I veleni di Dongo
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Roberto Festorazzi

I VELENI DI DONGO

Prefazione di Ugo Zatterin

IL MINOTAURO

LUIGI CANAU (''NERI11)

CoMIZIO A CoMo DOPO LA LIBERAZIONE

Bisogna sopportare il quotidiano. Dalle macerie risor­ J(e alla luce il nuovo spirito. Ma il quotidiano è contraddizio­ ne. Macerie e luce allo stesso tempo. Io sono piccolo e debole, ma voglio fare ciò che è giusto. Hans Scholl

PREFAZIONE

Sono passati oltre cinquant'anni e l'unica verità incontrovertibile è che Mussolini e la Petacci sono stati uccisi il28 aprile 1945. Per questo tempo si sono suSsegui· te "confessioni", "testimonianze", .. rivel:izioni", "inchieste", i volumi che le contengono costituiscono una ricca biblio­ teca, ma la Storia non può incidere ancora con certezza assoluta sulle sue pagine marmoree né il nome di chi gli ha sparato né il luogo della morte, poiché di tanto in tanto viene smentito, con nuove documentazioni, che il nome sia quello del rag.Walter Audisio, detto "colonnello Valeria", esecutore ufficiale, e il posto sia lo slargo davanti a Villa llclmonte in Giulino di Mezzegra (Como), sede ufficiale dell'esecuzione: e ogni nuova ipotesi non appare mai del tutto immotivata. Altrettanto incerta è stata per anni la verità storica circa il bottino che il duce fuggiasco aveva con sé quando venne catturato. E non solo di valori venali si trattava, ge­ nericamente indicati come "l'oro di Dongo", comprenden­ te i soldi e gli ori di Mussolini pit\ quanto nascondevano in quattrini e gioielli i gerarchi catturati insieme a lui e fucila­ ti poche ore dopo di lui sulla piazza di Dongo, ma anche d'un certo numero di documenti, con cui il dittatore s'illu­ deva di poter sostenere l'eventuale autodifesa e di rivalersi �u alcuni suoi nemici, diventati ormai i suoi vincitori. Personalmente capitai a Dongo il7 maggio 1945, come inviato dell'Avanti!, insieme con la collega svedese Grunhild Berg, corrispondente romana d'un quotidiano di Goeteborg. Benché fossero passati dieci giorni dagli stmi·

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ci fatti di cui ero stato protagonista, fummo i primi giorna­ listi arrivati nel paese comasco. Protagonista? Le interviste, gli incontri, il materiali che raccogliemmo quella giornata, ci lasciarono l'impres­ sione che tutto si fosse svolto secondo un copione predi­ sposto altrove per un evento che il caso aveva poi voluto venisse rappresentato a Dongo, fra una strettoia della stra­ da da Musso, la piazza, il municipio e il bel lungolago. Di proprio, i donghesi ci avevano messo qualche tronco d'al­ bero, davanti a cui s'era bloccata la colonna in fuga, e l'ar­ resto di Mussolini e dei quindici gerarchi intruppati con un reparto della Flak tedesca, che chiedeva solo di poter andarsene dall'Italia senza dover ancora combattere. Sollecitati a raccontare quel loro momento di gloria, i festanti cittadini di Dongo sembravano presi soprattutto dalla disputa su chi, tra i molti pretendenti al titolo, fosse stato l'autentico scopritore di Mussolini nascosto sotto una divisa tedesca: chi avesse affrontato quel "colonnello Valeria" e quell"'ispettore Guido", precipitatisi da Milano con alcuni fedelissimi, decisi a far tutto loro e il piU in fretta possibile; chi avesse tentato senza successo di opporsi - e rimediandoci solo la minaccia d'esser messo al muro- alla esecuzione sommaria; chi avesse saputo, senza rivelarlo ''al popolo" ignaro, defraudato quindi d'una scena madre del dramma, che quella sconosciuta accantonata in una saletta del municipio era Claretta Petacci. Del bottino non una parola. La sorte delle tre borse sequestrate e del "tesoro" recuperato non era ancora en­ trata nel mito di Dongo, �essuno che ci avesse fatto caso, se qualcuno vi aveva allungato un occhio o un mano si guar­ dava bene dal raccontarlo, e comunque le prede di cui van­ tarsi in quel momento erano quelle in carne, ossa e cami­ cia nera. A quelle in oro, valute e fogli di carta stavano prov­ vedendo, ma alle spalle dei trionfanti cittadini di Dongo, poche persone, alcune delle quali, colpevoli solo di aver visto e saputo, in breve tempo sarebbero scomparse miste­ riosamente o defunte "incidentalmente". L'indagine sui documenti e sul tesoro volatilizzatisi e sull'oscura catena di sparizioni e di sinistri si sviluppò nei mesi seguiti alla Liberazione per iniziativa di alcuni giorna­ li increduli alle versioni evasive e sempre piU sospette del Cln e del Partito comunista, mentre l'oro di Dongo entrava

TI

PREFAZIONE

rumorosamente nella polemica politica. Non fu difficile uppurare che gli ori e i quattrini di Mussolini erano spariti uelle tasche o nelle casse di chi aveva gestito la cattura e 1\·secuzione, e che i documenti, i carteggi, i verbali in par­ I porto tra il Pci e le squadracce di sicari che agirono nell'imme­ diato post-liberazione, sull'incontro a Gravedona con "Bill'' e "Pedro') . Riguardo alle responsabilità del Pci nella morte del capitano "Neri", Coppeno esclude che l'ordine di intervenire fosse partito da Como (''semmai, la decisione veniva dall'alto, da Milano"18) e sussurra il nome di Vergani per indicare la per­ sonalità piti deternùnata a eliminare il Canali ("'Fabio'..., forse è stato lui che, nell'ambito del partito comunista di allora.... ")". Coppeno, per la verità, non nega neppure del tutto il coinvolgimento del Partito comunista nelle imprese poco puli­ te condotte a Como dalle squadracce rosse, dopo il 25 aprile. E, a denti stretti, ammette: "Gli esponenti del Pci forse erano al corrente soltanto di qualche cosa, perché non c'era un confes­ sionale dove si potesse raccontare tutto quello che si faceva" t(;. "Per gli operai piU. o meno politicizzati - continua Pa­ vone - il nemico ideale, la figura pill chiara e riassuntiva di nemico, sarebbe stata quella di un padrone che fosse an· che fascista e sfacciatamente servo dei tedeschi, e come tale non pitl vero italiano"7• L'analisi dei documenti permette all'autore di conclu­ dere che il collante ideologico delle formazioni combatten· ti era spesso quello di un "internazionalismo partigiano" che faceva aggio sull'internazionalismo proletario. In un opuscolo dedicato alla memoria di Dante Di N anni, un garibaldino ventenne caduto a Torino il 18 maggio 1944, si legge che l'imperativo categorico di un partito come il Pci, "il partito rivoluzionario, l'unico capace di difendere l'inte­ resse della classe lavoratrice"8, era quello di "smantellare e distruggere tutto il sistema sociale che aveva generato e perpetrato questa oppressione'09• L'identificazione del regime fascista col regime dei padroni spingeva a ritenere che fosse giunto il momento di una resa dei conti anche sul piano sociale. Non è un caso che il movimento partigiano avesse una vivace articolazio­ ne nelle fabbriche e che la prima vera fiammata della rivol· ta armata abbia avuto inizio con gli scioperi dell'inverno 1943-44. Certo, la preoccupazione del Pci era quella di non depotenziare l'impatto globale della lotta antifascista, ridu· cendola a rivendicazionismo salariale e operaio. Quando si faceva sciopero, dovevano essere chiari gli obiettivi politi­ ci di quest'azione di lotta. Insomma, la finalizzazione politi­ ca della lotta di liberazione doveva prevalere su quella socioeconomica, perché non si poteva proporre un proget­ to di "democrazia progressiva" senza aver prima spazzato via il fascismo. Ma non v'è dubbio che le contraddizioni del sistema capitalistico, benché rese quanto mai acute e vi-

6 /bitkm. 7 Jbitkm. 8 Ibidem, pag.

317.

!l Ibidem.

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lente dal regime d'occupazione, inducevano la base opera­ ia e partigiana a far di tutto per accelerare la liquidazione dell'odiata classe padronale che sarebbe sopravvissuta alla liberazione. L'ideologia classista, insomma, non surroga completamente la ricerca della libertà e della democrazia. Tuttavia, l'avanguardia operaia, eccitata dagli eventi rivo­ luzionari della preparazione all'insurrezione e dalla fase in­ surrezionale medesima, sfuggirà in parte al controllo della stessa leadership comunista. Non a caso, Togliatti condan­ nerà l'allontanamento di milleduecento esperti tecnici dal­ le fabbriche torinesi, per via delle antiche rivalità tra collet­ ti bianchi e operai. "La diffidenza degli operai verso i quadri di fabbrica ­ osserva. Pavone - non coUimava con la linea del partito, ma affondava le sue radici in un forte senso di differenziazione sociale, non eliminato dalla comune riduzione alla fame" 10• Gli operai, memori anche del biennio rivoluzionario 191920, "non volevano continuare a veder in fabbrica le facce piu odiose"". In molte delle dichiarazioni raccolte da Pavo­ ne, si coglie "un senso corposo e quasi religioso degli anta­ gonismi sociali. I ricchi acquistano un significato che va oltre la loro identificazione con i nemici della patria o con coloro che calpestano l'interesse generale"".

2. l COMUNISTI E

IL TERRORISMO

Alla luce di queste considerazioni, si può dunque af­ fermare che al Pci, piu ancora che la cacciata e la sconfitta dei tedeschi, stesse a cuore la strategia di conquista vio­ lenta del potere? La tesi può apparire estrema e azzardata. Di sicuro sappiamo che molti dirigenti comunisti erano convinti del fatto che la resistenza non fosse altro che un propulsore ideologico posto sulla strada della rivoluzione. Ma se la liberazione, per richiamare le categorie utilizzate da Pavone, piU che una guerra nazionale e patriottica con­ tro l'invasore tedesco e il suo alleato interno, fu una "guer­ ra civile" con caratteristiche di guerra di classe, allora pos10 Ibidem, pagg. 355-56. n Ibidem, pag. 356. 12 lbidem, pag. 377.

l SO

VI. LA RESISTENZA INSEPOLTA siamo ragionare pacatamente sui fatti, e ricavare dalla let­ tura di altri documenti una nuova possibile interpretazione alternativa, per cui la lotta partigiana doveva fornire al par­ tito comunista la potenzialità organizzativa necessaria a realizzare pienamente l'egemonia sociale e politica. Di questa ipotesi offre conferma un documento prati­ camente sconosciuto: un libretto di una quarantina di pagi­ ne, pubblicato dall'editrice dell'Unità, nel 1945, sotto il tito­ lo L'insu"ezione del Nord. ll volumetto riporta il testo del rdpporto tenuto da Pietro Secchia ai quadri comunisti il 24 giugno 1945, due mesi dopo la liberazione. Secchia, mem· bro della direzione del partito e uomo di scuola rivoluzio­ naria, al punto da sognare costantemente la prospettiva della lotta armata per conquistare il potere, esprime a chia­ re lettere il disegno eversivo sottostante alla battaglia rcsistenziale. Una battaglia che, nelle intenzioni dell'ala ortodossa del partito, rimasta piu fedele a Bordiga che a Gramsci e a Togliatti, non avrebbe dovuto esaurirsi nella fase antifascista, ma si sarebbe dovuta concludere con l'at­ tacco al Capitale e allo Stato borghese. Certo, si potrebbe osservare che Togliatti, con la "svolta" di Salerno, aveva legato il partito alle sorti della democrazia progressiva, a una strategia "morbida" di costruzione del socialismo, la quale, liberato il Paese dagli invasori e sconfitto il fasci­ smo, non avrebbe dovuto entrare in radicale conflitto con le istituzioni rappresentative e il metodo democratico, ma affermarsi · appunto · con gradualità. Questa linea realista di Togliatti era destinata, però, a convivere con le mai sopite spinte eversive, incarnate, ap­ punto, da personaggi di spicco come Pietro Secchia. Se­ condo questa scuola di pensiero, la lotta di liberazione an­ dava inscritta entro uno schema marxista-leninista, ben oltre la stessa strategia militare e l'obiettivo patriottico del­ la cacciata dei tedeschi. Il Pci e le sue forze armate, quali "avanguardia del proletariato", avrebbero dovuto far esplo­ dere le contraddizioni presenti nell'economia di guerra per aizzare le masse popolari contro i detentori dei mezzi di produzione e avviare una lotta che non si sarebbe potuta concludere con la Liberazione. "Sarebbe stato un grave errore - dice Secchia - se noi avessimo pensato di poter mobilitare o portare le larghe masse popolari all'insurrezione nazionale, alla lotta arma-

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ta, solo con la parola d'ordine: insorgiamo per cacciare i tedeschi e per distruggere il fascismo"13• Bisognava inve· ce partire dai bisogni immediati delle classi lavoratrici, che chiedevano pane da mangiare e legna per scaldarsi. Si badi bene che Secchia non ripete, nel suo discorso, le tradizio­ nali accuse di collaborazionismo coi nazifascisti, che il Pci rivolgeva agli industriali. Il dirigente comunista è piu sotti­ le: attaccando la corrente moderata dell'antifascismo, è di­ sposto ad ammettere che il grande Capitale "teneva un pie­ de nella sWfa del Comitato di liberazione per garantirsi il domani"", allungando anche "qualche pugno di biglietti da mille alle formazioni partigiane, purché se ne stessero tran­ quille"t5, Questo "starsene tranquilli", per Pietro Secchia, si­ gnificava una sola cosa: rinunciare al progetto insurrezio­ nale allo scopo di convogliare )'antifascismo nella direttri­ ce storica dell'avanzata angloamericana. Quello che il Pci non poteva accettare era esattamente questo: cedere agli Alleati e ai partiti moderati la guida politica del Paese. Ecco perché lo schema di lettura usato da Secchia era perfetta­ mente settario, di fazione. Il capo comunista spiegava che il Pci aveva combattuto sin dal principio, fin dall'8 settem­ bre, le posizioni "attesiste, compromissorie e opportuni­ ste", che dentro il fronte antifascista puntavano ad affidar­ si agli angloamericani. In quel suo discorso, egli riportava anche le obiezioni che i moderati sollevavano dentro i Co­ mitati di liberazione per frenare la logica guerrigliera: "Vale la pena di attaccare un posto di blocco se come rappresa­ glia verrà distrutto l'intero villaggio? Vale la pena di attac­ care un fascista o un tedesco, se come rappresaglia si fuci­ leranno dieci dei nostri?"16• La risposta a queste domande è senz'ombra di dubbio positiva. Si, vale la pena di condur­ re "una lotta spietata, implacabile" contro "le manovre attesiste e capitolarde"11 condotte fino alla vigilia del 25 aprile da "grandi industriali e banchieri reazionari, grandi

IJ L'insurrezione del Nord, ed. L'Unità, pag. 11. 14 /bitkm, pag. 15. 15 /bidem. 16 lbitùm, pag. 16. 17 Ibidem, pagg. 21·23.

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VI. LA RESISTENZA INSEPOLTA possidenti, alto clero"18• Emerge qui il dogma del "partito

._�tl ida", retaggio del sistema dittatoriale comunista. Attra�

v•·rso i Comitati insurrezionali, e grazie alla propria forza organizzativa, il Pci riesce a imporre la strategia rivoluzio1 \ a ria. A Milano, i partiti della sinistra (comunisti, sociali­ sti, azionisti) decidono autonomamente l'insurrezione, for­ ;,ando la mano ai partiti moderati (democristiani e libera­ li). I.: ordine di insorgere viene trasmesso da l.ongo a Sec· c hia il 24 aprile, con l'adesione di Pertini e ValianP9• Il do­ nunento piU interessante da analizzare, per ritrovare appieno la logica settaria e totalitaria del Pci, resta la diret­ tiva insurrezionale n.16 del lO aprile '45, che mette in guar­ dia i comunisti dall'assecondare manovre sabotatrici. la