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Italian Pages 156 Year 2011
IMPRONTE N. 4 Pedagogia, filosofia e (inter)cultura Collana diretta da Paolo Perticari
IL CAPITALISMO DIVINO Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione con Boris Groys, Jochen Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk e Peter Weibel a cura di Marc Jongen Edizione italiana tradotta e curata da Stefano Franchini con una postfazione di Paolo Perticari
IMPRONTE
Titolo originale dell’opera: Der göttliche Kapitalismus. Ein Gespräch über Geld, Konsum, Kunst und Zerstörung mit Boris Groys, Jochen Hörisch, Thomas Macho, Peter Sloterdijk und Peter Weibel, (Marc Jongen Hrsg.) © Wilhelm Fink GmbH & Co. Verlags-KG, München, 2007. Traduzione di Stefano Franchini
© 2011 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Impronte n. 4 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD)
INDICE
INTRODUZIONE. LE METAMORFOSI DELLA DIVINITÀ E LE FIGURE DEL CAPITALE
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IL CAPITALISMO DIVINO. COLLOQUIO SU DENARO, CONSUMO, ARTE E DISTRUZIONE
INTERVENTI DI BORIS GROYS, JOCHEN HÖRISCH, THOMAS MACHO, PETER SLOTERDIJK E PETER WEIBEL
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BIBLIOGRAFIA
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APPENDICE TESTUALE Friedrich Engels La borsa. Osservazione supplementare al terzo volume del “Capitale” (ca. 1891-1892) Max Weber La comunità di mercato (inizio 1914) Walter Benjamin Il capitalismo come religione (ca. metà 1921) Slavoj Žižek Guerre stellari III. Sull’etica taoista e lo spirito del capitalismo virtuale (2005) POSTFAZIONE. IL CAPITALISMO DIVINO COME QUARTO MONOTEISMO
p. 107 p. 113 p. 119
p. 127 p. 145
a federica
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INTRODUZIONE
LE METAMORFOSI DELLA DIVINITÀ E LE FIGURE DEL CAPITALE Bozzetto di teologia economica
Ora vi sfido tutti voi atei: con qual mezzo salverete il mondo e quale via normale gli avete saputo trovare, voi uomini di scienza, fautori dell’industria, delle assicurazioni, del salario e del resto? Con qual mezzo? Col credito? Che cos’è il credito? A che vi condurrà il credito? Fëdor Dostoevskij, L’idiota (1869)1
Nel presentare questo interessante colloquio, pubblicato dall’editore tedesco Wilhelm Fink nel 2007, ma svoltosi in Germania nel luglio del 2005, dobbiamo anzitutto avvertire il lettore italiano circa l’importanza che, in questa occasione, rivestono le date. Il dibattito ha avuto luogo, infatti, prima che scoppiasse, nell’agosto del 2007, nel cuore della finanzia mondiale, gli Stati Uniti, il caos economico della crisi sistemica in corso, una perturbazione propagatasi nei mesi successivi all’economia capitalistica più antica del pianeta e più legata a Wall Street, quella britannica, dove, il 12 settembre 2007, la Northern Rock Bank rivelò alla Banca d’Inghilterra il proprio stato di decozione finanziaria, il che scatenò, venerdì 14 settembre e il successivo lunedì 17, una massiccia corsa agli sportelli dei risparmiatori inglesi (la prima run on banks verificatasi in Europa dall’inizio degli anni Trenta), aggravando una situazione che terminò alla mezzanotte e un minuto del 22 febbraio 2008, quando il governo britannico dichiarò nazionalizzato l’istituto di credito, trasponendo il problema della finanza privata al livello del bilancio pubblico. In quell’istante, la crisi si riverberò ufficialmente anche sul vecchio continente. In seguito, il 15 settembre 2008, con la bancarotta del colosso Lehman Brothers Bank, il domino globale della crisi bancaria iniziò a esercitare ovunque i suoi effetti travolgenti, trasmettendosi in breve lasso di tempo 1
Fëdor Dostoevskij, L’idiota, tr. it. Alfredo Polledro, Einaudi, Torino 369-370.
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alle economie reali dei Paesi d’antica tradizione capitalistica. Da quel momento, abbiamo assistito a innumerevoli corse agli sportelli, a centinaia di fallimenti bancari (specie negli Stati Uniti), allo spostamento di ingenti capitali speculativi e, per consapevole scelta politica, ai primi default di Stati sovrani, fattisi carico, in generale (e di concerto con le principali Banche centrali), di salvare temporaneamente il sistema creditizio da una crisi epocale di solvibilità, attraverso repentini bailout oppure attraverso strategie di fiat money e quantitative easing o di rigida austerity, provvedimenti proclamati dalla maggior parte degli antichi Stati capitalistici. Il ricorso a queste misure, accompagnato dalle numerose rivolte sociali degli ultimi mesi in vari Paesi (ricchi, emergenti e poveri), è la spia che la crisi economica comincia a sgretolare l’apparente solidità non solo di molte compagini statali, ma di interi blocchi geopolitici e della stessa opzione unipolare, rendendo sempre più urgente, in economia, la soluzione drastica di una generalizzata ristrutturazione dei debiti (privati e pubblici) e rendendo sempre più probabili, in politica, sia una seria frizione imperialistica in aree periferiche, già anticipata dalle violente guerre valutarie in corso tra le principali metropoli finanziarie del pianeta, sia un aggiornamento degli accordi trasversali tra le élite globaliste. Le affermazioni dei relatori, quindi, si svolgono in un contesto precedente al palesarsi della crisi sistemica, e come tali vanno valutate. Si ha come l’impressione, infatti, che con quei recenti avvenimenti economici sia calato un sipario storico, si sia prodotta una cesura, e sono in molti oggi ad avvertire la sensazione di vivere nel ruolo di spettatori in un teatro, durante la pausa tra un atto e il successivo, in attesa che vengano cambiate le scene. Benché il dibattito svoltosi nei locali universitari della Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe tra alcuni grossi calibri del pensiero filosofico tedesco sia condotto a un altissimo grado di astrazione, benché gli approcci dei relatori abbiano un carattere privo di sistematicità, va riconosciuta tuttavia la qualità di molti aperçu teorici, nonché la densa consistenza prognostica di intuizioni, spunti analitici e abbozzi geopolitici apparentemente slegati tra loro, ma utilissimi per descrivere e anticipare la configurazione che assumerà il palcoscenico quando, dopo l’attuale fase di transizione, verrà nuovamente alzato, davanti ai nostri occhi, il sipario della storia. Tra le righe di questi brevi interventi, inoltre, si respira quella che definirei una boccata d’aria fresca metodologica… una sorta di tur-
Introduzione. Le metamorfosi della divinità e le figure del capitale
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ning point epistemologico dalle potenzialità euristiche vaste e ancora inesplorate. Possiamo infatti scorgervi l’abbozzo generale di un nuovo metodo d’indagine che definirei, in assenza di altre e migliori categorie, teologia economica. Il termine, introdotto nel dibattito filosofico da un’indagine di Giorgio Agamben pubblicata nel gennaio del 20072, allude inevitabilmente, e con una forte dose di attualità, a un perfezionamento, a un’integrazione o a una vera e propria alternativa rispetto alla più nota disciplina della teologia politica. Le categorie nuove e ancora incerte di “capitalismo divino” e “teologia economica”, infatti, rimandano ai solidi nomi di Carl Schmitt (che nel testo non è mai citato) e in misura maggiore di Karl Marx (menzionato come semplice orpello decorativo).3 Tuttavia, come dichiarano esplicitamente i relatori, l’angolo prospettico adottato, a partire dal quale viene affrontata l’ampia e affascinante tematica del “capitalismo divino”, è l’idea genialmente tratteggiata da Walter Benjamin in un breve testo del 1921 circa intitolato “Capitalismo come religione”.4 La proposta teorica benjaminiana consiste, in sostanza, nel neutralizzare il paradigma interpretativo tipicamente sociologico e assai problematico della secolarizzazione, rifiutando l’idea che il capitalismo sia derivato dalla religione protestante (secondo la celebre tesi weberiana) e nel leggere piuttosto il capitalismo come una vera e propria religione autonoma e sui generis, benché priva, secondo Benjamin, di parecchi elementi costitutivi delle confessioni tradizionali e ridotta a puro culto. “Il cristianesimo nell’età della Riforma”, egli scrive, “non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo”5. In tal modo, al concetto di secolarizzazione subentra prepotentemente quello di 2 3
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Giorgio Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007. I recenti volumi della monumentale MEGA, l’editio princeps delle opere di Marx ed Engels, attestano l’originalità, la ricchezza e l’attualità dell’impressionante materiale accumulato per il libro III del Capitale. Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. “Das Kapital” und Vorarbeiten. Band. 14. Manuskripte und Redaktionelle Texte zum dritten Buch des “Kapitals” 1871 bis 1995. Text und Apparat, a cura della Internationale Marx-Engels-Stiftung Amsterdam, Akademie Verlag, Berlin 2003. Vedi infra, p. 119 sg. Cfr. inoltre Walter Benjamin, “Capitalismo e religione”, in Id., Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 284-287. Vedi infra, p. 124.
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metamorfosi e lo studio del capitalismo viene espulso dall’economia politica per essere attratto nell’orbita della storia e scienza delle religioni.6 Vedremo meglio quali altre conseguenze comporti questa visione benjaminiana di ampia portata e come si accordi con l’affermazione di Jochen Hörisch, assai rappresentativa dello spirito con cui è stata condotta la discussione, secondo cui “l’economia politica è la teologia di oggi: ma essa non vuole vedere proprio questa circostanza”.7 Le domande cruciali per comprendere la portata degli interventi sono fondamentalmente due: che cosa significa qualificare come “divino” il capitalismo? In che modo è possibile smontare, per rimontare meglio, il concetto di “teologia economica”, servendoci della lezione marxiana per cui, in realtà, l’economia sarebbe sempre e solo economia politica, e ripercorrendo il cammino che, a suo tempo, ci aveva portati a decostruire – e a dichiarare ormai obsoleta – la categoria schmittiana di “teologia politica”, erroneamente ritenuta neutrale e scientifica?8 A questo secondo, complesso interrogativo risponderemo in seguito. Qui invece si può già accennare al fatto che il capitalismo globalizzato, come totalità storica planetaria, sarebbe “divino” (questa la tesi di fondo del libro, sebbene non unanimemente condivisa dai relatori), perché si presenta come una religione, come un orizzonte indiscutibile, 6
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L’approccio più affine, che andrebbe indagato con maggiore attenzione, è il malriuscito tentativo di Spengler di ricondurre l’economia politica alle forme di un peculiare Seelentum, ossia alla specifica configurazione della cosiddetta “anima collettiva” occidentale o faustiana. Cfr. Oswald Spengler, Il tramonto dellOccidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale, Longanesi, Milano 1981, pp. 1344-1398 (“Il mondo delle forme della vita economica”); Id., L’uomo e la tecnica. Contributo a una filosofia della vita, Guanda, Parma 1992, pp. 96 sg. Tale concetto fonda anche la categoria di “Occidente” sviluppata da Friedrich Hielscher, Die Selbstherrlichkeit: Versuch einer Darsterstellung des deutschen Rechtsgrundbegriffs, Vormarsch-Verlag, Berlin 1928, pp. 30 sg. e Id., Das Reich, Hermann & Schulze, Leipzig 1931; sulla “metafisica dell’anima collettiva (Seelentum)” come eredità schellingiana, cfr. Theodor W. Adorno, Spengler dopo il tramonto (1938), in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1981, p. 41-42 e 56-60. Il tema dell’anima collettiva occupa a fondo Adorno e Benjamin intorno alla metà degli anni Trenta, come si evince dagli epistolari. Vedi infra, p. 89. Cfr. “Introduzione” a Paolo Perticari e Stefano Franchini (a cura di), L’origine della cristianità e la politica dei primi cristiani, Marinotti Editore, Milano 2008, pp. XXIV sgg.
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ultimo e chiuso, insuperabile, che trascende il reale in quanto, a sua volta, impossibile da trascendere anche solo nel pensiero: humus vitale omogeneo, milieu privo di alterità, ordine del discorso dominante, unica utopia residua che si autoalimenta, esclusivo oggetto di venerazione. Osservando tuttavia alla debita distanza, notiamo che gli spunti più rigogliosi del presente dibattito fioriscono sulle faglie interpretative, sulle crepe polemiche apertesi fra gli abbozzi dei relatori, proprio rispetto alle questioni di fondo. È infatti Thomas Macho, con il suo concetto di culturalizzazione, che contesta nella maniera più diretta e stimolante l’idea iniziale di Peter Sloterdijk, vale a dire che il capitalismo contemporaneo sia divino e che il “capitalismo autoritario” d’antan possa ripresentarsi anche oggi sotto forma di religione capitalistica e con un volto, per così dire, asiatico. Macho sostiene che, nel presente, non solo il capitalismo divino, ma il capitalismo tout court, insieme all’epoca delle sue “teorie eroiche”, sia ormai morto o, per meglio dire, sia entrato nella fase della sua definitiva culturalizzazione. Per comprendere la portata della critica è subito indispensabile una precisazione concettuale. Infatti, un fenomeno storico è “culturalizzato” quando perde la sua capacità di generare conflitto, fuoriuscendo dalla sfera politica, dall’ambito della violenza politica e sociale, e producendo solamente dibattito culturale, un processo il cui esito ultimo è solitamente la musealizzazione del fenomeno stesso, ossia la sua ulteriore fuoriuscita dalla sfera culturale e la sua sopravvivenza nel dominio estetico e artistico. Queste metamorfosi sono determinate da molti fattori, in primis da quello anagrafico: quando vengono meno i protagonisti diretti dei fatti storici si affievolisce la carica conflittuale che li accompagna. Inoltre, un fenomeno storico perdura tanto più a lungo nella sua configurazione politica quanto maggiore è la sua capacità di incarnarsi in istituzioni stabili e durature, producendo memoria condivisa e alimentando il conflitto dal quale è stato partorito. La critica di Thomas Macho è pertinente e corrosiva, ma incompleta e parziale, perché non tiene in considerazione il fattore storico, di cui invece sembra molto più consapevole Boris Groys. Il deficit di storicità e l’eccesso di astrattezza costituiscono il peculiare fascino anche dell’approccio adottato da Sloterdijk, ma insieme il suo limite maggiore. Quando Sloterdijk sostiene che il “capitalismo” contemporaneo abbia una natura divina e religiosa, noi ci chiediamo: quale capitalismo? Quando Macho invece sostiene che il “capitalismo” sia ormai culturalizzato, ci chiediamo di nuovo: quale capitalismo? Fa
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bene Groys ad accennare alla possibilità che oggi esista effettivamente un capitalismo divino, ma che non possa più assumere le forme del capitalismo autoritario ormai tramontato. Il “capitalismo” in sé, infatti, non esiste. Nella storia, ovunque si impianti, compare in determinate “figure” fenomeniche che subiscono prevedibili metamorfosi: riteniamo, con Marx quale vademecum teorico, che una certa forma di capitalismo, il capitalismo produttivo o industriale, sia ormai soggetto (nei Paesi in fase di avanzata e irreversibile deindustrializzazione) al processo di culturalizzazione (e forse a quello di prossima musealizzazione); che un’altra forma di capitalismo, basata sulla centralità del capitale-merce, l’abbia sostituita negli scorsi decenni, assumendo una natura divina; e che attualmente, dopo lo scoppio della crisi sistemica, una terza forma di capitalismo, interamente incentrato sul capitale monetario, finirà per assumere tratti divini, determinando la configurazione della società nel suo complesso e al contempo le nuove frontiere del conflitto politico. *** Nel primo libro del Capitale e in tutto il suo celebre abbozzo grezzo pubblicato solo nel 1939 a Mosca con il titolo Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf), l’astronomia sociale marxiana è pervasa e governata, per così dire, da un principio economico, da una forza chiamata capitale ovvero “forma fondamentale del capitale” o anche “capitale in generale”, ossia il capitale nella sua astrazione concettuale più alta, precedente all’indagine delle sue figure storiche, incarnate, concrete e fenomeniche.9 Nel Capitale troviamo la categoria di “forma fondamentale del capitale” (Grundform des Kapitals), mentre l’analoga definizione “capitale in generale” compare nel piano dell’opera fin dalle sue prime formulazioni (1857-58).10 Il “capitale in generale” – l’energia astratta che configura a propria immagine e somiglianza “l’organizzazione economica della società moderna”,11 premessa concettuale necessaria 9 10 11
Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx (1968), Laterza, Roma-Bari 1971, p. 76. Ivi, p. 64-66. Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 196. D’ora in avanti i passi tratti da quest’edizione saranno citati nel corpo del testo tra parentesi quadre, con indicazione di volume e pagina.
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per comprendere il funzionamento del capitalismo – non s’incontra mai nella storia in forma pura, ma lo troviamo scomposto unicamente in processi ciclici reali e in figure fenomeniche determinate. Per questo non si può mai parlare di “capitalismo” in generale, pura astrazione concettuale, ma solo di capitale in funzione incarnato in determinate “figure” logiche e storiche, a loro volte soggette a incessanti metamorfosi, descritte nella prima sezione del libro II del Capitale intitolata appunto Die Metamorphosen des Kapitals, di cui, forse per l’angustia disciplinare degli strumenti interpretativi utilizzati, non si è mai compresa con sufficiente chiarezza l’importanza teologico-economica. Ma che cosa sono, concretamente, queste “figure” del capitale? L’oscillazione terminologica di Marx tra Figur, Gestalt e Form non aiuta certo l’interprete: un primo inevitabile rimando ricollegherebbe il concetto a quelli di Gestalt (figura) e Gestaltung (figurazione) o Moment (momento) nella Fenomenologia dello spirito di Hegel.12 Tuttavia, se da un punto di vista sistematico, il movimento compiuto dalle figure marxiane del capitale in generale assomiglia alle stazioni del movimento compiuto dallo Spirito assoluto hegeliano, non è possibile sovrapporre i concetti di “figura” dei due pensatori: l’impressione è che soltanto l’utilizzo lessicale rimandi a Hegel, non quello concettuale, e che in Marx si trovi un utilizzo di tali categorie molto meno rigido, meno filosoficamente controllato e ponderato che in Hegel. Benché Marx non lo spieghi mai esplicitamente – e nonostante un’incertezza terminologica attestata fin dai primi sette manoscritti e dai quattro frammenti che costituiscono l’ossatura della prima sezione del libro II e dalla loro continua revisione e riformulazione13 –, 12 13
Troviamo l’esposizione più chiara di questi concetti nel capitolo 7 (“La religione”) di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2000, pp. 899-903. Cfr. Karl Marx, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. Band 11: Manuskripte zum Zweiten Buch des “Kapitals” 1868 bis 1881, hrsg. von der Internationalen Marx-Engels-Stiftung, Akademie Verlag 2008, Berlin pp. 523-697. Qui Marx usa in alternanza i termini, Figur, Form e Gestalt fin nei titoli dei capitoli e dei paragrafi. Ricordiamo inoltre che Engels ha indebitamente intitolato il libro III “Il processo complessivo della produzione capitalistica”, mentre Marx aveva previsto, nel primo manoscritto, quello principale del 1864-65, il titolo “Die Gestaltungen des Gesamtprozess” (Le configurazioni del processo complessivo). Vedi Karl Marx, Gesamtausgabe (MEGA), Zweite Abteilung. Band 14: Manuskripte und redaktionelle Texte zum dritten Buch des “Kapitals”, cit., p. 385.
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deduciamo che queste forme fenomeniche del capitale coincidono con i suoi diversi “tipi di funzione” (Funktionsformen). Il concetto operativo di “funzione” (Funktion), assente nella Fenomenologia, slega questi concetti dal sistema hegeliano e, mutandone la portata, li riconduce per la prima volta nell’alveo dell’analisi storico-sociale. A tal proposito, Marx scrive: Le due forme (Formen) che il valore-capitale assume entro i suoi stadi di circolazione sono quelle del capitale monetario e del capitale-merce; la sua forma appartenente allo stadio di produzione è quella di capitale produttivo. Il capitale che nel corso del suo ciclo complessivo assume e di nuovo abbandona queste forme e in ciascuna assolve la funzione ad essa corrispondente, è capitale industriale, industriale qui nel senso che abbraccia ogni ramo della produzione condotto capitalisticamente. Capitale monetario, capitale-merce, capitale produttivo non indicano dunque qui specie autonome di capitale (selbstständige Kapitalsorten), le cui funzioni costituiscano il contenuto di branche parimenti autonome e separate le une dalle altre. Esse indicano qui soltanto particolari tipi di funzione (Funktionsformen) del capitale industriale, il quale li assume successivamente (nacheinander) tutti e tre. [II, 54, tr. it. mod.]
La ciclica successione delle metamorfosi e delle tre figure fenomeniche del capitale (produttivo, merce e monetario) avviene non soltanto sul piano logico-economico, ma anche sul piano storico-economico: lo possiamo sostenere attingendo ai manoscritti del libro III, ormai interamente pubblicati, e rischiando una sovrainterpretazione di Marx. Il ciclo industriale è costituito dalla necessaria compresenza e simultaneità delle tre figure, ciascuna delle quali, tuttavia, assume di volta in volta una specifica centralità funzionale. Questa compresente “successione” quindi non ha luogo solamente a livello logico, ma anche nello sviluppo complessivo del modo di produzione industriale; Marx, a quest’altezza della sua argomentazione, cerca di spiegarlo con estremo sforzo ed esitazione. [II, 54]. Il passo decisivo, che trasforma il capitale in generale in capitale produttivo o industriale, avvia un ciclo che non si compie solo sul piano logico, ma fa percorrere alle società che si industrializzano i vari stadi di sviluppo economico incentrati ogni volta su una specifica Figur o Funktionsform di quel capitale ovvero, come afferma Marx, su un suo peculiare modo di esistenza (Existenzweise o Daseinsweise). Questa successione sovverte letteralmente “il tipo economico-storico di società” (der ökonomisch-geschichtliche Typus der Gesellschaft). [II, 57]
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Marx tornerà in un altro manoscritto del libro II su questo punto molto spinoso, cercando di illustrarlo con analoghe categorie ma con formulazioni diversi. Parlerà di “una successione di fasi” (Sukzession von Phasen), del “processo complessivo” come “unità dei tre cicli […] la cui contemporaneità (Gleichzeitigkeit) è mediata dalla loro successione (Nacheinander)” [II, 107, tr. it. mod.]. Ogni società fecondata dal modo di produzione capitalistico basato sulla grande industria, quindi, sperimenterà una compresenza logica delle tre figure, ma ciascuna di queste, in successione storica, assumerà una peculiare centralità economica e funzionale, dettata dall’avanzamento del processo di accumulazione del capitale. Anticipando tre utili categorie che riprenderemo in seguito e ricalcando la topologia marxiana, affermiamo che a un Alto capitalismo (sintesi economico-politica incentrata sulla figura del capitale produttivo) segua un Medio capitalismo (incardinato sulla figura del capitale-merce) e infine un Basso capitalismo (configurato dal capitale monetario). Si può inoltre sostenere che la geniale architettura del Capitale e la sua ponderatissima modalità espositiva, pur in presenza di una forte oscillazione terminologica, instaurino una diretta corrispondenza tra Libro e Realtà (logica e storica). Nelle intenzioni dell’autore, se il libro I radiografa le società incentrate sul capitale produttivo, il libro II sviscera le dinamiche delle società incentrate sul capitale-merce, mentre il libro III quelle incardinate sulla centralità del capitale monetario. Di qui l’importanza, nelle società impegnate a transitare dal Medio al Basso capitalismo, di studiare e mettere a disposizione un’edizione critica completa dei manoscritti marxiani dei libri II e III secondo il piano e la ripartizione originale previsti dall’autore. Quando il capitale abbandona la sfera economica astratta e incontra l’agone storico nelle forme funzionali specifiche delle sue tre figure fenomeniche, quando diventa “astrazione in actu” [II, 108], le sue tendenze travolgenti generano delle resistenze di natura politica – ben descritte da Marx nel libro I del Capitale –, interagendo con le quali l’Economico partorisce configurazioni storiche, forme determinate che chiamiamo, appunto, “capitalismi”, unità sintetiche economico-politiche. Scrive Marx: “Après moi le déluge! è il motto di ogni capitalista e di ogni nazione capitalistica. Quindi il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società” [I, 305]. Come ormai pensiamo di aver compreso, la resistenza non si sviluppa però contro il “capitale in
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generale”, ma, di volta in volta, rispetto alla sua figura fenomenica socialmente e storicamente predominante. Marx aveva davanti agli occhi il tipico conflitto sociale dell’Alto capitalismo, la fase di rapida, incipiente e devastante industrializzazione, al momento della prima metamorfosi del capitale in generale, del suo decisivo “salto mortale” in capitale produttivo. Marx quindi descrive principalmente quel tipo di “ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia” [I, 453], che nella sua epoca aveva il ruolo politico più attuale e urgente: quella ingenerata dal capitale produttivo, che aveva il proprio baricentro nello sfruttamento inaudito della forza-lavoro industriale. Ogni stadio storico, tuttavia, genera una specifica lotta di classe, in cui non cambia la struttura profonda dell’agone – proprietari dei mezzi di produzione versus espropriati o “decapitalizzati” –, ma muta il ruolo funzionale dei contendenti, ossia cambia la veste del conflitto di classe a seconda della configurazione storica del capitalismo. Alla centralità del capitale-merce corrisponderà inevitabilmente una lotta di classe che contrapporrà le figure del capitalista commerciale e del consumatore collettivo, mentre il capitale monetario partorirà una lotta tra la bancocrazia (Bankokratie) – un’utilissima categoria marxiana evocata fin dal libro I del Capitale, in cui compare come una sorta di hapax legomenon e quindi tanto più preziosa, ma poi magistralmente esposta nei materiali del libro III – e il risparmiatore collettivo oppure la sua figura negativa, l’intera società indebitata. La stessa metamorfosi complessiva, logica e storica, cui va soggetto l’arché del modo di produzione capitalistico, quindi, investe anche i soggetti in campo e le forme della loro contrapposizione. In questo senso, la teologia economica può darci preziose indicazioni sulle società deindustrializzate e post-consumistiche ovvero indebitate. *** Dopo aver messo brevemente a punto, con Marx, un concetto operativo di “capitalismo”, passiamo ad indagare l’ampio tema della sua natura “divina”. Si è già detto che gli autori del colloquio qui presentato prendono avvio da un frammento di Walter Benjamin del 1921 circa, intitolato “Capitalismo come religione”. Questo breve testo, in effetti, costituisce un’utile piattaforma per illustrare gli snodi teorici della “teologia economica”. Come primo passo bisogna tracciare brevemente il confine che separa quest’ultima dalla “teologia politica”. Ripercorrendo la strada già in parte battuta nel nostro tentativo di
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decostruire il concetto fintamente “scientifico” e neutro della teologia politica schmittiana,14 possiamo sostenere che la teologia economica, al pari della “teologia politica”, è un metodo attraversato da impetuosi flussi di politicità, con risvolti pragmatici e occasionalistici molto marcati, perché teologo, giurista ed economista sono profondamente coinvolti nella vicenda e nelle sorti della Chiesa, dello Stato e dell’Impresa, ossia istituzioni realmente operanti nel presente. Per questa ragione, rimodellando le indicazioni di Carl Schmitt, Jacob Taubes e Jan Assmann, abbiamo inizialmente distinto una “teologia politica” propriamente detta – rivolta alla dimensione verticale del potere e intenta a derivare concetti giuridici legittimanti da theologoumena elaborati prevalentemente dalla Ordungstheologie – da una “teologia sociale”, la quale invece lavora in una dimensione orizzontale con concetti della teologia ereticale e minoritaria, al fine di delegittimare, indebolire o sovvertire un ordinamento esistente. La teologia sociale riguarda quindi invariabilmente, e tende sempre a perseguire, la fine di un ordinamento. Seguendo le acute osservazioni di Walter Benjamin,15 abbiamo distinto una fine relativa (come telos), interna all’ordine storico e temporale, da una fine assoluta (come eschaton). Queste due accezioni della “fine” introducono un’importante articolazione nel concetto di teologia sociale. Da un lato, esistono infatti teologie sociali dal chiaro intento sovvertitore e anticratico, ma rivolte alla creazione di un nuovo ordinamento e che recano quindi in sé potenzialità ordinative e formative […]. Esse, esaurita la loro carica rivoluzionaria, teologico-sociale, si convertono in nuovi edifici teologico-politici, rientrando in quella dialettica della violenza mitica che pone il diritto e, così facendo, riproduce il conflitto che lo ha generato. […] Dall’altro lato, esistono teologie sociali “assolute”, volte cioè a distruggere l’autorità e la struttura di potere data, ma senza essere portatrici di un progetto di Stato [qui aggiungiamo: di Chiesa o di Impresa] da creare dall’alto, prive cioè di una valenza ordinativa di natura teologicopolitica.16
14 15 16
Vedi Franchini e Perticari, “Introduzione” a L’origine della cristianità, cit., p. IX sg. Walter Benjamin, Per la critica della violenza (1921), in Id., Angelus Novus, cit., p. 26 sgg. Franchini e Perticari, “Introduzione”, cit., p. XX.
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Nel corso del Novecento si sono succeduti vari tentativi di dare un nome a quest’ultimo tipo di teologia sociale legata all’eschaton. Jacob Taubes la definì “teologia laica” in relazione alla teologia di Karl Barth (con riferimento però alla situazione esistenziale di chi la pratica, non al suo funzionamento e alla sua natura); Jan Assmann la chiamò, con gesto incerto, “teologia politica negativa”, facendo perdere così la sua valenza sociale. Theodor Wiesengrund Adorno, in una lettera a Walter Benjamin del 16-17 dicembre 1934, abbozzò la definizione di “teologia inversa” o “invertita” (inverse Theologie). Questa splendida categoria adorniana non soddisfa però un’esigenza, per Benjamin fondamentale, ossia di tenere insieme contemporaneamente, nell’arco della sua speculazione, il capo politico (anarchico prima, marxista poi) e quello mistico, teologico (salvifico, redentivo).17 Lo spunto in tal senso più efficace è offerto proprio da Benjamin nella prima, nota tesi sul concetto di storia del 1939-40: “Vincerà sempre il manichino (Puppe) chiamato ‘materialismo storico’. Può senz’altro competere con chiunque, se prende al suo servizio la teologia”.18 A nostro avviso, il nome più opportuno per questa teologia al servizio del materialismo storico, per questa teologia sociale assoluta, è appunto teologia materialista, sia rispetto alla sfera politica sia rispetto a quella economica. Nella sua pur lucida e acuta analisi della teologia economica, Giorgio Agamben cade nella trappola epistemologica preparata da Schmitt e importa nel proprio concetto tutti i limiti e la falsa oggettività che connota la categoria di teologia politica. Anche in questo caso bisogna ricordare che, essendo un concetto con una marcata impronta occasionalistica, concernente forze sociali attualmente in lotta e rivolto all’interpretazione della Jetztzeit, la teologia economica è attraversata da tensioni politiche che ne fanno un concetto ambiguo e astratto, operante per legittimare le strutture economiche oppure per sovvertirle a seconda di quali concetti vengano scelti e quali analogie teologiche vengano instaurate. La tripartizione scaturita dalla decostruzione della teologia politica, di conseguenza, vige anche rispetto alla teologia economica. Troviamo infatti una teologia economica verticale, prodotta dagli apologeti del modo di produzione; una teologia economica orizzontale, sviluppata dalle forze critiche rispetto al sistema economico, ma pronte a subentrarvi con una nuova forma di 17 18
Su questi insoddisfacenti tentativi di definizione vedi Ivi, p. XX-XXIII. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 21 (tr. it. mod.).
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religione; e infine una teologia economica materialista, esplicitamente ricollegata alla critica dell’economia politica sviluppata da Marx nel Capitale, in costante opposizione rispetto a qualsiasi religione economica, perché mirante alla cooperazione pragmatica e solidale dei liberi produttori associati come esito storico, ultimo e necessario, dello sviluppo capitalistico delle forze produttive. Ebbene, come interagisce la teologia politica con la teologia economica? E che ruolo riconoscere in questa relazione alla teologia materialista? Agamben sostiene che dalla tradizione teologica cristiana siano appunto derivati due paradigmi interpretativi: la teologia politica e la teologia economica, dai quali sono scaturiti, rispettivamente, i concetti di sovranità e di oikonomia, di Regno e di Governo, di Gloria (come regalità cerimoniale e liturgica) e di Economia. Commentando la celebre definizione schmittiana di teologia politica, Agamben scrive: Se la nostra ipotesi di un doppio paradigma è esatta, questa affermazione dovrebbe essere integrata in un senso che ne estenderebbe la validità ben al di là dei limiti del diritto pubblico fino a coinvolgere i concetti fondamentali dell’economia e la stessa concezione della vita riproduttiva delle società umane. […] Che il vivente che è stato creato a immagine di Dio si riveli, alla fine, capace non di una politica, ma soltanto di un’economia, che la storia sia, cioè, in ultima istanza un problema non politico, ma “gestionale” e “governamentale”, ciò non è, in questa prospettiva, che una logica conseguenza della teologia economica.19
Questa sorta di priorità che Agamben riconosce all’Economico sul Politico, rimasta per secoli occultata o rimossa, non solo richiama da vicino uno dei fondamenti teorici del materialismo storico, ma sembra anche trovare una giustificazione nel fatto che la nuova religione capitalistica abbia progressivamente rinunciato a un’auto-legittimazione trascendente, per servirsi esclusivamente di un potere che, pur ereditando dalle religioni concorrenti strutture, forme e significati teologici, si svolge tuttavia in una sfera immanente, scientifica, tecnica, amministrativa, pragmatica, “umana, troppo umana”. E per questa ragione Agamben può enunciare e denunciare “l’attuale trionfo dell’economia e del governo su ogni altro aspetto della vita sociale”.20
19 20
Agamben, Il Regno e la Gloria, cit., p. 14-15. Ivi, p. 13.
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Ma questa in fondo non è altro che la tesi fondante del materialismo storico. Scrive Marx nella celebre e variamente contestata prefazione del 1859 al libro Per la critica dell’economia politica, vale a dire il primo abbozzo del Capitale: Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. […] Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo.21
Si è detto spesso che il marxismo in quanto materialismo storico costituirebbe un metodo unilaterale e sostanzialmente falso. Riteniamo invece che, proprio con l’aiuto della teologia economica, si possa dimostrare la verità di tale metodo, il quale tuttavia non è essenzialmente vero, ma processualmente vero. Infatti, la relativa autonomia della sfera politica, culturale e religiosa dalla struttura delle forze produttive si indebolisce sempre più a mano a mano che la religione capitalista si rafforza e spodesta il cristianesimo. Il paradigma marxiano è storicamente sempre meno falso, perché il suo statuto veritativo si è rivelato empiricamente con lo sviluppo storico del capitale e si è consolidato con la globale instaurazione planetaria della religione capitalista. E non si tratta di teleologia progressista, ma di genealogia: è stata una lotta secolare tra religioni diverse, con tutta evidenza vinta a man bassa dal capitalismo divino. Ora, stando a questa visione possiamo concludere che la teologia politica, incardinata sull’arcaico concetto della “gloria”, fondamento
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Karl Marx, Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, Roma 1993, p. 4-5.
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di ogni gerarchia sociale,22 sarebbe ormai uno strumento che indaga un epifenomeno politico, strumento dunque del tutto adeguato in periodi nei quali ogni aspetto materiale o simbolico dell’esistenza ha una cornice e una prevalente motivazione trascendente. Ma quando la cornice complessiva dell’esistenza viene ipotecata dal capitalismo divino, dal capitalismo come religione, a quel punto la teologia politica diventa un’arma spuntata, un residuo del passato, ormai privo di capacità interpretativa, ceduta per l’appunto alla teologia economica, la quale radiografa anch’essa la convergenza di elementi teologici e religiosi tradizionali all’interno della modernità, ma non li ritrova più nel Politico, bensì nell’Economico. La gloria, la maiestas, la potestas, la claritas riconosciute attraverso le dossologie, le santificazioni, le apoteosi, il cerimoniale regio ecc. non sono più attributi del sovrano, ma della specifica figura fenomenica e immanente del capitale (industriale, commerciale o monetario) in quel momento centrale nella dinamica economico-sociale. Questa potenza dei re asiatici ed egiziani e dei teocrati etruschi ecc., si è trasferita nella società moderna al capitalista, sia che si presenti come capitalista singolo, sia che si presenti come capitalista collettivo, come avviene nelle società per azioni. [I, 375]
C’è stata un’epoca, dalla metà del XIX secolo alla metà del XX (come e inversamente a quanto accaduto in epoca patristica, tra II e V secolo d.C.), in cui teologia politica e teologia economica hanno convissuto, ma nella stessa maniera in cui convivono la luna e il sole: una al suo tramonto e l’altra al suo sorgere. Non è un caso che la formulazione concettuale più lucida e matura della teologia economica risalga al 1921 e quella della teologia politica risalga al 1922: all’uscita dalla catastrofe imperialista della prima guerra mondiale, nella quale, secondo Ernst Jünger, “si sono compenetrati il genio della guerra e lo spirito del progresso” con la “mobilitazione totale” del sistema produttivo accresciuta a livelli inauditi proprio dallo sforzo bellico,23 l’esperimento delle grandi dittature nazi-fasciste, dei capitalismi di Stato nonché del New Deal sembra l’estremo tentativo di do22
23
Mi permetto il rimando al mio Stefano Franchini, Teologia politica della sovranità. Contributo alla sociologia del potere (2002), in Giovanni Filoramo (a cura di), Teologie politiche. Modelli a confronto, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 309-333. Ernst Jünger, La mobilitazione totale (1930), in “il mulino”, 301, XXXIV,
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mare l’Economico (e il suo inevitabile reagente sociale, il proletariato rivoluzionario) rimarcando l’autonomia del Politico, con il risultato però che la soluzione si è rivelata peggiore del male, sfociando in una seconda guerra planetaria che ha segnato la definitiva affermazione del capitale su tutti gli altri fattori di resistenza (potere militare e feudale, potere ecclesiastico, potere nobiliare). I cantori e teologi ufficiali della nuova religione industriale sono stati gli economisti inglesi e scozzesi, nonché, soprattutto, i sociologi francesi, principalmente i sansimoniani e i loro epigoni, Auguste Comte ed Emile Durkheim su tutti. Probabilmente, come la riflessione restauratrice sulla Rivoluzione francese e sulla trasposizione del concetto di sovranità dal monarca divino al popolo ha aperto agli ultramontani e a Schmitt lo spazio categoriale per elaborare il concetto di teologia politica, alla stessa maniera la visione dei grandi sociologi francesi, all’inizio ferocemente ostacolata dalle Chiese cristiane ufficiali in quanto loro pericolosa concorrente (si pensi soltanto al pamphlet contro i sansimoniani di Antonio Rosmini del 184924), ha gettato le fondamenta per lo studio della teologia economica dal suo versante legittimante. Il capitale cercava la propria teologia. La sua data di nascita simbolica è il 1823, anno di pubblicazione del Catéchisme des industriels di Claude Henri de Rouvroy de Saint-Simon (seguito nel 1825 dal suo Nouveau christianisme), che porterà a compimento lo sfondamento delle teologie cristiane tradizionali avviatosi con il deismo illuminista e che troverà una sorta di corollario aggiornato nell’incompiuto Catechismo positivista di Auguste Comte, scritto nel 1852. Il primo a riconoscere in tutta la sua portata storica e a criticare con più acume questa sorgente teologia economica è senza alcun dubbio il Karl Marx del Capitale e del suo prologo, Per la critica dell’economia politica (1859). Ciò conferisce a quei testi una posizione speciale nella storia delle idee. Si può infatti affermare, con una formula sintetica, che il materialismo storico marxiano nelle forme della teologia economica materialista si pone quale ultima incarnazione storica dell’evemerismo, o meglio, che il materialismo storico, la critica dell’economia politica, ossia la particolare teologia economica che abbiamo chiamato, con
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5 (1985), pp. 753 sgg. Vedi inoltre Antonio Gibelli, L’officina della guerra, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Antonio Rosmini-Serbati, Il comunismo ed il socialismo. Ragionamento (1847), Società tipografica, Firenze 1849.
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Benjamin, teologia materialista, è sostanzialmente un evemerismo applicato al capitalismo come religione. L’arco teso dell’evemerismo, uno dei fenomeni intellettuali più curiosi, rimossi e dirompenti del pensiero europeo, è concettualmente più ampio della sua reale evoluzione storica e include approcci precedenti alla comparsa della Hierà anagraphé – composta da Evemero di Messene in epoca protoellenistica intorno al 270 a.C.25 – come per esempio la visione del divino esposta in alcuni frammenti del presocratico Senofane di Colofone. L’evemerismo ha notoriamente due facce, che corrispondono alle due direzioni del movimento che analizza: in quanto teoria critica è un razionalismo e riduzionismo teologico (movimento verso il basso) che riconduce le divinità a personaggi storici realmente vissuti e particolarmente onorati durante la loro esistenza; in quanto prassi legittimante (movimento verso l’alto) è una teologia politica funzionale all’apoteosi dei sovrani terreni più potenti e distinti, e alla loro glorificazione o ascensione celeste tra gli immortali. Da quest’ultimo punto di vista, l’evemerismo ha paradossalmente offerto il miglior strumento sia, da un lato, alla teologia politica imperiale romana nonché a quella del rinascimento romano-germanico, carolingio e ottoniano, per fondare la divinizzazione cristiana dei nuovi imperatori europei, sia, dall’altro lato, alla patristica, per dimostrare la falsità del paganesimo, delle sue divinità e dei suoi culti, rivelando al contrario la verità dell’unico Dio ebraico-cristiano e asseverando la realtà della trasfigurazione di Cristo. Benché l’evemerismo non si sia mai liberato di questa ambivalenza costitutiva, la quale lo rende perfetta sintesi di teologia economica e teologia politica, ai nostri occhi la traiettoria più interessante è comunque quella del suo primo movimento, che costituisce una storia discontinua e più volte spezzata, ma che riaffiora sistematicamente a ogni rilevante metamorfosi storica dei sistemi religiosi. Essa infatti passa alla latinità pagana attraverso, in particolare, Ennio, Diodoro Siculo e Cicerone, ma viene presto intercettata e alterata dai polemisti cristiani e dai maggiori Padri della Chiesa (Cipriano, Lattanzio, Clemente Alessandrino, Eusebio di Cesarea, Agostino).26 25 26
Sulle vicende biografiche e redazionali della Ἱερὰ ἀναγραφή vedi Giovanna Vallauri, Evemero di Messene. Testimonianze e frammenti, con introduzione e commento, Giappichelli, Torino 1956. Sulla complessa diffusione dell’evemerismo in epoca antica cfr. Giovanna
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Walter Benjamin, nel menzionato frammento del 1921 sul “capitalismo come religione”, suggerisce un paragone tra paganesimo antico e capitalismo, nel senso che il cristianesimo avrebbe radicalmente trasformato il senso della “religione” e cancellato il suo significato principalmente “economico”, dischiudendo quello spazio concettuale, aggiungiamo noi, per la proliferazione della teologia politica a scapito della teologia economica, caduta in oblio. Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione tener presente che il paganesimo originario è stato senz’altro il più vicino a concepire la religione non come un interesse “superiore”, “morale”, ma come l’interesse pratico più immediato, che cioè, in altri termini, deve aver avuto le idee poco chiare, come il capitalismo odierno, rispetto alla propria natura “ideale” o “trascendente”, e semmai nell’individuo irreligioso o eterodosso della propria comunità vedeva un membro indiscusso della medesima, esattamente come la borghesia attuale rispetto ai suoi appartenenti senza reddito.27
Non è quindi causale se sfiorisce la teologia economica pagana e fiorisce la teologia politica cristiana, nella consapevole torsione dell’evemerismo da critica della religione a legittimazione del potere, proprio sulla soglia storica che ha segnato il tramonto del paganesimo antico e la sua definitiva culturalizzazione in ambito cristiano, specie nelle aree in cui più accentuata e scabrosa era la frizione tra evangelizzazione e presenza diffusa e radicata di culti, pantheon e consuetudini politeiste e pagane, come dimostrano per esempio i teologi iberici e africani dell’alto medioevo (nei Mythologiarum libri tres di Fulgenzio, nel De correctione rusticorum di Martino di Bracara, risalente al 573 d.C., nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia), ma anche il benedettino Ermenrico di Ellwangen vissuto a Passau nel IX secolo oppure i nuovi storiografi e chierici filo-imperiali del XII-XIII secolo, come Saxo Grammaticus, Otto von Freising, ma soprattutto Goffredo da Viterbo e Pietro da Eboli.28
27 28
Vallauri, Origine e diffusione dell’evemerismo nel pensiero classico, Giappichelli, Torino 1960. Vedi infra, p. 125. Ancora molto fresca e documentata è l’analisi di Friedrich von Bezold, Das Fortleben der antiken Götter im mittelalterlichen Humanismus, Schroeder, Bonn-Leipzig 1922, pp. 4-27, nella quale l’autore insegue le tre strategie esegetiche fondamentali attraverso le quali il paganesimo è stato neutraliz-
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Infine, quasi come un annuncio di radicali metamorfosi, l’evemerismo risorge prepotente in età illuministica, nel cuore della teologia deista inglese e francese (nella Natural History of Religion di David Hume pubblicata nel 1757 e quanto meno nel titolo dei Dialoghi di Evemero di Voltaire, usciti nel 1777),29 il luogo cioè della massima tensione fra le teologie tradizionali e il razionalismo moderno qua teologia economica. Prescindendo dai suoi sbiaditi epigoni, Ludwig Andreas Feuerbach sarà l’ultima figura di evemerista che, pubblicando nel 1841 l’Essenza del cristianesimo, applicherà l’evemerismo alle teologie e religioni tradizionali. Marx è invece colui che, nel percorso storico di questo metodo, compie il passo teologico-economico per noi decisivo, applicando la critica evemeristica, per la prima volta nel Capitale e nel suo abbozzo del 1859, alla “nuova” e nascente religione economica, oggi ormai interamente dispiegata, vittoriosa e ben visibile a tutti. Allo stesso modo che il denaro si sviluppa in moneta mondiale, il possessore di merci si sviluppa in cosmopolita. La relazione cosmopolitica fra gli uomini è in origine soltanto il loro rapporto come possessori di merci. La merce di per sé è superiore a ogni barriera religiosa, politica, nazionale e linguistica. Il suo linguaggio generale è il prezzo, e la sua comunità è il denaro. Ma con lo sviluppo della moneta mondiale in contrapposizione alla moneta nazionale, il cosmopolitismo del possessore di merci si sviluppa come fede (Glaube) della ragione pratica in contrapposizione ai pregiudizi religiosi, nazionali ed altri che ostacolano il ricambio organico dell’umanità.30
Tuttavia, malgrado la sua valenza rivoluzionaria, la teologia materialista di Marx ha prodotto, esattamente come l’evemerismo, degli esiti ambigui, scontando una sorte teologico-economica analoga. Plasmato nelle mani attente di Marx come teologia materialista, legata
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zato, reso innocuo e assorbito nel cosmo teologico e linguistico del cristianesimo medievale: l’allegorizzazione, l’evemerismo e la demonizzazione. Utili notizie per l’analisi della tradizione evemeristica dall’antichità all’età contemporanea sono contenute in Carsten Colpe, Utopie und Atheismus in der Euhemeros-Tradition, in Manfred Wacht (a cura di), Panchaia. Festschrift für Klaus Thraede, Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, Münster 1995, pp. 32-44. Inoltre, sulla ripresa illuministica dell’evemerismo cfr. la documentata indagine di Silvia Padrone, Mito e storia. L’evemerismo nella Francia della prima metà del Settecento, Edizioni ETS, Pisa 1995. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 131-132.
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quindi all’eschaton del “capitale in generale”, è finito spesso per trasformarsi in una teologia economica orizzontale, finalizzata al telos, alla fine relativa di un capitalismo, di un ordinamento economicoreligioso del capitale, di una sua figura fenomenica, ma funzionale poi, nella sua veste socialdemocratica, alla legittimazione della nuova figura sorta dal conflitto e dal relativo compromesso economicopolitico. Nel noto frammento del 1921 Benjamin elenca le tre caratteristiche salienti del capitalismo come “fenomeno essenzialmente religioso”: in primo luogo, esso sarebbe “una pura religione cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita. In esso, tutto ha significato solamente e direttamente in relazione al culto, esso non conosce alcuna dogmatica specifica, alcun teologia. Da questa prospettiva, l’utilitarismo ottiene la sua sfumatura religiosa”.31 Il capitale, come ogni principio vitale e creativo, funzionerebbe dunque in una sfera immanente sostanzialmente pratica, irriflessiva, senza complesse teorizzazioni sul proprio essere e divenire. In secondo luogo, quel culto ha una “durata permanente”, non ha giorni feriali, ogni giorno è un “giorno festivo nel tremendo significato del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo sforzo di chi lo venera”. La religione capitalista, secondo Benjamin, officia il proprio culto tutti i giorni. In questi termini, la lettura cultuale benjaminiana corrisponde perfettamente, in ottica teologico-economica, a quella marxiana, giacché la nuova divinità è il capitale produttivo, il lavoro capitalistico: “Il protestantesimo rappresenta una parte importante nella genesi del capitale, già per aver trasformato quasi tutti i giorni festivi tradizionali in giorni lavorativi” [I, 311]. In terzo luogo, giocando con la “demoniaca ambiguità”32 del termine tedesco Schuld (“colpa” e “debito”) questo culto genera colpa-debito, giacché “il capitalismo, si presume, è il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera colpa/debito”. La conclusione di questo processo teso a colpevolizzare/indebitare è una condizione perdurante e definitiva di “disperazione del mondo”, “la dilatazione della disperazione a condizione religiosa del mondo”, perché questa religione economica, per la prima volta, non mira più alla “riforma dell’essere”, ma alla sua frantumazione. Alla fine Ben31 32
Vedi infra, p. 119-120. Ivi, p. 121.
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jamin aggiunge una quarta caratteristica, che a nostro avviso spiega il motivo per cui “il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma”: in questa religione infatti “Dio deve venire occultato” e “il culto viene celebrato davanti a una divinità immatura: ogni rappresentazione, ogni idea di essa lede il mistero della sua maturità”. Come l’antico paganesimo, anche l’odierno capitalismo ha “idee poco chiare […] rispetto alla propria natura ‘ideale’ o ‘trascendente’” e per questo non riesce a produrre teologia, dogma, dottrina, funzionando invece nel cerchio magico e ripetitivo dell’azione cultuale. In realtà, forzando il testo benjaminiano, si potrebbe dire che l’economia politica costituisce la teologia e la dogmatica del capitalismo, benché sia inconsapevole di svolgere tale ruolo. Nell’ultima parte dello scritto, Benjamin offre un’imbeccata per illustrare il concreto funzionamento della teologia materialista all’altezza del Basso capitalismo. Dal punto di vista metodologico, bisognerebbe anzitutto indagare quali legami con il mito abbia instaurato da sempre il denaro nel corso della storia, finché dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così numerosi elementi mitici da costituire il proprio mito.33
Questo invito a indagare il legame tra denaro e mito – già colto nel periodo culminante dell’inflazione weimariana da Robert Eisler, un geniale e originalissimo conoscente di Walter Benjamin dall’erudizione sconfinata, anche se talvolta selvatica34 – ci porta a individuare una forma, anzi, una “condizione” del denaro, quella di tesoro, che fuoriesce dall’autonomo “mito capitalista”, perché tipica di epoche e società non ancora piegate alle sue esigenze di accumulazione e valorizzazione. Questi ultimi due processi di accrescimento qualitativo del denaro, infatti, trovano un contraltare nel gesto di tesaurizzare, un processo inverso, statico, conservativo, non espansivo ma di accrescimento puramente quantitativo. Il capitale è denaro in actu, il quale abbandona la sua forma latente, inerte, di “crisalide monetaria”, per essere gettato nel ciclo produttivo e infine creare plusvalore. Il denaro non può rimanere immobile e perciò il capitale vede come fumo negli occhi il tesoro. Quest’ultimo, che in antichità veniva conservato nello 33 34
Ivi, p. 124. Si veda il libro, molto lucido sulla tematica denaro/mito, di Robert Eisler, Das Geld: seine geschichtliche Entstehung und gesellschaftliche Bedeutung, Koesel & Pustet, Muenchen 1924.
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spazio sacro del templum, a ridosso del sancta sanctorum, ha sempre avuto un tratto tellurico (il tesoro viene di norma sotterrato e sottratto così “alla fiumana della circolazione”,35 impedendo l’indispensabile realizzo del plusvalore), legato all’idea di materialità, visibilità, stabilità e permanenza (in primis del valore). Il tesoro infatti non è mai costituito da banconote, ma da preziosi (metalli, pietre, dobloni, gioielli ecc.). Il denaro moderno, invece, ha caratteristiche opposte: è immateriale e invisibile (specie nella sua recente forma elettronica), sommamente instabile e volatile (ricorrenti fenomeni di inflazione e deflazione), elemento pneumatico, fluido o aereo, perché “la denominazione monetaria del denaro si distacca dalla sua sostanza ed esiste al di fuori di questa in cedole di carta prive di valore”,36 riconsegnate quindi interamente alla sfera simbolica, “semplice segno o simbolo della propria sostanza”, magni nominis umbra.37 È dunque operazione tanto più importante e delicata drenarlo e ammassarlo in luoghi appositi e sacralizzati. Questa metamorfosi logica e storica, accompagnata da conflitti estremamente reali, si rispecchia nel passaggio simbolico, tutto interno alla sfera dell’immaginario, dalla “mappa del tesoro” – di cui Stevenson ci ha fornito un ultimo e perfetto archetipo letterario con il suo romanzo Treasure Island, pubblicato a puntate nel 1881-1882 ma ambientato all’inizio del XVIII secolo, l’età d’oro della pirateria, e con l’ambivalente personaggio di Long John Silver, incarnazione narrativa della transizione in atto – alla “combinazione cifrata” delle casseforti collocate nei caveau delle banche, passaggio che segna il sorgere del prestito a interesse come potenza sociale e relega il tesoro e la sua “caccia” nell’arsenale ludico dei giochi infantili oppure, nella sua “forma estetica”,38 dentro il portagioie della Grande Dame. Marx esprime un giudizio teologico-economico della massima rilevanza proprio su questo delicato passaggio dalla sostanza monetaria al segno monetario: Il sistema monetario (Monetarsystem) è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio (Kreditsystem) essenzialmente protestante. The Scotch hate gold (gli scozzesi odiano l’oro). Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. È la fede (Glaube) che 35 36 37 38
Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 109. Ivi, p. 94. Ivi, p. 91. Ivi, p. 114.
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rende beati. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce a emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario. [III, 690]
Occorreranno interi secoli all’economia “protestante” per ritenersi ormai affrancata da questo legame e per sganciarsi totalmente dalla sostanza monetaria. Un esito raggiunto solo con l’instaurazione del sistema internazionale del dollaro e l’abbandono del gold exchange standard nel dicembre del 1971, con la firma dello Smithsonian Agreement e la fine degli accordi di Bretton Woods. Ciò sembrò invalidare la prognosi di Marx (incapacità di emanciparsi dal “cattolicesimo aureo”), ma i recenti sviluppi finanziari direttamente collegati a quella scelta (con la concreta proposta di tornare al sistema aureo), rendono onore a Marx e ci ricordano che quella decisione, presa dagli arroganti soloni monetaristi, risolse meno problemi allora di quanti ne crei oggi. Lo sviluppo del sistema bancario moderno è nato ufficialmente il 27 luglio 1694 con la fondazione della Bank of England, finalizzata a creare denaro ex nihilo, a fungere da pagatore di ultima istanza e a drenare tutti i piccoli tesori sparsi nella società, sotterrati nelle campagne, nascosti in luoghi inaccessibili, al fine di renderli, attraverso il prestito a interesse e la leva del credito, sottostante reale per la massa aggregata di potenziale capitale valorizzantesi. L’evoluzione del sistema bancario coincide storicamente con la lotta accanita del capitale contro il concetto di tesoro e di tesaurizzazione, variamente definita atto premoderno, obsoleto, anacronistico, irrazionale, una lotta di cui la furibonda persecuzione della pirateria, dopo i servigi resi ai nascenti Stati moderni al sorgere del mercato mondiale, rappresenta appunto un archetipo. Solamente l’antica prassi usuraria, in quanto forma sui generis di tesaurizzazione e progenitrice del prestito a interesse, fu sottoposta a una persecuzione comparabile da parte del capitale industriale moderno, in quanto l’usuraio centralizza e presta capitale monetario come la banca, ma, nel migliore dei casi, non richiede il suo impegno in senso capitalistico e, nel peggiore dei casi, assorbe tutto il plusvalore così prodotto. [III, 695-699]39 39
Ampie e articolare le analisi di Marx sul capitale usurario nei manoscritti
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Il capitalismo divino
Anche il sistema bancario più sviluppato, tuttavia, non ha cessato di nutrire una paura ancestrale, originaria, nei confronti della sola possibilità che questo processo di tesaurizzazione si ripresenti su vasta scala (in quanto, se il denaro sta fermo, non può muovere il ciclo e la rotazione del capitale). Per questo processo ha infatti concepito il termine run on banks, ovvero corsa agli sportelli per il ritiro in massa dei depositi – un gesto dalle radici teologico-economiche evidenti, in quanto ricerca di salvezza –, descritto dagli apologeti del capitale in termini demonizzanti come fenomeno di panico collettivo, d’irrazionalità epidemica incontrollabile e da esorcizzare in qualsiasi modo, in quanto viatico per la decozione integrale dell’istituto di credito che lo subisce. Un vero e proprio crimen laesae maiestatis contro il cuore pulsante, contro il nervus rerum del capitalismo, specie di quello incentrato sulla figura del capitale monetario, un sacrilegio contro la stessa divinità monetaria, creatrice del denaro ex nihilo attraverso l’atto originario del fiat money. L’ammassamento irregolare del tesoro per mezzo di rapina e violenza o di rigore etico e parsimonia, indispensabile nella fase di accumulazione primitiva, viene quindi progressivamente limitato dal sorgere del moderno sistema bancario. Su questo fenomeno, Marx si sofferma nella Critica dell’economia politica forse più che nel Capitale: “Il tesaurizzatore è del resto, in quanto il suo ascetismo sia unito a una energica industriosità, in religione essenzialmente protestante e ancor più puritano”.40 Marx anticipa qui la celebre tesi di Max Weber, la quale tuttavia, letta all’interno delle coordinate offerte dalla teologia materialista, non rimanda a una “derivazione” nei termini della secolarizzazione, ma a una autentica metamorfosi storica: l’etica del capitale coincise con quella protestante e se ne servì nella fase primitiva del suo sviluppo, nella figura arcaica del capitalismo “classico” in statu nascendi (avventure mercantili, lavoro a domicilio, manifattura), ma appena è riuscito a prendere interamente in mano le redini dell’Economico (la Rivoluzione del 1789 segna un punto di svolta), la religione capitalistica si è sbarazzata dell’utile orpello originario e l’ha relegato tra i residui morali del passato. Aggiunge infatti Marx: Con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, dell’accumulazione e della ricchezza, il capitalista cessa di essere una pura e semplice
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per il libro III (cfr. cap. XXXVI). Ivi, 110.
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incarnazione del capitale. Egli sente una “umana commozione” (Schiller nella ballata L’ostaggio) per il suo proprio Adamo e s’incivilisce al punto da schernire la mania entusiastica dell’ascesi come pregiudizio del tesaurizzatore all’antica. Mentre il capitalista classico bolla a fuoco il consumo individuale come peccato contro la propria funzione e come un “astenersi” dall’accumulazione, il capitalista modernizzato è in grado di concepire l’accumulazione come “rinuncia” del proprio istinto di godimento. “Due anime abitano, ahimè, nel suo petto, e l’una dall’altra si vuol separare!” (Goethe, Faust, I parte, vv. 1112-1113). [I, 649-650]
La tesi “protestante” di Weber e di Marx, in fondo, è estremamente corretta, perché l’etica calvinista coincise davvero con quella capitalistica (e si accompagnò senza scrupoli di coscienza alla barbarie e alla rapina dell’accumulazione primitiva), ma solo nella prima fase di transizione, quando il capitalismo come religione soppianta il cristianesimo come oikonomia, depurandosi progressivamente dagli elementi teologici non più conformi e superflui. È ancora Benjamin, nella miniera teorica del 1921, a illuminarci su questo punto: “In Occidente, il capitalismo – come dev’essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi – si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo”.41 Lo stupore tragico espresso da Weber quando lamenta l’evaporazione della spiritualità economica puritana dal “capitalismo vittorioso” senza più anima o etica, diventato mera “gabbia di durissimo acciaio”,42 pare fondato sul disconoscimento del “capitalismo come religione”. Lo spirito calvinista non ha “abbandonato” il capitalismo, ma è avvenuto esattamente il contrario. Il capitale, le cui barbe e radici vanno cercate, proprio come fa Marx, ben prima della svolta luterana e calvinista, s’è servito di quello spirito ascetico per gettare le fondamenta della sua unica e autonoma etica economica, l’accumulazione di capitale da valorizzare, che prescinde totalmente da quella. Modello perfetto dell’attrito tra cristianesimo e nuova religione capitalistica è l’autore (puritano) Daniel Defoe e la sua creatura letteraria più famosa, Robinson Crusoe, nel cui animo lacerato – squadernato davanti al lettore dalle Strange Surprising Adventures del 1719 alle Farther Adventures e soprattutto nelle 41 42
Vedi infra, p. 124. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, p. 240.
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conclusive Serious Reflections del 1720 – si dipana tortuosamente la contraddizione e il feroce scontro psico-storico tra i due sistemi religiosi, quello puritano e quello autenticamente capitalistico, nonché la faticosa ricerca di una legittimazione morale e teologica per il calling del grande capitalista mercantile. I maggiori interpreti43 hanno sottolineato giustamente questo conflitto interiore, ma leggendolo sempre nei termini di una contrapposizione storica tra Religioso ed Economico, non considerando invece la possibilità che a urtarsi siano due diverse giustificazioni teologiche, che la nuova energia, che spinge Robinson a lasciare la casa paterna e la sua posizione sociale acquisita, sia la rivelazione storico-empirica di quell’arché divino chiamato “capitale in generale”. Daniel Defoe, nei suoi successivi scritti, nel piratesco Captain Singleton (1720), in Roxana (1724), nella Moll Flanders (1722) e soprattutto in The Complete English Tradesman (1726), mostra tutto il proprio timore davanti allo sgretolamento dello spirito religioso (anche nella sua versione “neopuritana”) e, di fronte alla legittimazione unicamente materiale e al limite “criminale” e anticristiana dell’agire economico, preferisce rifugiarsi in un modello paleocapitalistico, ormai nostalgico, utopico e anacronistico, rimodellato sui topoi della classica “etica protestante” fissata nei sermoni di John Bunyan, Richard Baxter, John Wesley ecc. Defoe rifiuta cioè il prometeico, tracotante e progressista merchant, prototipo moderno di homo oeconomicus, per il limitato e tradizionalista tradesman piccolo borghese, ascetico e timorato di Dio. Ma la storia moderna delle religioni aveva intanto imboccato altre vie. Queste riflessioni, come abbiamo già ricordato, mettono in seria discussione il paradigma della secolarizzazione come de-sacralizzazione e de-teologizzazione, nonché lo spinoso tema dell’autonomia della modernità, ma da una prospettiva totalmente diversa da quella adottata negli anni scorsi, per esempio, da Hans Blumenberg. Nell’introdurre il concetto di teologia economica, anche Giorgio Agamben chiama in causa, anticipando di un paio d’anni le considerazioni più 43
Ottima l’edizione dell’opera curata da Giuseppe Sertoli, la cui bella introduzione intitolata “I due Robinson” dà conto proprio di questo problema cruciale e delle varie interpretazioni offerte. Cfr. Daniel Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe seguite da Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, a cura di Giuseppe Sertoli, Einaudi, Torino 1998.
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mature svolte in Signatura rerum. Sul metodo (2008), il tema della secolarizzazione, dimostrando una certa insoddisfazione nei confronti del concetto, che propone di sostituire con quello filosoficamente ricercato di “segnatura”.44 A nostro avviso, l’adozione dell’ipotesi più radicale di Benjamin, espressa nella sintetica formula del “capitalismo come religione”, sterilizza la problematica iscrizione della teologia politica (in quanto metodo legato a una religione morente) nel paradigma della secolarizzazione e ci porta a scavalcare il dilemma che affligge Agamben, ossia trovare una definizione soddisfacente per la forma di sopravvivenza del cristianesimo all’interno del moderno. Ora infatti la teologia economica considera il capitalismo come una religione indipendente, frutto non di una derivazione, o di una sopravvivenza, ma di un’autentica metamorfosi del cristianesimo in capitalismo ovvero di una sostituzione del primo con il secondo attraverso un aspro conflitto secolare – la pars destruens della metamorfosi – e attraverso un’operazione costruttiva di restitutio in integrum, di paziente collazione e ricucitura di funzionali elementi religiosi appartenenti a svariate tradizioni. La presenza teologica cristiana nella modernità non è quindi un’eredità, un legato storico, ma una provvisoria sopravvivenza, un residuo propriamente detto, niente più che un’ombra o una resistenza. Scrive Friedrich Nietzsche nel celebre aforisma Nuove battaglie risalente al 1882: Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!”45
Questa è la “filosofia” ufficiale del capitale divino: lo riconosce anche Benjamin quando scrive che “il tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di Nietzsche” e che, con la sua idea di superuomo, egli è “il primo che riconoscendo la religione capitalistica inizia ad adempierla”. Il superuomo annun-
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Agamben, Il Regno e la Gloria, cit., p. 15-16. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1993, p. 148.
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ciato da Nietzsche (assieme all’individuo “ideale” della psicoanalisi freudiana) rappresenta la stilizzazione del primo individuo che fa i conti fino in fondo con il carattere religioso e divino, benché immanente e ormai “umano, troppo umano”, del capitalismo. Infatti, aggiunge Benjamin, “la trascendenza di Dio è caduta. Egli però non è morto, è coinvolto nel destino umano”.46 Sulla scorta di quanto abbiamo detto, affermiamo che non è il “capitale in generale” a dover essere indagato come religione e con l’ausilio dell’arsenale teorico messo a disposizione dalla storia e scienza delle religioni, in quanto esso è una pura astrazione logica e concettuale, ma è appunto il “capitalismo”, ossia ciascuna sintesi unitaria economico-politica incentrata su una determinata figura fenomenica del capitale. Così, per esempio, il capitale industriale, come hanno intuito Saint-Simon e Comte nel periodo della sua dirompente manifestazione storica, avrà una fede, un clero, una scolastica, una propaganda missionaria, i propri libri sacri e le sante tradizioni avite, una liturgia e un’ortoprassi, riti peculiari, un proprio progetto salvifico, templi e luoghi di culto, svilupperà una particolare iconografia sacra, un’opportuna dossologia, metterà in scena l’apoteosi dei propri fondatori ed eroi storici o leggendari, riempirà il proprio pantheon con figure santificate, venererà antenati e martiri, genererà nel proprio seno, e perseguiterà, eretici e apostati, creerà una propria tipologia di fedele ortodosso, svilupperà una mistica, un’ascesi, un’etica caratteristiche, produrrà superstizioni, magia, condurrà guerre sante contro altri culti, altre confessioni ecc. La stessa cosa varrà per il capitalemerce e il capitale monetario nel momento della loro massima centralità storico-sociale. Se ora seguiamo alla lettera l’assunto principale del materialismo storico, per cui la struttura economica della società influenza e determina l’enorme complesso della sua sovrastruttura, e lo sposiamo con la funzione evemeristica della teologia materialista, si dispiega davanti ai nostri occhi una periodizzazione, una morfologia storica e un orizzonte prognostico di estrema limpidezza teorica, poiché finiremo per riconoscere, con l’antico detto, che le figure di “capitale industriale”, “capitale-merce” e “capitale monetario” sono davvero nomina numina. ***
46
Vedi infra, p. 120.
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Se prescindiamo dalla lunga fase di gestazione della nuova religione nell’Eden dell’economia moderna, che Marx descrive dettagliatamente nel libro I del Capitale e che rappresenta una sorta di Proto o Paleocapitalismo, ancora profondamente unito ai corpi sociali e alle istituzioni feudali coi quali viveva in simbiosi (lenta sussunzione formale della società nel capitale), ritroviamo tre tipi successivi di capitalismo ormai dispiegati e autonomi, corrispondenti alle tre figure logiche sommariamente descritte, capitalismi che ogni società fecondata dal capitale sperimenta in sovrapposizioni e successioni storiche dalla cadenza temporale di volta in volta specifica. Recuperando categorie in precedenza solo accennate, risulta quindi che, con lo sviluppo della grande industria meccanizzata, si delinei un Alto capitalismo incentrato sulla figura divina del “capitale industriale” (localizzato nell’istituzione sociale tipica, la mega-fabbrica), seguito da un Medio capitalismo incentrato sulla figura divina del “capitale-merce” (localizzato nell’istituzione sociale del mega-centro commerciale) e un Basso capitalismo incentrato sulla figura divina del “capitale monetario” creditizio e portatore d’interesse (localizzato nell’istituzione sociale della mega-banca). Le metamorfosi da un capitalismo divino all’altro segnano, di norma, punti di svolta anche per la teoria critica, per la teologia materialista. Le complesse e gigantesche metamorfosi sovrastrutturali che la teologia materialista suggerisce di esporre prendendo le mosse dal movimento strutturale constatabile “con la precisione delle scienze naturali”, trovano una sintesi in quella che, come vedremo, potrebbe assurgere a centrale metafora della teologia economica: riconoscere il senso della “domenica”, del giorno “divino”, del tempo dedicato alla divinità. Sommariamente possiamo affermare che, nel Protocapitalismo, ossia nel mondo in transizione dall’universo contadino, cristiano e premoderno, a quello capitalistico e pienamente moderno, prima dell’autentica e fatale rivoluzione industriale, la domenica era ancora dedicata al “riposo”, in conformità alla centralità sociale del Dio creatore cristiano. Nell’Alto capitalismo, come ha perfettamente illustrato Marx, anche la domenica, come tutti gli altri giorni, è dedicata al “lavoro” (meglio retribuito in quanto “festivo” e dunque economicamente più rilevante del lavoro feriale), in conformità alla centralità sociale assunta dal Dio produttore; nel Medio capitalismo invece la domenica è occupata da un “consumo” maggiore e più intenso che negli altri giorni, vero atto di culto tributato alla nuova centralità del Dio-merce; nel Basso capitalismo, in cui regna la crescente
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scarsità di lavoro e di consumo, il giorno divino è ancora “vuoto” e non vediamo ancora con nitidezza quale gesto cultuale verrà tributato al nascente Dio monetario, quale attività riempirà di rinnovato senso religioso-capitalistico la domenica. Scoprirlo, con un azzardo previsionale, significa gettare uno sguardo teologico-economico sulla configurazione delle nostre società negli anni a venire. Ma per abbozzare una simile previsione è necessario ricorrere a tutti gli strumenti che la comparazione evemeristica ci mette a disposizione, risalendo a quella fondamentale e ormai documentatissima metamorfosi sovrastrutturale avvenuta nel passaggio dall’Alto al Medio capitalismo. In primissima battuta possiamo riconoscere che nell’Alto capitalismo governa e si venera un Dio dai tratti patriarcali e autoritari: la figura del capitale industriale. Anche questo aspetto deriva con rigida necessità dall’esigenza del capitale produttivo d’intraprendere e completare nel più breve tempo possibile lo sforzo sociale dell’industrializzazione primaria: inurbare masse gigantesche di contadini e piegarle al lavoro di fabbrica, come non si stanca di ripetere Marx nel libro I del Capitale (e come ha confermato in seguito Michel Foucault nei suoi brillanti studi genealogici), oltre alla violenza diretta dello Stato, richiede anche un lungo e faticoso lavoro positivo di soggettivazione incentrato sui valori ascetici e operanti a livello cosciente di “disciplina, ordine, regola, rigore, gerarchia, obbedienza, impegno, sacrificio, rinunzia, repressione, dedizione”, valori di origine militare e monastica, ma in seguito fatti propri dalle varie agenzie formative della religione capitalista e dello Stato moderno (scuole ecclesiastiche e laiche, esercito di leva e fabbrica, partito e sindacato), ipotecati poi dalle scienze esatte e umane all’inizio del XX secolo, e infine sfociati nella grande sintesi teologico-economica del taylorismo novecentesco, la morale par excellence e ormai autonoma dell’Alto capitalismo divino, la quale rende patrimonio definitivo di qualunque forza-lavoro la puntualità, la rapidità d’esecuzione, la produttività, l’autocontrollo ecc. Soltanto per questo motivo, la religione capitalista tollera accanto a sé la presenza del monoteismo ebraico-cristiano e delle sue varie tradizioni morali (specie puritane), perché la figura biblica del Dio unico, giudice patriarcale e legislatore, autorità paterna e severa, con la sua morale repressiva e ascetica, è estremamente funzionale allo sviluppo della sua prima figura storica. Questo potere disciplinare soggettivante espresso dalla coazione, dalla violen-
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za diretta, fisica, nonché richiedente obbedienza al comando-parola, fuoriusce sempre più dai suoi circuiti sociali originari (la fabbrica), evolvendosi, dilagando capillarmente e annidandosi progressivamente in ogni settore della società e della psiche contadina conquistate dal capitale, plasmandone la sostanza e domandone la natura spontaneamente refrattaria al lavoro seriale, creando in definitiva negli individui moderni una seconda natura. Il soggetto derivante da questo lavoro di soggettivazione è un collettivo molto ampio e uniforme al suo interno, la classe operaia industriale appunto, la quale come tale si ritrova contrapposta al proprio creatore divino, il capitale produttivo, in forme organizzative improntate al medesimo principium disciplinare. Dopo che in un Paese la figura del capitale produttivo ha svolto appieno la propria funzione, superando la famosa “gobba” dell’industrializzazione,47 producendo cioè tutti i colossali mezzi di produzione e le indispensabili condizioni per sostenere un’accumulazione su scala allargata, nazionale o continentale (ferrovie, macchinari, impianti siderurgici e navali, canali fluviali, rete viaria, impianti di approvvigionamento delle materie prime, dell’energia, mezzi di comunicazione ecc.), “l’espropriazione del capitalista da parte del capitalista” [I, 686], ossia il grado di concentrazione e centralizzazione del capitale produttivo, arriva a tal punto, la composizione organica del capitale si eleva così tanto, l’accumulazione dei livelli di profitto cresce e lo sfruttamento delle masse s’intensifica a un tale livello, per cui, come vedremo, la società, di solito, reagisce politicamente: è la cosiddetta fase socialdemocratica o redistributiva, quando il Paese passa dalla produzione pesante di mezzi di produzione alla produzione leggera di mezzi di consumi, i salari medi si alzano, i consumi stessi si allargano progressivamente e la figura centrale diventa il capitale-merce. Quando si avvia, per le ragioni suddette, ma principalmente a causa della pressione politica esercitata dalle organizzazioni del movimento operaio internazionale, la metamorfosi dall’Alto al Medio capitalismo, si mettono in moto anche profonde variazioni sovrastrutturali. Ora governa un Dio dai tratti materni e permissivi: la figura del capitale-merce. Compiuto lo sforzo preliminare per completare l’industrializzazione primaria, il sistema produttivo si ristruttura in47
James Strachey, Il capitalismo contemporaneo (1956), Feltrinelli, Milano 1957, p. 211.
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torno alla necessità di produrre e vendere principalmente mezzi di consumo. Sui mercati interni arrivano quantità gigantesche di capitale-merce da vendere il più presto possibile per realizzare il plusvalore spettante ai capitalisti produttivi. La necessità impellente è quella di allargare il bacino del consumo attraverso la precondizione economica della società consumistica, ossia l’aumento generalizzato dei redditi, operazione svolta proprio dai primi governi laburisti e socialdemocratici giunti al potere in seguito alla pressione politica della classe operaia industriale: ha luogo così un secondo, minuzioso lavoro positivo di soggettivazione che strappa le masse di lavoratori ai vecchi valori dell’Alto capitalismo e le spinge sulla via del consumismo (come vide lucidamente Pier Paolo Pasolini), trasformando al contempo e disarticolando l’uniforme forza-lavoro, centrale all’altezza del capitale produttivo e ora sempre più marginalizzata, in variegata forza-consumo, centrale all’altezza del capitale-merce, e creando in definitiva negli individui una terza natura. Il soggetto sociale derivante da questo ulteriore e protratto lavoro di soggettivazione nel Medio capitalismo è un collettivo meno uniforme al suo interno rispetto alla precedente classe operaia industriale, è un soggetto più segmentato, sempre più frammentato, plurimo, individuato dal marketing con il concetto di target oppure segmento di mercato, vale a dire entità sociali ristrette, ma uniformi e definibili nelle loro caratteristiche salienti. Questo secondo processo di soggettivazione è stavolta incentrato su nuovi e inauditi valori come quelli di “emancipazione, libertà personale, deregolamentazione, fantasia, sogni, democratizzazione, disobbedienza, pulsioni, desiderio, impulsi, licenza sessuale, soddisfazione, appagamento, rivendicazioni”, vale a dire una matrice culturale e una piattaforma programmatica che accomuna sia il capitalismo socialdemocratico sia quello neoliberista sia ampi settori del movimento del Sessantotto. Poiché la creazione di numerosi bisogni fittizi attraverso la stimolazione dei desideri personali passa dalla sollecitazione dell’elemento prettamente pulsionale, libidico e individuale, collocato a livello inconscio (ossia in uno spazio biopsichico fondamentalmente linguistico e simbolico), le vecchie forme della morale ebraico-cristiana non sono più funzionali al realizzo del capitale-merce. Il Dio patriarcale, austero, punitivo e severo, repressivo in quanto richiedente in particolare rinuncia e sacrificio, risulta ormai incompatibile con le nuove esigenze economiche, e per questo viene sostituito, in una lotta decennale, da una divinità matriarcale, tipicamente collegata all’abbondanza, all’opulenza, alla fertilità, alla
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protezione, all’assistenza. I larghi fianchi di Demetra, la Grande Madre dispensatrice e permissiva del Medio capitalismo, sostituiscono il duro volto di Yahwe, mentre la New Age, i sincretismi religiosi e l’olismo di marca orientale rubano letteralmente la scena al cristianesimo, più funzionali alle nuove esigenze produttive e distributive. La disciplina, il rigore, l’obbedienza, principi costituivi di tutte le organizzazioni sociali provenienti dall’Alto capitalismo (che ora iniziano presto a dissolversi: chiese, esercito, scuola, sindacati, partiti, famiglie, comunità locali ecc.), non sono più valori compatibili con la liberazione dei desideri individuali, i quali vengono smossi, più che con il comando-parola e la violenza fisica immediata, attraverso la persuasione più sottile, la manipolazione subliminale e inconscia, mediata soprattutto, a livello percettivo, da messaggi visivi, da immagini (grafica, fotografia, cinema). Si entra nella seconda, grande sintesi teologico-economica, il Medio capitalismo, definita inizialmente industria culturale, o meglio, società dello spettacolo, e poi ribattezzata (con varianti inessenziali dal valore puramente nominalistico) società globale della comunicazione, della conoscenza, dell’immagine, del marketing, dell’apparenza o dell’informazione, la quale percorre un lineare itinerario evolutivo e, grazie alle molte innovazioni tecnologiche digitali dell’ultimo quarantennio, culmina nell’attuale social networking globale.48 Nella società dello spettacolo, inevitabilmente improntata al criterio della manifestazione, della comunicazione, dell’esibizione, della pubblicità, della sfrontata ostentazione di qualunque capitale-merce sul mercato, la dimensione della materialità e della fisicità che caratterizza la produzione nell’Alto capitalismo (più discreta e celata) cede il posto alla dimensione immateriale e immagi48
Le date di nascita di queste definizioni coincidono con la pubblicazione dei testi teologico-economico che fondano il transito sovrastrutturale dall’Alto al Medio capitalismo. Cfr. James Burnham, La rivoluzione dei tecnici (1941), Mondadori, Milano 1946 (nuova ed. La rivoluzione manageriale, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1992); Peter Drucker, La nuova società: l’anatomia dell’ordine industriale (1951), Garzanti, Milano 1953; Id., Il potere dei dirigenti (1954), Etas Kompass, Milano 1967; Francesco Alberoni. Consumi e società, il Mulino, Bologna 1964; Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), il Saggiatore, Milano 1967; Philip Kotler, Marketing management: analisi, pianificazione e controllo dell’azione sul mercato (1967), a cura di Giancarlo Ravazzi, LI/ED, Torino 1973; Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), De Donato Bari 1968; Jean Baudrillard. La società dei consumi: i suoi miti e le sue strutture (1970), Il Mulino, Bologna, 1976.
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naria del linguaggio simbolico, e la merce in quanto tale, sebbene non perda del tutto la sua nuda fisicità e concretezza, è sempre anticipata e mediata, nel messaggio pubblicitario, dalla sua onnipresente e pervasiva rappresentazione iconica perfettamente confezionata (spesso il vero oggetto dell’acquisto da parte del consumatore finale). Soltanto da questo punto di vista è comprensibile un appunto teologico-economico del giovane György Lukács, risalente circa agli anni 1915-17, in cui il filosofo scrive: Il comunismo possibile solo come organizzazione della produzione – e in quanto tale necessariamente prosaico, economico, irreligioso (impossibilità di un comunismo dei consumi: Kautsky). […] Relazione con la religione: perché il consumo [è] religioso, e la produzione irreligiosa?49
In realtà sia il “comunismo” sia la “produzione” possono essere fenomeni religiosi, come ha ampiamente dimostrato il Novecento, dal momento in cui la produzione non è più solo prassi concreta, cooperazione sociale, materiale e diretta, ma “rappresentazione” (in un partito-chiesa, in uno Stato-chiesa, in una teoria normativa e dogmatica, in una pseudo-etica come lo stacanovismo, in una religione appunto). Quando si lascia la sfera del reale per quella della rappresentazione, anche l’anticapitalismo può farsi religione, meglio, teologia economica verticale (quando vince) oppure orizzontale (quando si contrappone), incardinata di volta in volta intorno alla figura del capitale storicamente centrale. Inoltre, rispetto alla produzione, il consumo – come accenna correttamente Lukács – è “strutturalmente” religioso perché non si realizza mai direttamente nella prassi, ma sorge a monte nella rappresentazione, è anticipato nell’immaginario, in quanto deriva dalla stimolazione simbolica e immateriale, pulsionale sive biopsichica e linguistica, di determinati bisogni e desideri. Infatti, la centralità assunta dal fantasmagorico e caleidoscopico mondo delle merci, con tutta la sua varietà e ricchezza di forme, colori, suoni, messaggi, percezioni simboliche complesse e virtuali, con la mobilitazione su vasta scala del desiderio inconscio, induce a sviluppare al massimo livello possibile il settore cognitivo, dei servizi commerciali, informatici, comunicativi e artistici, collegati alla ven49
György Lukács, Dostoevksij, a cura di Michele Cometa, SE, Milano 2000, p. 56.
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dita delle merci, al loro imbellettamento e trasporto, ossia quel grande ambito “terziario” che Fritz Sternberg, acuto osservatore degli Stati Uniti e dei punti avanzati dello sviluppo capitalistico, coglie con netto anticipo su altri economisti e sociologi,50 e che Marx definisce, con un concetto fondamentale sviluppato nel libro II e III del Capitale, faux fraise della produzione (costi improduttivi ma necessari). Questa sfera risponde, dotandosi di strumenti tecnologici vieppiù raffinati e innovativi, alle richieste sempre più estreme poste dai capitalisti commerciali stretti dalle inesorabili leggi della concorrenza e della centralizzazione, e a sua volta retroagisce sulla sfera della produzione, condizionandola in misura crescente.51 In tal modo, conferisce all’attuale mercato del lavoro e alla cultura sociale diffusa l’impronta tipica della religione dominante nel Medio capitalismo. Questo scatenamento diffuso e massificato del desiderio pulsionale produce tuttavia, come sempre nell’Economico capitalista, degli effetti collaterali e delle reazioni difensive di natura tutta politica. Anzitutto, tra gli effetti collaterali, la riduzione della disciplina a disvalore sociale,52 il rilassamento delle vecchie norme morali (contro il quale viene ripetutamente sollevata, sempre invano, la cosiddetta e anacro50
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Vedi Fritz Sternberg, Die gewerkschaftlichen Aufgaben in der Epoche der Automatisierung (1957), in Id., Für die Zukunft des Sozialismus, a cura di Helga Grebing, Otto Brenner Stiftung, Frankfurt a.M. 1981, pp. 517523. Inoltre, nello stesso volume, vedi Berufsumschichtung und Gewerkschaftsfragen (1960), pp. 542-554. Nell’Alto capitalismo, la produzione stabilisce cosa produrre e il consumatore vi si adatta. Nel Medio capitalismo, invece, il marketing retroagisce sulla produzione, anzi, il marketing è visto come una funzione particolare della produzione. Quando Marx parlava di funzioni produttive che si “prolungano” nella circolazione, di “continuazione di un processo di produzione entro il processo di circolazione e per il processo di circolazione”, non possedeva ancora le categorie adatte, ma aveva compreso a fondo il fenomeno dei faux fraise, che l’evoluzione storica del marketing nella società incentrata sul capitale-merce ha sviscerato interamente nei suoi vari “orientamenti” (“alla produzione”, “al prodotto”, “alle vendite”, “al mercato” e infine, recentemente, “al marketing o al consumatore”). Cfr. per una sintesi Gianni Cozzi e Giancarlo Ferrero, Marketing. Principi, metodi, tendenze evolutive, Giappichelli, Torino 2000, pp. 22 sgg. Qui hanno la loro origine il fastidio e l’insoddisfazione di Peter Sloterdijk, più volte esplicitati, nei confronti del discredito in cui sono caduti, dopo il 1968, i concetti di disciplina e di verticalità. Cfr. il suo recente Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, a cura di Paolo Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010.
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nistica “questione morale”), la disgregazione delle antiche agenzie disciplinari tipiche della società patriarcale e repressiva, nonché il dilagare in tutte le pieghe della società consumistica del desiderio individuale illimitato (fattore non solo erotico, ma anche distruttivo, come ha ampiamente dimostrato la psicoanalisi), hanno prodotto forti effetti destabilizzanti per la religione economica. Il potere disciplinare, marginalizzato insieme al decentramento del dio industriale, cede dunque il posto a un diffuso potere di controllo panottico (sotto forma di ipertrofia e onnipresenza degli apparati di polizia, biopolitici, governamentali e amministrativi, biometrici e informatici), che possa intervenire ovunque e rapidamente, anche a distanza, quando in qualche punto del fitto tessuto sociale la libertà e la licenza si scatenino oltre la soglia del tollerabile e fuoriescano dal ristretto segmento sociale in cui sono confinati e gestibili. Tale potere di controllo capillare adopera tutti i maggiori ritrovati tecnologici utilizzati per vendere le merci (quasi sempre concepiti dall’industria militare, ma sgrezzati e perfezionati solo in funzione del consumo di massa, dalle cui istituzioni rientrano poi circolarmente, in forme di demoniaca perfezione, negli strumentari del telecontrollo). Oltre a questo aspetto “positivo”, attivo, del nuovo potere, ne rileviamo anche uno “negativo”, passivo, affermatosi parallelamente al primo e in grado di sfruttare analoghe tecniche di suggestione di massa: la diffusione endemica della paura al fine di drenare dal corpo sociale il desiderio eccedente e la libertà distruttiva, autolimitandoli. Scatenare grandi paure di massa generiche o destinate a specifici target sociali è diventato il miglior modo per prosciugare e delimitare il desiderio mobilitato in precedenza, a fini economici, dal marketing e dalla società dello spettacolo, neutralizzandone le controindicazioni politiche. Inoltre, tra le reazioni difensive della società al dispiegamento economico del capitale-merce troviamo tre fenomeni di natura diversa: la manifestazione pubblica, la tutela giuridica del consumatore e la critica etica del consumo. Nel Medio capitalismo divino vige una lotta di classe non più assimilabile allo scontro disciplinato, tipico delle organizzazioni dell’Alto capitalismo, ma più selvaggia, più frammentata, sovente spettacolare, coreografica, teatrale: le variopinte, rumorose e tumultuose proteste o “manifestazioni”, invalse fino oggi a partire dal 1968, sono lo specchio di una società incentrata sul profluvio di merci, sull’abbondanza di messaggi pubblicitari, di colori, suoni, immagini, spettacolarizzazione (esibizione pubblica, dimostrazione sociale, conflitto reale sostituito dalla sua rappresentazione).
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Mario Tronti colse con grande tempismo questa metamorfosi in atto, formulando già nel dicembre del 1970 in Marx a Detroit un giudizio che potrebbe valere anche adesso: “C’è oggi come una sensazione, un’idea più sentita che pensata, di essere arrivati al limite finale di un’epoca classica della lotta di classe”.53 Oltre alla manifestazione politica di massa abbiamo menzionato, tra le reazioni sociali e politiche generate dal predominio del capitale-merce, la tutela giuridica del consumatore, che nasce intorno alla metà degli anni Sessanta (il Beuc, Bureau Européen des Unions de Consommateurs si costituisce il 6 marzo 1962) e cresce per tutti i trent’anni successivi, strutturandosi come una sorta di sindacato lobbistico dei consumatori europei, e integrando le varie associazioni nazionali e locali di difesa dei consumatori. Infine, bisogna attendere la metà inoltrata degli anni Ottanta per veder sorgere forme di conflitto attivo emancipate dagli schemi maturati nell’Alto capitalismo e adeguate alla struttura del Medio capitalismo, come per esempio la critica etica del consumo. Nel 1987 viene fondata la European Fair Trade Association, nel 1989 la International Federation of Alternative Trade, che nel marzo del 2009 prenderà il nome di World Fair Trade Organization, seguite a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, a livello internazionale, dalle iniziative di boicottaggio commerciale, che internet incrementerà notevolmente negli anni Novanta, e dallo strumento giuridico della class action. Infine, la filosofia della decrescita costituisce la tarda elaborazione antagonista del Medio capitalismo, sviluppata però già a ridosso della sua ulteriore metamorfosi. Ci chiediamo tuttavia: perché il conflitto di classe nel Medio capitalismo, espresso in tutte queste forme, è stato ed è tuttora così inefficace, inconsistente, lontano dal perturbare gli equilibri profondi del capitale-merce? Possiamo dire, seguendo Marx, che esistono solamente due merci sui generis, le quali si distinguono da tutte le altre per la loro permanente e percepibile tensione creativa e insieme conflittuale, ossia la forza-lavoro e il denaro sotto forma di credito e di prestito a interesse [III, 417; III, 451-452]. La coltre di merci nello stadio del Medio capitalismo divino, invece, offusca agli occhi del consumatore la permanenza di quella tensione. La mobilitazione del desiderio pulsionale a fini consumistici, infatti, comporta una promessa di felicità continua, di appagamento ininterrotto, percepita in maniera diametralmente opposta sia rispetto al sacrifico, alla rinuncia 53
Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 315.
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e alla fatica che costa al lavoratore la propria opera quotidiana, sia rispetto alla morsa soffocante e angosciante del debito. Il vasto mondo delle merci propriamente dette, infatti, ha una dimensione spettrale, connotata dal continuo mutamento di forma della merce, dalla parossistica sostituzione di una merce con un’altra, dal fluire incessante della merce in denaro e del denaro in merce, dalla settorializzazione del consumo, il che ne fa un labirinto a più stanze, apparentemente non comunicanti, privo di unità. Nella società consumista pienamente sviluppata, le merci sono come spettri suadenti, demoni diurni accattivanti, esseri transitori che vivono per subito scomparire, che infiammano il desiderio per appagarlo e immediatamente riaccenderlo, e quanto prima scompaiono, quanto prima placano e riaccendono la sete di consumo, tanto maggiore è la loro utilità, la loro funzionalità complessiva. Tali esseri intermedi (e la posizione mediana nel ciclo logico marxiano non è casuale in questo senso) vengono evocati sempre più rapidamente nella produzione e altrettanto rapidamente devono compiere il loro ciclo terreno, riconvertendosi in denaro. Il Medio capitalismo esprime la sua massima natura divina proprio nel periodo in cui questa rotazione è più fulminea, in cui maggiore è la loro impermanenza sul mercato. Qui, il gesto del consumo possiede ormai una maggiore centralità del lavoro, perché vi è una paradossale inversione nella percezione del significato economico da attribuire alla vita associata. Ormai l’imperativo dell’Alto capitalismo imposto ai lavoratori produttivi: “Lavorare per continuare a consumare e vivere” ha lasciato il posto all’imperativo imposto al consumatore dal Medio capitalismo: “Consumare e vivere per continuare a lavorare”. Il rapidissimo passaggio di mano della merce, la presenza di merci sempre nuove e diverse, frantuma e segmenta non solo il profilo sociale, ma anche la sua rappresentazione, perché essi non vengono collegati dal consumatore a un unico rapporto capitalistico, come invece accadeva all’operaio di fabbrica rispetto al padrone industriale e come avviene nel caso del debitore di fronte al creditore. All’orizzonte però si affaccia un altro, diabolico imperativo imposto all’individuo, alla società e agli Stati indebitati del Basso capitalismo: “Lavorare, consumare e vivere per continuare a pagare debiti inestinguibili”. Ma proprio di fronte a questo scenario di eterna dannazione, già presagito da Benjamin nel 1921, può non solo ricomporsi la classe dei debitori, ma riaccendersi inatteso il più avanzato conflitto politico. ***
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In conclusione ricordiamo che una delle tesi più stimolanti proposte nel colloquio di Karlsruhe, quella che ci riguarda sicuramente più da vicino, è avanzata in apertura da Peter Sloterdijk e riguarda l’imminente imporsi, a suo avviso, di un capitalismo autoritario e patriarcale di marca asiatica, olistica, che starebbe per sostituirsi al capitalismo liberale, in quanto capitalismo e razionalismo, come hanno dimostrato Singapore in passato e la Cina attualmente, non sarebbero affatto consustanziali alla cultura liberale. Secondo Sloterdijk, uno dei cavalli di Troia all’interno del quale il nuovo ircocervo chiamato capitalismo autoritario (un modello politico già sperimentato nelle dittature novecentesche) finirà per espugnare la fortezza iliaca europea, patria del liberalismo moderno, è Silvio Berlusconi, a capo del Paese che l’autore tedesco definisce “laboratorio politico della modernità”54 (mentre George W. Bush lo sarebbe stato per gli Stati Uniti e Vladimir Putin per la Russia). Questa tesi, detto francamente, non ci convince affatto, così come non persuade Boris Groys, il quale afferma senza mezzi termini che “oggi siamo in una situazione in cui il capitale sguazza, scorre e circola per tutto il mondo. Abbiamo, per così dire, un capitale de-ritualizzato, globalizzato, anonimo. Personalmente non credo che, quanto meno nelle condizioni attualmente vigenti, qualcosa come un’economia pianificata o una collaborazione, ossia un autoritarismo paterno, sia compatibile con questo capitale globalizzato, con questi flussi di capitale. Penso che il capitale si sia completamente sganciato da quei controlli tradizionali, socialisti, patriarcali o comunque legati alla pianificazione dell’economia”.55 Sulla base dei risultati acquisiti nella nostra lunga disamina, possiamo avanzare infatti una tesi diametralmente opposta a quella di Sloterdijk: Silvio Berlusconi quale imprenditore della comunicazione, pubblicitario, venditore e mediocrate, è il prodotto e l’incarnazione più conforme del Medio capitalismo divino, il suo sommo sacerdote, mentre il berlusconismo è la forma culturale nonché l’involucro politico che meglio ne rappresenta le dinamiche, le logiche e le esigenze, in netto contrasto con le figure partorite dall’Alto capitalismo. Berlusconi non riflette né più né meno che una necessità economica. Egli non rappresenta affatto il ritorno di un capitalismo autoritario, bensì il culmine più elevato del Medio capitalismo, del mondo incentrato sulla figura del capitale-merce da vendere con ogni mezzo. Poche 54 55
Vedi infra, p. 59 Infra, p. 82 sg.
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altre nazioni, tranne forse l’America di Ronald Reagan, hanno trovato un simbolo che rispecchiasse con tale trasparenza e nitore la figura del capitale-merce divenuto divino, con il suo corteo di faux fraise. Da questo punto di vista, anche le vicende legate all’immagine privata di Berlusconi, alla sua professionalità, alla sua personalità, al suo stile di vita, non sono affatto casuali, ma si inseriscono perfettamente, come un tassello necessario, nel mosaico della perfetta auto-rappresentazione del Medio capitalismo, non solo italiano: padronanza delle tecniche di comunicazione, colonizzazione dell’immaginario e dello spazio onirico, liberazione del desiderio, licenza sessuale e lassismo morale, insofferenza costante per le regole avvertite come oppressive, permissivismo e garantismo, scarso rispetto per le istituzioni in quanto tradizionali gerarchie intermedie tra popolo e rappresentanza, libertà come promessa di abbondanza materiale illimitata, fonte di felicità e ottimismo, predominio assoluto dell’apparenza, del messaggio suadente, del marketing onnicomprensivo, rifiuto aprioristico dei valori tradizionali come il sacrificio, la rinuncia, l’ordine ecc. Berlusconi è la sintesi, il culmine, la realizzazione finale e più fulgida delle promesse e del programma socialdemocratico, neoliberista e sessantottino. In questo senso, è davvero difficile trovare un simbolo che sia più distante dall’Alto capitalismo e che meglio rappresenti il Medio capitalismo divino. Oggi si avverte un certo fastidio sociale per messaggi e comportamenti che in passato godevano di approvazione diffusa. Il declino dell’immagine di Berlusconi è unicamente l’indice visibile e sovrastrutturale della latente metamorfosi in atto a livello strutturale. La domanda chiave riguarda ora il “dopo-Berlusconi”, ossia le caratteristiche sovrastrutturali del Basso capitalismo. E proprio la presenza del venditore par excellence permette all’analista italiano di sfruttare un vantaggio teorico di posizione. La domanda sul dopo-Berlusconi fuoriesce però dai confini angusti dell’Italia e investe tutti i Paesi a capitalismo avanzato, perché concerne il delicato passaggio dalla centralità del capitalemerce alla centralità del capitale monetario, una transizione dolorosissima finché l’involucro culturale pleromatico della sovrabbondanza consumista convivrà con una sostanza monetaria sempre più kenotica. Rientrando nella metafora già menzionata in precedenza, l’interrogativo da porsi è: come colmare il nuovo “vuoto” che caratterizzerà vieppiù le domeniche della vita? Quale culto per queste domeniche? Quale evemerismo contro questo nuovo Dio, contro questa nuova figura teologica del capitale? Nelle economie avanzate, la svolta in
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corso rende superfluo e ormai superato il venditore, il pubblicitario, l’imbonitore, perché stanno salendo direttamente alla ribalta, da posizioni prima oscure e defilate, altri sacerdoti: economisti, speculatori, banchieri, finanzieri. La bancocrazia sta ormai prendendo in mano senza mediazioni le redini del potere internazionale e locale, in una lotta poco visibile ma serrata con le posizioni capitalistiche di retroguardia iniziata già da qualche lustro (privatizzazioni delle banche centrali; rivendicazione universale della sovranità monetaria, ormai completamente sganciata dalla sovranità gius-politica e operante in assoluta autonomia e spesso in contraddizione con essa; piena libertà di movimento per il capitale speculativo; infiltrazione dei rappresentanti della bancocrazia nei gangli centrali delle istituzioni politiche globali). Liberandosi da ogni atteggiamento romantico, nostalgico o reticente, urge dunque chiedersi quale metamorfosi subirà Dio nella religione del Basso capitalismo e, insieme al Dio economico, quale configurazione acquisirà la complessa sovrastruttura, quali saranno le caratteristiche salienti del nuovo capitalismo divino e dell’inevitabile reazione sociale nei suoi confronti, in un periodo in cui i mezzi di produzione (sia del capitale industriale sia di quello commerciale) sono sempre più concentrati, in una società profondamente e cronicamente indebitata, nelle mani rapaci dei bancocrati. Dopo il Dio padre autoritario e la Dea madre prodiga, governerà forse un capitale-Dio con le sembianze “aconcettuali” del “feticcio automatico” evocato da Marx nel Capitale [III, 464-465], automa rarefatto, impersonale e gelido, che abbandona la sfera economica (produzione e circolazione [II, 58]) per farsi invisibile frame mistico, “lapidario” rapporto giuridico [III, 413-415] e puro diritto di proprietà [III, 407] tra chi possiede e presta denaro a interesse, la bancocrazia, e chi non possiede nulla e prende a prestito: “tutte le classi sociali” [III, 429], la società intera, decapitalizzata, indebitata e impaurita? Rispondere a questi interrogativi dovrà essere, d’ora innanzi, la prestazione specifica della teologia materialista, consapevole che il conflitto politicamente efficace assumerà un aspetto conforme solo alla figura logica avanzata e predominante del capitale divino, non alle precedenti, ormai anacronistiche, giacché è il Dio regnante, come insegna la teologia economica, che satura con la propria essenza tutti i pori della società. Torino, 16 febbraio 2011 Stefano Franchini