Ignoto a se stesso. Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda 9788870180879, 8870180875


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Italian Pages 85 [90] Year 1988

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Octavio Paz

Ignoto a se stesso Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda

, il melangolo

opuscula / 24

Titolo originale El desconocido de si mismo; La pakbra edificante Traduzione di Ernesto Franco

Copyright © Octavio Paz Copyright © 1988 il melangolo s.r.l. Genova - via di Pona Soprana, 3-1 ISBN 88-7018-087-5

Octavio Paz

Ignoto a se stesso Saggi su Fernando Pessoa e Luis Cernuda A cura di Ernesto Franco

Con un saggio di Antonio T abucchi

, ii melangolo

PESSOA: IL RUMORE DI FONDO di Antonio Tabucchi

Nel 1962, quando la critica su Fernando Pessoa non denotava certo le ipertrofie odierne; anzi, quando Pessoa era in qualche modo un "poeta segreto" che circolava presso un cenacolo di devoti quasi clandestini, questa smagliante perla saggistica di Octavio Paz, prefazione all'edizione messicana di un'essenziale antologia pessoana della quale Paz era anche il traduttore in castigliano, additava, come per ispirazione, delle cifre di lettura alle quali poi il poeta degli eteronimi sarebbe stato diligentemente sottoposto. Ho detto "ispirazione" perché sotto questi quadrupli profili tracciati con finissimo senso critico, pulsa quell'intelligenza di lettura, fra l'intuitivo e l'ispirato, che spesso felicemente posseggono, probabilmente per affinità elettive, certe interpretazioni di poesia fatte da poeti. Letture che prescindono da metodologie, beninteso, che all'analisi preferiscono la sintesi, la definizione, il lampo di cortocircuito e che si costituiscono, proprio per questo, come discorsi paralleli che non vivono all'interno del testo preso in esame, ma che di esso si alimentano per poi alimentarlo a loro volta, per caricarlo, per individuare, restando su un'altra imbarcazione, la rotta che quel testo ha percorso, per misurarne col loro sestante la posizione, per dirci su quali stelle e su quali punti cardinali il comandante dell'altro vascello tracciò la trigonometria del suo viaggio. 9

"I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia". Con questa affermazione che apre il suo saggio e che è quasi diventata un motto per i pessoani, Paz si avventura nel "caso" Pessoa attraverso l'opera: con rigorosa fedeltà al programma del poeta portoghese che si costruì le sue biografie plurali attraverso un'opera plurale. Per Octavio Paz il tramite a Pessoa era stato il Surrealismo, movimento ma soprattutto dimensione mentale per i quali, come è noto, il poeta messicano ha sempre nutrito una speciale simpatia. Non mi pare ozioso, per il pessoano di casa nostra, ripercorrere la petite histoire di questo incontro, che da una parte ci ragguaglia sulle prime accoglienze internazionali ricevute da Pessoa e dall'altra è esplicita sulla sensibilità e sulla vivacità di un'avanguardia come il Surrealismo che alla fine degli anni Cinquanta è un movimento che ormai ha ampiamente detto quanto aveva da dire ma che nonostante tutto è ancora così vitale da poter cogliere con prontezza fermenti e suggestioni che la cultura europea meno "ufficializzata" e direi, nel caso di Pessoa, stravagante, può suggerire. "La primera vez que oi hablar de Fernando Pessoa fue en Paris, una noche de ot01io de 1958. Habia cenado con unos amigos, en una casa del Marais; uno de los presentes, Nora Mitrani, me pregunt6 mi opini6n sobre el «caso» de Pessoa; no sin confusi6n, tuve que decirle que apenas si sabia algo de la literatura moderna portuguesa. Unos dias después Nora me envi6 un numero de «Le Surréalisme, meme», en el que aparecian algunos poemas de Pessoa-Caeiro traducidos por ella[ ... ]. Hace unos meses muri6 Nora Mitrani; creo que le habria alegrado saber que aquella conversaci6n de 1958 despert6 una pasi6n" (in F. Pessoa, Antolog{a, Pr6logo, selecci6n y traducci6n de Octavio Paz, Editorial Laia, Barcelona 1958, p. 5). È evidente che il Surrealismo legge Pessoa alla luce dei suoi canoni e lo filtra con il mezzo della psicoanalisi, della scrittura automatica, dello hazard objectif che la dimensione eso10

terica di Pessoa consente (ricordo di passaggio il testo ammirevole di Octavio Paz, El Mono Gramdtico, dove hazard objectif, dimensione estetica, réverie e avventura mentale si mescolano). E proprio di Maestro Caeiro, il misterioso e impassibile "oracolo" che con voce monotona parla dalla sua casetta imbiancata a calce nel Ribatejo, Nora Mitrani aveva colto la dimensione inquietante, esoterica, direi metafisica più che surreale, e che Octavio Paz immediatamente recepisce e scandaglia in questo suo saggio. Ma il mistero-Caeiro, che è poi il mistero-Pessoa e sul quale si affaccia tutto il saggio, è per Octavio Paz il mistero della poesia. Pessoa diventa così non tanto un poeta, ma una figura allegorica, una personificazione (o personificazione senza persona) dell'assenza, o meglio, come dice Paz, della coscienza de/l'assenza. Rinunciando a ricercare il "vero" Pessoa (o l'Altro, o con psicoanalisi banalizzanti il Doppio), Octavio Paz scavalca il problema di una riduttiva e circoscritta interpretazione di Pessoa e lo radicalizza. Nella sua lettura ciò che è in gioco è il problema della poesia e, direi, della scrittura. La scrittura che resta e che consola dell'irrealtà che siamo: un qualcosa, un rumore.

li

IGNOTO A SE STESSO (Fernando Pessoa)

I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia. Pessoa, che sempre dubitò della realtà di questo mondo, approverebbe senza esitare che mi volgessi direttamente alle sue poesie, dimenticando gli incidenti e gli accidenti della sua esistenza terrena. Nulla nella sua vita è sorprendente - nulla, eccetto le poesie. Non credo che il suo "caso", bisogna rassegnarsi ad utilizzare questa antipatica parola, possa esserne spiegazione; credo che, alla luce delle poesie, il suo "caso" cessi di essere tale. Il suo segreto, d'altronde, sta scritto nel suo nome: Pessoa significa, in portoghese, persona e deriva dal latino di persona, la maschera degli attori romani. Maschera, personaggio di finzione, nessuno: Pessoa. La sua storia potrebbe ridursi al transito fra l'irrealtà della sua vita quotidiana e la realtà delle sue finzioni. Queste finzioni sono i poeti Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis e, soprattutto, lo stesso Fernando Pessoa. Così, non sembra inutile ricordare i fatti salienti della sua vita, a condizione di aver coscienza che si tratta delle tracce di un'ombra. Il vero Pessoa è un altro. Nasce a Lisbona, nel 1888. Bambino, rimane orfano del padre. La madre torna a sposarsi e, nel 1896, si trasferisce con i figli a Durban, Africa del Sud, dove il suo secondo marito era stato inviato come console del Portogallo. Educazione inglese. Poeta bilingue, nel pensiero e nell'opera 15

l'influenza anglosassone sarà costante. Nel 1905, in procinto di entrare all'Università del Capo, deve tornare in Portogallo. Nel 1907 abbandona la Facoltà di Lettere di Lisbona e impianta una tipografia. Fallimento, parola che si ripeterà con frequenza nel corso della sua vita. Lavora poi come "correspondente estrangeiro", e cioè come redattore ambulante di lettere commerciali in lingua inglese e francese, impiego modesto che gli darà di che sopravvivere per tutta la vita. Certo, in qualche occasione gli si schiudono, con discrezione, le porte della carriera universitaria. Con l'orgoglio dei timidi, rifiuta l'offerta. Ho scritto discrezione e orgoglio; forse avrei dovuto dire svogliatezza e realismo: nel 1932 aspira al posto di archivista in una biblioteca, ma viene scartato. Non c'è ribellione nella sua vita: una modestia, appena, vicina alla negligenza. Dal suo ritorno dall'Africa non lascia più Lisbona. Prima vive in una vecchia casa, con una zia zitellona e una nonna pazza. Poi con un'altra zia. Per un certo periodo con sua madre, vedova di nuovo. Per il resto, in domicili incerti. Vede gli amici in strada e al caffè. Bevitore solitario di taverne e cantine della città vecchia. Altri dettagli? Nel 1916 progetta di trovarsi una sistemazione come astrologo. L'occultismo ha i suoi rischi e un bel giorno Pessoa si vede coinvolto in un imbroglio, ordito dalla polizia contro il mago e "satanista" inglese E.A. Crowley-Aleister, di passaggio a Lisbona in cerca di adepti per il suo ordine mistico-erotico. Nel 1920 si innamora, o crede di innamorarsi, di una commessa. La relazione non dura molto: "il mio destino" - dice nella lettera di rottura - "appartiene ad altra Legge, della cui esistenza lei è all'oscuro ... ". Non si sa di altri amori. C'è una corrente di dolorosa omosessualità nella Ode marftima e in Saudaçoo a Walt Whitman, grandi componimenti che fanno pensare a quelli che, quindici anni più tardi, avrebbe scritto il Garcia Lorca di Poeta en Nueva York. Ma Alvaro de Campos, professionista della provocazione, non è tutto Pessoa. 16

Ci sono altri poeti in Pessoa. Casto, tutte le sue passioni sono immaginarie. Meglio: il suo gran vizio è l'immaginazione. Per questo non si muove dalla sedia. E c'è un altro Pessoa, che non appartiene alla vita di tutti i giorni né alla letteratura: l'adepto, l'iniziato. Su questo Pessoa non si può né si deve dir nulla. Rivelazione, inganno, autoinganno? Tutto insieme, forse. Come il maestro di uno dei suoi sonetti ermetici, Pessoa conosce e tace. Anglomane, miope, cortese, sfuggente, vestito di scuro, reticente e familiare, cosmopolita che predica il nazionalismo, investigatore solenne di cose futili, umorista che non sorride mai e che ci gela il sangue, inventore di altri poeti e sabotatore di sé stesso, autore di paradossi trasparenti come l'acqua e, come questa, vertiginosi: fingere è conoscersi, misterioso che non coltiva il mistero, misterioso come la luna di mezzogiorno, taciturno fantasma del mezzogiorno portoghese, chi è Pessoa? Pierre Hourcade, che lo conobbe verso la fine della sua vita, scrive: "Mai, dopo averlo salutato, osai voltarmi; avevo paura di vederlo svanire, dissolto nell'aria". Dimentico qualcosa? Morì nel 1935, a Lisbona, di crisi epatica. Lasciò due plaquettes di poesie in inglese, un delicato libro di versi portoghesi e un baule pieno di manoscritti. Non si sono ancora pubblicate tutte le sue opere.

La sua vita pubblica, in qualche modo bisogna pur chiamarla, trascorre nella penombra. Letteratura del margine, zona male illuminata in cui si muovono - cospiratrici o lunatiche? - le ombre indecise di Alvaro de Campos, Ricardo Reis e Fernando Pessoa. Per lo spazio di un istante, i brutali riflettori dello scandalo e della polemica le illuminano. Poi, l'oscurità di nuovo. Il quasi-anonimato e la quasicelebrità. Nessuno ignora il nome di Fernando Pessoa ma pochi sanno chi sia e che cosa faccia. Reputazioni portoghesi, spagnole e ispanoamericane: "Devo aver già sentito il suo 17

nome lei è giornalista o regista cinematografico?". Mi immagino che a Pessoa non dispiacesse l'equivoco. Che piuttosto lo coltivasse. Stagioni di agitazione letteraria seguite da periodi di abulia. Se le sue apparizioni sono isolate e spasmodiche, colpi di mano per terrorizzare i quattro gatti della letteratura ufficiale, il suo lavoro solitario è costante. Come tutti i grandi pigri, passa la vita facendo cataloghi di opere che non scriverà mai. E come pure accade agli abulici, quando sono appassionati e immaginosi, per non scoppiare, per non diventare folle, quasi di soppiatto, in margine ai grandi progetti, tutti i giorni, scrive una poesia, un articolo, una riflessione. Dispersione e tensione. Tutto marcato da uno stesso segno: quei testi sono stati scritti per necessità. E questo, la fatalità, è ciò che distingue uno scrittore autentico da chi semplicemente ha del talento. Scrive in inglese le sue prime poesie, fra il 1905 e il 1908. A quell'epoca leggeva Milton, Shelley, Keats, Poe. Più tardi scopre Baudelaire e frequenta vari "subpoeti portoghesi". Insensibilmente torna alla lingua materna, anche se non cesserà mai di scrivere in inglese. Fino al 1912 l'influenza della poesia simbolista e del "saudosismo" è dominante. In quell'anno pubblica le prime cose, sulla rivista A Àguia, organo del ''rinascimento portoghese''. La sua collaborazione consistette in una serie di articoli sulla poesia portoghese. È molto da Pessoa questo iniziare la vita di scrittore come critico letterario. Non meno significativo è il titolo di uno dei testi: Na F/oresta do Alheamento. Il tema dell'alienazione e della ricerca di sé, nel bosco incantato o nella città astratta, è qualcosa di più di un tema: è la sostanza della sua opera. In quegli anni si cerca. Non tarderà ad inventarsi. Nel 1913 conosce due giovani che saranno i compagni più fidati della breve avventura futurista: il pittore Almada Negreiros e il poeta Mario de Sa-Carneiro. Altre amicizie: Armando Còrtes-Rodrigues, Luis de Montalvor, José Pacheco. Prigionieri ancora nella malìa della poesia "decadente", quei 18

ragazzi tentavano vanamente di rinnovare la corrente simbolista. Pessoa inventa il "paulismo". E ad un tratto, attraverso Sa-Carneiro, che vive a Parigi e con cui intrattiene una febbrile corrispondenza, la rivelazione della grande insurrezione moderna: Mari netti. La fecondità del futurismo è innegabile, anche se il suo splendore si è poi offuscato per le abdicazioni del fondatore. La ripercussione del movimento fu istantanea, forse perché, più che una rivoluzione, fu una rivolta. Fu la prima scintilla, la scintilla che fa brillare la polveriera. Il fuoco si propagò da un estremo all'altro, da Mosca a Lisbona. Tre grandi poeti: Apollinaire, Majakovskij e Pessoa. L'anno seguente, 1914, sarebbe stato per il portoghese l'anno della scoperta o, più esattamente, della nascita: appaiono Alberto Caeiro e i suoi discepoli, il futurista Alvaro de Campos e il neoclassico Ricardo Reis. L'irruzione degli eteronimi, evento interiore, prepara l'azione pubblica: l'esplosione di Orpheu. Nell'aprile del 1915 esce il primo numero della rivista. In luglio, il secondo ed ultimo. Poco? Troppo, piuttosto. Il gruppo non era omogeneo. Lo stesso nome, Orpheu, ostenta l'impronta simbolista. Perfino in Sa-Carneiro, nonostante la violenza, i critici portoghesi avvertono la persistenza del "decadentismo". In Pessoa la divisione è netta: Alvaro de Campos è un futurista integrale ma Fernando Pessoa continua ad essere un poeta "paulista". Il pubblico accolse la rivista con indignazione. I testi di Sa-Carneiro e di Campos provocarono la furia consueta dei giornalisti. Agli insulti seguirono le irrisioni. AJle irrisioni, il silenzio. Il ciclo si concluse. Rimase qualcosa? Sul primo numero apparve la Ode triunfal; sul secondo, la Ode maritima. La prima è una poesia che, a dispetto dei tic e delle affettazioni, possiede già il tono diretto di Tabacaria, la visione del poco peso dell'uomo di fronte al peso bruto della vita sociale. La seconda è qualcosa di più dei fuochi d'artificio della poesia futurista: un grande spirito delira a voce alta e il suo grido 19

non è mai ferino né superumano. Il poeta non è un "piccolo Dio" ma un essere caduto. Le due poesie ricordano più Whitman che Marinetti, un Whitman introverso e negatore. Ma non è tutto. La contraddizione è il sistema, la forma della sua coerenza vitale: contemporaneamente alle due odi, scrive O Guardador de Rebanhos, libro postumo di Alberto Caeiro, le poesie latinizzanti di Reis e Epithalamium e Antinous, "dois poemas ingleses meus, muito indecentes, e portanto impublicaveis em lnglaterra". L'avventura di Orpheu si interrompe bruscamente. Alcuni, di fronte agli attacchi dei giornalisti e spaventati forse dalle intemperanze di Alvaro de Campos, scappano. Sa-Carneiro, sempre instabile, torna a Parigi. Un anno dopo si suicida. Nuovolentativo nel 1917: l'unico numero di Portuga/ Futurista, diretto da Almada Negreiros, in cui appare l'Ultimatum di Alvaro de Campos. Oggi è difficile leggere con interesse quel diluvio di diatribe, anche se alcune conservano ancora la loro salutare virulenza: "D'Annunzio, Don Juan a Patmos; Shaw, tumore freddo dell'ibsenismo; Kipling, imperialista dei ferrivecchi..." L'episodio di Orpheu termina con la dispersione del gruppo e con la morte di una delle sue figure guida. Sarà necessario aspettare quindici anni e una nuova generazione. Niente di tutto ciò è insolito. Ciò che stupisce è l'apparire del gruppo, in anticipo sui tempi e sulla società. Che cosa si stava scrivendo in Spagna e in America Latina in quegli anni? Il periodo seguente è di relativa oscurità. Pessoa pubblica due quaderni di poesia in inglese, 35 Sonnets e Antinous, che il Times di Londra e il Glasgow Hera/d recensiscono con molta cortesia e poco entusiasmo. Nel 1922 appare la prima collaborazione di Pessoa su Contemporfmea, una nuova rivista letteraria: O Banqueiro Anarquista. Pure di quegli anni sono le sue velleità politiche: elogi del nazionalismo e del regime autoritario. La realtà lo disillude e lo obbliga a smentirsi: in due occasioni si oppone al pubblico potere, alla Chiesa e al20

la morale sociale. La prima per difendere Antonio Botto, autore di Cançoes, poesie d'amore omosessuale. La seconda, contro la "Lega d'azione degli studenti", che perseguitava il libero pensiero con il pretesto di finirla con la cosiddetta "letteratura di Sodoma". Cesare è sempre moralista. Alvaro de Campos distribuisce un foglio: A viso por causa da mora/; Pessoa pubblica un manifesto; e l'aggredito, Raul Leal, scrive l'opuscolo: Uma liçao de mora/ aos estudantes de Lisboa e o descaramento da lgreja Cat6/ica. Il centro di gravità si è spostato dall'arte libera alla libertà dell'arte. L'indole della nostra società è tale che il creatore è condannato all'eterodossia e all'opposizione. L'artista lucido non si sottrae a questo rischio morale. Nel 1924, una nuova rivista: Athena. Dura solo per cinque numeri. Le "riprese" non sono mai state buone. In realtà Athena è un ponte tra Orpheu e i giovani di Presença (1927). Ogni generazione sceglie, a quanto sembra, la propria tradizione. Il nuovo gruppo scopre Pessoa, che finalmente trova possibili interlocutori. Troppo tardi, come sempre. Poco tempo dopo, un anno prima della morte, avviene il grottesco incidente del certame poetico della Segreteria di Propaganda Nazionale. Il tema, naturalmente, era un canto in gloria della nazione e dell'impero. Pessoa invia Mensagem, versi che· sono un'interpretazione "occultista" e simbolica della storia portoghese. Il libro deve aver lasciato perplessi i funzionari incaricati della giuria del concorso. Gli assegnarono un premio di "seconda categoria". Fu la sua ultima esperienza letteraria.

Tutto inizia 1'8 marzo 1914. Ma_ è meglio trascrivere un frammento da una lettera di Pessoa a uno dei ragazzi di Presença, Adolfo Casais Monteiro: "Verso il 1912, salvo errori (che comunque sarebbero minimi), mi venne l'idea di scrivere qualche poesia di indole pagana. Abbozzai qualcosa in versi 21

irregolari (non nello stile di Alvaro de Campos, ma in uno stile di media regolarità), e lasciai perdere. Si era abbozzato in me, tuttavia, in una maltessuta penombra, un vago ritratto della persona che stavascrivendo quei versi. (Era nato, senza che io lo sapessi, Ricardo Reis). Un anno e mezzo, o due anni dopo, un giorno mi venne in mente di fare uno scherzo a Sa-Carneiro: di inventare un poeta bucolico, abbastanza sofisticato, e di presentarglielo, non mi ricordo più in quale modo, come se fosse reale. Passai qualche giorno ad elaborare il poeta ma non me ne venne niente. Alla fine, un giorno in cui avevo desistito - era 1'8 marzo 1914 - mi avvicinai a un alto comò e, preso un foglio di carta, cominciai a scrivere, in piedi, come scrivo ogni volta che posso. E scrissi trenta e passa poesie, di seguito, in una specie di estasi di cui non riuscirei a definire la natura. Fu il giorno trionfale della mia vita, e non potrò più averne un altro simile. Cominciai con un titolo, O Guardador de Rebanhos. E quanto seguì fu la comparsa in me di qualcuno a cui subito diedi il nome di Alberto Caeiro. Mi scusi l'assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro. Fu questa la mia immediata sensazione. Tanto che, non appena scritte le trenta e passa poesie, afferrai un altro foglio di carta e scrissi, di seguito, le sei poesie che costituiscono Chuva Obliqua di Fernando Pessoa. Immediatamente e totalmente ... Fu il ritorno di Fernando Pessoa - Alberto Caeiro al Fernando Pessoa - lui solo. O meglio, fu la reazione di Fernando Pessoa alla propria inesistenza come Alberto Caeiro. Apparso Alberto Caeiro, mi misi subito a scoprirgli, istintivamente e subcoscientemente, dei discepoli. Estrassi dal suo falso paganesimo il Ricardo Reis latente, gli scoprii il nome e glielo adattai, perché allora lo vedevo già. E, all'improvviso e da derivazione opposta a quella di Ricardo Reis, mi venne a galla impetuosamente un nuovo individuo. Di getto, e alla macchina da scrivere, senza interruzioni né correzioni, sorse l'Ode Triunfal di Alvaro de Campos: l'Ode con questo no-

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me e l'uomo con il nome che ha"I. Non so che cosa potrebbe aggiungersi a questa confessione. La psicologia ci offre diverse spiegazioni. Lo stesso Pessoa, che si interessò al proprio caso, ne propone due o tre. Una crudamente patologica: "probabilmente sono un isteronevrastenico [... ] e questo spiega, bene o male, l'origine organica degli eteronimi". lo non direi "bene o male", ma poco. Il difetto di queste ipotesi non è che siano false: sono incomplete. Un nevrotico è un posseduto; chi domina i propri perturbamenti: è un malato? Il nevrotico soffre le sue ossessioni; il creatore è loro padrone e le trasforma. Pessoa racconta che da bambino viveva tra personaggi immaginari. ("Non so, beninteso, se realmente non siano esistiti o se sono io che non esisto. In queste cose, come del resto in ogni cosa, non dobbiamo essere dogmatici".) Gli eteronimi sono circondati da una massa fluida di semi-esseri: il Barone di Teive; Jean Seul, pubblicista satirico francese; Bernardo Soares, fantasma del fantasmatico Vicente Guedes; Pacheco, brutta copia di Campos ... Non tutti sono scrittori: c'è un Mr. Crosse, infaticabile partecipante ai concorsi delle sciarade e dei cruciverba delle riviste inglesi (mezzo infallibile, credeva Pessoa, per diventar ricco), Alexander Search e altri. Tutto ciò - come la sua solitudine, il suo alcolismo discreto e tante altre cose - ci fornisce lumi sul suo carattere ma non ci spiega le sue poesie, che sono l'unica cosa che importi davvero. Lo stesso vale per l'ipotesi "occultista", a cui Pessoa, troppo analitico, non fa appello apertamente ma che non cessa di evocare. È risaputo che gli spiriti che guidano la penna dei medium, anche quelli di Euripide e di Victor Hugo, rivelano una sconcertante goffaggine letteraria. Altri azzardano che si tratti di una "mistificazione". L'errore è doppiamente grossolano: Pessoa non mente e la sua opera non è una soperchieria. C'è qualcosa di terribilmente volgare nella mentalità moderna; la gente, che tollera ogni sorta di inde23

gne menzogne nella vita reale, non sopporta l'esistenza dell'affabulazione. E proprio questo è l'opera di Pessoa: un'affabulazione, una finzione. Dimenticare che Caeiro, Reis e Campos sono creazioni poetiche, è dimenticare troppo. Come ogni creazione, quei poeti nacquero da un gioco. L'arte è gioco - e anche altro. Ma senza gioco non si dà arte. L'autenticità degli eteronimi dipende dalla loro coerenza poetica, dalla loro verosimiglianza. Furono creazioni necessarie, poiché altrimenti Pessoa non avrebbe consacrato la sua vita a viverli e crearli. Ciò che importa ora non è che siano stati necessari per il loro autore, ma se lo siano anche per noi. Pessoa, il loro primo lettore, non dubitò della loro realtà. Reis e Campos dissero ciò che forse egli non avrebbe mai detto. Contraddicendolo, Io espressero; esprimendolo, Io obbligarono a inventarsi. Scriviamo per essere ciò che siamo e per essere ciò che non siamo. Nell'uno e nell'altro caso, cerchiamo noi stessi. E se abbiamo la fortuna di trovarci - segno di grazia - scopriamo che siamo uno sconosciuto. Sempre l'altro, sempre lui, inseparabile, alieno, con il tuo volto ed il mio, tu sempre con me e sempre solo. Gli eteronimi non sono maschere letterarie: ''Ciò che scrive Fernando Pessoa appartiene a due categorie d'opere, che potremmo definire ortonime ed eteronime. Non si può dire che siano anonime o pseudonime poiché davvero non lo sono. L'opera pseudonima è dell'autore nella sua persona; l'eteronima è dell'autore fuori della sua persona ... ". Gérard de Nerval è lo pseudonimo di Gérard Labrunie: la stessa persona e la stessa opera; Caeiro è un eteronimo di Pessoa: impossibile confonderli. Più prossimo, il caso di Antonio Machado è ancora differente. Abel Martin e Juan de Mairena non sono completamente il poeta Antonio Machado. Sono maschere, ma maschere trasparenti: un testo di Machado non è diverso da un testo di Mairena. Inoltre, Machado non è posseduto dalle sue finzioni, esse non sono creature che lo abitino, lo contraddicano o lo neghino. Al contrario, Caeiro, Reis e Cam24

pos sono gli eroi di un romanzo che Pessoa non scrisse mai. "Sono un poeta drammatico", confida in una lettera a J .G. Simoes. Tuttavia la relazione tra Pessoa e i suoi eteronimi non è identica a quella del drammaturgo o del romanziere con i suoi personaggi. Non è un inventore di personaggi-poeti ma un creatore di opere-di-poeti. La differenza è capitale. Come dice Casais Monteiro: "Inventò le biografie per le opere e non le opere per le biografie". Quelle opere - e le poesie di Pessoa, scritte a fronte, per e contro di esse - sono la sua opera poetica. Egli stesso si trasforma in una delle opere della sua opera. E non ha neppure il privilegio di essere il critico di quella coterie: Reis e Campos lo trattano con una certa condiscendenza; il Barone di Teive non sempre lo saluta; Vicente Guedes, l'archivista, gli assomiglia tanto che quando lo incontra, in una cantina del quartiere, sente un po' di pietà per se stesso. È l'incantatore stregato, tanto totalmente posseduto dalle sue fantasmagorie che si sente osservato da esse, forse disprezzato, forse compatito. Le nostre creazioni ci giudicano.

Alberto Caeiro è il mio maestro. Questa affermazione è la pietra di volta di tutta la sua opera. E si potrebbe aggiungere che l'opera di Caeiro è l'unica affermazione che mai fece Pessoa. Caeiro è il sole e intorno a lui orbitano Reis, Campos e lo stesso Pessoa. In ognuno di essi convivono particelle di negazione e di irrealtà: Reis crede nella forma, Campos nella sensazione, Pessoa nei simboli. Caeiro non crede in nulla: esiste. Il sole è la vita colma di sé; il sole non guarda poiché tutti i suoi raggi sono sguardi convertiti in calore e luce; il sole non ha coscienza di sé poiché in esso pensare ed essere sono una e la stessa cosa. Caeiro è tutto ciò che non è Pessoa e, inoltre, tutto ciò che non può essere alcun poeta moderno: l'uomo riconciliato con la natura. Prima del cristianesimo, certo, ma anche prima del lavoro e della storia. 25

Prima della coscienza. Caeiro nega, per il solo fatto di esistere, non solo l'estetica simbolista di Pessoa ma tutte le estetiche, tutti i valori, tutte le idee. Non rimane nulla? Rimane tutto, senza più i fantasmi e le ragnatele della cultura. Il mondo esiste perché me lo dicono i miei sensi; e, dicendomelo, mi dicono che anch'io esisto. Sì, morirò e morirà il mondo, ma morire è vivere. L'affermazione di Caeiro annulla la morte; sopprimendo la coscienza, sopprime il nulla. Non afferma che tutto è, poiché questo sarebbe affermare un'idea; dice che tutto esiste. Di più: dice che solo è ciò che esiste. Il resto è illusione. Campos si incarica di precisare: "Il mio maestro Caeiro non era pagano; era il paganesimo". Io direi: un'idea del paganesimo. Caeiro frequentò appena le scuole2. Saputo che lo chiamavano "poeta materialista" volle sapere in che cosa consistesse quella dottrina. Sentendo la spiegazione di Campos, non nascose la sua meraviglia: "È un'idea da preti senza religione! Lei dice che dicono che lo spazio è infinito? In quale spazio hanno visto questo?". Di fronte al discepolo stupefatto, Caeiro sostenne che lo spazio è finito: "Ciò che non ha limiti non esiste ... ". L'altro replicò: "E i numeri? Dopo il 34 viene il 35 e poi il 36 e così di seguito ... ". Caeiro lo guardò impietosito: "Ma quelli sono solo numeri!" e continuò, com umaformiddvel infiìncia: "Forse esiste un numero 34 nella realtà?". Un altro aneddoto: gli domandarono: "È contento di se stesso?". Rispose: "No, sono contento". Caeiro non è un filosofo: è un saggio. I pensatori hanno idee; per il saggio vivere e pensare non sono azioni separate. Per questo è impossibile esporre le idee di Socrate o di Lao Tsé. Non hanno lasciato dottrine, ma un pugno di aneddoti, enigmi e poemi. Chuang Tsé, più fedele di Platone, non pretende di trasmetterci una filosofia ma di raccontarci piccole storie: la filosofia è inseparabile dal racconto, è il racconto. La dottrina del filosofo invita alla confutazione; la vita del saggio è inconfutabile. Nessun saggio ha proclamato che la verità si apprende; ciò che hanno detto tutti, 26

o quasi tutti, è che l'unica cosa che vale la pena di essere vissuta è l'esperienza della verità. La debolezza di Caeiro non risiede nelle sue idee (esse sono piuttosto la sua forza); consiste nell'irrealtà dell'esperienza che dice di incarnare. Adamo in una casa rurale della provincia portoghese, senza donna, senza figli e senza creatore: senza coscienza, senza lavoro e senza religione. Una sensazione fra le sensazioni, un esistere fra le esistenze. La pietra è pietra e Caeiro è Caeiro, in questo istante. Poi, ciascuno sarà altro. O lo stesso. È identico o è diverso: tutto è identico poiché tutto è differente. Nominare è essere. La parola che nomina la pietra non è la pietra ma ha la stessareaftà detla pietra. Caeiro non si propone di nominare gli-esseri e per questo non ci dice mai se la pietra è un'àgata o un ciottolo, se l'albero è un pino o una quercia. Non pretende neppure di stabilire relazioni fra le cose; la parola come non figura nel suo vocabolario; ogni cosa è immersa nella propria realtà. Se Caeiro parla è perché l'uomo è un animale di parole, come l'uccello è un animale alato. L'uomo parla come il fiume scorre o la pioggia cade. Il poeta innocente non ha bisogno di nominare le cose; le sue parole sono alberi, nubi, ragni, lucertole. Non quei ragni che vedo, ma questi che dico. Caeiro si stupisce all'idea che la realtà sia inafferrabile: è lì, di fronte a noi, basta toccarla. Basta parlare. Non sarebbe difficile dimostrare a Caeiro che la realtà non è mai a portata di mano e che dobbiamo conquistarla (anche a rischio che, nell'atto della conquista, ci svanisca fra le mani e ci si converta in altra cosa: idea, utensile). Il poeta innocente è un mito, ma un mito che fonda la poesia. Il poeta reale sa che le parole e le cose sono differenti e per questo, per ristabilire una precaria unità fra l'uomo e il mondo, nomina le cose con immagini, ritmi, simboli e comparazioni. Le parole non sono le cose: sono i ponti che tendiamo fra esse e noi. Il poeta è la coscienza delle parole, cioè la nostalgia della realtà reale delle cose. Certo, le parole furono an-

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che cose prima di essere nomi di cose. Lo furono nel mito del poeta innocente, sì, prima del linguaggio. Le opache parole del poeta reale evocano la parola di prima del linguaggio, l'intravisto accordo paradisiaco. Parola innocente: silenzio in cui nulla si dice poiché tutto è già detto, tutto sta dicendosi. Il linguaggio del poeta si alimenta di quel silenzio che è parola innocente. Pessoa, poeta reale e uomo scettico, aveva bisogno di inventare un poeta innocente per giustificare la propria poesia. Reis, Campos e Pessoa dicono parole mortali e datate, parole di perdizione e dispersione: sono il presentimento e la nostalgia dell'unità. Le udiamo sullo sfondo del silenzio di quella unità. Non è un caso che Caeiro muoia giovane, prima che i suoi discepoli inizino la loro opera. È il loro fondamento, il silenzio che li sostiene. Il più naturale e semplice degli eteronimi è il meno reale. Lo è per eccesso di realtà. L'uomo, soprattutto l'uomo moderno, non è del tutto reale. Non è un ente compatto come la natura o le cose; la coscienza di sé è la sua realtà insostanziale. Caeiro è un'affermazione assoluta dell'esistere e da qui che le sue parole ci sembrino verità di altri tempi, quei tempi in cui tutto era uno e lo stesso. Presente sensibile e intoccabile: appena lo nominiamo svanisce! La maschera di innocenza che ci mostra Caeiro non è la saggezza: essere saggio è rassegnarsi a sapere che non siamo innocenti. Pessoa, che lo sapeva, era più vicino alla saggezza.

L'altro estremo è Alvaro de Campos3. Caeiro vive nel presente atemporale dei bambini e degli animali; il futurista Campos nell'istante. Per il primo, il villaggio natale è il centro del mondo; l'altro, cosmopolita, non ha centro, esiliato in quel nessun luogo che è ognidove. Tuttavia, si assomigliano: entrambi coltivano il verso libero; entrambi violentano il portoghese; entrambi non eludono i prosaismi. Non credono se non in ciò che toccano, sono pessimisti, amano la

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realtà concreta, non amano i loro simili, disprezz~no le idee e vivono fuo,ri dalla storia, uno nella pienezza dell'essere, l'altro nella sua più assoluta privazione. Caeiro, il poeta innocente, è ciò che non poteva essere Pessoa; Campos, il dandy vagabondo, è ciò che avrebbe potuto essere e non è statq. Sono le impossibili possibilità vitali di Pessoa. La prima poesia di Campos possiede un'ingannevole originalità. La Ode Triunfal è in apparenza un'eco brillante di Whitman e dei futuristi. Non appena si confronta questa poesia con quelle che, negli stessi anni, si venivano scrivendo in Francia, Russia e in altri paesi, si avverte la differenza4. Whitman credeva veramente nell'uomo e nelle macchine; meglio: credeva che l'uomo naturale non fosse incompatibile con le macchine. Il suo panteismo comprende anche l'industria. La maggior parte dei suoi discepoli non incorre in queste illusioni. Alcuni vedono nelle macchine giocattoli meravigliosi. Penso a Valery Larbaud e al suo Barnabooth, che ha più di uo tratto di somiglianza con Alvaro de Campos5. L'attitudine di Larbaud di fronte alla macchina è epicurea; quella dei futuristi, visionaria. La vedono come l'agente distruttore del falso umanesimo e, ovviamente, dell'uomo naturale. Non si propongono di umanizzare la macchina ma di costruire una nuova specie umana che sia ad essa simile. Un'eccezione sarà Majakovskij e anch'egli ... La Ode Triunfal non è né epicurea né romantica né trionfale: è un canto di rabbia e di sconfitta. E in ciò si fonda la sua originalità. Una fabbrica è "un paesaggio tropicale" popolato di bestie gigantesche e lascive. Fornicazione infinita di ruote, pistoni e pulegge. A misura che il ritmo mecc;;mico raddoppia, il paradiso di ferro e di elettricità si trasforma in una camera di tortura. Le macchine sono organi sessuali di distruzione: Campos vorrebbe essere triturato da quelle eliche furiose. Questa strana visione è meno fantastica di quanto sembri e non è soltanto un'ossessione di Campos. Le macchine sono riproduzione, semplificazione e moltiplicazione dei pro29

cessi vitali. Ci seducono e ci fanno orrore perché ci dànno la sensazione simultanea dell'intelligenza e dell'incoscienza: tutto ciò che fanno lo fanno bene ma non sanno quello che fanno. Non è questa un'immagine dell'uomo moderno? Ma le macchine sono una faccia soltanto della civiltà contemporanea. L'altra è la promiscuità sociale. La Ode Triunfal termina con un grido; trasformato in massa, scatola, pacco, ruota, Alvaro de Campos perde l'uso della parola: sibila, stride, rulla, martella, crepita, esplode. La parola di Caeiro evoca l'unità dell'uomo, della pietra e dell'insetto; quella di Campos, il rumore incoerente della storia. Panteismo e panmacchinismo, due modi di abolire la coscienza. Tabacaria è la poesia della coscienza recuperata. Caeiro si domanda: che cosa sono? Campos, chi sono? Dalla sua stanza contempla la strada: automobili, passanti, cani, tutto reale e tutto vuoto, tutto vicino e tutto lontano. Di fronte, sicuro di se stesso come un dio, enigmatico e sorridente come un dio, fregandosi le mani come Dio Padre dopo la sua orribile creazione, appare e scompare il Padrone della Tabaccheria. Arriva alla sua caverna-tempio-baracca, Esteves lo spensierato, sem metafisica, che parla e mangia, ha emozioni e opinioni politiche e rispetta le feste comandate. Dalla sua finestra, dalla sua coscienza, Campos guarda i due burattini e, vedendoli, vede se stesso. Dov'è la realtà: in me o in Esteves? Il Padrone della Tabaccheria sorride e non risponde. Poeta futurista, Campos esordisce affermando che l'unica realtà è la sensazione; alcuni anni più tardi si domanda se egli stesso possieda qualche briciola di realtà. Abolendo la coscienza di sé, Caeiro abolisce la storia; ora è la storia che sopprime Campos. Vita marginale: suoi fratelli, se qualcuno ne ha, sono le prostitute, i vagabondi, il dandy, il mendicante, la piccola umanità dell'emarginazione. La sua ribellione non ha niente a che vedere con le idee di redenzione e di giustizia: Nfio: tudo menos ter razfio! /Tudo menos importar-me com a humanidade! /Tudo menos ce30

der ao humanitarismo! Campos si ribella anche contro l'idea di ribellione. Non si tratta di una virtù morale, di uno stato di coscienza - è la coscienza di una sensazione: "Ricardo Reis è pagano per convinzione; Antonio Mora per ragionamento; io lo sono per ribellione, proprio così, per temperamento". La sua simpatia per i malviventi è tinta di disprezzo, ma quel disprezzo lo sente innanzitutto per se stesso: Sinto urna simpatia por essa gente toda, Sobretudo quando nao merece simpatia. Sim, eu sou tambén vadio e pedinte [... ] Ser vadio e pedinte nao é ser vadio e pedinte: É estar ao lado da escala socia! [... ] Nao ser Juiz do Supremo, empregado certo, prostituta, Nao ser pobre a valer, operario explorado, Nao ser doente de urna doença incuravel, No ser sedento da justiça ou capitao de cavalaria, Nao ser, enfim, aquelas pessoas sociais dos novelistas Que se fartam de letras porque tem razao para chorar lagrimas, E se revoltam contra a vida socia! porque tem razao para isso supor [... ] •

Il suo vagabondare e la sua mendicità non dipendono da nessuna circostanza: sono irrimediabili e senza redenzione. In questo senso, essere vagabondo è ser isolado na alma. E più oltre, con quella brutalità che scandalizzava Pessoa: Nem tenho a defensa de poder ter opi6es sociais [. . .] Sou lucido. I Nada de estéticas com coraçao: sou lucido. I Merda! Sou lucido. La coscienza dell'esilio è una nota costante della poesia moderna, da oltre un secolo e mezzo. Gérard de Nerval si finge • [Provo simpatia per tutta questa gente, / Soprattutto quando non merita simpatia./ Sì, anch'io sono vagabondo e mendicante[ ... ]/ Essere vagabondo e mendicante non è essere vagabondo e mendicante: / È essere fuori dalla gerarchia sociale [... ] I È non essere Giudice della Corte Suprema, impiegato fisso, prostituta, / Non essere sordidamente povero, operaio sfruttato, / Non essere malato di un male incurabile, / Non essere assetato di giustizia o capitano di cavalleria, / Non essere, infine, quelle figure sociali dei romanzieri / Che si saziano di lettere perché hanno ragione di piangere le loro lacrime / E si ribellano contro la vita sociale perché hanno ragioni d'avanzo per farlo [... ] ].

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principe di Aquitania; Alvaro de Campos sceglie la maschera del vagabondo. Il transito è rivelatore. Trovatore o mendicante, che cosa nasconde quella maschera? Nulla, forse. Il poeta è la coscienza della propria irrealtà storica. Solo che, se quella coscienza si ritira dalla storia, la società si inabissa nella propria opacità, diventa Esteves o il Padrone della Tabaccheria. Non mancherà chi dica che l'attitudine di Campos non è "positiva". Di fronte a critiche simili, Casais Monteiro rispondeva: "L'opera di Pessoa è realmente un'opera negativa. Non serve da modello, non insegna né a governare né ad essere governato. Serve esattamente per il contrario: per indisciplinare gli spiriti". Campos non si lancia, come Caeiro, ad essere tutto, ma ad essere tutti e a trovarsi in ognidove. La caduta nella molteplicità si paga con la perdita di identità. Ricardo Reis sceglie l'altra possibilità latente nella poesia del suo maestro6. Reis è un eremita come Campos è un vagabondo. Il suo eremo sono una filosofia e una forma. La filosofia è una miscela di stoicismo ed epicureismo. La forma: l'epigramma, l'ode e l'elegia dei poeti neoclassici. Solo che il neoclassicismo è una nostalgia, cioè, è un romanticismo che si ignora o che si maschera. Mentre Campos scrive i suoi lunghi monologhi, ogni volta più vicini all'introspezione che all'inno, il suo amico Reis lima piccole odi sul piacere, la fuga dal tempo, le rose di Lidia, la libertà illusoria dell'uomo, la vanità degli dei. Educato in un collegio di gesuiti, medico di professione, monarchico, esiliato in Brasile dal 1919, pagano e scettico per convenzione, latinista per educazione, Reis vive fuori dal tempo. Sembra, ma non è, un uomo del passato: ha scelto di vivere nell'alveo di una sagesse atemporale. Cioran segnalava recentemente che il nostro secolo, che ha inventato tante cose, non ha creato ciò di cui più abbiamo bisogno. Non è strano quindi che alcuni cerchino risposta nella tradizione orientale: taoismo, buddismo zen; in realtà quelle dottrine adempiono alla stessa funzione delle filosofie morali della fine del mondo anti32

co. Lo stoicismo di Reis è un modo di non essere nel mondo - senza cessare di aggirarvisi. Le sue idee politiche hanno un significato equivalente: non sono un programma ma la negazione dello stato di cose attuale. Non odia Cristo e neppure lo ama; aborrisce il cristianesimo anche se, in fin dei conti puro esteta, quando pensa a Gesù ammette che "la sua tenebrosa forma dolente ci ha portato qualcosa che mancava". Il vero dio di Reis è il Fato e tutti, uomini e miti, siamo sottomessi al suo dominio. La forma di Reis è ammirabile e monotona, come tutto ciò che è perfezione artificiale. In quelle piccole poesie si percepisce, più che la familiarità con le fonti latine e greche, una sapiente e distillata mistura di neoclassicismo lusitano e di Antologia greca tradotta in inglese. La correttezza della sua lingua inquietava Pessoa: "Caeiro scriveva male il portoghese, Campos ragionevolmente, ma con lapsus come dire "io proprio" invece di "io stesso", ecc., Reis meglio di me, ma con un purismo che considero esagerato". L'esagerazione sonnambula di Campos si converte, per un movimento di contraddizione molto naturale, nella precisione esagerata di Reis. Né la forma né la filosofia difend on o Reis: difendono un fantasma. La verità è che neppure Reis esiste ed è lui il primo a saperlo. Lucido, di una lucidità più penetrante di quella esasperata di Campos, si contempla: Nao sei de quem recordo meu passado Que outrem fui quando o fui, nem me conheço Como sentindo com minha alma aquela Alma que a sentir lembro. De dia a outro nos desamparamos. Nada de verdadeiro a n6s nos une Somos quem somos, e quem fomos foi Coisa vista por dentro. • • [Non so di chi ricordo il mio passato/ Che altro fui quando lo fui, né mi conosco/ Sentendo con la mia anima quell' I Anima che sentendo ricordo. / Da un giorno all'altro ci abbandoniamo. I Nulla di certo ci unisce a noi - / Siamo chi siamo e chi fummo fu / Cosa vista dall'interno.]

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Il labirinto in cui si perde Reis è quello di se stesso. Lo sguardo interiore del poeta, qualcosa di molto diverso dall'introspezione, lo avvicina a Pessoa. Anche se entrambi usano metri e forme fissi, il tradizionalismo non li avvicina perché appartengono a tradizioni differenti. Li unisce il sentimento del tempo - non come qualcosa che passa di fronte a noi, ma come qualcosa che diventa noi stessi. Catturati nell'istante, Caeiro e Campos affermano recisamente l'essere e l'assenza d'essere. Reis e Pessoa si perdono negli abissi del loro pensiero, si raggiungono ad una vetta e, fondendosi l'uno nell'altro, abbracciano un'ombra. La poesia non è l'espressione dell'essere, ma la commemorazione di quel momento di fusione. Monumento vuoto: Pessoa edifica un tempio all'ignoto; Reis, più tenebroso, scrive un epigramma che è anche un epitaffio: Negue-me tudo a sorte, menos vé-la, Que eu, 'stoico sem dureza, Na sentença gravada do Destino Quero gozar as letras. *

Alvaro de Campos citava una frase di Ricardo Reis: Odio la menzogna perché è un 'inesattezza. Queste parole potrebbero attribuirsi anche a Pessoa, a condizione di non confondere menzogna con immaginazione o esattezza con rigidità. La poesia di Reis è precisa e semplice come un disegno lineare; quella di Pessoa esatta e complessa come la musica. Complesso e vario, si muove in diverse direzioni: la prosa, la poesia in portoghese e la poesia in inglese (sono da trascurare, perché insignificanti, le poesie francesi). Gli scritti in prosa, non ancora pubblicati per intero, possono dividersi in tre grandi categorie: quelli firmati con il suo nome e quelli dei suoi pseudonimi, principalmente il Barone di Teive, aristocratico decaduto, e Bernardo Soares, "empregado de comercio". In * [Mi neghi tutto la sorte, meno il vederla / Che io, stoico senza durezza, / La sentenza incisa del Destino I Voglio godere lettera per lettera.]

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vari passi Pessoa precisa che non si tratta di eteronimi: "entrambi scrivono con uno stile che, buono o cattivo, è il mio [... ]". Non è indispensabile soffermarsi sulle poesie inglesi, il loro interesse è letterario e psicologico, ma non aggiungono molto, mi pare, alla poesia anglosassone. L'opera poetica in portoghese, dal 1902 al 1935, comprende Mensagem, la poesia lirica e i poemi drammatici. Questi ultimi, a mio giudizio, hanno un valore marginale. Anche se essi vengono esclusi, rimane un'estesa opera poetica. Prima differenza: gli eteronimi scrivono in una sola direzione e in una sola corrente temporale; Pessoa si biforca come un delta e ciascuno dei suoi bracci ci offre l'immagine, le immagini, di un momento. La poesia lirica si ramifica in Mensagem, il Cancioneiro (con le poesie inedite e disperse) e le poesie ermetiche. Come sempre, la classificazione non corrisponde alla realtà. Cancioneiro è un libro simbolista ed è impregnato di ermetismo, anche se il poeta non ricorre espressamente alle immagini della tradizione esoterica. Mensagem è, soprattutto, un libro di araldica - e l'araldica è una parte dell'alchimia. Infine, le poesie ermetiche sono, per forma e spirito, simboliste; non è necessario essere un "iniziato" per penetrare in esse e la loro comprensione poetica non esige conoscenze speciali. Quelle poesie, come il resto della sua opera, richiedono, piuttosto, una comprensione spirituale, la più alta e difficile. Sapere che Rimbaud si interessò alla cabbala e che identificò poesia e alchimia, è utile e ci avvicina alla sua opera; per penetrarla veramente, tuttavia, ci è necessario qualcosa di più e qualcosa di meno. Pessoa definiva quel qualcosa in questo modo: simpatia, intuizione, intelligenza, comprensione; e, ciò che è più difficile, grazia. Forse questa enumerazione può sembrare eccessiva. Non vedo come, senza queste cinque condizioni, possano leggersi veramente Baudelaire, Coleridge o Yeats. In ogni caso, le difficoltà della poesia di Pessoa sono minori di quelle della poesia di Holderlin, Nerval, Mallarmé ... In tutti i poeti della tradì35

zione moderna la poesia è un sistema di simboli e analogie parallelo a quello delle scienze ermetiche. Parallelo ma non identico: la poesia è una costellazione di segni che brillano di luce propria. Pessoa concepì Mensagem come un rituale; ossia: come un libro esoterico. Se si bada alla perfezione esteriore, questa è la sua opera più completa. Ma è un libro costruito; con la qual cosa non intendo dire che non sia sincero ma che nacque dalle speculazioni e non dalle intuizioni del poeta. A prima vista è un inno alle glorie del Portogallo e una profezia di un nuovo impero (il Quinto), che non sarà materiale, ma spirituale; i suoi domini si estenderanno oltre lo spazio e il tempo storici (a un lettore messicano viene in mente subito la "razza cosmica" di Vasconcelos). Il libro è una galleria di personaggi storici e leggendari, estraniati dalla loro realtà tradizionale e trasformati in allegorie di un'altra tradizione e di un'altra realtà. Forse senza piena coscienza di ciò che fa, Pessoa polverizza la storia del Portogallo e, al suo posto, ne propone un'altra, puramente spirituale, che è la sua negazione. Il carattere esoterico di Mensagem ci impedisce di leggerlo come un semplice poema patriottico, come desidererebbero alcuni critici ufficiali. È necessario aggiungere che il suo simbolismo non lo redime. Affinché i simboli siano effettivamente tali è necessario che cessino di simbolizzare, che diventino sensibili, creature vive e non emblemi da museo. Come in ogni opera in cui intervenga più lavolontà che l'ispirazione, sono poche le poesie di Mensagem che raggiungono quello stato di grazia che distingue la poesia dalle belle lettere. Ma quelle poche vivono nello stesso spazio magico delle migliori poesie del Cancioneiro, insieme ad alcuni dei sonetti ermetici. È impossibile definire in che cosa consista questo spazio; per me è quello della poesia propriamente detta, territorio reale, tangibile e illuminato da un'altra luce. Non importa che le poesie siano poche. Benn diceva: "Nessuno, neppure i più grandi poeti del nostro tempo, ha lasciato 36

più di otto o dieci poesie perfette [... ] Per sei poesie, trenta o cinquant'anni di ascetismo, di sofferenze, di lotte!". Il Cancioneiro: mondo di pochi esseri e molte ombre. Manca la donna, l'astro centrale. Senza la donna, l'universo sensibile svanisce, non c'è né terra ferma né acqua né incarnazione dell'impalpabile. Mancano i piaceri terribili. Manca la passione, quell'amore che è desiderio di un essere unico, qualunque esso sia. C'è un vago sentimento di fratellanza con la natura: alberi, nubi, pietre, tutto fuggevole, tutto sospeso in un vuoto temporale. Irrealtà delle cose, riflesso della nostra irrealtà. C'è negazione, stanchezza e sconforto. Nel Livro do Desassosségo, del quale si conoscono solo frammenti, Pessoa descrive il suo paesaggio morale: appartengo a una generazione che nacque priva di fede nel cristianesimo e priva di fede in ogni altra credenza; non fummo entusiasti dell'uguaglianza sociale, della bellezza e del progresso; non cercammo in Orienti ed Occidenti altre forme religiose (" ogni civiltà intrattiene un rapporto di filiazione con la religione che la rappresenta: perduta la nostra, le abbiamo perdute tutte"); alcuni di noi si dedicarono alla conquista del quotidiano; con altri, di razza migliore, ci astenemmo dalla cosa pubblica, nulla volendo e nulla desiderando; altri si consegnarono al culto della confusione e del rumore: credevano di vivere quando solo ascoltavano se stessi, credevano di amare quando incappavano nell'esteriorità dell'amore; e con altri, Razza della Fine, limite spirituale dell'Ora Morta, siamo vissuti di negazione, scontento e sconforto. Questo non è il ritratto di Pessoa, ma lo sfondo su cui prende rilievo la sua figura e con cui a volte si confonde. Limite spirituale dell'Ora Morta: il poeta è un uomo vuoto che, nel suo abbandono, crea un mondo per scoprire la sua vera identità. Tutta l'opera di Pessoa è ricerca dell'identità perduta. In una delle sue poesie più citate dice che il poeta è un fingitore che finge in modo tanto assoluto da arrivare a fingere che sia dolore il dolore che veramente prova. Dicendo la

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verità, mente; mentendo, dice la verità. Non siamo di fronte a un'estetica ma a un atto di fede. La poesia è rivelazione della sua irrealtà: Entre o luar e a folhagem, Entre o sossego e o arvoredo, Entre o ser noite e haver aragem Passa um segredo. Segue-o minha alma na passagem.

*

Quel passante è Pessoa o è un altro? La domanda si ripete nel corso degli anni e delle poesie. Non sa neppure se ciò che scrive è suo. Meglio: sa che, anche se lo fosse, non lo è: "perché, ingannato, credo sia mio ciò che è mio?". La ricerca dell'io - perduto e trovato e tornato a perdere - termina nella ripugnanza: "Nausea, volontà del nulla: esistere per non morire''. Solo da questa prospettiva si può comprendere il significato esatto degli eteronimi. Sono un'invenzione letteraria e una necessità psicologica, ma sono anche qualcosa di più. In un certo senso sono ciò che avrebbe potuto o voluto essere Pessoa; in un altro, più profondo, ciò che non volle essere: una personalità. Nel primo movimento, fanno tabula rasa dell'idealismo e delle convinzioni intellettuali del loro autore; nel secondo, mostrano che la sagesse innocente, la pubblica piazza e l'eremo filosofico sono illusioni. L'istante è inabitabile come il futuro; e lo stoicismo è un rimedio che uccide. E, tuttavia, la distruzione dell'io, poiché questo sono gli eteronimi, provoca una fertilità segreta. Il vero deserto è l'io e non solo perché ci rinchiude in noi stessi e ci condanna così a vivere con un fantasma, ma perché ammorba tutto ciò che tocca. L'esperienza di Pessoa, forse senza che egli stesso se lo proponesse, si inserisce nella tradizione dei grandi poeti dell'epoca moderna, a partire da Nerval e dai romantici te• [Tra il chiar di luna e il fogliame, / Tra la quiete e gli alberi, / Tra l'essere notte e l'esserci la brezza / Passa un segreto. / Lo segue la mia anima nel passaggio).

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deschi. L'io è un ostacolo, è /'ostacolo. Perciò è insufficiente qualsiasi giudizio meramente estetico sulla sua opera. Se è vero che non tutto ciò che scrisse è dello stesso valore, tutto, o quasi tutto, è segnato dall'impronta della sua ricerca. La sua opera è un passo verso l'ignoto. Una passione. Il mondo di Pessoa non è né questo mondo né l'altro. La parola assenza potrebbe definirlo, se per assenza si intende uno stato fluido, in cui la presenza svanisce e l'assenza è annuncio di, che cosa? - momento in cui ciò che è presente non è più e appena si scorge ciò che, forse, sarà. Il deserto urbano si copre di segni: le pietre dicono qualcosa, il vento dice, la finestra illuminata e l'albero solitario dell'angolo dicono, tutto sta dicendo qualcosa, non questo che dico ma un'altra cosa, sempre un'altra cosa, la stessa cosa che non si dice mai. L'assenza non è soltanto privazione ma presentimento di una presenza che mai si mostra interamente. Poesie ermetiche e canzoni sono affini: nell'assenza, nell'irrealtà che siamo, qualcosa è presente. Attonito, fra persone ecose, il poeta cammina per una strada del quartiere vecchio. Entra in un parco e le foglie si muovono. Stanno per dire ... No, non hanno detto nulla. Irrealtà del mondo, nell'ultima voce della sera. Ogni cosa è immobile, in attesa. Il poeta sa ormai che non possiede identità. Come quelle case, quasi dorate, quasi reali, come quegli alberi soSi?esi nell'ora, anch'egli salpa da se stesso. E non appare l'altro, il doppio, il vero Pessoa. Non apparirà mai: non c'è altro. Appare, si insinua, ciò che è altro, ciò che non ha nome, ciò che non si dice e che le nostre povere parole invocano. È la poesia? No: poesia è ciò che rimane e ci consola, la coscienza dell'assenza. E ancora, quasi impercettibile, un rumore di qualcosa: Pessoa o l'imminenza dell'ignoto. Parigi, I 961.

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NOTE

I) Qui, come altrove, quando si è potuto, per le citazioni dai testi di Pessoa, si è ricorsi all'opera: F.Pessoa, Una sola moltitudine, Adelphi, Milano, 2 voli., 1979-1984, a cura di Antonio Tabucchi. (N.d.T.) 2) Nacque a Lisbona, nel 1889; mori nella stessa città nel 1915. Passò quasi tutta la sua vita in un villaggio del Ribatejo. Opere: O Guardador de Rebanhos (1911-1912); O Pastor Amoroso; Poemas Jnconjuntos (1913-1915). 3) Nasce a Tavira, il 15 ottobre 1890. La data coincide con il suo oroscopo, dice Pessoa. Studi liceali; poi, a Glasgow, di ingegneria navale. Ascendenze ebraiche. Viaggi in Oriente. Paradisi artificiali e altri. Partigiano di un'estetica antiaristotelica, che vede realizzata in tre poeti: Whitman, Caeiro e se stesso. Usava il monocolo. Irascibile impassibile. 4) In spagnolo non ci fu niente di simile fino alla generazione di Garda Lorca e Neruda. C'era, sì, la prosa del grande Ram6n G6mez de la Serna. In Messico si ebbe un timido inizio, ma solo un inizio: Tablada. La poesia moderna in lingua spagnola nasce davvero nel 1918. Ma il suo iniziatore, Vicente Huidobro, è un poeta di tono molto diverso. 5) Mi pare quasi impossibile che Pessoa non abbia conosciuto il libro di Larbaud. L'edizione definitiva del Barnabooth è del 1913, anno di intensa corrispondenza con Sa-Carneiro. Dettaglio curioso: Larbaud visitò Lisbona nel 1926; G6mez de la Serna, che viveva allora nella capitale, lo presentò ai giovani scrittori, che gli offrirono un banchetto. Nella cronaca che celebra l'episodio (Lettre de Lisbonne, in Jaune, Bleu, Blanc) Larbaud parla con grandi elogi di Almada Negreiros ma non cita Pessoa. Si conobbero? 6) Nacque a Oporto, nel 1887. Il più mediterraneo degli eteronimi: Caeiro era biondo e con gli occhi azzurri; Campos "fra il bianco e il bruno", alto, magro con un'aria internazionale; Reis "bruno scuro", più vicino allo spagnolo e al portoghese meridionali. Le Odes non sono la sua unica opera. Si sa che scrisse un Contrasto estetico fra Ricordo Reis e Alvaro de Campos. Le sue note critiche su Caeiro e Campos sono un modello di precisione verbale e di incomprensione estetica.

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LA PAROLA EDIFICANTE (Luis Cernuda)

Nel 1961 il Mercure de France dedicò un numero d' omaggio a Pierre Reverdy, morto da poco. Luis Cernuda scrisse alcune pagine, preziose non tanto per ciò che dicono su Reverdy quanto per ciò che, indirettamente, rivelano dello stesso Cernuda: la sua identificazione di coscienza poetica e purezza etica, il suo gusto per la parola essenziale che contrapponeva, non sempre a ragione, a ciò che egli definiva come la suntuosità delle tradizioni spagnola e francese. Non ricordo, però, ora, quell'articolo per sottolineare le affinità del poeta francese con lo spagnolo - anche se l'influenza del primo sul secondo meriterebbe un'attenta riflessione - ma perché ciò che tre anni fa Cernuda scrisse a proposito della morte dei poeti sembra oggi pensato e detto per la sua stessa morte: "Quale paese sopporta con piacere i propri poeti? I propri poeti vivi, voglio dire, poiché, quanto ai morti, è noto come non esista paese che non adori i suoi". La Spagna non fa eccezione. Niente di più naturale che le riviste letterarie della penisola pubblichino omaggi al poeta: "Cernuda è morto, viva, allora, Cernuda"; niente di più naturale, anche, che poeti e critici, ad una voce, coprano con una stessa grigia cappa d'elogi l'opera di uno spirito che con ammirabile e inflessibile ostinazione non cessò mai di affermare la sua dissidenza. Sepolto il poeta, possiamo discorrere senza rischio della sua opera e farle dire ciò che a noi sembra che avrebbe 43

dovuto dire: là dove egli scrisse separazione, leggeremo unione; Dio, dove disse demonio; patria, e non terra inospitale; anima, e non corpo. E se l" 'interpretazione" risulta impossibile, cancelleremo le parole proibite - rabbia, piacere, nausea, fanciullo, incubo, solitudine ... Non voglio dire che tutti i suoi panegiristi cerchino di volgere in bianco ciò che fu nero né che lo facciano interamente in malafede. Non si tratta di una deliberata menzogna ma di una pietosa sostituzione. Forse senza rendersene conto, mossi da un sincero desiderio di giustificare la loro ammirazione per un'opera che la loro coscienza rifiuta, trasformano una verità particolare ed unica - a volte insopportabile e repellente, come tutto ciò che è veramente affascinante - in una verità generica e inoffensiva, accettabile da tutti. Gran parte di ciò che si è scritto su Cernuda in questi ultimi mesi avrebbe potuto esser scritto su qualsiasi altro poeta. Non è mancato chi ha potuto affermare che la morte lo hà restituito alla patria ("tolto il dente, tolto il pensiero"). Un critico, che afferma di conoscere bene la sua opera e di ammirarla, non ha paura di scrivere che: "il poeta aveva un difetto tragico: l'incapacità di riconoscere un amore diverso da quello romantico; pertanto l'amore coniugale, il paterno, il filiale, tutti erano per Cernuda come porte chiuse". Un altro si augura che il poeta "abbia trovato un mondo dove realtà e desideri siano in armonia". Si è domandato, questo scrittore, come dovrebbe essere quel paradiso e quali i suoi angeli e gli dèi? L'opera di Cernuda è un'esplorazione interiore; un'orgogliosa affermazione, in fin dei conti non sprovvista di umiltà, della sua irriducibile differenza. Lo affermò egli stesso: "Io ho soltanto tentato, come ogni uomo, di trovare la mia verità, la mia, che non sarà né migliore né peggiore di quella altrui, ma soltanto differente". Rendere omaggio alla sua memoria non può voler dire innalzargli monumenti che, come tutti i monumenti, nascondono il morto, ma affondare in quella verità differente e confrontarla con la nostra. Solo così, 44

la sua verità, proprio perché diversa e inconciliabile, può avvicinarci alla nostra verità, né migliore e né peggiore della sua, soltanto nostra. L'opera di Cernuda è un itinerario verso noi stessi. In ciò si fonda il suo valore morale. Poiché, oltre ad essere un grande poeta - o meglio: essendo un grande poeta-, Cernuda è uno dei pochissimi moralisti che la Spagna abbia prodotto, moralista nel senso in cui Nietzsche è il gran moralista dell'Europa moderna e, come egli diceva, "il suo primo psicologo". La poesia di Cernuda è una critica dei nostri valori e delle nostre credenze; in essa distruzione e creazione sono inseparabili, poiché ciò che essa afferma implica la dissoluzione di ciò che la società considera giusto, sacro e immutabile. Come quella di Pessoa, la sua opera è sovversione e la sua fecondità spirituale risiede, precisamente, nel costante mettere alla prova i sistemi della morale collettiva, tanto quelli fondati sull'autorità della tradizione come quelli che ci propongono i riformatori sociali. La sua ostilità al cristianesimo non è inferi ore alla sua ripugnanza per le utopie politiche. Non dico che sia necessario concordare con lui; dico che, se si ama realmente la sua poesia, bisogna ascoltare ciò che realmente essa ci dice. Non ci chiede una pietosa riconciliazione; attende da noi ciò che è ben più difficile: il riconoscimento.

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I

Non mi propongo, nelle note che seguono, di esaminare l'opera di Cernuda nella sua totalità. Scrivo senza avere a portata di mano i suoi libri più importanti e, al di fuori di ciò che ha lasciato nella mia memoria una frequentazione pluriennale dei suoi scritti, non possiedo che alcune poesie raccolte in un'antologia, la terza edizione di Ocnos e Desolaci6n de la Quimera. Una volta scrissi che il suo creare era simile alla crescita di un albero, in opposizione alle costruzioni verbali di altri poeti. L'immagine è giusta solo a metà: gli alberi crescono spontaneamente e fatalmente, ma mancano di coscienza. Poeta è chi ha coscienza della propria fatalità. Voglio dire: poeta è chi scrive perché non ha altra scelta - e lo sa. Chi è complice della propria fatalità - e il suo giudice. In Cernuda, spontaneità e riflessione sono inseparabili; ogni tappa della sua opera è un nuovo tentativo di espressione e una meditazione su ciò che esprime. Non cessa di avanzare verso l'interno di se stesso e non cessa di domandarsi se avanzi realmente. Così, La realidad y el deseo può leggersi come biografia spirituale, successione di momenti vissuti e riflessione su quelle esperienze vitali. Di qui, il suo carattere morale. Può essere poetica una biografia? Solo a condizione che gli aneddoti si trasformino in poesie, cioè solo se i fatti e le date cessano di essere cronaca e diventano esemplari. Esemplari non nel senso didattico della parola, ma in quello di "azione eccellente", come quando si dice: esemplare unico. Ossia: mito, argomento ideale e affabulazione reale. I poeti si servono delle leggende per raccontarci la realtà; con gli avvenimenti reali creano favole, esempi. Il pericolo di una biografia poetica è duplice: la confessione non richiesta e il con-

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siglio gratuito. Cernuda non sempre evita questi estremi e non è raro che incorra nella confidenza e nel moraleggiare. Non importa: il meglio della sua opera vive nello spazio, reale e immaginario, del mito. Uno spazio ambiguo come la figura che in esso trova fondamento. Affabulazione reale e storia ideale, La realidad y e/ deseo è il mito del poeta moderno. Un essere diverso dal poeta maledetto, anche se suo discendente. Si sono chiuse le porte dell'inferno e al poeta non rimane neppure più il ricorso ad Aden o ali' Etiopia; errante per i cinque continenti, vive sempre nella stessa stanza, parla con le stesse persone e il suo esilio è quello di ognuno. Questo, Cernuda non lo seppe - era troppo ripiegato su se stesso, troppo astratto nella propria singolarità -, ma la sua opera è una delle testimonianze più impressionanti di questa situazione, veramente unica, dell'uomo moderno: siamo condannati a una solitudine promiscua e la nostra prigione è grande quanto il pianeta. Non c'è uscita né entrata. Andiamo dal medesimo al medesimo. Siviglia, Madrid, Tolosa, Glasgow, Londra, New York, Città del Messico, San Francisco: Cernuda fu veramente in quelle città? Ma dove si trovano davvero quei luoghi? Tutte le età dell'uomo appaiono in La realidad y e/ deseo. Tutte, tranne l'infanzia, che viene soltanto evocata come un mondo perduto e di cui si sia dimenticato il segreto. (Quale poeta ci darà, non la visione o la nostalgia della fanciullezza, ma la fanciullezza medesima, chi avrà l'ardire e il genio di parlare come i bambini?). Il libro di poesie di Cernuda potrebbe dividersi in quattro parti: l'adolescenza, gli anni di apprendistato, in cui ci sorprende per la sua squisita maestria; la gioventù, il gran momento in cui scopre la passione e scopre se stesso, periodo a cui dobbiamo le sue imprecazioni più belle e le sue migliori poesie d'amore - amore dell'amore; la maturità, che inizia come contemplazione dei poteri mondani e finisce in una meditazione sulle opere degli uomini; e il finale, ormai al limite della vecchiaia, lo sguardo più pre47

ciso e riflessivo, la voce più reale e amara. Momenti diversi di una stessa parola. In ciascuno si trovano poesie ammirevoli, ma io preferisco la poesia della gioventù (Los placeres prohibidos, Un rio un amor, Donde habite e/ olvido, Invocaciones), non perché in quei libri il poeta sia interamente padrone di sé ma proprio perché ancora non lo è: istante in cui la profezia non è ancora certezza, né la certezza formula. Le sue prime poesie mi sembrano un esercizio la cui perfezione non esclude l'affettazione, certo manierismo da cui mai si liberò del tutto. I libri della maturità arrivano a un classicismo di gesso, e cioè a un neoclassicismo: ci sono troppi dèi e troppi giardini: c'è una tendenza a confondere l'eloquenza con la dizione e non manca di meravigliare che Cernuda, critico costante di quella nostra tendenza al "tono alto", non l'abbia avvertita in se stesso. Infine, nelle ultime poesie, la riflessione, la spiegazione e perfino l'improperio occupano troppo spazio e scacciano il canto; il linguaggio non ha la fluidità del parlato ma l'asprezza del discorso scritto. E tuttavia, in ogni periodo, ci sono poesie che mi hanno illuminato e guidato, poesie a cui torno sempre e che sempre mi rivelano qualcosa di essenziale. Il segreto di questa fascinazione è duplice. Siamo di fronte a un uomo che in ogni parola che scrive si consegna per intero e la cui voce è inseparabile dalla sua vita e dalla sua morte; allo stesso tempo, quella parola non ci si consegna mai direttamente: fra essa e noi, sta Io sguardo del poeta, la riflessione che crea la distanza e permette così la vera comunicazione. La coscienza dà profondità, risonanza spirituale a ciò che dice; il pensiero spiega uno spazio mentale che dà gravità alla parola. La coscienza dà unità a quest'opera tanto vasta e varia. Poeta fatale, è condannato a dire e a pensare ciò che dice. Perciò, almeno per me, le sue poesie migliori sono quelle degli anni in cui dizione spontanea e pensiero si fondono; o quelle dei momenti della maturità, in cui la passione, la collera o l'amore gli restituiscono l'antico entusiasmo, ora in un linguaggio più du48

ro e lucido. Biografia di un poeta moderno spagnolo, La realidad y e/ deseo è anche biografia di una coscienza poetica europea. Perché Cernuda è un poeta europeo, nel senso in cui non sono europei Lorca o Machado, Neruda o Borges. (L'europeismo di quest'ultimo è molto americano: è una delle maniere che noi ispanoamericani abbiamo di essere noi stessi, o, piuttosto, di inventarci. Il nostro europeismo non è sradicamento né ritorno al passato: è un tentativo di creare uno spazio temporale di contro a uno spazio senza tempo per, così, poterci incarnare). Naturalmente, gli spagnoli sono europei, ma il genio della Spagna è polemico: combatte con se stesso e ogni volta che si lancia contro una parte di sé, si lancia contro una parte d'Europa. Forse l'unico poeta spagnolo che si senta europeo con naturalezza è Jorge Guillén; perciò, sempre con naturalezza, si sente ben radicato in Spagna. Al contrario, Cernuda scelse di essere europeo con la stessa furia con cui altri suoi contemporanei decisero di essere andalusi, madrilegni o catalani. Il suo europeismo è polemico ed è intessuto di antiispanismo. Il ripudio della terra natale non è esclusiva degli spagnoli; è una costante della poesia moderna d'Europa e d'America. (Penso a Pound e a Michaux, a Joyce e a Breton, a Cummings ... L'elenco sarebbe interminabile). Così, Cernuda è antispagnolo per due motivi: per ispanismo polemico e per modernità. Per quanto si riferisce al primo, appartiene alla famiglia degli eterodossi spagnoli; quanto alla seconda, la sua opera è una lenta riconquista dell'eredità europea, una ricerca di quella corrente centrale da cui la Spagna si è appartata da molto tempo. Non si tratta di influenze - anche se, come ogni poeta, ne ha avute diverse, quasi tutte benefiche - ma di un'esplorazione di se stesso, non già in senso psicologico, ma storico. Cernuda scopre lo spirito moderno attraverso il surrealismo. Lo stesso Cernuda si è riferito in diverse occasioni alla seduzione esercitata sulla sua sensibilità dalla poesia di Re49

verdy, maestro dei surrealisti e anche suo. Ammira in Reverdy l'"ascetismo poetico" - equivalente, dice, a quello di Braque - che gli fa costruire una poesia con il minimo di materia verbale; ma, più dell'economia di mezzi, ammira la sua reticenza. Questa parola è una delle chiavi dello stile di Cemuda. Rare volte un pensiero più arrischiato e una passione più violenta si sono serviti di espressioni più pudiche. Non fu Reverdy l'unico francese a conquistarlo. In una lettera del 1929, scritta da Madrid, chiede ad un amico di Siviglia di restituirgli diversi libri (Les pas perdu di André Breton, Le libertinage e Le paysan de Paris di Louis Aragon) e aggiunge: "Azorin, Valle-Inclan, Baroja: che me ne importa di tutta questa stupida, disumana, putrida letteratura spagnola?". Non si scandalizzino i puristi. In quegli stessi anni Breton e Aragon trovavano che la letteratura francese era ugualmente disumana e stupida. Abbiamo perduto quella bella disinvoltura; come è difficile, ora, essere insolente, ingiustamente giusto, come nel 1920. Quanto deve Cemuda ai surrealisti? Il ponte fra l'avanguardia francese e la poesia nella nostra lingua fu, come è noto, Vicente Huidobro. Dopo il poeta cileno i contatti si moltiplicarono e Cernuda non fu né il primo né l'unico che abbia subito la fascinazione surrealista. Non sarebbe difficile trovare nella sua poesia e anche nella sua prosa le impronte di certi surrealisti come Eluard, Crevel e, anche se si tratta di uno scrittore che si trova ai suoi antipodi, del folgorante Louis Aragon (prima maniera). Ma a differenza di Neruda, Lorca o Villarutia, per Cernuda il surrealismo fu qualcosa di più di una lezione di stile, di una poetica o di una palestra di associazioni e immagini verbali: fu un tentativo di incarnazione della poesia nella vita, una sovversione che comprendeva tanto il linguaggio quanto le istituzioni. Un'etica e una passione. Cemuda fu il primo, e quasi l'unico, che comprese e fece suo il vero significato del surrealismo come movimento di li50

berazione - non del verso ma della coscienza: l'ultima grande scossa spirituale dell'Occidente. Alla commozione psichica del surrealismo bisogna aggiungere la rivelazione di André Gide. Grazie al moralista francese, accetta se stesso; da allora la sua omosessualità non sarà più né malattia né peccato, ma destino liberamente accettato e vissuto. Se Gide lo riconcilia con se stesso, il surrealismo gli servirà per inserire la sua ribellione psichica e vitale in una sovversione più vasta e totale. I "piaceri proibiti" gettano un ponte fra questo mondo di "codici e percentuali" e il mondo sotterraneo del sogno e dell'ispirazione: sono la vita terrena in tutto il suo taciturno splendore ("membra di marmo", "fiori di ferro", "pianeti terrestri") e sono anche la vita spirituale più alta ("solitudini altere", "libertà memorabili"). Il frutto che ci offrono queste dure libertà è quello del mistero, il cui ''sapore nessuna amarezza corrompe". La poesia diventa attiva; il sogno e la parola abbattono le "statue anonime": nella grande "ora della vendetta, il suo fulgore può distruggere il vostro mondo". Più tardi Cernuda abbandonò le maniere e i tic surrealisti, ma la sua visione essenziale, anche se diversa era la sua estetica, continuò ad essere quella della gioventù. Il surrealismo è una tradizione. Con quell'istinto critico che distingue i grandi poeti, Cernuda risale la corrente: Mallarmé, Baudelaire, Nerval. Anche se fu sempre fedele a questi tre poeti, Cernuda non si fermò ad essi. Andò alla fonte, all'origine della poesia moderna dell'Occidente: il romanticismo tedesco. Uno dei temi di Cernuda è quello del poeta di fronte al mondo ostile o indifferente degli uomini. Presente fin dalle sue prime poesie, a partire da Invocaciones, si dispiega con intensità ogni volta più tenebrosa. La figura di Holderlin e quelle delle sue creature sono il suo modello; presto quelle immagini si trasformano in un'altra, affascinante e terribile: quella del demonio. Non un demonio cristiano, repellente e spaventoso, bensì un demonio pagano, quasi un ragazzo. È il suo doppio. Questa presenza sarà co51

stante nella sua opera, anche se essa cambierà con gli anni e la sua parola diventerà sempre più amara e senza speranza. Nell'immagine del doppio, riflesso sempre intoccabile, Cernuda cerca se stesso ma cerca anche il mondo: vuole sapere che esiste e che gli altri esistono. Gli altri: una razza d'uomini diversa dagli uomini. A fianco del diavolo, la compagnia dei poeti morti. La lettura di Holderlin e quella di Jean Paul e di Novalis, quella di Blake e di Coleridge sono qualcosa di più di una scoperta: un riconoscimento. Cernuda torna ai suoi. Quei grandi nomi sono per lui persone vive, invisibili ma sicuri intercessori. Parla con loro come se parlasse con se stesso. Sono la sua vera famiglia e le sue divinità segrete. La sua opera è scritta pensando a loro; sono qualcosa di più di un modello, un esempio o una ispirazione: uno sguardo che lo giudica. Deve essere degno di loro. E l'unico modo per esserlo è affermare la propria verità, essere se stesso. Compare di nuovo il tema etico. Però non sarà Gide, con la sua morale psicologica, ma Goethe a guidarlo in questa nuova tappa. Non cerca una giustificazione ma un equilibrio; ciò che il giovane Nietzsche chiamava "salute", il segreto perduto del paganesimo greco: il pessimismo eroico, creatore della tragedia e della commedia. Spesso parlò della Grecia, dei suoi poeti e dei suoi filosofi, dei suoi miti e, soprattutto, della sua visione della bellezza: qualcosa che non è né fisico né corporeo e che forse è solo un accordo, una misura. In Ocnos parlando della "conoscenza bella" - perché conosce la bellezza o perché ogni conoscere è bellezza? - dice che la bellezza è misura. E così, con un percorso che va dalla ribellione surrealista al romanticismo tedesco e inglese e da essi ai grandi miti dell'Occidente, Luis Cernuda recupera la sua doppia identità di poeta e spagnolo: la tradizione europea, il sapere e il sapore del mezzogiorno mediterraneo. Ciò che iniziò come passione polemica ed eccesso terminò come riconoscimento della misura. Una misura, certo, in cui non rientrano altre cose che pure sono 52

Occidente. Fra di esse, due delle più importanti: il cristianesimo e la donna. L"'alterità" nelle sue manifestazioni più totali: l'altro mondo e l'altra metà di questo mondo. E tuttavia, Cernuda fa di necessità virtù e crea un universo in cui non mancano due elementi essenziali, uno del cristianesimo e l'altro della donna: l'introspezione e il mistero amoroso. Non ho parlato di un'altra influenza che fu capitale, tanto nella sua poesia quanto nella sua critica, specialmente da Las nubes (1940): la poesia moderna in lingua inglese. In gioventù amò Keats e più tardi si sentì attratto da Blake, ma questi nomi, specialmente il secondo, appartengono a ciò che potrebbe chiamarsi la sua metà demoniaca o sovversiva: alimentarono la sua ribellione morale. Il suo interesse per Wordsworth, Browning, Yeats ed Eliot è di altra indole: non cerca in loro tanto una metafisica, quanto una coscienza estetica. Il mistero della creazione letteraria e il tema del significato ultimo della poesia - il suo rapporto con la verità, con la storia e con la società - lo preoccupano sempre. Nelle riflessioni dei poeti inglesi trovò, formulata in maniera diversa o simile alla sua, risposte a queste domande. Una prova di tale interesse è il libro che dedicò al pensiero poetico dei lirici inglesi. Non credo di sbagliarmi se affermo che T.S. Eliot fu lo scrittore vivente che esercitò l'influenza più profonda sul Cernuda della maturità. Ripeto: influenza estetica, non morale né metafisica: la lettura di Eliot non ebbe le conseguenze liberatrici che caratterizzarono la sua scoperta di Gide. Il poeta inglese gli fa vedere con nuovi occhi la tradizione poetica e molti dei suoi studi su poeti spagnoli sono scritti con quella precisione e oggettività, non esente da capriccio, che sono uno degli incanti e dei pericoli dello stile critico di Eliot. L'esempio di questo poeta non è visibile solo nelle sue opinioni critiche ma anche nella sua creazione. L'incontro con Eliot coincide con un cambiamento della sua estetica; consumata l'esperienza del surrealismo, non lo preoccupa più cercare nuove forme, ma solo esprimersi. 53

Non una norma ma una misura, qualcosa che non potevano dargli né i moderni francesi né i romantici tedeschi. Eliot aveva provato una necessità simile e dopo The Waste Land la sua poesia verte su moduli sempre più tradizionali. Non saprei dire se questo atteggiamento di ritorno, in Cernuda ed Eliot, fu a beneficio o a danno della loro poesia; da una parte li impoverì, poiché sorpresa ed invenzione, ali della poesia, spariscono parzialmente dalla loro opera della maturità; dall'altra, forse, senza quel cambiamento sarebbero diventati muti o si sarebbero perduti in una sterile ricerca, come accadde anche a grandi creatori come Pound o Cummings. Giacché è noto come non esista niente di più monotono dell'innovatore di professione. Insomma, la poesia e la critica di Eliot gli servirono per moderare il romantico che sempre fu. Cernuda predilesse, fin da quando iniziò a scrivere, il componimento lungo. Per il gusto moderno, la poesia è, anzitutto concentrazione verbale e perciò il componimento lungo si scontra con una difficoltà quasi insormontabile: unire estensione e concentrazione, sviluppo e intensità, unità e varietà, senza fare dell'opera una collezione di frammenti e senza neppure incorrere nel volgare espediente dell'amplificazione. Un coup de dès, concentrazione verbale massima in poco più di duecento righe, alcune di una sola parola, è la dimostrazione, per me più alta, di ciò che voglio dire. Non è il componimento breve ma quello lungo che esige l'uso delle forbici; il poeta deve esercitare senza rimorsi il suo dono della selezione se vuole scrivere qualcosa che non sia prolisso, dispersivo o vago. La reticenza, l'arte di dire ciò che si tace, è il segreto del componimento breve; in quello lungo i silenzi non operano come suggestione, non dicono, ma sono come le divisioni e le suddivisioni dello spazio musicale. Più che una scrittura sono un'architettura. Già Mallarmé aveva comparato Un coup de dès a una partitura ed Eliot ha chiamato una delle sue grandi composizioni: Four Quartets. A Cemuda quel poema sembrava il meglio che avesse scritto Eliot e 54

molte volte discutemmo le ragioni di questa sua preferenza, poiché io preferivo The Waste Land - che, d'altra parte, deve vedersi anch'esso come una costruzione musicale. Anche se il nostro poeta non apprese l'arte del componimento lungo da Eliot - ne aveva scritto prima e alcuni di essi sono tra le cose migliori che fece - le idee dello scrittore inglese chiarirono le sue e modificarono parzialmente le sue concezioni. Ma una cosa sono le idee e altra il temperamento di ciascuno. Sarebbe inutile cercare nella sua opera i principi di armonia, contrappunto, o polifonia che ispirano Eliot e Saint-John Perse; e niente di più lontano dal "simultaneismo" di Pound o di Apollinaire dello sviluppo lineare, simile a quello della musica vocale, della poesia di Cernuda. La melodia è lirica e Cernuda è soltanto, ed è abbastanza, un poeta lirico. Così, la forma più affine alla sua natura fu il monologo. Ne scrisse sempre, e si potrebbe perfino dire che la sua opera è un lungo monologo. La poesia inglese gli insegnò come la monodia può tornare su se stessa, sdoppiarsi e interrogarsi: gli insegnò che il monologo è sempre un dialogo. In alcuni dei suoi studi allude alla lezione di Robert Browning; io aggiungerei quella di Pound, che fu il primo a servirsi del monologo di Browning. (Si confronti, ad esempio, l'uso dell'interrogazione in Near Perigord e nei componimenti lunghi dell'ultimo Cernuda). E qui mi pare di dover dire qualcosa su un tema che lo occupò e su cui scrisse pagine di grande penetrazione: la relazione fra linguaggio parlato e poesia. Cernuda segnala che il primo a proclamare il diritto del poeta ad impiegare "the language really used by men" fu Wordsworth. Anche se non è del tutto esatto che questo antecedente costituisca l'origine del cosiddetto "prosaismo" della poesia contemporanea, è bene distinguere fra questa idea di Wordsworth e quella di Herder, che vedeva nella poesia il "canto del popolo". Il linguaggio popolare, se esiste poi realmente e non è un'invenzione del romanticismo tedesco, è una sopravvivenza dell'epoca feudale. Il suo culto è una 55

nostalgia. Jiménez e Antonio Machado confusero sempre il "linguaggio popolare" con la lingua parlata e da qui che abbiano identificato quest'ultima con il canto tradizionale. Jiménez pensava che l'"arte popolare" non fosse altro che l'imitazione tradizionale dell'arte aristocratica; Machado credeva che la vera aristocrazia risiedesse nel popolo e che il folclore fosse l'arte più raffinata. Per quanto differenti ci possano sembrare questi punti di vista, entrambi rivelano una visione nostalgica del passato. Il linguaggio del nostro tempo è un altro: è il linguaggio parlato nelle grandi città e tutta la poesia moderna, da Baudelaire, ha fatto di questo linguaggio il punto di partenza di una nuova lirica. Reazione contro l'estetica dello squisito e dello strano che avevano reso di moda i poeti ispanoamericani, la semplicità della cosiddetta poesia popolare spagnola non è meno artificiale delle complicazioni moderniste. Influenzati da Jiménez, i poeti della generazione di Cernuda fecero del romance e della canzone i loro generi prediletti. Cernuda non cadde mai nell'affettazione del popolare (affettazione a cui dobbiamo, in ogni modo, alcune delle poesie più affascinanti della nostra lirica moderna) e cercò di scrivere come si parla; o meglio: si propose come materia prima della trasmutazione poetica non il linguaggio dei libri ma quello della conversazione. Non riuscì sempre. Frequentemente il suo verso è prosaico, nel senso che la prosa scritta è prosaica, non la lingua viva: qualcosa di più pensato e costruito che detto. Per le parole che impiega, quasi tutte colte, e per la sintassi artificiosa, più che "scrivere come si parla", a volte Cernuda "parla come un libro stampato". Il miracoloso è che questa scrittura si condensi ali 'improvviso in espressioni scintillanti. Cernuda vide in Campoamor un precedente del prosaismo poetico; se lo fosse davvero, sarebbe uno sgradevole precedente. Non bisogna confondere la chiacchiera filosofica con la poesia. La verità è che l'unico poeta spagnolo moderno che ha usato con naturalezza il linguaggio parlato è il dimen56

ticato José Moreno Villa. (L'unico e il primo: Jacinta la pelirroja si pubblicò nel 1929). In realtà, i primi a sfruttare le possibilità poetiche del linguaggio in prosa furono, per quanto possa sembrare strano, i modernisti ispanoamericani: Dario e, soprattutto, Leopoldo Lugones. Nella poesia di Campoamor la retorica di fine secolo degrada in espressioni che sono luoghi comuni pseudofilosofici e così viene a costituire un esempio di ciò che Breton chiama ''immagine discendente''. I modernisti mettono a confronto il linguaggio colloquiale e quello artistico per produrre un contrasto all'interno della poesia, come si può vedere in Augurios di Rubén Dario, o fanno della parlata metropolitana la materia prima della poesia. Quest'ultimo procedimento è quello del Lugones di Lunario sentimental. Verso il 1915, il messicano L6pez Velarde mise a frutto la lezione del poeta argentino e realizzò la fusione fra linguaggio letterario e linguaggio parlato. Sarebbe noioso menzionare tutti i poeti ispanoamericani che, dopo L6pez Velarde, fanno del prosaismo un linguaggio poetico; sarà sufficiente fare sei nomi: Borges, Vallejo, Pellicer, Novo, Lezama Lima, Sabines ... La cosa più strana è che tutto questo non deriva dalla poesia inglese, ma dal maestro di Eliot e Pound: il simbolista Jules Laforgue. L'autore di Comp/aintes e non Wordsworth, sta all'origine di questa tendenza, tanto per gli inglesi che per gli ispanoamericani. Con frequenza si ripete che Cernuda e, in generale, i poeti della sua generazione, "chiudono" un periodo della poesia spagnola. Confesso di non capire ciò che con questo si vuol dire. Perché qualcosa si chiuda - se non si tratta di un'estinzione definitiva - è necessario che qualcosa o qualcuno apra una nuova tappa. I poeti spagnoli attuali, al di là di ogni antipatico confronto, non mi sembrano aver iniziato un nuovo movimento; direi perfino che, almeno in materia di linguaggio e visione - ed è ciò che conta in poesia - si mostrino singolarmente timidi. Non è un rimprovero: la seconda generazione romantica non fu meno importante della prima e 57

diede un nome centrale: Baudelaire. La novità non è l'unico criterio poetico. In Spagna c'è stato un cambiamento ditono, non una rottura. Questo cambiamento è naturale, ma non bisogna confonderlo con una nuova era. Cernuda non chiude né apre un'epoca. La sua poesia, inconfondibile e diversa, forma parte di una tendenza universale che in lingua spagnola inizia, con un certo ritardo, alla fine del secolo scorso e che non è ancora terminata. All'interno di quel periodo storico, la sua generazione, in lspanoamerica e in Spagna, occupa un posto centrale. E uno dei poeti centrali di quella generazione è lui, Luis Cernuda. Non fu il creatore di un linguaggio comune né di uno stile, come lo furono al loro tempo Rubén Dario e Juan Ramon Jiménez o, più recentemente, Vicente Huidobro, Pablo Neruda e Federico Garda Lorca. E forse proprio in ciò risiede il suo valore e ciò che gli darà importanza per il futuro: Cernuda è un poeta solitario e per solitari. In una tradizione che ha usato e abusato delle parole, ma che raramente ha riflettuto su di esse, Cernuda rappresenta la coscienza del linguaggio. Un caso simile è quello di Jorge Guillén, con la sola differenza che mentre la poesia di quest'ultimo vive, per usare il gergo dei filosofi, i;i.ell'ambito dell'essere, quella di Cernuda è temporale: l'esistenza umana è il suo regno. In entrambi, più che riflessione, c'è meditazione poetica. La prima è un'operazione estrema e totale: la parola si volge su se stessa e si nega come significato del mondo per significare solo la sua stessa significazione e, così, annullarsi. Alla riflessione poetica dobbiamo alcuni dei testi cardinali della poesia moderna dell'Occidente, poesie in cui la nostra storia simultaneamente si assume e si consuma: negazione di se stessa e dei significati tradizionali, tentativo di fondare un altro significato. Gli spagnoli hanno provato raramente sfiducia di fronte alla parola, raramente hanno provato quella vertigine che consiste nel vedere il linguaggio come il segno del nulla. Per Cernuda, la meditazione - nel 58

senso quasi medico: curare - consiste nell'inclinarsi su un altro mistero: quello del nostro trascorrere. La vita, non il linguaggio. Fra vivere e pensare, la parola non è abisso ma ponte. Meditazione: mediazione. La parola esprime la distanza fra ciò che sono e ciò che sto essendo; parimenti, è l'unico modo di trascendere quella distanza. Attraverso la parola la mia vita si trattiene senza intrattenersi e guarda se stessa guardarsi: attraverso di essa mi raggiungo e mi supero, mi contemplo e mi trasformo in altro - un altro me stesso che si burla della mia miseria e la cui burla cifra tutta la mia redenzione. La tensione fra vita inconsapevole di sé e coscienza di sé si risolve in parola trasparente. Non in un aldilà impossibile, ma qui, nell'istante della poesia, realtà e desiderio vengono a patti. E quest'abbraccio è così intenso che non solo evoca l'immagine dell'amore, ma anche della morte: nel petto del poeta "identico a un liuto, la morte, solo la morte, può far risuonare la melodia promessa". Pochi poeti moderni, in qualsiasi lingua, ci dànno questa sensazione da brivido di saperci di fronte a un uomo che parla veramente, effettivamente posseduto dalla fatalità e dalla lucidità della passione. Se si potesse definire con una frase il posto occupato da Cernuda nella poesia moderna in lingua spagnola, direi che è il poeta che parla non per tutti, ma per il ciascuno che siamo tutti. E ci ferisce nel centro di quel ciascuno che siamo, "che non si chiama gloria, fortuna o ambizione", ma la verità di noi stessi. Per Cernuda la poesia aveva per oggetto la conoscenza del sé, ma, con la stessa intensità, fu un tentativo di creare la propria immagine. Biografia poetica, La rea/idad y el deseo è qualcosa di più: la storia di uno spirito che, conoscendosi, si trasfigura.

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II

È ormai consuetudine dire che Cemuda è un poeta d'amore. È vero e da questo terna sgorgano tutti gli altri: solitudine, noia, esaltazione del mondo naturale, contemplazione delle opere dell'uomo ... Ma è necessario iniziare dicendo qualcosa che egli non occultò mai: il suo amore è omosessuale: non conobbe né parlò di altro. In ciò non esiste equivoco possibile; con ammirabile coraggio, se si pensa a ciò che sono il pubblico e gli ambienti letterari ispanoamericani, scrisse ragazzo lì dove altri preferiscono usare sostantivi più incerti. "La verità di me stesso", disse in una poesia della giovinezza, "è la verità del mio vero amore". La sua sincerità non è gusto dello scandalo né sfida alla società (altra è la sua sfida): è un punto d'onore intellettuale e morale. Inoltre, si corre il rischio di non comprendere il significato della sua opera se si tace o si attenua la sua omosessualità, non perché la sua poesia possa ridursi a quella passione - ciò sarebbe falso tanto quanto ignorarla - ma perché essa è il punto di partenza della sua creazione poetica. Le sue tendenze erotiche non spiegano la sua poesia ma senza di esse la sua opera sarebbe diversa. La sua "verità differente" lo separa dal mondo; e quella stessa verità, in un secondo movimento, lo porta a scoprire un'altra verità, sua e di tutti. Gide gli diede il coraggio di chiamare le cose con il loro nome; il secondo dei libri del suo periodo surrealista ha per titolo Los placeres prohibidos. Non li chiama, come ci si sarebbe potuti aspettare, piaceri maledetti. Se si necessita di una certa tempra per pubblicare un libro così nella Spagna del 1930, maggior lucidità è necessaria per resistere alla tentazione di assumere il ruolo del ribelle-dannato. Questo tipo di ribellione è ambiguo; chi si giudica "maledetto" consacra

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l'autorità divina o sociale che lo condanna: la maledizione lo include, negativamente, nell'ordine che vìola. Cernuda non si sente maledetto: si sente escluso. E non se ne dispiace: restituisce colpo su colpo. La differenza con uno scrittore come Genet è rivelatrice. La sfida di Genet al mondo sociale è più simbolica che reale e da qui che per rendere sempre più pericoloso il suo gesto abbia dovuto andare oltre: elogio del furto e del tradimento, culto dei criminali. In cambio, di fronte a una società dove l'onore dei mariti risiede ancora tra le gambe delle mogli e in cui il "machismo" è un'infermità continentale, la franchezza di Cernuda lo esponeva ad ogni sorta di rischi reali, fisici e morali. D'altra parte, Genet è marcato dal cristianesimo - un cristianesimo negativo; l'impronta del peccato originale è la sua omosessualità o, più esattamente, attraverso di essa e in essa si rivela la macchia originale: tutte le sue azioni e le sue opere sono una sfida e un omaggio del nulla all'essere. In Cernuda la coscienza della colpa compare appena e ai valori del cristianesimo egli ne oppone altri, i suoi, che gli sembrano gli unici veri. Sarebbe difficile trovare, in lingua spagnola, uno scrittore meno cristiano. Genet arriva alla negazione della negazione: i negri che sono bianchi che sono negri che sono bianchi del suo bel testo teatrale. È ciò che Nietzsche chiamava "nichilismo incompleto", che non si trascende né si assume e si accontenta di soffrire se stesso. Un cristianesimo senza Cristo. La sovversione di Cernuda è più semplice, radicale e sana. Riconoscersi omosessuale è accettarsi differente dagli altri. Ma chi sono gli altri? Gli altri sono il mondo - e il mondo è proprietà degli altri. In quel mondo si perseguitano con la stessa ferocia gli amanti eterosessuali, il rivoluzionario, il negro, il proletario, il borghese espropriato, il poeta solitario, il mendicante, l'eccentrico e il santo. Gli altri perseguitano tutti e nessuno. Sono tutti e nessuno. La salute pubblica è la malattia collettiva santificata dalla forza. Sono reali gli altri? 61

Maggioranza senza volto o minoranza onnipotente, sono un'assemblea di spettri. Il mio corpo è reale, è reale il peccato? Le carceri sono reali, lo sono anche le leggi? Fra l'uomo e ciò che egli tocca c'è una zona di irrealtà: il male. Il mondo è costruito su una negazione e le istituzioni - religione, famiglia, proprietà, Stato, patria - sono feroci incarnazioni di quella negazione universale. Distruggere questo mondo irreale perché appaia finalmente la vera realtà ... Qualsiasi giovane - e non solo un poeta omosessuale - può (e deve) imporsi queste riflessioni. Cernuda si accetta differente; il pensiero moderno, specialmente il surrealismo, gli mostra come tutti siano differenti. Omosessualità diventa sinonimo di libertà; l'istinto non è un impulso cieco: è la critica fatta atto. Tutto, il corpo stesso, acquisisce una colorazione morale. In questi anni aderisce al comunismo (1930). Adesione fugace perché in questa materia, come in tante altre, i troiani non sono meno ottusi dei tiri. L'affermazione della propria verità gli fa riconoscere quella degli altri: "attraverso il mio dolore comprendo che altri innumerevoli soffrono ... '', dirà anni dopo. Quantunque condivida il nostro comune destino non ci propone una panacea. È un poeta, non un riformatore. Ci offre la sua "verità vera", quell'amore che è l'unica libertà che lo esalti, l'unica libertà per cui muore. La verità vera, la sua e di tutti, si chiama desiderio. In una tradizione che con pochissime eccezioni - si possono contare sulle dita, da La Celestina e da La lozana andalusa a Rubén Dario, Valle Inclan e Garda Lorca - identifica "piacere" con "sensazione gradevole, contentezza d'animo o diversione", la poesia di Cernuda afferma con violenza il primato dell'erotismo. Quella violenza si placa con gli anni ma il piacere occuperà sempre un posto centrale nella sua opera, a fianco del suo opposto-complemento: la solitudine. È la coppia che regge il suo mondo, quel "paesaggio di ceneri assorte" che il desiderio popola di corpi raggianti, fiere belle e lucenti. Il destino della parola desiderio, da Baudelaire 62

a Breton, si confonde con quello della poesia. Il suo significato non è psicologico. Mutevole e identico, è energia, volontà di incarnazione del tempo, appetito vitale o pulsione di morte: non ha nome e li possiede tutti. Che cosa o chi è colui che desidera ciò che desideriamo? Anche se assume la forma della fatalità, non si compie senza la nostra libertà e in esso si cifra ogni nostro arbitrio. Non sappiamo nulla del desiderio, eccetto che si cristallizza in immagini e che quelle immagini non cessano di incitarci per poter diventare realtà. Appena le tocchiamo, svaniscono. O siamo noi che ci dissolviamo? L'immaginazione è il desiderio in movimento. È l'imminente, ciò che suscita l'epifania; ed è la lontananza che la cancella. Con una certa indolenza si tende a vedere nelle poesie di Cernuda mere variazioni di un vecchio luogo comune: la realtà finisce per uccidere il desiderio, la nostra vita è una continua oscillazione fra privazione e sazietà. A me sembra che, oltre a ciò, dicano un'altra cosa, più certa e terribile: se il desiderio è reale, la realtà è irreale. Il desiderio trasforma in reale l'immaginario, in irreale la realtà. L'essere completo dell'uomo è il teatro di questa continua metamorfosi; nel suo corpo e nella sua anima desiderio e realtà si compenetrano e si trasformano, si congiungono e si separano. Il desiderio popola il mondo di immagini e, simultaneamente, evacua la realtà. Nulla lo soddisfa poiché trasforma in fantasmi gli esseri viventi. Si alimenta di ombre o, piuttosto: la nostra realtà umana, la nostra sostanza, il nostro sangue e il nostro tempo, alimentano le sue ombre. Fra desiderio e realtà esiste un punto di intersezione: l'amore. Il desiderio è più vasto dell'amore ma il desiderio d'amore è il più poderoso dei desideri. Soltanto in quel desiderare un essere fra tutti gli esseri il desiderio si dispiega appieno. Chi conosce l'amore non vuole più nient'altro. L'amore rivela la realtà al desiderio: quell'immagine desiderata è qualcosa di più di un corpo che svanisce: è un'anima, una coscienza. Passaggio dall'oggetto erotico alla persona amata. Attraverso l'amore, il de63

siderio tocca finalmente la realtà: l'altro esiste. Questa rivelazione è quasi sempre dolorosa perché l'esistenza dell'altro ci si presenta simultaneamente come un corpo che si penetra e come una coscienza impenetrabile. L'amore è rivelazione della libertà altrui e nulla è più difficile che riconoscere la libertà degli altri, soprattutto quella di una persona che si ama e che si desidera. E in ciò si fonda la contraddizione dell'amore: il desiderio aspira a consumarsi nella distruzione dell'oggetto desiderato; l'amore scopre che quell'oggetto è indistruttibile ... e insostituibile. Rimane il desiderio senza amore o l'amore senza desiderio. Il primo ci condanna alla solitudine: quei corpi intercambiabili sono irreali; il secondo è inumano: può amarsi ciò che non si desidera? Cernuda fu molto sensibile a questa condizione veramente tragica dell'amore, di ogni amore. Nelle sue poesie della giovinezza la violenza della passione si scontra ciecamente contro l'esistenza inaspettata di una coscienza irrimediabilmente aliena e questa scoperta lo riempie di collera e di pena. (Più tardi, in un testo in prosa, allude all'"egoismo" degli amori giovanili). Nei libri della maturità il tema della poesia amorosa e mistica dell'Occidente - "l'amata nell'amato trasformata" - appare frequentemente. Ma l'unione, fine ultimo dell'amore, si può ottenere soltanto se si riconosce che l'altro è un essere differente e libero: se il nostro amore, invece di tentare di abolire quella differenza, si converte nello spazio in cui essa possa dispiegarsi. L'unione amorosa non è identità (se lo fosse saremmo più che uomini) ma uno stato di perpetuo movimento come il gioco o, come la musica, di perpetuo accordarsi. Cernuda affermò sempre la sua verità differente: vide e riconobbe quella degli altri? La sua opera offre una duplice risposta. Come quasi tutti gli esseri umani - almeno, come tutti quelli che amano veramente, che non sono poi molti - nel momento della passione è alternativamente idolatra e avversario del suo amore; poi, al momento della riflessione, comprende con amarezza che se non venne 64

amato come desiderava fu forse poiché egli stesso non seppe amare con totale abbandono. Per amare dovremmo vincere noi stessi, sopprimere il conflitto fra desiderio e amore senza sopprimere né l'uno né l'altro. Difficile unione fra amore contemplativo e amore attivo. Non senza lotte e vacillazioni Cernuda aspirò a questa unione, la più alta; e quell'aspirazione indica il senso dell'evoluzione della sua poesia: la violenza del desiderio, senza cessare mai di essere desiderio, tende a trasformarsi in contemplazione della persona amata. Scrivendo questa frase mi coglie un dubbio: si può parlare di persona amata nel caso di Cernuda? Penso non soltanto all'indole della passione omosessuale - con il suo fondo di narcisismo e la sua dipendenza dal mondo infantile, che la rende capricciosa, tirannica e vulnerabile al morbo della gelosia - ma alla perturbante insistenza del poeta nel considerare l'amore come una fatalità quasi impersonale. In una poesia di Como quien espera e/ alba (1947) dice: "L'amore è l'eterno e il non amato". Quindici o vent'anni prima aveva detto la stessa cosa, con maggiore esasperazione: "Non è l'amore a morire, siamo noi stessi". Nell'uno e nell'altro caso afferma il primato dell'amore sugli amanti ma nella poesia della giovinezza l'accento sta sul morire degli uomini e non sull'immortalità dell'amore. La differenza ditono mostra il senso della sua evoluzione spirituale: nel secondo testo l'amore non è più immortale ma eterno e il "noi" si converte nell'"amato". Il poeta non partecipa: vede. Passaggio dall'amore attivo al contemplativo. Notevole è che questo cambiamento non altera la visione centrale: non sono gli uomini che si realizzano nell'amore ma è l'amore che si serve degli uomini per realizzarsi. L'idea dell'essere umano come "ninnolo della passione" è un tema costante della sua poesia. Esaltazione dell'amore e ridimensionamento degli uomini. Il nostro scarso valore deriva dalla nostra condizione di mortali: siamo cambiamento e non resistiamo ai cambiamenti della passione; aspiriamo all'eternità e un istante d'a65

more ci distrugge. Privata del suo sostegno spirituale - l'a-

nima che le diedero platonici e cristiani - la creatura non è una persona ma una momentanea condensazione dei poteri inumani: gioventù, bellezza e altre forme magnetiche in cui il tempo o l'energia si manifestano. La creatura è un'epifania e non c'è nulla dietro di essa. Cernuda impiega poche volte le parole anima e coscienza per parlare dei suoi amori; non allude neppure ai loro tratti particolari, né a quegli attributi che, come si dice volgarmente, dànno personalità alla gente. Nel suo mondo non regna il volto, specchio dell'anima, ma il corpo. Non si intenderà il significato di questa parola per il poeta spagnolo se non si tiene presente che egli vede nel corpo umano la cifra dell'universo. Un corpo giovane è un sistema solare, un nucleo di irradiazioni fisiche e psichiche. Il corpo genera energia, è una fonte di "materia psichica" o mana, sostanza che non è spirituale né fisica, secondo i primitivi: la forza che muove il mondo. Amando un corpo, non adoriamo una persona, ma un'incarnazione di quella forza cosmica. La poesia amorosa di Cernuda va dall'idolatria alla venerazione, dal sadismo al masochismo; soffre e gode con quella volontà di preservare e di distruggere ciò che amiamo in cui consiste il conflitto fra desiderio e amore - ma non ignora l'altro. È una contemplazione dell'amato, non dell'amante. Così nella coscienza altrui non vede se non il suo stesso volto interrogante. Quella fu la sua "verità vera, la verità di se stesso". C'è un'altra verità; ogni volta che amiamo, ci perdiamo: siamo altri. L'amore non realizza l'io: apre una possibilità all'io affinché cambi e si trasformi. Nell'amore non si compie l'io ma la persona: il desiderio di essere un altro. Il desiderio dell'essere. Se l'amare è desiderio, nessuna legge che non sia quella del desiderio può assoggettarlo. Per Cernuda l'amore è rottura con l'ordine sociale e unione con il mondo naturale. E non è rottura solo perché il suo amore è differente da quello della maggioranza, ma perché ogni amore infrange le leggi degli uomini. L'omosessualità non 66

è eccezionale; la vera eccezione è l'amore. La passione di Cernuda - e anche la sua ira, le sue imprecazioni e il suo sarcasmo - sgorga da un ceppo comune: dalla sua nascita la poesia occidentale non ha cessato di proclamare che la passione d'amore, l'esperienza più alta per la nostra civiltà, è una trasgressione, un crimine sociale. Le parole di Melibea, un istante prima di precipitare dalla torre, parole di caduta e di perdizione ma anche di accusa al padre, possono essere ripetute da tutti gli amanti. Anche in una società come l'hindù, che non ha fatto dell'amore la passione per eccellenza, quando il dio Krishna si incarna e si fa uomo, si innamora; e i suoi amori sono adulteri. Bisogna ripeterlo: l'amore, ogni amore, è immorale. Immaginiamo una società diversa dalla nostra e da tutte quelle conosciute dalla storia, una società in cui regni l'assoluta libertà erotica, il mondo infernale di Sade o quello paradisiaco che ci propongono i sessuologi moderni: lì l'amore sarebbe uno scandalo maggiore che fra noi. Passione naturale, rivelazione dell'essere nella persona, ponte fra questo mondo e l'altro, contemplazione della vita o della morte: l'amore ci apre le porte di uno stato che sfugge alle leggi della ragione comune e della morale corrente. No, Cernuda non difese il diritto degli omosessuali a vivere la loro vita (questo è un problema di legislazione sociale) ma esaltò come esperienza suprema dell'uomo la passione d'amore. Una passione che assume questa o quella forma, sempre differente e, ciò nonostante, sempre la stessa. Amore unico per una persona unica - anche se soggetta al cambiamento, alla malattia, al tradimento e alla morte. Questa fu l'unica eternità che desiderò e l'unica verità che considerò certa. Non la verità dell'uomo: la verità dell'amore. In un mondo spianato dalla critica della ragione e dal vento della passione, i cosiddetti valori diventano un disperdersi di ceneri. Che cosa sopravvive? Cernuda ritorna all'antica natura e in essa scopre non Dio ma la divinità stessa, la madre degli dèi e dei miti. Il potere dell'amore non proviene dagli

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uomini, esseri deboli, ma dall'energia che muove ogni cosa. La natura non è né materia né spirito per Cernuda: è movimento e forma, è apparenza e soffio invisibile, parola e silenzio. È un linguaggio e di più: una musica. I suoi cambiamenti non hanno finalità alcuna; ignora l'etica, il progresso e la storia: come Dio, le basta essere. È per questo che, come Dio non può andare oltre se stesso perché non ha confini e contemplarsi e riflettersi interminabilmente è tutta la sua trascendenza, così la natura è un'incessante mutazione di esperienze e un essere sempre identica a se stessa. Un gioco senza fine, che nulla significa e in cui non possiamo trovare salvezza o condanna alcuna. Guardarla giocare con noi, giocare con essa, cadere con essa e in essa - questo è il nostro destino. In questa visione del mondo c'è più di una traccia di La gaia scienza e, soprattutto, del pessimismo di Leopardi. Mondo senza creatore anche se percorso da un soffio poetico, qualcosa che non so se potrebbe chiamarsi ateismo religioso. Certo, a volte Dio appare: è l'essere con cui parla Cernuda quando non parla con nessuno e che scompare silenziosamente come una nube momentanea. Si direbbe un'incarnazione del nulla - e ad esso ritorna. Al contrario, la venerazione, nell'accezione di rispetto per il santo e il divino, che gli ispirano cieli e montagne, un albero, un uccello o il mare, il mare sempre, sono costanti dal primo libro al1'ultimo. È un poeta dell'amore ma anche del mondo della natura. Il suo mistero lo affascinò. Va dalla fusione con gli elementi alla sua contemplazione, evoluzione parallela a quella della sua poesia amorosa. A volte i suoi paesaggi sono tempo trattenuto e in essi la luce pensa, come in alcuni quadri di Turner; altri sono costruiti con la geometria di Poussin, pittore che fu uno dei primi a riscoprire. Neppure di fronte alla natura l'uomo fa buona figura: gioventù e bellezza non lo salvano dalla sua insignificanza. Cernuda non vede nel nostro scarso valore un segno della caduta e meno ancora l'indizio di una salvezza futura. La nullità del-

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l'uomo è senza remissione. È una bolla d'aria dell'essere. La negazione di Cernuda si risolve in esaltazione di realtà e valori che il nostro mondo umilia. La sua distruzione è creazione o, più esattamente, resurrezione di poteri occulti. Di fronte alla religione e alla morale tradizionali e ai succedanei che ci offre la società industriale, afferma la coppia contraddittoria desiderio-amore; di fronte alla solitudine promiscua delle città, la natura solitaria. Qual è il posto dell'uomo? È troppo debole per resistere alla tensione fra amore e desiderio; non è neppure albero, nube o fiume. Fra la natura e la passione, entrambe inumane, c'è la nostra coscienza. La nostra miseria consiste nell'essere tempo; e tempo che si esaurisce. Questa carenza è ricchezza: essendo tempo finito siamo memoria, intelletto, volontà. L'uomo ricorda, conosce e oper-a: penetra nel passato, nel presente e nel futuro. Nelle sue mani il tempo è una sostanza malleabile; convertendolo in materia prima delle sue azioni, dei suoi pensieri e delle sue opere, l'uomo si vendica del tempo. Nella poesia di Cernuda ci sono tre tipi di accesso al tempo. Il primo è ciò che egli chiama l'accordo, improvvisa scoperta (attraverso un paesaggio, un corpo o una musica) di quel paradosso che consiste nel vedere il tempo trattenersi senza cessare di fluire: "istante senza tempo[ ... ] pienezza che, ripetuta nel corso della vita, è sempre la stessa [... ] ciò che è più simile a questo è l'addentrarsi in un altro corpo nel momento dell'estasi". Tutti, bambini o innamorati, abbiamo provato qualcosa di simile; ciò che distingue il poeta dagli altri è la frequenza e, più di ogni cosa, la coscienza di quegli stati e la necessità di esprimerli. Un altro cammino, diverso da quello della fusione con l'istante, è quello della contemplazione. Osserviamo una realtà qualsiasi - un gruppo d'alberi, l'ombra che invade una stanza al tramonto, un ammasso di pietre al lato della strada - guardiamo senza osservare niente in particolare, finché lentamente ciò che vediamo ci si rivela come il mai visto e, simultaneamente, come il visto

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sempre: "guardare, guardare [... ] alla natura piace nascondersi e bisogna sorprenderla guardandola a lungo, appassionatamente [... ] sguardo e parola fanno il poeta''. Guardiamo le cose o le cose guardano noi? E ciò che vediamo sono le cose o è il tempo che si condensa in una apparenza e subito la dissolve? In questa esperienza interviene la distanza; l'uomo non si fonde con la realtà esteriore ma il suo sguardo crea fra essa e la sua coscienza uno spazio, propizio alla rivelazione. Ciò che Pierre Schneider chiama meditazione. La terza via è la visione delle opere umane e dell'opera propria. A partire da Las nubes è questo uno dei suoi temi centrali e si esprime in due direzioni principalmente: il doppio (personaggi del mito, della poesia o della storia) e la meditazione sulle creazioni dell'arte. Attraverso di essa accede al tempo storico, umano. In una nota che precede la selezione delle sue poesie nella Antologia di Gerardo Diego (1930), afferma che l'unica vita che gli pare degna di essere vissuta è quella degli esseri del mito e della poesia, come l'Iperione di Holderlin. Ciò non deve intendersi come una sfida o una stonatura; pensò sempre che la realtà quotidiana soffre di irrealtà e che la vera realtà è quella dell'immaginazione. Ciò che rende irreale la vita quotidiana è il carattere ingannevole della comunicazione fra gli uomini. La consuetudine umana è una frode o, almeno, una menzogna involontaria. Nel mondo dell'immaginario le cose e gli esseri sono più integri e interi; la parola non occulta ma rivela. In Distico espaiiol, una delle ultime poesie, la realtà reale della Spagna diventa per lui ''incubo pertinace: è la terra dei morti e in essa tutto nasce morto"; a quella Spagna ne oppone un'altra, immaginaria e tuttavia reale, popolata di "eroi amati in modo eroico", né chiusa né rancorosa ma ''tollerante della lealtà contraria, secondo la generosa tradizione di Cervantes ''. La Spagna dei romanzi di Gald6s gli mostra che il vivere quotidiano è drammatico e che nell'esistenza più oscura palpita "il para70

dosso di essere vivo". Fra tutti quei personaggi romanzeschi non è strano che si riconosca in Salvador Monsalud, il rivoluzionario "afrancesado" e l'innamorato di chimere, che mai si arrende alla sragione che chiamiamo realtà. E quale ragazzo ispanoamericano non ha voluto essere Salvador Monsalud? Innamorarsi di Genara e di Adriana; combattere contro gli "ultras" e anche contro il "ciarlatano che inganna il popolo con la sua bava argentina"; sentirsi lacerato fra orrore e pietà di fronte al fratello folle e innamorato della stessa donna, il sonnambulo guerrigliero carlista, il fratricida Carlos Garrote; chi non ha desiderato, alla fine, incontrare Soledad, quella realtà più reale e forte di ogni passione? Con chi parla il poeta quando conversa con un eroe del mito o della letteratura? Ciascuno di noi porta dentro un interlocutore segreto. È il nostro doppio e qualcosa di più: il nostro contraddittore, il nostro confidente, nostro giudice e unico amico. Chi non parla da solo con se stesso sarà incapace di parlare veramente con gli altri. Parlando con creature del mito, Cernuda parla per sé ma in questo modo parla con noi. È un dialogo destinato a provocare indirettamente la nostra risposta. L'istante della lettura è un ora in cui, come in uno specchio, il dialogo fra il poeta e il suo visitatore immaginario si sdoppia in quello del lettore con il poeta. Il lettore si vede in Cernuda che si vede in un fantasma. E ciascuno cerca nel personaggio immaginario la propria realtà, la propria verità. A fianco dei personaggi del mito e della poesia, le persone storiche: Gongora, Larra, Tiberio. Ribelli, esseri del margine, esiliati dalla stupidità dei contemporanei o dalla fatalità delle loro passioni, sono anche maschere, personae. Cernuda non si nasconde dietro di esse; al contrario, attraverso di esse si conosce e affonda in se stesso. Il vecchio artificio letterario cessa di essere tale quando si trasforma in esercizio di introspezione. Nella poesia dedicata a Luigi di Baviera, un altro dei suoi ultimi componimenti, il re è solo nel teatro e ascolta la musica "fuso con il mito nel con71

templarlo: la melodia lo aiuta a conoscersi, a innamorarsi di ciò che egli stesso è". Parlando del re, Cernuda parla di sé ma non per sé; ci invita a contemplare il suo mito e a ripetere il suo gesto: l'autoconoscenza attraverso l'opera altrui. Di fronte a El Escorial, a una tela di Tiziano o alla musica di Mozart percepisce una verità più vasta della sua, anche se non contraddittoria né alternativa. Nelle opere d'arte il tempo si serve degli uomini per compiersi. Solo che è un tempo concreto, umanizzato: un'epoca. La fusione con l'istante o la contemplazione del trascorrere sono esperienze nel tempo e del tempo, ma fuori, in certo modo, dalla storia; la visione dell'opera d'arte è esperienza del tempo storico. Da una parte, l'opera è ciò che si chiama comunemente un'espressione storica, una data; dall'altra, è un archetipo di ciò che l'uomo può fare con il suo tempo: trasformarlo in pietra, musica o parola, tramutarlo in forma e infondergli senso. Aprirlo alla comprensione degli altri: renderlo presente. La visione dell'opera implica un dialogo, il riconoscimento di una verità diversa dalla nostra e che, tuttavia, ci concerne direttamente. L'opera d'arte è una presenza del passato continuamente presente. Per quanto incompleta e'povera sia la nostra esperienza, ripetiamo il gesto del creatore e ripercorriamo, in direzione inversa a quella dell'artista, il processo; andiamo dalla contemplazione dell'opera alla comprensione di ciò che l'ha originata: una situazione, un tempo concreto. Il dialogo con le opere d'arte consiste non solo nell'ascoltare ciò che dicono, ma nel ricrearle, nel riviverle come presenze: risvegliare il loro presente. È una ripetizione creatrice. Nel caso di Cernuda l'esperienza gli serve, inoltre, per comprendere meglio quale sia la sua missione di poeta. Alla rottura iniziale con l'ordine sociale succede, senza rinnegare l'attitudine alla ribellione che sostanzialmente sarà la stessa fino alla morte, la partecipazione alla storia. E così le creazioni altrui gli dànno coscienza del suo compito: la storia non è solo tempo che si vive e si muore, ma tempo che si trasforma in opera o in atto. 72

Contemplando questa o quella creazione, Cernuda intuisce quella fusione fra la volontà individuale dell'artista e la volontà, quasi sempre incosciente, del suo tempo e del suo mondo. Scopre che non scrive solo per dire la "verità di se stesso"; la sua vera verità è anche quella della sua lingua e della sua gente. Il poeta dà voce "alle bocche mute dei suoi" e così li libera. Gli "altri" sono diventati i "suoi". Ma dire quella verità non consiste nel ripetere i luoghi comuni del pulpito, della tribuna politica, del Consiglio dei Ministri o della radio. La verità di tutti non si oppone alla coscienza del solitario né è meno sovversiva della verità individuale. Questa verità, che non può confondersi con le opinioni della maggioranza o della minoranza, è occulta e tocca al poeta rivelarla, liberarla. Il ciclo iniziato con le poesie della gioventù si chiude: negazione del mondo che chiamiamo reale e affermazione di quella realtà reale che rivelano il desiderio e l'immaginazione creatrice; esaltazione dei poteri naturali e riconoscimento del compito dell'uomo sulla terra: creare opere, fare vita del tempo morto, dare significato al cieco trascorrere; rifiuto di una falsa tradizione e scoperta di una storia che ancora non cessa e nella quale la sua vita e la sua opera si inseriscono come un nuovo accordo. Alla fine dei suoi giorni, Cernuda dubita, sospeso fra la realtà della sua opera e l'irrealtà della sua vita. Il libro fu la sua vera vita e fu costruito ora per ora, come fa chi innalza un'architettura. Edificò con tempo vivo e la sua parola fu pietra dello scandalo. Ci ha lasciato, in tutti i sensi, un'opera edificante.

Delhi, 24 maggio 1964

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Postfazione Saggi di circostanza di Ernesto Franco

"La dottrina del filosofo invita alla confutazione; la vita del saggio è inconfutabile. Nessun saggio ha proclamato che la verità si apprende; ciò che hanno detto tutti o quasi tutti, è che l'unica cosa che vale la pena di essere vissuta è l'esperienza della verità". I saggi di Octavio Paz sono racconto di un'esperienza di verità e, in questo senso, possono dirsi inconfutabili. In essi tutto ciò che fa parte dell'universo della dottrina è assai meno importante di ciò che mostra l'esperienza della lettura, la lettura raccontata come un'esperienza. Sono queste alcune delle caratteristiche di fondo che permettono di considerare Ignoto a se stesso e La parola edificante come un insieme omogeneo, addirittura indipendentemente e al di là dei temi diversi che i due saggi hanno per oggetto immediato e dichiarato. Tuttavia, prima di accennarne un'interpretazione, è necessario fornire qualche informazione sulla loro storia editoriale. El desconocido de sf mismo (pubblicato per la prima volta in Messico, nel 1962, come prologo ad un'antologia pessoana) e La palabra edificante (pubblicata in Papeles de Son Armadans, Madrid-Palma de Mallorca, 1964) venivano raccolti dallo stesso Octavio Paz, insieme ad altri due saggi su Rubén Dario (El caracol y la sirena, pubblicato nel 1964, a Città del Messico, in Revista de la Universidad) e su Ramon L6pez Velarde (El camino de la pasion, pubblicato, nel 1963, 77

in Revista Mexicana de Literatura), in un unico volume, pubblicato a Città del Messico nel 1965 con il titolo di Cuadrivio. Nel brevissimo prologo a quest'ultima edizione, Octavio Paz fornisce al lettore alcuni chiarimenti sui motivi che lo hanno spinto a raccogliere materiali diversi, pensati in occasioni e tempi differenti. Paz afferma di non voler suggerire_ alcuna "illusoria affinità" fra i quattro poeti, ma piuttosto di volerne sottolineare le differenze: le loro opere furono diverse ed uniche e, come tutte quelle che "contano veramente", lo furono con piena coscienza. I saggi, tuttavia, possono essere concepiti come un insieme per ragioni di metodo e di prospettiva. Da una parte, tutti e quattro i poeti presi in considerazione concepirono la loro opera anche in funzione critica, del "linguaggio, dell'estetica o della morale della loro epoca". Dall'altra, tutti e quattro rientrano in quella "tradizione della rottura" che, secondo Octavio Paz, "è la tradizione della nostra poesia moderna", dalla fine del secolo scorso fino ai giorni nostri. Insomma, il libro funziona, appunto, come un quadrivio: punto d'incrocio di itinerari differenti e, per molti aspetti, divergenti. Il tema della tradizione della poesia moderna, centralissimo in Paz, ci porterebbe, ora, troppo lontano. Ci si accontenterà, dunque, di indicare brevemente come il senso di una particolare concezione dell'esperienza poetica si rifletta sul movimento e sui risultati del saggio di Paz. A ben vedere, d'altra parte, le considerazioni del prologo a Cuadrivio pongono al centro del libro, come suo fattore unitario, proprio l'istanza di scrittura, il punto di vista e il modo di procedere dell'autore. Se, infatti, la coscienza critica può essere caratteristica intrinseca dell'opera di Pessoa, Cernuda, Dario, e L6pez Velarde, il loro appartenere ad una tradizione qualsiasi non può che essere attributo conferito da uno sguardo posteriore e, almeno storicamente, esterno. Al centro del quadrivio, insomma, sta, essenzialmente, lo sguardo del lettore-saggista, che inventa, in quanto poeta in 78

prima persona, una tradizione in cui potersi riconoscere: anche per Paz, per restare soltanto a ciò che abbiamo sotto mano, il momento creativo è indissolubilmente legato a quello critico, ed è, anzi, proprio il poeta a fornire alcune delle chiavi di interpretazione per il saggista. In una recente intervista, apparsa sulla rivista messicana Vuelta (138, maggio 1988), Paz ha occasione e modo di precisare una volta di più la sua poetica: "Le mie poesie sono sempre state risposte a stimoli esterni ed interni", risposta alla "provocazione" di una città, di un paesaggio, dell'amore, della morte, di "quel complesso insieme di circostanze [... ] che fanno ogni vita umana e il cui antico nome era destino". La poesia è risposta, condizionata dalla storia e dal linguaggio, a un'esperienza essenziale, ne è racconto e interpretazione. Paz conclude, con Goethe, dicendo che, in questo senso, ogni poesia è "poesia di circostanza". La dichiarazione di poetica vale, con precisione, anche come dichiarazione di metodo critico. La lettura delle opere altrui viene considerata non come esercizio di erudizione e tanto meno come lo strumento attraverso cui esaurire e delimitare oggettivamente un campo di informazione, ma piuttosto come "stimolo" che, fra gli altri, va ad integrare la formazione di una coscienza individuale. La lettura/a la coscienza del soggetto e, da questo punto di vista, il destino del lettore-poeta-saggista è un itinerario fra le opere altrui. In quanto racconto e interpretazione di un'esperienza intellettuale ed esistenziale, anche i saggi di Octavio Paz sono "saggi di circostanza". L'esperienza saggistica ha le stesse modalità e lo stesso valore dell'esperienza poetica. Non è più soltanto il discorso che organizza una certa quantità di "dottrina", ma l'interpretazione di una verità. L'oggetto del saggio diventa la "circostanza" che provoca una risposta: a partire da dati (in questo caso da opere) storicamente definibili, li trascende, o meglio, li trasforma in figure interpretanti interrogativi più generali. Alla domanda di Octavio Paz: "Può essere poetica una bio79

grafia?", possiamo allora sostituirne un'altra: può essere poetica, e cioè essere risultato di una "provocazione" essenziale dell'esperienza, una monografia? La risposta è la medesima: ''solo a condizione ch_e gli aneddoti si trasformino in poesie [in saggi], cioè solo se i fatti e le date cessano di essere cronaca e diventano esemplari. Esemplari non nel senso didattico della parola, ma in quello di "azione eccellente", come quando si dice: esemplare unico. Ossia: mito, argomento ideale e affabulazione ideale. I poeti [i saggisti] si servono delle leggende [delle opere] per raccontarci la realtà; con gli avvenimenti reali creano favole [saggi], esempi". Radicato in eventi storici precisi, Octavio Paz sa estrarne il profilo meno contingente, definendo un vero e proprio modello di lettura per strutture transtoriche. In questo senso i suoi saggi sono inconfutabili: come in una poesia, ogni loro parte è necessaria a definirne l'insieme. Li si può certamente rifiutare o riconoscere, ma non li si può articolare o sezionare criticamente se non rinunciando a priori alla loro caratteristica più seducente: la totalità. Nell'universo del "saggio totale" il lettore viene introdotto secondo un itinerario che, nel caso dei due saggi qui raccolti, si ripete con una certa precisione e merita qualche parola. La prima tappa consiste nel portare il discorso al di là dei termini di ciò che si è definito come l'universo della dottrina e, nel contempo, nello scongiurare il pericolo insito nelle premesse del genere letterario della monografia: il monumento, il monolito critico sepolcrale. "Rendere omaggio alla sua memoria - dice Octavio Paz a proposito di Cernuda - non può voler dire innalzargli monumenti che, come tutti i monumenti, nascondono il morto". Per esplicitare questo movimento preliminare, Paz ricorre allora ad una sorta di underplaying filologico. Nel caso di Pessoa, dopo aver mostrato di fornire al lettore una serie abbastanza completa di informazioni biografiche, l'autore si ferma con un interrogativo: "Dimentico qualcosa? Morì nel 1935, a Lisbona, di 80

crisi epatica". Paz avrebbe dimenticato un dato banale, ma ·importantissimo: la data che, ufficialmente, chiude un'esperienza poetica, rende completa un'opera e apre la strada, oltre che al rigore della morte, anche a quello della critica. Con questo segnale l'autore avverte il lettore che l'orizzonte