vi­ ceversa. Traducibilità

Io faccio parte di coloro che, nelle lingue, apprezzano la possibilità della traduzione. Certi troppo intimi giochetti di parole non mi interessano. Ogni bambino è in grado di tra­ durmi da un'altra lingua, comprensibilmente, tutto quanto v'è d'urgente, d'indispensabile e di elementare. Naturalmente non sono insensibile alle cadenze che fanno la differenza fra la lingua russa e le altre slave, e so anche qual è lo stato d'ani­ mo d'un italiano a Bolzano quando gli si chieda della Italien­ strasse anziché del corso Italia. Però riesco ugualmente a dia­ logare in modo del tutto soddisfacente, superando considere­ voli ostacoli linguistici, con persone che la pensano come me, e cioè con quelle alle quali ciò che è detto importa più del modo in cui è detto. Imparo presto quel po' d'una lingua che basta per parlare delle cose che mi stanno maggiormente a cuore. Accade forse solo perché m'interesso di cose molto semplici e primitive? Può anche darsi, benché ciò che è semplice e primitivo per me, appaia a un altro forse complesso ed elaborato. Voglio definire così il genere di enunciati che mi preme: ciò che con­ sente d'essere tradotto senza ambiguità. Nel caso di testi scritti, lo si può verificare. Si prenda un testo e lo si faccia volgere da un buon traduttore in un'altra lingua, poi da un altro in una terza e poi forse anche in altre lingue ancora, e poi si faccia il procedimento inverso fino alla lingua di par­ tenza. Se l'autore riconosce ancora lo scritto come quello suo, allora i suoi enunciati sono del genere che intendo io. 1 09

Qualche osservazione ulteriore a questo proposito. Si po­ trebbe credere che io abbia solo riesumato, in modo pedante, l'antica differenza fra scienza e letteratura. Non è affatto ve­ ro. Innanzi tutto, nelle pubblicazioni scientifiche - e non solo in quelle di sociologia o di storia dell'arte, occasionalmente anche in quelle di fisica - si trovano esempi di prosa che non supererebbero il test della traducibilità nemmeno con la pri­ ma versione. In secondo luogo esistono nella narrativa tantis­ simi testi che si avvalgono di concetti così ben costruiti e d'u­ na struttura cosi chiara che il traduttore non deve far altro che usare la sua lingua con la stessa cura per porgere al tra­ duttore successivo una formulazione altrettanto chiara. Seconda osservazione, limitativa: non ho esperienza con lingue estranee al gruppo indoeuropeo. Particolarmente nel caso di quelle che non siano state per secoli segnate dal mon­ do concettuale europeo, attraverso il latino e il greco accade­ mici - come l'ungherese, il finnico, l'ebraico -, potrei figurar­ mi l'esistenza d'una tutt' altra disposizione categorica elemen­ tare del mondo concettuale, per effetto della quale la tradu­ zione in e da simili lingue diventi quasi impossibile. Diffido delle traduzioni dal cinese antico, le leggo volentie­ ri, certo, ma con la sensazione, in questi casi, di imparare a conoscere il traduttore meglio dell'autore. Dovrei imparare io stesso una lingua davvero estranea - per esempio un linguag­ gio degli indiani sudamericani o un dialetto bantù - per stabi­ lire fino a che punto sia universale la mia concezione di tra­ ducibilità di quello che m'interessa. È possibile che tutto ciò che penso altro non sia che una rimasticazione di pensieri che gli antichi romani e greci han­ no premasticato per me. Che tutte le lingue europee, almeno nelle loro varianti erudite, altro non siano che traduzioni dal latino universitario medioevale? Qualcuno lo ha sostenuto. E allora il fatto che risultino fra di loro ben traducibili non sa­ rebbe un miracolo.

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Contributi accademici a/ linguaggio

Questa riflessione mi trascina improvvisamente in uno sgradevole pasticcio. Mi sono appena procurato, col test del­ la traducibilità, uno strumento che attribuisce al cosiddetto ragionevole modo di pensare quella condizione particolare che gli si conferisce volentieri, e questo senza che, da parte mia, io abbia dovuto ricorrere all'arroganza accademica. Ho sostenuto che basta tradurre e ritradurre dei testi per distin­ guere le solide strutture di pensiero dalle solo fantasiose va­ cuità letterarie, appiccicate alle parole e con loro varianti a piacere. E invece a questo punto insorge il sospetto che que­ sta traducibilità non posi altro che sul fatto che tutte insieme le nostre lingue abbiano accolto in sé, nel corso del tempo, molto dall'arroganza accademica, e più precisamente da una sola, unica; che la loro parentela non faccia altro che confer­ mare un qualcosa che è, in sostanza, del tutto arbitrario. Co­ me uscirne? La faccenda è seria, perché è in ballo l'autorità della mia corporazione. Non sono sicuro, in presenza di questo delicato problema, di riuscire a carpire alla mia riottosa fantasia una teoria. Ma voglio provarci. L'ho detto fin dall'inizio: in sostanza tutti noi facciamo la stessa cosa, partecipiamo cioè attivamente all'evoluzione del linguaggio. Noi scienziati produciamo pubblicazioni con la sensazione di risolvere vecchi problemi mediante nuove co­ struzioni verbali. Sulla validità di simili prestazioni s'è molto discusso, e si sono sostenute molte cose che a me sembrano insensate o quanto meno unilaterali. Per esempio: la diffusa e banale concezione della scienza come mera misurazione e ca­ talogazione dei fenomeni _di questo mondo in vista del loro sfruttamento industriale. E comprensibile che questa conce­ zione abbia guastato a persone di spirito vivace il gusto di ciò che in inglese si dice «science» . E la colpa è nostra, o quanto meno di quelli fra di noi che - assieme al denaro che è asse­ gnato loro dai promotori della ricerca e di cui hanno urgente 111

bisogno - abbiano accolto con compiacenza da quelle stesse istanze anche un pezzo di morale, ovviamente derivata da al� tri ambiti, quello politico o quello mercantile. Ci si compiace così di credere che tutta la scienza altro non sia che un ramo dell'industria. Il fenomeno non è certo nuovo. Quando erano ancora i regnanti e i militari a mantenere gli studiosi, questi dovevano dar prova dell'utilità del loro operare mediante prestazioni relativamente terrene: misurare territori, costruire fontane, fortificazioni e cupole di chiese, fare prognosi astro­ logiche, trasformare piombo in oro. Ma da un punto di vista più distaccato - e come tale anche occasionalmente onorato dai regnanti e dagli uomini politici più avveduti, oggi come in passato - il progresso della scienza si prospetta semmai come l'imperterrito tentativo di rendere � mediante formulazioni nuove - più conciso, preciso, inter.es� sante, e cioè in sostanza più corrispondente alla realtà, il m� do e la maniera in cui si parla del mondo. La soddisfazione sottesa, quanto meno nel caso degli scienziati più bravi - che sono poi spesso anche quelli che costruiscono le fontane più belle e le fortificazioni più poderose - è una questione del tut� to privata. L'effetto pubblico però è immenso, comparabile forse con quello delle religioni, spesso in concorrenza con la religione, nei primissimi tempi forse nemmeno distinguibile da essa. Io riesco a figurarmi che i filosofi (compresi i filosofi della natura, vale a dire coloro che oggi si dedicano alle scienze naturali) esercitino un effetto enorme sull'umanità, e precisamente attraverso diffuse modificazioni nell'uso del linguaggio, cui non si può sottrarre nessuno, nemmeno colui cui non passa per la testa l'idea di leggere i testi dei filosofi, e che forse non ne conosce neanche i nomi. È sin troppo semplice fare esempi tratti dal gergo degli psi­ cologi. Parole come «frustrazione» mettono a disposizione di chi le usi nuovi stati d'animo, in presenza dei quali il nonno, quando li avvertiva similmente, poteva registrare forse solo un diffuso, indefinibile malumore. È possibile, ma non certo, 112

che i neologismi poetici di Freud e dei suoi commentatori facciano ormai stabilmente parte del patrimonio lessicale ita­ liano (inglese ecc.), e influenzino quindi la coscienza delle successive generazioni. Anche la psicologia più antica, che al­ lora era ancora materia per filosofi, ha dato il suo contributo: non si fa più quasi caso al fatto che « emozioni» , « stati d' ani­ mo» erano definiti inizialmente solo nel linguaggio speciali­ stico, e lo stesso vale per « attenzione» , «Coscienza» , presumi­ bilmente anche per «riflessione» e molte altre espressioni an­ cora. Nel caso delle tante parole che sono passate dalle anti­ che, medioevali o coeve stanze di studio al linguaggio corren­ te, la loro origine si riconosce dal fatto che appaiono, nelle diverse lingue, o come varianti dell'espressione tecnica latina (per esempio : emozione), o come traduzioni testuali: « Ge­ genstand » , «predmet» sono palesi prodotti artificiali che ri­ producono, a senso, il latino « Obiectus » ; lo stesso vale per « Begriff», traduzione di « Conceptus » , e per «rappresentazio­ ne» , « predstavljenje» che sono traduzioni di « Vorstellung » . Particolarmente ricche d'influenza sono state, ovviamente e sempre, la fisica e la tecnica: dove troveremmo persone « e­ nergiche » , se l'energia non fosse stata definita prima nella fi­ sica, e non si sarebbe certo parlato d'una « Sfera d' azione poli­ tica» o d'una « donna attraente» se talune cose del mondo concettuale di Newton non fossero passate, attraverso il lin­ guaggio, nella coscienza di tutte le persone che parlano. Altri esempi: « risonanza » , «polarità» , «proiezione» ; come sarebbe la nostra vita interiore senza queste immagini desunte dalla fisica? E così trovo dunque una soluzione per il mio problema: è assai verosimile che la traducibilità d'uno specifico tipo di te­ sti da una lingua europea in ogni altra si basi sulla comune tradizione accademica di queste lingue. Però questa penetra­ zione di linguaggio colto nel linguaggio corrente non è un fe­ nomeno marginale, non è un turbamento dell'evoluzione or­ ganica del linguaggio, bensì un qualcosa che fa essenzialmen-

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te parte dell'evoluzione del linguaggio. È vero che tutti noi aggiungiamo alla lingua espressioni nuove, però le espressio­ ni che vengono dagli studiosi hanno maggiori probabilità di sopravvivenza, non solo per il prestigio che gliene deriva, ma anche perché sono precise e innovatrici. Se dunque preferisco gli enunciati che sono ben traducibili, lo faccio anche perché sono il frutto di uno sforzo prolungato di ricerca delle espres­ sioni meglio adeguate al sapere. Molte, che hanno la loro ori­ gine in tempi antichissimi, sono oggi ancora le migliori. Dobbiamo essere contenti che a forgiare la struttura con­ cettuale della nostra lingua siano stati i filosofi, dopo tutto in qualche modo tenuti ad attenersi a una realtà. Altrove, forse, lo sono stati i maghi: in tal caso supererebbero la prova della traducibilità testi del tutto diversi, ammesso pure �he i maghi sappiano poi produrre qualcosa di traducibile. E possibile che la magia abbia le sue radici nell'uno dei due aspetti origi­ nari del linguaggio, quello del non voler essere capiti, e la scienza nell'altro. Se cosi è, maghi e filosofi continueranno a esistere gli uni accanto agli altri finché esisterà un linguaggio vivo. Si trovano rappresentanti degli uni e degli altri nella medicina, nella politica, negli istituti universitari, dovunque.

Linguaggio interiore e linguaggio esteriore Il problema della traducibilità è interessante per tutti colo­ ro che comunichino fra di loro con un linguaggio, anche quando parlano una sola lingua. Infatti tutti noi siamo in realtà poliglotti, quanto meno bilingui (parliamo per esempio il dialetto locale e l'italiano colto), e nella maggior parte dei casi trilingui : il dialetto, l'italiano parlato e l'italiano scritto. Al più tardi nella fase della scrittura, spesso già nell'espri­ mersi in lingua, si palesa la traducibilità o l'intraducibilità del linguaggio corrente interiore in cui il pensiero è elaborato. Ed emergono allora strutture mentali del tutto differenti. L'uno è stato nutrito fin da bambino in una famiglia cosiddetta istruita, con frammenti d'un corretto italiano colto, spesso

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anche con prestiti desunti dall'italiano scritto che è abbon­ dantemente citato in casa. Gli risulterà facile, più tardi, pro­ durre frasi grammaticalmente corrette, e non incontrerà diffi­ coltà nemmeno nella scelta delle parole, perché non dispone d' altre parole che non siano quelle accademicamente accetta­ bili. Non so se sia il caso d'invidiare queste persone; certo è ch e non sono loro che - quando tutti, durante una conversa­ zione, sono alla ricerca d'una espressione - sorprendono gli altri con un neologismo liberatorio. Chi è stato educato in questo modo, è in grado di tenere lunghi discorsi su cui non c'è nulla da eccepire, se non che alla fine te ne sfugge il conte­ nuto. Questo deriva forse dal fatto che, nel caso loro, manca il filtro, insito in quelli come noi, fra l'intima vita interiore e l'enunciazione linguistica: filtro che fa trapelare solo ciò che ha superato l'ostacolo di questa prima traduzione, solo quel che vale la pena di tradurre e risulti abbastanza chiaro. Io mi stupisco meno degli altri nel sentir dire di Nabokov, russo di origine, che ha scritto l'inglese moderno più elegante, e lo stesso di Joseph Conrad, polacco di origine. La maggior par­ te degli scrittori traduce, per tutta la vita, dal dialetto dome­ stico nella lingua che ha appreso a scuola. Beckett, che ha scritto i suoi romanzi nel francese acquisito per tradurli poi in inglese, sua lingua materna, si è ovviamente sottoposto a una disciplina ancor più severa. Il linguaggio

della scienza

Dovrebbe pensare a Beckett chi si irrita del dover fornire in inglese i testi destinati a una pubblicazione, e del dover te­ nere in inglese le sue relazioni ai congressi. È quello che oggi comunemente avviene in campo scientifico. E dovrebbe in realtà bastare il ricordo di Keplero e Galileo , Newton e Leib­ niz che si intrattenevano - oralmente e per iscritto - nel latino accademico, senza che la loro fantasia creativa avesse a sof­ frire sotto la costrizione della lingua «straniera» . Certo, allo­ ra tutti erano costretti a fare lo stesso sforzo, perché non

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esisteva più qualcuno che avesse il latino come propria ma­ drelingua. Oggi invece, nei dibattiti, noi continentali siamo svantaggiati rispetto ai colleghi inglesi (e in minor misura ri­ spetto a quelli americani), e dobbiamo subire un'o!traggiosa quantità di correzioni ai manoscritti che forniamo. E capitata però anche a me la soddisfazione di dover linguisticamente intervenire su manoscritti di colleghi di lingua inglese, quan­ do era attribuito a me l'onere della redazione: non tutti quelli che sanno l'inglese sanno anche scrivere. E soprattutto: non ogni continentale che scrive in un inglese scadente sa espri­ mersi molto meglio nella sua lingua. Io so per esperienza di­ retta che coloro che nelle comunità mistilingui - in Alto Adi­ ge o nelle scienze - si servono nel modo più appropriato della propria lingua, padroneggiano per lo più anche l'altra. Quelli che con maggiore ostinazione difendono la propria lingua ri­ spetto alle altre, difendono spesso in realtà il principio del non voler essere capiti. Scrivere

Da sempre passa per persona particolarmente qualificata colui che sa tradurre la parola detta, o anche solo quella pen­ sata, nella parola scritta. Per questo il titolo nobiliare « Graf» in tedesco e «grof» nelle lingue slave: da «graphein», che vuol dire «scrivere» in greco. Ciò che è scritto si può portare in giro, riprodurre, immagazzinare: conferisce a colui che scrive una voce possente che supera il tempo e lo spazio. Si vorreb­ be credere che quanto più potente è la voce, tanto più avve­ duto è il discorso: e grosso modo questo vale, in effetti, per ciò che è scritto e particolarmente per ciò che è stampato. C'è la possibilità di correggere, colui che scrive può rileggere la traccia in diversi momenti per verificare se regge la prova di diversi stati d'animo e contesti. E capita spesso che ciò che è scritto risulti più sensato di colui che lo ha scritto. Nel lin­ guaggio dei computer: la « macchina di Turing» compie ope­ razioni nelle quali l' « automa finito» fallisce: la prima mac1 16

china si distingue dalla seconda solo per la possibilità che ha di prendere appunti e di rileggerli. Basta un'intelligenza ordi­ naria per formulare singole frasi, verificame la consistenza ri­ spetto alle frasi vicine, e poi procedere allo stesso modo per pagine intere, tanto da produrre mediante la ripetuta applica­ zione del proprio limitato apparato concettuale un testo che nella tessitura dei rapporti fra i concetti (la parola testo deri­ va appunto da tessere) faccia brillare uno spirito che a ragio­ ne non s'attribuirebbe a colui che lo ha scritto. L'atto dello scrivere funge da amplificatore dell'intelligenza. I testi si svi­ luppano da sé. La conoscenza personale coll'autore è spesso deludente. Questi può dar la sensazione di non aver nemme­ no compreso i propri scritti, e forse è perfino vero. L'autore, scrivendo, lotta con un antagonista - il testo che si sta for­ mando - che gli è superiore. Per questo chi scrive soffre, e quanto meglio scrive, tanto più soffre: da perdente, da sog­ giogato dal testo (e non, come si sente talvolta dire: quanto più soffre, tanto meglio scrive). Ho comperato una vecchia macchina da scrivere sul ventre della quale un precedente proprietario aveva inciso questa frase: «Da questa macchina viene fuori tutto quello che vuoi» . Di fronte a questa macchina io sto seduto in preda al­ l'angoscia, considerando gli infiniti possibili testi fra i quali debbo scegliere il mio. Però quando la macchina comincia a ticchettare, mi vien voglia di cambiare la frase che reca incisa con > è il soggetto di molte proposizionLche inducono stati d'animo singolari con conseguenze filosofiche curiose. « L'Io pone se stessO>> è una frase dal cui dolce veleno ci si difende meglio se si richiama� no i significati originari delle sue parti componenti, e cioè « Io >> (eg), suono che serve a localizzare chi lo pronuncia, « porre>> = « collocare>> , e « Se stesso>> : un movimento che ri� conduce l'azione allo strano suono che ne è il soggetto. O me­ glio ancora : si sostituisce « l'IO>> con «iO >> : io mi colloco. E questo non stupisce più nessuno. Eppure bisogna ammettere che le frasi che cominciano con «iO>> hanno in sé qualcosa di tutto p articolare. Danno infor­ mazioni su eventi che si riassumono volentieri nel concetto di vita interiore. Altri parlano di spirito, psiche o coscienza. Ma esiste poi una cosa del genere, indipendentemente dal lin­ guaggio, oppure la coscienza (anch'essa un bel costrutto del linguaggio accademico) insorge solo nel momento in cui se ne parla, forse anch'essa frutto d'una distorsione grammaticale? Cerco la risposta guardando negli occhi il mio bassotto. Questo misero coacervo di amore, sottomissione e sudice abi­ tudini non dispone del pronome nella prima persona singola-

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re. Il suo p atrimonio lessicale attivo si limita all'abbaiare, al guaire e al ringhiare; quello passivo comprende sedici p arole, per la maggior parte intimazioni in funzione di specifici com­ portamenti ( « Operant conditioning» dicono gli psicologi), di cui fanno parte anche l'abbaiare e il guaire, e in aggiunta un paio di nomi propri. La capacità di riconoscere i fonemi non è precisa: non sa distinguere fra «ballare» e «parlare» , fra «essen » e « fressen » , fra « Katze» e « CazZO » , fra « Gib mir die Han d » e « Spring an die Wand » . Non è da presumere che la sua vita interiore sia verbalmente strutturata. Mi chiedo co­ me colga il suo «lO» senza parole. Quando lo guardo negli occhi e lui guarda negli occhi me, non riesco in ogni caso a ridurlo a mera macchina di riflessi. Non so figurarmi un cane schizofrenico. Questo terribile deragliamento del pensiero si palesa spesso, inizialmente inavvertibile dall'esterno - nel linguaggio interiore. Un amico psicotico mi ha descritto l'orrore che ha provato in occasione del suo primo incontro con una seconda voce interiore. Men­ tre rifletteva sul tenore d'un discorso che doveva pronuncia­ re, e poi nel recitare un'infantile preghiera prima di addor­ mentarsi, ha fatto caso che percepiva dentro di sé, oltre alla prima, anche una seconda voce del tutto indipendente. Il suo spavento era in un certo senso connesso col fatto che, fino a quel momento, aveva considerato il suo discorso interiore co­ me la sua autentica essenza. E non gli riusciva di accettare la sua essenza come fatta di due p arti. Ben presto la seconda vo­ ce in lui s'è resa indipendente, ha cominciato a parlare di lui in te�z � persona, è diventata l'oggetto centrale di tutti i suoi pens1en.

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Alcune considerazioni sui meccanismi cerebrali del linguaggio

l. Livelli gerarchici ne/ linguaggio e nell'organizzazione del cer­ vello

N el tentativo di identificare i meccanismi cerebrali respon­ sabili della comprensione e della produzione del linguaggio, propongo dapprima di fissare i livelli corrispondenti dei due campi di indagine, fisiologica e linguistica. L'immagine inter­ na cerebrale di una parola, di un morfema, di un fonema, di un rapporto lessicale, è da ricercarsi al livello molecolare del­ l a sostanza nervosa, oppure risiede nell'attività di singole cel­ lule cerebrali, o in quella di gruppi di centinaia o di migliaia o di milioni di cellule? Per questa corrispondenza di livelli, un primo appiglio si può forse trovare nel concetto di morfema, utilissimo anche al di fuori del contesto linguistico in una teoria generale del cervello, e un altro appiglio in una considerazione delle fasi critiche di apprendimento che recentemente hanno incomin­ ciato ad emergere non solo nell'acquisizione del linguaggio ma anche nell'approntamento dell' apparato ricettore visivo e dei centri cerebrali annessi. a) I morfemi sono gli elementi oltre i quali un' analisi gram­ maticale non può andare, una sorta di nomi propri nel senso più generale, la cui struttura in termini di lettere (o fonemi, o « tratti distintivi ») non è isomorfa alla struttura dell'oggetto rappresentato più di quanto l a struttura del nome Giuseppe è da intendersi come un'immagine della figura del signor Giu-

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sep pe. La ricerca di qualche cosa di analogo ai morfemi nel­ l'a ttività neuronale del cervello ha costituito uno dei temi centr ali della neurofisiologia degli ultimi due decenni. Gran parte del comportamento degli animali superiori non avviene in risposta a variabili continue (diversamente, ad esempio, dall'inseguimento di una preda che è semplicemente funzione dell' angolo fra la traiettoria dell'inseguito e quella dell'inse­ guitore), m� è i? r �pporto a