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Italian Pages 236 Year 1989
ISBN 88-11-59272-0
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Nella stessa collana Ugo Lucio Businaro, R & S X P Afexander Woodcock e Monte Davis, La teoria delle catastrofi James D. Watson, La doppia elica trent'anni dopo Werner Heisenberg, La tradizione nella scienza John McPhee, Il nucleare tra guerra e pace Francis Crick, L'origine della vita Jeremy Bernstein, Hans Bethe, il profeta dell'energia John Reader, Gli anelli mancanti Benno Miiller-Hill, I filosofi e l'essere vivente Valentino Braitenberg, I veicoli pensanti Enzo Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici Michael Riordan (a cura di), Il giorno dopo Jean Piaget e Rolando Garcia, Psicogenesi e storia delle scienze Renzo Tomatis, Storia naturale del ricercatore Erwin Chargaff, Il fuoco di Eraclito Nicholas Kaldor, Ricordi di un economista Barry Commoner, Il cerchio da chiudere John C. Sheehan, L'anello incantato Evelyn Fox Keller, Sul genere e la scienza Erwm Schrodinger, La mia visione del mondo J.B. S.. Haldane, Della misura giusta Gianfranco Secchi, Miti e riti dell'informatica Humberto Maturana e Francisco V'arela, L'albero della conoscenza Rita Levi Montalcini, Elogio dell'imperfezione Richard F. Kahn, Un discepolo di Keynes Carolyn Merchant, La morte della Natura G.B.. Zorzoli, fl pianeta in bilico Max Perutz, E necessaria la scienza?
Br ai tenber g, Valentino Il cervello e le idee. Presentazione di Giuseppe O Longo. (Saggi rossi). Tit orig.: Gescheit sein. Trad. di Umberto Gandini. I. Cervello 2. Intelligenza I Longo, Giuseppe O. IL Tit
153..9 Dati catalogiafici a cma del Servizio Biblioteche della Provincia di Milano
Valentino Braitenberg
Il cervello e le idee Saggi sull'intelligenza, il linguaggio, la scienza Presentazione di Giuseppe O. Longo
Garzanti
Prima edizione: giugno 1989
Traduzione di Umberto Gandini
©
Titolo originale dell'opera: «Gescheit sein» 1987 by Haffmans Verlag AG Ziirich ©
ISBN 88-11-59272-0 Garzanti Editore s p a, 1989 Printed in Italy
Presentazione
Mi ero trascritto su un foglietto di carta i tredici comandamenti del dottor Dell'Antonio e, seduto in un comodo scompartimento di prima classe, mi stavo domandando quali avrei cancellato, quando l'amenità del paesaggio, il dondolio della carrozza e la placida smemoratezza indotta dalla digestione mi conciliarono il sonno. Mi trovai in un vasto paesaggio colorito e scintillante, attraversato in tutti i sensi da festoni oscillanti al vento che collegavano tra loro globi traslucidi e pulsanti, simi}i all'immagine che tutti abbiamo del cervello in funzione. «E la rete delle differenze», disse accanto a me la voce del dottor Dell' Antonio. Lo guardai con aria interrogativa ed egli, sorridendo, continuò: «Questo che Lei vede è l'universo dell'informazione. Questi globi sospesi non sono né pendoli né pianeti, si comportano in modo del tutto diverso dagli oggetti della fisica. Guardi!» Ne sfiorò uno col dito e ne suscitò una reazione assolutamente sproporzionata, un lavorio, un'agitazione febbrile che, attraverso i festoni, si propagò a tutta quella policroma rete, creandovi un'oscillazione ripetuta e una commozione indescrivibile. «I sistemi fisici non si comportano cosi, non Le pare?» Ne convenni, e Dell'Antonio proseguì: «L'informazione, che scaturisce e scorre dappertutto nel mondo che ci circonda, è contenuta nelle differenze: differenze di forma, di colore, di intensità, che si propagano sotto 7
forme diverse in quell'innumerevole rete di comunicazione che è l'universo, rete acentrica, di cui ciascun essere vivente può considerarsi il fulcro vero e unico, ricco e privilegiato. Ecco, guardi, questo globo è Lei, quello un po' più in là sono io e quello laggiù, che sembra illuminato da un sorriso canzonatorio e corrosivo, è il nostro amico Valentino Braitenberg. Ciascuno di questi globi è esattamente al centro dell'universo della comunicazione e dell'informazione. E, come Le dicevo dianzi, questo universo è diversissimo dall'universo fisico. Qui non ci sono urti, forze e quantità di moto, le leggi non sono quelle di Newton. Questo è l'universo mentale.» «Ma non c'è informazione senza supporto materiale», obiettai per dimostrargli che non ero del tutto digiuno di simili argomenti, e anche per vedere come se la cavava quello strano psicologo di origine montanara. «Giusto,» replicò Dell'Antonio, «l'informazione ha bisogno del mondo fisico, ha bisogno di una materia per esplicarsi nelle differenze spaziali tra le diverse parti del supporto, oppure nelle differenze temporali tra i suoi stati successivi. Ma l'informazione non è il supporto, l'informazione è nelle differenze. Queste differenze, codificate, cioè trasformate in vari modi, si propagano da un estremo all'altro dei vari canali di comunicazione, giungono agli organi di senso e da qui, se superano certe soglie, entrano nel misterioso laboratorio del cervello, sono riconosciute come differenze, sono messe in relazione con altre differenze - presenti o passate - e acquistano un significato all'interno di quella vasta struttura che è l'esperienza filogenetica, cioè specifica, e ontogenetica, cioè individuale. Le differenze, infine, sono sfruttate come punti di riferimento per agire sul mondo, e dunque per accrescere o ridurre altre differenze. I sistemi sintattici di segni, vuoti, divengono così sistemi semantici e sistemi pragmatici.» Ero stupito e confuso: non mi ero aspettato tanta dottrina e tanta profondità in quell'ometto. Inoltre lo spettacolo di quei lucidi festoni ondeggianti, di quei globi pulsanti mi am8
maliava. Dell'Antonio dovette accorgersi del mio turbamento. Mi prese confidenzialmente per il gomito e mi sussurrò: «Ogni essere umano costituisce un ponte fra questi due universi, un forarne problematico e misterioso attraverso il quale l'universo fisico si rovescia nel mentale e vi si contempla... curioso circolo curioso ... Nel corpo di ogni organismo, in particolare nel suo cervello, è scritta la storia della sua specie, riassunta e compressa, vista con gli occhi di quel bizzarro artefice, intelligentissimo e privo di finalità, che è l'evoluzione. Ma anche questa storia è tale solo per noi che sappiamo interpretarla (o così c'illudiamo). Nel cervello, con parole e segni condizionati o creati da questa storia, sboccia e si dispiega un mondo che riproduce una parte, sia pur piccola, del mondo esterno: quella parte che, qui e ora, è per noi interessante, codificata dagli organi di cui ci ha dotato la coevoluzione, scritta con parole in parte prefabbricate e in parte inventate. « Il mondo che entra nel cervello è filtrato dagli organi di senso: l'occhio non può vedere tutte le differenze, e non tutte quelle rilevate dall'occhio vengono trasmesse al cervello. Solo le differenze che superano una certa soglia provocano eventi, cioè altre differenze ... Questa è l'informazione. Le informazioni vengono sottoposte a elaborazioni che ne comportano sempre una qualche perdita irreversibile: quelle che sopravvivono si situano, secondo una gerarchia complessa e mutevole, in un punto di equilibrio fra le loro sorgenti naturali, la nostra posizione nell'universo e i nostri bisogni teorici e pratici la nostra interpretazione del mondo e la nostra azione in esso ... Ma adesso basta con queste chiacchiere teoriche. Si avvicini, osserviamo il cervello di Valentino. Qui c'è tutta la sua storia, ma non solo la sua storia come persona, anche quella dei suoi antenati, degli uomini e delle donne che l'hanno preceduto, e degli esseri, le scimmie, i mammiferi, gli uccelli, i pesci che nella lunga marcia filogenetica hanno tracciato il percorso che ha portato, oggi, a questo particolare individuo. 9
Guardi, guardi bene le varie parti del suo cervello: in un codice misterioso e intelligente la coevoluzione di specie e ambiente ha lasciato una lunga memoria di sé che si perpetua.» «Già,» commentai, «e oggi questa traccia, questa struttura codificata riflette su se stessa e cerca di capirsi e di capire il suo posto nell'universo ... Il cervello che indaga su di sé usando come strumento solo se stesso ... Neurofisiologia... » «Un fisico non oscuro,» m'interruppe Dell'Antonio, «affermò con qualche ragione che la cosa più difficile da capire è come facciamo a capire qualcosa. Quando poi cerchiamo di capire l'organo stesso che a quanto pare è sede della comprensione, allora ci sembra di affacciarci sul profondo abisso del paradosso circolare. Ne spira un vento gelido, come quello che avvolgeva d'inverno le mie montagne d'un tempo.» Per non metterlo in imbarazzo finsi di non cogliere la nota di rimpianto che c'era nelle sue parole. Mi chinai sul cervello di Valentino Braitenberg e mi misi a osservarlo minutamente. «Vi sono cose piuttosto interessanti, no?» Dell'Antonio si era avvicinato e m'indicava una circonvoluzione molto profonda, che mandava un bagliore smorzato e intermittente. «Vede,» disse a voce bassissima per non disturbare il globo cerebrale nella sua attività, «queste sono le sue concezioni sulla lingua e il linguaggio, sul significato e l'informazione. È un solco che si è irrobustito molto nel corso degli anni, approfondito, allargato e complicato, anche se era già presente alla nascita. Guardi, li vicino c'è anche la circonvoluzione della musica, sì quella a forma di effe allungata ... perché, come Lei sa, il nostro professore è un notevole dilettante di violino. Avrà certo assistito a qualcuna delle serate musicali della famiglia Braitenberg. » «Sì, certo, nella vecchia casa di Merano, e ne ho un ricordo molto suggestivo... Ma La prego, riprendiamo il discorso sull'informazione, che in questo momento mi preme tantissimo.» «Come vuole, ma non ne so molto più di quello che già Le ho detto. Bisogna che ne parli direttamente con lui, o meglio 10
ancora che legga il suo libro Il cervello e le idee che, come tutti i libri, è certo superiore al suo autore. Ci troverà molte cose e tutte hanno a che fare con l'informazione e la comunicazione. Ci sono paradossi, sarcasmi taglienti e giudizi non sempre benevoli, ma questo spirito corrosivo pesca sempre nell'intelligenza. Del resto l'intelligenza è l'unico criterio in base al quale Valentino ammette una certa intolleranza... Perché una delle cose che più odia sono le sette, le conventicole, le frontiere basate sui parametri esteriori, come la lingua e la razza. Gl'interessa una certa qualità essenziale, un contenuto invariante rispetto a ogni possibile traduzione e rispetto a ogni possibile supporto materiale ... Ecco perché il suo libro è così leggibile: l'ha scritto per comunicare le sue idee, non per parlare in codice a una setta, come spesso fa chi scrive.» Mentre Dell'Antonio parlava, io continuavo a osservare il cervello che avevo sotto gli occhi e cominciavo a scoprirvi una minuta popolazione di personaggi e di fatti, di ricordi e di concetti, alcuni dei quali mi erano familiari, altri completamente nuovi. In un angolo, semisepolta in una circonvoluzione piuttosto aggrovigliata che stava tuttora formandosi, vidi un'immagine minuscola ma nitidissima del dottor Del1'Antonio che stava parlando a un personaggio barbuto nel quale faticai a riconoscere me stesso. Non mi ero ancora riavuto dalla sorpresa di trovarmi proprio lì, immerso in quel colloquio, quando non lontano scoprii Il cervello e le idee, animato da un evidente desiderio di offrirsi alla mia contemplazione. Tra le sue pagine scorsi una valletta popolata da filosofi antichi e moderni che, nelle più varie posizioni e nelle lingue più diverse, ma a me tutte stranamente comprensibili, discutevano di scienza, di significato e di comunicazione. Notai che ciascuno di loro, oltre a essere se stesso, era anche Valentino Braitenberg: era come se le varie menti del mio amico conversassero tra loro al di là delle lingue, delle razze, delle convinzioni religiose, attuando quell'ideale di fratellanza nella conoscenza che tante volte gli avevo sentito vagheggiare. 11
«Guardi quegli esseri laggiù», mormorò Dell'Antonio distogliendomi dalla mia contemplazione. E in una fessura: appartata del globo cerebrale vidi una folla di strane creaturine, completamente diverse dagli uomini che avevo contemplato poc'anzi. Si spostavano qua e là con movimenti graziosi ma irragionevoli e impulsivi sotto l'occhio paternalistico e un po' beffardo di un Valentino Braitenberg che si era materializzato accanto a loro drappeggiato in un lungo mantello scuro da attore. «Sono le donne», mi spiegava intanto Dell'Antonio. «Vede, Tebelritter, l'amico di Braitenberg, ha di loro un concetto molto particolare, che alcuni definiscono ... ehm, antiquato, e che lui giustifica con argomenti di tipo evoluzionistico. Ma per queste su~ idee si è attirato parecchie ostilità, specie dalle femministe. E vero che Valentino non ci fa gran caso e tira dritto ... È vero anche che fra quegli esseri ha avuto una certa fortuna ... basta leggere la sua autobiografia.» Stanco di contemplare il cervello del mio amico, dal quale cominciavano ora a uscire le note di un concerto per violino che conoscevo ma che non mi riusciva di individuare, mi sollevai e mi guardai intorno. I festoni di comunicazione che collegavano tra loro i vari cervelli dell'universo dondolavano lievi nella brezza della sera imminente. Mi accorsi con stupore che alcuni cervelli erano del tutto diversi da quelli che avevo visto fino a quel momento. «Sono i cervelli artificiali», mi spiegò il dottor Dell'Antonio, che aveva seguito il mio sguardo. «Sono ancora molto rudimentali, sanno manipolare soltanto numeri e simboli sintattici. Non sanno ancora comporre aforismi crudeli e scanzonati o fare rapide confessioni sulla vita, sullo scrivere e sul mondo, confessioni che vorrebbero essere beffarde ma sono anche piene della malinconica dolcezza che deriva dall'effimera inconsistenza transeunte della vita ... Ma forse un giorno ci riusciranno. Per giungere a tanto, però, dovranno anche loro avere un luogo, un luogo natale e favoloso da ricordare, 12
magari una vallata tirolese, e una pungente nostalgia dell'infanzia. Allora potremo comunicare con loro come comunichiamo oggi con gli uomini.» «O con le donne», dissi io. Dal fondo della valle, tra l'ondeggiare dei globi, salivano le prime brume, e avevano forma di numeri e di funzioni matematiche. «Annotta, ormai», disse il mio compagno, e c'era nelle sue parole una grande nostalgia del sole. «Ma se ci sono queste forme matematiche non ci può essere il buio», replicai. «No, certo, ma il fatto è che quella della matematica è una luce un po' artificiale. È luce riflessa, non è come quella del sole. Alcuni però ritengono che solo questa luce raffinata e pallida sia vera e possa illuminare la verità. La luce del giorno è per costoro troppo diretta, troppo vivida e complessa. Impedisce di vedere e capire le cose. Io credo invece che si possa capire molto anche senza la matematica, purché ci siano le parole.» «Sì,» convenni, «forse non tutto si può esprimere con le formule della matematica, almeno della matematica di oggi, e molte cose vere e bellissime si possono dire, e sono state dette, con linguaggi diversi, forse meno universali ma non meno comunicabili...» «Ora sono proprio costretto ad accomiatarmi. Mi creda, è stato un vero piacere parlare con Lei», e così dicendo Del1'Antonio mi porse un foglietto su cui stavano scritti tredici comandamenti. «Ma non sono dieci, i comandamenti?» chiesi interdetto. «Sì, però questa è un'etica diversa. Provi a leggerli con attenzione, ne scarti tre e cerchi di osservare gli altri dieci. Così i conti torneranno, ma Lei si sentirà un po' più libero, un po' più responsabile e, forse, sarà anche un po' più felice.» Mi svegliai a un sobbalzo del treno. In mano tenevo ancora il foglietto coi tredici precetti, e mentre cercavo di scegliere i 13
tre che meno mi sentivo capace di seguire, mi vennero in mente due frasi: «concezione non eroica della vita» e «cresciuto per generazione spontanea». Mi parve che da certi idealismi troppo sdolcinati si potesse guarire adottando quel cinismo paradossale e corrosivo cui alludevano certi discorsi del dottor Dell'Antonio ... Entrò il controllore mi chiese il biglietto. «Secondo Lei,» gli chiesi mentre lo forava, «che cos'è la filosofia?». «La filosofia,» mi rispose senza esitare, «è il tentativo di risolvere i problemi che non esisterebbero se non ci fossero i filosofi.» Mi restituì il biglietto e solo allora mi accorsi che quel controllore aforismatico era Valentino, in uno dei suoi numerosi travestimenti. «Hai ragione,» gli dissi, «come hai ragione quando affermi che la filosofia è quel che rimane quando la fisica ha esaurito i suoi argomenti ... Adesso però lasciami solo. Ho qui un libro tuo che voglio leggere. Ne parleremo quando arriveremo a Tubinga. Perché con te mi fa sempre piacere parlare.» GIUSEPPE O. LONGO
Università di Trieste
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Il cervello e le idee
Nota
I saggi di questo volume non hanno molto più in comune del fatto d'esser stati scritti in tedesco o in italiano. Questo significa dunque anche che non erano destinati ai colleghi del mio ambito specialistico, coi quali comunico abitualmente in inglese. Come è accaduto in precedenza con altri miei titoli, i librai avranno difficoltà a collocarlo in uno specifico settore o scaffale.. Questo dipende dalla mia stessa e non precisa collocazione nella struttura accademica. Io sono cresciuto per vegetazione spontanea. Quello che ho imparato al ginnasio ha poco a che fare coi miei studi successivi. La facoltà presso cm mi sono laureato è molto distante da quella in cui ho poi conseguito la libera docenza. La scienza che insegno nel piano di studi dell'università di fatto non esiste, e la ricerca che svolgo seguè metodi considerati fino a poco tempo fa inammissibili. Fra le facoltà, fra amici da una parte e facoltà dall'altra, in mezzo agli amici e/o colleghi constato insensatezze e vado alla ricerca di un senso . L'interdisciplinarietà non m'interessa, il mio interesse è neodisciplinare. Per propagandarlo, scrivo a volte in un modo che si discosta dai gusti dei colti delle svariate specie Dalla palude delle incertezze pesco idee relativamente solide che, così isolate, possono anche apparire umoristiche, ma non lo sono. 1 sei saggi sul cervello (1, 2, 3, 4, 5, 10) formano un blocco a sé. Avvicinano maggiormente al mio effettivo interesse professionale, non intendono fungere affatto da intrattenimento, e vanno quindi letti con un po' più d'impegno degli altri. Illuminano il tema da tre diverse angolazioni e offrono a1 lettore la scelta fra l'aspetto computeristico, quello psicologico e quello informatico. La varietà dei punti dì vista giustifica in parte le inevitabili ripetizioni Quindici dei diciannove braru di questo volume sono stati scritti su commissione: conferenze radiofoniche (I, 2), altre conferenze (4, 15), saggi per periodici (3, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13, 14) o per pubblicazioni collettive ( f, IO, 16, 17). I testi 11, 12 e 18 sono stati pubblicati per la prima volta sulla rivista culturale sudtirolese «Arunda»; i testi 6, 8, 9 e 14 nei numeri 78, 80, 84 e 91 di «Kursbuch»; i brani 2 e 15 sulla rivista culturale nordtirolese «Das Fenster». La «Stuttgarter Zeitung» ha pubblicato i testi 1, 4, 8, 9 e 18 in terza pagina. Gli articoli 3, 5, 7 e 13 sono stati scritti in italiano per «Il Giornale nuovo» di Milano. Il testo numero 6 è apparso una prima volta sulla «Frankfurter Rundschau». Gli unici brani già pubblicati in un contesto scientifico professionale sono l'l, in Il concetto d'informazione nella tecnica della scienza [Simposio scientifico della IBM Germania, a c. di O.G. Folberth e C. Hackl, Oldenbourg, Monaco 1986], e il 10, Alcune considerazioni sui meccanismi cerebrali del linguaggio, scritto in italiano per il volume L'accostamento interdisciplinare allo studio del linguaggio [Franco Angeli, Milano 1980].
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I · Cosa il cervello ha a che fare con l'informazione
Si usa parlare con disinvoltura di elaborazione di informazioni nei sistemi biologici, come se fosse davvero chiaro cos'è l'informazione che vi è elaborata, e di cosa stiamo parlando quando parliamo di sistemi biologici. In realtà poi non si può fare a meno di prelevare dall'uso comune due importanti concetti, quello di informazione e quello di vita, per vedere se il loro impiego corrisponde effettivamente a definizioni ragionevoli. Comincerò dunque col fare un po' di filosofia. Intendo dimostrare che l'informazione è parte fondamentale dell'essenza della vita, e che d'altra parte il concetto d'informazione ha poco senso - o meglio, si potrebbe sostituire con altri ben noti concetti della fisica - se non ci fossero gli esseri viventi che accolgono l'informazione e che, se così vogliamo, la elaborano. Innanzi tutto un'osservazione che da tempo si aggira per la filosofia. Nessuno dubiterà che il mio corpo è un pezzo di materia, costituito da una quantità di molecole delle più diverse specie. Non direi tuttavia che io sono un pezzo di materia, costituito da specifici atomi composti in molecole e poi in organi, perché sarebbe sbagliatissimo. Non nel senso, per carità, d'una concezione del mondo che vorrebbe attribuire all'Io un'essenza particolare, non materiale (ma cosa significa, poi?), bensì nel senso assai concreto che io sono molto più consistente delle quantità di molecole di cui è fatto il mio corpo. Queste molecole infatti, col passare del tempo, sono state per la maggior parte sostituite da altre, eppure so esatta17
mente che io sono lo stesso di quello di alcuni anni fa, che portava lo stesso nome e abitava nella stessa casa. E anche se non avessi questa ben precisa sensazione, non riuscirei comunque a sottrarmi, col passare degli anni, alla mia identità: per esempio se oggi mi si contestassero in tribunale azioni commesse dal mio corpo di allora, costituito da tutt'altre molecole. Io dunque, l'individuo sempre uguale a se stesso, devo essere semmai identificato come l'uguale o quasi sempre uguale schema costitutivo del mio corpo continuamente mutante, una forma costante della materia che scorre attraverso di me, più paragonabile a una cascata che a una montagna, più a una fiamma che a una statua. Se però sono uno schema dinamico e non un mucchio di atomi, allora il mio essere è evidentemente un qualcosa di molto astratto, un'informazione per così dire, e più precisamente l'informazione che sarebbe necessaria per ricostruirmi esattamente. Vi sarebbe compresa anche l'informazione che costituisce la mia esperienza, che si rintraccerebbe a sua volta in qualche modo nel mio cervello e che verrebbe trasmessa nell'allestimento d'una copia esatta, ove questo fosse possibile. N orbert Wiener si trastullò a suo tempo con questa idea: anziché affidare a un architetto che sta in Europa la progettazione e la direzione dei lavori di un edificio in America - con tutto il complesso andirivieni delle informazioni necessarie per trasmettere progetti, indicazioni, richieste di spiegazioni e calcoli - perché non telegrafare una volta per tutte oltre oceano una copia dell'architetto, che potrebbe poi sostituire perfettamente l'architetto originale sul luogo ove avviene la costruzione? Si trattava, allora, di una idea eccitante, almeno per i non addetti ai lavori; per gli studiosi di genetica era da tempo già ovvio che la struttura di un organismo è contenuta, come informazione, nell'uovo fecondato, e che è poi evidentemente trasmessa come copia alle altre cellule del corpo. Fino a che punto il codice genetico in cui questa struttura è annotata all'interno della cellula assomiglia effettivamente a un
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alfabeto convenzionale è stato tuttavia scoperto solo alcuni anni più tardi, e non del tutto per caso, credo: la formulazione matematica, negli anni Quaranta, della teoria dell'informazione da parte di N orbert Wiener e Claude Shannon ha concettualmente molto aiutato la genetica a progredire, per esempio mediante alcuni fondamentali apporti di conoscenza sull'essenza della codificazione. Bene: ora abbiamo dunque preso confidenza coll'idea che gli esseri viventi consistono in nùsura essenziale di informazioni, e che hanno la capacità di plasmare materia in base alla loro specifica informazione, accogliendola e inserendola per un certo tempo nella loro struttura. All'inizio ho sostenuto tuttavia anche il contrario: e cioè che informazione è concetto che presuppone esseri viventi, che non ha senso senza di loro. Questo è più difficile da comprendere, e non rimarrà senza confutazione da parte di qualche collega, specialmente fra gli ingegneri. Immaginiamo di arrivare - in un'isola sconosciuta e possibilmente disabitata - su una spiaggia tutta coperta di ciottoli bianchi e neri. Ed ecco che, in un certo posto, scopriamo i ciottoli neri disposti in modo da poter leggere chiaramente la parola: «Benvenuti!». Ne desumo che sull'isola c'è gente che si serve della nùa lingua e che è animata da sentimenti di anùcizia verso gli estranei. Voi però, da persone prudenti e critiche, osserverete giustamente che quella disposizione di pietre bianche e nere potrebbe essersi deternùnata senz'altro anche in modo casuale, così composta dal mare in occasione dell'ultima mareggiata in una delle quasi infinite disposizioni rese possibili da tutti quei sassi. Chi ci dà il diritto, direte, di cogliere come informazione questa particolare disposizione delle pietre, che è esattamente altrettanto verosinùle o inverosinùle come un'altra qualsiasi? Perché non ho colto come una comunicazione l'apparentemente disordinata disposizione dei ciottoli sulla spiaggia vicina, nù domanderete voi che avete letto il vostro Shannon e sapete che la quantità di informa19
zione trasmessa è in qualche modo connessa con la improbabilità di una struttura. Le due disposizioni di pietre su entrambe le spiagge non sono forse ugualmente improbabili e quindi nella stessa misura portatrici di informazione? Avete ragione, ovviamente, ma io non mi lascio sviare dalla mia opinione: qui qualcuno ha scritto qualcosa per noi. E lo strano è che, molto probabilmente, ho ragione anch'io. Come la mettiamo? Troverete la chiave considerando la parola informazione, che fa parte dell'antico linguaggio usato dai filosofi e che, a voler essere precisi, significa qualcosa come trasmissione di forma o stampo: in-formare, formazione. Ho perfettamente ragione se colgo le lettere nei ciottoli come comunicazione, vale a dire come informazione, nei limiti in cui attivano un qualcosa in me - capisco la parola, comprendo il suo significato - del tutto a prescindere dal fatto che qualcuno abbia disposto lì con cura le pietre in maniera che potessero essere lette come lettere, o che sia stato solo un curioso caso della natura a farlo. Decisivo è che io abbia colto le figure nell'acciottolato come simboli e che continui ad elaborarle come tali. Occorre dunque un essere capace di percezioni, un essere la cui vita interiore sia influenzata o plasmata dai segni che ha ravvisato, per poter parlare di informazione. Ora però voi mi tornerete alla carica con la vostra inconfutabile obiezione: la comunicazione che io suppongo d'aver colto o che ho effettivamente colto è, parlando in termini fisici oggettivi, solo una delle molte possibili, irrilevanti disposizioni di pietruzze bianche e nere. Però appunto: solo in termini fisici, oppure - meglio ancora - solo se si prescinde dall'idea di esseri viventi in grado di percepire. Perché non appena c'è qualcuno come me, che scopre i segni ed è anche in grado di capirli, la vostra argomentazione sull'uguale probabilità di tutte le possibili disposizioni dei ciottoli è già invalidata. Le disposizioni di sassi infatti che io posso leggere sono comparativamente solo pochissime fra le molte possibili che
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la marea può comporre. E poiché sono solo pochissime, le disposizioni leggibili di ciottoli sono sorprendenti .e mi consentono benissimo di concludere che qui c'è stato un intervento della mano dell'uomo. Vi prego ora di risparmiarmi la fatica di soffermarmi ulteriormente sulle connessioni fra statistica e informazione. Lo so che è inizialmente sconcertante quando sostengo che l'uniforme disposizione di ciottoli sulla spiaggia, che al vostro occhio è sempre quella, identica, corrisponde in realtà a una quasi infinita molteplicità di configurazioni di ciottoli: corrisponde a molte, ma molte più configurazioni di tutte quelle che insieme contengono qualsivoglia tratto di scrittura in qualsiasi modo leggibile. I fisici fra di voi hanno già confidenza col concetto degli stati macroscopici di un sistema che si realizzano attraverso una quantità maggiore o minore di stati microscopici: e quanti più sono gli stati microscopici, tanto maggiore è la probabilità dello stato macroscopico e tanto maggiore è - così si dice - l'entropia del sistema. Non ci si deve stupire se si utilizzano per l'entropia nella fisica e per l'informazione nella tecnica della comunicazione formule assai simili, perché i due concetti sono imparentati. Solo che, nella fisica, gli stati macroscopici di cui si misura l'entropia, sono definiti in modo così semplice che se ne può ragionevolmente parlare senza doversi figurare l'esistenza di un osservatore umano: ricordate l'esempio classico, quello in cui tutte le molecole di un gas sono raccolte in un contenitore e neanche una nell'altro; mentre gli stati macroscopici nel nostro esempio - segni di scrittura leggibili nell'acciottolato non sono affatto definibili senza la presenza di un uomo assennato e acculturato. Spero che a questo punto vi siate convinti che il concetto di informazione presuppone esse1i viventi e che, omessi questi esseri viventi, il concetto non coincide semplicemente con quello della entropia (negativa) nella fisica. Tutto questo vi sarà però forse apparso un po' troppo generico. Cerchiamo dunque di vedere ora in che modo l'informazione scorre at21
traverso gli esseri viventi, è da loro creata ed è accolta da altri esseri viventi. Il quadro complessivo di questi flussi d'informazione, il modo e la maniera in cui dipendono l'uno dall' altro, è di una complicazione estrema. Vogliamo ora considerare alcuni esempi. E, nel farlo, il concetto d'informazione, che continueremo a usare tendenzialmente nel senso dell'uso linguistico comune, diverrà, attraverso questo uso, forse un po' più chiaro. Prospettiamoci innanzi tutto il concetto che segue: ogni essere vivente contiene informazioni sull'ambiente che lo circonda, fin dalla nascita, prima ancora di aver avuto una occasione di raccogliere dati d'esperienza. Una certa misura di conoscenza di questo mondo è innata in ciascuno di noi. So benissimo che molte person~ non lo gradiscono, perché ricorda loro troppo l'antropologia dei nostri nonni, i quali erano inclini a guardare i loro simili come la somma delle qualità innate di tutti i loro antenati, forse sotto l'influsso dell'allora nascente teoria dell'ereditarietà genetica: l'ostinazione l'ha da sua madre, si diceva, la trasandatezza dal nonno e l'inclinazione per la musica dallo zio. Non è certo così semplice, però non può sfuggire ad alcun osservatore imparziale del comportamento che la maggior parte di ciò che si definisce istinto si basa in misura molto rilevante su programmi innati. Molti animali riconoscono gli esemplari della loro specie, quando è venuto il momento dell'accoppiamento, anche se non ne hanno mai visto uno prima. È stato evidentemente conferito loro con la nascita un identikit, probabilmente inserito nella struttura cerebrale, formulato forse in modo assai semplice e limitato a pochi contrassegni spiccati, e che però basta per riconoscere il partner sessuale al momento opportuno. La maggior parte degli animali sa anche assai bene quali danze deve danzare quando si trova dinnanzi a un partner, quali segnali deve emettere e a quali segnali deve badare, quali movimenti di copulazione infine portano al successo, anche se non hanno mai avuto prima l'occasione di as-
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sistere agli accoppiamenti di animali già esperti. Anche nella lotta svolgono un ruolo fondamentale le formule innate del comportamento: il bambino non ha bisogno d'imparare prima a colpire coi pugni e a digrignare i denti quando s'infuria. Tutto questo implica naturalmente una quantità di conoscenze saldamente preinserite: sull'aspetto e sul comportamento d'altri animali, sulle caratteristiche fisiche delle parti del corpo da colpire o da mordere; non una conoscenza nel senso dell'apprendimento scolastico, bensì - vien voglia semmai di dire - conoscenza inconscia che risulta disponibile al momento decisivo. Da dove viene questa informazione e chi l'ha comunicata? Primo: da dove viene. Naturalmente dall'esperienza delle passate generazioni. Non nel senso che la conoscenza acquisita dal padre nell'arco della sua esistenza sia conferita al figlio nella culla: questa cosiddetta teoria di Lamarck non ha oggi più seguaci. La supposizione corrente, che emerge dalla teoria dell'evoluzione di Darwin e dalle sue successive elaborazioni, ha persuaso tutti noi. Nell'azione concomitante di variazioni casuali degli individui e di una rigida selezione secondo probabilità di sopravvivenza e secondo capacità di moltiplicarsi vigorosamente, troviamo un principio d'una straordinaria forza creativa, che giudichiamo capace di realizzare l'intera molteplicità del mondo organico. Fra l'altro questo principio comporta che col passare delle generazioni le specie animali si adeguino sempre meglio allo specifico ambiente per cui sono create. E questo significa naturalmente che l'informazione dell'ambiente si trasmette continuamente al codice genetico, dove s'arricchisce _lentamente ed è trasmessa di generazione in generazione. E un modo curioso di trasmissione dell'informazione, questo sregolato provare e lento acquisire di conferme, però è anche molto efficiente: chi non conosce esempi d'insetti che hanno l'aspetto di foglie, rami o fiori, e di fiori che per forma e colore raffigurano con tanta esattezza la femmina di certe specie di insetti da attira23
re a schiere i maschi corrispondenti e da eccitarli alla «copulazione»? Esistono mosche che si sono appropriate dell'aspetto delle api in modo tale che se ne è tratti in inganno; esistono serpenti del tutto innocui che hanno assunto i disegni e i variopinti colori di certe serpi velenose (al punto che gli stessi zoologi non riescono quasi a distinguerli) al fine evidentemente di approfittarsi anche loro della forza di dissuasione nei confronti di animali da preda che abbiano già fatto brutte esperienze con le serpi velenose. Esistono ragni che sembrano formiche e vivono fra le formiche (e dal momento che hanno otto gambe invece di sei, reggono sollevata la coppia anteriore di zampe, a mo' di antenne, come se le formiche fossero capaci di contare). Animali delle specie più diverse - serpenti, pesci, insetti - mostrano nella loro parte posteriore una sorprendente imitazione di una testa che evidentemente tende a suggerire false conclusioni sulla direzione dei loro movimenti. Tutti questi non sono fatti casuali, bensì prove particolarmente evidenti del fatto che il processo evolutivo darwiniano scambia in continuazione un'enorme quantità di informazioni fra le varie specie di animali e di piante, la inserisce nel codice genetico d'una specie e poi la rimette in circolazione attraverso la forma e il colore di esseri viventi o attraverso il loro comportamento - per l'utilizzazione da parte di altri esseri viventi. Questo significa in molti casi che, assieme alla forma esteriore, per esempio quella d'un fiore di orchidea che attira insetti maschili, è contenuta nel codice genetico della specie ingannatrice anche una specie di «conoscenza» dei desideri, dei comportamenti e delle forme del corpo degli animali da ingannare. Il flusso d'informazioni fra codici genetici di animali e piante che si siano reciprocamente impostati in un.sistema ecologico, è straordinariamente complesso. E dunque un canale d'informazione molto particolare quello che conduce dall'ambiente esteriore al genoma d'un animale. Genoma è il nome del complesso di macromolecole che in una cellula contiene l'informazione genetica.
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L'altra domanda: attraverso quale canale l'informazione rilevante si trasmette poi dal genoma al comportamento, tanto che i programmi e le capacità innate d'ogni specie animale possano dispiegarsi nel loro specifico modo? Qui una parte della risposta è del tutto evidente: i programmi e le capacità sono inseriti nella struttura cerebrale, e non ci si stupisce se animali diversi hanno spesso cervelli decisamente diversi, che si potrebbero eventualmente mettere in relazione coi loro diversi caratteri. Il problema è semmai come la struttura del cervello venga plasmata dal genoma: come avviene che i miliardi di cellule del corpo che scaturiscono dalla suddivisione cellulare d'un solo ovulo fecondato si differenzino in varie cellule specializzate e formino poi complesse strutture cellulari, il cervello per esempio, in cui si collegano fra di loro in parte senza regole e in parte secondo regole predeterminate? Qui la risposta non è così semplice, soprattutto perché non disponiamo della conoscenza biologica dettagliata che sarebbe necessaria per ricostruire la concatenazione degli eventi dalla fecondazione dell'ovulo, attraverso lo sviluppo dell'embrione, fino all'animale completo. L'esplorazione di questo canale genetico-embriologico è sul momento uno dei temi principali della biologia. Nei loro tratti rudimentali i meccanismi sono già stati compresi, ma nei dettagli sono molto complessi, anche se poi, tutto sommato, sono quasi sempre coronati da successo. Dopo tutto, la maggior parte di noi dispone di cervelli ben strutturati, in cui le conoscenze e le capacità codificate nei nostri geni si estrinsecano ordinatamente. Finora ho parlato di due specie di flussi d'informazione nella biologia: il primo, dall'ambiente verso il gene attraverso il processo dell'evoluzione darwiniana; il secondo, dai geni, attraverso i processi embriologici, verso l'organismo completo e funzionante. Ora voglio soffermarmi su un terzo flusso d'informazioni ancora, il più evidente, quello che si sarebbe maggiormente propensi a mettere in relazione con la parola informazione: quello che entra nel cervello attraverso gli or25
gani di senso ed esce dal cervello verso l'ambiente circostante attraverso il comportamento motorio dell'organismo. Questo canale d'informazione è l'oggetto di studio della psicologia dei sensi e del cervello. Senso e scopo del cervello divengono comprensibili solo alla luce di questa specie di elaborazione dell'informazione. Intendo quindi delineare alcuni elementi caratteristici dell'apparecchio con il quale, per tutta la vita, riceviamo messaggi sugli avvenimenti dell'ambiente esterno e inviamo segnali che modificano le nostre relazioni coll'ambiente esterno. Mi propongo cioè di fornire una breve relazione sullo stato attuale della teoria del cervello. Del tutto similmente ai calcolatori elettronici, l'informazione proviene al cervello attraverso una quantità di singoli filamenti, ciascuno in grado, indipendentemente dagli altri, di trasmettere segnali. Solo che nel caso del cervello i fili sono sottili tubicini pieni di liquido, e i segnali sono - fisicamente - molto più complessi dei semplici impulsi che nell'elettronica sono inviati attraverso fili metallici. I segnali si diffondono nel cervello anche molto più lentamente che nell'elettronica. Comunque, i segnali sono segnali e, nei cervelli come nei calcolatori, hanno una cosa in comune: il fatto di essere ben distinti l'uno rispetto all'altro, d'essere numerabili, di essere «discreti» come si suol dire. Questo ha grandi vantaggi rispetto a una trasmissione d'informazioni che avvenga - per esempio - attraverso un potenziale elettrico che si modifichi con continuità, perché un simile potenziale dovrebbe essere esattamente misurato nel luogo di arrivo, e tutte le distorsioni nella trasmissione disturberebbero notevolmente questa misurazione. Nella trasmissione di impulsi discreti questo non costituisce quasi un problema, perché, pur distorto, un impulso può essere comunque ancora riconosciuto come tale dal ricevente. L'impulso serve per così dire da simbolo di ciò che è trasmesso, e come per altri simboli - per esempio le lettere di un alfabeto - la forma esatta non ha rilevanza finché il simbolo in quanto tale sia ancora riconoscibile. e,
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II cervello è dunque, sostanzialmente, un apparecchio d'elaborazione di simboli, e dal carattere simbolico del suo modo di funzionare nel riconoscere i segnali - per esempio lettere e parole su una spiaggia sassosa - abbiamo trovato già prima una delle radici del concetto d'informazione. Il cervello procede per simboli non solo di fronte a lettere e a suoni, bensì, più in generale, nel modo che ha di cogliere le cose dell'ambiente esterno. La distinzione di singoli eventi dal flusso continuo di ciò che è percepito attraverso i sensi avviene, per così dire, mediante il confronto di queste cose con particolari simboli dell'attività cerebrale, ovvero - che è poi lo stesso mediante la traduzione del mondo esterno nel linguaggio interno del cervello. Non voglio affermare che si conoscono già tutti i particolari di questo processo di codificazione interna, ma la più recente neurofisiologia ha fornito già molte indicazioni. Nel caso di scimmie e di gatti si sa con notevole precisione in quali elementari unità di significato è scomposta l'immagine del mondo esterno, non appena è proiettata dagli occhi nel cervello; e nel caso dei segnali provenienti attraverso il canale uditivo il cervello sembra procedere in modo similmente simbolico. E non è poi molto importante, in questo contesto, se siano davvero impulsi in singoli elementi del cervello a fungere da simboli interni, ovvero se siano salve di impulsi dirette verso schiere di elementi: un problema che è sul momento molto dibattuto. Un'altra cosa mi sembra più importante: la capacità del cervello di adattare il suo linguaggio interiore - ovvero, più genericamente, la sua provvista di simboli - alle circostanze date del mondo esterno. Non si può cogliere tutto, riconoscere tutto, reagire a tutto. Una preselezione avviene mediante meccanismi di riconoscimento innati di cui abbiamo già parlato. Ma nel caso degli animali di specie superiore, e particolarmente dell'uomo, l'apprendimento svolge il ruolo principale. Per tutta la vita impariamo a distinguere figure, a rico27
noscere situazioni importanti, a raffinare reazioni particolari. Nel cervello tutto questo corrisponde a una continua ristrutturazione delle connessioni interne, nel senso che le immagini di cose connesse fra di loro nel mondo esterno sono collegate insieme nel cervello, e se ne stabiliscono le sequenze. Quando poi nel cervello tutto è ordinato in modo tale che i collegamenti delle fibre nervose fra di loro rappresentano un quadro esatto delle connessioni logiche e causali degli eventi nel mondo esterno, allora si può provare a far svolgere avvenimenti all'interno del proprio cervello, vale a dire: si può pensare. E così avete appreso anche del quarto e ultimo flusso d'informazioni che volevo prospettarvi: il modo in cui il singolo cervello è plasmato dall'esperienza nel corso della vita. Forse questo processo è quello che più si avyicina al concetto d'informazione nel suo senso originario. E comunque quello che più d'ogni altro constatiamo consapevolmente in noi stessi e in altre persone. È un canale di informazione che finisce con un grande spreco, perché l'enorme quantità di informazioni apprese si dissolve alla fine di ogni vita. A meno che questa conoscenza acquisita non sia trasmessa alla generazione che segue nella sua forma simbolica, su carta o su nastro magnetico. Ma questa è una quinta specie di elaborazione dell'informazione nei sistemi viventi, parlar della quale è tutt'altra storia.
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2 · Il cervello, l'eminenza grigia del comportamento
Avrete certamente fatto caso al fatto che molti animali, in quella parte del corpo che li precede nell'incedere, esibiscono un rigonfiamento su cui sono applicati i principali organi di senso: gli occhi, il naso e le orecchie. Questo rigonfiamento, la cosiddetta testa, serve ad alcune più piccole specie animali essenzialmente come semplice sostegno degli organi di senso . nella mosca, per esempio, la testa contiene un mucchio d'aria-, mentre negli a:p.imali più grandi è invece tutta piena d'una sostanza biancastra e molle: il cervello. Questa sostanza ha nei vari animali un aspetto assai simile, anche se è diversamente formata, tanto che un buon esperto d'anatomia, di fronte a un cervello conservato in formalina, riesce a distinguere molto bene da che animale proviene. Sono duemila anni che si sente dire in giro che questa sostanza ha a che fare con quelle attività che l'uomo - quando guarda in se stesso - definisce: pensare, volere, sentire. Anche oggi non ne sappiamo molto di più sulla funzione del cervello, però tenterò di tratteggiare questo poco per voi. Quel che mi preme è di convincervi che questo poco è comunque d'una grande importanza, paragonabile, per esempio, ai primi passi della fisica nell'antichità, e che presumibilmente ne scaturiranno presto (forse fra dieci, o fra cento anni) risultati che, esattamente come oggi capita nella fisica, metteranno seriamente in dubbio alcune delle nostre più care abitudini mentali. Fin da epoche remote si è supposto sulla base di esperienze mediche che il cervello avesse a che fare con le funzioni psi-
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chiche superiori. Non occorre una scienza particolarmente evoluta per constatare certe alterazioni caratteriali in un combattente sopravvissuto a un colpo di freccia nel cranio, e per porre queste in relazione con la penetrazione del proietto nella sostanza cerebrale. Uno che abbia subito una lesione simile ha perso forse per tutto il resto della sua vita la voglia di vivere, se ne sta per lo più seduto in giro, abulico, non capisce nemmeno quello che gli si dice, o incontra gravi difficoltà nel formulare egli stesso delle frasi. Capita anche che, improvvisamente e come colpito da un fulmine, si accasci e si esibisca fino alla spossatezza in orribili smorfie e contorcimenti, tutto chiuso in sé e sottratto ad influssi esterni. Le persone superstiziose, fin dall'età della pietra, hanno ricondotto simili fenomeni all'influsso di spiriti maligni, e conosco persone - anche persone colte - che la pensano così anche oggi quando, per esempio, suppongono che convulsioni o depressioni siano prodotte dallo spirito dominante in una certa famiglia o in una certa società. Medici greci hanno tuttavia manifestato, fin dai tempi dell'antichità classica, l'opinione che il cervello e le sue normali o morbose modificazioni pongono dei limiti al nostro fare o volere, e influenzino il nostro destino. Sono esistite dunque, assai presto, due specie di psicologie: l'una caratterizzata dal disprezzo del cervello quale portatore delle funzioni psichiche, l'altra che, al contrario, scorge nel cervello il luogo in cui i processi spirituali sono ancorati al mondo fisico. L'esperienza dice che presso gli psicologi dell'una specie si riscontra scarsa comprensione per le opinioni dell'altra. Ma non dobbiamo affliggercene. Proviamo invece ad abituarci all'idea che le considerazioni sul cervello equivalgono alla fin fine alle considerazioni sulla psiche, solo viste dall'altra parte. La prima grande scoperta che sia andata al di là di queste constatazioni filosofiche, risale a circa cent'anni fa. Si accertò che i disturbi della capacità di parlare che si manifestano dopo lesioni cerebrali erano assai più frequenti se era colpita la
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metà sinistra del cervello. E - ancora più interessante - che, a seconda che fossero state danneggiate parti anteriori o posteriori della metà sinistra del cervello, i disturbi risultavano di ·specie diversa. Nell'un caso - in presenza cioè di una lesione nella zona della terza circonvoluzione frontale sinistra della corteccia cerebrale, dunque sul davanti - si notò che i pazienti erano in un certo senso capaci di capire cosa loro si diceva, anche di eseguire su ordine ogni possibile azione complessa, però erano incapaci di parlare. Il balbettio disperato d'un siinile paziente consente a volte d'intravvedere che, quando si accinge a parlare, ha bensì chiaro davanti agli occhi un contesto concettuale, e che però, nella traduzione di questo progetto in parole e frasi, qualcosa va di traverso. Nei casi gravi non ne viene fuori quasi altro che un faticoso, incomprensibile mugolio con molte ripetizioni, e nei casi più lievi le parole sono espresse in un qualche modo comprensibile, ma non si compongono in frasi: sono semplicemente parole prodotte in successione semplice, in stile telegrafico come si suol dire. Se si vuole, si può anche dire, forzando un po' i termini: in questi casi s'è guastata la grammatica, la strutturazione del linguaggio in frasi grammaticalmente corrette, mentre il lessico, la relazione fra le singole parole e i corrispondenti significati, è intatto. Diversa la situazione in presenza di lesioni nella zona della circonvoluzione postero-superiore temporale della corteccia cerebrale. I pazienti che abbiano subito questa lesione sono in grado di parlare correntemente, spesso fin troppo correntemente, perché le frasi che producono consistono di molte parole, ma assolutamente sbagliate o applicate in modo errato, oppure anche di parole d'un significato così vago che non si sa di cosa stanno parlando. Nella connessione di queste parole vuote o errate, le regole della grammatica e della sintassi sono però applicate in modo corretto: si potrebbe dire che qui è andato perduto il lessico, e che la grammatica è invece ancora intatta.
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Non bisogna sottacere che a taluni neurologi questa distinzione fra afasia (vale a dire: disturbo del linguaggio) cosiddetta motoria e afasia sensoria appare troppo schematica, e che nella stragrande maggioranza di questi pazienti il disturbo grammaticale è combinato con quello lessicale, anche se a volte emerge di più l'uno e a volte di più l'altro. Nessuno contesterebbe tuttavia oggi il dato di fatto che ne abbiamo desunto, e cioè che diverse parti del cervello provvedono a diverse incombenze. E dobbiamo chiarirci bene quanto questo è importante. Sembra, dunque, che non tutto il cervello entri in attività quando, nella formulazione d'una frase complessa di questo testo, uso desinenze e tempi dei verbi in modo corretto, bensì solo una piccola parte, delle dimensioni di pochi centimetri. Si è tentati di sviluppare ulteriormente questo concetto e di domandarsi se, nell'ambito di questa zona della corteccia cerebrale, le regole della coniugazione dei verbi e quelle della declinazione dei sostantivi non siano per caso separatamente localizzate in ambiti più piccoli, e i verbi irregolari, forse, uno per uno, in minuscole sottosezioni. Ci si può anche domandare se le parole della lingua italiana e quelle dell'inglese, in una persona bilingue, sono immagazzinate in reparti diversi, tanto che risulti possibile, nel caso di un colpo apoplettico che comporti la distruzione di ridotte parti del cervello, che l'una lingua vada del tutto perduta mentre l'al~ tra rimanga a disposizione del paziente. Osservazioni simili sono state effettivamente fatte. Tutta la ricerca sul cervello fra la metà del secolo scorso e la metà dell'attuale si è occupata quasi esclusivamente di questo problema della suddivisione delle svariate mansioni della psiche fra le svariate parti del cervello. Sono state fatte tante osservazioni, interessanti sia per i neurologi che per gli psicologi, perché ove si trovasse conferma che cose come «iniziativa», «aggressività», «sensazione di piacere», «senso spaziale», «comprensione musicale» sono effettivamente connesse con specifiche parti del cervello, allora si disporrebbe d'un qualcosa come una naturale 32
anatomia della psiche, una articolazione delle funzioni spirituali in singole parti costitutive. Questa concezione, la cosiddetta teoria della localizzazione, connotava l'atmosfera della neurologia nell'epoca in cui io ero uno studente. La ricerca, in quei tempi, era svolta per lo più nelle cliniche per le malattie nervose. Nei singoli reparti si facevano distinzioni sempre più sottili fra i disturbi che si potevano osservare in pazienti dalle lesioni cerebrali variamente localizzate. Al piano superiore, nel laboratorio anatomico, si disegnavano mappe del cervello sempre più dettagliate, su cui ogni circonvoluzione, ogni piccolo fascio di fibre era registrato con un nome particolare. Quando poi veniva il momento, il cervello del paziente finiva sul tavolo di dissezione in laboratorio. Dalla cartella clinica si desumeva la descrizione dei sintomi. Sulla base di sezioni di cervello si accertava l'esatta estensione della zona distrutta. Si potevano cosi corredare le mappe del cervello di sempre nuove indicazioni, e attribuire a singole circonvoluzioni e fasci di fibre la responsabilità di specifiche funzioni. Ne fui affascinato. Ancora studente, ebbi la chiave d'accesso a uno di questi laboratori (nella clinica neuropsichiatrica dell'Università di Roma), mi si consentì di collaborare agli studi per la teoria della localizzazione, e di fare, più in generale, quello che volevo coi microscopi e coi cervelli. Fortuna di principiante: al mio primo tentativo di rilevare visibilmente le fibre nervose nel cervello - la tecnica non l'avevo inventata io, la si trovava da tempo già descritta nei manuali-, mi si mostrò al microscopio un quadro che mi ha impressionato per il resto della mia vita. Una struttura di fili sottili, così numerosi e così sottili che l'ingrandimento massimo consentito dal microscopio non bastava quasi per vederli tutti esattamente. I fili, in parte, scorrevano riuniti in fasci e a strati verso precise direzioni, in parte erano disposti apparentemente senza criterio, in lungo e in largo attraverso il tessuto cerebrale. Collocate in questa specie di feltro di fibre, si potevano ravvisare formazioni rotondeggianti, i nuclei delle cellule ner33
vose, e in taluni punti si poteva scorgere molto bene come le fibre erano collegate con le cellule nervose, come parevano scaturire da loro. Chi, di fronte a uno spettacolo sinùle, non pensa all'elettronica è sprovvisto di fantasia. Tuttavia: l'elettronica aveva allora solo qualche anno di età, era in gran parte ancora in mano di improvvisatori, di ingegneri che si trovavano a dover risolvere problemi pratici e che erano quindi poco propensi a usare le ali della fantasia. E soprattutto: i miei insegnanti universitari di allora, d'anatomia e di neuro. logia, mostrarono poco interesse quando esibii loro al micro. scopio la mia bella matassa di fibre, sostenendo che li si doveva poter trovare la soluzione del come le funzioni psichiche scaturivano dalla nostra testa. I professori dissero: è semplice, non lo capirai mai perché la complessità con cui tutto questo si svolge supera decisamente le nostre capaçità analitiche. Può darsi, risposi: e mi rivolsi ai fisici, coi quali già allo. ra, se non altro nelle osterie, si coltivavano quei contatti interdisciplinari oggi tanto apprezzati. Senonché, sul momento, non ebbi maggior fortuna coi fisici. Mi spiegarono che non si possono chieder loro, così sui due piedi, su ordinazione, le formule per tutto quello che risulta complesso, soluzioni sicure per tutto ciò che il medico non capisce. Anzi, mi dissero, la fisica si è sempre occupata di problemi semplicissimi, ha elaborato formule matematiche per due, al massimo tre cose che ruotano l'una attorno ali' altra e interagiscono fra di loro. Quando però entrano in ballo migliaia e migliaia di interazioni, anche i fisici fanno marcia indietro e lasciano il campo libero agli psicologi, ai sociologi e ad altri che rinunciano a priori a conoscenze esatte. Eppure i fisici mi hanno aiutato molto. Da loro seppi infatti che proprio quell'anno - il 1948, nel corso del quale avevo fatto quella decisiva osservazione al microscopio - era apparso negli Stati Uniti un libro, Cybernetics di Norbert Wiener. L'autore, un famoso matematico, vi descriveva l'entusiasmo filosofico d'un gruppo di scienziati per i quali, con le prime 34
grandi calcolatrici elettroniche, era iniziata una nuova era dell'umanità. Lo stato d'animo di allora era influenzato da tre conquiste che erano in relazione coll'evoluzione dell'elettronica: innanzi tutto la teoria logica degli automi, in secondo luogo la teoria dell'informazione e in terzo la teoria della retroazione (il.feedback). Nel libro di Wiener risultava particolarmente eccitante il modo in cui questi tre elementi della moderna scienza ingegneristica erano utilizzati per formulare una teoria degli esseri viventi, e soprattutto per un linguaggio con cui si poteva parlare di cervelli. Potei dunque tornare da quei docenti di medicina che mi avevano sconsigliato di riflettere sulle funzioni cerebrali perché, secondo loro, a causa della loro eccessiva complessità, erano sottratte alla comprensione umana. Potei riferir loro dei grandi e complessi calcolatori, precisando che anche questi superavano la comprensibilità degli esperti d'anatomia del cervello: eppure queste macchine erano state progettate in tutti i particolari da persone che ne avevano capito perfettamente i principi. Questa rinnovata sfacciataggine, quest'ottimismo desunto dai tecnici, fu l'inizio d'una nuova ricerca sul cervello. Perché vi rendiate conto in che cosa consisteva la novità, citerò alcuni brani di Ludwig Boltzmann, il famoso fisico che in uno studio filosofico del 1897 aveva riflettuto sulle connessioni tra cervello e spirito. Consideriamo il cervello come l'apparato, come l'organo per la produzione di immagini del mondo il quale - a causa della grande utilità di queste immagini per la conservazione della specie, nel senso della teoria darwiniana - si è sviluppato nell'uomo sino a una particolare perfezione .... Attraverso le immagim mediante cui ci siamo raffigurati la materia, cerchiamo di raffigurarci ora i procedimenti materiali nel cervello e di approdare così a una mìgliore concezione dei processi psichici, e di arrivare inoltre a una raffigurazione del meccanismo che si è sviluppato nelle teste degli uomini e che rende possibile la raffigurazione di immagini così compfesse e precise.
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Anche oggi la pensiamo in un modo assai simile. C'è tuttavia una differenza essenziale fra allora e oggi, lì dove Boltzmann, nel menzionare un meccanismo nella testa umana, e poi, quando parla di una macchina simile all'uomo, è colto da una sensazione di disagio e constata: I sistemi più complessi di corpi materiali i cui modi di operare riusciamo in qualche modo a comprendere sono, per esempio, un orologio o una dinamo. Riteniamo dunque che se i nostri processi mentali fossero raffigurabili esaurientemente mediante immagini dei processi materiali del c;ervello, risulterebbero inerti e morti come queste macchine. E questa è palesemente la ragione per cui la concezione appare a taluni squallida e sconsolante.
È quasi incredibile che Boltzmann, nell'usare la parola meccanismo nell'anno 1897, non potesse avere in mente niente di più complesso d'un orologio o d'una dinamo. Quando noi oggi diciamo macchina, pensiamo - ora con riluttanza, ora con orgoglio - a uno dei grandi calcolatori che si trovano a migliaia nelle banche, nei centri commerciali e negli istituti universitari. Un simile calcolatore consiste di un numero che va da un milione fino a dieci milioni di singole parti. Un orologio, per complesso che sia, ha poco più di cento parti. E il cervello di un topo? I cervelli consistono di cellule, come tutti gli altri organi del corpo. Nel cervello di un topo ci sono circa dieci milioni di cellule, tante quante sono le parti d'un grande calcolatore. In una mosca sono circa cento volte meno che nel topo, nell'uomo però mille volte di più: circa dieci miliardi. Comunque, al giorno d'oggi, per un prezzo accessibile anche un privato se lo potrebbe permettere - si può acquistare una macchina di cui si può presumere che, una volta che sia stata adeguatamente programmata, sappia dare prestazioni simili a quella del cervello d'un topo. E il topo, se consideriamo con indulgenza il suo comportamento, non è poi tanto dissimile dall'uomo. Anche il suo cervello è simile, e in un modo stupefacente, a quello dell'uomo, solo in versione miniaturizzata. Mi è facilissimo sottoporre di soppiatto a un 36
esperto del cervello umano immagini microscopiche d'un cervello di topo senza che lui - ignorando i dati relativi all'ingrandimento - se ne accorga. Questa comparazione fra calcolatore e cervello è eccitante. Pare prospettarsi la possibilità di collegare singole parti di un calcolatore esattamente come sono collegate fra di loro le cellule nel cervello del topo. Si potrebbe allora costruire un topo di gomma, il cui muso, baffi, membra e coda siano mossi da minuscoli motori. Lo si potrebbe dotare di occhi e orecchie elettronici e collegare il tutto a un computer. Forse il comportamento di questo topo-robot non si differenzierebbe quasi da quello di un topo vero. Ovviamente l'idea può essere ulteriormente sviluppata e ci si può figurare un computer mille volte più grande che guidi un robot umano, con autentica capacità di capire un linguaggio, con fantasia ed emozioni. Però questo trastullo mentale vi risulterà a ragione irritante, e vi chiederete: questo paragone fra il cervello e il calcolatore elettronico è poi davvero giustificato? vale a dire: il calcolatore funziona davvero secondo gli stessi principi del cervello? E poi direte ancora: anche ammesso che ci convincessimo della possibilità di ridurre le cellule cerebrali a computer, a che ci servirebbe se non conosciamo i segreti che madre natura ha inserito, nell'arco dei milioni di anni della nostra evoluzione, nei nostri cervelli, disponendo le connessioni delle cellule cerebrali in modo del tutto diverso nel topo, nell'uomo, nel pipistrello e nel serpente, ogni volta con riferimento allo specifico modo di vivere e allo specifico ambiente di questi animali? In seguito cercherò di dare una risposta a queste domande. Ora però: cos'hanno i cervelli in comune con gli odierni calcolatori? A un'osservazione superficiale: molto, e in misura stupefacente. I computer consistono al loro interno di una enorme quantità di cavi, di collegamenti fibrosi che stabiliscono una volta per tutte quali settori specifici possono comunicare fra
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di loro, quali percorsi i segnali possono seguire e quali no. Non tutto è collegato con tutto: da un certo preciso punto le comunicazioni sono indirizzate ad altri punti ben precisi. Nel cervello avviene lo stesso, in modo assai simile. Anche qui i segnali sono inoltrati attraverso fasci di fibre preformati per ben precise utilizzazioni. Un raggio di luce che colpisca l'occhio da una certa direzione scatena dei segnali che sono inoltrati al cervello e, più precisamente, lungo sistemi diversi di fibre verso parti diverse del cervello. Nell'una si calcolano i movimenti dei muscoli dell'occhio per determinare l'orientamento dello sguardo verso l'oggetto luminoso. In un'altra è calcolata l'apertura ottimale della pupilla. In una terza struttura, più grande, l'immagine trasmessa da un occhio è comparata con quella trasmessa dall'altro, al fine di instaurare la visione stereoscopica. In una struttura ancora più complessa si stabilisce infine cosa si è in concreto visto, e il risultato è inoltrato verso altri settori del cervello per decidere cosa a questo punto occorre fare. La somiglianza dei sistemi di fibre all'interno dei cervelli e all'interno dei computer ha un carattere anche più profondo. Hanno infatti entrambi in comune il principio dell'organizzazione gerarchica: compiti parziali sono delegati a sottosezioni, la cui coazione è guidata da un programma superiore. Però questo è troppo generico per risultare interessante, dal momento che non esiste quasi sistema biologico o tecnico in cui non si possa ravvisare in qualche modo un principio gerarchico. C'è un'altra, molto più affascinante somiglianza fra i cervelli e un tipo specifico di computer, connessa con la specie dei segnali che sono da entrambi elaborati. Mi riferisco al calcolo con la limitata quantità di simboli che dà il nome al cosiddetto calcolatore digitale. Per un confronto, facciamo prima qualche esempio di calcolatori che non siano «digitali»: il regolo calcolatore; il termostato dell'impianto di riscaldamento che stabilisce in base alla temperatura all'interno e all'esterno della casa il livello di riscalda38
mento ottimale; la clessidra. Qui l'evento fisico che rappresenta il calcolo si svolge linearmente e senza soluzione di continuità. Al contrario, invece, nelle macchine calcolatrici digitali siamo sempre in presenza d'una collocazione in parallelo e in successione di simboli, per esempio di simboli numerici. La forma originaria è il calcolo con le dieci dita delle mani umane: digitus vuol dire dito, e di qui «digitale». Contare con le dita è un calcolo digitale. Scrivere numeri e segni aritmetici sul quaderno di matematica è calcolo digitale: un gioco mediante simboli. Anche l'algebra è un calcolo digitale. Oggi ogni studente sa che i più diffusi calcolatori moderni sono digitali, e che i loro numeri non sono raffigurati nell'usuale sistema decimale desunto dalle dieci dita, bensì in un sistema binario in cui si utilizzano due soli simboli numerici: lo O e l' 1. Gli apparecchi che funzionano in questo modo sono assai facili da costruire: non occorrono rotelline con dieci denti per rappresentare dei numeri, bastano fili attraverso i qua~ passi o non passi la corrente: 1 se c'è corrente, O se non c'è. E un espediente più semplice e anche più affidabile delle ruote dentate. Ma cos'ha tutto questo a che fare coi cervelli, mi si chiederà. Ecco: è da tempo già noto che le cellule nervose dei cervelli viventi, i cosiddetti neuroni, si possono trovare in due condizioni completamente diverse, e cioè nello stato di quiete o in quello di attività. L'attività dura ogni volta solo per un tempo breve, circa un millesimo di secondo. Fra due fasi successive di attività d'un neurone possono trascorrere secondi, minuti o addirittura ore, oppure può anche capitare che il neurone si attivi in rapida successione anche alcune centinaia di volte al secondo. Non vi è il benché minimo dubbio che quest'attivarsi del neurone è l'autentico segnale che trasmette il flusso d'informazioni all'interno del cervello. Quando infatti un neurone diventa attivo, allora lo stato dell'attività scorre lungo una fibra che scaturisce dal corpo cellulare del neurone verso tutte le diramazioni di questa fibra, fino a certi punti di 39
contatto in cui le fibre sono incollate alle superfici di altri neuroni. Si sa che nei punti di connessione, le cosiddette sinapsi, un impulso si può trasmettere da un neurone all'altro. Che il neurone successivo divenga a sua volta attivo dipende dalla quantità di neuroni - con cui è collegato mediante sinapsi - che sono a loro volta in quel momento attivi. In molti casi alle sinapsi di un neurone sono collegate alcune migliaia di altri neuroni, e quindi le condizioni per l'attivarsi d'un neurone siffatto possono essere molto complesse. Inoltre ci sono connessioni di specie particolare, le cosiddette sinapsi inibitorie, che hanno un effetto contrario rispetto alle altre, e cioè quello di non attivare il neurone successivo nella connessione, bensì d'impedirne l'attivazione. Il tutto è d'una impressionante somiglianza con i calcolatori digitali che operano col sistema binario. I neuroni, come gli elementi di un calcolatore binario, hanno due stati funzionali. Se si vuole, si può dire anche di loro che rappresentano i numeri O e 1. Quando un neurone è attivo, vuol dire 1, mentre la mancanza di attività significa O. E allora ci si può figurare una lunga fila di neuroni che raffigurano insieme numeri di qualsivoglia grandezza, a seconda di quanti di loro sono in quel momento attivi. E non occorre neanche tanta abilità per figurarsi come una o due schiere di neuroni agiscano attraverso le loro sinapsi su una terza, tanto che lì appaia il risultato d'una operazione matematica, per esempio il prodotto della moltiplicazione di due numeri. Nell'entusiamo suscitato da quest'interpretazione dei cervelli è stato dimostrato che in una rete di neuroni collegati fra loro si potrebbero realizzare tutte le operazioni logiche che sono alla base del funzionamento del calcolatore, e che le reti di neuroni sono quindi, almeno in linea di principio, in grado di svolgere gli stessi compiti. Dal momento che era già dimostrato che con un calcolatore, purché fosse sufficientemente grande, si poteva risolvere ogni compito che fosse formulato in modo abbastanza esatto, si è comprensibilmente 40
gridato: «Hurrà!». Ora, dunque, sappiamo finalmente perché siamo tanto intelligenti: perché funzioniamo come un calcolatore digitale. Questa concezione era molto diffusa nei primi anni dell'era cibernetica, anche se non presso coloro che capivano qualcosa del cervello. Il paragone fra il calcolatore digitale e il cervello zoppica assai. Non vorrei però che ve ne rallegraste troppo presto, supponendo per esempio che, col passare degli anni, si sia ammesso da parte nostra che tutte le chiacchiere fisiche sui fenomeni psicologici non conducono a niente. Anzi, semmai avviene il contrario: sempre più psicologi si volgono oggi alla ricerca sul cervello, e sempre più calcolatori sono utilizzati come modelli per funzioni cerebrali. Se dico che il paragone fra computer e cervello zoppica, ho presenti le differenze che ora elencherò. L'informazione nel computer è essenzialmente una configurazione temporale, nel cervello invece è più che altro una configurazione spaziale. Il segnale tipico che entra nel calcolatore e che percorre in ogni senso la macchina è una successione di impulsi elettrici con precisi intervalli fra i singoli impulsi. Il tutto si svolge lungo un filo o lungo pochi fili. Nel cervello invece il segnale tipico è la distribuzione di attività su enormi schiere di cellule nervose. L'ulteriore diffusione non avviene lungo singole fibre, bensì lungo ampi fasci di fibre, un milione di fibre per esempio fra l'occhio e il cervello. Questo principio, detto anche calcolo parallelo, non è stato ancora quasi utilizzato sugli attuali computer, ma ci si aspetta molto dalla sua utilizzazione nei computer del futuro. Un'altra differenza: i computer operano secondo schemi temporali precisi, il cervello no. Tutto quello che avviene nel computer è rigidamente cadenzato: passo dopo passo si modifica durante il calcolo la condizione interna del computer, nessuna parte componente deve ritardare perché non ne sia sconvolto il piano secondo cui il calcolo avviene. Nel cervello la cadenza temporale è molto più indolente. Certo, un gatto 41
deve fare esattamente i suoi calcoli se vuol catturare un agile topo, ma ci si stupisce semmai come questo awenga nel cervello, dove ogni singolo neurone è elemento alquanto inaffidabile, quali sono appunto le cellule dell'organismo: ognuna un po' diversa dall'altra, con occasionali manchevolezze, dipendenti da ogni immaginabile e possibile circostanza. Nei cervelli, la precisione pare che si determini attraverso la coazione dei neuroni, in un modo per così dire democratico: il meccanismo funziona meglio delle singole sue parti. Un'ulteriore differenza: nel computer la logica e la memoria sono separate, nel cervello sono frammiste. Nel computer c'è sempre un particolare reparto, la cosiddetta memoria, dove vengono depositate informazioni che potranno in seguito essere in un qualche modo utilizzate. Nel cervello si ha l'impressione che la memoria sia ovunque, l'esperienza interviene ovunque, in misura maggiore o minore, a modificare i collegamenti fra i neuroni, tanto che il cervello in seguito funzioni diversamente sulla base della nuova esperienza. E questo è . certo un espediente particolarmente efficace, sicuramente superiore alla sequenza calcolare-immagazzinare altrove-richiamare, come avviene nel computer. Ma basta così col paragone fra gli impianti elettronici per l'elaborazione di dati e i cervelli viventi: anche voi, come qualche neurologo conservatore in questi ultimi decenni, vi avrete forse colto una forma di kitsch scientifico. Preferisco riassumere quello che finora s'è detto. L'elettronica ci ha incoraggiati a comprendere realmente la funzione del cervello. Comprendere, in questo caso, significa costruire a imitazione, e i grandi impianti elettronici di calcolo si propongono come guida. I computer finora realizzati sono tuttavia troppo rigidi e troppo impostati ai fini dei calcoli veri e propri per reggere il confronto coi cervelli. I cervelli sono molto più flessibili, imprevedibili; talvolta fanno male i calcoli, però sanno sopravvivere molto meglio in un ambiente variabile, definito solo per approssimazioni. 42
Si sa come i cervelli operano in questo senso? Non ritengo che a questa domanda si possa dare una risposta valida in ogni caso. Potrebbe darsi benissimo che ogni cervello rappresenti una raccolta di soluzioni particolari con cui un animale supera i compiti specifici che gli sono posti. Nell'un caso si può trattare d'un trucchetto banalissimo che sarebbe venuto in mente a un qualsiasi artigiano, nell'altro caso invece ci si trova di fronte alla soluzione geniale d'un problema intricato, rispetto alla quale ogni ingegnere impallidirebbe d'invidia. Non ci rimane altro da fare che seguire, caso per caso, le tracce delle strategie dei cervelli. Cerchiamo dunque di isolare i problemi, occupandoci solo d'una piccola, delimitabile parte d'un cervello, oppure solo d'un cervello minuscolo, oppure solo di aspetti parziali della funzione, o addirittura solo della funzione delle più semplici parti costitutive delle cellule nervose. Fra le molte ricerche che sono in corso, ne scelgo tre, che riecheggiano antichissimi problemi filosofici: il problema della percezione delle forme, il problema della riduzione del comportamento a meccanismi semplici, il problema dell'apprendimento. Primo esempio: l'occhio della rana e tutto quello che vi si connette. Si sperimenta volentieri sulla rana, animale dal sangue freddo, relativamente semplice. Anche l'occhio della rana, assieme alla splendida parte del cervello che presiede alla funzione visiva, è stato molto esaminato. Si ha l'impressione che la rana svolga la sua vita secondo schemi relativamente rigidi, apprenda assai poco e reagisca in modo quasi meccanico a certi stimoli: se scorge una mosca, cerca d'acchiapparla; se gli si avvicina un animale più grande, salta in acqua e sparisce. Un animale ideale per neurologi d'impostazione fisica. Quindi s'è anche analizzato l'occhio della rana secondo i principi dell'arte sperimentale fisica. S'introduce la punta d'un minuscolo elettrodo vicinissima a una delle cellule nervose dell'occhio, vale a dire nella retina. La sonda elettrica assorbe un po' della corrente che scorre attraverso la cellula 43
nervosa nel momento in cui si attiva. Questo segnale è poi intensificato e reso visibile su uno schermo o reso udibile mediante un altoparlante. Ora si procede alla stimolazione: si danno stimoli luminosi alla retina, si fa cioè in modo che la rana guardi uno schermo bianco su cui si proiettano oggetti del tipo più vario e intanto si osserva quali fra le immagini sullo schermo attivano la cellula nervosa nell'occhio della rana. Il fisico disciplinato utilizza stimoli ordinati e ben definiti: luce chiara uniforme sull'intero schermo, oppure minimi punti di luce, oppure cerchi di varia dimensione. L'esperimento si svolge in maniera assai monotona: una macchia di luce in un ben preciso punto dello schermo eccita quella particolare cellula nervosa, una macchia di luce troppo grande interessa già di meno. Ma la vera sorpresa viene quando capita, per disattenzione forse, oppure forse per un ghiribizzo, di utilizzare stimoli del tutto diversi, irregolari: l'immagine di una mosca, per esempio, che corra sullo schermo. A questo punto la cellula nervosa si attiva al massimo, e precisamente ogni volta che la mosca passa per un punto particolare dello schermo muovendosi in una particolare direzione. È ovvio, si può dire: la rana non s'interessa di fisica, ma di mosche, ed è quindi giusto che abbia già insiti nell'occhio degli specialisti, dei detettori di mosche, che segnalino al suo cervello i movimenti nel mondo delle mosche. Si sono scovati anche altri specialisti nell'occhio di rana, fra gli altri quelli che si possono intendere come i detettori di cicogne. Reagiscono a ombre più grandi e mosse, e sono certo i responsabili dei tuffi delle rane in acqua quando si passa lungo uno stagno. L'interessante è che questa confidenza con mosche e cicogne non è frutto di apprendimento, ma è insita a priori nell'occhio della rana: la retina contiene piccole sagome, idee platoniche sotto forma di specifici neuroni, che aspettano solo d'essere confrontate con la loro corrispondente realtà. E anche il cervello è tutto pervaso di simili sagome, neuroni ramificati delle più svariate forme e dimensioni, rivelatori di forme diverse che si
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intersecano e si compenetrano come spettri, talvolta i più piccoli tutti compresi nei più grandi, e tutto questo spettrale mondo interiore è in parte già insito dalla nascita, e solo in parte plasmato attraverso l'esperienza. Evidentemente è difficile ricavare informazioni dall'ambiente esterno senza una conoscenza interiore precostituita, come i costruttori di macchine in grado di riconoscere le forme hanno nel frattempo a loro volta imparato. Secondo esempio: gli occhi delle mosche e il pilota automatico. Se abbiamo parlato della rana come d'un animale dal comportamento rigido, occorre poi anche precisare che è superato parecchio in fatto di rigidità da molti insetti, le cui reazioni awengono con una meccanica regolarità. Il sistema di pilotaggio automatico (se si può così dire) delle mosche in volo è stato analizzato con precisione mediante accorti espedienti. Un trucco sperimentale consiste nel non consentire alla mosca di volare, ma nel fissarla ad un apparecchio di misurazione che registri le sue manovre di pilotaggio mentre le si crea - mediante una specie di simulatore di volo - la illusione di volare attraverso un mutevole panorama. Quel che si è scoperto in questo modo è un meccanismo d'una stupefacente semplicità. Tutti i movimenti del panorama colti dalla mosca in volo nelle varie parti del suo campo visivo sono registrati punto per punto e vengono poi confrontati l'uno coll'altro. Il cervello della mosca ne desume la velocità di progressione, le diversioni dalla linea retta, l'abbassare di quota, la presenza di oggetti prominenti nei dintorni su cui l'insetto potrebbe atterrare. Il risultato dei semplici calcoli nel cervello della mosca è trasmesso direttamente ai muscoli che muovono le ali, e quello che ne risulta è un comportamento di volo apparentemente assennato. Se lo si volesse ricostruire, per esempio per pilotare un modellino di aeroplano, non occorrerebbero più d'un qualche centinaio di mar·chi per il materiale ed un paio di giorni di lavoro di un abile elettricista. In questo caso la cosa più importante che si può imparare dall'analisi del cer-
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vello non costituisce una sorpresa per un ingegnere, non è un qualcosa che si possa brevettare: è invece la constatazione che nel cervello dell'animale alcuni calcoli avvengono secondo principi assai semplici, così semplici da poter essere oggi perfettamente e compiutamente descritti nel linguaggio della tecnica attuale. Terzo esempio: la corteccia cerebrale e i meccanismi dell'apprendimento. Questo ci riconduce agli inizi dell'esplorazione del cervello che, proprio al principio di questa esposizione, avevamo supposto nell'età della pietra. Abbiamo constatato che un qualcosa che sia stato appreso, e cioè il linguaggio, è poi anche depositato in ben precise parti del cervello. Si ritiene che la corteccia cerebrale sia il maggior magazzino di memoria del cervello umano e che di conseguenza, in caso d'una sua lesione, siano suscettibili di maggiori disturbi quelle funzioni che sono per la maggior parte frutto d'apprendimento, come il linguaggio. Gli psicologi e, prima di loro, filosofi come Locke e Hume hanno già riflettuto sui principi in base ai quali si apprende. Il principio più valido che sia stato proposto è quello dell'apprendimento mediante associazioni. Eventi che si verifichino spesso insieme o in immediata successione, sono collegati all'interno del cervello in modo tale che il manifestarsi dell'un evento evochi l'immagine dell'altro. Se così è, allora è mediante l'esperienza che si raffigura all'interno del cervello la connessione delle cose del mondo esterno. Alla fin fine quello che troviamo nel cervello è un piccolo teatro in cui si rappresenta il grande mondo, coi neuroni che fungono da protagonisti e i collegamenti fra di loro da combinazioni drammatiche in cui il grande mondo si riflette. Si sono cercati nella corteccia cerebrale collegamenti fra neuroni che si modifichino in base all'esperienza, e si sono trovati. La legge appare in effetti simile a quella che filosofi e psicologi hanno immaginato: i neuroni che sono stati spesso attivi insieme sono più strettamente connessi fra di loro. Lo si è da poco osservato direttamente, con l'ausilio di 46
minutissimi elettrodi applicati a singoli neuroni della corteccia. Un simile neurone pare riconoscere, fra le molte fibre tra cui è collocato, quelle che sono spesso contemporaneamente attive, e pare stabilire, con queste, collegamenti particolarmente forti. Si può spiegare in questo modo l'intero meccanismo dell'associazione di idee postulato da Locke e da Hume. Ripeto, per concludere: quello che già sappiamo sul cervello non è molto, ma è importante. L'ulteriore sviluppo promette di essere interessante. Suppongo che nuove, più raffinate ipotesi di lavoro svolgeranno un ruolo anche maggiore dei microscopi perfezionati e degli apparecchi elettronici sempre più potenti. Si può ritenere che, sul momento, siamo meglio informati sui dettagli che non sulle strategie del cervello.
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3 · Alla scoperta del cervello
L'editore Springer di Heidelberg ha pubblicato tempo fa un libro intitolato Brain Theory. * La forma singolare inglese implica una certa indeterminatezza, nel senso che non intende affermare l'esistenza di una teoria ultimata. Lo si può rendere meglio al plurale: teorie del cervello o, meglio ancora per chi è interessato a leggere: alcune idee sulla funzione di certe pàrti dei cervelli animali. Questa è stata la tematica di un convegno che si è svolto a Trieste, in un'aula dell'Istituto internazionale di fisica teorica situato nel bel parco del castello di Miramare. Il bianchissimo maniero (la pietra calcarea del Carso stenta a ingiallire) conserva il ricordo di uno degli ultimi guizzi - con esito fatale - dell'alterigia imperiale. Ora la bianca facciata turrita è corredata da un gruppo di edifici moderni, sobri e leggiadri, nei quali si affolla la schiera dei cortigiani di un impero ben più internazionale, quello della fisica moderna. Non si ritrovano a Miramare i generali dell'esercito dei fisici, né gli architetti degli immensi altari delle particelle elementari - quelli operano a Ginevra, a Berkeley o in Siberia-, ma i consulenti dello stato maggiore di una guerra fredda che ha per fine la comprensione del mondo nella forma più astratta: cifre e simboli algebrici su un foglio di carta. L'Istituto è quello dei fisici teorici e, visto che siamo in vena di storia, è facile trovare addentellati locali anche per questa tradizione. * Brain Theory, Proceedings of the First Trieste Meeting on Brain Theory, a c. di G Palme A Aertsen, Springer, Berlino-Heidelberg-New York-Tokyo 1986.
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Ne1 giardino del vicino castello di Duino finì suicida il suergenio della termodinamica, Ludwig Boltzmann; e in un' oteria di Prosecco, paese del Carso a picco sopra Miramare, l'allora ufficiale austroungarico Erwin Schrodinger lesse per la prima volta la teoria della relatività di Einstein, covando il germe di una sintesi destinata a inaugurare tutta un'epoca del pensiero moderno. Che cosa c'entrano i cervelli? C'entrano, eccome. Almeno quello umano che serve per fare la fisica: se non c'è, o se è in qualche modo compromesso o poco sviluppato, la fisica, almeno quella teorica, non si fa. E c'entrano perché i fisici, avendo capito che il cervello serve, sarebbero indegni figli di Galileo Galilei se non si dessero da fare per conoscere meglio anche questo strumento del loro mestiere, dato che il coscienzioso esame dei ferri del mestiere - negli stessi termini in cui si effettua l'esame dell'oggetto stesso - è da sempre stato, da quando esiste, il marchio di fabbrica della fisica. Senonché questa riflessività del mestiere sul mestiere ha portato a complicazioni concettuali anche prima che si parlasse di cervelli, sotto forma di certi paradossi della fisica quantistica che ormai perfino i ragazzini sono abituati a citare. L'indigestione filosofica, a proposito del cervello, è grave. Mi spiego. Per la stragrande maggioranza degli uomini che non hanno avuto agio di approfondire il pensiero di Buddha, Empedocle, san Tommaso o Norbert Wiener, la singolarità della percezione del proprio io, nelle sue funzioni cognitive e volitive, è l'esperienza primaria, fondamentale, irrevocabile, di fronte alla quale ogni esperienza del mondo esterno non ha che un valore relativo. Tanto è vero che i fisici, quando si sono trovati in difficoltà, hanno sempre cercato di ancorare la loro teoria in quello che sembrava il fondamento più insospettabile, il cosiddetto osservabile, vale a dire ciò che entra nella sfera del soggettivo come materia prima, non ancora trasformata dall'elaborazione teorica. Ora, volendo adottare un altro punto di vista, quello della
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scienza del cervello, la sfera della soggettività svanisce e l'io acquista l'aspetto di un curioso epifenomeno che può benissimo essere trascurato senza alcun danno alla coerenza del discorso neurologico: anzi, è bene che si trascuri quando si tratta delle reazioni di un verme o di un insetto, e certamente anche di molta parte delle reazioni di un essere umano. La scienza del cervello si può costruire come una branca della fisica: fisica raffinata finché si vuole, fisica per ora scarsamente sviluppata, ma tendenzialmente fisica e nient'altro che fisica. E qui la faccenda diventa circolare e quindi fonte di ansietà conoscitiva per alcuni, quando si scopre come fondamento di una scienza un oggetto che, per essere ben compreso, ha bisogno di quella stessa scienza. Ma non è di indigestioni filosofiche che si occupa la fisica (tranne che nei momenti di crisi), e tanto meno l'adolescente scienza dei cervelli. Gli atti del convegno di Miramare presentano una serie di sforzi particolari che, nel loro insieme, indicano la strada della nuova fisica dei processi del pensiero. A dir la verità, varie strade. C'è chi abbozza le matematiche del futuro, discendenti da quelle usate dai fisici, ma più consone alle particolari situazioni offerte dall'immenso groviglio di connessioni interne dei cervelli, finora resistente all'analisi precisa. Altri - più aderenti ai risultati sperimentali di quei fisiologi che sondano all'interno del cervello i segnali elettrici che accompagnano i processi della percezione o della locomozione - propongono modelli concettuali che finora mancavano: come avanzare l'ipotesi che si tratta di un orologio a cucù o di una macchina calcolatrice o di un pianoforte automatico dopo aver osservato i movimenti di una singola o di pochissime rotelline di un meccanismo sconosciuto. Evidentemente un lavoro che non può fare a meno di fantasia. Altri partono da certe funzioni che vediamo espletate dal nostro cervello con tanta naturalezza da non renderci conto di quanto poco siano finora state comprese: ce ne accorgiamo solo per le difficoltà che incontrano gli ingegneri quando cercano 50
di iJilitarle nei robot. Funzioni cosiddette semplici: come infilarsi una giacca dalle maniche rivoltate, o gettare un sasso e non cadere. Il teorico allora, nel definire il problema come se si trattasse di costruire una macchina capace di risolverlo, inventa idee che ci illuminano su meccanismi cerebrali della cui esistenza non ci eravamo nemmeno accorti. Altri infine si sforzano di individuare, fra le strutture cerebrali visibili al microscopio, quelle che rappresentano nozioni congenite, per così dire gli a-priori di cui parlavano i filosofi, e quelle che invece rappresentano tracce di memoria, essendo state modificate per effetto dell'apprendimento. Aspettiamo con interesse i futuri convegni di Miramare. Il progresso, in questo campo, è assicurato, e i risultati non mancheranno certamente di rilevanza.
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4 · Scienza del cervello come scienza dello spirito*
Io riesco a considerarmi sotto due profili come uno scienziato dello spirito. Innanzi tutto ogni scienza è scienza dello spirito se non è scienza applicata. Ove non vi sia un mandato di ricerca specifico, anche chi si occupa di scienze naturali tende a un superamento spirituale della natura e alla spiritualizzazione delle esperienze immediate. Lo spirito di questa spiritualizzazione è tuttavia d'un genere che non è compreso da molti scienziati dello spirito: e cioè matematico. La scienza del cervello è però anche sotto un altro profilo scienza dello spirito, e cioè quello d'una scienza che si occupa dello spirito nella sua più concreta condensazione. Sono convinto, assieme alla maggior parte dei miei colleghi, che nel cervello umano sia scritto tutto quello che è stato attribuito all'uomo dalla natura, le sue esperienze e quello che ha ideato da sé: sapere fattosi struttura, essenza concreta dell'uomo, apparato della sua sensibilità e delle sue decisioni. Solo che non abbiamo ancora imparato a leggere questa scrittura, a parte alcuni impacciati tentativi: i primi passi della scienza del cervello quale oggi si pratica. Non so perché talune persone considerino offensivo il parlare dello spirito in connessione con le scienze naturali. Non * La locuzione "scienza dello spirito" ha un sapore molto diverso dal corrispondente termine tedesco Geisteswissenscha/t che abbraccia, nella classificazione accademica, tutte le scienze filosofiche, stonche e letterarie, a esclusione delle (e in contrapposizione alle) scienze naturali Il titolo di questo saggio e la disquisizione contenuta nei primi paragrafi sono dovuti al contesto per il quale fu preparato: un invito di un gruppo di filosofi dell'Università di Magonza
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è stato così in tutte le epoche. E voglio creare un po' d'atmosfera nel rammentarvi un mondo in cui questa reciproca incomprensione non era ancora incardinata. Utilizzo liberamente traduzioni di frammenti di filosofi presocratici.* Quello di cui trattano è la ricerca, nella natura, di semplici modelli concreti di ciò che si conosce - nell'uomo - come spirito o anima. Talete: «La pietra magnetica ha un'anima per. ché è in grado di muovere altri corpi». Pitagora: «Se il corpo consiste di parti, allora l'anima è una specie di reciproca sintonia o armonia delle parti», proprio come nel caso d'una lira, ed esattamente come in uno strumento a corde, «se il corpo si disfa, dev~ naturalmente e istfill:taneame1:1te _sparire l'a: nima» (l'armorua delle corde). Spesse mcrostaz10ru, formatesi nel corso di una lunga tradizione non sempre capace di cogliere i significati originali, nascondono le connessioni per effetto delle quali lo stesso maestro avrebbe anche detto che «l'anima, al momento della morte, passa da un animale all'altro». Altrettanto frammentario è ciò che ci rimane di Eraclito, il quale scrisse che «per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo logos»; e che pure seppe parlare in termini assai più materiali dell'anima: «Per le anime è piacere diventare umide», fatto che non pare loro giovare perché «l'uomo, quando è ebbro, barcolla senza comprendere dove va, dal momento che la sua anima è umida». Anche più in generale, quest'autore considera in termini chimici l'essenza delle cose, perché «se tutte le cose diventassero fumo, sarebbero i nasi a discernerle»; e perfino «nell'Ade le anime odorano». Fra gli scienziati dello spirito della prima antichità non c'erano solo biochimici, ma anche morfologicibernetici (Parmenide): «Il sapere perviene all'uomo come una particolare costellazione delle parti sempre mutanti del suo corpo»; e anche pensatori che intesero sottrarre lo spirito * Per la versione italiana si sono utilizzate traduzioni italiane preesistenti dei testi presocratici menzionati (ndt)
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alle intromissioni della scienza naturale (Anassagora): «Tutte le altre cose hanno parte a tutto, mentre lo spirito è alcunché di illimite e di autocrate e a nessuna cosa è mischiato, ma è solo, lui in se stesso ... Perché è la più sottile di tutte le cose e la più pura, ha cognizione completa di tutto e il più grande dominio, e di quante cose hanno vita, quelle maggiori e quelle minori, su tutto ha il potere lo spirito, anche sul movimento delle stelle, del sole e della luna ... ». Allora non esistevano ancora facoltà universitarie di cui si dovessero rispettare i confini. Lo slan~io poetico e teologico dei P!esocratici non fa più parte dello stile degli scienziati d'oggi. E bensì ancora legittimo integrare carenze di conoscenza con fantasticherie, ma ci si limita ad ambiti ristretti, perché poi emerge abbastanza rapidamente che in settori contigui la propria ignoranza è invece oggetto delle ricerche specialistiche altrui. La scienza si è frantumata in settori. Dubito tuttavia che l'articolazione accademica, e soprattutto quella in facoltà scientifiche e umanistiche, corrisponda davvero a una delimitazione pratica di ambiti d'interesse. È fuor di dubbio che negli ultimi anni molti matematici hanno avuto scambi di idee più vitali con i logici e i linguisti della facoltà filosofica, che non coi fisici, loro tradizionali compagni di facoltà. I neurofisiologi scoprono Leibniz, la biologia comportamentale diventa parte essenziale delle scienze sociali. Non intendo con ciò dire che sia stata ricostruita con queste saldature l'antica unità. Si determinano spaccature nuove, nella biologia per esempio, e specialmente nella neurologia: una spaccatura fra una comunità d'interessi biofisici e una d'interessi logico-cibernetici. Molte enunciazioni su materie biologiche, particolarmente nell'ambito della biologia comportamentale, sono d'una specie tale da essere definite di genere spirituale anche dai più accaniti praticanti di scienze naturali. Sono, soprattutto, le interpretazioni in cui si parla dello scopo d'una particolare struttura. Così, per esempio, la forma d'una penna maestra nell'ala di 54
un uccello si può spiegare con riferi.mento alla funzionalità di uesta forma in relazione all'aerodinamica del volo. Compor{am.enti durante la costruzione dei nidi e la cova si possono descrivere come esempi commoventi della provvidenza con cui madre natura opera verso i suoi figli. Gli occhi splendidamente raffigurati sulle ali di certe farfalle si possono spiegare facendo notare come un uccello da preda che miri alle farfalle può scorgere in quelle immagini a forma d'occhio - che si pale~ano all'i~provvi~o coll'apert~ra de~e ali, pr?spettandoglisi m modo sunmetnco - la coppia degli occhi, rivolta verso di lui, d'un predone mammifero da cui debba a sua volta guardarsi. Si può procedere così anche nell'analisi del cervello. Certe connessioni di fibre fra cellule nervose si possono intendere in senso funzionale quando si constati che un accorto ingegnere avrebbe disposto similmente i fili elettrici d'una macchina elaboratrice di dati. Per i fisici simili spiegazioni, cosiddette teleologiche, sono un orrore. I fisici fra i biologi preferirebbero spiegare il determinarsi delle macchie a forma di occhio sulla farfalla ricostruendo i processi che durante la trasformazione della crisalide producono - mediante la suddivisione cellulare, la specializzazione cellulare e il movimento cellulare - il disegno sulle ali della farfalla adulta. Ed applicano, nel farlo, le regole che hanno appreso per spiegare i sistemi più complessi della natura inanimata. Un bambino tuttavia, che chieda perché lì ci sono due occhi, si sentirà comprensibilmente deluso dalla storia che gli racconterà il fisico. Sarebbe la stessa cosa se, alla domanda perché su un foglio è scritta la frase «Attenzione, non toccare», io rispondessi con questa spiegazione: «Perché il tipografo, durante la composizione per la stampa, ha disposto le lettere in questa successione». Il paragone col tipografo va preso sul serio. Un testo particolare non si può spiegare partendo dalle lettere di cui è composto, perché con quelle stesse lettere si possono scrivere anche altri testi. Per la spiegazione occorre addurre un contesto
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di ordine superiore, per esempio gli interessi comuni fra chi ha scritto il testo e il lettore al quale è destinato. Del tutto analogamente debbo desumere da un contesto più vasto la spiegazione, accettabile per un bambino, dei disegni a forma di occhio sulle ali della farfalla, spiegazione in cui entrino in campo anche altri animali, quelli che devono essere ingannati e quelli i cui occhi sono serviti da modello per la riproduzione sulle ali. Fra coloro che vorrebbero leggere i cervelli come se fossero dei testi, e gli altri, i biofisici, ci sono difficoltà dì comunicazione che degenerano a volte in una totale reciproca incomprensione. Il parlarsi senza ascoltarsi è in questo settore spesso più grottesco di quanto solitamente si riscontri nelle scienze. Una stessa, identica struttura può essere spiegata dai due partiti mediante due teorie che non hanno niente in comune fra di loro, che non si escludono affatto a vicenda, entrambe rigorose, empiricamente fondate e assai verosimilmente corrette. Sono due diverse specie di libido quelle che inducono l'esploratore del cervello ad assumere l'uno o l'altro punto di vista. Nessuno dubita della validità dell'altro punto di vista, ma nessuno* è finora riuscito a combinare gli argomenti dell'una e dell'altra specie. La connessione si può trovare nella teoria dell'evoluzione, un episodio di scienza dello spirito che è troppo monumentale per essere esaurito in un sol fiato. Più oltre ci soffermeremo su alcune idee che sono scaturite dalla prima specie di libido, quella logico-cibernetica o, se vogliamo, d'impronta spiritual-umanistica. Una caratteristica della scienza del cervello, che ricorda le scienze dello spirito, è che vi si specula più di quanto sia consueto nelle scienze naturali. Questo dipende dalla complessità dell'oggetto di cui questa scienza si occupa. Dal momento che le peculiarità che emergono dalla connessione di molti elementi, per esempio di molte cellule nervose nel cervello, * Fino a Olaf Breidbach, nel suo brillante saggio premiato dalla Fondazione per lo studio della filosofia (Korschenbroich)
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non si possono dedurre semplicemente dalle peculiarità degli elementi costituenti, e divengono talora chiare solo a un più elevato livello di analisi, anche le costruzioni teoriche debbono farsi alquanto complesse prima che valga la pena di compararle con la realtà. I fisici non lo fanno volentieri; preferiscono procedere a piccoli passi e comparare passo dopo passo con la realtà le ipotesi che hanno elaborato. Definiscono speculazioni, e le respingono in linea di principio come pericolose, le costruzioni troppo estese che collegano l'una osservazione all'altra. Per questo gli esperimenti fatti coi grandi calcolatori, e noti come «intelligenza artificiale», non sono per lo più accettati come un contributo alla neurologia da parte di coloro che sono impostati in termini biofisici. Si tratta di tentativi d'imitare comportamenti animali o umani mediante un'accorta programmazione delle macchine, e lì per lì non s'attribuisce particolare importanza al conferire o meno alla struttura del computer quel che forse già si conosce dei meccanismi cerebrali che sono normalmente alla base di queste prestazioni. Si è così tentato, in un laboratorio di «intelligenza artificiale», di far eseguire a un braccio guidato da un occhio artificiale delle costruzioni a blocchi secondo un certo disegno. Oppure si è sollecitato il computer a cercare nuove dimostrazioni di teoremi della geometria euclidea. Questi giochi, al primo tentativo, sono spesso coronati da sorprendente successo, ma si aggrovigliano poi per lo più in una rete di insospettate difficoltà logiche, la cui soluzione conduce a un'approfondita comprensione della natura dell'intelligenza. L' «intelligenza artificiale» è attualmente alle prese con rapidi progressi in diversi settori specialistici, compresi quelli della creazione e della comprensione del linguaggio. Se da un lato sarebbe imprudente trarre dalla strategia di simili giochi conclusioni relative ai modi di funzionamento del nostro cervello, sarebbe anche sciocco d'altra parte se, in uno stadio ulteriore, ci rifiutassimo di inserire le nozioni acquisite, a titolo di «psicologia sintetica», nella psicologia empirica. Perché 57
probabilmente non esistono poi tante possibilità di arrivare in modo ottimale (vale a dire parsimonioso ed efficiente) alla soluzione d'un particolare problema per non dover supporre che l'evoluzione dei cervelli e l'invenzione dei computer - che soggiacciono entrambe a limitazioni economiche - abbiano seguito percorsi simili. Qui un procedimento mentale, che si definisce «inventare» nella tecnica, diventa elemento costitutivo del metodo scientifico: per interpretare una certa parte del cervello, è lecito inventare, partendo da quel poco che se ne sa, un apparecchio che dia la stessa prestazione, per poi comparare la struttura dell'apparecchio con la struttura della parte corrispondente di cervello. L'occuparsi dell'intelligenza - quella naturale e quella sintetica - produce un'interessante conseguenza emotiva nel gioco interattivo fra lo scienziato e il suo oggetto. Se durante l'osservazione d'un pezzo di cervello s'inventa un meccanismo particolarmente astuto di cui si potrebbe supporre che sia lì di casa, ogni nuova conoscenza sperimentale su quella parte di cervello costringerà owiamente, e a ragione, a correggere l'ipotesi inventata. L'interessante è che si constata continuamente come le reali funzioni cerebrali siano molto più efficienti di quelle immaginate per spiegarle. Ci si trova insomma di fronte a un interlocutore intelligente: il dover rinunciare a talune idee non ha allora un effetto deludente, perché vi si impara qualcosa di meglio. Nella fisica invece il partner contro cui si gioca è solo riottoso, non intelligente. Ora voglio tentare d'introdurre il termine «informazione» nel suo significato tecnico, poiché anch'esso ha contribuito ad aprire una breccia nella barriera fra le scienze dello spirito e quelle naturali. Se si vuole inviare il maggior numero possibile di telegrammi nel minor tempo possibile attraverso un filo, si constata presto che un filo non è in grado di reggerne più d'una certa 58
uanùtà. Se lo si carica eccessivamente, dall'altro capo ven-
iono fuori testi sbagliati oppure non più comprensibili. Un
filo ha dunque - come si suol dire - una determinata «capacità di canale». Due fili, utilizzati in parallelo, possono trasmettere il doppio di telegrammi rispetto a uno solo, hanno quindi una capacità doppia. Oltre al numero dei fili di cui è composto un canale di trasmissione, hanno importanza una specie di versatilità elettrica del singolo filo (cioè la frequenza massima della corrente alternata che è in grado di trasmettere) e, naturalmente, anche la quantità dei disturbi (come si può sperimentare nel caso d'una trasmissione radiofonica di scadente qualità). Però: che tipo di sostanza è quella contenuta nel telegramma e che si può trasmettere attraverso il filo? La quantità si può misurare anche nel telegramma: dipende dalla lunghezza del testo e (dal logaritmo) del numero di lettere dell'alfabeto che utilizzo. Questa grandezza è stata definita anche con un termine filosofico: informazione. La faccenda diventa tecnicamente e concettualmente interessante solo quando si noti che diversi telegrammi d'uguale lunghezza contengono diverse quantità d'informazioni, perché hanno una diversa «ridondanza». Un telegramma in cui, per sicurezza, ogni parola sia ripetuta consecutivamente due volte, è ridondante rispetto a un telegramma della stessa lunghezza che trasmetta un testo semplice. I telegrammi di auguri sono ridondanti, perché la notizia trasmessa potrebbe essere compressa nell'essenziale «Taldeitali congratula». I testi ridondanti contengono meno informazioni di quelli non ridondanti e potrebbero dunque, senza rimetterci, essere compressi in testi più brevi: tuttavia è possibile che, nel far questo, ci si debba servire di un altro modo di scrivere. Lo si chiama «codificare». In questa maniera si può inviare molto più testo per unità di tempo attraverso un filo o un canale di trasmissione ad onde radio di quanto si potrebbe fare nello stesso tempo senza disporre di nozioni di teoria dell'informazione. 59
Chi avrebbe mai supposto che i tecnici si sarebbero sofferma. ti sulla struttura e perfino sul significato dei testi per fornire ai loro committenti sistemi telegrafici parsimoniosi e il più possibile efficienti? La compressione di notizie ridondanti è un concetto che nel frattempo ha trovato accesso anche nel linguaggio comune. Il senso con cui queste parole si leggono sul giornale non è sempre esattamente quello originariamente inteso, ma potrà migliorare non appena la teoria dell'informazione diverrà parte integrante dei piani di studio liceali. Anche in neurologia si sentono talora usare espressioni desunte dalla teoria dell'informazione. Si dice, per esempio: gli organi di senso della rana codificano l'ingresso in modo parsimonioso, sfruttando la ridondanza insita nell'ambiente in cui vivono. E preferisco non soffermarmi sul problema se, qui, le espressioni tecniche siano state alterate meno che nel caso d'un giornalista che parli d'una «situazione politica ridondante». Il patrimonio concettuale della teoria dell'informazione, o, più in generale, della tecnica delle comunicazioni, offre un linguaggio certamente adeguato per la teoria cerebrale, solo che i sistemi studiati nel cervello sono spesso così aggrovigliati e difficilmente analizzabili che si possono usare i concetti tecnici solo nel loro senso filosofico, non come elementi costitutivi d'una teoria matematica. Per il dato di fatto sperimentale che l'occhio della rana non trasmette al cervello della rana - per esempio alla stregua d'una telecamera - un'immagine del mondo circostante, bensì solo segnali di oggetti più grandi e più piccoli in movimento, c'è una spiegazione semplice: l'occhio coglie molte più informazioni di quante siano importanti per la vita della rana. L'esatta trasmissione dei valori d'illuminazione di tutti i punti del campo visivo risulterebbe ridondante per la rana, poiché tutto ciò che le risulta essenziale si può comprimere in espressioni sul tipo di «Qui c'è una mosca che si muove e quindi: acchiapparla», oppure, «Qui s'avvicina una cicogna e quindi: saltare in acqua». Il 60
}inguaggio dell'ambiente è oltre modo ridondante rispetto al poco cl-1:i occo~~e reagire. E si ~ompre?-de co1:1~ si~ ragionevole codificare grn nell'organo d1 senso m termm1 d1 un alfabeto che meglio corrisponda alle esigenze vitali della rana. Un tecnico delle comunicazioni puntiglioso prova tuttavia a questo punto un senso di disagio. Chiederà: dov'è la «sorgente di informazione» (nell'ambiente circostante, nell'occhio)? E dov'è il ricevitore (nella rana ancora, o nel nervo ottico)? Quanti bit al secondo produce il panorama che è attorno alla rana, lo stagno cioè con tutti gli animali e le piante, e quanti sono i bit quando la rana si muove? Possiamo rispondere in questo modo al tecnico delle comunicazioni: sarebbe sciocco rinunciare a concetti chiarificatori come energia o informazione solo perché la biologia non è ancora in grado di misurarli esattamente. Anzi, diremo: il concetto d'informazione, inventato dai tecnici per situazioni decisamente artificiali, può acquistare profondità solo quando mostriamo come si applica ai sistemi biologici, e particolarmente al cervello, che è poi il suo luogo d'origine. I nonni degli studenti d'oggi studiavano ancora la logica al liceo, in diretta continuità con l'antichità. S'intendeva per tale una rudimentale formalizzazione del «concludere» secondo il modello della sillogistica aristotelica. Quando la filosofia fu tolta dai piani di studio, non passò molto tempo che - con approvazione generale - la logica fu reintrodotta nelle scuole attraverso la porta di servizio costituita dall'insegnamento della matematica nella forma speciale dell'insiemistica. Con maggior successo dei compilatori dei piani di studio, sono stati però gli esperti di elettronica a far propaganda per la logica. Si utilizza il «calcolo delle proposizioni» (o la logica di Boole) per progettare i circuiti per collegamenti telefonici e per descrivere la struttura dei computer. S'è cominciato - e questo è stato certamente un progresso decisivo rispetto alla logica dei nonni - a parlare della logica al plurale, di diverse logiche dell'una o dell'altra specie di computer. Perché non si 61
dovrebbe dunque parlare d'una logica del cervello, d'una lo. gica del sistema visivo d'una mosca, per esempio, o d'una logie~ della corteccia cerebrale? E una rappresentazione sicuramente adeguata ai processi che avvengono nel cervello, se si considerano le attività degli organi di senso come proposizioni sull'ambiente circostante e le atti~t~ dei neuroni nel ce~~llo,_ che sono influen~ate dagli orgam d1 senso, come propos1z10m complesse, le cm parti co. stituenti sono le proposizioni elementari sensoriali. Le regole secondo cui, con proposizioni elementari, si costruiscono proposizioni complesse e che consentono di trarre dalla esattezza o dalla erroneità delle proposizioni elementari conclusioni sulla esattezza o sulla erroneità di quelle complesse, sono definite nel calcolo logico. I «connettivi» del calcolo . «o ... o... », «né... né ... », « ... però non ... », « ... e... » - debbono allora, nell'applicazione al cervello, corrispondere alle connessioni funzionali di cellule nervose all'interno del cervello o di cellule sensoriali con cellule nervose. Curiosamente, i tre modi di collegamento di neuroni fra loro - inizialmente accertati mediante analisi elettrofisiologiche (senza riferimento alcuno con la logica e senza intenti speculativi) - sono proprio quelli che corrispondono ai tre connettivi logici storicamente più importanti: congiunzione, disgiuna zione, negazione. Si può costruire un calcolo logico anche con l'ausilio di altre combinazioni di connettivi, perfino con un unico connettivo logico accuratamente scelto, però sia nella prima formulazione del calcolo delle proposizioni nel1' antichità, sia in occasione della rinascita della logica matematica nel secolo scorso, ci si è serviti delle forme « ... e... », «... e/o ... », «non ... ». È stata la tradizione classica, di cui i neurofisiologi sono compenetrati, a prenderli per mano sino a indurli inconsciamente a scoprire prima, nella complessità delle funzioni nervose, ciò che corrispondeva alle formalizzazioni dei logici? Oppure gli stoici colsero le funzioni fondamentali di congiunzione, disgiunzione, negazione perché, per effetto
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delle leggi neurofisiologiche che agivano nei loro stessi cervelli, non potevano nemmeno fare diversamente? Con questa domanda, in cui si riflette l'idea d'una fondazione neurofisiologica della logica, voglio concludere: però intendo anche mostrare sotto un altro aspetto della logica tradizionale come quest'ambizioso progetto non sia del tutto infondato. Chi ha familiarità con la logica aristotelica, che ha dominato il campo per duemila anni col nome di sillogistica, si sarà forse chiesto perché questo sistema basato - arbitrariamente, in apparenza - su enunciati del tipo «tutti gli A sono B», «nessun A è B», «alcuni A sono B», «alcuni A non sono B», abbia avuto tanto successo. La mia supposizione è che nella forma di queste espressioni si rispecchi un aspetto importante della funzione cerebrale. L'espressione «tutte le mele rosse sono dolci» corrisponde a un fondamentale modo d'operare del cervello perché si basa sull'associazione fra rosso e dolce, e perché l'associazione è la base più importante per il determinarsi di strutture all'interno del cervello. Esistono specifiche dimostrazioni sperimentali in questo senso, l'illustrazione delle quali supererebbe tuttavia la tolleranza d'un pubblico propenso a una scienza umanistica nel senso più tradizionale. Io spero che il lettore, sollecitato da queste considerazioni, si metta nella condizione di poter dare personalmente un'occhiata nei nostri laboratori, nei quali si riduce lo spirito, nel senso presocratico, a «particolari costellazioni delle parti sempre mutanti del corpo».
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5 · Viaggio nel cervello ingrandito mille volte
I vecchi libri di neuroanatomia, nei quali erano raccolti molti particolari sulla struttura delle cellule nervose e delle loro connessioni nei cervelli animali, già negli anni Trenta non interessavano più nessuno. Allora era in grande voga l'elettronica, e con gli strumenti derivati dalla tecnologia della radio, si era cominciato a registrare segnali elettrici all'interno o sulla superficie dei cervelli: segnali in qualche modo collegati con l'attività percettiva o motoria. Si era così creata una via diretta di accesso all'attività cerebrale, anzi a ciò che sempre più insistentemente si proponeva come l'altra faccia dell'attività mentale. Nell'ebbrezza elettronica nacquero le neuroscienze con tante nuove specialità, la neurobiochimica, la nuova scienza del comportamento, l'analisi quantitativa della percezione, la modellistica a base di computer. Abbiamo così imparato molte cose, ma il punto centrale la relazione fra i fenomeni cerebrali e quelli psicologici - ci rimane oscuro. Diciamo che il cervello è una sorta di computer, ma nello stesso tempo ci rendiamo conto che non è molto simile ai calcolatori digitali di oggi, né per la natura degli elementi di cui è composto, né tanto meno per la struttura delle loro connessioni. Nasce il sospetto che il segreto risieda proprio nello schema delle connessioni: ed ecco che si rispolverano i vecchi libri di anatomia, si ripetono le vecchie ricerche e si introducono nuovi metodi per rifarle con maggior precisione. Il risultato è un'immagine del cervello che mi propongo di descrivere per sommi capi. 64
J-Io notato che quando i neuroanatomici discutono su qualche particolare della struttura cerebrale, i gesti che fanno per delineare in aria una cellula nervosa o una connessione, e i disegni che scarabocchiano sulla lavagna,. rappresentano la realtà ingrandita pressappoco mille volte. E questo evidentemente l'ingrandimento che riporta i problemi microscopici alle dimensioni che ci sono familiari: quelle delle nostre azioni quotidiane. E capita anche di considerare ingrandimenti molto maggiori: il mio microscopio elettronico ingrandisce fino a un milione di volte - il corpo umano ingrandito tanto da estendersi dalle Alpi alla Sicilia - e allora si vedono singole molecole di proteine navigare sulla superficie di laghi di lipidi: e si può parlare eventualmente di biochimica, ma non ha più senso parlare di calcolatore biologico. All'ingrandimento «naturale» che dicevo, di mille volte (che è poi quello del normale microscopio ottico), la struttura cerebrale si presenta più o meno così. L'intero cervello ha le dimensioni di una grande cattedrale lunga 150 metri e alta 100. All'interno ci sono complicate grotte e gallerie lunghe e larghe qualche decina di metri, ma la maggior parte dell'immenso volume è occupata da una matassa di fili, o meglio di tubetti dello spessore di un millimetro - poco più o poco meno - che vanno in tutte le direzioni, in un intrico così fitto da non lasciare spazio fra un tubetto e l'altro. Alcuni tubetti sono ramificati e formano degli alberelli che si estendono per una ventina di centimetri o forse per mezzo metro; altri, molto più lunghi, si riesce con un po' di fortuna a seguirli nel loro percorso attraverso tutta la cattedrale o addirittura negli scantinati, dove imboccano i canali che collegano la cattedrale con gli edifici che contengono i servizi ausiliari, esecutivi o di raccolta di informazioni, distanti da poche decine di metri fino a più di un chilometro. La matassa di tubetti sottili, non più spessi delle corde di minugia di un violino ma così numerosi da riempire tutta la basilica di san Pietro, si oppone ovviamente all'analisi. Non è 65
possibile seguirli uno per uno, perché sono troppi. Camillo Golgi di Pavia, oltre cento anni fa, scoprì per caso che versando certe sostanze (il bicarbonato di potassio e il nitrato d'argento) sulla matassa, si forma un immondo precipitato nero che però in alcuni punti, arrivando all'interno di qualche tubetto, lo riempie tutto. In questo modo, guardando la massa in trasparenza, fra gli altri tubetti che contengono solo liquido incolore, spiccano quelli contenenti bicromato d'argento: e si possono seguire comodamente. Oggi gli specialisti dell'analisi del cervello hanno a disposizione tecniche diverse, e ogni anno ne inventano di nuove, in gran parte basate sulla scoperta che il liquido all'interno dei tubetti si muove lentamente, e parte di esso si può muovere in una direzione e parte nell'altra, cosicché, iniettando sostanze opportunamente colorate attraverso la parete dei tubetti, esse si sposteranno lontano e potranno servire a chiarire la destinazione e l'origine dei singoli tubetti. A un estremo di ciascun tubetto si trova, in ogni caso, un ingrossamento a forma di rapa, del diametro che varia da uno a dieci centimetri, tanto più grande, in genere, quanto più lungo e grosso è il tubetto stesso. Questo è il «corpo» della cellula nervosa, detto soma nel gergo della neuroanatomia, e il tubetto corrispondente si chiama il suo assone. Dal soma si dipartono altri prolungamenti, di forma un po' diversa da quella dell'assone, i cosiddetti dendriti, che hanno l'aspetto delle radici di una pianta, e infatti ci sono buone ragioni per identificarli come le radici del sistema dendriti-soma-assone, perché da li hanno origine gli eventi che costituiscono il lato funzionale della faccenda. Andando avanti nella nostra indagine, cominciamo a distinguere vaste zone della cattedrale che contengono solo tubetti-:assoni, mentre in certe zone vicine alle caverne centrali e soprattutto in una crosta periferica spessa due metri - che avvolge, variamente pieghettata, tutto il resto della matassa abbondano i corpi cellulari e i dendriti. Questi ultimi non so66
no mai più lunghi di un metro o un metro e mezzo, e quindi ri1llangono confinati in queste zone specializzate che si chiaJilallO sostanza grigia, a differenza degli assoni che vanno oltre, nella cosiddetta sostanza bianca. Nella crosta pieghettata Qa corteccia cerebrale) i corpi cellulari stanno alla distanza di uno o due centimetri l'uno dall'altro e, facendo bene i calcoli, si constata che il loro numero è di una decina di migliaia di Jililioni e che altrettanti quindi sono i tubetti-assoni: pari al numero degli uomini sulla Terra. Leggiamo nei libri di fisiologia che è in queste zone specializzate, contenenti i dendriti e i corpi cellulari, che i neuroni (così si chiama l'insieme dendriti-corpo cellulare-assone) si influenzano a vicenda per fare ciò che nel linguaggio dell'informazione si chiama un calcolo. A questo punto occorre introdurre nella cattedrale un microscopio capace di un ulteriore ingrandimento di duecento volte. Si arriva così alla potenza del microscopio elettronico. Ed ecco che sulla superficie dei dendriti e degli alberelli in cui si sfioccano gli assoni dalla parte opposta rispetto al corpo cellulare, si scoprono tante piccole placche che ci erano sfuggite prima perché troppo minute (pochi decimi di millimetro nell'ingrandimento che fa del cervello una cattedrale). Le placche sono tantissime, migliaia o addirittura decine di migliaia per ogni neurone. Ora il bello è che ciascuna placca sull'alberello assonico combacia esattamente con una placca su un dendrite (o sul soma) di un altro neurone: e alla coppia di placche così corrispondenti possiamo dare un nome, quello di sinapsi, e possiamo immaginare (con tante buone ragioni sperimentalmente verificate) che è attraverso queste sinapsi che i neuroni si influenzano a vicenda, trasmettendo certe sostanze dall'assone di un neurone ai dendriti o al soma di un altro. E così abbiamo visto tutti i particolari che formano la base di una possibile spiegazione della funzione cerebrale in termini strutturali. Siamo arrivati al punto di conoscere abbastan67
za bene i fili, i transistori, i diodi, i condensatori e le resisten. ze di un apparecchio elettronico. Ma il vero segreto risiede nel circuito. Una radio, un calcolatore, un oscillografo sono fatti tutti con gli stessi elementi. La differenza sta nello schema delle loro connessioni. Ed è ab bastanza certo che lo schema, nel caso del cervello, è molto diverso da quelli di qualsiasi macchina elettronica attualmente esistente.
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6 · Tentacoli della mente ovvero: Al ricercatore conviene pensare
I . Discorso ufficiale rivolto a un'assemblea di embrioni che hanno appena raggiunto la maturità sessuale L'uomo è un embrione di scimmia sessualmente maturo. Bolk, 1926
Spettabile ed eletta assemblea! Fra un'eternità e l'altra ci sia consentito, in questo momento solenne, di fermare l'attimo fuggente in cui ciò che è stato si trasforma in ciò che sarà, alle nostre spalle e senza nostra partecipazione, anzi senza che la nostra tremula, fluttuante presenza si lasci localizzare con certezza, se zoppichi dietro la cesura fra le eternità oppure le preceda, previdente. Perché il nostro essere così ed essere qui ed essere ora nel flusso dei tempi altro non è che un'onda inappariscente che si sgonfia senza che si sappia nemmeno se s'infrangerà per spargere per alcuni istanti alcuni fiocchi graziosi di spuma oppure se svanirà nella corrente del non più rivedersi. Eppure: noi siamo immersi in un mondo, e questo mondo è solido e svolge il suo misurato corso secondo leggi conoscibili. Noi, dotati d'un frammento minuscolo di solidità prestatoci dal mondo per la durata della nostra breve vita, vi tesaurizziamo i brandelli di sapere che il caso ci consente d'arraffare. Quasi ciechi come siamo nella nostra minuscola sostanza, barcolliamo per il mondo e ci sforziamo di comprenderne il corso, componendo i brandelli in tappeti secondo svariati modelli, con buchi e frange e pezze sparse, sì, eppure percepi-
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bili come immagini. Qua e là ci pare di scorgere che i bordi del tappeto s'uniscono, tanto che sognamo d'un sacco chiuso da ogni parte, senza buche né pezze, in cui annidarci nella nostra piccolezza, avendo però tutto quello che del mondo si sa a portata di mano. Un sacco di questo genere, signore e signori, è la concezio. ne del mondo a cui tendiamo. Ma come, mi chiederete, soltanto noi oppure anche ogni essere vivente, animale che sia, o pianta o batterio, tutto ciò che in terra si riproduce e trasmette saggezza esistenziale ai figli, ai nipoti e pronipoti? Il verme che sguscia dall'uovo e divora la sua mela, non contiene forse in sé la conoscenza dei processi biochimici che lo indurranno più tardi, tramutato in tignola, a svolazzare con determinazione verso il melo più vicino e a deporre le uova in quelle mele in cui sa ben riposta la futura generazione di vermi? Il vitigno che volge i suoi tralci attorno ai piccoli rami e ai fili arrugginiti non sa forse delle bufere che d'inverno minacceranno la sua esistenza? Nella coda mozzata d'un geco in pericolo, che si torce ancora per qualche tempo mentre l'animale mutilato conserva una glaciale immobilità, non c'è forse la conoscenza di ciò che avviene nel sistema nervoso centrale d'un gatto e che gli fa apparire ciò che si muove molto più appetitoso di ciò che è immobile? E in questa stessa fisiologia del sistema visivo non è insita una conoscenza dei pericoli connessi al nutrirsi di animali morti, in putrefazione? Anzi, la modesta spirocheta pallida non sa forse già talune cose sulle abitudini dell'essere umano quando - lei che è in grado di penetrare solo attraverso le mucose - fa fiorire le pustole del secondo stadio della sifilide proprio in quelle zone della pelle con cui le mucose della prossima vittima verranno con molta probabilità a contatto? Basta così, basta così: lorsignori hanno ovviamente ragione. Ogni vita è una teoria, ogni generazione un'ipotesi e la sua sopravvivenza un esperimento: tutto annotato e trasmesso nell'archivio delle molecole giganti, nei nuclei cellulari del70
la sostanza vivente. Ma non è per festeggiare questo che ci sia.IllO qui oggi riuniti. Noi festeggiamo la maturità, miei cari eJilbrioni divenuti fertili, quella maturità che rende ora possibile a lorsignori, come a me già da tempo, di sperimentare la condizione dell'incompletezza come una condizione definitiva e di trasmetterla come tale ai successori. Perché in questa incompiutezza, che è la nostra massima virtù, sta la chiave di tutte le compiutezze di cui vorremmo impossessarci. A noi è risparmiata quella completa formazione della adulta esistenza scimmiesca che ci colpisce così sgradevolmente nelle scimJilie nostre cugine. La nostra vita meravigliosamente estesa ci rende, già in un'età infantile deliziosamente prolungata, capaci di riproduzione: e nel complesso, per numerosi che questi anni siano, non andrà oltre gli anni dell'adolescenza. Il tempo dei giochi, l'evanescente primavera della vita, durante la quale lo scimmiotto, per breve tempo sottratto alla crudeltà del processo darwiniano, procede rapidamente a una sommaria e privata esplorazione dell'ambiente immediatamente circostante, è per noi la vita vera e propria. Anzi, l'atto della riproduzione, l'unico contributo possibile che le scimmie nostre parenti possono dare alla genetica che determina ampiamente lo stile di vita della loro specie, ha perso con lo spostamento nell'età dei giochi molta parte della sua drammaticità e ci è ora fonte di gioia, quale mezzo di comunicazione fra individui e non fra genomi. Perché noi e soltanto noi fra tutti gli esseri viventi che popolano questo mondo quali concezioni del mondo incarnate, esposti alle faticose esperienze della tragedia darwiniana e ai pericoli del gioco d'azzardo genetico, solo noi trionfiamo sulle molecole giganti e siamo in grado di contrapporre al progetto insito in esse quello nostro proprio. Perché l'età dei giochi è l'età delle esperienze, e gli anni dell'adolescenza che formano la nostra vita sono l'età della speculazione. Altri oratori festeggino in future riunioni l'individualità dell'uomo, o la sua libertà, o la sua superiorità su tutte le forme non umane dell'intelletto. A me sia invece 71
consentito di esaltare quest'una dote umana come la massima e la più completa, la capacità cioè dell'uomo, che scaturisce dalla sua continua incompiutezza, di confrontarsi durante tutta la vita con la realtà mediante costruzioni individuali dell'intelletto: la creazione di teorie! (Fine del discorso ufficiale.) II · Della mia attività
La mia specialità, quella per cui sono pagato, è l'osservazione al microscopio di strutture cerebrali finemente sezionate. Quel che conta, ovviamente, è ciò che - quale fotografo e scrittore scientifico - pubblico poi in fatto d'immagini e di riflessioni. Molte strade portano dall'osservazione alla rappresentazione: sono tante che, ogni qual volta uno pensa di averle considerate tutte, si fa avanti qualcuno a indicare una strada nuova. Io non posso percorrere tutte le strade: una sola, oppure pochissime. La scelta della mia strada è un atto discrezionale, poetico, che scaturisce da una concezione che precede l'osservazione, o che si determina durante l'osservazione, prima ancora di averla ben compresa. E cosi io, che mi ero mosso per descrivere fedelmente la natura, mi ritrovo con mia stessa sorpresa a essere un teorico. E scopro che la teoria è una componente necessaria del nostro mestiere e che quelli fra i miei colleghi che non lo hanno ancora capito o lo negano addirittura, hanno in realtà solo inconsapevolmente assunto come verità le teorie altrui. Quando osservo per la prima volta al microscopio una sezione d'un pezzo di cervello a me sconosciuto, forse preparata con una nuova tecnica di preparazione, la prima impressione è quella d'una confusa raccolta di scarti di svariati tipi di verdure esotiche. La visione sarebbe disperante, se non sapessi per esperienza che la calma osservazione delle strutture porta ogni volta, lentamente, a un chiarimento. Il processo è 72
sempre lo stesso, i suoi gradi rispecchiano probabilmente le leggi generali di elaborazione delle informazioni. In un primo l]lOUlento la memoria visiva assorbe immagini senza isolare sistematicamente o identificare addirittura i dettagli. Poi, ripetendo ~'osservazi?ne e particola~mente osservando più ~olte diversi esemplan dello stesso tipo, emergono elementi la cui denominazione diviene il punto di partenza per una concezione verbale, linguistica della situazione. Si nota subito che i pezzi del discorso possono essere elementi diversi, a seconda del tenore della storia in cui si pensa d'inserirli. E naturalmente la storia acquista forma solo quando gli elementi emergono dall'iniziale confusione. Così il senso condiziona i segni, e l'insieme dei segni produce il senso. La reciprocità è importante e del tutto generale: la si può osservare, per esempio, anche nell'ambito del linguaggio. Quando un testo è comunicato in modo poco chiaro, come in una trasmissione radiofonica disturbata, i singoli fonemi (vulgo: le varie lettere) si riconoscono appena, però nel loro insieme si colgono parole intere, e queste sono percepite come se i fonemi di cui consistono fossero stati ascoltati con tutta chiarezza. Del resto, nella percezione del linguaggio il reciproco condizionamento di senso e di segno vale anche al livello immediatamente superiore: singole parole sono riconosciute se si compongono in frasi (specialmente nelle lingue che non si conoscono ancora bene); e in quello ulteriore ancora: intere frasi sono comprese se ne risulta un senso logico. Il morfema (vulgo: la parola) giustifica i fonemi, la frase giustifica i morfemi, il racconto giustifica la frase. Una volta che io abbia riconosciuto e identificato al microscopio gli elementi strutturali, segue la fase successiva, quella dell'abbandono passivo agli elementi dati. Scopro così alcune norme che valgono per gli svariati elementi. Fibre d'una certa specie sono disposte sempre nella stessa direzione, nuclei cellulari piccoli e scuri sono disposti spesso in prossimità di grandi nuclei chiari, fibre fittamente ramificate fanno parte 73
di cellule dal corpo cellulare tondeggiante, e così via. Annoto queste correlazioni e le convalido mediante osservazioni ulteriori. E sarei così giunto al punto di poter trascrivere le mie scoperte e di pubblicarle su un periodico specializzato, a patto però che siano originali, a patto cioè che un altro prima di me non l'abbia già fatto: ma non originali al punto da con. traddire totalmente l'opinione corrente. In tal caso infatti con ogni probabilità, la pubblicazione verrebbe rifiutata dai colleghi che redigono il periodico. Di solito mi concedo parecchio tempo per la pubblicazione, poiché ho nel mio istituto una posizione tale che non si pretende tanto da me la prova d'una continua solerzia sperimentale, quanto la pianificazione di ben ponderati progetti di ricerca. I risultati cui pervengo m'interessano soprattutto in relazione ai problemi che mi piace dibattere con gli amici. Segue dunque la fase delle discussioni e della solitaria meditazione. E in questa fase si lavora attorno alle teorie con l'obiettivo di far emergere i fatti in un quadro semplice e di comporre le loro connessioni in una storia che sia facile da raccontare. Le discussioni avvengono per lo più davanti a una lavagna: uno va su e giù e pensa, un altro si distende su una sedia a sdraio, un terzo cerca di trasformare sulla lavagna - in un disegno, in una formula o in un grafico - uno schema che gli si è profilato in mente. Le discussioni proseguono durante il pranzo o passeggiando. La meditazione avviene dove capita, particolarmente bene in treno o nella vasca da bagno. In uno stadio progredito della formulazione della teoria, la meditazione si fa onnipresente, continua a emergere, attesta fin dal risveglio la mattina il suo effetto anche sui sogni, e anche nelle discussioni il proprio pensiero si cristallizza sempre di più e si impone con prepotenza rispetto a quello degli altri. Se si ha fortuna - due o tre volte nella vita forse - uno riesce a mettere insieme una storia in grado di persuadere tutti. Inizialmente se ne è personalmente convinti, tutto d'un trat-
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·to, quando, pe~ una for!~nata svlta d~l pe~siero o per una nuova osservaz10ne, tutti 1 dettagli appa10no rmproVVIsamente come componenti necessarie di un sistema semplice. Quel che agisce in md? così p~rsua~ivo è il contempraneo scioliersi d'una sene mtera d1 nodi che parevano pnma rendere frnpossibile la soluzione del groviglio. Prima s'era lavorato su singoli nodi, col solo risultato di scoprirne degli altri. Poi improvvisamente la soluzione di una difficoltà sembra risolvere anche le altre. La plausibilità soggettiva è del tutto convincente. Eppure ciascuno ha sperimentato come spesso si formi nella nostra testa un quadro che, come per prenderci in giro, pare comporre meravigliosamente una quantità di fatti, eccetto alcuni pochi dai quali poi emerge che tutto è sbagliato. Ci torneremo su, più particolareggiatamente. Il dubbio di p~cipi~, che è a~trettanto forte d~lla conv~nzione_sogget~iva, mitiga l'Ira che s1 prova quando 1 colleghi non s1 associano subito all'entusiasmo. Si vorrebbe interpretare il loro scetticismo come incapacità di capire, come invidia o addirittura come malafede. Occorre esercitare la propria pazienza e costruire sullo scetticismo altrui nuovi sostegni per la propria teoria. Una buona idea, alla fin fine, risulta sempre contagiosa. Nel mio specifico settore continuo a riconstatare con mia sorpresa (pur sapendolo già da tempo) che una qualche teoria è accettata solo, anzi, è compresa solo quando si adatta a un'immagine preesistente in colui al quale la prospetto. Forse nella fisica o nella cosmologia avviene lo stesso. Fra noi biologi comunque gli opposti preconcetti offrono spesso lo spunto a grotteschi equivoci o incomprensioni. Come spiegazione d'una struttura o d'un comportamento biologici si possono infatti intendere cose assai diverse. L'uno vorrebbe sapere solo quali forze sono intervenute quando, nell'evoluzione dell'essere vivente da un uovo fertilizzato, per esempio da quello d'una zebra, s'è determinata quella ~erta struttura, per esempio la rigatura bianco-nera del pelo. E già molto soddisfatto se riesce a figurarsi come in un primo stadio le cellule 75
che contengono il pigmento scuro si sono separate dalle altre che non lo hanno, forse per reciproca ripulsa, e si sono quindi disposte a strisce: e ritiene di aver così spiegato la zebra. Se pros~gu_e r:i-elle ~ue riflessioni, approda _eventualmente a pro. blenu d1 b10logia molecolare: come avviene che certe moleco,. le inserite nella membrana cellulare provocano la reciproca ripulsa delle cellule, e altre l'affiggersi delle une cellule alle altre? E poi vuole sapere ancora come funziona il micromeccanismo attraversato dalle filiformi molecole giganti della sostanza ereditaria, tanto che ne scaturiscano dall'altra parte proprio quelle particolari molecole proteiche che determinano l'affiggersi, il respingersi, l'incurvarsi, il crescere, il secernere e il morire delle svariate cellule. Un nobile progetto, certo, ma tutto situato nel mondo concettuale della fisica in cui ci sentiamo maggiormente a nostro agio: chiare concatenazioni causali, forze misurabili, sostanze familiari che detenninano l'intera storia. L'altro tipo di biologo vorrebbe esaurientemente capire le ragioni per cui l'asino è grigio col ventre bianco, e la zebra invece a strisce bianche e nere. Entrambi gli animali hanno macromolecole in sé, nessuno dei due può sottrarsi alle leggi della fisica. Cellule si muovono, si uniscono e si respingono durante l'evoluzione di entrambi. Biologi come questi danno volentieri credito alla fisica, hanno il massimo rispetto per essa e forse la capiscono perfino, però non credono che la conoscenza degli atomi e della loro mutua interazione (o anche di elementi costitutivi ancora minori) basti per prevedere infine, in termini incontestabili, nell'ambito d'una colossale struttura teoretica, l'esistenza della zebra. Perché se da simili particelle scaturisce nell'un caso una zebra e nell'altro un asino - per tacere di rane, piante, batteri ecc. -, allora le leggi secondo cui le particelle si muovono non possono ancora essere, da sole, decisive. E infatti occorre aggiungere dell'altro, e cioè l'informazione sulle circostanze dell'ambiente e sui modi in cui accortamente avviene il superamento dei pericoli
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in esso nascosti: vale a dire ciò che, nel discorso ufficiale che precede queste considerazioni, è stato definito una incarnata concezione del mondo. Questa saggezza fattasi carne ha tinto il pelo dell'asino in ~odo ta~e eh~, illuminato d~'alto - come il più delle volte aVVIene - nsul~1 ab?~stanz_a urnfor~emente grigio sullo sfondo del paesaggio gngio (e 11 pelo chiaro del ventre compensa, di sotto, l'ombra che altrimenti lo tradirebbe), e gli ha conferito la voglia di aggirarsi per la steppa. Alla zebra invece un'analoga saggezza ha conferito il disegno mimetizzante, assai pratico nella vegetazione più alta e verticale, e inoltre anche la voglia di aggirarsi lì in mezzo. Per i biologi che considerano questi aspetti (cito un paio di nomi: Konrad Lorenz, il sociobiologo E. O.Wilson, R. Dawkins col suo « gene egoista»), il mondo degli esseri viventi è un libro, anzi, ancora più, una grande raccolta di libri, ognuno fitto di interessanti notizie relative a una lunga genealogia con tutte le sue tragiche esperienze ma anche con le condizioni che consentono, almeno per ora, di arrivare ancora all'happy end, alla soprawivenza cioè di quella particolare specie. Svolto da questo punto di vista, lo studio delle forme degli esseri viventi è in effetti più simile alla lettura di un testo che alle misurazioni e agli esperimenti della fisica, e le teorie che ne scaturiscono sono interpretazioni, costrutti di «scienze morali», inventari semiologici. Quel che si può interpretativamente cogliere nei disegni sulle ali di varie farfalle è abbastanza simile a ciò che emerge dall'analisi di certe pitture fantastiche: occhi, spine, macchie astratte di colore, ombre. E nei due casi gli elementi formali non sono solo casualmente simili, perché si tratta, in entrambi i tipi d'immagine, di raffigurazioni altamente stilizzate che evocano in chi le osserva attese, paure, istinti, contenuti simbolici. Le teorie che mi vengono in mente al microscopio sono di questa seconda specie di biologia, con la differenza tuttavia che le risonanze non sono di genere filosofico-artistico, ma tecnico. Io mi comporto come se un anonimo ma molto intel-
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ligente ingegnere avesse utilizzato tutto il complesso d'informazioni a sua disposizione sull'ambiente e sull'animale per progettare un circuito il più efficiente possibile di cellule nervose all'interno del cervello. Non posso chiedergli lumi sui concetti che lo hanno guidato, ma posso indovinarli se rifletto sui vantaggi dei circuiti che ha concretamente realizzato nelle reti nervose. È un gioco altamente interessante, d'un genere da cui un giorno la tecnica trarrà probabilmente vantaggio. Quel che noi facciamo, in sostanza, è dell'invenzione, pilotata dalle indicazioni forniteci dalle strutture dei cervelli. Ogni schema che io escogito è naturalmente anche un'ipotesi che implica ulteriori conseguenze. Poi posso verificare se i dettagli che l'ipotesi prevede sono di fatto presenti nella struttura cerebrale. Qualche volta ci azzecco, qualche volta no, e allora devo continuare a escogitare dell'altro. Il procedimento non è diverso da quello d'ogni altra scienza esatta (vale a dire sperimentale), solo che la mia premessa - quella d'una ragione che si è realizzata nella sostanza biologica - è naturalmente del tutto estranea al fisico. Questo tuttavia non mi porta affatto a litigare coi fisici, poiché loro sanno assai bene che la ragione da me supposta altro non è che una forma abbreviata della teoria dell'evoluzione di Darwin, la quale risulta chiara e lampante a (quasi) tutti gli scienziati. Curiosamente, sono i biologi semmai ( quelli della prima specie, i cosiddetti biofisici) quelli cui le interpretazioni ingegneristiche dei cervelli danno fastidio. La reinvenzione della saggezza naturale mi induce alla modestia, poiché la realtà mi precede sempre di un passo. Sono stato spesso indispettito dal fatto di dover ammettere che uno schema raffinato che avevo ideato - e che, oh quanto, sarebbe stato utile per quel certo animale! - non era poi realizzato nel cervello. Salvo poi sempre scoprire che il meccanismo realmente esistente era d'un po' almeno più raffinato del mio. Si opera a contatto con un accorto interlocutore, e c'è 78
sempre da impara~e a seguire le mosse dell'anonimo ingegnere della sostanza vivente. La frequentazione di questo partner ha il carattere di un dialogo. Prima mi è sfuggita la parola «realtà», parola chiave di un tema controverso: ma una buona definizione per un interlocutore che ha sempre ragione. Noi scienziati ci comportiamo sempre come se fossimo convinti dell'esistenza effettiva della realtà. E, detto fra di noi, ci crediamo davvero. Chi trascorre una buona parte della sua vita in un dialogo spesso molto faticoso, a volte equivoco, ma sempre fertile, quegli non dubita della realtà e della consistenza interiore del suo partner. Se c'è una categoria di persone che è tenuta insieme da una comune, inamovibile fede, è quella degli scienziati che credono nella realtà. Qualsiasi cosa, a questo proposito, abbiano potuto pensare i filosofi. E per arrogante che un teologo possa apparire nel collocare la sua fede al di sopra della nostra. III · La morale dei teorici
Chi elabora teorie non deve preoccuparsi dell'irrisione cui si espone. Questa discende dal fatto che la nobile imperfezione, così bellamente rilevata dall'oratore ufficiale, cede in qualche persona, nel corso della vita, a una certa rigidità, a una propensione alla definitività che gli rende difficile l'occuparsi di idee nuove. Queste persone sviluppano vari tipi di riluttanza rispetto alla novità: e la soddisfazione che provano delle proprie concezioni, accoppiata alla paura che hanno di coloro che non condividono questa soddisfazione, è la forma di riluttanza più diffusa. Per andar sul sicuro, rifiuteranno a priori coloro che hanno l'abitudine alla riflessione critica, quali fonti di possibili insoddisfazioni. Nel frattempo la facoltà di pensare ha tuttavia acquisito nella nostra cultura un prestigio tale che non la si può più contestare. Si preferisce 79
quindi argomentare che chi filosofeggia perde tempo e fa per. dere tempo a chi fa, dando per scontato che, delle due attività, quella del fare è in ogni caso la migliore. Il buon elaboratore di teorie si rallegra dell'esistenza di queste persone e dà anche loro volentieri ragione, dal momento che deve fare assegnamento sui fatti che emergono in grande quantità a causa della soprawalutazione dell'operosità. Sa però anche che, con qualche fortuna, la sua teoria sarà sostenuta con giubilo come una riconosciuta owietà dalla prossima generazione di quegli ostinati lavoratori, e si rallegra dentro di sé della grande diffusione che le sarà in questo modo riservata. L'antipatia per il teorizzare è così forte in certi ambienti che ci si è sentiti indotti a scrivere dei libri a uso e consumo degli scienziati sperimentatori, in cui si loda l'utilità della riflessione in un preciso rapporto di mescolanza con la sperimentazione, di solito con un'indicazione sul modo in cui i due fattori, alternati a piccoli passi, si combinino nel modo più efficiente ai fini del progresso scientifico. Di solito si attribuisce valore alla brevità dei passi, e a ragione, perché più prolungate fasi di solitario procedere celano sia per l'uomo di laboratorio, sia per quello di scrivania, il pericolo di isolarsi e di smarrirsi nel suo gioco. Lo spostamento avanti e indietro a brevi intervalli garantisce un buon gioco d'assieme. Le monete ~he _vi si scambiano sono singole previsioni e singole misuraz10ru. Lo strano è che simili istruzioni per l'attività scientifica sono spesso dettate in un tono che attribuisce all'~sperimento, rispetto alla teoria, un superiore valore morale. E consentito riflettere, ma non troppo: poi bisogna tornare a misurare e la lode va alla misurazione coronata da successo. Il tono oppo- · sto - divertitevi pure in laboratorio, ma poi datevi una scossa e provate a pensarci un po' su - si riscontra molto più raramente nei testi dei teorici della scienza. Questo deriva forse dall'inconfessato complesso di inferiorità che il metodologo
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professionale, uomo di scrivania e di poltrona, prova rispetto al proletariato misurante ed esperimentante dell'impresa scientifica. Ha gran rispetto anche dei creatori di teorie e ipotesi dato che non ne produce personalmente, ma in misura minore, siccome si sente unito a loro almeno dall'abito professionale. Il declassamento morale del pensiero è accolto in modo alquanto irriflettuto anche da taluni scienziati praticanti. Qu~sti, quando formulano un loro pensiero, amano poi dire: «E soltanto un'ipotesi di lavoro». E il tono è come se volessero scusarsi: domani mattina tornerò prestissimo in laboratorio e mi rallegra già l'idea del lavoro che potrò farci. Certo è che ogni teoria metodologica viene sempre dopo, quando i fatti decisivi per la scienza si sono già verificati. Non mi è mai capitato di incontrare un ricercatore produttivo che alleni il proprio spirito, durante il week-end, a base di scritti di epistemologia. Ognuno ha la propria etica a proposito del procedere scientifico, e non gli va però che gli sia prescritta, e specialmente non in una forma generalizzata. Problemi diversi impongono strategie diverse. Si dice che esista, :1, Berkeley o in Svizzera, un filosofo della scienza il quale dimostra che le istruzioni per il procedere scientifico si sono rivelate fertili sempre solo quando sono state violate. Il suo in;egnamento consiste nella raccomandazione di non leggere :eorie epistemologiche. Neanche la sua quindi va letta. Di un altro, che ho a sua volta evitato di leggere, si discorre ;pesso come del creatore del concetto secondo cui, nel teoriz\are, occorre sempre esporsi alla confutazione - alla falsifica\ione cioè, per dirla tutta - senza sbirciare in cerca di conferne. Anche quest'ipocrisia mi è estranea. Una volta che io mi ;ia elaborata una concezione teorica, non desidero altro che ·egga a lungo, anche per sempre forse, possibilmente, agli atacchi dei critici, e che sia accolta da tutti. Io sono personalnente persuaso della sua esattezza. Chi mi costringe a esporle in piazza i punti deboli? E se disponessi d'una spiegazione 81
per tutti i fatti di questo mondo, la teoria finale di cui sogna. mo: sarebbe forse meno valida perché non ci sono altri fatti di fronte ai quali possa fallire e quindi essere «falsificata»? Si coglie una diffusa tendenza a punire, o cumunque a demoralizzare il teorico per il piacere che ha di pensare. Da questo trattamento sono spesso esenti - per svariati motivi _ le teorie che siano formulate nel linguaggio matematico. Innanzi tutto si ha la sensazione che le formule matematiche per le loro inequivocità, chiarezza ed economia d'espressione,' siano le più adatte a rappresentare connessioni fattuali in una forma definitiva, e nessuno trova da ridire contro la speranza che questo risulti un giorno possibile. In secondo luogo è fin troppo risaputo che la padronanza dei mezzi espressivi matematici non è possibile senza un certo impegno di lavoro, e il lavoro - come si è già notato - è considerato con rispetto sia da quelli che l'hanno prodotto, sia da quelli che lo vorrebbero scansare. Si aggiunga poi che la fisica degli ultimi secoli, quale maestra riconosciuta fra le scienze, ha esemplarmente praticato la sottomissione della matematica ai suoi scopi, e ha potuto in molti casi dimostrare l'identità formale d'un sistema matematico con una serie di osservazioni. Eppure è insensato ritenere per principio che un pensiero che culmini in una formula matematica sia migliore di un altro che giunga solo fino alla formulazione verbale. In quasi tutte le scienze abbiamo imparato a conoscere una particolare specie di parassitismo che vive del vantare una neoformulazione matematica d'un pensiero già sviluppato come se ne fosse l'elemento portante, anzi ulteriormente propulsivo. Uno dei compiti del teorico è di riconoscere questo parassitismo e di distinguerlo dall'autentica perspicacia matematica. Un segno distintivo è che il teorico matematico secondario, ovunque trovi accesso, utilizza i metodi che ha imparato a scuola, mentre l'onesto teorico primario, una volta conosciuti a fondo i fatti, è sempre alla ricerca d'una formulazione che sia loro adeguata, e se non la trova nella matematica già esistente, la sviluppa da sé
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si accontenta dei mezzi verbali. Quel che contraddistingue i teorici secondari è la loro fin troppo comprensibile inclinazione a utilizzare a ogni costo quelle tecniche la cui acquisizione è loro costata maggior fatica. Si può supporre il limite delle loro capacità matematiche, con una qualche certezza, al livello appena superiore rispetto alle tecniche che utilizzano a preferenza. Che teoria non significhi lo stesso che calcolo complicato si può desumere dal fatto che alcuni fra i più impressionanti edifici concettuali sono stati formulati del tutto senza il ricorso alla matematica, oppure in una matematica che non va al di là delle operazioni elementari. Penso alla teoria dell' evoluzione di Darwin o alla impostazione della teoria atomica nella chimica quantitativa. Eppure quello cui noi tendiamo sono formulazioni definitive ed inequivocabili - e cioè matematiche - della complessità di questo mondo. È importante conferire riconoscimento a questa tendenza, anche lì dove si accontenta ancora di espressioni provvisorie. Anche noi teorici fantasticanti e rimuginatori di fatti sperimentali abbiamo la nostra arroganza, e si appunta contro le teorie che tali non sono, bensì soltanto opinioni alla moda. Se per esempio uno viene a dirmi che il modello del positivismo è superato, mi chiedo che razza di modello può essere mai stato se lo si può spazzare via dal mondo senza indicazione alcuna di motivi logici, per un semplice fatto umorale. La nostra arroganza si basa sulla convinzione che il nostro modo di procedere (comunque sia stato poi stilizzato dai teorici della scienza) ha alla fin fine contribuito - sia attraverso i suoi successi, sia occasionalmente attraverso le batoste che ha subito - ad accrescere l'irreversibile sedimento del sapere di questo mondo. A che serve, ammesso che serva? L'oratore ufficiale ha rilevato, nella sua maniera fiorita, che il destino dell'uomo sta nel suo essere un animale che impara. Non potranno disabituarci ad imparare, esattamente come non si può disabituare 0
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il lupo alla caccia o la scimmia all'arrampicarsi sugli alberi L'ulteriore sviluppo di linguaggi e di concezioni del mondo il nostro destino biologico, per curioso che questo possa anche sembrare.
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7 · I silenzi del computer
Ho visto generazioni di giovani naufragare nel gioco del computer. Non è un naufragio burrascoso e all'inizio non ha nemmeno l'aspetto di un naufragio, ma piuttosto d'una nuotatina nelle deliziose acque dell'astratto che circondano la terraferma sulla quale ciascuno di noi coltiva i sudati frutti del proprio orticello. Fatto sta che molti di loro non riescono più a riapprodare a terra, e soprattutto viene loro a mancare il paziente attaccamento al suolo che caratterizza invece noialtri agricoltori. Il fascino del calcolo automatico è quasi irresistibile, almeno per coloro che si sono già ripetutamente impegnati in qualche vero calcolo con carta e matita e ne hanno quindi saggiato la fatica; ma anche per gli altri, che vi scorgono solo l'aspetto magico e fantascientifico. Non nego che vi possano essere alcuni, allenatissimi con carta e matita, che usano il calcolatore per affrontare certi problemi seri che nei secoli n~ssuno aveva potuto risolvere: quei problemi che nessuno ha preso più di petto da quando è stato chiaro che sarebbe occorso troppo tempo da impiegare in calcoli noiosissimi, e che forse non sarebbe bastata l'intera vita per farli tutti. Ma non sono i matematici, golosi di teoremi, i principali utenti della gigantesca industria dei calcolatori. È ben vero che l'apologetica del calcolo automatico comprende anche alcuni graziosi racconti sul successo dei calcolatori nella ricerca di nuove dimostrazioni di enunciati della geometria euclidea, o della logica matematica, e magari an-
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che di teoremi nuovi in questi campi. Nella macchina si inimettono gli assiomi, le verità di partenza di cui nessuno dubita, e poi le regole (molto semplici) dello sviluppo e della concatenazione delle formule che, partendo dagli assiomi, portano a un qualche cosa di più complicato con la garanzia di conservare strada facendo la certezza insita negli assiomi e nelle regole. Se oltre agli assiomi si immette nel calcolatore un certo teorema, e gli si chiede di fermarsi quando nella sua peregrinazione interna si trova per caso a enunciare proprio quel teorema, allora - ricostruendo la strada fatta fino a quel punto - possiamo contemplare una dimostrazione del teorema. Certe volte ne scaturiscono dimostrazioni che, nel corso dei millenni, non erano venute in mente a nessuno: o perché erano troppo complicate, oppure troppo semplici, o perché non si era mai sentito il bisogno di andare a cercare dimostrazioni nuove quando erano già abbastanza noiose quelle che ab biamo imparato a scuola. Una classe di studenti di scuola media potrebbe del resto benissimo fare lo stesso. I giovani potrebbero senz'altro imparare a memoria gli assiomi e anche le regole del calcolo. Poi si potrebbe chieder loro di variare e combinare quegli assiomi in tutti i modi possibili, rispettando sempre le regole. Se fossero dispensati da tutto il resto del grigiore scolastico, i ragazzi potrebbero anche trovarci gusto. E l'insegnante, girando fra i banchi, potrebbe raccogliere quei risultati che per caso ripetano un teorema noto: ecco, bravo, hai trovato una dimostrazione che era sfuggita ad Euclide. I ragazzi però, oltre a questo, sanno fare molte altre cose: giocare al pallone, tradurre dal latino (o almeno dal loro dialetto) in italiano, armonizzare l'accompagnamento di una canzonetta. Sembra strano, ma sono proprio queste prestazioni apparentemente banali quelle in cui il calcolatore elettronico, anche il più potente, fa cilecca. Allora si dice: è ovvio, gli manca il senso estetico. D'accordo: ma non è una spiegazione. 86
Fatto sta che il computer è utilissimo e assai veloce in tutto
ciò che è già stato formulato in modo esauriente a parole. Ma uando noi stessi non abbiamo capito bene un problema e ~on riusciamo ancora a dargli una formulazione precisa, è inutile rivolgersi al computer. Provate a esprimere in buon italiano che cosa avviene nella testa del calciatore quando vede arrivare il pallone velocissimo lungo una traiettoria vista di scorcio, e in pochi decimi di secondo capisce dove va a finire e, fatti pochi passi, si mette in posizione e tira un calcio per deformare il pallone in una certa zona e in una certa misura, tanto che dalle forze elastiche così generate esso venga accelerato nella direzione giusta e - coadiuvato dall'accelerazione gravitazionale e ritardato dall'attrito dell'aria - finisca in rete. Detto così, va tutto bene: ma non abbiamo dato una descrizione esauriente, nel senso di una ricetta che permetta a qualunque marziano, che non abbia mai assistito a una partita, di costruire un robot calciatore. L'impatto culturale del calcolo automatico consiste appunto in questo: nel costringerci a formulare meglio, in un linguaggio più appropriato (il che significa spesso - ma non sempre - nel linguaggio della fisica), le situazioni nelle quali eravamo abituati a cavarcela con pochi cenni impressionistici. Il calcolatore automatico della generazione attuale, non molto diverso nella sua essenza spirituale da quello precedente a manovella, in fondo è roba da cartoleria: un ordinateur come dicono i francesi, riferendolo giustamente a quegli arnesi chiamati in tedesco Ordner, imponenti cartelle di cartone pesante e dotate di un robusto meccanismo metallico destinato ad aggrappare solidamente ogni sorta di scritti: «raccoglitori» imparziali di messaggi veri o falsi, dai più banali ai più filosofici. I calcolatori creano ordine in un universo di enunciati verbali, e vi possono anche produrre qualche accostamento originale, impensato prima. Ma vogliono essere nutriti di scritti, composti di parole e di numeri. Rifiutano l'informazione a un livello pre-linguistico. E perché? 87
Un motivo dipende dal fatto che i calcolatori che vediamo in giro sono, con rare eccezioni, del tipo digitale: non analogico, cioè fatti apposta per manipolare l'informazione in forma simbolica. Quelli analogici, meno appariscenti, operano invece direttamente sulle quantità che entrano nel calcolo per esempio sulla corrente che alimenta un motore o sull~ temperatura che si sviluppa in un processo chimico, trasformando queste grandezze in potenziali elettrici, sì da renderle digeribili a un circuito elettronico, ma non in numeri o altri simboli. Certo, tutte le quantità si possono tradurre in numeri, e quindi un calcolatore digitale può sempre fare il lavoro di un calcolatore analogico, dopo un'opportuna trasformazione dei dati nel linguaggio simbolico che esso usa. Ma la comunicazione fra l'utente e il calcolatore digitale, e soprattutto con la struttura interna che ne costituisce, per così dire, l'anima, ha un carattere simbolico, verbale o numerico, che determina la sua funzione e ne restringe l'applicazione. Il ling}laggio interno del calcolatore digitale è preciso ma scarno. E ideale per l'amministrazione dei conti in banca e per la prenotazione dei voli aerei. Risulta insufficiente quando lo si applica a un problema apparentemente così semplice come la traduzione di un pezzo di prosa da una lingua all'altra. Non dico di una poesia ermetica: quella mag3!i, dopo la traduzione, risulterebbe ermetica quanto prima. E la prosa comune quella che contiene i tranelli più imprevisti. Per tradurre dall'inglese la parola chair occorre desumere, dal contesto, se si parla di un mobile o di un incarico accademico sedia o cattedra -, e per ritradurre cattedra bisogna stare attenti a distinguere l'ambiente universitario da quello delle scuole elementari: chair oppure desk. Mentre parliamo o scriviamo, leggiamo o ascoltiamo, si muove nella nostra mente insieme alle parole, un complicatissimo congegno fatto di immagini e di concetti che, mediante i reciproci rapporti associativi, determinano la scelta delle parole e, in chi ascolta o legge, la loro interpretazione. 88
I linguisti hanno cominciato a mettere nella macchina, oltre al dizionario e alla grammatica, anche la trama dei multiformi rapporti semantici fra concetti, e cominciano a produrre traduzioni automatiche abbastanza convincenti. Senonché le roemorie dei calcolatori si rivelano spesso insufficienti di fronte all'immenso spazio richiesto per la memorizzazione della trama semantica. Si impone una nuova tecnica di calcolo e soprattutto di memorizzazione più consona, nella sua struttura, al mondo dei concetti. Di queste «memorie associative», attualmente in cantiere in varie parti del mondo, si dovrà riparlare fra qualche anno, quando saranno perfezionate. Sono convinto che, allora, i calcolatori cominceranno a pensare.
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8 · La misura dell'intelligenza
I. Quand'ero bambino, ricordo d'aver sentito mia madre e la sua amica conversare sotto un tiglio e tentare di stabilire quale dei loro mariti era il più intelligente del villaggio. Le parole si apprendono, senza nemmeno comprenderle bene, unitamente allo scenario del loro primo impiego. Ovviamente dicevano spesso anche a me: Sii giudizioso! Oppure: Non fare lo stupido! Però mi era difficile comprendere allora, e mi è ancora difficile capire oggi, con che genere di sforzo occorreva operare su se stessi per assecondare quelle sollecitazioni. Me lo dicevano, del resto, con propositi assai concreti: Sii giudizioso, mettiti il berretto di lana. Oppure: Non fare Io stupido, rientra subito in casa. E queste erano sollecitazioni che potevo capire. Ci si può chiedere se il verbo «essere» abbia poi davvero il diritto alla forma imperativa. Chi ha cominciato a usarlo così? Gli antichi indoeuropei? La scuola è sempre stata esposta, fin dagli inizi, all'intimazione di simili imperativi: sii bravo, sii diligente, sii giudizioso. Anche ora che frequento la 56a classe, continuo a provare, a questo proposito, una sensazione sgradevole. E continuo a non sapere chi dei due, mio padre o mio zio, era il più intelligente. Lo zio ha lasciato un grande patrimonio, mio padre un bel giardino. Eppure talvolta mi si chiede, per ragioni professionali, di giudicare l'intelligenza delle persone: se sia abbastanza spiccata, per esempio, da consentire l'ammissione a una borsa di studio, oppure se basti per una cattedra. Il più delle volte il
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quesito è contraffatto, ma l'obiettivo è lo stesso cui miravano, allora, le due signore. Anche la mia risposta è contraffatta, e spesso titubante. Né mi serve l'aver studiato psichiatria, l'aver guardato mille malati di mente negli occhi. So formulare diagnosi con una certa sicurezza. E questo contribuisce ad acuire la percezione anche delle varianti meno appariscenti 01 a ancora situate nell'ambito della norma - della struttura 01entale. Però la valutazione del livello d'intelligenza continua a risultarmi difficile. So benissimo che se, durante una conversazione con qualcuno, non riesco a stabilire un contatto questo dipende più da una differenza d'intelligenza che da differenti filosofie. Solo che, spesso, non so chi di noi due è il più stupido: Co~e,con~ep;u~~za d~lla pe~cezione d'una ~iffat: ta incomumcab1lita, rm e gia capitato di passare alcum anm in muta ammirazione d'una intelligenza superiore, per poi accorgermi, per caso, che la differenza era bensì evidente, ma di segno opposto. E mi è già accaduto anche il contrario, probabilmente perfino più spesso. Ma non mi si venga a raccontare d'un relativismo dell'intelligenza. Certo, non bisogna andare troppo per il sottile, le piccole differenze sono una questione di gusto. Però quando la differenza è così grande da determinare impossibilità di dialogo fra livelli di intelligenza diversi, allora prima o poi verrà pur fuori quale dei due è quello che funziona meglio. 11. Quelle che seguono sono alcune osservazioni da cui dovrebbe emergere che la mia insicurezza in fatto d'intelligenza èbensì allarmante, ma non priva di basi concrete.
Prima constatazione: ci sono differenze nell'efficienza della attività mentale. In un'infinità di casi si osserva che A affronta meglio i problemi di B, nel senso che è capace di risolverli più in fretta, più a fondo e con minor fatica. Se poi si tratta anche di problemi di natura diversa - per esempio, tanto la
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formulazione accorta d'un discorso di congedo per un collaboratore sgradevole, quanto l'apprendimento di un linguag. gio di programmazione e la composizione di un puzzle cinese - allora emerge il sospetto che l'uno sia stato maggiormente dotato, rispetto all'altro, d'una certa facoltà utilizzabile nei contesti più diversi. Ma non è ancora detto a che cosa sia dovuta questa facoltà. È ovvio, esistono sufficienti esempi d'un A che non si arrende dinnanzi a nessun problema matematico, ma che è am. piamente superato da un B nella capacità di produrre testi in rima, o d'un imbattibile pensatore di concetti filosofici che si fa poi clamorosamente abbindolare dal suo architetto. Però ci sono anche abbastanza esempi di individui forniti di gran talento nei quali si cercherebbe invano un punto debole. Ho notato che quest'antica, risaputa saggezza di tutti gli onesti pedagoghi è contestata con maggiore veemenza da tre categorie di persone. Gli uni - per esempio per ragioni politiche - sono smaniosi di piacere e non vorrebbero giocarsi il favore di quelli che il diavolo ha fatto uscire comparativamente male da ogni tipo d'esame, a scuola e nella vita. E preferiscono naturalmente dare al diavolo il nome di caso. Gli altri sono individui molto assennati che vorrebbero tanto darci a intendere che l'intelligenza di cui dispongono è un loro merito, e che ciascuno di noi, se fosse solo abbastanza retto e diligente, potrebbe arrivare altrettanto lontano. I terzi sono quelli che, nel ristretto ambito familiare oppure in altri ambiti della vita di relazione, si trovano in contatto quotidiano con persone meno dotate. Questi hanno avuto occasione di convincersi che l'eccellenza intellettuale non è l'unico motivo per voler bene a una persona. Altri motivi sono la bellezza, l'inclinazione, i comuni ricordi, i comuni progetti, la comune proprietà. Sulla base di queste esperienze, differenze d'intelligenza possono comparativamente apparire irrilevanti. Per contro, individui che non sono in grado di capire tutto con facilità, sono spesso perfettamente consapevoli delle loro 92
difficoltà. A loro non passerebbe per la mente di negare differenze d'intelligenza. Seconda constatazione: uno che abbia imparato a fare un uso accorto della propria limitata intelligenza, ha spesso un successo maggiore di un altro che si affida troppo alle proprie brillanti capacità. Questo è un osso duro, di quelli che avvelenano la fonte della soddisfazione a più d'un fanatico dell'intelligenza. D'un tratto sembra, quasi, che esistano due tipi d'intelligenza, l'una accanto o sovrapposta all'altra, l'una strumento dell'altra e l'altra amministratrice della prima. E se per caso ne esistesse anche una terza, che osserva lo spettacolo da fuori e che interviene occasionalmente a correggere l'amministrazione dello strumento? Grandissima costernazione: e se l'intelligenza fosse davvero una questione dello spirito? Che non sia proprio possibile liberarsi di quest'arrogante direttore generale che, una volta ridotta a macchina la sua funzione, riemerge immediatamente a manipolare la macchina con la stessa disinvoltura di prima? Chiamatelo come volete: è lo spirito dell'impegno, della fantasia, dell'ideazione, di tanto più intelligente dell'intelligenza cui è asservito o di cui s'avvale, quanto il programma è più intelligente del computer e il ballo più intelligente delle gambe. Io per parte mia lo definirei così: la coazione di meccanismi generatori d'intelligenza congeniti e acquisiti. Quel che alla fine rende un modesto pensatore, coi suoi bravi istinti e la sua volontà, più furbo di quanto era in partenza, sono appunto i bravi istinti: schemi di comportamento di tipo solo in apparenza irrazionale, che sarebbero comprensibili nella logica del processo evolutivo darwiniano se solo si fosse capita questa logica. Terza constatazione (frutto di letture): i figli di persone molto intelligenti sono spesso più intelligenti, e i figli di per93
sone molto stupide sono spesso più stupidi dei figli delle persone medie. È dubbio, ma verosimile, che si possa affermare lo stesso dei nipoti di persone molto intelligenti o molto stupide. Ma sui pronipoti l'effetto non è più apprezzabile. Non ha dunque molto senso interrogarsi sull'albero genealogico al di là dei ~onni e delle nonne. E vero, un eccellente bisnonno non guasta, ma nemmeno uno che fosse stato uno sproweduto ladro di cavalli. Pare dunque quasi che l'intelligenza, similmente alla proprietà fondiaria, sia ereditaria. Attenzione. La bellezza è ereditaria? Se uno eredita dalla madre un naso di sgradevole lunghezza e dal padre un nasino minuscolo, allora può darsi che l'incrocio dia sul suo volto un risultato armonioso: bellezza, dunque, come mutazione genetica spontanea (e chiedo indulgenza agli specialisti di genetica). Però i suoi figli, se hanno sfortuna, possono ritrovarsi in possesso della sgradevole rapa che fu della nonna o dell'appendicetta del nonno. Se l'intelligenza ha qualcosa a che fare con una certa armonia - per esempio con un equilibrio fra le abitudini alla ponderazione, all'associazione di idee e alla diligenza (come posso ben figurarmi, ma come nessuno ha finora potuto dimostrare) - allora può darsi che awenga qualcosa di simile. Del resto capita spesso che le persone intelligenti abbiano figli intelligenti, e le persone belle spesso dei figli belli. Ma spesso, appunto: non sempre. Per gli uni e per gli altri ci possono essere sorprese sgradevoli. Comunque gli uomini e le donne che desiderano sposarsi e mettere al mondo dei figli sono probabilmente ben consigliati quando cercano mogli o mariti belli e intelligenti: cosa che poi fanno anche, normalmente. Sono invece mal consigliati, a proposito dell'armonia, se, vittime di un precoce condizionamento, si innamorano delle caricature delle più spiccate anormalità dei loro genitori. Cosa che fanno anche, occasionalmente.
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111. Le discussioni sulla questione «quanta parte dell'intelligenza è determinata dai geni e quanta dall'educazione» mi hanno spesso molto annoiato, perché i più accaniti assertori dell'uno e dell'altro partito davano per scontati i punti di vista estremi: tutto ereditato o tutto acquisito. Mentre entrambe le tesi risultano subito insensate ove si rifletta su ciò che è ereditariamente trasmesso: e cioè la capacità di apprendere. Questo appare come l'innovazione di maggior spicco prodotta dall'evoluzione in occasione del passaggio dalla scimmia all'uomo: il dono genetico che ci rende capaci di cultura. Chi non lo ammette, può anche continuare a discettare sui fattori acquisiti e su quelli ereditari dell'intelligenza, ma senza di me. Trovo più interessante, e praticamente più importante, confrontarmi col dato di fatto che gli individui - e non importa per quali ragioni - hanno diversi gradi di intelligenza. Ecosì perveniamo a una costatazione fondamentale. 1° teorema: il 50 per cento di tutti gli individui è più stupido della media; il 50 per cento ha un'intelligenza superiore alla media. La dimostrazione del teorema dipende un po' dal come si definisce la media. La sua validità dipende ovviamente, in modo decisivo, dalla disponibilità di un metro dell'intelligenza che consente di collocare un individuo in una certa successione per ordine di intelligenza. Come si è detto, un tale criterio è dubitabile nel dettaglio, ma grosso modo esiste. Il teorema consiste di due parti. Se si valuta pessimisticamente la propria intelligenza, si legge volentieri la prima. Se ne desume che la metà dell'umanità, e cioè quasi la maggioranza si trova nella stessa situazione, e ci si sente così collocati nella norma. La seconda parte del teorema è immediatamente gradevole se - a prescindere dal come uno valuta se stesso - si considera l'intelligenza come un potenziale comunque applicabile per il bene dell'umanità, forse anzi automaticamente tendente a esso. Un principio affine, cui ci volgiamo ora, prende in consi-
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derazione il problema della differenza d'intelligenza fra interi popoli. È un problema che ha occupato parecchia gente, specialmente sul finire del secolo scorso quando, conclusa la ricerca etnologica a livello geografico e linguistico, ci si accinse a completare sul piano psicologico l'inventario dei popoli di questo mondo. Oltre alla comparazione quantitativa, sulla bilancia, d'una infinità di cervelli, e alla misurazione d'ogni possibile spigolo e proporzione del cranio, s'inventò in quel1' epoca lo strumento del test d'intelligenza, qualche cosa come un esame di licenza elementare corredato anche di svariati esercizi di destrezza, all'altezza del quale si presumeva che dovessero essere sia il selvaggio, sia il cittadino. La misurazione delle capacità di eserciti di scolari, di indigeni delle più svariate popolazioni e ambiti culturali, di appartenenti alle diverse religioni, sessi, classi d'età e classi sociali era però un compito tale che non si è oggi ancora riusciti a completarlo. Agli innocenti psicologi che si sottopongono a queste fatiche, e ancor più agli esperti di statistica che valutano i loro risultati, s'è mosso il rimprovero d'un abbaglio pregiudiziale o ideologico, e lo si è fatto a tal punto e così spesso che ci si sente propensi a diffidare per principio dei risultati, e ariprendere da capo tutta la ricerca, ma con occhio ora più attento: se solo si sapesse come. Io però intendo assumere un punto di vista più indulgente, dato che da un lato so che un simile sospetto nei confronti della scienza è in ogni caso giustificato, e che però cela anche, d'altra parte, il pericolo di sottrarre la disponibilità dei risultati più degni di fede. Desumo quindi, con indulgenza, dalla misurazione comparativa dell'intelligenza i fatti che seguono. Quarta constatazione: le differenze che si riscontrano all'interno d'ogni gruppo etnico sono molte volte superiori alle differenze fra i gruppi. Un nero intelligente si differenzia per quel che riguarda l'intelligenza - molto più nettamente da un nero stupido che non da un cinese intelligente o da un in-
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glese intelligente. Lo stesso vale, come è noto, se il confronto avviene fra i due sessi o fra diverse confessioni religiose. Incidentalmente va osservato che questo è il motivo principale per cui è così difficile attestare statisticamente le piccole differenze fra l'intelligenza media di popolazioni diverse, ammesso che poi esistano davvero. In ogni caso, considerando criticamente i risultati, si perviene alla seguente Quinta constatazione: nonostante tutto l'impegno profuso dai tecnologi dell'intelligenza (fra i quali quelli ideologicamente incaponiti sono d'una particolare significanza), emerge nei diversi gruppi di popolazione un livello d'intelligenza sorprendentemente simile. E questo porta alla Sesta constatazione: gli usuali procedimenti a base di test sono migliori della loro fama e misurano evidentemente un insieme di capacità che sono caratteristiche dello spirito umano nella sua forma più universale. Queste capacità si riscontrano ovunque quasi nella stessa misura, a prescindere dal fatto che gli antenati degli individui esaminati siano stati sottoposti per alcuni millenni alla selezione darwiniana nelle foreste africane oppure nelle città europee. Questo è un risultato quasi incredibile. Basta figurarsi bene le capacità richieste perché una catena ininterrotta di padri e di figli abbia potuto sopravvivere nella metropoli di Colonia dall'epoca dei romani fino alla nostra, passando per tutti i periodi di guerre, benessere e miseria: le doti richieste per esercitare il mestiere del ramaio o del conciatetti o del mercante e - più di recente - dell'elettrotecnico o del programmatore; e d'altra parte a quali prove sono stati nello stesso periodo esposti i padri e i figli in Africa: uccidere le mosche tsetse prima che pungessero, colpire con la lancia animali in corsa, raggirare elefanti e sentire di notte i felini predatori. Eppure, quando i rampolli ultimi dell'una e dell'altra catena di generazioni si siedono l'uno accanto all'altro, in America, 97
sullo stesso banco di scuola, allo psicologo - pur col ricorso a ogni impegno e astuzia - riesce di cogliere al massimo qualche punto percentuale di differenza fra il quoziente d'intelligenza dell'uno e dell'altro. La soluzione del mistero sta forse nel fatto che le capacità richieste al cittadino e all'aborigeno erano, fino a non molto tempo fa, assai simili, e che solo adesso - col poderoso progredire d'importanza della scrivania come strumento di produzione - cominciano a divergere in modo essenziale: un tempo troppo breve per rendere chiaramente avvertibili gli effetti genetici. Io preferisco tuttavia un'altra spiegazione. Quello che i test d'intelligenza degli psicologi misurano si basa su compiti per la soluzione dei quali s'impiega lo strumento del linguaggio (interiore). Questo strumento, come si apprende dagli etnolinguisti, è bensì forgiato in modi un po' diversi da popolo a popolo (linguaggi agglutinanti, flessivi o come altrimenti si chiamano), tuttavia è simile nei tratti essenziali (gli «universali linguistici») e soprattutto - come la linguistica generale ci assicura - è d'un costante grado di complessità (l'uno ha una sintassi flessibile, l'altro dispone in compenso di più varie distinzioni lessicali ecc.). Nonostante tutte le difficoltà d'oggettivazione, consideriamo di nuovo con indulgenza le esili asserzioni che si leggono, e ammettiamo pure che il quoziente d'intelligenza medio degli statunitensi neri sia, per un qualche motivo, d'un paio di punti percentuali al di sotto della media del complesso di tutti gli statunitensi; e quello degli italoamericani, poniamo, d'un paio di punti percentuali al di sopra della media. Accettato questo come assioma, e sorvolando su alcune precisazioni della statistica, approdiamo - senza pretendere di volerlo verificare matematicamente col bilancino, ma ritenendolo sostanzialmente giusto e molto importante - al 2° teorema: il 30 per cento dei neri americani è più intelligente della media degli americani. (È una constatazione abbastanza ovvia, ma non l'ho formulata io, purtroppo. L'auto-
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re mi è ignoto: il prof. Mohr di Friburgo? Luca Cavalli-Sforza?). Il teorema risulta, alla lettura, gradevole per i neri ed è istruttivo per quelli delle altre razze. Altrettanto benefica è la variante del secondo teorema: il 45 per cento degli italoamericani è più stupido della media dei cittadini degli USA ( o forse sono il 30 per cento, oppure il 49 per cento: non importa ai fini dell'argomentazione, ed è quasi indifferente agli italoamericani). La nozione così acquisita conferisce alla gente fiducia nelle proprie capacità di poter talvolta, all'occorrenza, raggirare anche un siciliano, e ha quindi un effetto conciliante. rv. Come si vede, la statistica - correttamente intesa - può avere effetti di rilevanza sociale, perfino quando si tratti della statistica della distribuzione dei quozienti d'intelligenza nella popolazione. Però non se ne trae motivo di particolare soddisfazione. La misurazione dell'intelligenza dei vari individui, con metodi improvvisati oppure statisticamente raffinati, risulta anche, per ovvi motivi, irritante per vasti strati della popolazione. Porta a risultati abbastanza piacevoli quando i fatti siano distorti in modo faceto, come abbiamo tentato di fare qui. Ma non ci si riesce a liberare dalla sensazione che le emozioni sottese alla intera intrapresa rimangano inespresse. Si sa che anche i metodi più obiettivi non neutralizzano del tutto i desideri celati nella formulazione delle domande, e si pretende poi di correggerne corrispondentemente i risultati. E non è poi questo gran male, lo si fa ovunque ci sia in ballo la propaganda, sia pure quella forma sottile di propaganda che si ammanta di scientificità. Imbarazzante, in questi casi, è che non risulta affatto chiaro in che direzione opera il pregiudizio, e il dubbio non diminuisce nemmeno quando il pregiudizio sia dichiarato a priori e incorporato nel metodo. Sarebbe preferi99
bile invece che chiunque si occupa d'intelligenza dichiari apertamente - e senza riguardo per il quoziente d'intelligenza medio dei neri statunitensi o degli insigniti del premio Nobel - cosa si propone di fare. Ed è quanto io dichiaro qui. Io confesso (pur con tutta l'insicurezza necessaria in un tal genere di valutazione) che suddivido le persone con cui ho a che fare in tre categorie: quelle che ritengo più intelligenti di me, altre rispetto alle quali ho l'impressione di essere più intelligente io, e i rimanenti, a proposito dei quali la questione della comparazione d'intelligenza non si pone affatto. Moshe Abeles, Jochen von Below, Francis Crick - potrei enumerarne uno per ogni lettera dell'alfabeto - mi hanno in certe circostanze stupefatto, come scienziati, con prestazioni di cui non mi sento all'altezza. Anche altri però - il mio compagno di scuola Paul Mayr, oppure Josef Rottensteiner, contadino del maso Ortner di Soprabolzano - mi hanno dato la stessa sensazione. È come se queste persone avessero preso parte, in qualche antichissimo passato, a discussioni di cui io non ho la benché minima idea. Oppure è come se il loro cervello, senza partecipazione attiva da parte loro, producesse da sé i risultati per approdare ai quali io debbo faticosamente spronare e imbrigliare il mio. La mia è un'invidia mista a gioia, senza malanimo. Si dice che il giovane Mozart impressionasse similmente i suoi colleghi arrivati, e Cristo i saggi nel tempio e Newton gli altri scienziati dell'epoca. Degli altri, i meno intelligenti, non dirò i nomi, benché vi siano anche personaggi noti, uomini politici e professori, scrittori affermati e manager di successo, e ovviamente anche molti studenti (anche se, nella valutazione dei giovani, sono spesso insicuro). Il mio giudizio non si basa tanto su ciò che queste persone dicono, quanto sulla scarsa voglia che ho di starle ad ascoltare, per una combinazione di distrazione e di irritazione che si determina in me quando parlano, come se sapessi a priori che mi si racconterà qualcosa che ho già rifiutato nel mio pensiero prima ancora che sia espresso. 100
per me è importante, perché ritengo che, alla lunga, riesco a praticare con profitto solo persone rispetto alle quali non insorga in me né l'una, né l'altra sensazione. Certo, è anche capitato che io mi sia sbagliato, che abbia accolto nella cerchia dei miei amici e collaboratori qualcuno che in precedenza avevo collocato nel settore superiore o inferiore, o che ne abbia rimosso degli altri. Non mi vanno le amicizie in cui insorga in un qualche momento, nell'uno o nell'altro verso, il fastidioso imperativo: «Sii più intelligente di quello che sei!». Questa mia tripartizione dell'umanità mi rende immune da altri sistemi di classe o di casta. I miei confini di classe tagliano trasversalmente, e nel migliore dei casi un po' obliquamente, quelli di cui tanto si parla. Non io soltanto frequento quasi esclusivamente uno strato isolato della torta dell'umanità, orizzontalmente sedimentato a seconda dell'intelligenza. Capita esattamente lo stesso anche a tutti gli altri. Che vogliano rendersene conto oppure no, si assemblano in base al comune quoziente di intelligenza. Per ogni individuo esiste un livello iso-IQ in cui si sente a suo agio, delimitato verso l'alto e verso il basso da barriere di incomunicabilità. Il numero degli strati dipende dalla percentuale di differenza fra quozienti d'intelligenza in cui s'interrompe la possibilità di capirsi. Io direi che sono almeno tre strati, ivi non compresi gli estremi superiori e inferiori. Io conosco, oltre al mio, almeno altri due club di comunicazione di diverso grado d'assennatezza. All'interno d'ogni livello iso-IQ le idee, le opinioni, le mode, anzi, intere scienze si diffondono assai rapidamente e spesso si limitano ad essi. Questo è uno dei motivi per cui molti non gradiscono il mio schema. Preferiscono credere che siano le comuni opinioni e i comuni interessi a unirli ai loro runici: e ovviamente anche questo è esatto. Quando un'opinione si diffonde in uno strato e quella opposta in un altro, separati da una barriera di incomunicabilità, allora insorgono a volte gravi difficoltà. Idee molto valide
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si possono tuttavia esprimere sempre, con qualche sforzo, anche nel linguaggio del livello attiguo. Resta poi da verificare se vi si diffondano anche con lo stesso slancio riscontrato nello strato in cui sono sorte, e se prevalgano o meno sulle idee avverse. Io mi preoccupo dello strato d'intelligenza superiore, quello che non ne ha altri sopra di sé. A queste persone manca la sollecitazione alla modestia che deriva dalla collocazione tra più intelligenti e meno intelligenti. Può darsi che sia questo il motivo per cui a volte i più assennati di tutti producono stupefacenti insensatezze. E può darsi che qui si chiuda un circolo e annulli la misurazione dell'intelligenza perfino nella forma rozza e pragmatica che propongo. Però epiteti come furbo o stupido si possono comunque ancora adoperare, almeno nella pratica domestica.
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9 · Il non voler essere capiti e il linguaggio
Se vogliamo, tutti noi facciamo la stessa cosa: aggiungiamo nuove frasi all'insieme del linguaggio. Ogni parola che sia pronunciata modifica il volume del linguaggio una volta per tutte, lo ingrandisce, induce coloro che parlano dopo a una più elevata attenzione. I neologismi offrono una nuova scelta di parole, le regole infrante sono granelli di sabbia che si staccano dalle dighe mobili della grammatica. Ovviamente, ciò che è detto ha effetti anche al di fuori del linguaggio. Uomini politici, usando una parola goffa, si giocano il favore di milioni di persone. Intere famiglie di professori sono mantenute dallo Stato a titolo di compenso d'una formulazione verbale ben riuscita del papà. Ingiurie verbali sono controbattute con l'eliminazione di una vita. Parole dolci ammorbidiscono i fianchi e avviano alla generazione di nuova vita. Scorie verbali portano alla separazione di desco e letto. Una immensa sedimentazione di cose scritte, che aumenta di giorno in giorno, registra talune delle cose che sono dette. Ma ciò che è detto, tutto quello che è pronunciato, ha effetti eterni anche se non è trascritto. Se la storia dell'umanità è più interessante oggi e si fa sempre più interessante del reciproco rompersi-la-testa dei suoi primordi, questo accade perché è sempre di più la storia della sopravvivenza di strutture linguistiche invece che di individui e razze. Che non si tratti della stessa cosa, lo avvertono anche gli sciovinisti indoeuropei quando si stupiscono dell'odierna singolare differenza d'aspetto degli individui che parlano l'in103
doeuropeo (e cioè gli «ariani»): zingari, scandinavi, neri statunitensi, ebrei, indiani ecc. Origine del linguaggio
Parlare è umano. In un momento decisivo del passaggio dalla scimmia all'uomo - direi: nel momento che definisce questo passaggio - il cervello comincia a crescere e continua a crescere indefessamente fino all'epoca attuale. La forma della curva di crescita non sembra che accenni ancora a un rallentamento del processo di crescita. E io non dubito che la svolta nell'evoluzione del cervello sia coincisa coll'inizio del linguaggio. Da quel momento in poi l'uomo rende più complesso il suo ambiente col solo fatto di parlarne. E come cresce l'insieme del parlato, deve continuare a crescere la testa. L'uomo diventa, in misura crescente, tutto testa. «Se sei via di testa, il culo fa festa»: detto raccolto da Mary Pound in val Venosta, la valle dei tirolesi pensanti.* Ma cos'è il linguaggio? Dobbiamo figurarci il fenomeno alle sue origini. Un'orda di scimmie (già abbastanza evolute) si scontra, in Africa, con un'altra, lontanamente imparentata ma nemica. La zuffa comincia, oggetto della contesa è un territorio di caccia. Tutti sbuffano, grugniscono e squittiscono in modo impressionante, in tutte le tonalità dell'innato repertorio di espressione vocale delle emozioni. Però quelli dell'una orda mescolano fra gli elementi di questo canto marziale, alcune brevi, inappariscenti sillabe che vogliono dire: A questo punto occorre che Gianni, Bepi e Toni attacchino il nemico sul fianco, girando senza farsi notare dietro quella grossa pietra; intanto Dino e Mario saliranno su quella palma storta e richiameranno su di loro tutta l'attenzione con un bombardamento a base di noci di cocco. Le scimmie dell'altra orda * Nell'originale, la frase è riportata nella versione grafica della pronuncia tedesco-venostana: «Pali dr Kopf à isch, hàt dr Ohrsch Fairàbmp»; vo1ta in tedesco letterario, la frase è: « Wenn der Kopf ab ist, hat der Arsch Feierabend», ovvero, in italiano: «Quando è via la testa, if culo fa festa» (ndt)
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non capiscono niente, cadono puntualmente nella trappola e si ritirano sanguinanti, zoppicanti e umiliate. Si festeggia l'evento. L'ozioso gioco con le sillabe, cui si sono attribuiti per 01ero passatempo significati non desumibili dal loro suono, ha dato i suoi frutti ed è il caso di perfezionarlo. Il cervello comincia a crescere. Gli eredi dei cugini sconfitti sono condannati, per i successivi milioni di anni, ali' esistenza scimJl).Ìesca oppure si estinguono. Quelli che hanno imparato il gioco delle sillabe diventano invece poco a poco quel che essi stessi - non senza ironia - si definiscono: i signori del creato. E mentre la festa è in corso, noi facciamo le nostre riflessioni. Sembra quasi che, fin dall'inizio dell'evoluzione del linguaggio, il non essere capiti fosse altrettanto importante dell'essere capiti: fin dalle origini, dunque, il linguaggio posto come barriera fra i «nostri» e gli «altri». L'obiettivo cui si mirava non era un linguaggio universale, bensì un linguaggio segreto, per la comprensione all'interno del gruppo a scapito altrui. Lì dove un popolo si suddivide in più popoli che proseguono separatamente le loro strade, si formano in brevissimo tempo (e cioè: in alcuni millenni) linguaggi del tutto diversi, dopo pochi secoli già reciprocamente incomprensibili. Perché, altrimenti, avremmo rinunciato a parlare tutti quell'indoeuropeo antico che oggi ci tornerebbe straordinariamente utile come linguaggio universale dalla California fino al Gange? Gli indiani americani sono andati anche oltre nella moltiplicazione dei loro linguaggi, e le tribù nere dell'Africa anche. Non è affatto facile - al di là della somiglianza delle parole che definiscono i numeri semplici - dimostrare una comunanza fra l'ungherese e il finnico, due lingue che pure si dicono strettamente imparentate. Gli ungheresi e i finnici da un lato, i persiani, gli slavi, i celti, i greci, i latini e i germanici dall'altro si sono diligentemente dati da fare nel forgiare, mediante continue modifiche della loro norma linguistica, idiomi specifici che impara a padroneggiare solo colui che si faccia improntare anche altrimenti nell'infanzia e nella gioventù
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dai canoni di ciascuna società. Questo processo non è stato certamente un pasticciare a casaccio con una lingua che avrebbe invece voluto essere sostanzialmente unitaria: è invece un processo insito nell'evoluzione del linguaggio fin dai suoi primissimi tempi, cioè la formazione specifica di linguaggi riservati agli iniziati. In piccolo, il fenomeno può essere osservato anche oggi in ogni classe ginnasiale, oppure - nel corso d'un paio di generazioni - nel rapido mutamento che le lingue europee subiscono attraverso gli snobismi di pronuncia e di vocabolario che s'irradiano dalle corti o dalle università (per esempio Oxford). L'alternativa: un linguaggio scimmiesco universale
Questa funzione secondaria, di caratterizzazione nazionale, presume che il linguaggio sia per parte rilevante frutto di apprendimento. L'alternativa - e cioè l'evoluzione di un linguaggio vincolante per tutta la specie, sulla base di un alfabeto innato di significanti - sarebbe anche immaginabile nel quadro di ciò che i meccanismi del comportamento consentono di fare. Si immagini se il repertorio di grida e di suoni a base di grugniti, schiocchi di labbra, sibili, fischi e sbuffi di cui le scimmie sono capaci fosse stato ulteriormente elaborato, magari fino alla complessità del canto delle balene, o anche un po' più avanti, e se i singoli suoni si fossero lentamente disgiunti dalle emozioni da cui scaturivano, e avessero acquistato invece una salda relazione con altrettanti concetti insiti nell'attività mentale degli animali. Un suono per dire sopra, uno per sotto; uno per davanti e uno per dietro; uno per lì e uno per qui, per fuori e dentro, per più e meno, bene e male, duro e morbido, bagnato e asciutto, freddo e caldo; per cambiamento e per mantenimento, per padre e madre, figlio e amico, e ancora un paio per definire le altre specie animali e forse anche un paio di termini geografici come monte e torrente e bosco e prato, e inoltre uno o due suoni che assumano il ruolo di verbi ausiliari, e infine un suono, sicuramente già 106
presente nelle scimmie, per la negazione. Si consideri quale quantità di significanti innati (o quanto meno: generalmente umani) sono già insiti nella nostra mimica: gioia, tristezza, paura, stupore, perplessità, minaccia, corteggiamento, simpatia e antipatia; e quanto vi si aggiunge con le gestualità di roani e braccia. Il repertorio di espressioni sonore con significati geneticamente definiti che ho appena tratteggiato non appare dunque irrealistico. Vi si potrebbe esprimere tutto ciò che interessa una scimmia o quasi un uomo, e basterebbe coll'ausilio di alcune accorte regole di concatenazione - per tutta la cultura. Sappiamo pure quale scarno corredo di segni e di concetti è apparso sufficiente a personaggi come Frege, Peano e Russell per elaborare tutta la matematica e, con la matematica - come si legge fra le righe -, l'intera descrizione del mondo.
Il marchio della tribù Ma non è andata cosi. Il linguaggio universale delle scimmie, il repertorio innato di significanti fonetici è rimasto povero, ed è anzi possibile che, nell'uomo, si sia ridotto rispetto a com'era nella scimmia: un paio di suoni gorgoglianti per ridere, grida di dolore e di spavento, alcune inflessioni nella melodia del linguaggio (l'interrogativa, l'irritata, l'implorante, la rabbonante, l'incoraggiante). In compenso ogni bambino è corredato d'un meccanismo che gli consente, verso la fine del primo anno di vita, di imparare i suoni della sua lingua e più tardi le parole per formare le frasi e impiegarle nel loro giusto senso. In questa fase della cosiddetta lallazione ( «babbling phase») o meglio, nella fase immediatamente successiva a essa, avviene anche un'evoluzione negativa: suoni che sono in un primo momento automaticamente a disposizione d'ogni infante, sono estinti in alcuni di loro e possono essere riattivati solo con grande fatica: gli italiani e i francesi, una volta che abbiano appreso la fonetica delle loro lingue, non riescono più a pronunciare la h tedesca e inglese; i tedeschi e i fran107
cesi hanno continue difficoltà con la r linguale italiana; i francesi e i tedeschi con il th inglese, e così via. Il marchio della lingua nazionale opera spietatamente già al livello dei singoli fonemi. E a questo punto sappiamo anche già cosa pensare se riemerge la solita disputa: l'essenza d'una lingua, dicono gli uni è ciò che può essere tradotto senza difficoltà e senza equivoci da una lingua nell'altra; e gli altri: l'essenza sta proprio in ciò che va perduto nella traduzione. E riecco così i due aspetti originariamente insiti nel linguaggio: la comunicazione e la delimitazione. La traduzione sfonda le barriere che i popoli hanno eretto fra di loro. Colui cui sta a cuore soprattutto l'estraneità della lingua straniera, sottolineerà l'insufficienza di ogni traduzione, rimanderà a sfumature che sono associativamente evocate da parole della sua lingua e percepibili solo da coloro che siano cresciuti in uno stesso mondo. Gli effetti sono singolari. A Kiev ho visto, affissa a un edificio, una grande targa di marmo nero, recante - una sotto l'altra in dorate lettere cirilliche - le due parole «Poctamt» e «Postamt», il bilinguismo russo-ucraino. Una regola della fonetica russa suggerisce di pronunciare «Poctamt» come «Postamt». Non è davvero il caso di ritenere che, a Kiev, un russo, posto di fronte all'una parola, o un ucraino di fronte all'altra, possano confondersi ove se ne potesse leggere una sola. Però una delle due parti della popolazione di quella città ne sarebbe sgradevolmente colpita. Le sfumature associative sono insite nella grafia delle singole lettere. Che il termine, originariamente, non fosse né russo, né ucraino, salta all'occhio del visitatore di lingua tedesca (Postamtin tedesco è l'ufficio postale), ma probabilmente a Kiev se ne sono già dimenticati. E non occorre nemmeno spostarsi tanto lontano. L'elenco telefonico sudtirolese registra, sotto «Bolzano», tutta la lista: Abart Frieda, corso Italia 17; Abate Antonio, via Gaismair 5, e così via; e poi, nello stesso volume, sotto «Bozen»: Abart Frieda, ltalienstr. 17; Abate Antonio, Gaismair108
str. 5. Lo stesso avviene per Merano, solo con «Meran» prima di «Merano» per effetto della successione alfabetica. Questa è una forma di rispetto per la lingua altrui portata fino alle conseguenze estreme, e che risulta però offensiva per coloro che presumono di essere comunque in grado di ravvisare sempre nella «Gaismairstrasse» la «via Gaismair», o viceversa. Traducibilità
Io faccio parte di coloro che, nelle lingue, apprezzano la possibilità della traduzione. Certi troppo intimi giochetti di parole non mi interessano. Ogni bambino è in grado di tradurmi da un'altra lingua, comprensibilmente, tutto quanto v'è d'urgente, d'indispensabile e di elementare. Naturalmente non sono insensibile alle cadenze che fanno la differenza fra la lingua russa e le altre slave, e so anche qual è lo stato d'animo d'un italiano a Bolzano quando gli si chieda della Italienstrasse anziché del corso Italia. Però riesco ugualmente a dialogare in modo del tutto soddisfacente, superando considerevoli ostacoli linguistici, con persone che la pensano come me, e cioè con quelle alle quali ciò che è detto importa più del modo in cui è detto. Imparo presto quel po' d'una lingua che basta per parlare delle cose che mi stanno maggiormente a cuore. Accade forse solo perché m'interesso di cose molto semplici e primitive? Può anche darsi, benché ciò che è semplice e primitivo per me, appaia a un altro forse complesso ed elaborato. Voglio definire così il genere di enunciati che mi preme: ciò che consente d'essere tradotto senza ambiguità. Nel caso di testi scritti, lo si può verificare. Si prenda un testo e lo si faccia volgere da un buon traduttore in un'altra lingua, poi da un altro in una terza e poi forse anche in altre lingue ancora, e poi si faccia il procedimento inverso fino alla lingua di partenza. Se l'autore riconosce ancora lo scritto come quello suo, allora i suoi enunciati sono del genere che intendo io. 109
Qualche osservazione ulteriore a questo proposito. Si potrebbe credere che io abbia solo riesumato, in modo pedante, l'antica differenza fra scienza e letteratura. Non è affatto vero. Innanzi tutto, nelle pubblicazioni scientifiche - e non solo in quelle di sociologia o di storia dell'arte, occasionalmente anche in quelle di fisica - si trovano esempi di prosa che non supererebbero il test della traducibilità nemmeno con la prima versione. In secondo luogo esistono nella narrativa tantissimi testi che si avvalgono di concetti così ben costruiti e d'una struttura così chiara che il traduttore non deve far altro che usare la sua lingua con la stessa cura per porgere al traduttore successivo una formulazione altrettanto chiara. Seconda osservazione, limitativa: non ho esperienza con lingue estranee al gruppo indoeuropeo. Particolarmente nel caso di quelle che non siano state per secoli segnate dal mondo concettuale europeo, attraverso il latino e il greco accademici - come l'ungherese, il finnico, l'ebraico -, potrei figurarmi l'esistenza d'una tutt'altra disposizione categorica elementare del mondo concettuale, per effetto della quale la traduzione in e da simili lingue diventi quasi impossibile. Diffido delle traduzioni dal cinese antico, le leggo volentieri, certo, ma con la sensazione, in questi casi, di imparare a conoscere il traduttore meglio dell'autore. Dovrei imparare io stesso una lingua davvero estranea - per esempio un linguaggio degli indiani sudamericani o un dialetto bantù - per stabilire fino a che punto sia universale la mia concezione di traducibilità di quello che m'interessa. È possibile che tutto ciò che penso altro non sia che una rimasticazione di pensieri che gli antichi romani e greci hanno premasticato per me. Che tutte le lingue europee, almeno nelle loro varianti erudite, altro non siano che traduzioni dal latino universitario medioevale? Qualcuno lo ha sostenuto. E allora il fatto che risultino fra di loro ben traducibili non sarebbe un miracolo. 110
Contributi accademici al linguaggio
Questa riflessione mi trascina improvvisamente in uno sgradevole pasticcio. Mi sono appena procurato, col test della traducibilità, uno strumento che attribuisce al cosiddetto ragionevole modo di pensare quella condizione particolare che gli si conferisce volentieri, e questo senza che, da parte mia, io abbia dovuto ricorrere all'arroganza accademica. Ho sostenuto che basta tradurre e ritradurre dei testi per distinguere le solide strutture di pensiero dalle solo fantasiose vacuità letterarie, appiccicate alle parole e con loro varianti a piacere. E invece a questo punto insorge il sospetto che questa traducibilità non posi altro che sul fatto che tutte insieme le nostre lingue abbiano accolto in sé, nel corso del tempo, molto dall'arroganza accademica, e più precisamente da una sola, unica; che la loro parentela non faccia altro che confermare un qualcosa che è, in sostanza, del tutto arbitrario. Come uscirne? La faccenda è seria, perché è in ballo l'autorità della mia corporazione. Non sono sicuro, in presenza di questo delicato problema, di riuscire a carpire alla mia riottosa fantasia una teoria. Ma voglio provarci. L'ho detto fin dall'inizio: in sostanza tutti noi facciamo la stessa cosa, partecipiamo cioè attivamente all'evoluzione del linguaggio. Noi scienziati produciamo pubblicazioni con la sensazione di risolvere vecchi problemi mediante nuove costruzioni verbali. Sulla validità di simili prestazioni s'è molto discusso, e si sono sostenute molte cose che a me sembrano insensate o quanto meno unilaterali. Per esempio: la diffusa e banale concezione della scienza come mera misurazione e catalogazione dei fenomeni _di questo mondo in vista del loro sfruttamento industriale. E comprensibile che questa concezione abbia guastato a persone di spirito vivace il gusto di ciò che in inglese si dice «science». E la colpa è nostra, o quanto meno di quelli fra di noi che - assieme al denaro che è assegnato loro dai promotori della ricerca e di cui hanno urgente 111
bisogno - abbiano accolto con compiacenza da quelle stesse istanze anche un pezzo di morale, ovviamente derivata da altri ambiti, quello politico o quello mercantile. Ci si compiace così di credere che tutta la scienza altro non sia che un ramo dell'industria. Il fenomeno non è certo nuovo. Quando erano ancora i regnanti e i militari a mantenere gli studiosi, questi dovevano dar prova dell'utilità del loro operare mediante prestazioni relativamente terrene: misurare territori, costruire fontane, fortificazioni e cupole di chiese, fare prognosi astrologiche, trasformare piombo in oro. Ma da un punto di vista più distaccato - e come tale anche occasionalmente onorato dai regnanti e dagli uomini politici più avveduti, oggi come in passato - il progresso della scienza si prospetta semmai come l'imperterrito tentativo di rendere. mediante formulazioni nuove - più conciso, preciso, inter.essante, e cioè in sostanza più corrispondente alla realtà, il modo e la maniera in cui si parla del mondo. La soddisfazione sottesa, quanto meno nel caso degli scienziati più bravi - che sono poi spesso anche quelli che costruiscono le fontane più belle e le fortificazioni più poderose - è una questione del tutto privata. L'effetto pubblico però è immenso, comparabile forse con quello delle religioni, spesso in concorrenza con la religione, nei primissimi tempi forse nemmeno distinguibile da essa. Io riesco a figurarmi che i filosofi (compresi i filosofi della natura, vale a dire coloro che oggi si dedicano alle scienze naturali) esercitino un effetto enorme sull'umanità, e precisamente attraverso diffuse modificazioni nell'uso del linguaggio, cui non si può sottrarre nessuno, nemmeno colui cui non passa per la testa l'idea di leggere i testi dei filosofi, e che forse non ne conosce neanche i nomi. È sin troppo semplice fare esempi tratti dal gergo degli psicologi. Parole come «frustrazione» mettono a disposizione di chi le usi nuovi stati d'animo, in presenza dei quali il nonno, quando li avvertiva similmente, poteva registrare forse solo un diffuso, indefinibile malumore. È possibile, ma non certo, 112
che i neologismi poetici di Freud e dei suoi commentatori facciano ormai stabilmente parte del patrimonio lessicale italiano (inglese ecc.), e influenzino quindi la coscienza delle successive generazioni. Anche la psicologia più antica, che allora era ancora materia per filosofi, ha dato il suo contributo: non si fa più quasi caso al fatto che «emozioni», «stati d'animo» erano definiti inizialmente solo nel linguaggio specialistico, e lo stesso vale per «attenzione», «coscienza», presumibilmente anche per «riflessione» e molte altre espressioni ancora. Nel caso delle tante parole che sono passate dalle antiche, medioevali o coeve stanze di studio al linguaggio corrente, la loro origine si riconosce dal fatto che appaiono, nelle diverse lingue, o come varianti dell'espressione tecnica latina (per esempio: emozione), o come traduzioni testuali: «Gegenstand», «predmet» sono palesi prodotti artificiali che riproducono, a senso, il latino «obiectus»; lo stesso vale per «Begriff», traduzione di «conceptus», e per «rappresentazione», «predstavljenje» che sono traduzioni di «Vorstellung». Particolarmente ricche d'influenza sono state, ovviamente e sempre, la fisica e la tecnica: dove troveremmo persone «energiche», se l'energia non fosse stata definita prima nella fisica, e non si sarebbe certo parlato d'una «sfera d'azione politica» o d'una «donna attraente» se talune cose del mondo concettuale di Newton non fossero passate, attraverso il linguaggio, nella coscienza di tutte le persone che parlano. Altri esempi: «risonanza», «polarità», «proiezione»; come sarebbe la nostra vita interiore senza queste immagini desunte dalla fisica? E così trovo dunque una soluzione per il mio problema: è assai verosimile che la traducibilità d'uno specifico tipo di testi da una lingua europea in ogni altra si basi sulla comune tradizione accademica di queste lingue. Però questa penetrazione di linguaggio colto nel linguaggio corrente non è un fenomeno marginale, non è un turbamento dell'evoluzione organica del linguaggio, bensì un qualcosa che fa essenzialmen113
te parte dell'evoluzione del linguaggio. È vero che tutti noi aggiungiamo alla lingua espressioni nuove, però le espressioni che vengono dagli studiosi hanno maggiori probabilità di sopravvivenza, non solo per il prestigio che gliene deriva, ma anche perché sono precise e innovatrici. Se dunque preferisco gli enunciati che sono ben traducibili, lo faccio anche perché sono il frutto di uno sforzo prolungato di ricerca delle espressioni meglio adeguate al sapere. Molte, che hanno la loro origine in tempi antichissimi, sono oggi ancora le migliori. Dobbiamo essere contenti che a forgiare la struttura concettuale della nostra lingua siano stati i filosofi, dopo tutto in qualche modo tenuti ad attenersi a una realtà. Altrove, forse, lo sono stati i maghi: in tal caso supererebbero la prova della traducibilità testi del tutto diversi, ammesso pure ~he i maghi sappiano poi produrre qualcosa di traducibile. E possibile che la magia abbia le sue radici nell'uno dei due aspetti originari del linguaggio, quello del non voler essere capiti, e la scienza nell'altro. Se cosi è, maghi e filosofi continueranno a esistere gli uni accanto agli altri finché esisterà un linguaggio vivo. Si trovano rappresentanti degli uni e degli altri nella medicina, nella politica, negli istituti universitari, dovunque. Linguaggio interiore e linguaggio esteriore Il problema della traducibilità è interessante per tutti colo-
ro che comunichino fra di loro con un linguaggio, anche quando parlano una sola lingua. Infatti tutti noi siamo in realtà poliglotti, quanto meno bilingui (parliamo per esempio il dialetto locale e l'italiano colto), e nella maggior parte dei casi trilingui: il dialetto, l'italiano parlato e l'italiano scritto. Al più tardi nella fase della scrittura, spesso già nell'esprimersi in lingua, si palesa la traducibilità o l'intraducibilità del linguaggio corrente interiore in cui il pensiero è elaborato. Ed emergono allora strutture mentali del tutto differenti. L'uno è stato nutrito fin da bambino in una famiglia cosiddetta istruita, con frammenti d'un corretto italiano colto, spesso 114
anche con prestiti desunti dall'italiano scritto che è abbondantemente citato in casa. Gli risulterà facile, più tardi, produrre frasi grammaticalmente corrette, e non incontrerà difficoltà nemmeno nella scelta delle parole, perché non dispone d'altre parole che non siano quelle accademicamente accettabili. Non so se sia il caso d'invidiare queste persone; certo è che non sono loro che - quando tutti, durante una conversazione, sono alla ricerca d'una espressione - sorprendono gli altri con un neologismo liberatorio. Chi è stato educato in questo modo, è in grado di tenere lunghi discorsi su cui non c'è nulla da eccepire, se non che alla fine te ne sfugge il contenuto. Questo deriva forse dal fatto che, nel caso loro, manca il filtro, insito in quelli come noi, fra l'intima vita interiore e l'enunciazione linguistica: filtro che fa trapelare solo ciò che ha superato l'ostacolo di questa prima traduzione, solo quel che vale la pena di tradurre e risulti abbastanza chiaro. Io mi stupisco meno degli altri nel sentir dire di N abokov, russo di origine, che ha scritto l'inglese moderno più elegante, e lo stesso di Joseph Conrad, polacco di origine. La maggior parte degli scrittori traduce, per tutta la vita, dal dialetto domestico nella lingua che ha appreso a scuola. Beckett, che ha scritto i suoi romanzi nel francese acquisito per tradurli poi in inglese, sua lingua materna, si è ovviamente sottoposto a una disciplina ancor più severa. Il linguaggio della scienza Dovrebbe pensare a Beckett chi si irrita del dover fornire in inglese i testi destinati a una pubblicazione, e del dover tenere in inglese le sue relazioni ai congressi. È quello che oggi comunemente avviene in campo scientifico. E dovrebbe in realtà bastare il ricordo di Keplero e Galileo, Newton e Leibniz che si intrattenevano - oralmente e per iscritto - nel latino accademico, senza che la loro fantasia creativa avesse a soffrire sotto la costrizione della lingua «straniera». Certo, allora tutti erano costretti a fare lo stesso sforzo, perché non
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esisteva più qualcuno che avesse il latino come propria madrelingua. Oggi invece, nei dibattiti, noi continentali siamo svantaggiati rispetto ai colleghi inglesi (e in minor misura rispetto a quelli americani), e dobbiamo subire un'o!traggiosa quantità di correzioni ai manoscritti che forniamo. E capitata però anche a me la soddisfazione di dover linguisticamente intervenire su manoscritti di colleghi di lingua inglese, quando era attribuito a me l'onere della redazione: non tutti quelli che sanno l'inglese sanno anche scrivere. E soprattutto: non ogni continentale che scrive in un inglese scadente sa esprimersi molto meglio nella sua lingua. Io so per esperienza diretta che coloro che nelle comunità mistilingui - in Alto Adige o nelle scienze - si servono nel modo più appropriato della propria lingua, padroneggiano per lo più anche l'altra. Quelli che con maggiore ostinazione difendono la propria lingua rispetto alle altre, difendono spesso in realtà il principio del non voler essere capiti. Scrivere Da sempre passa per persona particolarmente qualificata colui che sa tradurre la parola detta, o anche solo quella pensata, nella parola scritta. Per questo il titolo nobiliare «Graf» in tedesco e «grof» nelle lingue slave: da «graphein», che vuol dire «scrivere» in greco. Ciò che è scritto si può portare in giro, riprodurre, immagazzinare: conferisce a colui che scrive una voce possente che supera il tempo e lo spazio. Si vorrebbe credere che quanto più potente è la voce, tanto più avveduto è il discorso: e grosso modo questo vale, in effetti, per ciò che è scritto e particolarmente per ciò che è stampato. C'è la possibilità di correggere, colui che scrive può rileggere la traccia in diversi momenti per verificare se regge la prova di diversi stati d'animo e contesti. E capita spesso che ciò che è scritto risulti più sensato di colui che lo ha scritto. Nel linguaggio dei computer: la «macchina di Turing» compie operazioni nelle quali l' «automa finito» fallisce: la prima mac-
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china si distingue dalla seconda solo per la possibilità che ha di prendere appunti e di rileggerli. Basta un'intelligenza ordinaria per formulare singole frasi, verificarne la consistenza rispetto alle frasi vicine, e poi procedere allo stesso modo per pagine intere, tanto da produrre mediante la ripetuta applicazione del proprio limitato apparato concettuale un testo che nella tessitura dei rapporti fra i concetti (la parola testo deriva appunto da tessere) faccia brillare uno spirito che a ragione non s'attribuirebbe a colui che lo ha scritto. L'atto dello scrivere funge da amplificatore dell'intelligenza. I testi si sviluppano da sé. La conoscenza personale coll'autore è spesso deludente. Questi può dar la sensazione di non aver nemmeno compreso i propri scritti, e forse è perfino vero. L'autore, scrivendo, lotta con un antagonista - il testo che si sta formando - che gli è superiore. Per questo chi scrive soffre, e quanto meglio scrive, tanto più soffre: da perdente, da soggiogato dal testo (e non, come si sente talvolta dire: quanto più soffre, tanto meglio scrive). Ho comperato una vecchia macchina da scrivere sul ventre della quale un precedente proprietario aveva inciso questa frase: «Da questa macchina viene fuori tutto quello che vuoi». Di fronte a questa macchina io sto seduto in preda all'angoscia, considerando gli infiniti possibili testi fra i quali debbo scegliere il mio. Però quando la macchina comincia a ticchettare, mi vien voglia di cambiare la frase che reca incisa con «Se uno sa ciò che vuole, è già mezzo perduto». Un impertinente americano ha detto in una recente occasione: «Most of the writing that's being done today is not writing at all, it's just typing». E piacerebbe sapere cosa distingue lo scrivere dal dattilografare. Forse il fatto che, scrivendo, si comunica qualcosa di nuovo. Si può raccontare una storia nuova in linguaggio convenzionale, oppure una vecchia storia in un linguaggio nuovo. Però una storia nuova in un linguaggio nuovo non è capita: è - come del resto una storia vecchia in un linguaggio vecchio - «just typing». 117
Inquietanti relazioni fra linguaggio e anima La maggior parte di ciò che penso e sento è accompagnato dal linguaggio interiore. C'è sempre qualcuno che partecipa parlando. Questo qualcuno sono io, certo: in ogni caso quando ciò che dice diventa discorso pronunciato ad alta vo: ce, allora la frase è detta nella prima persona singolare. Il corrispondente pronome «io» - pare che nell'indogermanico primordiale fosse «eg» - era forse, in origine, un suono laringale d~stinato a richiamare l'attenzione su colui che lo pronunciava. Il suo inserimento nel sistema linguistico è stato inizialmente solo collaterale: in molte lingue - per esempio il latino, l'italiano e il serbo-croato - può essere omesso senza che la frase riesca meno comprensibile. Non appena tuttavia, attraverso una leggera distorsione dell'uso grammaticale, diventa un sostanti'(o, induce all'abuso. «L'Io» è il soggetto di molte proposizionLche inducono stati d'animo singolari con conseguenze filosofiche curiose. «L'Io pone se stesso» è una frase dal cui dolce veleno ci si difende meglio se si richiamano i significati originari delle sue parti componenti, e cioè «Io» (eg), suono che serve a localizzare chi lo pronuncia, «porre» = «collocare», e «se stesso»: un movimento che riconduce l'azione allo strano suono che ne è il soggetto. O meglio ancora: si sostituisce «l'Io» con «io»: io mi colloco. E questo non stupisce più nessuno. Eppure bisogna ammettere che le frasi che cominciano con «io» hanno in sé qualcosa di tutto particolare. Danno informazioni su eventi che si riassumono volentieri nel concetto di vita interiore. Altri parlano di spirito, psiche o coscienza. Ma esiste poi una cosa del genere, indipendentemente dal linguaggio, oppure la coscienza (anch'essa un bel costrutto del linguaggio accademico) insorge solo nel momento in cui se ne parla, forse anch'essa frutto d'una distorsione grammaticale? Cerco la risposta guardando negli occhi il mio bassotto. Questo misero coacervo di amore, sottomissione e sudice abitudini non dispone del pronome nella prima persona singola118
re. Il suo patrimonio lessicale attivo si limita all'abbaiare, al guaire e al ringhiare; quello passivo comprende sedici parole, per la maggior parte intimazioni in funzione di specifici comportamenti («operant conditioning» dicono gli psicologi), di cui fanno parte anche l'abbaiare e il guaire, e in aggiunta un paio di nomi propri. La capacità di riconoscere i fonemi non è precisa: non sa distinguere fra «ballare» e «parlare», fra «essen» e «fressen», fra «Katze» e «cazzo», fra «Gib mir die Hand» e «Spring an die Wand». Non è da presumere che la sua vita interiore sia verbalmente strutturata. Mi chiedo come colga il suo «lo» senza parole. Quando lo guardo negli occhi e lui guarda negli occhi me, non riesco in ogni caso a ridurlo a mera macchina di riflessi. Non so figurarmi un cane schizofrenico. Questo terribile deragliamento del pensiero si palesa spesso, inizialmente inavvertibile dall'esterno - nel linguaggio interiore. Un amico psicotico mi ha descritto l'orrore che ha provato in occasione del suo primo incontro con una seconda voce interiore. Mentre rifletteva sul tenore d'un discorso che doveva pronunciare, e poi nel recitare un'infantile preghiera prima di addormentarsi, ha fatto caso che percepiva dentro di sé, oltre alla prima, anche una seconda voce del tutto indipendente. Il suo spavento era in un certo senso connesso col fatto che, fino a quel momento, aveva considerato il suo discorso interiore come la sua autentica essenza. E non gli riusciva di accettare la sua essenza come fatta di due parti. Ben presto la seconda voce in lui s'è resa indipendente, ha cominciato a parlare di lui in te~z~ persona, è diventata l'oggetto centrale di tutti i suoi pens1en.
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I O · Alcune considerazioni sui meccanismi cerebrali del linguaggio
1. Livelli gerarchici nel linguaggio e nell'organizzazione del cervello
Nel tentativo di identificare i meccanismi cerebrali responsabili della comprensione e della produzione del linguaggio, propongo dapprima di fissare i livelli corrispondenti dei due campi di indagine, fisiologica e linguistica. L'immagine interna cerebrale di una parola, di un morfema, di un fonema, di un rapporto lessicale, è da ricercarsi al livello molecolare della sostanza nervosa, oppure risiede nell'attività di singole cellule cerebrali, o in quella di gruppi di centinaia o di migliaia o di milioni di cellule? Per questa corrispondenza di livelli, un primo appiglio si può forse trovare nel concetto di morfema, utilissimo anche al di fuori del contesto linguistico in una teoria generale del cervello, e un altro appiglio in una considerazione delle fasi critiche di apprendimento che recentemente hanno incominciato ad emergere non solo nell'acquisizione del linguaggio ma anche nell'approntamento dell'apparato ricettore visivo e dei centri cerebrali annessi. a) I morfemi sono gli elementi oltre i quali un'analisi grammaticale non può andare, una sorta di nomi propri nel senso più generale, la cui struttura in termini di lettere (o fonemi, o «tratti distintivi») non è isomorfa alla struttura dell'oggetto rappresentato più di quanto la struttura del nome Giuseppe è da intendersi come un'immagine della figura del signor Giu120
seppe. La ricerca di qualche cosa di analogo ai morfemi nell'attività neuronale del cervello ha costituito uno dei temi centrali della neurofisiologia degli ultimi due decenni. Gran parte del comportamento degli animali superiori non avviene in risposta a variabili continue (diversamente, ad esempio, dall'inseguimento di una preda che è semplicemente funzione dell'angolo fra la traiettoria dell'inseguito e quella dell'inseguitore), m~ è ~ r~pporto a