I salmi di Gabriele Fiamma ritrovati nella biblioteca Vaticana (R. I. IV. 447) 8821008924, 9788821008924


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I salmi di Gabriele Fiamma ritrovati nella biblioteca Vaticana (R. I. IV. 447)
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I SALMI DI GABRIELE FIAMMA RITROVATI NELLA BIBLIOTECA VATICANA (R. I. IV. 447)

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STUDI E TESTI ———————————— 471 ————————————

Cristina Ubaldini

I SALMI DI GABRIELE FIAMMA RITROVATI NELLA BIBLIOTECA VATICANA (R. I. IV. 447)

C I T T À D E L VAT I C A N O B I B L I O T E C A A P O S T O L I C A V AT I C A N A 2012

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La collana “Studi e testi” è curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: Giancarlo Alteri Marco Buonocore (Segretario) Timothy Janz Antonio Manfredi Claudia Montuschi Cesare Pasini Ambrogio M. Piazzoni (Presidente) Delio V. Proverbio Adalbert Roth Paolo Vian Sever J. Voicu

Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va

Stampato con il contributo dell’associazione American Friends of the Vatican Library

—————— Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012 ISBN 978-88-210-0892-4

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Ma ciò che si trova, in un’opera poetica, oltre e al di là della comunicazione — e anche il cattivo traduttore ammette che si tratta dell’essenziale —, non è generalmente considerato come l’inafferrabile, misterioso, “poetico”? Che il traduttore può riprodurre solo in quanto si mette a poetare a sua volta? Walter Benjamin

Gabriello Fiamma Fu stupor, quando scese il vivo Spirto de l’eterno Amore in lingue ardenti di fiammelle accese. Ecco novo stupore: pur in lingua di foco è trasformato quel divo, e santo fiato, che Fiamma al nome, e fòlgore a la voce purga, distempra, e coce. E ben a tanto ardore arderebbe quel lino effigiato, se come dal Pittore ebb’alma, avesse core. Giambattista Marino

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Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine alla Diocesi di Chioggia e al personale della Biblioteca e dell’Archivio diocesani per la cortese accoglienza e per l’impeccabile assistenza che mi hanno riservato. Uno speciale ringraziamento vada al Prof. Edoardo Barbieri, alla Prof.ssa Marielisa Rossi e alla Prof. ssa Gianna Del Bono, con i quali ho potuto discutere alcuni dei momenti problematici di questa indagine. Grazie, inoltre, al personale della Biblioteca Civica di Chioggia “Cristoforo Sabbadino”, della Biblioteca Alessandrina di Roma, della Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza, della Biblioteca Comunale Teresiana di Mantova e della Biblioteca Oliveriana di Pesaro per la preziosa collaborazione prestatami anche a distanza.

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INDICE

1. Venezia e Roma nel Cinquecento: il Concilio e le censure . . .

9

2. La vita e le opere di Gabriele Fiamma . . . . . . . . . . . . . . . . . .

17

3. Sulle tracce di un libro scomparso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

25

4. La parafrasi poetica: traduzione ed esegesi dei Salmi . . . . . .

39

5. Ornamento e sacramento: le contraddizioni dell’elegia cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

63

Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

85

Opere di Gabriele Fiamma presenti oggi nelle biblioteche

..

87

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

91

Sitografia

........................................

115

Testi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

119

I salmi delle Rime spirituali (1570) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

123

Parafrasi poetica sopra alcuni Salmi di David Profeta [1571] . .

158

Riproduzione anastatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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1 VENEZIA E ROMA NEL CINQUECENTO: IL CONCILIO E LE CENSURE La Repubblica Veneta, trascorsi i fasti dei secoli XIV e XV, aveva dovuto affrontare nella prima metà del Cinquecento una profonda crisi politica, culturale e identitaria dalla quale era uscita al costo di un rinnovamento delle strutture politico-sociali e della reinvenzione della propria immagine; costretta ad entrare in contesa con la Chiesa di Roma, da sempre considerata “matrigna”1 e ormai protagonista di una fase di crescita che sarebbe culminata nel trionfo dell’età barocca, aveva cercato di percorrere la via di una nuova politica, che fu anche, necessariamente in quel momento, politica religiosa2. Il milieu veneto si presentava piuttosto ricco: vi operavano Gaetano di Thiene, i benedettini guidati da Ludovico Barbo che da Padova si sarebbero stabiliti in tutta Italia, i cappuccini fautori del radicalismo francescano; vi erano passati Erasmo3, Ignazio di Loyola, Reginald Pole4, Girolamo Aleandro e Angela Merici. Venezia è la porta attraverso la quale penetrarono in Italia le idee riformiste e il luogo in cui, grazie alla proliferazione delle stamperie, si diffusero le teorie eterodosse: è qui che si svolsero con maggior fermento discussioni teologiche, confessionali, filosofiche, ed è qui che precocemente nacquero e si svilupparono un sentimento e un pensiero riformisti5. L’attività inquisitoriale del Carafa ebbe praticamente inizio a Venezia, dove si era rifugiato assieme a Gaetano di Thiene e ai suoi “preti riformati” a seguito delle drammatiche vicende vissute a Roma durante il sacco. [...] Venezia, del resto, sul principio degli anni ’30, era un ottimo punto d’osservazione per 1 Cfr. G. COZZI, I rapporti tra Stato e Chiesa, in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante

e Riforma cattolica, a cura di G. GULLINO, Venezia 1990, pp. 11-36. 2 Sulla tradizione politica veneziana, la sua difesa e il suo risveglio e la «sfida con Roma» si veda W. J. BOUWSMA, Venezia e la difesa delle libertà repubblicane, Bologna 1977. 3 Erasmo, Venezia e la cultura padana nel ’500. Atti del 19° Convegno Internazionale di Studi Storici – Rovigo, Palazzo Roncale, 8-9 maggio 1993, a cura di A. OLIVIERI, Rovigo 1995. 4 P. SIMONCELLI, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977. 5 Ai personaggi citati vanno aggiunti anche Gregorio Cortese, il Bembo e alcuni degli esuli più rappresentativi della caduta repubblica fiorentina che arrivarono dopo il 1530: Jacopo Nardi, Donato Giannotti, Antonio Brucioli; cfr. Storia della civiltà veneta, II, a cura di V. BRANCA, Firenze 1979.

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I SALMI DI GABRIELE FIAMMA

seguire le complesse vicende politiche e religiose europee; non solo, ma una sorte quasi fatale riuniva nella città, e proprio attorno al Carafa, tutti i più autorevoli personaggi destinati a dar vita al movimento dell’Evangelismo, che dunque proprio sotto il suo sguardo vigile mossero i primi passi. Attorno al teatino accorrevano, richiamati dalla fama della sua autorità, della sua rigorosa e personale “riforma” religiosa, il Contarini, il Pole, il Flaminio, il Gheri […]6.

Fra le maggiori personalità del mondo culturale, politico e religioso spiccano alcune figure davvero straordinarie. Gasparo Contarini7, magistrato e in seguito vescovo, fu l’animatore più autorevole di un tentativo di rinnovamento della Chiesa che, ispirandosi ai principi evangelici, proponeva una posizione di compromesso (spesso difficile e problematica) tra fini temporali e spirituali, tra vita civile e vita religiosa; è a lui che si deve la creazione di una immagine di Venezia nettata da ogni connotazione autoritaria, cruenta o violenta, paladina della pace e “Regina”8 della Repubblica, strumento propagandistico fondamentale nel confronto serrato che la città dovette sostenere con la potentissima Roma dei papi. Pietro Querini e Paolo Giustiniani inviarono al Concilio Lateranense V il Libellus ad Leonem X 9, che sottoponeva all’attenzione del papa le questioni sulle quali di lì a poco si sarebbe fondata la Riforma: la necessità di una traduzione in 6 P. SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, 1979, pp. 46-47. 7 Cfr. G. FRAGNITO, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988; si vedano, inoltre, gli Atti del Convegno di Studio, Gaspare Contarini e il suo tempo, Venezia, 1-3 marzo 1985, a cura di F. C. ROMANELLI, Prefazione di G. ALBERIGO, Venezia 1988. 8 Cfr. G. COZZI, Venezia regina, in Crisi e rinnovamenti nell’Autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di V. BRANCA – C. OSSOLA, Firenze 1991, pp. 1-9; G. COZZI – M. KNAPTON, La Repubblica di Venezia nell’età moderna, in Storia d’Italia, XII: I. Dalla guerra di Chioggia al 1517, II. Dal 1517 alla fine della Repubblica, diretta da G. GALASSO, Torino 1997, in particolare il capitolo L’intrecciarsi della vita religiosa ed ecclesiale con la vita politica (1517-1563), XII/II, pp. 19-79; sul contraddittorio e ricchissimo portato simbolico di questa città, si veda anche G. BENZONI, Una città caricabile di valenze religiose, in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica cit., pp. 37-61; l’immagine di Venezia città regina culminerà nella Venezia città nobilissima e singolare del Sansovino del 1581, (cfr. M. L. DOGLIO, La letteratura ufficiale e l’oratoria celebrativa, in Storia della cultura veneta, 4/I: Dalla Controriforma alla fine della Repubblica, a cura di G. ARNALDI e M. PASTORE STOCCHI, Venezia 1983, pp. 176182). 9 Lettera al Papa. Libellus ad Leonem X [1513], notizia introduttiva, versione italiana di G. BIANCHINI, Modena 1995; cfr. E. MASSA, Una cristianità nell’alba del Rinascimento. Paolo Giustinianini e il «Libellus ad Leonem X», Genova 2005. Giustiniani sarebbe poi stato l’animatore della Riforma Cattolica a Roma, il fautore del recupero dei Luterani e, insieme a Carafa, il sostenitore della mozione che auspicava una riforma di tipo strutturale, opposta a quelle dei canonisti, che preferivano, invece, un ritorno all’antico diritto e a quella dei funzionari della Curia, che si opponevano ad ogni cambiamento.

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1. VENEZIA E ROMA NEL CINQUECENTO

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volgare della Bibbia, la ricodificazione del diritto canonico, la funzione centrale delle prediche e l’esclusione dalle scuole delle “favole pagane”. I veneti avevano compreso prima di Lutero e prima di Erasmo la necessità di diffondere la conoscenza dei testi sacri in traduzione, necessità inserita in un disegno preciso, teso a mantenere il controllo della confessione grazie alla predicazione e a una radicale esclusione della cultura pagana, ma non avevano avuto la forza e l’influenza necessarie a diffonderne il messaggio. La Chiesa iniziò a prendersi carico di questi problemi nel 1537, col fallimentare tentativo del Consilium de emendanda ecclesia convocato da Paolo III: con un pronunciamento ufficiale sulle questioni bibliche avrebbe potuto tentare di arginare la deriva riformista, ma si ritrovò negli anni a venire ad assumere posizioni le più varie, dalla sostanziale ammissione delle edizioni dei testi sacri, dei volgarizzamenti e dei commenti, al loro divieto più assoluto, affidando prima all’Inquisizione e poi alla Congregazione dell’Indice il compito di dirimere questioni che non ricevettero mai un indirizzo univoco10. Nel 1542, nella bolla Licet ab initio, come primo tentativo di regolamentazione di una situazione oggettivamente fuori controllo, vennero vietati tutti i libri protestanti, ma una definizione più chiara della situazione si stabilì l’8 aprile 1546 nel Decretum secundum: recipitur vulgata editio bibliae praescribiturque modus interpretandi sacram scripturam etc. della IV Sessione del Concilio di Trento: intendendo arginare un’ondata straordinaria che tra 1471 e 1567 vide l’edizione di una quantità notevole di Bibbie in volgare11, si stabilì che le fonti della rivelazione sono i libri del canone biblico, che la Bibbia contiene materialmente la rivelazione, che la tradizione è solo un’interpretazione autorevole data dal magistero (affermazione voluta dal vescovo di Chioggia, il Generale dei Serviti Bonucci), che la Vulgata è esente da errori dogmatici: Insuper eadem sacrosancta synodus considerant, non parum utilitatis accedere ecclesiae Dei, si ex omnibus latinis editionibus, quae circumferuntur sacrorum librorum, quaenam pro autentica habenda sit, innotescar: statuit et declarat, ut haec ipsa vetus et vulgata editio, quae longo tot saeculorum usu in ipsa ecclesia probata est, in publicis lectionibus, disputationibus et expositionibus pro autentica habeatur, et quod nemo illam reicere quovis praetextu aurea vel presumat12. 10 Per una analisi approfondita della questione si veda G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997. 11 Cfr. E. BARBIERI, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, II, Milano 1991-1992. 12 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. ALBERIGO – G. DOSSETTI – P.-P. JOANNOU – P. PRODI, consulenza di H. JEDIN, edizione bilingue, Bologna 1991, p. 664 (20-25);

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Quanto alle edizioni, il divieto venne pronunciato contro quelle prodotte senza licenze e prive del nome dell’autore o dell’editore: Sed et impressoribus modum in hac parte, ut par est, imponere volens, qui iam sine modo, hoc est, putantes sibi licere quid libet, sine licentia superiorum ecclesiasticorum ipsos sacrae scripturae libro est super illos adnotationes et expositiones quorumlibet indifferenter, saepe tacito, saepe etiam amentito prelo et, quod gravis est, sine nomine auctoris imprimunt, alibi etiam impressos libros huiusmodi temere venales habent: decernit et statuit, ut posta sacra scriptura, potissimum vero haec ipsa vetus et vulgata editio quam emendatissime imprimatur, nullique liceat imprimere vel imprimi facere quosvis libros de rebus sacris sine nomine auctoris, neque illos in futurum vendere aut etiam apud se retinere, nisi primum examinati probatique fuerint ab ordinario, sub poena anathematis et pecuniae in canone concilii novissimi Lateranensis apposita. Et si regulares fuerint, ultra examinationem et probationem huiusmodi licentia quoque a suis superioribus impetrare teneantur, recognitis per eos libris iusta formam suarum ordinationum. Qui autem scripto eos communicant vel evulgant, nisi antea examinati probatique fuerint, eisdem poenis subiaceant, quibus impressores. Et qui eos habuerint vel legerint, nisi prodiderint auctore, pro auctoribus habeantur. Ipsa vero huiusmodi librorum probatio in scriptis detur atque ideo in fronte libri, vel scripti vel impressi, authentice appareat. Idque totum, hoc est probatio et examen, gratis fit, ut probanda probentur, et reprobentur improbanda13.

e in merito alle interpretazioni si affermò: Praeterea ad coercenda petulantia ingenia decernit, ut nemo, suae pudentiae innixus, in rebus fidei et morum, ad aedificationem doctrinae christianae pertinentium, sacram scripturam ad suos sensus contorquens, contra eum sensum, quem tenuit et tenet sancta mater ecclesia, cuius est iudicare de vero sensum et interpretatione scripturarum sanctarum, aut etiam contra unanimem consensum patrum ipsam scripturam sacram interpretari aurea, etiamsi huiusmodi interpretationes nullo umquam tempore in lucem edendae forent. Qui contravenerint, per ordinarios declarentur et poenis a iure statutis puniantur14. […] Post haec temeritatem illam reprimere volens, quae ad profana quaeque convertuntur et torquentur verba et sentientiae sacrae scripturae, ad scurrilia scilicet, fabulosa, vana, adulationes, detractiones, superstitiones, impias et i Decreti del Concilio di Trento sono consultabili anche on-line in traduzione italiana, http:// www.totustuustools.net/concili/. Cfr., inoltre, H. JEDIN, Storia del Concilio di Trento, II: Scrittura e tradizione, Brescia 1973-1981, pp. 66-146. 13 Conciliorum Oecumenicorum Decreta cit., pp. 664 (39-43)-665 (1-17). 14 ibid., p. 664 (30-38).

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1. VENEZIA E ROMA NEL CINQUECENTO

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diabolicas incantationes, divinationes, sortes, libellos etiam famosos: mandat et praecipit ad tollendam huiusmodi irreverentiam et contemptum, et ne de cetero quisquam quomodolibet verba scripturae sacrae ad haec et similia aurea usurpare, ut omnes huius generis nomine, temeratores et violatores verbi Dei, iuris et arbitrii poenis per episcopos coerceantur15.

Lasciare la discrezione ai vescovi contribuì a rendere la situazione italiana magmatica; in Italia infatti, a differenza della Spagna e della Francia, non sussistendo una tradizione censoria forte, di fronte alla irriducibilità di due fronti che volevano, l’uno vietare i volgarizzamenti per evitare derive ereticali e riformate, l’altro lasciare libera l’attività di traduzione anche in considerazione del fatto che la Bibbia è un testo in sé esito di traduzioni, i Legati Cervini, del Monte e Pole concessero agli Stati sostanziale autonomia d’azione. Venezia non inviò messi di particolare caratura durante le prime fasi del Concilio16, e alla terza parte di esso partecipò mantenendosi sostanzialmente neutrale e risparmiandosi pericolose tensioni con Roma. L’applicazione del Concilio, poi, se è questione complessa in genere17, lo è in particolare riguardo a Venezia — dove per molto tempo, fra alti e bassi, il mondo culturale e letterario godette di indipendenza e libertà — che solo nel 1581, dopo lunghi dibattiti e contrattazioni, dovette accettare la visitatio apostolica. La religiosità veneziana si mantenne sempre entro i limiti di un’ortodossia mirante al mantenimento del potere nelle mani della élite dominante, cosicché, né la Riforma protestante fu in grado di penetrare davvero in questa società18, né la Riforma cattolica ebbe la forza di imporsi con incisività; la Chiesa veneta era Chiesa di Stato e «nell’ottica del patriziato diventare vescovo di una città del Dominio era tutt’altra cosa dall’accettare il cardinalato od una qualsiasi carica pontificia, che avrebbero fatto di un nobiluomo veneziano un uomo del papa»19. Dopo che nel 1547 l’Inquisizione aveva operato confische e distruzioni dei libri nel territorio veneto, nel 1549 la Repubblica stilò un proprio Indi15

ibid, p. 665 (18-26). Cfr. G. ALBERIGO, I vescovi italiani al Concilio di Trento, Firenze 1958, pp. 47-89. 17 Cfr. A. BORROMEO, I vescovi italiani e l’applicazione del Concilio di Trento, in I tempi del Concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, a cura di C. MOZZARELLI e D. ZARDIN, Roma 1997, pp. 27-105. 18 Sulla diffusione della Riforma in Italia si vedano in particolare D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, a cura di A. PROSPERI, Torino 2002 e C. GINZBURG, Il Nicodemismo, Torino 1970; sulla storia e le sorti dell’Evangelismo cfr., almeno, SIMONCELLI, Evangelismo italiano del Cinquecento cit. 19 P. F. GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a Venezia 1540-1605, Roma 1983, p. 57. 16

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ce dei libri proibiti20, l’ultimo degli indici locali21, che però non sortì effetti degni di nota: il patriziato gli si oppose per ragioni di rivalità politica con Roma più che di merito e l’Indice, che venne poi promulgato nel 1554, e che vietava gli scritti di tutti i protestanti, fu revocato poco dopo; da allora si istituirono processi solo in seguito a denunce e i libri protestanti furono stampati in un clima di sostanziale libertà. Nel 1557 venne stampato senza esiti operativi l’Indice universale, stilato dall’Inquisizione e voluto da Paolo IV, che non conteneva divieti ai volgarizzamenti; l’anno successivo iniziò la stesura di un Indice molto più intransigente: a Venezia il 13 agosto 1558 il Santo Uffizio guidato dal futuro Papa Sisto V vietava la stampa sia di testi biblici, sia di trattati di argomento biblico in tutte le lingue volgari, salvo licenza (regola stesa dall’Inquisizione e inserita in appendice all’Indice di quell’anno) e revocava tutte le licenze per la lettura dei libri proibiti. Nel 1559 arrivò il primo divieto ufficiale ai volgarizzamenti22. L’Indice del 1559 non ebbe vita semplice a Venezia, che vedeva rafforzata la propria posizione internazionale dal nuovo equilibrio stabilito dalla pace di Cateau-Cambrésis23: il vescovo Michele Ghislieri, il futuro papa Pio V, impose la stampa del testo ai librai veneziani che, però, opposero una notevole resistenza. Dopo una prima parziale vittoria dell’Inquisizione che riuscì a mandare al rogo da 10 a 12 mila volumi, con la morte di Paolo IV, 20 Stilato da Monsignor Giovanni Della Casa, l’Indice di Venezia viene promulgato, dopo aver subito modifiche, nel 1554 a Milano (cfr. Index des livres interdits, III: Index de Venise 1549, Venise et Milan 1554, dir. J. M. BUJANDA, Éditions de l’Université de Sherbrooke 1986, pp. 33-35, 41-65 e 111-116; GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a Venezia 1540-1605 cit., pp. 131-134 e U. ROZZO, L’Indice veneziano del 1549, in Una mente colorata. Studi in onore di Attilio Mauro Caproni per i suoi 65 anni, I, promossi, raccolti, ordinati da P. INNOCENTI, curati da C. CAVALLARO, Manziana 2007, pp. 287-302). 21 Cfr. P. FRAJESE, Nascita dell’Indice: la censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia 2006, pp. 60-64. Per un compendio sulla storia degli Indici, cfr. Index des livres interdits, I: Préface a Index de l’Université de Paris, 1544, 1545, 1547, 1549, 1551, 1556 cit., 1984, pp. 11-23. 22 Cfr. Index des livres interdits, VIII: Index de Rome, 1557, 1559, 1564. Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente cit., 1990, pp. 37-50 e 137. 23 Per la questione è fondamentale lo studio di GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a Venezia 1540-1605 cit.; si veda anche A. NIERO, Riforma cattolica e Concilio di Trento, in Cultura e società nel Rinascimento tra riforme e manierismi, a cura di V. BRANCA – C. OSSOLA, Firenze 1984, pp. 77-96. Per una storia dell’editoria veneta dal 1469 al 1796 si veda, inoltre, H. BROWN, The Venetian Printing Press. An Historical Study based upon Documents for the most part hinterto unpublished, London 1891: in particolare rimando al cap. XIV, che documenta minuziosamente le vicende dell’Indice nel periodo 1548-1593 e, basandosi sulle minute e i libri contabili dei librai, sulle leggi promulgate in materia editoriale, sui cataloghi degli editori e stampatori, offre un’esatta analisi dei monopoli e dei diritti d’autore e delle licenze.

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1. VENEZIA E ROMA NEL CINQUECENTO

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sopraggiunta il 18 agosto 1559, si tornò ad una situazione di sostanziale permissività; probabilmente l’Indice di Paolo IV fu addirittura distrutto. Con Pio IV, però, anche Venezia dovette allinearsi ai dettami dell’Indice e i librai si resero conto che non potevano più opporsi direttamente e apertamente al volere di Roma. Nonostante il 14 giugno 1561, anno di inizio del terzo periodo del Concilio di Trento, il Ghislieri avesse firmato su mandato papale una Moderatio Indicis che attenuava i divieti del 1559 e ridimensionava il potere del Sant’Uffizio, restituendo a parroci e confessori la facoltà di valutare l’idoneità dei fedeli ad accostarsi alle Scritture, la tendenza del decennio fu quella di una generale restrizione delle libertà di stampa. Come spiega Grendler: La decima regola mirava ad imporre il controllo ecclesiastico della censura preventiva e della distribuzione dei libri. Il primo la Repubblica l’aveva garantito: nel 1562 a Venezia era stato istituito un sistema di censura in cui l’inquisitore aveva facoltà di leggere qualsiasi manoscritto da dar alle stampe. In precedenza le cose andavano diversamente. Dopo il 1527 era stato il Consiglio dei Dieci ad esercitare un controllo di Stato in cui il Sant’Uffizio, allora inattivo, non aveva alcuna parte. […] Nel 1558 il Sant’Uffizio aveva rilevato che i librai omettevano spesso di richiedere la fede ecclesiastica e il decreto emanato il 19 marzo 1562 dai Riformatori dello Studio di Padova, […] istituiva una procedura multipla per la censura preventiva in cui il Sant’Uffizio aveva un ruolo centrale24.

Una procedura che poteva richiedere tre mesi di tempo e che di fatto favoriva tutti i fenomeni di autocensura: Negli anni Sessanta del Cinquecento il patriziato veneziano s’era convinto che una rigida regolamentazione delle stampe era essenziale alla sicurezza dello Stato. Varie motivazioni dovevano spingerlo a dar vita ad un sistema di censura preventiva atto a garantire che non si stampassero a Venezia proposizioni ereticali o moralmente e politicamente pericolose. Al Sant’Uffizio, alla Chiesa cioè, aveva assegnato, nel meccanismo della censura, un ruolo più importante: pontefice e doge, governo e nunzio collaboravano insomma in vista di uno scopo comune. Avevano già fermato la stampa di scritti eterodossi e si apprestavano ad arrestare il flusso del contrabbando dall’estero e ad epurare le botteghe dei librai25.

Nel 1564 arriva l’Indice del Concilio di Trento. Comme on l’a déjà rappelé, l’index de Paul IV avait opté de façon catégo24 25

GRENDLER, L’inquisizione romana e l’editoria a Venezia 1540-1605 cit., pp. 211-212. ibid., p. 221.

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rique pour l’interdiction complète et sans nuance de touts les écrits des hérétiques. L’Instructio et la Moderatio indicis ont nuancé cette disposition, permettant après examen de l’ordinaire et des inquisiteurs les écrits des aucteurs de première classe qui ne traitent pas de religion. Les pères de Trente adoptent ainsi une position nouvelle, empreinte d’une certaine modération. Ils introduisent un changement majeur en distinguant les écrits hérésiarques, c’est-a-dire des fondateurs et chefs d’hérésies, qui son condamnés sans aucune restriction, des écrits des autres hérétiques ou suspects d’hérésie qui peuvent être permis dans certaines circonstances et sous certaines conditions. La disposition interdisant de façon absolue tout les écrites hérètiques et certains écrits d’auteurs catholiques est remplacée par le principe d’expurgation des écrites d’auteurs hérétique au catholiques ne contenant que des passages répréhensibles. Les péres se montrent aussi plus ouverts à l’égard des éditions, des tradutions et des commentaires des livres de la Bible par des hèrétiques qu’on ne condamne plus a priori. La lecture de la Bible et des ecrits de polémique religieuse en langue vulgaire pourra ansi être permise au personnes doctes sous autorization spéciale de l’évêque26.

Nell’ottobre 1564 il Senato veneziano approvava i decreti tridentini senza però applicarli con solerzia: il patriziato era interessato a contrastare la Riforma, gli eretici e gli ebrei, così come contrastava i turchi fuori dai propri confini, per ragioni politiche, ma non si sentiva implicato nelle altre questioni della Riforma cattolica. Così, nei tre anni successivi riprendevano le pubblicazioni dei volgarizzamenti a un ritmo tale che Italia, Germania e Polonia avevano la maggior diffusione di testi biblici in volgare; ma solo due anni dopo, con l’elezione di Pio V, i rapporti tra Venezia e Roma entrano in una fase di particolare tensione27 che avrà il suo picco massimo negli anni Settanta. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo Gabriele Fiamma raggiunge l’acme della sua attività di predicatore e rimatore: scrive tutte le sue opere e ne pubblica la maggior parte, non senza qualche seria difficoltà.

26 Index des livres interdits, VIII: Index de Rome, 1557, 1559, 1564. Les premiers index romains et l’index du Concile de Trente cit., 1990, pp. 93-94. 27 Sulla storia dei rapporti tra Roma e Venezia dopo il Concilio di Trento, cfr. FRAJESE, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento cit.

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2 LA VITA E LE OPERE DI GABRIELE FIAMMA Nato a Venezia tra il 1531 e il 1533 da Gianfrancesco1, giureconsulto e cavaliere originario di Bergamo, e Vincenza Diedo, nobile veneziana, Gabriele Fiamma, contro il desiderio dei genitori e nonostante Carlo V lo avesse nominato Conte palatino e Cavaliere, è accolto giovanissimo nell’ordine dei Canonici Regolari Lateranensi in Santa Maria della Carità a Venezia; completa gli studi a Padova, nella canonica di S. Giovanni in Verdara, seguendo le lezioni del teologo Girolamo Vielmi2, e, a quanto dice il Superbi, «hebbe per maestro nella predica il famoso Bitonto»3. Nel 1557 l’editore Niccolò Bevilacqua di Trento stampa a Venezia le sue tesi dedicate ad Ercole Gonzaga4; diviene poi predicatore e svolge la sua missione a Firenze, Mantova, Genova, Padova, Ravenna, Napoli e Venezia, distinguendosi per uno stile niente affatto aggressivo: glossatore più che persuasore veemente, mostra di essere un divulgatore efficacissimo. Tanto successo riscuote il suo metodo, che Panigarola nel De elocutione5 lo cita 1

Detto «Pacio», (cfr. C. DE ROSINIS, Lyceum Lateranense illustrium scriptorum sacri apostolici ordinis, I/VII, Cesena, apud Nerium, 1649, p. 335); il fratello gemello Ferrandino scrisse vari sonetti; il figlio di questi, Carlo, sotto il nome di Confuso Accademico Ordito, compose il Sacro Tempio, raccolta di rime in onore della Vergine, scrisse favole pastorali e ordinò e commentò le Rime di Torquato Tasso; il fratello di Carlo, Francesco, fu vicario di Gabriele nel vescovado di Chioggia e compose prediche e rime sacre. Cfr. Dizionario biografico degli italiani, 44: Ferrero-Filonardi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1997, s.v. «Fiamma, Gabriele», a cura di G. PISTILLI, p. 330-331. 2 Domenicano veneto (1519-1582); da adolescente entrò a far parte del cenobio di S. Anastasia a Verona, fu eletto vescovo di Cittanova (Aemonia) nel 1570. Cfr. Edit16, ad vocem. Fiamma avrebbe ricevuto la sua primissima formazione in greco, latino e retorica sotto la guida di Giovan Battista Egnazio (Venezia, 1478-1553), umanista, filologo, poeta e professore di eloquenza, membro dell’Accademia Aldina e curatore di testi per lo stampatore Aldo Manuzio (cfr. Edit16, ad vocem). 3 Con tutta probabilità si tratta proprio di Cornelio Musso, vescovo di Bitonto. Cfr. F. A. SUPERBI, Trionfo glorioso d’eroi illustri, et eminenti dell’inclita, e marauigliosa citta di Venezia li quali fiorirono nelle dignità ecclesiastiche, nell’armi, e nelle lettere. Diviso in tre libri… Con le sue tauole copiosissime, I, Venezia, 1629, p. 127. 4 Illustrissimo ac reuerendissimo d. Herculi Gonzaghae Sanctae Romanae Ecclesiae cardinali amplissimo, canonici Ordinis Lateranen. patrono optimae merito, vt grati animi sui voluntatem atque obseruantiam significet, haec thaeoremata dicat Gabriel Flamma Venetus cano. regularis. La data è posta in calce al testo, ma non è certa. Cfr. il catalogo on-line dell’ICCU, http://www.internetculturale.it/moduli/opac/opac.jsp 5 F. PANIGAROLA, Il predicatore … ouero Parafrase, commento, e discorsi intorno al Libro

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come modello, insieme a Musso e Visdomini; ma ciò non impedisce che il 19 marzo 1562 a Napoli venga denunciato alla S. Inquisizione come uomo di dubbia fede per le prediche fatte durante la Quaresima; subisce una perquisizione e il sequestro di tutti i libri e gli scritti che vengono passati al vaglio di una commissione presieduta dal Ghislieri; e solo grazie all’appoggio dei Gonzaga (essendo il cardinale Ercole protettore del suo Ordine) e di Marcantonio Colonna è prosciolto da ogni accusa6. Per sottrarsi all’eccessiva attenzione degli inquisitori7, nel luglio 1565 Fiamma si ritira a Treviso nel monastero lateranense dei Santi Quaranta dove trascorre un periodo di meditazione e studio, durante il quale compone gran parte delle sue opere8; anche da qui, però, si sposta frequentemente per continuare la sua missione di predicatore. L’anno successivo pubblica a Venezia presso Francesco de’ Franceschi le dodici Prediche fatte in vari tempi in vari luoghi, et intorno a vari soggetti, dedicate a Vincenzo Gonzaga priore di Barletta e nel 1568 parrebbe trovarsi a Roma come correttore ecclesiastico della Tipografia del Popolo Romano, diretta in quegli anni da Paolo Manuzio9. Paolo Manuzio, in effetti, nella lettera del 26 giugno 1568 dell’Elocutione di Demetrio Falereo. Ove vengono i precetti, ... E la vana elocuzione degli autori profani accommodata alla sacra eloquenza de’ nostri dicitori, e scrittori ecclesiastici. Con due tauole, ..., in Venezia, appresso Bernardo Giunti, Gio. Battista Ciotti, e compagni, 1609. 6 Si vedano le due lettere che Fiamma indirizza a Cesare Gonzaga il 16 e il 20 marzo 1562 da Napoli; nella seconda, in particolare, l’autore lamenta che «per commissione del Cardinale Alessandrino mi furono pigliati tutti i scritti miei et notato ogni libro, et ogni minima polizza.» (Lettere di scrittori italiani dal secolo XVI, a cura di P. G. CAMPORI, Bologna 1877, p. 143); cfr. C. CANTÙ, Eretici d’Italia. Discorsi storici, II, Torino 1866, p. 342. 7 La motivazione addotta da Fiamma è quella di dover fuggire la straordinaria ondata di caldo che avrebbe colpito il Veneto (cfr. Rime spirituali, esposizioni ai sonetti LIII e LV, pp. 186 e 188-189), ma Augusto Serena chiaramente connette la denuncia all’Inquisizione e la decisione di ritirarsi per qualche tempo dalla vita pubblica (cfr. A. SERENA, Il Canzoniere di un oratore sacro del cinquecento. [Presentata alla Presidenza il 31 Ottobre 1943], Estratto dagli Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, Anno accademico 1943-44 – Tomo CIII – Parte II: Cl. di Scienze mor. e lett., Venezia 1944, pp. 19-20). 8 SERENA, Il Canzoniere di un oratore sacro cit., pp. 20-21 e 22: «ma tutta l’opra dell’ultimo ventennio di sua vita ha la radice incognita e nascosta in quegli anni del suo ritiro nel monastero de’ Santi Quaranta. […] Chiudendosi nel monastero de’ Santi Quaranta l’oratore sacro non abbandonava veramente la prima missione: schiudeva anzi un nuovo campo alle sue apostoliche sollecitudini. Mentre preparava le selve per nuove prediche, e dava l’ultima mano a quelle già ordite; mentre attendeva ad altre opere di ecclesiastica erudizione; anche studiavasi di promuovere la cristiana educazione servendosi de’ lenocinii della volgar poesia; e meditava e componeva e commentava un canzoniere religioso, dal quale potesse avere la gioventù italiana giovamento intellettuale e morale insieme». Cfr. G. M. CRESCIMBENI, Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari intorno al volume primo dell’Istoria della volgar poesia, vol. III, libro II, Venezia 1731, p. 84, n. 59. 9 Cfr. F. BARBERI, Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano (1561-1570). Con documenti inediti, Roma 1942: il Manuzio era arrivato a Roma nel 1561, ottenendo anche la

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al figlio Aldo scrive «Il Papa ha voluto che fra Gabriele venga a star qui in casa per la correzione, e che gli dia due stanze […]» e nella lettera del 14 agosto dello stesso anno gli conferma, «Maestro Gabriele è qui nelle tue stanze, e ci starà credo per tutto Ottobre, dice che ti farà grazia di veder li tuoi libri in camera: e questa grazia non usa farla ad altri»10; nonostante i Canonici Regolari Lateranensi non siano frati11, anche Galliccioli nomina Fiamma «Frate della Carità»12. In ogni caso, non sembrerebbe dimostrabile un incarico di Fiamma come correttore13. Il 1570, anno in cui pubblica le Rime spirituali14, fu fatale per l’editoria cittadinanza romana, dopo aver stipulato un ricco contratto col papa che gli offriva molto denaro e prestigio perché si occupasse della stampa rinnovata dei libri sacri e di tutti quelli che il papa e lui stesso avrebbero scelto. L’intento del papa era quello di far “concorrenza” con ogni mezzo agli stampatori veneziani. Già nel 1563, con la morte del Seripando, protettore del Manuzio, e con la presa d’atto dei costi notevoli dell’impresa, Pio IV cedette la stamperia, transazione che si svolse nell’arco di quasi 3 anni. Il carattere inquieto di Manuzio lo portò a chiudere con il Popolo Romano ben tre anni prima della scadenza del contratto, nel 1570, e la Stamperia venne acquisita da Fabrizio Galletti. Cfr. G. B. BELTRANI, La tipografia romana diretta da Paolo Manuzio, estratto da Rivista europea (1877), pp. 31-32 (citato in F. BARBERI, Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano cit., p. 43, nt. 1). 10 Lettere di Paolo Manuzio copiate sugli autografi esistenti nella Biblioteca Ambrosiana, Parigi, 1834, pp. 128 e 131. Per i criteri di trascrizione cfr. infra, pp. $74-75$. 11 Cfr. N. WIEDLOECHER, La Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi. Periodo di formazione (1402-1483), Gubbio 1929. Legittimi membri della grande famiglia dell’Ordine di S. Agostino, i Canonici Regolari Lateranensi sono sacerdoti e chierici, sono parte del clero e quindi non conducono vita esclusivamente contemplativa, ma hanno la missione diretta del ministero. «È vero che nei primordi della riforma e specialmente a S. Maria di Fregionaia, prevaleva la vita monastica, ma con ciò i canonici non avevano rinunziato alle fatiche del ministero. Può sembrare strano che le costituzioni non parlino dei parroci e si occupino esplicitamente dei predicatori. Come già s’è visto, la riforma, che diè vita alla Congregazione, fu ispirata da un famoso predicatore, D. Bartolomeo da Roma. Egli, dopo aver professato a S. Maria in Fregionaia, continuò la sua missione fino alla fine di sua vita. L’esempio fu imitato e tra i canonici furono sempre in seguito degli individui, i quali di preferenza si dedicavano alla missione di annunziare la parola di Dio» (ibid., p. 153); cfr., inoltre, C. ANDENNA, Studi recenti sui canonici regolari, in Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millennio, a cura di G. ANDENNA, Milano 2001, pp. 101-130. 12 G. GALLICCIOLLI, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche libri tre, II, Venezia 1795, p. 349. 13 Cfr. L. DE GREGORI, La stampa a Roma nel XV secolo, Roma, 1933, pp. 14s. (citato da BARBERI, Paolo Manuzio cit., p. 43, nt. 1). I nomi dei penitenzieri apostolici maggiori sono noti e fra loro quello del futuro vescovo di Chioggia non compare: fra 1565 e 1572 l’incarico di Penitenziere maggiore fu affidato a Carlo Borromeo, cui succedette Giovanni Aldobrandini per un anno; dal 1574 al 1579 subentrò Stanislao Osio, seguito da Filippo Boncompagni (1579-1586), si veda a tal proposito F. Tamburini, Per la storia dei Cardinali Penitenzieri Maggiori e dell’Archivio della Penitenzieria apostolica, in Rivista di storia della Chiesa in Italia 36 (1982), pp. 332-380. 14 G. FIAMMA, Rime spirituali, Venezia, Francesco de’ Franceschi, 1570, ristampate senza

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veneziana15: dopo un primo tentativo di revisione delle posizioni dei padri conciliari compiuta da Pio V con il Motu proprio, tra il luglio e l’agosto l’Inquisizione, autorizzata dalla Repubblica, setacciava a sorpresa le botteghe dei librai e requisiva quantità enormi di libri proibiti. L’anno successivo l’Inquisizione stabilì il ritorno ai divieti e alle censure del 1559, intensificandoli, proprio mentre Fiamma pubblicava presso il medesimo editore delle Rime la prima parte dei Discorsi sopra l’Epistole e Vangeli di tutto l’anno16 e, in una raccolta curata da Giorgio Angelieri, la Parafrasi poetica sopra alcuni Salmi di David Profeta. Molto accomodate per render gratie a Dio della vittoria donata al Cristianesimo contra Turchi. Accioché le nostre allegrezze sieno veramente Cristiane, e grate a sua Divina Maestà, adespota e senza anno di edizione17. L’anno dopo l’istituzione della Congregazione dell’Indice da parte di Pio V (1571)18, Fiamma potrebbe essere di nuovo a Roma presso l’amico Paolo Manuzio19; viene poi eletto “Abate della Carità”20 in Venezia ed è variazioni nel 1573 e nel 1575 (d’ora in poi si citerà solo il titolo, seguito dal numero delle pagine); Orlando di Lasso ne musicò alcune. 15 Cfr. U. ROZZO, Étude du contenu, in Index des livres interdits, IX: Index de Rome. 1590, 1593, 1596. Avec étuds des index de Parme 1580 et Munich 1582 cit., 1994, pp. 28-31. 16 Si tratta di 58 prediche ordinate secondo l’anno liturgico dall’Avvento a Pentecoste e raccolte in due volumi; della seconda parte non ho notizia, nonostante Fiamma ne dichiari l’esistenza nell’esposizione al sonetto 82 delle Rime spirituali. 17 Crescimbeni scrive che i salmi furono composti «in rendimento di grazie a Dio per la vittoria contra Turchi ottenuta a Curzolari» (CRESCIMBENI, Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari cit., pp. 83-84 e nt. 59). Ne dobbiamo l’attribuzione al Cieco d’Adria il quale, secondo quanto scrive Crescimbeni, «nel Trofeo della vittoria ne fa autore Gabbriello Fiamma» (cfr. ibid., p. 84); proprio sulla scorta di questa fonte, il NUC indica come anno di edizione il 1571 (cfr. The National Union Catalogue. A cumulative author list representing Library of Congress printed cards and titles reported by other American libraries, compiled by the Library of Congress with the cooperation of the American library association, 171, Washington 19561957, p. 384); cfr. anche G. MELZI, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani o come che sia aventi relazione all’Italia, II: (H-R), Milano 1952, p. 400. 18 Per una ricostruzione delle vicende che condussero all’istituzione della Congregazione dell’Indice, della sua storia e delle sue attività, si veda almeno FRAJESE, Nascita dell’Indice cit. 19 Paolo Manuzio parla ancora al figlio di un Frate Gabriele o Gabriel nelle lettere del 14 giugno e del 6 settembre 1572 (Lettere di Paolo Manuzio copiate sugli autografi cit., pp. 225 e 234). 20 WIEDLOECHER, La Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi cit., pp. 290-291: «Col nome di “abate”, d’origine siro-caldaica, che significa padre, si chiamavano da principio i grandi uomini del deserto, i quali riunivano intorno a sé molti discepoli, imitatori della loro vita ascetica. La loro denominazione passò poi nella chiesa latina per designare i superiori del monachesimo, come lo dimostra la regola di S. Benedetto. Ma talvolta durante i secoli, in cui la vita comune regolare era esclusivamente praticata dai monaci e da una parte dei chierici, chi presiedeva a questi, era pure chiamato abate. Con la grande riforma dei Canonici regolari dei secc. XI e XII si generalizzò tra essi tale denominazione in varie regioni, p. es. in Francia e Inghilterra, mentre altrove e specialmente in Italia i prelati delle canoniche si chiamavano

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certamente a Napoli nel febbraio 157321, per le prediche della Quaresima pronunciate nella Chiesa dell’Annunziata22; in questo anno diviene Visitatore dei monasteri della Congregazione Lateranense. La morsa della censura continuava a stringersi, tanto che nel 1574 un Aviso a stampa del Maestro di Sacro Palazzo, Paolo Costabili, vietò totalmente le «opere in versi, così latine, come volgare di sacra scrittura»23 senza concedere licenze. Fiamma nel 1575 è a Roma per il Giubileo e l’anno successivo tiene un discorso alla presenza del Doge Luigi Mocenigo nel quale suggerisce il modo per liberare la città di Venezia dal flagello della peste (Tractatus de epidemia et modo illam sanandi habitus anno 1575, in Senatu veneto); nel 1578 è nominato Prefetto del convento di Ravenna24 e, al culmine di una brillante carriera, rifiuta l’elezione a Generale della Congregazione. Due anni più tardi venne promulgato l’Indice di Parma25, che vietava tutti i testi in versi derivati dalla Bibbia, 91. Biblie volg. Testamento Novo. Evang. omnia volg. Les Bibles et les Nouveaux Testaments en langue vulgaire sont condamnés “priori” come a S. Giovanni in Laterano, a S. Frediano di Luca e a S. Maria in Porto presso Ravenna, oppure “preposti” come a S. Croce di Mortara. [...] ogni volta che la loro riforma penetrò in qualche abbazia di monaci, chiesero ed ottennero la soppressione della dignità abbaziale, perché così il monastero divenisse semplice priorato». Dopo averlo richiesto più volte, Sisto IV concesse la rinnovazione dei soppressi titoli abbaziali nel 1480 (cfr. ibid., p. 292); «Ai nuovi Abbati spettavano i distintivi abbaziali e l’uso dei pontificali, essendo essi equiparati agli abati degli ordini monastici», (ibid., p. 293). 21 Cfr. F. CARRAFA, L’Austria… alla maestà dell’Invittiss. Re Filippo suo Signore dove si contiene La vittoria della Santa Lega all’Henchiridion nell’anno 1571, Prieghi per la Unione. Gioie avute per quella. Successi avvenuti dopo la Vittoria per tutto l’anno 1572... Alcune lettere scritte a Papi, a S. Maestà, all’Altezza del S. D. Giovanni, a Prencipi, a Prelati, et altre persone Illustri, con le risposte, in Napoli, appresso Gioseppe Cacchi dell’Aquila, 1573: nelle Lettere, alle cc. 166r-167r, è riportata una lettera di Fiamma da «Nap. à XXVI di Febr. 1573» nella quale si ringrazia per le rime ricevute dal Carrafa; nei Prieghi alle cc. 29v e 31r e nelle Gioie, cc. 75r, 76r, sono riportati quattro sonetti indirizzati a Fiamma. 22 Le Sei prediche vengono pubblicate nel 1576 ancora da Francesco de’ Franceschi a Venezia. 23 Citato da FRAGNITO, La Bibba al rogo cit., p. 131; cfr. EAD., Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna 2005, pp. 160-164. 24 Per la cerimonia di conferimento della carica recita un’orazione latina intitolata De optimi Veneti pastoris munere stampata nello stesso anno dai figli di Aldo Manuzio a Venezia. 25 Ritrovato e pubblicato da FR. H. REUSCH, Die Indices Librorum Prohibitorum des Sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen 1886 (2° ed. anastatica, Nieuwkoop 1961); si veda ora Index di Parma, in Index des livres interdits, IX cit., p. 169, nt. 455. Quello di Parma è la prima applicazione organica dell’Indice tridentino anche alla poesia profana; i suoi promulgatori intendevano porre un freno al proliferare delle eresie che ritenevano favorito dalla diffusione delle versioni in volgare della Bibbia; cfr. U. ROZZO, Étude du contenu, ibid., pp. 17-75.

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dans Roma, 1559, 0127 et 0140 […] 403. Opere moderne in verso, così latine comme volg., di sacra Scrittura. Vide lettera R. 471. Rime della sacra Scrittura, così volg. come latine, cioè quando si fa traduttione del testo della sacra Scrittura in versi. 520. Versi tutti, così lat. come volg., della sac. Scrit. Condamnaion des textes de L’Écriture sainte en vers, en latin et en langue vulgaire26.

Nel medesimo Indice comparvero anche le Rime spirituali. Se evidentemente, come sostiene Clara Leri, […] l’inclusione delle Rime del Fiamma nell’Indice di Parma del 1580 non fu né un errore né una vendetta, ma rientrò nella coerente estensione del principio sancito dal Concilio di Trento — la regola IV — contro il moltiplicarsi di esposizioni in volgare e di libere traduzioni e interpretazioni della Bibbia. Non per nulla, le Rime spirituali del Fiamma accoglievano oltre alle liriche di impronta palesemente scritturale, se non derivanti addirittura per “spiegazione” dai singoli versetti biblici, anche nell’edizione del 1575, una quindicina di parafrasi salmiche27,

tuttavia, Salvatore Bongi nella Introduzione agli Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari, scriveva che nel 1580 all’Indice di Parma c’erano «fino»28 le rime di Burchiello, di Bembo e di Fiamma, sottolineando l’enormità di una tale selezione29. Ma ormai l’attività letteraria di Fiamma era giunta al suo esaurimento: pubblicherà solo la prima parte delle Vite de’ santi divise in XII libri nel 158130, dedicate a Gregorio XIII; e nel 1583, pochi mesi prima dell’abrogazione della regola IV dell’Indice tridentino da parte di Carlo Borromeo per volontà della Congregazione dell’Inquisizione, curerà l’opera di Giacomo 26

Index des livres interdits, IX: Index de Rome, 1590, 1593, 1596. Avec étude des index de Parme 1580 et Munich 1582 cit., 1994, pp. 95 e 160 e cfr. U. ROZZO, Étude du contenu, ibid., pp. 52-53. 27 C. LERI, Bibbia e letteratura. Rassegna di un trentennio di studi (1965-1995), in Lettere italiane, 49 (1997), p. 329. 28 Cfr. S. BONGI, Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Torino di Monferrato stampatore in Venezia, I, Roma 1890, p. XXXVI, nt. 1. 29 Poco prima aveva citato la captatio benevolentiae dell’Introduzione alle Rime in cui l’autore commenta l’operato di papa Paolo V: «Il Christianesimo per gli essempi e per la diligenza del santissimo pontefice Pio V, va lasciando la vanità et attende a riformare i costumi d’ogni conditione e d’ogni qualità di persona», (ibid., p. XXXI, nt. 1). 30 A Venezia, presso gli eredi di Pietro Deuchino: contiene i mesi di gennaio e febbraio. La seconda parte, riguardante i mesi di marzo e aprile, vede la luce nel 1583 presso Paolo Zanfretti.

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Tribesco Praeclarissimae responsiones, ad mille quaesita in omni ferè facultate. Ex omnibus diui Aurelii Augustini libris excerptae, & in vnum congestae, edita a Venezia da Antonio Ferrari; dedicherà gli ultimi anni di vita agli impegni che l’imminente nomina a vescovo di Chioggia gli imporrà numerosi31. In seguito alla morte di Marco Medici vescovo di Chioggia (avvenuta il 30 agosto 1583), molte erano state le richieste perché il successore fosse Gioseffo Zarlino, francescano, teorico musicale e maestro di cappella di S. Marco; ma il 23 gennaio 1584 papa Gregorio XIII nomina Gabriele Fiamma32, che si insedia ufficialmente il 7 marzo33 e di lì a poco interviene al Capitolo generale nella Canonica di Porto a Ravenna con l’orazione De otio. A Chioggia, col sostegno del podestà Giovanni Da Lezze, il nuovo vescovo si fa promotore del completamento della chiesa della Beata Vergine di Marina, detta della Navicella, della quale erano state gettate le fondamenta nel 1508, e la consacra il 24 febbraio 158534. Dopo sedici mesi di episcopato, Fiamma muore a Chioggia il 14 luglio35 1585, come dice Crescimbeni, non senza imprecisioni, «d’anni 54, per ri31

Si veda la documentazione autografa di Fiamma redatta in volgare e in latino custodita presso la diocesi di Chioggia, Liber Primus auctorum, EPO Clodiense, Io. Bapt.a CARRARIO CANCEL.O, VOLUMEN EST FOLIORUM 413, N. 12, «D. Gabriele Flama»: il primo testo datato risale al 24 aprile 1585 ma compaiono infra anche documenti datati tra il 1580 e il 1582 e successivi al 1585. Cfr. inoltre A. ALBORESI, Gabriele Fiamma vescovo di Chioggia (1584-85), tesi di Laurea discussa nell’A.A. 1971-72, relatore Prof. Benedetto Nicolini, Università di Bologna, che ricostruisce l’attività di Fiamma e fornisce la trascrizione degli atti della Diocesi di Chioggia. 32 Come scrive Santini, dopo esser stato scagionato dall’accusa mossagli dall’Inquisizione di promulgare «idee ereticali […] fu premiato da Gregorio XIII col vescovado di Chioggia» (E. SANTINI, L’eloquenza italiana dal Concilio tridentino, I: Gli oratori sacri, Milano 1923, p. 42). 33 È il XLV vescovo della diocesi di Chioggia e sceglie come stemma un troncato: nel primo d’argento all’aquila spiegata; nel secondo d’argento al fuoco ardente di rosso (cfr. I vescovi della Diocesi di Chioggia. Dal 1110 ai giorni nostri, secolo XVI, XLV – 1584 cit. e G. A. GRADENIGO, Vita di mons. Gabriel Fiamma, in G. FIAMMA, Rime spirituali, Treviso 1771, frontespizio). Un suo ritratto era collocato nella chiesa clodiense della Navicella presso l’altare maggiore, dalla parte del Vangelo; presso la Pinacoteca Ambrosiana è conservato un altro ritratto di scuola lombarda (1640-1660), olio su tela, 65 49 cm, scheda a cura di M. C. TERZAGHI, cfr. http://www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede/L0030-00056/. 34 Storia religiosa del Veneto. Diocesi di Chioggia, a cura di D. DE ANTONI, Padova 1992, pp. 69-70: «L’attività dei vescovi clodiensi non fu limitata a controllare, per migliorarla, la religiosità del popolo e a reprimere ogni minimo cenno di eresia. Essi, seguendo il Tridentino, si misero sulla strada di una più ampia riforma della diocesi, ricorrendo ai mezzi che lo stesso concilio aveva indicati, oltre ai sinodi, le visite pastorali. […] La norma tridentina venne invece scrupolosamente osservata da Gabriele Fiamma nel 1584-85, dal vescovo Massimo Beniamo, che visitò la diocesi quattro volte». 35 Galliccioli annota il giorno 15 (cfr. GALLICCIOLLI, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche libri tre, II cit. pp. 349-350).

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scaldazione presa nell’orare a’ Re del Giappone, che passarono per la sua città»36. È accertato che fossero ambasciatori di vari re del Giappone di ritorno da Roma, dove si erano recati per rendere omaggio al papa in seguito alla conversione compiuta grazie ad alcuni missionari gesuiti37 — il vescovo li accoglie, pronuncia un’orazione in latino in loro presenza e in presenza del clero e del podestà, e poi li accompagna fino a Venezia38 —; quanto alla data di morte, sembrerebbe più attendibile Apostolo Zeno, il quale scrive che «Nel libro de’ morti di Venezia nella contrada di san Basilio (volgarmente, Basegio) trovasi notata la morte di lui ai XV di Luglio del 1585 in età di anni LII, rapitoci in nove giorni da febbre maligna»39. In morte del vescovo di Chioggia l’editore Niccolini di Venezia avrebbe pubblicato nel 1586 una Raccolta di rime dedicate a Francesco, figlio di Ferrandino40.

36 Cfr. CRESCIMBENI, Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari cit., p. 83. La notizia non doveva esser corsa velocemente se Giordano Bruno in una conversazione col Cotin del 12 dicembre di quell’anno dichiarava, a proposito dell’oratoria sacra, che «monsignor Gabriele Fiamma scadeva di giorno in giorno per la vecchiaia, al punto da pentirsi di non avere smesso a tempo, non essendo ricordato neanche in quei luoghi in cui più era stato acclamato» (V. SPAMPANATO, Vita di Giordano Bruno. Con documenti editi e inediti, I, Messina 1921, p. 189). 37 Cfr. Nuova serie de’ vescovi di Malamocco e di Chioggia accresciuta e con documenti in gran parte ora sol pubblicati. Illustrata da Girolamo Vianelli ... Parte Seconda che contiene i vescovi di Chioggia dall’anno 1421 in poi, Venezia 1790, ristampa anastatica a cura di S. PERINI, Chioggia 1999, pp. 180-195. Sul viaggio degli ambasciatori del Giappone cfr. G. MALENA, Le ambascerie giapponesi in Italia (1585, 1615) ed il loro lascito nell’editoria e delle arti, in ItaliaGiappone. 450 anni, a cura di A. TAMBURELLO, Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, Roma – Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” 2003, pp. 41-51. 38 Cfr. I vescovi della Diocesi di Chioggia cit. È probabile che l’affaticamento abbia aggravato una condizione di salute già precaria e predisposta a questo tipo di malori: nella lettera a Cesare Gonzaga del 20 marzo 1562 Fiamma, infatti, scrive di avere il braccio infermo: «[…] avendomi levato questa mattina sei once di sangue, che mi bisognava per una pestilente ebollizione di sangue nata dal travaglio della predica» (Lettere di scrittori italiani dal secolo XVI cit., p. 145). 39 A. ZENO, Annotazioni a G. FONTANINI, Biblioteca dell’eloquenza italiana, II, Parma 1804, p. 101. Viene sepolto nel monastero della Carità, cfr. F. UGHELLI, Italia Sacra sive de Episcopis Italiae, V, Venezia 1720, col. 1355. 40 Cfr. CRESCIMBENI, Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari cit., p. 84, nt. 60.

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3 SULLE TRACCE DI UN LIBRO SCOMPARSO Per la ricostruzione dell’attività letteraria di Fiamma fondamentali sono le indicazioni che l’autore stesso dissemina nei suoi testi. Nell’esposizione al sonetto XXV apprendiamo che durante il ritiro spirituale di Treviso egli si era dedicato principalmente allo studio dei Salmi: Mentre l’autor d’intorno allo studio de’ Salmi di David stava con diligente attenzione occupato e, considerando quanto quel divino autore sia grande e nella profezia e nella poesia, andava cercando d’imitar qualche suo spirito in queste sue poesie che tuttavia allora veniva scrivendo [] almeno desidererebbe d’aver tanta grazia che felicemente potesse tradurre di Ebreo in questa nostra Toscana favella i Salmi, già da lui composti. E cominciò a tradurne alcuni, de’ quali ha voluto porre il primo nel fine del presente commento per dare qualche gusto di quanto desiderasse fare in tutti gli altri. […] E, poiché l’autor, come s’è detto sopra, ha questo desiderio di far tutti i Salmi, come ne ha fatti molti, oltre a quei che sono sparsi per questo libro, ha voluto metter qui sotto il primo che di tutti gli altri, come dicono gli espositori, è quasi il proemio1.

Apprendiamo inoltre che era riuscito a redigere, completamente o in parte, anche una quantità di altri lavori, elencati nell’esposizione al sonetto LXXXII: […] in questo luogo ha fatto l’autore la maggior parte di queste Poesie ed ha scritto sopra tutti i Vangeli e sopra tutte le Epistole che si leggono e le domeniche e le feste, alcuni brevi ma non aridi o vuoti Discorsi. Ha scritto ancora gli Avvertimenti morali sopra tutta la Bibbia, ha dato buon principio al Dizionario Teologico, ridotte le prediche, fatte da sé in questa ed in quell’altra città, a termine che potranno tosto uscire e forse con qualche frutto; ha fatto molti studi d’intorno a’ Salmi, disposto di tradurli tutti con le loro parafrasi, simili a questi pochi che sono sparsi in queste Rime, s’egli vedrà che questo modo suo di tradurre piaccia all’universale: ha scritto sette Prediche sopra le parole che disse nostro Signore in croce per fare una felice concorrenza, quando potranno le sue forze deboli, all’illustrissimo e Reverendiss. Mons. 1

Esposizione al sonetto XXV delle Rime Spirituali, pp. 84-85 e 86. Il salmo che segue è il

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Guevara; e finalmente s’ha fatto un buon raccolto di cose ch’ei potrà impiegar variamente nel servizio di Dio2.

A quei pochi mesi del 1565 risalirebbe dunque la composizione di quasi tutte le sue opere edite ed inedite, in prosa e in versi: la trascrizione di discorsi e prediche, la redazione di un commento morale sulla Bibbia e di un dizionario teologico, la composizione della maggior parte delle rime e di alcuni volgarizzamenti poetici dai salmi in vista di un’edizione integrale del Saltario in volgare. Eppure, più della diretta testimonianza dell’autore, è Carlo Fiamma la fonte alla quale si ispirerà letteralmente tutta la tradizione storico-critica sull’attività letteraria dello zio Gabriele; nella Tavola de’ gli autori del suo Sacro Tempio egli annota: scrisse e stampò sei Prediche sopra il Vangelo Missus est, un volume sopra le feste principali dell’anno, un volume sopra le Epistole et Evangeli delle Dominiche di tutto l’anno, un Dizionario Teologico, tre volumi delle Vite de’ Santi che servono per sei mesi, ma sono più di quattrocento vite; un volume di Rime commentate da lui, tradusse tutto il Salmista con varie tessiture di versi, ma con una ampiezza che ha più della parafrasi, che della traduzione, ne stampò un volume di quaranta con le sue esposizioni, tutte piene di pensieri predicabili; compose le morali sotto titolo di simili, opera divina, se fosse stata perfezionata, la quale si smarrì affatto nella Corte del Signor Duca di Mantova, con la morte del Padre Lauro Badoaro suo nipote e consigliero di quella Altezza. Morì di anni 54, Vescovo di Chioggia, per riscaldazione presa nell’orare a’ Re del Giappone che passarono per la sua Città3. 2

Rime spirituali, pp. 296-297. [C. FIAMMA], Tavola de gli Autori, in Il Sacro Tempio Dell’Imperatrice de’ Cieli Maria Vergine Santissima. Fabricato de’ più purgati Carmi c’abbiano composti i primi Poeti d’Italia, così antichi, come moderni. Fatica Del Confuso Accademico Ordito. Nella quale con buon’ordine è tutto quello che è stato detto in lode di essa nostra Signora. Con due Tavole, una de’ Capi, l’altra degli Autori, e de’ Versi…, Vicenza, Francesco Grossi, 1613, pagine non numerate. Crescimbeni (Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari cit., p. 84, n. 60) riporta pedissequamente le parole di Carlo Fiamma, così come quasi le stesse erano state del Superbi: «Tradusse con bellissime parafrasi tutto il Salmista, e ne stampò solo la prima parte» (F. A. SUPERBI, Trionfo glorioso, I, cit., p. 126). Anche Francesco Sansovino elenca tra le opere del Fiamma una raccolta di parafrasi dei Salmi: «mandò fuori Prediche in diverse materie libro primo. Rime, e versi spirituali con le sue annotazioni. Sermoni morali. Annotazioni sopra tutta la Bibbia. Un Dizionario Teologico. Sette Prediche sopra sette parole de Cristo dette in Croce. Parafrasi sopra i Salmi di David. Le Vite dei santi; e un libro detto: De Christo praesignato, in lingua latina» (F. SANSOVINO, Venetia città nobilissima et singolare, Descritta in XIIII. libri… con aggiunta di tutte le Cose Notabili della stessa Città, fatte e occorse dall’Anno 1580. fino al presente 1663 da Giustiniano Martinioni…, in Venetia, Appresso Steffano Curti, 1663, p. 622). La banca dati del RICI alla voce «Autore: Fiamma», riporta un titolo riguardo al quale non sono in grado di compiere ulteriori verifiche, ma che, per la evidente inconguità rispetto agli altri, 3

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3. SULLE TRACCE DI UN LIBRO SCOMPARSO

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Celso Rosini in calce all’ampia biografia di Fiamma annovera fra gli altri un Dictionarium theologicum venetiis in latino, un libro di Parafrasi ad Psalmos David, un volume di Notae ad universa Biblia latine — si tratta quasi certamente di opere a stampa, dal momento che del Tractatus de epidemia precisa che «extat apud nos manuscriptus»4. Anche Ughelli, ricorrendo a Ghilini, cita una Psalmorum expositio e un Dictionarium Theologicum5. Monsignor Gradenigo, con maggiore precisione, nella lista delle «Opere inedite. E forse anche tutte perdute»6 inserisce una Parafrasi poetica de’ Salmi di David che dice essere stata annunciata dallo stesso Fiamma nell’esposizione al sonetto LXXXII, della quale ammette di non sapere nulla, e una raccolta di Esposizioni Morali sopra i Salmi, che dà per inedite e di cui riporta la storia dello smarrimento presso la corte di Mantova. Inoltre, secondo Apostolo Zeno: […] si ha una bella medaglia, battuta in tempo che non era ancora vescovo, nel cui diritto si legge Meminisse iuvabit. Egli vi si scorge effigiato col suo abito di canonico regolare, in atto di contemplare una testa di morto. Nel rovescio poi vi ha una lunga leggenda la quale ci dà notizia di varie circostanze della sua vita e delle opere da lui stampate e di altre che in pronto tenea per la stampa. Era allora il Fiamma di anni XLV7.

Questo dato è ripreso da Tiraboschi che attesta la presenza della medaglia nel Museo Settaliano8: nel catalogo del Museo di Manfredi Settala variamente riproposti da tutte le fonti, potrebbe essergli stato attribuito erroneamente: BIB52721; TIT70617; Sopra la phisica e metaphisica (stampa); «Lista de libri che sonno in casa di Ascanio Marotta. / Li testi civili e canonici»; Vat. Lat. 11269, c. 129r; Possessore: Ascanio Marotta; ELE1928; OSBCas [sc. Congregatio Casinensis ordinis S. Benedicti]. 4 Il discorso viene pubblicato postumo nel 1630 a Milano da Giovanni Battista Bidelli. Le altre opere citate sono le Vite dei santi, le Rime spirituali del 1575 («Carmina Spiritualia Etrusco idiomata»), le Prediche extravaganti edite da Fancesco de’ Franceschi nel 1590, le Prediche sul Missus est di Napoli, il Discorso sulle epistole e sui vangeli del 1574, un De Christo praesignato in latino, l’Oratio pastoris munere (Aldum, 1578) e un Theorematum paradoxarum disputationi propositum Patavii (de Rosinis, Lyceum Lateranense, I/VII cit., p. 335). 5 Cfr. G. GHILINI, Teatro d’uomini letterati, I, Venezia, Guerigli, 1674, pp. 67-68); UGHELLI (Italia Sacra cit., col. 1355) aggiunge anche le Vite, i sermoni morali, le considerazioni sulla Bibbia, le orazioni sulle sette parole pronunciate da Cristo sulla croce, le Rime Spirituali e un libro di prediche dedicate alla Vergine. 6 GRADENIGO, Vita di mons. Gabriel Fiamma cit., pp. LII-LIII. 7 A. ZENO, Annotazioni a G. FONTANINI, Biblioteca dell’eloquenza italiana, I, Parma 1803, p. 152. 8 È inserita fra quelle dei «Magnates in bello, et pace illustres» (cfr. Musæum Septalianum Manfredi Septalæ patritii Mediolanensis industrioso labore constructum; Pauli Mariæ Terzagi Mediolanensis physici collegiati geniali laconismo descriptum; politioris literaturæ professoribus erudita humanitate adapertum: cum Logocentronibus, siuè centonibus eiusdem Terzagi… Dertonæ, typis filiorum qd. Elisei Violæ, 1664, p. 238).

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la medaglia è solo descritta e compare invece nel Museo di Gian Maria Mazzuchelli, riprodotta in un disegno nel quale si legge: GABRIEL FLAMMA VENETIIS ORIUN PAT. IO FR. I V DOC ET EQU.MAT.VINCENTIA DIEDA PATRICII.GEN ADHUC PUER POLITIORIB.LITERIS EGREGIE NAVAVIT OPERAM TRESDECIM NATUS ANNOS CANONICORUM REGULARIUM ORDINEM INGRESSUS.PHILOSOPHIAE ATQUE THEOLOGIAE STUDIA MIRUM IN MODUM EST AMPLEXATUS.IN IPSO AETATIS FLORE AD ILLUSTRISSIMAS ITAL.CIVITATES CONCIONES DIV HABUIT,QUIBUS DIVINAM PRISCORUM PATRUM ELOQUENTIAM AEMULATUS NON PARVAM NOMINIS GLORIAM EST ASSEXCUTUS IN TRACTANDIS REBUS SUMMA DEXTERITATE USUS EST.EAQUE PROCERUM POTENTUMQUE OMNIUM QUIBUSCUM EGIT, ANIMOS MIRE SIBI DEVINXIT.HAEC INGENII SUI MONUMENTA EDIDIT.SERMONUM TOMOS III CONGIONUM QUAS IN TEMPLIS HABUIT TOMOS III DIVINORUM CARMINUM CUM EXPLANATIONIBUS TOMOS II. SIMILIUM LIBROS VI MINORUM OPERUM TOMUM I. MOLITUR NUNC DICTIONARIUM THEOLOGICUM, ATQUE DE CHRISTO PRAESIGNATO NON CONTEMNENDA COMMENTARIA.ANNUM AGIT 9.

9 Il dato cronologico di Tiraboschi sembrerebbe corretto, dal momento che Fiamma non è annoverato nell’indice tra i vescovi, ma fra i numismata virorum doctrina praestantium; la medaglia è descritta in latino e in italiano come segue: «Huius Numismatis Pars Posterior exactam studiorum, gestorumque, atque scriptorum Gabrielis Flammae veneti Concionatori sui temporis egregii descriptionem exhibet, ut nobis non sit in eo supervacanee laborandum. Hominis calvaria, quam Gabriel ipse in adversa Numismatis facie contemplatur, additis verbis: MEMINISSE IUVABIT, admonet mortis memoriam ad dirigendam, componendamque vitam hominibus opportunissimam esse, cujus obliviscentes plerumque in Sagitia deflectunt, dignissimum Ecclesiastici Viri monitum, sacroque Oratori accommodatissimum. / Dal rovescio della presente medaglia somministrata ci viene la descrizione così minuta degli studj, dei fatti, e della Opere del Veneziano predicatore Gabriele Fiamma, che non dobbiamo far gitto di tempo nel dirne di avantaggio. La testa di morto, cui Gabbriello nel dritto della Medaglia contempla, aggiuntevi le parole: MEMINISSE IUVABIT, ci avverte, acconcissima essere agli uomini per la direzione, e pel Savio tenore della vita, la memoria della morte, traboccando in ogni bruttura coloro, che la dimenticano. Avvertimento sommamente degno d’uomo Ecclesiastico, ed egregiamente ad un Sagro Oratore appropriato» (G. M. MAZZUCHELLI, Museum… seu numismata virorum doctrina praestantium, quae apud Jo.Mariam Comitem Mazzuchellum Brixiae servantur a Petro Antonio de Comitibus Gaetanis brixiano presbytero, et patritio romano, edita atque illustrata accedit versio italica studio equitis Cosimi Mei elaborata,

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3. SULLE TRACCE DI UN LIBRO SCOMPARSO

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Dalle testimonianze appare verisimile che Fiamma abbia curato due lavori distinti dedicati al Salterio: un libro di parafrasi con esposizioni annunciato dall’autore, e di cui Carlo Fiamma testimonia l’avvenuta stampa, e una raccolta di esposizioni morali che sarebbe rimasta nella biblioteca del nipote Lauro Badoer10 presso la corte dei Gonzaga11. Ma fino ad oggi erano noti solamente pochi sparsi volgarizzamenti dei salmi: i dieci salmi — 1, 2, 3, 13, 32, 103, 104, 106, 132, 137 — intercalati nelle Rime spirituali del 1570 con titolazione disomogenea e seguiti come il resto dei componimenti da una esposizione, nel seguente ordine relativo: Benedic, anima mea, Dominum: Domine Deus meus, magnificatus es vehementer. Salmo CIII (p. 36) Super flumina Babylonis, illic sedimus. Salmo CXXXVI (p. 71) Il primo salmo de David (p. 86) Il salmo terzodecimo (p. 211) Salmo centesimosesto di David, che incomincia: Confitemini domino, quoniam bonus (p. 217) Salmo terzo di David (p. 237) Oda sopra il secondo Salmo di David, che comincia: Quare fremuerunt gentes (p. 259) Salmo XXXIII di David. Dominus regit me, nihil mihi deerit (p. 374) tomus primus, Venetiis, MDCCLXI, Typis Antonii Zatta, superiorum permissu, ac privilegio, Tabula LXXXVI, nr. I, p. 383). 10 «Lauro Badoaro. Veneziano legittimo figliuolo d’Ippolito, fu Religioso della Congregazione de’ Crociferi, predicò ne’ primi pulpiti d’Italia, ebbe i primi onori nella sua Religione, lodò la felice memoria del Pontefice Sisto Quinto con una Canzone singolare; stampò un volume di rime sacre, tradusse i Salmi Penitenziali in versi Lirici, scrisse alcune vite de’ Santi, che seguitavano l’Opera di Mons. Fiamma suo Zio; fatto Teologo e Consigliere del Serenissimo di Mantova Don Vincenzo Gonzaga, in età di anni 47, morì d’idropisia, lasciando molte cose belle in penna, che si sono smarrite» ([C. FIAMMA], Il Sacro Tempio cit., Tavola de’ gli auttori). Da Crescimbeni apprendiamo che nacque e morì a Venezia (1546-1593), che col nome l’Agitato è autore, tra l’altro, di Rime spirituali (Bologna, 1571?) e di parafrasi dei Salmi penitenziali (Mantova, 1591 e 1594), fu vescovo di Alba per volere di Vincenzo Gonzaga e non fu mai vescovo di Mantova, forse perché morì prematuramente. Cfr. CRESCIMBENI, Dell’istoria della volgar poesia, IV: De’ comentari cit., p. 84, nt. 60. 11 La connessione con Mantova e la corte dei Gonzaga sembra piuttosto solida: non solo Lauro Badoer fu «teologo e consultore» del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, ma i Gonzaga, protettori dell’ordine dei Lateranensi, insieme a Marcantonio Colonna, avevano contribuito a sollevare Fiamma dalle accuse mossegli dal Tribunale dell’Inquisizione presieduto dal cardinal Ghislieri il 19 marzo 1562, e a un Gonzaga, il vescovo di Barletta, Vincenzo, Fiamma dedica la raccolta di 12 prediche, suo primo libro (cfr. G. MAZZUCHELLI, Gli scrittori d’Italia, cioè, Notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, II/I, Brescia 1758, p. 34; L.-G. MICHAUD, Biographie universelle, ancienne et moderne, XIII, Paris 1811, p. 203; SUPERBI, Trionfo glorioso cit., pp. 137-138).

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Salmo CXXXII di David, che incomincia: Ecce, quam bonum, et quam iocundum habitare fratres in unum (p. 491) Il Salmo CIII di David. Benedic, anima mea, dominum; et omnia, quae intra me sunt, nomini sancto eius (chiude la raccolta, p. 510); seguiti, dai sei salmi della plaquette adespota pubblicata nel 1571: 148, Laudate Dominum Caelis 149, Cantate Domino Canticum novum. Laus eius in ecclesia sanctorum 150, Laudate Dominum in sanctis eius 95, Cantate Domino cantum novum, cantate Domino omnis terra 123, Nisi quia Dominus erat in nobis 128, Saepe expugnaverunt me. Sul volume di esposizioni smarrito a Mantova, nonostante si trovi una qualche conferma almeno della localizzazione nelle parole di Superbi, il quale, dopo aver elencato le opere di Fiamma, scrive «E lasciò scritti 2 quadrag. et un lib. de similitudini nella libraria di Mantova»12, non ci è consentita alcuna congettura13. È ragionevole immaginare invece che le quaranta parafrasi dei salmi citate da Carlo Fiamma siano le stesse che si custodiscono nella Biblioteca Apostolica Vaticana sotto il titolo Della parafrasi poetica del Rev. D. Gabriele Fiamma sopra Salmi libro I14. 12

SUPERBI, Trionfo glorioso cit., p. 127. La storia della biblioteca dei Gonzaga è piuttosto complessa: proprio alla fine del XVI secolo iniziava un declino che si sarebbe compiuto definitivamente durante il secolo successivo; Carlo I di Nevers-Gonzaga, successore di Vincenzo II Gonzaga, vendette un primo fondo a Carlo Emanuele I di Savoia e, con la morte di Ferdinando, ultimo duca dei Gonzaga, nel 1708 la dispersione fu completa. Si vedano C. SANTORO, La biblioteca dei Gonzaga e cinque suoi codici nella Trivulziana di Milano, in Arte, pensiero e cultura a Mantova nel primo Rinascimento in rapporto con la Toscana e con il Veneto, Atti del Convegno Internazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze – Venezia – Mantova, 27 settembre – 1 ottobre 1961, Firenze 1965, pp. 87-94; G. CONIGLIO, I Gonzaga, Milano, dall’Oglio, 1967; I. PAGLIARI, La biblioteca della corte Gonzaga. Un itinerario di ricerca e un progetto multimediale per ricostruire la collezione di codici dei signori di Mantova, Civiltà mantovana 32 (1997), pp. 33-55; D. E. RHODES, A bibliography of Mantua: 3. Venturino Ruffinelli (1544-1558), in La Bibliofilia 58 (1956), pp. 167-175; R. TAMALIO, La memoria dei Gonzaga. Repertorio bibliografico gonzaghesco. 1473-1999, Firenze 1999. 14 Cfr. il catalogo on-line della Biblioteca Apostolica Vaticana: http://www.vaticanlibrary.vatlib.it/BAVT/integration/chooseCatalogIta.asp. L’esemplare è custodito nella sezione MAG; Fondo: STAMPATI; Collocazione: R.I.IV.447. Titolo uniforme: Biblia. V.T. Psalmi. Italiano; Titolo: Della parafrasi poetica del reverendo D. Gabriel Fiamma sopra Salmi libro primo. Pubblicazione: [S.n., s.l., Anno di pubblicazione: s.d.]; Descrizione fisica: 226 p. 25 cm. Note: Intitolazione della prima pagina. Front. manca. Lingua: ita; Data record: 940606. 13

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Si tratta di un testo a stampa in-ottavo di 226 pagine privo di frontespizio, la cui prima pagina riporta il titolo nella forma appena esposta, una silografia e parte del primo salmo. La sopravvivenza di una sola copia al momento documentabile, priva delle indicazioni bibliografiche essenziali, rende molto difficoltosa la ricostruzione della storia di questo volume che presenta altri elementi anomali. La silografia15, di dimensioni inferiori rispetto al formato della pagina e incorniciata da un fregio di stile presumibilmente seriore, sembrerebbe rappresentare il Re Davide intento alla composizione dei Salmi: in una stanza un uomo barbuto e dai capelli folti e ricciuti, ma non lunghi, abbigliato con vesti piuttosto voluminose e recante in capo una corona comitale con le nove perle, è seduto, dando la schiena all’osservatore, su uno sgabello con un cuscino decorato ed è intento a scrivere su un tavolo coperto da un manto; sul tavolo sono disposti solo un libro e un calamaio; alla destra dell’uomo è visibile un tendaggio e, sullo sfondo, di fronte a lui, sono visibili attraverso una finestra aperta alcune costruzioni. L’immagine può essere ricondotta all’iconografia dello studiolo16, ma il confronto con immagini simili a me note non mi consente alcuna congettura. Spiega Francesco Barberi che «un’immagine sola nella prima pagina del libro, rara nell’ultimo decennio del Quattrocento, lo divenne ancor più in seguito» e che «i libri privi di frontespizio nel nuovo secolo [il XVI] scompaiono rapidamente, eccetto le stampe popolari»17; difficilmente si può in questo caso ricondurre il testo a questa tipologia e, in ogni caso, nemmeno i cataloghi e le bibliografie ad essa dedicate ne danno testimonianza18. 15 Cfr. P. KRISTELLER, La silografia veneziana, in «Archivio storico dell’arte», 5 (1892), pp. 95-114. 16 Cfr. U. ROZZO, Lo studiolo nella bibliografia italiana (1479-1558), Udine 1998; ID., Il libro e il suo mondo nelle immagini dei testi a stampa tra XV e XVI secolo, in Storia per parole e per immagini, a cura di U. ROZZO e M. GABRIELE, Udine 2006, pp. 87-113; G. PETRELLA, Uomini, torchi e libri nel Rinascimento, Udine 2007, pp. 59-75. Si vedano, inoltre, D. THORNTON, The Scholar in Study. Ownership and Experience in Renaissance Italy, Yale University Press 1997 e W. LIEBENWEIN, Studiolo. Storia e tipologia di uno spazio culturale, a cura di C. CIERI VIA, Modena 2005. 17 F. BARBERI, Il frontespizio nel libro italiano del Quattrocento e del Cinquecento, Milano 1969, pp. 108 e 81. 18 Cfr. Bibliografia delle stampe popolari italiane, I: Stampe popolari della Biblioteca Marciana, a cura A. SEGARIZZI, Bergamo 1913; M. SANTORO, Stampe popolari della Biblioteca Trivulziana, Milano 1964; L. BALDACCHINI, Bibliografia delle stampe popolari religiose del XVI-XVII secolo, Biblioteca Vaticana, Alessandrina, Estense, Firenze 1980; M. CORTELLAZZO, Stampe popolari, Padova 1989; P. F. GRENDLER, Il libro popolare nel Cinquecento, in La stampa in Italia nel ’500, Atti del Convegno, Roma, 17-21 ottobre 1989, a cura di M. SANTORO, Roma 1992 e ID., Form and Function in Italian Renaissance Popular Books, in Renaissance Quarterly 46 (1993), pp. 451-485.

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Nessuno dei maggiori cataloghi e repertori bibliografici, nessuno studio specialistico, nessuna storia letteraria ne dà conto19. Nel secolo XVII, Andrea Rubbi inserisce nel Parnaso de’ poeti classici il salmo XXII L’eterno alto motore, il salmo CIII O qual dolcezza apporta e il salmo XCV Del gran Fattor’eterno e nel Parnaso Italiano riporta, con la definizione di volgarizzamento, ancora il salmo CXXXII e il salmo CII Tu più pura, preceduti da brevi cenni biografici20; ma, dal momento che tutti questi componimenti compaiono nelle due opere edite conosciute, è improbabile che avesse contezza del libro dei quaranta salmi. Se Tiraboschi, poi, non ha nessuna idea del libro delle parafrasi21, Jacopomaria Paitoni nella Biblioteca degli autori antichi greci, e latini volgarizzati22 parla di Fiamma, cita i salmi delle rime, quelli del 1571, ma non parla della Parafrasi23. Alberici nel suo Catalogo breve di scrittori veneziani, pubblicato nel 1605, dichiara «Sono accertato, che aveva scritte molte altre opere, [oltre alle citate prediche, rime e vite dei santi], et specialmente un Dizionario Teolo19

Oltre ai tradizionali cataloghi a stampa, sito di riferimento per le ricerche bibliografiche del secolo XVI è l’Edit16, http://edit16.iccu.sbn.it/web_iccu/ihome.htm, che raccoglie ormai grandissima parte dei cataloghi italiani; si sono consultati, inoltre, gli OPAC italiani, europei, statunitense, australiano e canadese; le Claves editoriali risultano, evidentemente, strumenti non utilizzabili; ma neanche Rhodes ha offerto testimonianze utili (cfr. D. E. RHODES, Silent Printers. Anonymous printing at Venice in the Sixteenth Century, London 1995). Nessuna indicazione nemmeno in A. QUONDAM, Saggio di bibliografia della poesia religiosa (1470-1600), in Paradigmi e tradizioni, numero unico di Semestrale di Studi (e Testi) italiani 16 (2005), a cura di ID., pp. 213-282 (http://www.disp.let.uniroma1.it/contents/?idPagina=100). Per una rassegna più ampia cfr. Bibliografia e Sitografia. 20 Cfr. A. RUBBI, Parnaso de’ poeti classici d’ogni nazione trasportati in lingua italiana, III, Venezia 1793, pp. 118-121; ID., Parnaso Italiano, Lirici de’ secoli IV, V, VI, cioè dal 1501 al 1835, Venezia 1851, coll. 2272-2275. 21 G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, VII: Dall’anno MD all’anno MDC, III, Milano 1827, pp. 1710-1712. 22 J. PAITONI – C. R. SOMASCO, Biblioteca degli autori antichi greci, e latini volgarizzati, che abbraccia la notizia delle loro edizioni: nella quale si esamina particolarmente quanto ne hanno scritto i celebri Maffei, Fontanini, Zeno, ed Argellati. Tomo quinto, In cui si dà la relazione de’ Volgarizzamenti della Bibbia, e delle cose spettanti al MESSALE, ed al BREVIARIO, e la Tavola de’ Nomi degli Autori de’ Volgarizzamenti in essa riferiti, o citati, V, Venezia 1767: tra i Centoni de’ Salmi annota i «Nove Salmi esposti in rime», elencandoli come segue: «103, 137, 1, 106, 3, 2, 23, 132, 102 (benché per errore si dica CIII)», (p. 104) e la Parafrasi poetica sopra alcuni salmi di David molto accomodata… (p. 104); inoltre, tra i «Volgarizzamenti de’ Sette Salmi penitenziali» dà conto di un’altra parafrasi: «Il Benedicite parafrasato da Gabbriel Fiamma, sta nelle sue Rime Spirituali» (p. 220). 23 Come è immaginabile, nemmeno Possevino cita questo libro; cfr. A. A. POSSEVINO, Bibliotheca selecta de ratione studiorum, ad disciplinas, & ad salutem omnium gentium procurandam. Recognita nouissime ab eodem, et aucta, & in duos tomos distributa. Triplex additus index. Alter librorum, alter capitum vniuscuiusq. libri, vt vniuersa ipsorum materia statim incurrat in oculos. Tertius verborum, & rerum…, Venetiis, apud Altobellum Salicatum, 1603.

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gico, ma fin’ora non sono comparse alle stampe»24: ma, come abbiamo visto, Carlo Fiamma, otto anni dopo, sostiene che il libro sarebbe stato impresso vivente l’autore. Accolto che questa stampa sia successiva al 1565, anno del ritiro trevigiano, due dati ci inducono a postulare per essa un terminus ante quem molto prossimo a questa data. 1. Nelle annotazioni al salmo XXIII della Parafrasi poetica si annuncia l’imminente uscita di un dizionario dei termini ebraici comparati con quelli greci della Bibbia dei Settanta e con i latini, redatto da un Don Giovanni Crisostomo: Uscirà tosto, s’a Dio piacerà, il Dizionario del Reverendo Don Giovanni Crisostomo, Canonico Regolare Lateranense, uomo e nelle lingue e nelle scienze consumatissimo, il quale dichiara le voci Ebree con le Greche de’ Settanta interpreti e con le parole Latine, nel quale si vedrà, qual giudicio hanno fatto di ciascuna voce quelli uomini santissimi e dottissimi e come variamente talora abbiano secondo i luochi interpretato una voce medesima. […] Apparato della Bibia Regia, stampata dal Plantino et illustrata con tanta fatiche dal Reverendo Benedetto Ariamontano e d’altri, a quali saranno obligati tutti i letterati, non meno di quello che sono alla singolare e veramente Reale e Cattolica liberalità e pietà del Serenissimo Re di Spagna (p. 124).

La pubblicazione della Bibbia del Plantina è degli anni 1569-72, mentre l’autore del Dizionaro dovrebbe essere Gian (o Giovanni) Crisostomo Zanchi bergamasco, morto nel 156625, del quale Donato Calvi nella Scena degli scrittori bergamaschi dice: […] frà l’opre famose della sua penna ammiriamo l’insigne Dizionario della Sagra Scrittura nelle tre più degne lingue spiegato; opra voluminosa et insigne 24 G. ALBERICI, Catalogo breve de gl’illustri et famosi scrittori veneziani, in Bologna, presso gli eredi di Giovanni Rossi, 1605, p. 31. 25 Canonico Regolare Lateranense in Santo Spirito, storico, giureconsulto, fratello dell’umanista Basilio (custode della Biblioteca Apostolica Vaticana) e di Gian Dionigi; fu educato alle lettere latine presso la scuola di Giovita Rapicio da Chiari, chiamato ad insegnare a Bergamo nel 1508. L’anno 1524 entrò con i fratelli nel monastero dei Canonici Lateranensi di Santo Spirito in Bergamo, dando origine a un animato centro di cultura e religiosità. Dopo esser stato priore di Santo Spirito, fu eletto nel 1559 Generale della Congregazione. A lui spetta anche il merito di aver dotato la rinascimentale chiesa di Santo Spirito di un organo prodotto dalla famosa bottega degli Antegnati (1566). Nella sua opera De origine Orobiorum sive Cenomanor (1531), dedicata al principe degli umanisti Pietro Bembo, egli illustra la storia di Bergamo attraverso le iscrizioni di antiche lapidi. Cfr. D. CALVI, Scena letteraria de gli Scrittori bergamaschi aperta alla curiosità de suoi cittadini…, Parte Prima, in Bergamo per li Figliuoli di Marc’Antonio Rossi 1664, edizione anastatica pubblicata da Arnaldo Forni, Sala Bolognese, 1977.

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in ventidue Tomi distribuita conforme al numero delle lettere Ebraiche, de’ quali li deciotto si vedono compiti nella Libreria di S. Spirito di Bergamo, il resto si desidera26.

2. Nelle annotazioni al salmo XXVIII Fiamma scrive «Altri applicano queste sette voci alle sette parole di Cristo in Croce, come si vederà nelle Sette Prediche, le quali ha fatto l’Autore sopra queste parole, che, piacendo a Dio, tosto si vedranno stampate» (p. 150); e la prima edizione nota delle prediche27 risale ancora al 1566. Se la stampa fosse avvenuta dopo il 1566, sarebbero state apportate le dovute correzioni al testo, ricordando la morte dello Zanchi e citando l’edizione delle prediche. Il luogo di stampa più verisimile è Venezia, ma volendo immaginare che Fiamma abbia fatto stampare le sue carte più tardi, senza rivederle, si potrebbe pensare anche a Roma. Le caratteristiche tipografiche non sembrerebbero consentire comparazioni con i libri di Francesco de’ Franceschi, di Giorgio Angelieri e degli eredi di Pietro Deuchino, editori di Fiamma, e nessuno degli Annali degli stampatori veneziani riporta la Parafrasi poetica28. L’unica stamperia romana29 sulla quale si potrebbe porre qualche attenzione è quella del Popolo Romano30, diretta fino al 1568 da Paolo Manuzio: ma nel catalogo dei libri impressi effettivamente dal Manuzio a Roma non ricorrono né il titolo della Parafrasi poetica, né il nome di Fiamma fra gli autori31 e, in ogni caso, si tratta di volumi che, per tipologia e contenuto, poco hanno in comune con quello in questione32. 26

ibid., p. 250. Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti: nelle quali si contengono molti ricordi, utili, et necessari, per far profitto nella uita spirituale, et per fuggire gli errori di questi tempi, in Vinegia appresso Francesco Senese, 1566. 28 Cfr. in particolare E. PASTORELLO, Tipografi, editori, librai a Venezia nel secolo XVI, Firenze 1924 che raccoglie le edizioni 1501-1599 delle bibliotece Marciana, dell’Università di Padova e Braidense di Milano. 29 Il catalogo delle cinquecentine romane custodite nelle biblioteche romane tace. Cfr. Le cinquecentine romane. Censimento delle edizioni romane del XVI secolo possedute dalle biblioteche di Roma, Milano 1972; F. BARBERI, Tipografi romani del Cinquecento. Guillery, Ginnasio, Mediceo, Calvo, Dorico, Cartolari, Firenze 1983. 30 Nessun elemento documentale consente collegamenti con la tipografia avviata da Ignazio di Loyola presso il Collegio Romano (1556-1615) che produceva prevalentemente opere di carattere popolare con finalità pedagogiche. Cfr. G. CASTELLANI, La tipografia del Collegio Romano, in Archivium Historicum S. J. 2 (1933), pp. 11-16; R. G. VILLOSLADA, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma 1954; e sulla Tipografia in particolare ibid., pp. 44-46. 31 Cfr. BARBERI, Paolo Manuzio cit., p. 106 e pp. 111-161. 32 Cfr. ibid., pp. 106-108. 27

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Tutto ciò, e soprattutto le caratteristiche materiali di questa copia33 — all’assenza di frontespizio, colophon e marche tipografiche e all’atipicità della silografia si aggiungano le scorrettezze nelle intestazioni e la disomogeneità delle iniziali silografiche34 — avvalorano fortemente l’idea che si tratti di una stampa d’uso privato35. E anche ipotizzando che una edizione ufficiale, successiva alle Rime (1570-1575), sia stata distrutta, è strano che la Parafrasi poetica non sia mai entrata negli Indici dei libri proibiti o negli indici espurgatori36. Il titolo non compare nelle documentazioni raccolte nella banca dati del RICI37, e non è elencato nemmeno nel recente saggio bibliografico di Adelisa Malena dedicato proprio alle liste di libri sospetti dei Canonici Regolari Lateranensi38. Certamente non era semplice in quegli anni districarsi tra divieti e deroghe, come denuncia anche il fatto che la plaquette con i salmi in onore della vittoria di Venezia a Curzolari fu pubblicata adespota; ma, nonostante gli interventi censorii posti in atto nel decennio successivo all’ultima ristampa delle Rime sembrino segnati da una sostanziale nebulosità, come scrive Gigliola Fragnito: Anche su quel vasto settore delle traduzioni parziali della Scrittura rappresentato dai salmi la Congregazione dell’Indice assunse posizioni articolate. Mentre ritenne che dovessero essere escluse dal divieto almeno alcune versioni accompagnate da commenti, come quelle di Francesco Panigarola e Flaminio de’ Nobili, mantenne la proibizione per le versioni poetiche dei salmi. La reticenza verso i componimenti poetici di contenuto biblico — sia in latino che 33 Inoltre, un’annotazione a china sul margine esterno di p. 2 sembrerebbe interropersi in modo anomalo sul margine stesso del foglio, facendo sospettare una rifilatura delle pagine. 34 La definizione, coniata da S. Samek Lodovici viene ripresa e precisata da F. PETRUCCI NARDELLI, La lettera e l’immagine. Le iniziali «parlanti» nella tipografia italiana (secc. XVIXVIII), Firenze 1991, p. 8: «Perché possa essere così definita un’iniziale dovrebbe avere, secondo me, un rapporto acrofonico con la decorazione figurata ad essa connessa»; sulla questione delle iniziali silografiche, cfr, ibid., pp. 15-16. 35 Solo al termine dell’ultima esposizione compare un commiato: «E, rendendo grazie al Signore che l’ha condotto al fine di questo libro, già s’apparecchia a seguir il secondo co ’l favore di S. Maestà, al quale sia sempre onore e gloria in tutti i secoli. Amen. Amen.» (p. 226). 36 Cfr. Index des livres interdits, XI: Thesaurus de la littérature interdite au XVIe siècle. Auteurs, ouvrages, éditions avec Addenda et corrigenda cit., 1996. 37 http://ebusiness.taiprora.it/bib/index2.asp; cfr. G. GRANATA, Il data base della ricerca dell’“inchiesta” della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti (RICI), in Bibliotheca. Rivista di studi bibliografici 1 (2004), pp. 115-130. 38 A. MALENA, Libri “proibiti”, “sospesi”, “dubii d’esser cattivi”: in margine ad alcune liste dei Canonici Regolari Lateranensi, in Libri, biblioteche e cultura degli ordini regolari nell’Italia moderna attraverso la documentazione della Congregazione dell’Indice, Atti del convegno Internazionale, Macerata, 30 maggio – 1 giugno 2006, a cura di R. M. BORRACINI e R. RUSCONI, Città del Vaticano 2006, pp. 555-577.

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nelle lingue vernacole — non era nuova. La loro condanna era stata ripetutamente ribadita nelle liste dei libri proibiti diramate da Roma tra il 1574 e il 1583, ma non era stata esplicitamente formulata nell’indice clementino39.

sussistono, comunque, ragioni pratiche che possono aver rallentato e infine impedito la pubblicazione della Parafrasi. L’ondata espurgatoria di quel decennio aveva procurato una vera e propria paralisi della produzione libraria, dovuta all’elevato numero dei libri da controllare e al lungo tempo impiegato in questo ufficio dagli incaricati40. Così, Fiamma, come lascia sospettare nelle citate annotazioni al sonetto LXXXII, dove confessa: «[l’autore] ha fatto molti studi d’intorno a’ Salmi, disposto di tradurli tutti, con le loro parafrasi, simili a questi pochi, che sono sparsi in queste Rime, s’egli vedrà, che questo modo suo di tradurre piaccia all’universale»41, dopo aver pubblicato solo alcuni componimenti, in parte nelle Rime spirituali, in parte utilizzando nella plaquette del 1571 una delle forme di cautela che il Concilio aveva stigmatizzato, l’omissione del nome dell’autore, potrebbe aver desistito dall’intento di licenziare una edizione integrale del Salterio per ragioni sia di opportunità, probabilmente consigliato anche da qualche “censore”42, sia di praticità. Ed inoltre, anche l’assenza di una seppur esigua tradizione manoscritta delle opere letterarie ed erudite di Fiamma ci impedisce di congetturare una possibile diffusione privata alla quale sia stato impossibile farne seguire una pubblica43. Tutti i dati inducono a credere che Gabriele Fiamma sia stato un uomo 39 FRAGNITO, La Bibba al rogo cit., pp. 204-205; la difficile storia degli indici romani nel secondo Cinquecento è delineata da Vittorio Frajese nel capitolo Proibire o espurgare? I primi passi dell’Indice nel citato Nascita dell’Indice, pp. 93-137. 40 ROZZO, L’espurgazione dei testi letterari nell’Italia del secondo Cinquecento, in La censura libraria nell’Europa del secolo XVI cit., pp. 232-233. Un esempio emblematico e opposto alle Rime spirituali di Fiamma è quello delle Rime spirituali del contemporaneo Antonio Pagani: nella prima edizione del 1554, essendo prive di argomentazioni teologiche e di diretti rimandi alle Sacre Scritture, si salvarono dalle proibizioni, ma vennero sottoposte ad un lavoro di espurgazione radicale da parte dell’autore stesso che ondeggia tra il mascheramento nicodemitico e lo stravolgimento vero e proprio, e riapparvero nel 1557 e nel 1570 presentate come opera affatto inedita (cfr. E. BONORA, Nei labirinti della censura libraria cinquecentesca: Antonio Pagani (1526-1589) e le “Rime spirituali”, in Per Marino Berengo. Studi degli allievi, a cura di L. ANTONIELLI – C. CAPRA – M. INFELISE, Milano 2000, pp. 114-136). 41 Rime spirituali, p. 296. 42 Si veda, sulla complessa e ambigua doppiezza della censura e sul ruolo dei censori nel Cinquecento, A. Prosperi, La Chiesa e la circolazione della cultura nell’Italia della Controriforma. Effetti imprevisti della censura, in La censura libraria nell’Europa del secolo XVI cit., pp. 147161. 43 Cfr. A. BALDUINO, Petrarchismo Veneto e tradizione manoscritta, in ID., Periferie del petrarchismo, a cura di B. BARTOLOMEO e A. MOTTA, Presentazione di M. PASTORE STOCCHI, Roma – Padova 2008, pp. 3-7.

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moderato e responsabile e che, pur avendo subito le indagini da parte dell’Inquisizione e la messa all’Indice delle Rime spirituali, non abbia dovuto misurarsi con compromessi estremi44; la sua esperienza costituisce però l’esempio di quell’incontro fra le scelte del governo di Roma e un individuo45 che finisce con l’indurre quest’ultimo alla rinuncia. La riscoperta della Parafrasi poetica ci permette di considerare la figura del suo autore al cospetto di una crisi nella quale stava per piombare un intero mondo e le cui dinamiche Carlo Ossola ha illustrato con chiarezza: L’esperienza del Fiamma, seppure in ambito non pastorale ma non meno indicativo, si avvicina così alla parabola di alcuni vescovi del periodo tridentino, i quali, iniziato il loro episcopato con intenti riformatori, lo videro chiudersi, come osserva il Prodi, “nella coscienza di una riforma incompiuta”, e sperimentarono la malinconia […] dell’esaurirsi di un “umanesimo cristiano” che ancora potesse pensare all’arte, alla poesia, come segni più puri di quell’ordine armonico che lega l’uomo al suo Creatore. Si piegarono infine a ripetere una Parola per sempre detta, un Libro per sempre scritto, senza speranza che rinnovate parole umane, più dolci ritmi, più ardite metafore potessero meglio conciliare l’ansia di persuadere e la coscienza di poter “essaltare la fede col dire”46.

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Cfr. N. LONGO, Fenomeni di censura nella letteratura italiana del Cinquecento, in Le pouvoir et la plume. Incitation, contrôle et répression dans l’Italie du XVIe siècle, Paris 1982, pp. 45-51; ID., Letteratura proibita, in La letteraura italiana, 5: Le questioni, diretta da A. ASOR ROSA, Torino 1986, pp. 965-999. 45 Cfr. FRAJESE, Nascita dell’Indice cit., p. 10. 46 C. OSSOLA, Il “Queto travaglio” di Gabriele Fiamma, in Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma 1976, pp. 247-248.

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4 LA PARAFRASI POETICA: TRADUZIONE ED ESEGESI DEI SALMI Molti autori tra XIV e XV secolo si erano dedicati alla traduzione poetica del Salterio1, ma solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento la pratica dei volgarizzamenti metrici si fa diffusissima e dominerà ancora per più di due secoli2. Pensata da Fiamma come parte di una elaborazione complessiva dei suoi studi sui salmi, la Parafrasi poetica ne raccoglie i primi quaranta, ciascuno presentato in una ricca formula composta da una versione latina e da una versione volgare in versi, corredate da un argomento e da una serie di annotazioni. La scelta di quaranta testi rispetta, spiega l’autore, una precisa suddivisione del libro biblico: Questo Salmo [XL] è il primo di quelli che finiscono in quella voce Amen. […] E, perché la Santa Chiesa ha per costume di finire le sue orazioni con questa voce Amen, ha pensato l’Autore di finire i libri di queste sue Parafrasi in ogni luoco ove il Salmo finirà con questa voce, per respirar egli nello scrivere et a fine che i Lettori possano trovar qualche luoco da fermarsi nel leggere. Sono stati alcuni Ebrei, che nella lingua loro hanno fatto il medesimo partimento, i quali ha voluto questa parte imitare l’Autore di queste Parafrasi (p. 226)3. 1

Cfr. A. DEL COL, Appunti per un’indagine sulle traduzioni in volgare della Bibbia nel Cinquecento italiano, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, a cura di A. BIONDI e A. PROSPERI, Modena 1987, pp. 187-188, nt. 75. Per un censimento dei testi superstiti cfr. http://edit16.iccu.sbn.it/web_iccu/imain.htm, titolo: «Salmi». 2 Cfr. l’indagine condotta da Clara Leri sulle traduzione letterarie dei salmi tra Seicento e Settecento, Sull’arpa a dieci corde. Traduzioni letterarie dei Salmi (1641-1780), Firenze 1994. 3 In realtà corrisponde al primo gruppo davidico nel quale, con il lavoro di elaborazione dell’intero corpus compiuto dai redattori, è stato unificato il nome divino JHWH. I 150 salmi sono divisi in 5 libri riconoscibili da speciali dossologie che li concludono; questa suddivisione esisteva già ai tempi delle Cronache (cfr. Cfr. 1 Cronache, 16, 36). In origine si ritiene esistessero singole collezioni che venivano individuate col nome dell’autore: ad esempio, i salmi compresi fra il terzo e il quarantesimo primo sono detti “di David”, così come quelli dal quarantesimo secondo al quarantesimo nono sono intitolati “dei figli di Core”, e quelli dal settantesimoterzo all’ottantesimoterzo sono detti “di Asaf”. Poiché la maggior parte dei salmi è attribuita dal titolo a Davide, si è frequentemente ritenuto il re biblico autore dell’intera raccolta. Ma la disomogeneità degli stili e la pluralità dei generi che caratterizzano l’intero libro inducono a congetturare l’opera di molti autori e un lungo periodo di formazione (se non è escluso che alcuni, i più antichi, siano stati composti in epoca monarchica, la maggior parte dei salmi risale ai secoli X-III a.C.). Due collezioni, con tutta probabilità anteriori a quelle

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La numerazione seguita è ufficialmente quella della Vulgata e della versione dei Settanta — che a differenza del testo ebraico uniscono i salmi IX e X e il CXIV e CXV e dividono in due i salmi CXVI e CXLVII — con l’unica variante dell’accorpamento dei salmi IX e X come parte prima e seconda del salmo IX4. Fiamma riconosce al Salterio una dimensione unitaria5 e associa a ciascun salmo un particolare momento della vita di David illustrato nell’Argomento: il libro profetico e penitenziale del re David figura Christi diviene così anche una particolare biografia in versi che assume funzione di exemplum e la cui dimensione storico-narrativa svolge un ruolo pedagogico e mnemotecnico importante6 e il cui protagonista si pone come «figura esemplare»7. Ad ogni singolo componimento si associa un “disegno” che catalizza l’attenzione del fedele, la indirizza verso la giusta interpretazione e, dilettandolo con un racconto mitico, lo istruisce: Era l’innocente, e santo Profeta David accusato, e pubblicato come traditore del suo Re, dal suo suocero Saulo, ch’aveva allora il regno, e l’impero degli citate, si distinguono per l’uso esclusivo dell’uno o dell’altro nome di Dio: il tetragramma è impiegato nei primi quarantuno salmi, poi viene sostituito con Elohim fino all’ottantesimo nono, poi torna il tetragramma, con l’eccezione dei salmi cinquantesimosettimo e sessantesimo, fino alla fine. Per una guida alla lettura e una introduzione all’interpretazione dei salmi si veda in particolare G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, I: (1-50), Bologna 1985. 4 In questo modo tutti i componimenti dal decimo in poi hanno numero inferiore di una unità rispetto a quelli delle edizioni moderne della Bibbia cattolica. 5 I titoli attribuiscono 73 salmi a David, 12 ad Asaf, 11 ai figli di Core e altri singoli a Heman, Etan, Mosè e Salomone; 35 sono senza attribuzione. La versione dei Settanta ne attribuisce ben 82 a David. In origine non si intendeva che quello fosse l’autore ma che il salmo lo riguardasse in qualche modo; solo in seguito però si arrivò a credere che quelle fossero indicazioni precise e si aggiunsero dei sottotitoli ai salmi di David che spiegavano le circostanze della sua vita in cui il salmo era stato composto. Da qui alla attribuzione a David di tutti i salmi passò poco; d’altra parte David è definito “cantore dei canti di Israele” (2 Samuele, 23, 1). 6 Sulle forme e sulla storia dell’exemplum, che per il Fiamma predicatore doveva avere il sapore del pane quotidiano, cfr. J. LE GOFF, Il tempo dell’exemplum, in L’immaginario medievale, Bari 1985, pp. 117-121; C. DELCORNO, Exemplum e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, in particolare pp. 7-77; sull’uso delle mnemotecniche nella “letteratura religiosa” cfr. S. GIOMBI, Libri e pulpiti. Letteratura, sapienza e storia religiosa nel Rinascimento, Presentazione di A. PROSPERI, Roma 2001, in particolare il capitolo VI: Enciclopedismo, curiositas e propaganda religiosa, alle pp. 220-233; sull’arte della memoria e le mnemotecniche, si vedano, almeno, F. A. YATES, L’arte della memoria, Torino 1972; P. ROSSI, Clavis universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna 1983; L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’eta della stampa, Torino 1995 e La cultura della memoria, a cura di L. BOLZONI e P. CORSI, Bologna 1992. 7 Cfr. H. R. CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. ANTONELLI, Firenze 1992, pp. 69-70.

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4. LA PARAFRASI POETICA

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Ebrei. E queste accuse false erano sparse da quel principe malvagio, per farlo odioso a tutta la nazione […]. Per tanto contra questo Re, e contra questi suoi seguaci malvagi, scrive David questi versi; (Argomento del Salmo VII, p. 24).

Il testo latino è quello della Vulgata stabilito come autentico dal Concilio di Trento8, come leggiamo nell’esposizione all’Oda sopra il secondo salmo delle Rime: È anco da notare, come quelle parole, Apprehendite disciplinam, che tanto diversamente hanno interpretato gli espositori, l’autor, seguendo la traduzione comune, che si chiama vulgata, accettata dalla santa Chiesa già tanti secoli, e dal sacro Concilio di Trento ultimamente autenticata, interpreta prima la parola Ebrea, Disciplinam: e per disciplina, ancorché si potesse espor la dottrina, che insegna a gli uomini i costumi, nondimeno l’autor intende la correzione.

Fiamma non conosce l’ebraico, ma ha studiato a fondo le traduzioni e i commenti antichi e moderni9 e dimostra una notevole consapevolezza delle questioni interpretative più importanti, dandone conto con dovizia. Varrà la pena fornire qualche esempio. Egli denuncia più volte l’oscurità dei titoli10 ma, quando si tratta di spiegare il senso del titolo del salmo IV acutamente scrive nella prima delle annotazioni: Il Titolo di questo salmo quarto, perché i Salmi diversamente sono stati tradotti, quanto alle parole latine, par che sia vario. Ma i più dotti nella lingua ebrea così l’hanno posto Vincenti in melodiis. che noi diremo diasi da cantare al maggior Musico che sia fra noi. E di qui possiamo conoscere, che con grandissima diligenza il Re David faceva cantar i Salmi avanti l’arca nel Tempio (pp. 13-14).

8 Non è da escludere che Fiamma abbia approntato una propria versione latina, poiché nelle annotazioni al salmo secondo afferma: «quando ho fatto tutto il Salterio Latino» (p. 8). 9 Così come accade per i testi classici greci e latini, anche gli antichi testi ebraici vengono studiati sotto una nuova luce tra Quattro e Cinquecento e diffusi in edizioni a stampa. Cfr. La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, a cura di R. FABRIS, Bologna 1992, pp. 49-50; G. BUSI, L’enigma dell’ebraico nel Rinascimento, Torino 2007, e, in particolare sull’editoria in ebraico a Venezia tra Aldo Manuzio e Geršom Soncino, ibid., pp. 129-144; M. ZORZI, Il libro religioso nella storia della stampa veneziana, in Le civiltà del libro e la stampa a Venezia. Testi sacri ebraici, cristiani, islamici dal Quattrocento al Settecento, a cura di S. PELUSI, Padova 2000, pp. 17-28. 10 In alcuni casi il titolo dei componimenti, che sempre risale a epoche antiche e che, pur non essendo necessariamente contemporaneo al salmo, non ne è un’aggiunta arbitraria, riporta, il nome dell’autore, in altri indicazioni sull’esecuzione musicale o liturgica, in altri ancora le circostanze storiche in cui sono stati composti.

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I SALMI DI GABRIELE FIAMMA

Lunga e particolareggiata è la discussione sulla traduzione nel salmo II del sintagma ebraico Nasch ubar che è stato oggetto del contendere fra Girolamo e Rufino. Valutata l’efficacia delle traduzioni di Girolamo, che nei Commentarii scriveva «adorate filium», del Salterio latino che recita «Adorate puerum», e quella accolta da Tommaso Caietano, da Sante Pagnino e altri, «osculamini filium», egli preferisce accogliere quella del «Caldeo Parafraste»11 «apprehendite disciplinam»: con buona probabilità la scelta mira ad accordare al testo una dimensione didattica, mentre l’esortazione ad adorare o a baciare il figlio, il fanciullo, avrebbe prodotto un’immagine idolatrica, più difficile da gestire. E anche il primo versetto del salmo XXIII porge a Fiamma l’occasione di intervenire nella traduzione con una soluzione fortemente interpretativa e sostenuta dalle maggiori autorità (cfr. pp. 146-147), che sostituisce il sintagma «filios arietum» con «[…] prole / de’ più famosi eroi» e che viene ampiamente giustificata nelle annotazioni. Proprio l’attenzione per le questioni linguistiche lo induce immediatamente nelle prime pagine, nelle annotazioni al versetto «Et erit tamquam lignum» del primo salmo che traduce con «Questi fia qual oliva», ad illustrare il significato e la funzione del lavoro che ha compiuto in questo libro: Il testo latino dice così: Et erit tamquam lignum, che noi diremo Pianta, Arbore. Potrà dunque parer istrano ad alcuno, che l’Autore abbia voluto lasciare il nome generico, e pigliar il nome specifico, e in vece di dir Arbore, habbia detto Oliva: ma non doverà così parere a chi bene vorrà considerare la cagione c’ha mosso l’Auttore a ciò fare; il che non è stato necessità di rima, ch’ei poteva dir senza punto alterar la rima. Quest’è qual Arbor viva. Di chiare, e lucid’onde, etc. Né la mutazione del tempo potrebbe dar noia a giudiziosi; poi che gli ebrei usano il presente per lo futuro, molto ordinariamente. Overo potrebbe dir così. Qual pianta bella, e viva, Questi sia di chiare onde Piantata in verde riva. Ma l’Autore ha detto Oliva, e non Pianta; perché, essendo egli Parafraste, ha giudicato, che’l dar luce al testo del Salmo, et alle voci, sia il proprio ufficio suo; poi che per pianta quasi ogni Dottore espone o la Palma, o l’Oliva, egli non ha usata la voce del testo, ma quella de gli spositori, et ha dato maggior luce alla lettera del Salmo. Di più: avendo egli a dire Palma, overo Oliva, ha detto più 11

Probabilmente si riferisce alla versione caldaica che era disponibile nella edizione Quicumplex di Lefèvre D’Étaples. Un Beroso Caldeo, erudito del III sec. d.C., è autore di cinque libri di Antichità. È conosciuta una raccolta di frammenti presentati come opera di scrittori greci e romani, in realtà contraffazione di Giovanni Nanni, pubblicata la prima volta nel 1498 col titolo Commentaria Ioannis Annii… Super opera diversorum autorum de antiquitatibus loquentium, variamente ristampata durante il XVI secolo.

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4. LA PARAFRASI POETICA

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tosto Oliva; perché, se ben la Scrittura rassomiglia l’uomo giusto, quando alla palma, quando all’Oliva, poi che del primo è scritto, Iustus ut Palma florebit: et del secondo, Ego sicut Oliva fructificavit: e Dio, per Ezechiello Profeta ragionando alla Sinagoga, usa quella bellissima similitudine dell’Oliva dicendo, Olivam uberem, speciosam, vocavit Deus nomen tuum: l’Autore nondimeno della Parafrasi, ha tolto più tosto l’Oliva per ricordar agli uomini l’obligo, c’hanno di far sempre frutti dolci, et soavi d’opere buone, procurando di farsi fecondi, come Oliva; e non ha voluto ricordar la Palma, ch’è simbolo della vittoria, la quale haveranno i giusti dopo le battaglie di questo secolo: […]. (Annotazioni al Salmo I, p. 3)

Il parafraste svolge il suo compito di dar luce al testo mediante una scelta interpretativa che fonda la strategia traduttoria e si fa dimensione poetica. Numerosi sono i tentativi coevi di volgarizzamenti o parafrasi in metro, frequentemente accompagnati da un argomento o da una esposizione, ma nella maggior parte dei casi si tratta di elaborazioni libere, dal punto di vista sia formale che contenutistico12; fatta una relativa eccezione per i lavori di Bernardo Tasso che realizza il volgarizzamento molto libero di trenta salmi (1560), di Laura Battiferri degli Ammannati, autrice di una libera traduzione poetica dei salmi penitenziali (1564) e di Bartolomeo Arnigio, compositore di un canzoniere formato da sonetti, canzoni, capitoli inframmezzati da salmi (1568), si incontra con difficoltà un libro paragonabile per complessità e profondità a quello scritto da Fiamma e mai nessuno, a quanto pare, con questo particolare titolo di “parafrasi poetica”13. Nelle Rime spirituali spiegando il senso del suo lavoro: «ha fatto molti studi d’intorno a’ Salmi, disposto di tradurli tutti con le loro parafrasi, simili a questi pochi che sono sparsi in queste Rime»14, egli lascia intendere che traduzione e parafrasi indicano l’una il lavoro dei versi, l’altra della prosa. Presso i latini la parafrasi aveva avuto funzione prevalentemente didattica ed espositiva, era in prosa e non consisteva necessariamente in una traduzione da una lingua in un’altra: 12

Per un regesto dei maggiori traduttori dei salmi del XVI secolo cfr. infra Bibliografia e Sitografia. 13 Cfr. L. BATTIFERRI DEGLI AMMANNATI, I sette salmi penitenziali di David con alcuni sonetti spirituali, a cura di E. M. GUIDI, Urbino 2005; I sette salmi della penitentia del gran propheta Dauid spiegati in canzoni secondo i sensi da M. Bartolomeo Arnigio academico bresciano. Et appresso la prima parte delle sue spiritali & sacre rime, in Brescia, appresso Francesco & Pietro Maria fratelli de’ Marchetti, 1568; B. TASSO, Rime, a cura di V. MARTIGNONE, Torino 1995. 14 Rime spirituali, p. 296.

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I SALMI DI GABRIELE FIAMMA

Neque ego paraphrasin esse interpretationem tantum volo, sed circa eosdem sensus certamen atque aemulationem. Ideoque ab illis dissentio qui vertere orationes Latinas vetant quia optimis occupatis quidquid aliter dixerimus necesse sit esse deterius. Nam neque semper est desperandum aliquid illis quae dicta sunt melius posse reperiri, neque adeo ieiunam ac pauperem natura eloquentiam fecit ut una de re bene dici nisi semel non possit15.

Nel Medioevo prosegue la tradizione dei commenti alle Scritture nelle due formule della glossa e della postilla, poi, a partire dal XV secolo, il mutato clima intellettuale favorisce l’elaborazione di nuove forme di commento e soprattutto di traduzione: il termine “parafrasi” sopravvive nel tempo, ma muta talvolta funzione. Con l’Umanesimo si fa strada l’idea di poter riprodurre il ritmo interno del testo originale con uno spostamento di attenzione dal significato ai significanti: Lefévre d’Étaples utilizzava il termine paraphrase per designare una riformulazione linguistico-retorica dei testi sacri, un tipo di traduzione mirata a scoprire il senso teologico e spirituale grazie a un comparativismo interno al testo; ed Erasmo, mentre curava l’edizione critica della Bibbia del 1516, approntava un commento ai testi del Nuovo Testamento, esclusa l’Apocalisse, che intitolava Paraphrases (1517-24) e che aveva lo scopo di illustrare il significato teologico e spirituale del testo mediante lo studio del senso letterale e grammaticale. Dunque la parafrasi umanistica dei testi sacri nasce come analisi-esegesi testuale e persegue il fine dell’interpretazione del senso del testo attraverso la sua comprensione, diciamo così, strutturale e filologica16. Negli anni nei quali deve esser stata composta la Parafrasi poetica di Fiamma Bonaventura Gonzaga, nell’Introduzione ai suoi Ragionamenti sopra i sette peccati mortali e sopra i sette Salmi penitenziali del re David ridotti in sette canzoni e parafrasticati dal medesimo17, scritti sulla scia del Salterio di Agostino Giustiniani18, suggeriva un modello ibrido, significando col 15 MARCO FABIO QUINTILIANO, Institutio Oratoria X, 5, 5; Cfr. G. STEINER, Dopo Babele, Milano 2004, pp. 304-305; G. FOLENA, Volgarizzare e tradurre, Torino 1991. 16 Per una panoramica introduttiva cfr. R. Fabris, Strumenti e sussidi per lo studio della Bibbia nei secoli XV-XVII, in La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, a cura di ID., Bologna 1992, pp. 43-73. 17 B. GONZAGA, Ragionamenti sopra i sette peccati mortali e sopra i sette Salmi penitenziali del re David ridotti in sette canzoni e parafrasticati dal medesimo, Venezia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1566; ID., Salmi di Dauid ridotti in varie canzoni con l’argomento per ciascun salmo, in Padoua, presso a Lorenzo Pasquato, 1568. 18 Dopo vari tentativi falliti di pubblicare l’intera Bibbia poliglotta, nel 1516 Agostino Giustiniani pubblica a Genova un Psalterium hebraeum, arabicum et chaldaicum, cum tribus latinis interpretationibus et glossis dove propone, distribuiti su otto colonne, il testo ebraico, la versione latina, la traduzione volgare, quella greca, quella araba, il Targum con la sua traduzione latina e brevi annotazioni.

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4. LA PARAFRASI POETICA

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termine parafrasi — più vicino al nostro senso corrente e all’originario impiego presso i latini e gli umanisti — una orazione in prosa, un commento, che si distingueva dalla vera traduzione e che veniva posta a margine del testo latino: parafrasi vuole inferire nella nostra lingua cosa che sia tradotta di una lingua in un’altra con questo carico però: di non solamente trasportare, ma di dichiarare e d’interpretare le cose difficili che in essa traduzione possono occorrere; come si vede aver osservato Temistio nelle cose di Aristotele e, per non uscir di nostro soggetto, con questo titolo vanno in volta con tanto onore ed eterna fama del dottissimo Flaminio, nelle quali si vede osservato di non solo tradurre, ma di interpretare e delucidare (il che è propria espressione di questo nome, parafrasi) quelle cose che men chiare sono nelle cose che si ha per le mani da tradurre.

Solo alla fine del XVII secolo Dryden19 sarà in grado di elaborare una chiara differenziazione tra metafrasi («turning an author word by word, and line by line, from one language into another»), imitazione («where the translator […] assumes the liberty, not only to vary from the words and sense, but to forsake them both as he sees occasion; and taking only some general hints from the original, to run divisions on the ground-work, as he pleases») e parafrasi, che sarebbe dovuto essere una translation with latitude, where the author is kept in view by the translator, so as never to be lost, but his words are not so strictly followed as his sense; and too is admitted to be amplified, but not altered.

avvicinandosi molto, in questa ultima definizione, ai risultati ottenuti da Fiamma. Con il sintagma «parafrasi poetica» Fiamma sembrerebbe coniugare il volgarizzamento poetico e la sua esegesi in prosa, eludendo i pericoli derivati dalla definizione di “volgarizzamento”20; in questo modo egli supera la formula tradizionale della parafrasi per realizzare una traduzionecommento-poesia che concilia lirica e oratoria, pratica poetica e ammaestramenti dottrinari. Cosicché ne nasce una speciale rivisitazione del canzoniere con autocommento21 che deve vedersela con tutti i rischi e le difficoltà di una tradu19 J. DRYDEN, Translations from Ovid’s Epistles, Preface concerning Ovid’s Epistles, in The poetical Works of John Dryden, V, London 1852, p. 6. 20 Sulla questione si veda LERI, Sull’arpa a dieci corde cit., in particolare il capitolo Dall’Europa all’Italia (1563-1671): preistoria e genealogia delle parafrasi metrico-salmiche settecentesche, pp. 15-45. 21 Nella sua rassegna storico-tipologica degli autocommenti, Stefano Carrai riconosce

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zione condotta sui testi sacri, conseguendo risultati molto interessanti, anche se talvolta controversi22; basti pensare a quel che scrive Paolo Zaja, che ha indagato a fondo la questione dell’autocommento nelle Rime spirituali: se il commento è a suo modo una forma di ruminatio del testo, allora quel testo deve essere in qualche misura dotato di una dignità che non è solo letteraria: anzi, il suo valore deve risiedere in una profondità semantica che rinvia alla parola sacra. E proprio l’autocommento è in quest’ottica la vera sanzione del valore del testo lirico23.

Giannozzo Manetti nel quinto libro dell’Apologetico24 aveva messo in guardia i traduttori dei testi sacri: nella formula del «commento d’autore» variamente declinata da Folengo, Berni, Fiamma e Tasso una novità rispetto all’autocommento medievale, attribuendo in particolare al Tasso quello che vale anche per il Fiamma, cioè che le rime e le glosse «si intrecciano allo scopo, palese, di orientare verso una lettura dei testi quale insieme sistematico, a canzoniere, e non raccolta più o meno disarticolata», (Il commento d’autore, in Intorno al testo. Tipologie del corredo esegetico e soluzioni editoriali, Atti del Convegno di Urbino, 1-3 ottobre 2001, Roma 2003, pp. 230-231). 22 Danilo Zardin spiega come proprio a causa della separazione sempre più netta tra il filone delle parafrasi in prosa e poesia, quello in poesia fosse «già ormai decisamente compromesso agli occhi dell’autorità ecclesiastica ostile alla consuetudine dei volgarizzamenti». Ciò indusse a «cominciare a fare di tutto, in sede inquisitoriale e di censura libraria, per bloccare il contagio di un modello di intervento sul corpo della Bibbia ritenuto troppo esposto alla libertà dell’interpretazione equivoca e di fatto “eversivo”» (Tra latino e volgare: la “Dichiarazione dei salmi” del Panigarola e i filtri di accesso alla materia biblica nell’editoria della Controriforma, in La sorgente e il roveto: la Bibbia per il XXI secolo fra storia religiosa e scrittura letteraria a cura di Samuele Giombi, in Sincronie 4 [2000], pp. 130-131). Che rime spirituali e volgarizzamenti dei salmi non fossero percepiti come “generi” diversi, lo dimostra il fatto che nella sua Biblioteca dell’eloquenza, Giusto Fontanini raccoglie, sotto il titolo uniforme di Canzonieri sacri, un buon numero di salteri volgarizzati e, uniche, proprio le Rime spirituali del Fiamma. Nell’elenco compaiono: le traduzioni dei salmi penitenziali di Francesco da Trevigi, le Lagrime penitenziali in VII canzoni a imitazione de’ VII salmi penitenziali… di Gennaro de’ Vecchi da Udine, i Salmi penitenziali in terza rima di Luigi Alamanni, le canzoni sopra i Salmi del Minturno; e fra gli altri autori di volgarizzamenti Zeno annota Bonaventura Gonzaga, Laura Battiferri, Orsilago Turchi (cfr. ZENO, Annotazioni, II, cit. pp. 96-102). 23 P. ZAJA, «Perch’arda meco del tuo amore il mondo». Lettura delle Rime spirituali di Gabriele Fiamma, in Poesia e retorica del sacro, a cura di E. ARDISSINO e E. SELMI, Alessandria 2009, pp. 245-246; cfr. ID., Natura e funzione del paratesto nelle Rime spirituali di Gabriele Fiamma (1570), in Soglie testuali. Funzioni del paratesto nel secondo Cinquecento e oltre / Textual Thresholds. Functions of Paratexts in the Late Sixteenth Century and Beyond, Atti della giornata di studi, Università di Groningen, 13 dicembre 2007, a cura di PH. BOSSIER e R. SCHEFFER, Manziana 2010, pp. 61-101. 24 Fra le altre opere, condusse, primo fra gli umanisti, una traduzione di grande qualità dell’intero Salterio dall’ebraico e del Nuovo Testamento dal greco; offrì al re Alfonso di Napoli come saggio delle proprie capacità una edizione comparativa che univa la traduzione condotta sui Settanta, allora in uso nella Chiesa, quella di Girolamo dall’ebraico e la sua e fu poi costretto

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4. LA PARAFRASI POETICA

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la S. Scrittura […] esige una traduzione “solenne e accurata, grave e precisa” non così letterale da risultare oscura, né così libera da ridursi a una parafrasi; nulla si deve aggiungere e nulla togliere al testo ispirato di propria iniziativa.

Il testo sacro è portatore di significati che non possono essere impoveriti, deviati, mistificati, esige una fedeltà totale a tutti i livelli di significazione; e nello stabilire quale sia il livello dominante si determina la funzione e l’esito della traduzione. Nel solco di Agostino e della dottrina classica del primato del senso letterale, Fiamma afferma di voler rendere il testo davidico alla lettera e nella annotazione al titolo del salmo IV infatti scrive: [l’autore] attenderà alle cose della lettera, la quale è il fondamento di tutte l’altre sposizioni e contemplazioni in questo senso; che prima d’ogni altra contemplazione è utile necessario saper quello che suonano le parole. Ma, qual giudizio s’abbia da far d’intorno al senso letterale della scrittura, si è detto nelle esposizioni alle Rime Spirituali (p. 14).

precisamente nell’esposizione al salmo III delle Rime, dove si legge: MOLTI fra lor pensando. E quel che segue. Nondimeno tutti gli espositori dicono, che David non parlò tanto in persona sua, quanto in persona del Salvatore. E si vede, che la santa Chiesa espone di Cristo le parole di quel Salmo negli uffizi della Resurrezione. Però sarà avvertito il lettore, che l’auttore non esce del senso letterale. Onde quelle parole Latine, Ego dormivi, et somnum coepi, et exsurrexi; quoniam suscepi me: l’auttore espone così: Io, dopo ch’ho pregato il Signore, et a lui mi sono raccomandato, mi vado quetamente a riposare, e mi sveglio; e levatomi, vado a fare i miei negozii con animo sicuro. E segue: S’io vedessi anco migliaia di persone aggiunte a quelle, ch’ora sono armate contra di me, non temerei; ma tornerei alla difesa dell’orazione. Così giudica l’autore, che si debba dichiarar la lettera, lasciando, ch’ogni buono spirito possa passare a voglia sua a gli altri sensi mistici, come a lui piacerà. Né biasima l’opinione d’Origene che stima queste parole esser poste dal re David per accusarsi, ch’era stato sonnacchioso nel governo del regno: onde per sua negligenza era succeduta questa congiura, che l’avea svegliato. Ma l’autore da quelle parole, che vanno innanzi cioè, Voce mea ad dominum clamavi; e da quelle, che seguono, cioè, Non timebo millia populi: stima, questo sentimento posto da sé esser molto commodo alla letterale intelligenza del Salmo.

a difendersi dalle critiche mosse alle sue traduzioni nei cinque libri dell’Apologetico; in esso dedica molto spazio alla trattazione sul Salterio, alla sua divisione in cinque libri, alla sua dimensione poetica, agli autori e ai generi letterari che lo caratterizzano; particolarmente importante è il discorso «sul modo di ben tradurre» del quinto Libro, (S. GAROFALO, Umanisti italiani del XV secolo e la Bibbia, in Biblica 27 [1946], p. 363; una selezione del cap. V dell’opera di Manetti si legga ivi nell’Appendice di documenti inediti, pp. 371-372).

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I SALMI DI GABRIELE FIAMMA

Debitore della tradizione umanistica, tutta concentrata sui testi, e indiscusso sostenitore dell’indirizzo tridentino che, con finalità e motivazioni altre, privilegiava nell’interpretazione il senso letterale del testo, intento dichiarato del lavoro di Fiamma è di rendere il testo intelligibile sia da un punto di vista sintattico-grammaticale, sia da un punto di vista didatticoconfessionale. Egli ripete spesso di voler «dar luce al testo, dar luce alla lettera del Salmo» (p. 3) e di offrire una traduzione che segua il senso dell’originale, ma sistematicamente ricorda al lettore la dimensione profetica, figurale e misterica delle vicende davidiche E perché David in tutto questo libro è figura di Cristo, questi versi contengono in mistero, l’orazione del Salvatore contra i Giudei suoi persecutori e predice l’ultima ruina loro (Argomento del Salmo VII, p. 24).

e fa sì che l’attenzione alla lettera si concretizzi nella cura degli aspetti linguistico, retorico, grammaticale e si complichi con l’interpretazione allegorica, coniugando differenti e opposte posizioni. Fra Bibbia e Letteratura la parafrasi è un ponte che non può reggersi da solo e che da solo non avrebbe alcun significato25. Fiamma — costretto fra l’incudine di un testo originale che chiede rispetto profondissimo e il martello di un mestiere di poeta che impone regole precise, stili, generi, tecniche, linguaggio codificati — trova un riparo nella dimensione pedagogica, «Ma il Parafraste ha variato il modo, però tenendo saldo il concetto, per insegnar a quei, che si dilettano di Poesia, la copia, del variar l’oratione poeticamente» (p. 34), in un preciso orizzonte controriformato: «non si scosta dai veri ornamenti, dalla proprietà, e dal decoro, che deve esser perpetuo compagno di chi scrive in maniera et con giudizio» (p. 6). La «varietà dei versi» dispiegata in questo canzoniere è giustificata nelle annotazioni al XXXVIII salmo Lo scrivere i pensieri de gli altri con questo obligo [lo schema metrico] è stata impresa fatta più col favor di Dio, che con la forza dell’ingegno di chi così ha scritto, se bene egli vi ha posto ogni studio, ogni fatica per dilettar i lettori con la varietà delle rime, sì per dare agli Italiani in un libro sacro l’essempio di quante maniere di versi possano fare in questa lingua, lasciatane sola quella 25 Sulla questione della traduzione dei testi sacri, nell’impossibilità di fornire una bibliografia esauriente, suggerisco solo alcuni saggi: cfr. P. RICOEUR, La traduzione tra etica e ermeneutica, Brescia 2001; F. ROSENZWEIG, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Roma 1991; C. BUZZETTI, La Parola tradotta, Brescia 1973; ID., La Bibbia tradotta: “fedele” a che cosa, o a chi?, in I volti di Dio. Il Rivelato e le sue tradizioni, a cura di E. GUERRIERO e A. TARZIA, Milano 1992; La traduzione dei testi religiosi, Atti del convegno tenuto a Trento, 10-11 febbraio 1993, a cura di C. MORESCHINI e G. MENESTRINA, Brescia, Morcelliana, 1994.

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maniera trovata da Monsignor Claudio Tolomei, perché in fatto non è riuscito alle orecchie toscane (p. 212).

Ed appare nella sua complessità nella tavola metrica che segue. 1. 2. 3. 4.

Ode di 7 strofe di 6 versi settenari e un endecasillabo (ababcC) Ode di 13 strofe di 6 versi settenari e un endecasillabo (ababcC). Ode di 8 strofe di 6 versi settenari e un endecasillabo (ababcC) Ode di 9 strofe di 5 versi settenari e endecasillabi (le prime 3 AbABB, le altre 6 AbaBB) 5. Ode di 9 stanze di 6 versi settenari e endecasillabi (la prima e la terza 5 abAbCC; le altre abAbcC) 6. Ode di 8 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (le prime 5 strofe aabBcC, poi una aabBCC, poi 2 aabBcC) 7. Ode di 14 stanze di 5 versi settenari e endecasillabi (AbbCC) 8. Ode di 6 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (AbbACC) 9.I. Ode di 10 strofe di 8 versi settenari e endecasillabi (ABABccDD) e congedo (EFF) 9.II. Ottave (10) 10. Ode di 5 stanze di 6 versi settenari e endecasillabi (ababcC) 11. Ode di 7 stanze di 6 versi settenari e endecasillabi (aabBcC) 12. Ode di 5 stanze di 6 versi settenari e endecasillabi (aabBcC) 13. Ode di 5 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (AaBBCC) 14. Ode di 6 stanze di 5 versi settenari e endecasillabi (abacC) 15. Ode di 13 strofe di 5 versi settenari e endecasillabi (aBaBB) e congedo (cdD) 16. Ode di 8 stanze di 10 versi settenari e endecasillabi (ABABABbCDD), con ottavo verso che rima in -enda 17. Ottave (24) 18. Ode di 6 stanze di 13 versi settenari e endecasillabi (abCabCcdeeDFF) e congedo (GHH) 19. Ode di 9 stanze di 4 versi settenari e endecasillabi (AbbA) e congedo (CC), con rime tronche 20. Ode di 11 strofe di 6 versi settenari (ababcC) 21. Capitolo di 121 versi endecasillabi in terza rima 22. Ode di 7 strofe di 6 versi settenari (abBacC) 23. Ode di 10 strofe di 6 versi settenari (ababcc) 24. Ode di 7 stanze di 11 versi settenari e endecasillabi (ABBACDdEeFF) e congedo (gHHII) 25. Sestina con congedo (BFE) 26. Ode di 11 stanze di 6 versi settenari e endecasillabi (AaBBCC)

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27. Ottave (6) 28. Ode di 8 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (AbbACC) 29. Ode di 8 strofe di 8 versi settenari e endecasillabi (ABccABDD) e congedo (eFGG) 30. Ode di 24 stanze di 6 versi settenari (ababcc) 31. Ode di 10 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (aBbAcC) 32. Ode di 12 strofe di 12 versi settenari e endecasillabi (abCabCdeEDfFabCabCdeeDfF) 33. Ode di 12 strofe di 8 versi settenari e endecasillabi (AbbAAbbA) e congedo (eC) 34. Capitolo di 94 versi in terza rima 35. Capitolo di 46 versi in terza rima 36. Capitolo di 144 endecasillabi (ABCACBDEBDEFGEFGH) 37. Ode di 16 strofe di 6 versi settenari e endecasillabi (ababcC) 38. Canzone di 3 strofe di 14 endecasillabi (ABBA ABBA CDE CDE) 39. Ode di 10 strofe di 10 versi settenari e endecasillabi con schemi: ~ 2 strofe (abbAaCdDeE) ~ abbAbcdDcC ~ abbAaCdDcC ~ abbAacdDcC ~ abbAaCdDCC ~ abbAaCDDCC ~ abbAaDeCDD ~ 2 strofe (abbAaCdDCC) 40. Ode di 5 strofe di 16 versi settenari e endecasillabi come segue: (AbbCBaaCcddEeDFF), la terza irregolare ~ e congedo (gghhIlhMM) Sull’esempio di Luigi Alamanni che si dichiara erede di Tibullo e di Callimaco ed iniziatore del genere elegiaco nella letteratura italiana, Fiamma prende una chiara posizione in polemica con Claudio Tolomei26, rifiutando l’applicazione della metrica quantitativa alla lingua italiana ed esaltando le qualità elegiache della terza rima; la serie delle odi composte ad imitazione del modello proposto da Bernardo Tasso27 è inframmezzata da capitoli in 26 Nei Versi e regole della nuova poesia toscana Tolomei propose di trasferire nella lingua italiana le regole della metrica quantitativa Latina e nel Cesano de la lingua toscana sostenne, in opposizione al Trissino, un sistema ortografico più semplice e in cui, a proposito della questione linguistica, polemizzò contro il classicismo toscanizzante per l’affermazione di una koinè toscana fondata sull’uso popolare. 27 Fonte citata esplicitamente nel salmo XXXVI a proposito della “catena”. L’ode di ispirazione oraziana è una canzone di brevi strofe (5 o 6 versi) composte perlopiù di settenari,

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terza rima, una sestina, una canzone composta da tre sonetti gemelli, una catena, alcune composizioni in ottava rima. Evidentemente la metrica adottata è irrelata rispetto al testo sia latino, sia ebraico28; la sperimentazione metrica si affianca alla ricerca di una “maniera” mimetizzata in forme stilistiche e retoriche perlopiù dimesse e misurate, che però scaturisce da una congerie di traduzioni ed interpretazioni spesso lontanissime, che fanno della Parafrasi poetica un luogo di reazione delle esegesi più diverse e contraddittorie: basti scorrere i nomi citati nelle annotazioni per trovare accanto ai classici greci e latini, Girolamo e Agostino, i Padri della Chiesa, oppositori della Riforma protestante come Giovanni Cocleo, Agostino Steuco, Alfonso da Castro, Francesco Titelmano, veri e propri restauratori come il Cardinale Gaetano (Thomas de Vio), autori vicini alle tesi della Riforma come George Buchanan, gli spiritualisti Marcantonio Flaminio e Isidoro Clario, l’ebreo convertito Felice da Prato, un’auctoritas della tradizione ebraica come David Kimchi e il suo traduttore in latino Sante Pagnino29. Umanesimo, Riforma e Controriforma, tradizione latina e tradizione ebraica si incontrano nei salmi di Fiamma con buoni esiti, ma non senza problemi; con grande abilità, egli ricerca la leggerezza di un intervento discreto che talvolta chiarisce fino a decodificare, talaltra integra il testo latino, salvo, più o meno consapevolmente, deviarlo e manipolarlo perché si adatti alle necessità esegetiche: Interpretativo anziché appropriativo, o “espansionistico” — alle soglie della decalcomania — il modello della versione metrico-salmica non rinunciò all’aemulatio, alla metamorfosi letteraria, alla parodia, nell’accezione etimologica altrimenti detta “canzonetta”. Bernardo Tasso è l’iniziatore e uno dei principali frequentatori di questa forma metrica (es. gli Amori del 1555). Proprio nella forma metrica dell’ode Tasso compose le parafrasi di trenta salmi comprese nel Quinto libro delle Rime. Cfr. A. MENICHETTI, Metrica italiana: fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova 1993. 28 Cfr. A. SCHÖKEL, Manuale di poetica ebraica, Brescia 1989. 29 Citato nell’esposizione al Salmo CIII, Tu che queste mie membra inferme avvivi delle Rime Spirituali. Nato a Narbona, in Provenza, nel 1160 circa, morto a Toledo nel 1235; figlio dello studioso Josef Kimchi commentatore delle Scritture secondo il senso letterale, David studiò le Scritture e il Talmud e la grammatica ebraica; prese parte alla disputa su Maimonide, scrisse un’opera grammaticale, il Miklol, e commenti ad alcuni libri della Scrittura, fra cui i Salmi. Adottò il metodo Peshat (dal verbo pashar, dividere) che si ispira al Targum (= traduzione) e che, in contrasto con quello del Midrash, opera una scomposizione del testo da interpretare, con l’intenzione anche di controbattere l’interpretazione cristiana, secondo un procedimento che il padre aveva già adottato, cioè proprio quello della parafrasi. Cfr. D. KIMCHI, Commento ai Salmi, Roma 1991; P. DE BENEDETTI, Considerazioni sulle versioni bibliche nella tradizione ebraica, in La traduzione dei testi religiosi cit., p. 13. Sante Pagnino, monaco domenicano allievo di Savonarola, pubblica nel 1526 gli Hebraicarum institutionum libri IV ex rabbi D. Kimchi e nel 1529 un Thesaurus Linguae Sanctae (dizionario di lingua ebraica).

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attribuita da Goethe alla traduzione, nella sua equivalenza di varianti formali e innovative opzioni semantiche. […]30.

Caso notevole è il salmo XXXVIII. Primo di un piccolo gruppo di salmi di lamentazione (37-40) è «un cantico della miseria umana, fisica e morale, un inno della finitude e della culpabilité, un canto anche della morte e del male di vivere [] il suo autore è fratello di tante altre coscienze sensibili che si sono poste lo stesso lacerante interrogativo e l’hanno formulato secondo le loro proprie e differenti categorie»31. Il salmista qui è una sorta di Giobbe giunto al limite della propria condizione che grida a un Dio, se così si può dire, anche egli al limite delle proprie azioni, “Meglio sarebbe non esser mai nati!”. Il volgarizzamento, in forma di canzone composta da tre sonetti fratelli, che hanno cioè le stesse sequenze rimiche, sul modello di Petrarca32, è presentato con l’orgoglio di chi sa di aver creato una forma originale — altro è inserire in un canzoniere tre «sonetti fratelli», (come anche avevano proposto Venier, Caro e lo stesso Fiamma nelle Rime), altro è farne uno schema unitario e autosufficiente. Nel primo sonetto, tutto volto al presente, troviamo una lamentazione sul dolore: Io, che di tacer sempre havea pensato, e co’l silenzio sì la lingua armarmi, […] Il chiuso foco raddoppiarsi io sento e ’l coperto martir via più m’incende onde in tal note al fin la lingua ho sciolta.

Nel secondo una lamentazione sulla vanità dell’esistenza umana: Breve corso di vita e breve stato al tuo sommo saper piacque di darmi […] vano e misero è l’huom qual ombra o fiato,

nel terzo l’invocazione che scaturisce da una sofferenza profonda e resa con immagini crude 30

C. LERI, Esercizi metrici sui «Salmi»: la poesia di Gabriele Fiamma, in Scrittura religiosa. Forme letterarie dal Trecento al Quattrocento, a cura di C. DELCORNO e M. L. DOGLIO, Bologna 2003, pp. 131-132. 31 RAVASI, Il libro dei Salmi, I: (1-50) cit., p. 707. 32 Il quale aveva composto in questo modo i tre sonetti XLI, Quando dal proprio sito si rimove, XLII, Ma poi che ’l dolce riso humile et piano e il XLIII, Il figliuol di Latona avea già nove.

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Contra l’huom, per le colpe sorgi irato, con quelle piaghe, ond’io non posso aitarmi, qual rosa veste da tignuola parmi che rendi quel, ch’è in lui chiaro, e pregiato e un fumo l’huom: […]

In questo salmo l’intensità poetica sembra essere maggiore che negli altri componimenti: il lamento e la lucida disperazione sono ottimamente resi e mai si ha la sensazione di scarsa autenticità. Il «chiuso foco», variatio tutt’altro che ingenua della sentenza petrarchesca «Chiusa fiamma è più ardente»33, riduce l’uomo in «fumo» e consente al poeta di tradurre con una precisione etimologica quel termine ebraico hebel, che in Qohelet è stato reso con «alito di vento», vanitas vanitatum34. Ancora degno di nota è il salmo XXI, trasformato in un capitolo in terza rima di 122 versi endecasillabi in cui i toni terribili e angosciosi dell’originale vengono sistematicamente stemperati nell’elegia. Il salmo, che celebra la regalità universale di Dio e la sua giustizia annunciate alla generazione ventura e ai popoli che devono nascere, si compone di tre parti che sfumano con dolcezza l’una nell’altra: la prima appartiene al genere della lamentazione ed è un dialogo tra il poeta braccato e schernito dai suoi persecutori e Dio che, avendolo scelto ancor prima della sua nascita, è chiamato a prestare soccorso; la seconda parte è occupata dal ringraziamento, che rimane implicito, per l’esaudimento non ancora ottenuto delle preghiere; la terza e ultima parte apre alla prospettiva messianica. Omogeneo, duttile, adatto ai temi più disparati, il capitolo si presta meglio di ogni altra forma metrica al tono di intima confessione, di personale supplica del salmo. I primi 60 versi sono riservati al lamento: il salmista invoca Dio in un momento di particolare prostrazione e non ode risposta, ma la supplica diviene quasi rimprovero: «tu non rispondi e io non mi consolo». La forza dell’immagine della creazione nel ventre, «Quoniam tu es, qui extraxisti me de ventre spes mea ab uberibus matris meae, in te projectus sum ex utero», si scioglie nella parafrasi in una forma più blanda e musicale di una adozione successiva alla nascita «se dunque dai primi anni ti ho per duce». Nonostante la descrizione del proprio stato psico-fisico sia molto intensa «non è più dentro al petto mio cor vivo/ che ’l duol l’ha fatto come al foco cera»; e ancora secca è quella virtù che già verde era 33

RVF 207, 66. Cfr. Qohelét. Colui che prende la parola, versione e commenti di G. CERONETTI, Milano 2001, p. 10; cfr. Kohélet/Ecclesiaste, traduzione e cura di E. DE LUCA, Milano 1997, pp. 12-14. 34

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e fatta come creta nel foco arsa e la mia lingua è unita a quella sfera.

il ritmo è cantilenante e lacrimoso, mai tragico: Favola son a questa turba vile, hor questo, hor quel di me si prende gioco, cantan di me con scherno in basso stile.

Se nelle Rime spirituali è possibile riscontrare una componente autobiografica, talvolta evidente, talvolta in controluce35, qui sorprendente è la confusione cui inducono i versi nei quali non è difficile riconoscere dietro le parole di David la voce di Fiamma, che nelle annotazioni si scaglia contro gli «heretici di questi tempi» (p. 104). Sembrerebbe addirittura avvenuto un capovolgimento rispetto alle Rime, dove «il canzoniere, da più generale modello biografico-spirituale» era diventato, scrive Ferroni, «schema per ripercorrere direttamente il cammino dell’anima dal peccato e dai turbamenti da esso prodotti al pentimento e alla redenzione»36. Nel salmo XXIII il ritmo secco della canzonetta rispetta l’andamento trionfale dell’originale, ma di nuovo le immagini sono diluite in alcune perifrasi: la terra ha «campi fioriti», il tempio è il «bel ricetto», Dio è «duce e padre / de le celesti squadre». Il tono di celebrazione solenne del salmo è reso con colori pastello e la chiusura grandiosa della spettacolare teofania: Attollite portas principes vestras, et elevamini portae aeternales: et introibit rex gloriae. Quis est rex gloriae? dominus fortis et potens: dominus potens in proelio. Attollite portas principes vestras, et elevamini portae aeternales: et introibit rex gloriae. Quis est rex gloriae? dominus virtutum ipse est rex gloriae.

è distribuita in quattro strofe nelle quali solo la domanda suprema si ripete identica, ma in una formula meno incisiva, mentre il resto è addolcito in una serie di variationes Fate sublimi, e larghi 35 Cfr. ZAJA, «Perch’arda meco del tuo amore il mondo». Lettura delle Rime spirituali di Gabriele Fiamma cit., pp. 266-267. 36 Poesia italiana. Il Cinquecento, a cura di G. FERRONI, Milano 1978, p. 31. Gabriele e David uniscono le proprie voci anche nel salmo XXXIII, nell’incipitaria lode a Dio «Benedicam Dominum in omni tempore: semper laus eius in ore meo», resa nella seconda stanza così: «Signor, da te conosco quel, ch’io sono, / onde celebro, e canto / il tuo bel nome santo, / e in rime del tuo amor sempre ragiono».

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i fori vostri, o porte eterne: or ben s’allarghi la strada a quella corte, ove entra il sommo duce, pieno d’immortal luce. Chi è questo Re sì chiaro, di tanta gloria cinto? Egli è il principe raro, che’l fier nimico ha vinto, Signor forte, e possente, che regna in ogni gente. Porte del Cielo eterne, ciascuna di voi s’erga, et apra a le superne contrade, ove Dio alberga, a questo Re la via, ch’illustre a voi s’invia. Chi è questo pien di gloria principe sempre invitto? Gli è quel, la cui Vittoria sempre ha il nimico afflitto, inclito duce, e padre de le celesti squadre.

Nel salmo XXVIII, invece, il volgarizzamento letteralmente gioca con l’originale. Il testo latino è tramato dall’anafora dei sette tuoni come manifestazione della voce di Dio «vox domini super aquas […] vox domini in virtute, vox domini in magnificentia […] vox domini confringentis cedros […] vox domini intercidentis flammam ignis, vox domini concutientis desertum […] vox domini praeparantis cervos». L’esortazione «afferte domino» ripetuta quattro volte costruisce una climax che esplode nel primo tuono-voce sull’oceano «super aquas multas»; da qui parte il “viaggio” che conduce la voce sui monti del Libano a sconvolgere gli alberi di cedro, e poi a percorrere il deserto come un fuoco, fino a sorvolare Cades. Finalmente il tuono che fa contorcere le cerve durante il parto giunge al Tempio, e lì Dio si insedia «in aeternum», su un «diluvium» che non è più terrestre, ma è ormai cosmico. Finito il terrore, Dio si è manifestato, e ora dalla sua sede «benedicet populo suo in pace». Nel volgarizzamento il mot-clé del salmo «vox» si cristallizza, evocato e dissimulato nel quasi omofono «Voi» dell’apostrofe in incipit «Voi, che l’antica, e generosa prole», reiterato sempre in incipit da «e voi, che col’l valor nel dubio mare» qualche verso dopo; ma la cadenza terrificante dovuta

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alla ripetizione della «vox» si mimetizza nell’iponimo “suono”, «quel, che co’l son de le parole affrena», «fuor manda il suon, che fa tremar il Cielo», e si fissa al centro del componimento, nei primi versi di due strofe consecutive, «di questo re la voce», «al suon de la sua voce». Solo nelle annotazioni Fiamma recupera e sottolinea la potenza dell’anafora del latino, sfruttando l’occasione per illustrarne il portato evocativo dei sette sacramenti e delle sette ultime parole pronunciate da Cristo sulla croce. Ad ogni passo si intrecciano problemi testuali, questioni relative alla traduzione e al rapporto fra Bibbia e tradizione, trattazioni didattico-didascaliche, che costringono Fiamma a costruire un apparato articolato su più livelli, capace di guidare alla lettura consapevole e all’interpretazione corretta, senza sottrarre il piacere dell’esecuzione “musicale”, ritmica, poetica: è per questo motivo che le annotazioni sono elemento imprescindibile del libro e spesso assumono dimensioni preponderanti. Nella dedica A’ lettori delle Rime Spirituali Fiamma aveva spiegato Quanto poi all’Esposizioni, che ho voluto fare io stesso alle cose mie, dirò brevemente, che due cose mi hanno spinto a mettermi a quest’impresa. L’uno il sacro e santo soggetto di queste Rime, il quale conoscendo io che porta seco tanto giovamento, quanto possono desiderar gli uomini in questa vita. Ho pensato, che il dichiararlo, e spiegarlo, e quasi ruminarlo a’ semplici non potrebbe esser di non grandissima consolazione. E tanto più che i moderni Eretici vanno profanando ogni Santa opera; e però dobbiamo sempre esser pronti a render ragione della dottrina nostra: il che m’è paruto di non poter far con maggior frutto in alcun’altra maniera, che col far queste Esposizioni. L’altra cagione, che a questo m’ha mosso vivamente, è stato il veder che i commentatori de’ Poeti vanno con tanta difficoltà indovinando la mente de gli auttori, che molte fiate fanno lor dir cose ch’eglino non pensarono giamai (A’ lettori).

E aveva anche precisato che interrompeva «in gran parte gli altri studi» per comporre rime che sono «diverse in tutto dal dire ne’ pulpiti»: lirica ed oratoria sarebbero generi opposti e inconciliabili per forma e finalità, come ripete esplicitamente nelle annotazioni al salmo XXIII: Quelli, c’hanno ragionato e scritto dell’eccellenza del Poeta, vogliono, che la principale sua intenzione, diligenza, e studio debbia esser impiegato per conseguir questo fine che gli uomini, leggendo i loro poemi, i loro versi, restino meravigliati, e stupiti; per questo dicono che è grandissima differenzia tra l’Oratore, e ’l Poeta: benché Cicerone dica che sono molto conformi. Sono veramente conformi in questo, che l’uno e l’altro attende all’arte del dire, e hanno il genere dimostrativo, e ’l deliberativo commune: perché ciascuno di loro lauda, e vitupera; persuade, e dissuade; hanno anco le parole communi, ancor che l’uno voglia parole degne d’esser udite in senato con gravità, e di questo si

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contenti; l’altro non voglia le parole solamente gravi, ma ancor magnifiche, et eccellenti. l’una e l’altro ha il suo numero, e li suoi ornamenti; ma questa differenza hanno fra loro grandissima, che il Poeta, o parli di cose grandi, o di cose picciole, o gravi, o piacevoli, sempre deve parlar talmente, che le sue parole possino far maravigliar chi le legge, o chi le ascolta: come la natura, che non è meno maravigliosa nella fabrica del corpo d’un polce, e d’una mosca, che si sia in quella dell’uomo, dell’Aquile, e de’ Leoni però ne’ suoi gradi, se l’Oratore ragiona bene, e con maniere, e con parole, e con argomenti, fa l’ufficio suo, e sarà stimato buon Oratore, ancor che non persuada al giudice quello, ch’egli vuole; ma il Poeta non conseguirà mai il suo fine, se non empie l’animo di chi legge, o di chi ascolta d’ammiratione, onde egli n’abbia aver lode e fama immortale; e non dico che ’l Poeta abbia da far maravigliar gli ignoranti, o le persone, che non s’intendono di Poesia, ma gli stessi poeti, come fece con l’arte sua Parrasio pittore, il quale finse così bene un velo, ch’ingannò il suo concorrente, il quale aveva già così ben finto l’uve col pennello, che gli uccelli erano volati sopra, credendosi, che fossero vere: onde la mediocrità nel Poeta non si può patire (p. 116).

Eppure proprio nella Parafrasi poetica lirica e retorica trovano una certa qual conciliazione. Se nelle Rime spirituali l’esposizione dei volgarizzamenti si limitava perlopiù a questioni testuali, per non appesantire troppo un’opera già di per sé sostanziosa: «Ma non è ora intenzion dell’autore di fare l’esposizione de’ Salmi» (p. 36), nella Parafrasi poetica ciò che il testo latino e il volgarizzamento insieme non sono in grado di rendere trova albergo nelle annotazioni che affrontano questioni di retorica e di traduzione, trattazioni teologico-filosofiche, antropologiche, dottrinarie37: in questi Salmi e nelle Rime ha sempre variato le descrizioni con l’aiuto della Astrologia, della Poesia, della Fisica, della Prospettiva e d’altre scienze; ornando quanto si può questo Poema che in se stesso e nella sua lingua è perfettissimo e ornatissimo. Sono questi versi variamente interpretati: ma l’Autore ha seguito quelle spositioni che da lui sono giudicate più a proposito e più continuate. Perciò, se alcuno al primo aspetto, vedendo questa Parafrasi, la giudicherà forse poco conforme al suono della nostra traduzione, prima che di lei faccia giudizio, entri a considerare la forza della lingua e la varietà delle traduzioni; e poi potrà meglio giudicare (p. 43).

37 Cfr. G. FERRONI – A. QUONDAM, La “locuzione artificiosa”. Teoria ed esperienza della lirica a Napoli nell’età del manierismo, Roma 1973, p. 17: «Con la pratica della “sposizione” il testo diventa insomma tesoro, cofanetto di preziosi, di monete espressive e linguistiche; non più rotella di un ingranaggio più vasto e assoluto, ma autonomo repertorio di modelli di vita, di comportamento, di trasmissione verbale. La supremazia divina dell’universo medievale è stata sostituita dalla sacralità del testo, dalla sua immobile ricchezza di formulario, di scheda globale delle possibilità di vita e di espressione».

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Varrà la pena elencare gli argomenti principali delle annotazioni. 1. Il compito del parafraste 2. I principi e i moderni popoli sediziosi; natività eterna 3. Padre e figlio come anima e corpo 4. Il senso letterale; il testo latino 5. I misteri; il Tempio 6. L’adulterio; vita corporale e spirituale; il giudizio universale 7. Il diavolo come leone 8. Le parti del mondo: l’uomo fra Dio, gli angeli e le bestie 9.I Il canto; gli eretici 9.II Il principe 10. L’esilio 11. L’adulatore 12. L’occhio, la musica e la poesia 13. Contro l’ateismo; il lavoro filologico 14. Dieci gradi della via verso il Cielo 15. La speranza in Dio; il mare 16. Il giusto 17. L’ingratitudine; i miracoli; trattato di filosofia naturale; 18. L’anima dei cieli 19. La guerra giusta; i sacrifici 20. Il principe 21. Questioni di lingua ebraica; gli eretici moderni 22. Il pastore, l’eucarestia, il Messia; contro gli Evangelici 23. L’oratore e il poeta; le bugie 24. Speranza e timore; ornamento e sacramento 25. La sestina; i sette peccati capitali 26. Il governo dei popoli 27. L’omicidio; la cerimonia 28. L’ariete; le sette voces 29. I misteri del messia; il padre nostro 30. La speranza in Dio; le immagini; la magia 31. Le confessioni; l’uomo e la bestia 32. La musica 33. La finta pazzia; la canzone di Bembo 34. L’elegia cristiana 35. I peccatori 36. L’«infelice felicità dei tristi»; la catena metrica 37. La penitenza; la donna 38. Le ingiurie; canzone in forma di tre sonetti gemelli

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39. La perseverante; gli inni 40. Il viver sano. Spesso la nota si trasforma in postilla e la postilla si dilata quasi in predica38: le note più corpose si strutturano secondo un preciso disegno retorico che ruota intorno ad un exemplum e che ha generalmente un impianto allegorico, nel quale l’amplificatio di una immagine avviene mediante l’uso delle auctoritates concordatae. E non è infrequente che l’exemplum, proprio come in una orazione, sia presentato come una vera e propria imago agens39. Nella prima parte delle annotazioni al salmo XXII Fiamma illustra la figura di David nei due ruoli di re e di pastore, ma è il pastore che riceve l’attenzione maggiore: del suo officio sono descritti tutti gli aspetti in una lunga enumerazione, poi si offre al fedele una serie di quattro esempi concreti, Abele, Giacobbe, David e Mosè. I quattro esempi diventano parti di una disegno più grande che è l’officio pastorale: chi vuole occuparsi di anime, insegna Fiamma, deve mimare l’immagine che ciascuno di questi quattro specchi mostra, proprio come accade, ad esempio, nella prima delle Sei prediche che descrive la figura di Noè come allegoria di Cristo […] considerò questo gran misterio della venuta del figliuol di Dio in carne, di cui parla San Luca in questo dolcissimo Vangelo suo, che comincia Missus est Angelus Gabriel: parmi di non poter trovare storia più atta a scoprirvi i sacramenti, che tocca il divino Evangelista, di questa figura; dalla quale potete imparare, e vedere, come in uno specchio, qual venuta sia questa. […] La colomba è mandata: cominciamo da qui. E quale è questa colomba? se non Cristo innocentissimo: qui peccatum non fecit, nec inventus est dolus in ore eius. […]40. 38 Perché il gioco appaia nella sua complessità circolare, si considerino le parole di Carlo Delcorno nell’Introduzione a Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XII-XVI, Atti del Seminario di Studi (Bologna 15-17 novembre 2001), a cura di G. AUZZAS – G. BAFFETTI – C. DELCORNO, Firenze 2003, p. 5: «L’impianto retorico della predica medievale, come è noto, deriva dalla tecnica dei commentari biblici, e in particolare dalle distinctiones, elenchi di parole della Bibbia seguite da una breve illustrazione morale, che diventa sempre più ampia fino a suggerire uno schema già pronto per il predicatore. La mise en page del sermone, soprattutto prima dell’introduzione della stampa, riflette in modo preciso la derivazione della predica dall’esegesi biblica». 39 L’uso delle auctoritates da parte di Fiamma, più vicino a quello di Erasmo negli Adagia che agli esiti imposti dalla Riforma tridentina e dagli indirizzi del Borromeo, sembrerebbe appartenere alla «seconda rinascita ciceroniana», della quale uno dei primi fautori è proprio l’amico Paolo Manuzio (cfr. M. FUMAROLI, L’età dell’eloquenza. Retorica e res literaria dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica, Milano 2002, pp. 173-193); e cfr. SANTINI, L’eloquenza italiana dal Concilio tridentino, I: Gli oratori sacri cit., pp. 41-43; L. Bolzoni, Oratoria e prediche, in La letteratura italiana, 3: Le forme del testo, II: La prosa, diretta da A. ASOR ROSA, Torino 1984, pp. 1041-1074. 40 G. FIAMMA, Sei prediche… sopra l’Evangelo di San Luca…, Venezia, Francesco de’ Fran-

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Ogni figura offre un aspetto diverso e tutte insieme ricostruiscono l’idea generale di questo officio: Questa è la pittura, e la vera imagine del Prelato, e pastore: deve star nel mezzo de’ candellieri, cioè nel mezzo delle virtù, si che tutto sia illustre, e chiaro: vestito, per la santa conversazione: cinto, per castità: d’oro, per l’amore: ha i capell bianchi, perché i suoi pensieri son puri: di lana, perché sono incorrotti: ha gli occhi ardenti, per la providenza, e per il governo de’ suoi soggetti: ha la voce terribile, per la predicatione: i piedi infocati per l’opere amorose. Queste sono le condicioni del pastore puro, giusto, innocente, come Abele (p. 109).

Per addurre qualche prova, le annotazioni al salmo XVII sono dedicate all’ingratitudine e si strutturano intorno all’immagine delle tre grazie — il mito, trasformato in allegoria, viene sfruttato come strumento pedagogico — secondo una sequenza alternata di esempi positivi e negativi. L’introduzione è riservata a vari exempla letterari di ingratitudine il cui fulcro è la figura di Enea; ad essa si oppone Crisippo come esempio di uomo capace di riconoscenza e rispetto; segue una seconda parte in cui è utilizzato materiale mitologico; di nuovo torna la casistica sull’ingratitudine umana; ad essa succede, poi, una serie di simboli di ingratitudine; e ancora il canto, come forma sublime di rendimento grazie; chiudono i precetti di San Paolo dedicati a chi vuol vivere giustamente. Dal confronto delle due diverse condotte, degli ingrati e di chi è capace di gratitudine, tessute in un disegno a tutto tondo, il lettore trarrà il debito insegnamento. Nelle annotazioni al salmo V si trova invece una trattazione erudita sull’uso nelle varie religioni di frequentare il Tempio e di fare i sacrifici di giorno oppure di notte, che si può considerare una “storia antropologica” degli usi religiosi. Il Tempio ricorre anche nelle annotazioni al XXIII nel segno dell’antico óπ letterario del mondo come teatro41: l’idea della vita, intesa in termini morali, come commedia o tragedia compare in Platone, si cristallizza in cliché presso i cinici e si ritrova anche nella letteratura latina, in Orazio, Cicerone e Seneca; Agostino con tono melanconico, nelle Enarrationes al Salmo CXXVII scrive «altro non è se non commedia del genere umano tutta questa vita che conduce di tentazione in tentazione». Ma Fiamma volge il tema al positivo — dimidiandone la forza tragica originaria ed esaltando la divina provvidenza — interpolando la metafora teatrale con l’immagine biblica e ottendendo una sintesi di tono mistico in quella

ceschi, 1579, pp. 11-12. Sulle prediche di Fiamma si veda il citato saggio di OSSOLA, Il “Queto travaglio” di Gabriel Fiamma, pp. 264-275. 41 CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino cit., pp. 158-164.

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della Chiesa, in cui la terra è come un coro, gli uomini sono i sacerdoti e Dio è l’architetto: Splende la divina providentia, la divina virtù, in tutte le creature sue, ma particolarmente nel Cielo, e nella terra; per questo Varrone diceva, che quelli due corpi Cielo e Terra sono dui principi di Dio. Conoscono i savi, che ’l mondo è come un tempio da Dio fabbricato per la sua stessa maestà: in cui la terra è come il coro, e gli huomini sono come sacerdoti, c’hanno in questo coro, sempre a lodar, et a benedire il suo creatore (p. 118).

In queste articolate annotazioni ampio spazio viene dedicato alle tematiche tridentine: i sacri decreti, il peccato originale, e i sette peccati, la messa, i sacramenti, la condanna degli antichi e dei moderni eretici. La nettezza con cui vengono trattate è propria di una guida spirituale solida, ma non intransigente, decisa, ma capace di sentire e far comprendere le sfumature e i chiaroscuri, come nel caso della condanna degli scritti degli eretici nel salmo XI Del numero di questi arroganti sono stati quei Filosofi, che non hanno voluto conoscer Dio, come scrive San Paolo; et fra questi s’hanno a mettere quelli Eretici, i quali, come dice il medesimo, con la dolcezza della parole sono andati ingannando gli innocenti; tutti quelli, c’hanno parlato con eleganza, con splendore, e con dolcezza, non mertano d’esser ripresi, e tenuti arroganti; anzi, non potrà qual si voglia forza, e dolcezza di ragione agguagliarsi al dire de’ Santi Dottori, Crisostomo, Ambrosio, Ilario, Cipriano, Gregorio, Agostino: il dir vago, et ornato è comune a buoni, et a tristi; a cattolici, et a gli Eretici: quelli con questa giovano, questi nuociono; quelli insegnano le virtù, e le persuadono: questi mostrano i vizi, e li fanno abbracciare; quelli illustrano la verità: questi ‘occultano, quelli fanno cibi saporiti con l’arte: questigli avelenano; però si hanno da fuggire, si, che non si leggano i libri proibiti, de gli uomini arroganti e superbi, e contumaci; e quelli ancora degli infedeli, che si possano leggere si leggano con giudicio, e con pietà, procacciando di coglier i fiori, guardando sempre di non essere offesi, e punti dalle spine (p. 49).

Tale è la minuzia con la quale il problema dei divieti è esposto, tale è la partecipazione personale di Fiamma, che si sente quasi un’ombra impercettibile di ambiguità in questo ammonimento, che sembrerebbe suonar così: esistono libri buoni e cattivi e fra i cattivi esistono libri cattivi non recuperabili e libri cattivi capaci di parlare in modi che per la loro grazia portano in ogni caso qualcosa di buono. Si arriva quasi a pensare che, posta la bontà e l’efficacia dell’ortodossia cattolica, la forza della poesia, la sua dolcezza, anche quando ha un fine condannabile, reca in sé un germe di bellezza e un qualche insegnamento positivo. D’altra parte, nella Parafra-

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si poetica è proprio questo che Fiamma cerca di realizzare, una guida alla lettura del Salterio in cui il sacramento sia esposto con il meglio dell’ornamento, selezionato e amministrato con cura e giudizio.

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5 ORNAMENTO E SACRAMENTO: LE CONTRADDIZIONI DELL’ELEGIA CRISTIANA La difesa dell’ortodossia, che agisce sulla via della reductio ad unum delle diversità di pensiero, e la sua espressione in un linguaggio manierista, fondato intimamente su un principio eterodosso di messa in tensione centrifuga dei confini e delle regole, di deformazione del Canone e di riscrittura, anche parodica e dissacrante, dei modelli1, generano nella Parafrasi poetica una contraddittorietà ineludibile e un costante stridìo, conciliato a stento nella formula del titolo, tra forme e contenuti: un senso negativo e oppositivo si cela dietro l’apparente “fedeltà letterale”, scompaginando, non senza una certa involontaria ed oscura ironia2, le chiare e costruttive intenzioni pedagogiche. Hans Küng e Walter Jens hanno sentito che «ambiguità, ambivalenza, unità discorde, illuminazione reciproca, dialettica, contesa tra cielo e terra (occasionalmente può anche venir fuori l’inferno)» albergano nell’incontro tra poesia e religione, che questo ha «un apporto dai tratti in parte devoti, in parte provocanti, anzi a volte addirittura choccanti»3. Scriveva qualche decennio fa Carlo Ossola: La letteratura religiosa, come luogo dell’originale e consapevole sforzo di variazione e illuminazione, di esegesi o di metafora o di ardita profezia, sulla Parola per sempre pronunciata (come situazione condizionata a priori del fare poetico e come genere perciò specifico nell’elaborazione letteraria, poiché le regole ivi operanti non sono soltanto d’invenzione, ma vanno anche correlate a una legislazione e a una norma di fede che all’autore promana da una materia designata) è concesso di recente acquisito dalla più consapevole critica. […] Da tale smembramento per generi, ai quali la componente religiosa veniva giudi1 Cfr., in particolare, G. R. HOCKE, Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte esoterica, contributo a una storia comparata della letteratura europea, Milano 1965. 2 Clara Leri sostiene che, «ben al di là dell’aspetto esegetico della parafrasi, la versificazione cinque e seicentesca dei salteri volgari pare avviarsi sulla strada della parodia — secondo l’accezione già applicata da Goethe alla traduzione — poiché l’equivalenza dinamica degli schemi formali accentua la tensione tra il significante e il significato, specie se scritturistico» (Sull’arpa a dieci corde cit., p. 22). 3 H. KÜNG e W. JENSEN, Poesia e religione, Genova 1989, p. 9; il libro raccoglie sedici “pionieristici” saggi nati da lezioni accademiche e dedicati al rapporto che si instaura tra poesia e religione dal XVII al XX secolo.

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cata accessoria, son rimaste dissociate o quanto meno impoverite molte figure, specialmente del nostro Cinque e Seicento4.

E gli ha fatto eco di recente Amedeo Quondam, in una chiave diversa, ma compatibile: È stato il pregiudizio, tutto ideologico, che ha escluso (e continua a escludere, anche se in termini sempre più opachi) dal campo della “letteratura” le tantissime e tanto diverse esperienze di poesia religiosa (devota spirituale sacra eccetera), nelle svariate forme primarie costitutive e proprie di questa imponente tipologia culturale (liriche: canzoni sonetti madrigali; narrative: poemi in terza e in ottava rima), oltre che nella lunga durata di forme archetipiche (la lauda). Una rimozione (anzi, una progettata cancellazione: per produrre un deserto) di qualcosa che è invece vistoso e certamente tutt’altro che nascosto negli annali tipografici e culturali del Quattrocento e Cinquecento, se invade antiche bibliografie e cronache editoriali5.

La letteratura religiosa va oltre il segno della parola artistica6 e si fa voce della voce di Dio: ancor prima di quello dei generi, l’incontro di poesia e religione solleva un problema che riguarda lo statuto del linguaggio, la sua funzione, il suo valore e il suo significato. Quando il linguaggio poetico si fa strumento di preghiera e di invocazione, in un certo senso, perde autonomia e verità, diviene lingua terrena dell’uomo opposta alla lingua di Dio dei testi sacri, in grado di rappresentare sentimenti e desideri umani senza più avere il potere della trascendenza, senza essere più il luogo sacro della parola. La parola di Dio resta confinata nei libri del Canone biblico e, se il Dolce Stil Novo aveva sacralizzato la laicità della lirica, così come Petrarca 4

OSSOLA, Il “Queto travaglio” di Gabriele Fiamma cit., p. 240. Si vedano, inoltre, A. BATTI– E. RAIMONDI, Poetiche e retoriche dominanti, in La letteratura italiana, 3: Le forme del testo, I: Teoria e poesia cit., pp. 5-339. 5 A. QUONDAM, Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa (parte prima), in Paradigmi e tradizioni, numero unico di Semestrale di Studi (e Testi) italiani 16 (2005), a cura di ID., p. 129 (http://www.disp.let.uniroma1.it/contents/?idPagina=100). 6 C. DELCORNO, Produzione e circolazione dei volgarizzamenti religiosi tra Medioevo e Rinascimento, in La Bibbia in italiano tra Medioevo e Rinascimento. La Bible italienne au moyen âge et á la Renaissance, Atti del Convegno internazionale, Firenze, Certosa del Galluzzo, 8-9 novembre 1996, a cura di L. Leonardi, Firenze 1998, p. 5: «I volgarizzamenti religiosi esorbitano, insomma, da motivazioni puramente letterarie o dal gioco delle leggi del mercato librario, e sono piuttosto da studiare come riflesso della duplice fondamentale funzione religiosa del linguaggio: la predicazione, anche nella forma della muta predicatio affidata al libro di meditazione, e la traduzione dei testi sacri, che ingloba tutto quanto serva a commentare, dilatare, farcire e illustrare la Bibbia. A siffatti documenti è necessario porre le domande che, avvertiva Dionisotti […], vanno comunque poste sempre, ad ogni opera letteraria e soprattutto alle traduzioni: “Importa sapere non soltanto perché siano state fatte, ma anche per chi”». STINI

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avrebbe trasformato se stesso e la propria figura-Anima Laura in personae di una rappresentazione tesa a sacralizzare l’umano7, al poeta lirico spirituale non resta altro che l’impiego di una forma d’espressione laica con fini spirituali; il che rende quell’espressione non più sacralizzabile, perché incapace di resistere al fuoco della vera parola di Dio, e costringe ad utilizzarla per una forma di preghiera che resta tutta umana e mondana. La doppiezza del genere spirituale giunge all’acme ed esplode nel caso delle traduzioni poetiche dei testi sacri: Bisogna arrendersi all’evidenza. Tradurre la Bibbia, questa attività così antica, e tradurre trasformando lo sguardo e l’ascolto, resta un affare capace di suscitare passioni. È un segno piuttosto buono. Per la capacità di attualità di una cosa così antica, e venerabile. Ma proprio questa è oggetto di un’approssimazione multiforme. Si cammina su un terreno minato, se la si tocca. Si tocca qualcosa di sacro. E il sacro non bisogna toccarlo. […] Il problema generale della traduzione è, al contempo, aggravato e mascherato — impensato — dal fatto che, nel caso della Bibbia, si ha a che fare con un testo religioso, e assunto come religioso. Due cose diverse. Se lo traduco come poesia, non rispetto il suo carattere religioso. Il paradosso è che se lo si tratta come un testo religioso, lo si profana8.

Un presentimento lo aveva già avuto Petrarca9 che, non solo aveva inaugurato questo cammino nella Familiare X, 4, 1-2 — dove si sostiene che tutta la Bibbia sia un vero e proprio testo poetico per la ricchezza della sua dimensione metaforica e per l’«alieniloquium» che è essenza stessa della poesia —, ma lo aveva percorso tutto intero nella prima egloga del Carmen Bucolicum, fino a porsi l’eterna insolubile questione che oppone Gerusa-

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Cfr. A. ASOR ROSA, La fondazione del laico, in ID., Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria nel corso del tempo, Torino 1997, pp. 33-142. 8 Cfr. H. MESCHONNIC, Tradurre il gusto è la guerra del ritmo, in ID., Un colpo di Bibbia nella filosofia, Milano 2005, pp. 201-202. 9 Nella prima egloga del Carmen Bucolicum si confrontano il pastore Silvio che non ama la lacrimosità di David, il certosino Gherardo che lo esalta, al contrario, come sommo poeta e Monico che parla della sua «voce robusta che penetra il cuore con segreta dolcezza». Il Salterio divenne per Petrarca fonte principale e modello per i Rerum Vulgarium Fragmenta, tanto che nel 1343, dopo che il fratello Gherardo si era ritirato in convento, compose in un solo giorno sette Salmi penitenziali a imitazione di Davide. In effetti egli non approfondì affatto il problema testuale, non affrontò la questione della tecnica poetica e probabilmente fece uso quasi esclusivamente del testo latino di Agostino, ma il suo fu un primo fondamentale lavoro di accostamento ai testi sacri della cristianità con una mentalità moderna.

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lemme alla “classicità”, la Bibbia alla poesia. Come si impara dalle parole di Giovanni Pozzi10: Se è vero che al Petrarca non poté passar per la testa di assegnare alla poesia anche religiosa quell’origine divina e quella condivisione del sacro che conseguono al dettato dello Spirito santo, tuttavia egli si dimostra persuaso che un legame, quale corre fra luce e ombra o voce ed eco, unisca l’aspirazione del poeta secolare e l’ispirazione del profeta biblico. Egli pare convinto che la mozione psichica che spinge e guida al poetare e la grazia che induce nell’anima la fede e la santità possano convivere in nome dell’anagogia cristiana. Ciò perché l’anagogia insegna a riconoscere nella lingua umana il timbro della loquela divina e a sovrapporre alla realtà extrascritturale del creato, opera di Dio, la realtà scritturale della parola di Dio che al creato si appella per designare le cose invisibili. In quest’ottica si capisce perché adduca a prova della teologicità del poetare due dati (i nomina Christi e il creato) che si rifanno direttamente a quella dottrina. La conseguenza era che, se nel corso della rivelazione divina gli stessi effati eran trascorsi da Giobbe a Davide, a Geremia, e di lì a Matteo e Giovanni, il poeta secolare, se poeta theologus, li poteva ritrasmettere a sua volta in quanto investito di una diversa ma non separata autorità. E questo a titolo strettamente proprio, di esser poeta, perché precisamente sulla poeticità si fondava la somiglianza fra la sua parola e quella sacra, visto che, come diceva il Mussato, nella Bibbia “si bene despicias… Per formas varias tota poesis erit”. Se la teologia è poesia sulla natura di Dio, la poesia è nata sotto forma di pubblica lode a lui: è in compendio l’argomento svolto nella Familiare 10, 4.

Alla fine del Trecento la contesa fra i due mondi prende le forme di una contrapposizione personale di Giuliano Zonarini a Coluccio Salutati sul primato fra Bibbia e Virgilio, con la clamorosa conseguenza che nel 1397 Carlo Malatesta, signore di Rimini, fece gettare nel Mincio la statua che i mantovani avevano eretto a Virgilio, dando corso a un sempre più vasto contenzioso che per tutto il Quattrocento avrebbe visti schierati i sostenitori dei classici e gli esaltatori delle Sacre Scritture, sostenere la mentalità scolastica, rigidamente medievale, o quella umanistica, «aperta al soffio libero e vario dell’arte»11: esemplare fu la disputa fra Poggio Bracciolini e Lorenzo Valla intorno al problema dell’intervento correttivo da parte del curatore sul testo biblico. La Riforma fece esplodere tutte le energie intellettuali e culturali che l’Umanesimo aveva caricato per più di un secolo e impose in modo dilaniante la questione dei testi sacri e della loro validità: durante tutto il secolo XVI la riscoperta umanistica degli antichi codici e le nuove edizioni 10 G. POZZI, Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia, in ID., Alternatim, Milano 1996, pp. 173-174. 11 Cfr. GAROFALO, Gli umanisti italiani del secolo XV e la Bibbia cit., pp. 338.

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critiche offrirono cospicuo materiale alle discussioni erudite e favorirono il proliferare di testi teorici e normativi12, finché nella seconda metà del Cinquecento si raggiunse una convivenza, non senza contraddizioni e tensioni, di molte anime: quella manierista e petrarchista; quella riformista, biblista e umanista; quella barocca della Controriforma. Lo straordinario concentrato di tensioni e tendenze prodotto dalle riforme protestante e cattolica, in particolare in relazione ai rapporti con i testi sacri, non conosce precedenti nella storia. Mai era avvenuta la separazione fra una letteratura di testi sacri e una di testi laici, mai era stato posto il problema di accordare la voce degli uomini a quella di Dio secondo regole, leggi, divieti precisi, talvolta cavillosi. Solo nella tarda antichità, per evidenti ragioni contingenti, si era sentito con una certa intensità il bisogno di dare alla cultura cristiana un corpus letterario suo proprio, con Giovenco13, fondatore dell’epica biblica, genere letterario sacro. L’esperienza del poema biblico tra Quattro e Cinquecento è materia ancora tutta da studiare e dobbiamo a Mario Chiesa14 una interessante selezione di opere di questo “genere” che culmina con l’opera di Lodovico Filicaia. Nel caso di quest’ultimo, al poema biblico viene riconosciuto lo status di “traduzione”, poiché 12

Una edizione critica della Vulgata, corredata di sintesi teologico-interpretative e note esegetiche, viene pubblicata da Robert Estienne nel 1528; riedita poi nel 1532, 1534 e 1538. Il benedettino Isidoro Clarius (umanista ed erasmiano) pubblica una revisione della Vulgata a Venezia, presso Pietro Schröffer fra 1541 e 1542. Nel 1545 Estienne pubblica una edizione a due colonne, nella prima la Vulgata, nella seconda la versione con le note filologiche di Francesco Vatable, professore di ebraico al Collegio di Francia, (edita a Zurigo nel 1543). Nello stesso anno in cui, durante la IV sessione del Concilio di Trento, i padri conciliari propongono di emendare il testo della Vulgata, Giovanni Henten, a Lovanio, inizia i lavori di confronto delle migliori edizioni e dei più antichi manoscritti; dopo un’ulteriore confronto con altri manoscritti ad opera dei teologi dell’Università di Lovanio, esce nel 1565 e nel 1569 presso Cristoforo Plantin la cosiddetta Bibbia di Lovanio, riprodotta a Venezia da Lucantonio Giunta nel 1571 e nel 1572. L’edizione romana dei Settanta, preparata da una commissione istituita da Gregorio XIII nel 1578 e presieduta dal cardinale Antonio Carafa, Prefetto della Biblioteca Vaticana, è condotta sui manoscritti romani e veneziani e vede la luce solo nel 1587, ma le precedenti sono quella del 1516-17, preparata per essere inclusa nell’edizione poliglotta di Alcalà (1522) e quella pubblicata a Venezia da Manuzio nel 1518 che si basa principalmente sul codice del cardinale Bessarione. Cfr. R. FABRIS, Lo sviluppo e l’applicazione del metodo storico-critico nell’esegesi biblica (secoli XVII-XIX), in La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea cit., pp. 103-128. 13 Cfr. GAIO VETTIO AQUILINO GIOVENCO, Evangeliorium libri quattuor, recensuit et commentario critico instruxit Johannes Huemer, rist. an., New York – London 1968; P. MARPICATI, Aurea Roma: Giovenco, Praef. 2.2 e Ausonio, Ordo urb. nob. 1. 1, in οὐ πᾶν ἐφήμερον. Scritti in memoria di Roberto Pretagostini. Offerti da Colleghi, Dottori e Dottorandi di ricerca della facoltà di lettere e Filosofia, I, a cura di C. BRAIDOTTI – E. DETTORI – E. LANZILLOTTA, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” – Dipartimento di Antichità e Tradizione classica 2009, pp. 333-344. 14 M. CHIESA, Poemi biblici fra Quattro e Cinquecento, in Giornale Storico della Letteratura Italiana 119 (2002), pp. 161-192.

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i riscontri col testo sacro sono continui e puntuali; in seguito il racconto biblico diviene parte della riflessione teologica e si inverte l’ordine di importanza fra testo e teologia15. Come ha illustrato Vladimir Zabughin, «in fatto di poesia ebbero veramente il favore del Rinascimento il genere sacro ed il cavalleresco»16 e l’umanista-tipo ha raramente la natura del famiglio […] ha delle velleità di scoperte, di conquiste; vuole orizzonti vasti, non però tanto nuovi da lasciarlo senza punti di riferimento. Canta perciò accanitamente il cannone in metro latino; quando si scoprirà l’America, canterà voluttuosamente e latinamente il Nuovo Mondo: tutto però sotto gli auspici dei classici. E a maggior titolo doveva ricorrervi per cantare in modo condecente soggetti sacri. La cosa in sé non era nuova, Walafrido Strabo aveva cantato vergilianamente l’oltretomba cristiano. […] Il Vegio, e soprattutto il medico padovano Girolamo delle Valli, fanno un passo ancor più decisivo: tentano addirittura l’epopea cristiana, contrapponendo con franca premeditazione codesto genere ai cantari “bugiardi”. Epopea cristiana? Intendiamoci. È facile dall’alto del seggio della critica poliziesca fulminare codesto genere, così lontano dall’epopea regolata dai canoni di Aristotele e dai modelli di Omero e di Vergilio. È un cantare in metro latino, scaturito dall’inno liturgico, dalla lauda sacra, dalla Sacra Rappresentazione; un’epopea dalla scorza classica e dal gotico midollo17. […] La classicità non porge alla poesia cristiana, per ora, che “lo bello stile”. […] La poesia cristiana del Rinascimento si sarebbe forse inaridita in tali angusti confini, se non fossero sopraggiunti due fatti di singolare importanza: la pubblicazione, in Venezia, coi tipi di Aldo il Vecchio, dei “Poeti cristiani antichi” (1501); e l’inizio della febbrile attività poetica sacra del beato G. B. Spagnoli, detto il Mantovano. La raccolta dei poeti cristiani antichi venne fatta di pubblica ragione con la stessa “premeditazione”, con cui i più dei poeti umanisti cristiani si lanciavano nel pelago periglioso dell’epopea evangelica. Aldo volle dare ai giovani un pascolo spirituale elegante e pio insieme, puro di falsità gentilesche18.

Dopo il Concilio di Trento in pochi anni la letteratura subisce una trasformazione che ne cambia lo statuto e le forme. Quondam sostiene che la Controriforma è componente essenziale dell’età del Manierismo: […] dalle osservazioni prima svolte sulla dimensione ideologica del Manierismo risulta chiara la complessità dei rapporti tra esperienza letteraria o più largamente culturale e strategia di politica religiosa elaborata dal Concilio di 15

Cfr. Poemi biblici del Seicento, a cura di E. ARDISSINO, Alessandria 2005. V. ZABUGHIN, Storia del Rinascimento Cristiano in Italia, Milano 1924, p. 227. 17 ibid., pp. 227-228. 18 ibid., p. 229. 16

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Trento. Non si tratta però soltanto di enucleare le precise direttive tridentine sull’arte (in modo particolare per quella figurativa) ma di riconoscere momenti di più sottile infiltrazione di strutture clericali nell’ambito ad esempio d’uno specifico genere letterario, autorizzato da una aulica tradizione “laica”, per quanto concerne tematica e disposizione ideologica. Ancora il genere lirico si presta a rilevazioni non marginali, sul piano anzitutto delle strutture formali: per quanto autonomamente progettata ed elaborata in sede teorica, la scelta di fondo della “locuzione artificiosa”, nel suo risolversi nell’accelerazione delle pluralità e delle correlazioni, si muove in una direzione di oggettiva attrazione da forme specifiche dell’oratoria sacra, giustificate proprio da quell’atteggiamento (ideologia) di fronte alla creazione prima descritto. Ancor più vistoso risulta il fenomeno della poesia religiosa nella seconda metà del Cinquecento: già l’archetipo petrarchistico riservava un tratto specifico alla scansione di tematiche morali-spirituali, ma esse costituivano un segmento coerente d’una più ampia e complessa vicenda intellettuale-sentimentale all’interno della quale si disponevano coerentemente. Nell’età della controriforma si assiste invece non solo ad una massiccia invasione nel campo proprio della tematica della lirica di situazioni, argomenti, materiali iconografici di per sé religiosi (culto dei santi e martiri, celebrazioni di Cristo e di Dio, eccetera), ma soprattutto al travestimento dell’archetipo petrarchistico, per cui il canzoniere ora scandisce sempre le fasi di un tormentato “amore”, solo che l’oggetto non è più una donna, ma Dio stesso. Ed è rilevante osservare come tutto l’impianto sintattico-lessicale resti invariato, mutando il solo ambito semantico del termine “amore” che non designa più un amore ma l’amore19.

I testi religiosi divengono lentamente parti effettive e legittime del canone letterario e vengono fondati nuovi linguaggi specifici per generi nuovi o rinnovati20: prediche, rime, sequenze liturgiche, invocazioni litaniche, agiografia, riflessione teologica, testi mistici e apologetici21: nei trattati di Lorenzo Gambara22 e Antonio Possevino23 si ratificano il tramonto della poetica laica e la critica degli antichi, si sviluppa una poetica spirituale mutuando le forme e i motivi del dominante petrarchismo, si abbandonano le Muse e si inizia a parlare di ispirazione cristiana, si rielaborano le vecchie strutture con nuovi contenuti e si contrappone una poesia cristiana 19

A. QUONDAM, Introduzione. La trasgressione del codice: problemi del Manierismo e proposte sul metodo, in ID., La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari 1975, pp. 14-15 20 Cfr. BATTISTINI – RAIMONDI, Poetiche e retoriche dominanti cit. 21 Cfr. BARBIERI, Fra tradizione e cambiamento: note sul libro spirituale del XVI secolo cit., pp. 3-47. 22 L. GAMBARA, Tractatio, in qua cum de perfecte poeseos ratione agitur; tum ostenditur, cur abstinendum sit a scriptione poematum turpium, aut falsorum Deorum fabulas continentium..., Romae, apud Franciscum Zanettum & Barptolomeum Tosum socios, 1576. 23 POSSEVINO, Bibliotheca selecta cit.

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a una poesia pagana/profana. Quando la letteratura religiosa lentamente si insinua nella struttura dei generi e delle forme letterarie fino a deformarli e rifondarli si comincia a sentire il Barocco alle porte. In particolare i lirici veneti attivi negli ultimi decenni del XVI secolo, pur alternando la spinta al manierismo, vissuta da ciascuno secondo diverse modalità e intensità, e la persistenza entro una linea di poesia sobria e austera che resiste solidamente fino agli ultimi anni del secolo, divengono preconizzatori della nuova poesia seicentesca24. Da un lato è Venier, il principale erede del petrarchismo bembesco e uno fra i più audaci sperimentatori del genere, che segna un punto di snodo; dopo di lui si aprono le due vie: la prima, di un petrarchismo moderato e fermo su posizioni aristocratico-borghesi, sensibile alle richieste della controriforma, che produce opere in cui regnano l’austerità, il decoro, la naturalezza — ad esempio, con Cappello, Molino, Zane, Celio Magno, Giustinian —; la seconda, della ricerca di soluzioni intellettualistiche e di audaci sperimentazioni formali e tematiche di non alto livello, come ad esempio quella del Cieco d’Adria, la cui strenua concettosità opera un taglio netto con la tradizione petrarchista e apre definitivamente al barocco più arido. Dall’altro lato è proprio Fiamma — che Ponchiroli nell’Introduzione all’antologia dei Lirici del Cinquecento ha definito il migliore tra i fautori di una vera e propria “rivoluzione” nel campo della tecnica poetica —, che aprirà la via alla poesia barocca o prebarocca del secolo successivo25. Il passaggio che si realizza nelle Rime Spirituali verso il barocco in questo caso non ha nulla di antipetrarchista: l’appartenenza di Fiamma ad uno spiritualismo del “santo furore” non implica un rifiuto del modello poetico petrarchesco. Elusi gli esiti parodistici e grotteschi di un rovesciamento meccanico del petrarchismo in chiave cristologica operato da Girolamo Malipiero26, Fiamma elegge a proprio modello Vittoria Colonna27, che dispiega una tecnica di doppia refenza ai petrarchisti e ai mots-clé petrarcheschi in un quadro di riferimento biblico e in un nuovo sistema ideologico: l’illust. Signora Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, è stata la prima, c’ha cominciato a scrivere con dignità in Rime le cose spirituali; e m’ha fatta la strada, et operato il cammino di penetrare, e giungere ove è piaciuto a Dio di condurmi […]. (Rime spirituali, dedica A Marcantonio Colonna) 24

Cfr. TADDEO, Il manierismo letterario cit., p. 8. Lirici del Cinquecento, a cura di D. PONCHIROLI, Torino 1976, p. 28. 26 G. MALIPIERO, Il Petrarca spirituale, in Venetia, appresso Domenico Farri, 1567. 27 V. COLONNA, Rime, a cura di A. BULLOCK, Bari 1982. 25

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È interessante notare che la serie degli autori contemporanei citati nelle annotazioni, sempre in relazione a questioni metriche28 (il Bernardo Tasso “inventore” della canzonetta o ode29, forma metrica prediletta da Fiamma, il Bembo, il Luigi Alemanni autore delle Elegie30, l’Ariosto delle Satire, lo sperimentatore Claudio Tolomei, Robortello e soprattutto Vittoria Colonna) compongono un repertorio ridotto rispetto a quello proposto nelle esposizioni alle Rime spirituali, dove sono ricordati anche i petrarchisti veneti legati all’Accademia della Fama Celio Magno, Domenico Venier, Orsatto Giustinian, Giovanmario Verdizzotti, Girolamo Fenaruolo31. Ma l’Accademia, che fu attiva dal 1557 al 1561 col proposito di «di rinnovare l’Accademia Aldina attraverso un programma editoriale di ambizioni enciclopediche e di orizzonti europei affidato ai tipi del figlio di Aldo Paolo Manuzio»32, trascurò la poesia petrarchista e in generale la letteratura volgare33. Inoltre, riguardo ai petrarchisti veneti, spiega Erspamer che col petrarchismo geometrico egli ha ben poco in comune. [...] Da un punto di vista tematico la sua preoccupazione è indagare la natura e il cuore umano, per cercarvi le ragioni della vita e della morte, del peccato e del pentimento. [...] Quella di Fiamma è una poesia fisica, non metafisica; è una poesia di paesaggi e di sensazioni che si rispecchiano le une negli altri, ma conservandosi entrambi reali, documentabili34.

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Si vedano, ad esempio, quelle al salmo XXXIII (p. 182) sulla canzone ad imitazione del Bembo e al salmo XXXIV (pp. 189-190) sulla questione della metrica dell’elegia. 29 TASSO, Rime cit. 30 L. ALEMANNI, Versi e prose, I, per cura di R. RAFFAELLI, Firenze 1859: Elegie Sacre, pp. 195-210 e Salmi, pp. 211-221. 31 SERENA, Il Canzoniere di un oratore sacro cit., pp. 21-22: «Poca dimestichezza egli dovette avere coi letterati trevigiani di quel tempo: chiuso nel suo monastero, tutto assorto ne’ suoi studi, non appare dalle memorie di quegli anni che egli fosse in relazione con alcuni di quei pochi, che coltivavano la poesia dopo la mostre di Agostino Beaziano e di Jacopo Antonio Benaglio. Accetto, forse, gli potè essere quel Giuseppe Policreti, frate servita, amico del Burchielati […]. Ma tutti, anche imitatori infaceti e talor deliranti del Petrarca, non erano quali potessero a lui piacere. Era tutta gente che non poteva aver nulla di comune con un epigono de’ petrarchisti il quale biasimava perfino i genitori che dessero a leggere Petrarca ai propri figliuoli». 32 T. PESENTI, Stampatori e letterati nell’industria editoriale a Venezia e in terraferma, in Storia della cultura veneta, 4/I: Dalla Controriforma alla fine della Repubblica cit., pp. 102-103. Cfr., inoltre G. BENZONI, Le accademie, in ibid., pp. 131-162. Sull’Accademia della Fama cfr. L. BOLZONI, Rendere visibile il parlare: l’esperienza dell’Accademia Veneziana, in EAD., La stanza della memoria cit., pp. 3-25. 33 Cfr. Somma delle opere che in tutte le scienze et arti più nobili, et in varie lingue ha mandato in luce l’Academia Venetiana …, Nell’Academia Venetiana, 1558. 34 F. ERSPAMER, Petrarchismo e manierismo nella lirica del secondo Cinquecento, in Storia della cultura veneta, 4/I: Dalla Controriforma alla fine della Repubblica cit., p. 212.

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In Fiamma si produce una fatale deformazione del paradigma petrarchista spirituale: dei due numi tutelari, il primo — quello in luce, David — assurge ad archetipo che garantisce il valore dell’opera, mentre il secondo — in ombra, Petrarca — è retrocesso in una scala di valori al cui vertice campeggia proprio Vittoria Colonna; la Vittoria Colonna eletta a guida già anni prima da Luca Contile, autore di rime e dialoghi spirituali, ma extravagante rispetto al codice bembesco e al petrarchismo35. Nelle sue opere “davidiche”, a ben vedere, Fiamma opera in due direzioni complementari ottenendo un piccolo cortocircuito: le Rime spirituali anticipano e giustificano la Parafrasi poetica del Salterio che è a sua volta versione dell’archetipo delle rime stesse. Il potere di muovere gli animi attraverso la parola è proprio dei salmi prima ancora che della poesia, come si legge nell’esposizione al sonetto LXXV delle Rime Spirituali, che precede il Salmo II: l’autor, per destar gli affetti suoi, nelle orazioni, e ne’ prieghi, che faceva a Dio per la salute del Cristianesimo, leggeva spesse volte quel Salmo: Exurget Deus, et dissipentur inimici eius; et fugiant, qui oderunt eum, a facie eius e quell’altro Quare fremuerunt gentes, et populi meditati sunt inania? perché egli ha conosciuto per esperienza quello, che scrisse S. Agostino sopra i Salmi, et Ugone, canonico di san Vittore, nel suo libro del modo di pregare Dio; cioè che, oltre alla virtù, et efficacia delle parole sante, hanno i Salmi una occulta forza, che desta meravigliosamente gli affetti in Dio, e li fa dir con corso simile al naturale quei Salmi, che si conformano ai nostri affetti; quando però sono gli huomini nella lettione di detti Salmi essercitati.

così, tutte le qualità migliori della poesia sono mutuate dalla potenza della parola divina che risiede nel Salterio. In questo modo il poeta dichiara ho volti tutti i miei studi a giovare al mondo, ho pensato di poter dare alla gioventù Cristiana una Poesia, nella qual si potesse imparare e la buona, e regolata maniera del parlare Toscano, e quei lumi, che nell’arte Poetica hanno insegnati quelli, che n’hanno scritto con laude (A’ lettori delle Rime spirituali).

E si pone due obiettivi; il primo è quello di ricondurre la poesia alle proprie origini: torno la Poesia (parlando in questa lingua) al suo principio. Percioché quest’arte non fu trovata anticamente, a fin che fossero onorati, o più tosto adorati i 35 Anche lui autore di una raccolta di Rime cristiane annotate, rimasta inedita fino ai giorni nostri. Cfr. L. CONTILE, Rime cristiane, a cura di A. QUONDAM, in Atti e Memorie dell’Arcadia, s. III, 6 (1974), pp. 171-316.

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Prencipi con la vaghezza sua; o perché fossero cantati gli amori lascivi di questo, e di quell’altro errante intelletto: ma accioché a Dio creatore, e conservator nostro si rendessero le devute grazie, chiamando con l’armonia del dir Poetico il popolo rozzo a fargli onore, ed a imparare il vero culto di sua Maestà. Quindi nacquero i primi inni di Museo, di Lino, d’Orfeo, e d’altri: e questa studiosa maniera d’insegnar con la dolcezza della Poesia a lodare il Signore si vede osservata anticamente nel popolo d’Israele, che sol conosceva la verità: essendo tutto il rimanente del mondo sepolto nell’idolatria. Onde Mosè cantò quel bel cantico [] così cantarono Maria, sorella di Mosè, Delbora, Barac, Ezechia, Abacuc, Giudit, Zacaria, Maria Vergine, Simeone, et altri. Ma David, tutto acceso dell’amor di Dio si diede a Cantare, et a scrivere gli alti segreti di sua Maestà, e i maggiori misteri della vera religione in verso con tanti ornamenti; figure, tropi, e vaghezze, che, sì come avanza di spirito tutti gli altri scrittori, così di grave leggiadria si lascia a dietro tutti gli altri Poeti. Sono fuori quasi infinite Poesie nella lingua nostra, e quasi tutte amorose. Il che mi par gran fallo, e quasi insopportabile. Ho adunque ritornata, quanto più altamente ho potuto, la Poesia Toscana alla religione, alla pietà, alla virtù, ed a Dio, per cui fu trovata ne’ primi secoli: e s’io non sarò giunto al segno, questo potrà servire ad insegnar la lingua, e l’arte di poetar santamente alla gioventù cristiana, fin che qualch’altro intelletto, più purgato, e più pronto, e più acceso dell’amor celeste, che per avventura non è il mio, incitato da una santa emulazione si darà a far qualche cosa di meglio; vedendo, come la lingua nostra, è il nostro modo di poetare non solamente non rifiuta le cose sacre, ma ne riceve ornamento grandissimo. E non potrà alcuno, se non d’animo molto ingrato, biasimar questa mia fatica e la mia volontà: percioché ognuno potrà conoscere che, avendo io un aperto e gran campo d’acquistarmi lode nella mia principale professione, mi son dato nondimeno, per giuvare altrui, e così fatti componimenti, diversi in tutto dal dir ne’ pulpiti; e quanto sia allo scegliere i soggetti, e quanto sia nel vestirli: i quali se ben sono tutti cristiani, hanno però differente maniera di procedere; come fanno quelli, che sono esercitati nell’una e nell’altra professione.

il secondo è quello di scegliere come oggetto Dio e il suo operato: Quel, che muove a lodar cosa mortale o la lingua, o lo stil, del vero segno varca sovente: e con l’acuto ingegno va sopra il metro uman spiegando l’ale. Ma l’oggetto divino, ed immortale, sommo diletto del celeste regno, che umile in queste carte a lodar vegno, sopra ogni vento in infinito sale. Quell’orna, e lume accresce al suo soggetto: io ricevo dal mio splendore, e vita: a me la copia, a lui nuoce il difetto. Da Febo, e da le Muse ei chiede aita;

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io da lo Spirto suo soccorso aspetto, che a ben oprar, ed a cantar m’invita. […] nel presente sonetto l’auttore si gode di haver trovato un soggetto, il quale potrà lodar, senza temere di passare il segno delle sue lodi: anzi potrà esser certo, che gli resterà sempre infinita material da lodarlo. (Sonetto III e relativa esposizione)

Nel sonetto XXV e nelle prime righe della relativa esposizione appare evidente quale fosse la disposizione di Fiamma: Perché non ho del Re cortese e santo, che morto pianse il suo nimico fiero lo spirto acceso e ’l cor puro e sincero e gli accenti soavi e ’l dolce canto? Che mille ardenti fiamme in ogni canto accenderei d’amor celeste e vero; e del gran nome, ond’io salute spero, udir farei con frutto il pregio e ’l vanto. Ma, lasso, l’alma ho fredda e ’l cor di smalto, roca la voce, onde son pien di scorno, e del duol quasi mi disosso e scarno. Or chi mi dona un stil leggiadro ed alto e tal virtù ch’io possa almen un giorno quel ch’intese il Giordan scriver su l’Arno?

Su questa via, parafrasare in poesia la poesia di David significa essere due volte poeti: la Parafrasi poetica di Fiamma è poesia che nel tradurre poesia risale al proprio archetipo, alla propria origine, è traduzione che si fa ricerca del fondamento della poesia stessa. Ma la Parafrasi è anche libro composto ad uso dei giovani, guida spirituale, manuale didattico di una confessione e ha il compito di ammaestrare a una sacralità che risiede altrove, non in quelle parole, non in quelle forme: [il salmo 106] mettendo sotto gli occhi diverse maniere di travagli con nodo tanto bello, e tanto poetico, che l’auttore l’ha voluto tradurre parafrasticamente in questa nostra lingua, e porlo qui sotto, a consolazione, e profitto di quelle persone, che non possono così facilmente intendere quei Latini, ch’odono ogni giorno recitar nelle chiese. (esposizione al sonetto LXV, p. 216).

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Fiamma accoglie ed elabora la poetica della meraviglia che Minturno36 aveva proposto nell’Arte poetica (1563), rovesciando la tesi edonistica di Robortello, stabilendo il primato del verisimile poetico sul vero storico e promuovendo l’uso del meraviglioso al fine di docere cum delectatione. Come abbiamo visto nelle annotazioni al salmo XXIII Fiamma, predicatore e lirico, illustra le figure dell’oratore e del poeta: all’insegna del detto oraziano ut pictura poësis e in polemica con la concezione ciceroniana, e con il contemporaneo Castelvetro, che vedeva le due figure su un piano paritetico, tutta la sua trattazione è dedicata alla superiorità della funzione del poeta su quella dell’oratore: […] Hanno dunque li Poeti per fine principale il voler con li poemi loro tirar gli huomini alla maraviglia, allo stupore, per conseguir fama, e gloria singolare fra gli huomini. Per questo vanno cercando parole grandi, e concetti singolari, con una legatura artificiosa (p. 116). Ma non si contenta ’l poeta di usar solamente le parole atte a far stupir gli uomini, che usa ancor i concetti tal’hore non solamente nuovi, et inusitati, ma ancora impossibili: […] E tutte le cose, che scrivono, le mettono sotto gli occhi de gli uomini, sì che lor pare di vederle: onde si maravigliaranno grandemente. Questo mi è venuto in proposito di ricordare, considerando, quanto il nostro Poeta Santo sia maraviglioso, e quanto con ogni diligentia studi di far maravigliar gli uomini, non per quel fine vile de’ poeti profani; ma, perché dalla maraviglia nasca ne’ petti umani più timore, più riverenza, e più amore verso Dio. […] [questo Salmo] è la confusione de’ maggiori savi, che sieno vissuti fra gli uomini: percioché egli in una parola ha scoperta la verità della creazione del mondo, che questi non solamente non hanno saputo trovare, ma l’hanno involta nell’oscure tenebre del loro cieco sapere (p. 117).

La poesia deve suscitare la meraviglia nel lettore per muoverlo all’amore verso Dio, così come la natura suscita meraviglia per le sue mille diverse e perfette forme in chi la osserva e la traduzione del Salterio deve avvenire per via di meraviglia e di ornamento, non per vaghezza, ma per sacramento Ma in questo poema tanto sacro è forza, ch’ogni cosa habbia mistero grande, e che tutti gli ornamenti sieno posti non tanto per vaghezza, quanto per sacramento: i quali saranno intesi da quelli, a’ quali piacerà a Di di rivelarli, […] (p. 128). 36

Cfr. A. MINTURNO, L’arte poetica… nella quale si contengono i precetti heroici, tragici, comici, satyrici, e d’ogni altra poesia: con la dottrina de’ sonetti, canzoni, & ogni sorte di rime thoscane, ... Con le postille del dottor Valuassori, ..., in Venetia, per Gio. Andrea Valuassori, 1563, pp. 40-42.

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In questo modo si fonda una poetica della meraviglia tutta cristiana per un genere che vorrebbe essere tutto cristiano, la cui definizione si trova nelle annotazioni al salmo XXIV: La poesia Lirica, o citaristica, o melica, come la chiama Cicerone, riceve, o contiene molte differenti maniere di versi, e fra l’altre l’Elegia la quale imita variamente, come quella che riceve moltissime mutazioni: le quali bisogna considerar separatamente, se vogliamo ridurla al suo genere. Francesco Robortelli la riduce a quel genere d’imitazione, che si chiama Hypor chematice, e dice anco, che si può ridurre all’Auletica, perché Didimo scrive, come gli antichi ne’ funerali usavano srtumenti da fiato, da’ quali ha preso il nome l’auletica: e l’uso di questi strumenti da fiato ne’ funerali perseverò fino a’ tempi de’ Romani, onde Cicerone nell’orazione Miloniana, ragionando di Clodio, e della sua morte, dice, Sine cantu, sine tibiis. […] Resta, che noi diciamo, come il Capitolo, o la terza rima nostra corrisponde all’elegia. […] Questo salmo quanto al soggetto, quanto allo stile, quanto a gli ornamenti, si conosce, ch’è una elegia molto rara, se ben non sappiamo render conto della qualità de’ versi di David. E l’Autore ha voluto far la Parafrasi in terza rima, studiandosi di far conoscere gli ornamenti del Santo in ogni parte, […] Insegnano i poeti, che l’elegia vuol esser tutta affettuosa, e ch’ella riceve per i suoi particolari ornamenti l’esclamazione, la querela, la commiserazione, l’apostrofo, la Prosopopea, e sopra ogn’altra cosa si diletta d’esser sparsa di qualche antichità, come usa di sparger le sue elegie Tibullo; […]. Ma, qual elegia in alcun tempo in qual si voglia lingua ebbe parole più affettuose, querele più gravi, commiserazioni più efficaci, e di quelle, che sono in questo Salmo? Per tanto conviene, che noi diciamo che questo Salmo è una perfetta elegia Cristiana, di materia lagrimevole, e dogliosa, con tutti gli ornamenti, che possa ricevere un poema di questa qualità, come si può vedere con gli avvertimenti dati pur ora (pp. 187-188).

Nel salmo VIII, la poesia come meraviglia si dispiega ad immagine della potenza divina. Incorniciato da un’antifona, «Domine, dominus… terra?» il cui elemento fondamentale è il nome divino, il nome è Dio stesso; il risuonare del nome di Dio in tutto il cosmo è la celebrazione della sua essenza e della sua grandezza. L’antifona viene riadattata e ampliata in una intera strofa che si ripete in chiusura. L’ultima strofa, dunque, viene costruita come variatio della prima: Qual meraviglia, o gran Monarca eterno, De’ nostri Ebrei Signore, Apporta il tuo splendore, E i chiari rai del tuo valor superno: Di cui la fama gloriosa è corsa Da l’Indo al Moro, e dal meriggio all’orsa. […]

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O quanto illustre è la tua fama, e ‘l grido, Che vola altero, e solo Da l’uno a l’altro Polo, Ovunque hanno i mortali albergo, e nido, Da dove cade il Sol, fin dove sorge, Suona il tuo nome, e meraviglia porge.

I termini chiave di questa antifona maggiore sono la “meraviglia” e la “fama”; a formare uno schema perfettamente chiastico la fama prende posto nella seconda parte della prima strofa e nella prima parte dell’ultima; viceversa accade alla meraviglia. La meraviglia divina, come la meraviglia poetica, nasce da un’immagine grandiosa e luminosa: la gloria di Dio si diffonde in tutto il creato che risuona come una cassa di risonanza; la grande scena del mondo, come un teatro, è illuminata dalla magnificenza di Dio. La meraviglia è data da causa ignota e semi-nota; teologia e poesia si intrecciano. Il Dio non completamente conoscibile suscita meraviglia come la poesia. La poesia lo fa per le sue arditezze, Dio perché è seminascosto, è un enigma. I rischi di una operazione tanto raffinata sono altissimi: gli strumenti poetici devono rimanere sotto il controllo dell’autorità e operare come figure del potere divino; i salmi nelle mani di un poeta rischierebbero di venir abbassati a “mera” poesia, ma nelle mani di un ministro di Dio dovrebbero avere la garanzia di mantenersi parola della Rivelazione e nelle annotazioni al salmo XXIV si vede bene come il poeta sia costretto a cedere il passo: Ma in questo poema tanto santo [sc. il Salterio] è forza, ch’ogni cosa abbia mistero grande, e che tutti gli ornamenti sieno posti non tanto per vaghezza, quanto per sacramento: i quali saranno intesi da quelli a’ quali piacerà a Dio di rivelarli (p. 128).

Ma anche qui le contraddizioni non mancano. Quando l’artificio ha la meglio, quando il poeta impiega al massimo il proprio talento nel porsi a gara col modello e per un istante riesce a vincerlo, lo costringe alla propria “maniera”. Quello di Fiamma più che un manierismo fondato sull’ambiguità melanconica scaturita dalla compresenza di sentimenti contraddittori che, come sostiene Föcking37, è debitrice più del Medioevo cristiano che del Rinascimento, sembrerebbe un manierismo “strutturale”, sistemico, dove 37

Cfr. M. FÖCKING, Rime Sacre und die Genese des barocken Stils. Untersuchungen zur Stilgeschichte geistlicher Lyrik in Italien. 1536-1614, Stuttgart 1994, pp. 99-102.

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scelte formali e contenutistiche producono un risultato ambiguo38, il cui valore profondo è proprio nella sua irrisolvibilità: L’ambiguità del Manierismo ostacola ogni tentativo di ordine, la sua essenza lo proibisce; l’ambiguità è un modo insostituibile di essere quando occorre tutelare quello spazio che invade un uomo animato da due principî in conflitto, occorre così arrendersi a questa ambiguità, lasciarsene penetrare, viverci.39

Basterà fare alcuni esempi. Nel salmo XXV, reso per la prima volta nella storia in forma di sestina, è necessaria una excusatio che valga a dissimulare il sacrilegio40, voglio dar conto delle frasi, o de’ modi, ch’io ho usato ne’ miei versi; a fine che qualche persona nel primo incontro non si desse a credere che l’havermi obligato a trasportar i concetti d’un tanto e sì gran Poeta d’una in un’altra lingua in una Sestina, (cosa non fatta ancora mai d’alcun altro ch’io sappia), m’habbia costretto a partirmi dalla lettera, o fargli alcuna maniera di forza, o di stiramento, o ch’io v’habbia poste dentro riempiture, o, come dicono i Toscani, borra (p. 131).

L’artificio non di rado ha la meglio, così che si produce costantemente un ingorgo tra arte e vita. Nel primo sonetto delle Rime spirituali è rappresentato un preciso mondo simbolico e metaforico: De l’eterne tue sante alme faville tal foco in me, sommo Signor, s’accende, che non pur dentro l’alma accesa rende, ma fuori ancor conviene ch’arda e sfaville. E tanto l’ore mie liete e tranquille fa questo ardor mentre mi strugge e ’ncende, che di lui bramo, ovunque il sol risplende, poter l’alme infiammar a mille a mille; per questo alti misteri, occulti sensi vorrei scoprir de le sacrate carte con affetto e con stil purgato e mondo: tu, che le grazie, almo Signor, dispensi, giungi a sì bel desìo l’ingegno e l’arte perch’arda meco del tuo amore il mondo. 38 Cfr. W. EMPSON, Sette tipi di ambiguità, Torino 1965, in particolare il Capitolo settimo, pp. 297-352. 39 A. GAREFFI, Eco e Narciso. La diffrazione incomponibile del Manierismo, le mitologie irrelate, in ID., Le voci dipinte. Figura e parola nel Manierismo italiano, Roma 1981, p. 13. 40 In alcuni casi l’artificio si manifesta nei giochi rimici: tutte le rime del salmo XVI terminano in -enda, tutte le rime del XIX sono tronche.

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Cifra il proprio nome, emblema quella che sarà la propria morte, la poetica di Fiamma è palesemente una poetica diurna, solare, una poetica del fuoco41; la gamma metaforica del fuoco e della fiamma è dominante nelle Rime Spirituali dove è ricorrente la tematica, quasi alchemica, del fuoco che genera, trasforma e salva: Dio è fuoco e luce e sole, re del mondo fisico, forza che crea e distrugge, che arde per dar vita e per dar morte. Questo mondo viene traslato pienamente nell’opera di traduzione con risultati molto particolari: adattare una poetica compiuta ad un’altra poetica compiuta produce strani effetti e la parafrasi del salmo VIII ne è un esempio. L’ambientazione notturna di questo salmo, dovuta alla presenza nel cielo, non del sole, ma della luna e delle stelle, è mutata quasi in giorno con le metafore solari della fama divina e della sua «gran Maestà» che con «chiari rai […] / sopra tutte le sfere irraggia e splende» e con la definizione degli astri come generiche «pure fiammelle». Il cielo non è più solo notturno, ma è rappresentato nei suoi due volti solare («il lume, che n’apporta il giorno») e lunare («bel Argento, onde la notte / ha le tenebre sue spesso interrotte:»). Similmente, tutta la parafrasi del salmo IV è costruita attorno alla metafora visiva con al centro l’immagine «il sol de gli occhi tuoi». Dio che guarda benevolmente il giusto, lo irradia con la luce della grazia come il sole dispensa la luce e la vita sulla terra; il sole che è Dio è l’unica vera salvezza, è l’unica verità «quanto verace sia l’eterno lume»; perché è vano aspettare e chiedere la benevolenza del pianeta sole con l’unico desiderio dei beni materiali (il frumento, il vino, l’olio). Così si perde la dimensione notturna di questa preghiera della sera «in pace in idipsum, dormiam: et requiescam». Accanto alla poetica diurna della luce e del sole, domina quella opposta del mare e della tempesta che disegnano una simbolica segnata dai giochi onomastici di mare con amare, amaro, amore, e della sua variante tronca mar con martirio: Questo mar, questi scogli, e queste arene hanno gran somiglianza col mio male: ch’un numero d’affanni, e pene, uguale a quel di questa sabbia, il cor sostiene; e tal durezza di pensieri tiene la mente in sé, che non l’ha un scoglio tale; e, come fosse un mar, sempre m’assale or vento di paura, ora di spene. Come l’arena, sterile, è l’ingegno: 41

Declinata in tutte le sue possibili significazioni nell’Inno, overo Oda alla Carità delle Rime spirituali, pp. 480-491.

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aria l’alma, come nudo scoglio: torbido il cor, come turbato mare. Sempre lagrimoso umor son pregno: né mi move del mondo ira, od orgoglio: e le dolcezze mie son tutte amare. (Rime spirituali, sonetto XXXIX)

Il sintagma «amaro mar» che si sdoppia nel tradizionale gioco d’assonanze col verbo “amare”, ricorre spesso, tanto che nel salmo XXIX, pur nel rispetto generale del testo latino, la varia simbolica del salmo viene uniformata: la polarità fra la vita e la morte rischiata, fra la guarigione e la malattia diviene quella fra il mare quieto e la tempesta. Anche le parole quasi cabbalisticamente aiutano l’accostamento fra i dolori della malattia e l’erranza sulle acque. Quindi il lamento del malato salvato da Dio si trasforma nel racconto di un viaggio in nave, tribolato da un «mar crucioso» che poco prima era quieto e che torna sereno dopo l’intervento divino. Anche il salmo XVII si trasforma in un poemetto in ottava rima che narra la perdizione dell’uomo in forma di naufragio. Il salmo è un’ode regale di vittoria e di ringraziamento a Dio. È una composizione lunga e articolata, dai toni esuberanti e dalle immagini grandiose in versi ottonari dal ritmo di 3+3 accenti, eccetto l’ultimo; questo indica una struttura omogenea e dal largo respiro in cui si alternano le forme verbali alla prima e alla terza persona. L’apertura è in tono di litania, l’orante si volge alla preghiera, alla supplica. I tanti appellativi di Dio, fortitudo mea: dominus firmamentum meum et refugium meum et liberator meus. Deus adiutor meus: et sperabo in eum. Protector meus et cornu salutis meae, et susceptor meus

elencati senza mediazioni, costruiscono un richiamo per Dio stesso e una via di accesso al carme per i lettori, uno stretto ritmico corridoio di ingresso alla teofania e al ringraziamento che si aprirà in seguito nella ampiezza della liberazione e della vittoria sui nemici. Segue un piccola lamentazione, breve e quasi sentita come atto dovuto al genere letterario «in tribulatione mea invocavi dominum [] et exaudivit de templo sancto suo vocem meam». La voce dell’uomo giunge all’orecchio di Dio che decide di intervenire in suo soccorso. Grandi sono gli effetti della presenza diretta di Dio nel mondo; grandi e terribili i segni del suo intervento. Anche qui l’ira divina che invade il creato, la teofania, è come un terremoto, come una tempesta. Tutto trema, «commota est et contremuit terra», anche le fondamenta dei monti. L’ira ascende come un vapore, come un fumo. Tutto ciò che è in basso brucia e i cieli che sono in alto si inclinano e discendono. Una «cali-

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go» spaventosa scende sul mondo: ammantato di tenebre, di acque oscure, di nubi dense, Dio si manifesta nell’enigma. Gli effetti della sua voce sono terribili: «apparuerunt fontes aquarum et revelata sunt fundamenta orbis terrarum». Al culmine dello sconquasso, la liberazione, «misit de summo, et accepit me et assumpsit me de aquis multis» e la protezione assicurata «factus est dominus protector meus». Dio salva l’orante perché lo elegge, «voluit me». In una confessione di innocenza, secondo la legge di Dio, l’orante dichiara di voler essere giudicato per la sua giustizia, «secundum puritatem manuum mearum retribuit me». Di nuovo segue una litania in cui Dio è definito Santo con il santo, innocente con l’innocente che apre alla todah marziale. Luce che «illuminat tenebras meas», Dio è descritto come guida del combattente, istruttore del militare, protezione sicura durante la battaglia, «qui docet manum meam ad proelium», «dextera tu suscepit me», «persequar inimicos meos», «praecinxisti me virtute ad bellum». Il nemico distrutto ritorna nell’immagine della «pulverem ante faciem ventis». I popoli rivoltosi sono vinti, il regno è saldo, un popolo sconosciuto offre al re vincitore i propri servigi. Cala il silenzio, si sente solo il respiro flebile della polvere che lentamente si sedimenta a terra, tutto è concluso. È il tempo del ringraziamento: «vivit dominus» grida il re. L’ampiezza del ritmo narrativo del testo latino deve aver suggerito a Fiamma la scelta dell’ottava rima che gli consente un maggior respiro e un andamento molto meno serrato e cantilenante rispetto all’ode o alla canzone tradizionale. Ne risulta un componimento che, anche per le dimensioni relativamente vaste, si presenta più libero, più autonomo. Il re, il capo del popolo, si rivolge a Dio per ringraziarlo del sostegno assicuratogli nelle guerre contro i popoli nemici e contro gli infedeli. E, perché sia palese il modo in cui questo sostegno si è concretizzato, il re descrive le situazioni di pericolo che ha dovuto affrontare. Nella terza ottava ha inizio la storia con un avverbio tutto particolare, «già» in anafora: Già con l’estremo duol era la morte per trarmi, ove ne van tutte le genti: già condotto di Stige in su le porte m’avean d’affanni i rapidi torrenti: già del mio viver l’ore amare, e corte rotte da mille gravi aspri tormenti eran giunte a l’occaso, […]

L’azione è immediata, siamo catapultati in medias res, tutto sta avvenendo sotto i nostri occhi. Il pathos, l’imminenza del rischio mortale si rafforza con la iterazione dell’avverbio, qualche verso dopo: il re non ha

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scampo. Nella ottava successiva Fiamma introduce un elemento nuovo rispetto al testo originale: la metafora del male come naufragio; il re David […] posto nel mar vasto e profondo di tanti affanni, e quasi in lui sepolto, a quel celeste Re, che muove il mondo, con humil prego pien di fe’ rivolto

invoca aiuto. Perfettamente coerente e consonante, questa metafora (dalla lunga tradizione letteraria) introduce la teofania che inonda quattro delle successive ottave. Dio comincia a scuotere un creato più barocco che mai: Ecco la terra dal suo centro scossa, e la base de’ monti, e le radici mostran, che sia dall’ira fatta rossa la guancia, che fa gli Angeli felici: la macchina del mondo intorno mossa mostra, ch’a Dio fien gravi i miei nimici: già l’universo è fatto nero, e fuma, perché ’l foco l’accende, e lo consuma.

Dio investe con «l’aspre tempeste» tutta la «macchina del mondo», tutto avvolge nelle tenebre; l’ira sua è talmente grande che — altro elemento aggiunto, ma efficace, pur nella sua giocosa teatralità — fa arrossire perfino gli Angeli. Dio, antropomorfizzato, scende dal cielo e il cielo, cerimoniosamente, si inchina come un cortigiano; l’aria si abbassa fin sotto i suoi piedi e poi schizza di nuovo in alto fino ai Cherubini, le nubi diffondono «il tenebroso humor che oscura il giorno». Ma un istante è sufficiente, quello che serve all’occhio per saltare da un’ottava all’altra, perché esploda la luce del fuoco: il cielo è percorso da saette e tutto lampeggia tremendamente. La turba nemica che paronomasticamente «al mio mal maligna spira» è sbaragliata e vinta. Nuova antinomia, mentre i nemici vengono debellati da mani infuocate, il re giusto si vede porta la mano destra di Dio che lo salva dal mare e dal male. E la gioia per l’intervento portentoso anticipa la confessione d’innocenza che scorre morbida e si dissolve nella descrizione di Dio maestro — una gioia segretamente autocelebrativa —: Giusta è la norma tua, santo il precetto, certe son le promesse, e le parole, assai più pure del metallo eletto, che ne le fiamme affinar l’arte suole: […]

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Poi un sussulto, una invettiva — «Dite hora voi» — contro gli idolatri, cui si contrappone un coraggioso e solido «io» due ottave dopo. Nessuno può niente contro chi ha la protezione divina, contro chi in battaglia viene guidato negli atti e viene condotto a sicura vittoria. Il nemico ha solo una sorte, quella della «[…] polve/ che ogni un calpesta e l’aura fresca involve». Il re ha ricevuto la forza e il regno per la sua giustizia, per la sua fedeltà; e tutto questo gli acquista anche l’aiuto di chi mai aveva immaginato: popoli stranieri convertiti e divenuti fedeli «lasciando il suo signor natio [] son venuti a cercar l’impero mio». Chiude la lode a Dio nella quale Fiamma concentra il senso di tutto il suo lavoro e della sua esistenza: Per questo, Almo Signor, sempre co’l canto, col dolce suon, co’ miei divoti carmi, manderò al Ciel il tuo bel nome santo: dirò che fai vittoriose l’armi di quel, c’hai destinato al regal manto, di cui la prole ogn’hor difendi, et ami, perché nel regno stia fondata, e salda, fin, che si gira il Ciel, fin che ’l Sol scalda.

La scelta di un «oggetto divino» aveva costretto le Rime spirituali a farsi vero e proprio nuovo genere letterario che avrebbe come fine di lasciare sempre più il campo letterario per inoltrarsi in quello più indefinibile della spiritualità. L’affermazione di Fiamma in chiusura della Dedica a Marcoantonio Colonna delle Rime: «non ne ho voluto comporre più che CL, per farne tante appunto, quanti sono i Salmi di David Profeta», autorizza a pensare che quello non sia il canzoniere di un petrarchista cristiano, ma in realtà dell’opposto, vale a dire la sperimentazione di un canzoniere cristiano esemplato sul modello del Salterio42. Per questa ragione la Parafrasi poetica va letta parallelamente alle Rime spirituali che ne sono il bozzetto preparatorio disteso in forma speculare, una sorta di annunciazione che non risolve le tensioni sulle quali l’opera si fonda e si mantiene vitale, ma, anzi, le accentua43. 42 In una prospettiva negativa, possiamo osservare che Fiamma, ereditando la tradizione didattica e rivedendola alla luce della Controriforma, compie passi indietro rispetto al modello petrarchesco. Il canzoniere non solo torna ad essere uno strumento di divulgazione, ma non è più in grado di svolgere il proprio ruolo in forma “pura”, si sdoppia e si differenzia in più sezioni: il canzoniere laico si fonde col canzoniere sacro e soccombe alla dimensione pedagogica. Sull’origine e la formazione della forma canzoniere si veda M. SANTAGATA, Dal sonetto al Canzoniere, Padova 1979. 43 Marc Föcking illustra quale sia il rapporto tra la poetica di Fiamma e il Petrarchismo nella triangolazione con la fonte biblica — Petrarca, riconosciuto il primato della Bibbia, si ritrova ad essere modello tra altri modelli —, e si accorge del vero e proprio «Gewirr der

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E il Salterio parafrasato in rima si ritrova ad essere un canzoniere sacro fondato su forme non sue proprie, costretto a impiegare forzosamente strumenti costruiti in un contesto fortemente contrapposto ad essi, senza poter mai raggiungere la completa creazione di un nuovo e autonomo genere e quindi destinato in eterno a somigliare alla forma di un canzoniere spirituale, cioè all’imitazione di se stesso.

Intertextualität», un groviglio di intertestualità, in cui sono implicati Petrarca, il petrarchismo e David, fra traduzione dei Salmi in chiave petrarchesca e rielaborazione della lirica erotica petrarchesca in chiave spirituale. Cfr. M. FÖCKING, Gabriele Fiammas “Rime spirituali” und die Abschaffung des Petrarkismus, in Der petrarkistische Diskurs, Stuttgart, Heraugeben von K. W. HEMPFER – G. REGN, Stuttgard 1993, pp. 225-253 confluito in ID., Rime Sacre und die Genese des barocken Stils cit., pp. 53-102, di cui si vedano in particolare le pagine 96-99.

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FONTI

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OPERE DI GABRIELE FIAMMA PRESENTI OGGI NELLE BIBLIOTECHE 1. Illustrissimo ac reuerendissimo d. Herculi Gonzaghae Sanctae Romanae Ecclesiae cardinali amplissimo, canonici Ordinis Lateranen. patrono optimae merito, vt grati animi sui voluntatem atque obseruantiam significet, haec thaeoremata dicat Gabriel Flamma Venetus cano. regularis, Venetiis, apud Nicolaum Beuilacquam Tridentinum. In platea sanctae Marinae, 1557. 2. Prediche del reverendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, et intorno a vari soggetti: nelle quali si contengono molti ricordi, utili, et necessari, per far profitto nella uita spirituale, et per fuggire gli errori di questi tempi, in Vinegia appresso Francesco Senese, 1566 e in Napoli appresso Gioseppe Cacchio, 1568 (novamente ristampate con le postille, con le auttorità ne margini, e con la tauola, in Vinegia appresso Francesco Senese, 1570, 1574, 1579, 1584, 1590 e ancora in Torino per Gio. Michele, e Gio. Francesco ff. de Cavalleri, 1590). 3. Rime Spirituali edite in Venezia, dedicate a Marcantonio Colonna, il futuro vincitore di Lepanto presso Francesco de’ Franceschi Senese nel 1570; (ristampate a Venezia, presso lo stesso stampatore nel 1573 e nel 1575). 4. De’ discorsi del r. d. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense, sopra l’epistole, e’ vangeli di tutto l’anno, parte prima: doue brevemente si tocca quel, che si appartiene all’intelligenza de’ libri sacri, et all’emendazion de’ costumi, in Venezia presso a Francesco de’ Franceschi senese, 1571 (poi ancora 1574, 1580, 1584). 5. Parafrasi poetica sopra alcuni Salmi di David Profeta. Molto accomodate per render grazie a Dio della Vittoria donata al Cristianesimo contra Turchi. Accioché le nostre allegrezze sieno veramente Cristiane, e grate a sua Divina Maestà, in Venezia, appresso Giorgio Angelieri (att. 1571). 6. Sei prediche in lode della beata Vergine sopra l’Evangelo di San Luca. “Missus est Angelus Gabriel”. Predicate in Napoli, nella Chiesa dell’Annunciata, i sabbati di Quaresima, l’anno 1573, in Venezia, presso Francesco de’ Franceschi Senese, 1576 (poi, 1579, 1583, 1584, 1591). 7. De optimi Veneti pastoris munere oratio ad eiusdem Ordinis gen. Synhodum: quo die ab ipsa rector generalis renunciatus est, Venetiis, apud Aldum, 1578. 8. Le vite de santi descritte dal r. p. d. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranen. abbate della carità di Venezia, diuise in XII libri; fra’ quali sono sparsi più discorsi intorno alla vita di Cristo, con le annotationi sopra ciascuna d’esse, che espugnano, et convincono le eresie, e rei costumi de’ moderni tempi. Et contien questo primo volume le vite de’ santi, assegnati a mesi di genaio, et febraio... Al santissimo Gregorio 13. pont. massimo..., in Venezia presso agli eredi di Pietro Deuchino, 1581.

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9. G. Tribesco, Praeclarissimae responsiones, ad mille quaesita in omni ferè facultate. Ex omnibus diui Aurelii Augustini libris excerptae, & in vnum congestae. D. Iacobo Tribesco Brixiano, Venetiis, apud Antonium Ferrarium, 1582 e Venetiis apud Antonium Ferrarium, 1583 (a cura di Gabriele Fiamma, il cui nome appare nella prefazione). 10. Seconda parte della vita de santi, descritta dal r.p.d. Gabriel Fiamma... Diuisa in XII libri... in Venetia appresso Francesco de Franceschi, senese, 1583 (e anche in Venezia appresso Paolo Zanfretti, 1583). 11. Le vite de’ santi, descritte dal r.p.d. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranen. vescouo di Chioza. Diuise in XII libri, fra’ quali sono sparsi piu discorsi intorno alla vita di Cristo. Con le annotationi sopra ciascuna d’esse, che espugnano,et conuincono le eresie, e rei costumi de’ moderni tempi. Et contien questo primo volume le vite de’ santi, assegnati a’ mesi di genaio, & febraio. Di più si sono aggiunti due indici copiosissimi; l’uno delle cose, che nelle vite, l’altro di quelle, che nell’annotationi più notabili si contengono, in Genova appresso Gieronimo Bartoli, 1586. 12. Prediche fatte in vari tempi, in vari luoghi et intorno a vari soggetti: nelle quali si contengono molti ricordi, utili & necessari per far profitto nella vita spirituale & per fuggir gli errori di questi tempi del R.D. Gabriel Fiamma Canonico Regolare Lateranense. Tomo primo, Venezia presso a Francesco de’ Franceschi Senese, 1590. 13. Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranense; fatte in vari tempi, in vari luoghi, & intorno a vari soggetti: tomo primo (-secondo). Nelle quali si contengono molti ricordi vtili, & necessari, per far profitto nella vita spirituale, & per fuggir gli errori di questi tempi, Nuouamente ristampate con le postille, con le auttorita ne’ margini, e con la tauola, in Torino per Gio. Michele, & Gio. Francesco ff. de Cauallerii, 1590 [voll. II]. 14. Prediche del reuerendo don Gabriel Fiamma. Canonico regolare lateranense... Tomo primo..., Nuouamente ristampate con le postille..., in Vinegia presso Francesco de Franceschi senese, 1590. 15. Le vite de’ santi assegnati a’ quattro primi mesi dell’anno, descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma canonico regolare... Divise in Quattro Libri. Fra quali sono sparsi piu discorsi intorno alla vita di Cristo e tre altri dei Peccati, della Morte, e dell’Inferno. Con le annotazioni sopra ciascuna d’esse, che espugnano, e convincono l’eresie, e i rei costumi de’ moderni tempi. Di più si sono aggiunte le Tavole delle Vite, e de’ Discorsi, che in esse si contengono, in Genova appresso Giuseppe Pauoni, 1601. 16. Le vite de’ santi, descritte dal R.P.D. Gabriel Fiamma canonico regolare... divise in quattro libri fra’ quali si trovano sparsi molti discorsi intorno a diversi soggetti. Con le annotazioni sopra ciascuna d’esse, che espugnano, et convincono l’eresie, e spiantano i rei costumi de’ moderni tempi. Con vna tavola copiosa di che si tratta nelle vite, e in tutte l’annotazioni per beneficio di predicatori, curati, & altri virtuosi. Volume primo [-secondo], in Venezia, appresso Domenico Farri, 1602 [voll. II]. 17. Le vite de’ santi, descritte dal R. P. D. Gabriel Fiamma, canonico regolare lateranen… Divise in tre volumi; fra quali sono sparsi più discorsi intorno alla vita di

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Cristo: con le annotazioni sopra ciascuna d’esse, che espugnano, et convincono l’eresie, e spiantano i rei costumi de’ moderni tempi. Volume primo (-terzo), in Venetia appresso Gio. Antonio, & Giacomo de’ Franceschi, 1602 [voll. III]. Rime spirituali di mons. rever.mo Gabriel Fiamma, vescouo di Chioggia. Nuovamente impresse con gli argomenti di Pietro Petracci, in Venezia presso Gio. Batt. Ciotti, 1606. Vita del gloriosiss. martire San Sebastiano composta dal reverendiss. P. D. Gabriel Fiamma canonico reg. lateranense, et vescovo di Chioggia. Di nuovo ristampata, et dedicata alli fratelli dell’Oratorio dell’Archiconfraternita di SS. Sebastiano, et Rocco di Bologna, in Bologna per Sebastiano Bonomi, 1623. Discorso del r. p. d. Gabriel Fiamma canonico regolare lateranense, abbate della carità di Venetia. Sopra la peste di detta città dell’anno 1576, in Milano appresso Gio. Battista Bidelli, 1630. Le rime di monsignor Gabriel Fiamma canonico lateranense e poi vescovo di Chioggia illustrate cogli argomenti di Pietro Petracci e con la vita di esso Fiamma scritta da monsignore d. Gian. Agostino Gradenigo vescovo di Ceneda, in Trevigi appresso Giulio Trento, 1771. Le rime di monsignor Gabriel Fiamma canonico lateranense e poi vescovo di Chioggia illustrate cogli argomenti di Pietro Petracci e con la vita di esso Fiamma scritta da monsignore d. Gian. Agostino Gradenigo..., in Treviso presso Giulio Trento, 1772. Della parafrasi poetica del Rev. D. Gabriele Fiamma sopra Salmi libro I, s.l., s.a.

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BIBLIOGRAFIA Antologia della poesia italiana, II: Quattrocento-Settecento, diretta da C. OSSOLA e C. SEGRE, Torino 1998. Archivio di Stato di Venezia: Processi del S. Ufficio, b. 22, fasc. 23 Bayerische Staatsbibliothek Alphabetischer Katalog 1501-1840, München 1987-1990. La Bibbia, a cura di A. GIRLANDA – P. GIRONI – F. PASQUERO – G. RAVASI – P. ROSSANO – S. VIRGULIN, Milano 1982. La Bibbia Concordata, a cura della Società Biblica di Ravenna, Milano 1982. La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 2000. Bibbia ebraica, a cura di RAV D. DISEGNI, Firenze 1998-2003. La Bibbia in italiano tra Medioevo e Rinascimento. La Bible italienne au moyen âge et á la Renaissance, Atti del Convegno Internazionale, Firenze, Certosa del Galluzzo, 8-9 novembre 1996, a cura di L. LEONARDI, Firenze 1998. La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, a cura di R. FABRIS, Bologna 1992. Bibbie a Bergamo. Edizioni dal XV al XVII secolo, Bergamo, Centro Culturale S. Bartolomeo, 15 gennaio/13 febbraio 1983, Introduzione e Catalogo a cura di G. O. BRAVI, Prefazione e consulenza di C. BUZZETTI, Comune di Bergamo – Assessorato Cultura 1983. Biblia Sacra Vulgatae Editionis, Sixti Pontificis Maximi, iussu recognita et Clementis VIII auctoritate edita, Milano 2003. The Bible in the Renaissance. Essays on Biblical Commentary and Translation in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, ed. by R. GRIFFITHS, Aldershot – Burlington 2001. Bibliografia delle stampe popolari italiane, I: Stampe popolari della Biblioteca Marciana, a cura di A. SEGARIZZI, Bergamo 1913. Catalogue of Books printed on the Continent of Europe, 1501-1600 in Cambridge Libraries, compiled by H. M. ADAMS, Cambridge 1987. La censura libraria nell’Europa del secolo XVI, Convegno Internazionale di Studi, Cividale del Friuli, 9/10 Novembre 1995, a cura di U. ROZZO, Udine 1997. La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica, a cura di G. GULLINO, Venezia 1990. Le cinquecentine romane. Censimento delle edizioni romane del XVI secolo possedute dalle biblioteche di Roma, Milano 1972. Le cinquecentine della Biblioteca civica A. Mai di Bergamo, a cura di L. CHIODI, Bergamo, Tipografia vescovile Secomandi, 1973. Le cinquecentine mantovane della biblioteca comunale di Mantova, a cura di F. FERRARI, Firenze 2008.

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* Tutti i link ipertestuali sono stati controllati il giorno 31 ottobre 2011.

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TESTI

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Criteri di trascrizione Correggo i rari refusi ed elimino l’iniziale del verso maiuscola. Elimino il maiuscoletto con l’iniziale maiuscola: es. “SIGNOR” con “Signor”. Nonostante un uso non sistematico, ma chiaramente deducibile, adotto l’iniziale maiuscola nei casi seguenti: — i nomi o attributi di Dio e di Cristo: es. “Re”, “Padre”, “Fattore”, ”Gloria” — parole o sintagmi che indicano luoghi notevoli: es. “Campi chiari”, “Sommo Impero”, “Stelle”, “Luna”, “Sol”, “Olimpo” — definizioni di popoli: “Ebrea gente”, “l’onda Mora o Hircana”, “Ebrei” — termini che hanno a che fare col sacro o con le celebrazioni sacre, o con la storia sacra: es. “Santi”, “Salteri”, “Tempio”, “Sacerdoti”, “Capitani”, “Angeli”, “Musica”, “Prencipi”, “Poeta” — discorso diretto: es. “Non dirà, L’opra tua felice sia” — funzione d’espressività: es. “Grifo”, “Balena” — nomi di specie animali: es. “Erodio” — concetti o immagini fondamentali: es. “Mondo”, “Diavolo”, “Carne” — aggettivi, sostantivati e no, quando siano riferiti alla lingua: es. “Latino”, “Ebrea” — il sintagma nominale “Caldeo parafraste” perché è di fatto un nome di persona — titoli di opere Versi e prose adottano un’ortografia non uniforme. Nella trascrizione del testo poetico adotto una strategia il più possibile conservativa per non violare anche le minime sfumature prosodiche e musicali, ma adeguo il sistema di interpunzione alle norme moderne, perché, oltre ad essere talvolta incongruente, non è di sostegno in alcun modo alla scansione metrica. — distinguo u da v — sciolgo le abbreviazioni grafiche — sciolgo la nota tironiana in “e” prima di consonante e vocali in sinalefe, in “et” negli altri casi — elimino la h (pseudo-)etimologica, modificando c’+h in ch’: es. “talhor” > “talor”, “c’hor” >“ch’or”

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— sostituisco i plurali in -ij con -ii — trasformo i gruppi -ti, -tti, -pti, in -zi — conservo la grafia -ci per “nuncii” e l’alternanza di “giudicio/giudizio” — sostituisco l’esito del ch greco con la c: es. Christo con Cristo — elimino l’accento dalla preposizione à, alla disgiuntiva ò e dalle forme verbali “sta” e “va” — inserisco l’accento in “più”, “sì”, “percioché”, “né”, “ché” causale, nella forma verbale “dà” — aggiungo l’apostrofo nei troncamenti: es. verbo “fe” > “fe’”, avverbio “ù”> “u’” — inserisco la dieresi quando necessario — mantengo gli arcaismi, le forme latineggianti o dialettali: es. “ognior”, “mezo”, “pietate”, “opre” — mantengo le consonanti scempie: es. “matino” — mantengo le consonanti geminate: es. “essempio” — mantengo l’oscillazione per le preposizioni della forma sciolta dall’articolo e unita : es. “de le” e “delle” — mantengo l’oscillazione, per gli avverbi e per le congiunzioni, della forma sciolta e unita, introducendo l’accento dove necessario: es. “sì come”, “perciocché”, La finalità comunicativa delle prose mi induce ad un intervento più deciso; oltre alle correzioni indicate per i versi: — modernizzo tutte le forme latineggianti e dialettali: es. “auttore”> “autore”, “tradotione”>”traduzione”, “aquatili”>”acquatili” — unisco tutte le preposizioni agli articoli e tutte le forme avverbiali e i pronomi: es. “a le”>”alle”, “acciò che”>”acciocché”, “ogni uno”>”ognuno” — mantengo il corsivo per le citazioni greche e latine — sostituisco il trattino lungo con […] nel caso di omissis nelle citazioni — trasformo in lettere l’unico caso di numerale in cifra Nelle citazioni di testi latini: — sostituisco -ij con -ii — sciolgo la nota tironiana in et

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I salmi delle Rime spirituali (1570) Benedic, anima mea, Dominum: Domine Deus meus, magnificatus es vehementer. Salmo CIII Tu, che queste mie membra inferme avvivi, movi la lingua omai pronta e veloce, perché narri di Dio l’eterne lodi. Signor, per l’opre tue tante e sì rare sei conosciuto glorioso e grande; e tal ciascuno ti confessa e mostra che sei d’alto splendore ornato e chiaro: perché ti vesti di celeste lume, come con ricco e prezioso manto suol coprirsi talor l’umana gente. Tu le sfere celesti hai steso intorno a gli elementi, come stende e pianta soldato o peregrin l’umile albergo. Tu sopra il ciel stellato i bei cristalli spargi e di loro i sacri giri hai cinto: nobil lavoro a meraviglia e grande. Tu delle nubi hai fatto un lieve carro sopra cui vai poggiando; e sopra i venti, che sol col cenno a tuo voler affreni come se fosser tuoi corsieri alati, quando t’aggrada vai per l’aria a volo. Tu quei fiati che fuor manda la terra e quei folgori ardenti in aria accesi a far ognior diverse prove mandi: e come fidi tuoi nuncii e ministri scoprono i tuoi pensier, fan le tue voglie. Tu fondasti la terra, e con tal forza sopra la base sua l’hai ferma e fissa, che non può mai lasciar l’immobil centro. E, quando d’acqua il cieco abisso avea vestito e cinto il suo fecondo seno

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e col liquido manto avea coperto d’Olimpo e d’Ossa le superbe fronti, tu le membra di lei rendesti asciutte. Perché del troppo ardir corrette, l’acque da la tua voce a quel tremendo suono de la terra lasciar tosto i confini come, pien di timor, ratto s’asconde l’uom, se cruccioso il ciel balena e tuona. Allor, scoperti de la terra i siti, quindi si vider gli alti monti al cielo erger le membra lor sassose e forti, quinci le valli in parte ima e palustre stender le braccia fra gli ombrosi spechi, come di loro ha il tuo voler disposto. Né pon rinovellar l’antico oltraggio con temerario ardir l’acque superbe, coprendo della terra il seno e ’l volto, perché nel mare il lor confine hai posto, del qual uscir non s’assicuran mai. Tu l’umor, che da’ fonti eterno sorge, per le valli conduci all’onde salse; e dai corso fra’ monti a le dolci acque, perché possan cacciar l’ardente sete i giumenti e le fiere aspre e selvagge che cercan refrigerio al caldo interno. D’intorno a questi fonti e ’n su le rive de’ fiumi e de’ torrenti i vaghi augelli vanno scherzando e fanno i nidi in grembo a qualche pianta, a qualche pietra, d’onde s’odon sovente rinovar lor canti. Tu dal superno tuo ricetto mandi la pioggia che ’l terren fecondo rende, onde per la sua greggia e per l’armento il bifolco e ’l pastor raccoglie il fieno. E per sostegno dell’umana vita sorger si vede in questa parte e ’n quella l’erba che poi matura apporta il grano di cui fa l’arte il pan, cibo de l’uomo. Fatta da questo umor pregna, la terra produce anco la vite, onde si coglie quel soave liquor che avviva il core

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e con la sua virtù l’empie di gioia. Nasce ancora di lei per questo umore l’oglio che adorna e rasserena il volto de gli afflitti mortali e quel buon cibo che a le membra de l’uom dà maggior forza. Da queste pioggie tue le illustri piante e del Libano i cedri alti e sublimi che son piantati con industria et arte, hanno abondante nutrimento et esca. Tra’ verdi rami loro il nido fanno gli augelli, ma il Grifon, lor Re superbo, alberga ne’ riposti arbori densi, come albergano i cervi entro a le grotte de gli alti monti, ove a salvar si vanno, o ne le rupi hanno le tane i lepri. Tu fai che de la Luna il corso parte i mesi e quel del Sol distingue gli anni, il qual conosce quando presto o tardi s’ha da corcar e ’n ciò giamai non erra. Quand’ei s’asconde a l’emisferio nostro i tenebrosi orrori adduci e porti, onde l’umida notte il veste e copre. Le fiere alor pe’ boschi errando vanno e de l’aspra leonza i fieri parti cercan fremendo di far preda e torsi l’esca che tu lor porgi et appresenti. Ma, quando ei torna a l’orizonte e mostra a le nostre contrade il suo bel lume, entro a’ ricetti lor vanno a corcarsi gli orsi, i lupi, i leoni, i tigri e i pardi, onde sicuro il buon bifolco mena a le fatiche i buoi sotto l’aratro et a varie e diverse imprese intenti stanno i mortali fin presso a la sera. O sommo eterno Re, quanto son grandi, quanto degne d’onor, degne di lode son tutte l’opre tue famose e chiare, fatte con somma providenza et arte. Ovunque in terra gli occhi fermo e giro, veggio mille trofei de la tua forza che di nulla creò tante ricchezze.

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Ma che dirò del mar vasto e profondo, ch’è rinchiuso da’ liti in lunghi giri in cui son tanti mostri e tanti pesci, di natura diversi e di grandezza, che numerar non si porrian giamai? Qui si veggon spiegar le vele a i venti e far il corso lor le navi carche di peregrine e preziose merci. Qui la Balena con l’immensa mole del corpo smisurato gioca e scherza in grembo a l’acque più profonde et alte, come dispone il tuo voler eterno. E tutte queste fiere e questi pesci da la tua man cortese aspettan l’esca che lor soccorra al destinato tempo. Se tu, benigno al lor bisogno, doni cibo e conforto, la lor vita e forza ben nutrita s’avviva e si rinfranca. Ma, se tu gli abandoni e ’n lor non giri i dolci lumi de la tua pietate, tosto crollar si vede ogni lor membro e venir meno in lor lo spirto acceso, onde rimangon sol nude ossa e polve. Quando fien così spenti ancor de’ novi far tu potrai con la tua forza estrema, ché, come a la stagion gradita e bella si rinova la terra e si riveste, così di novi augei, di novi armenti lo spirto tuo può far il mondo adorno. Sia la tua gloria eternamente chiara e tutte l’opre tue sien sempre intente a darti lode, perché in lor si goda l’alto voler, che per su’onor l’ha fatte. Celeste Re, tu fai tremar la terra d’ogn’intorno col guardo e, folgorando, ardi e percuoti i monti, i quai, col fumo de le percosse lor, mostrano i segni. Però da l’opre tue ch’ognior contemplo m’ergo a lodar la tua somma virtute, né di lei potrò mai far ch’io non canti, fin che le membra reggerà lo spirto.

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E la mia lode, ancor che bassa, io spero che ti sia grata, poi che ’l mio desio, la mia gioia, il mio ben posto ho in te solo, unico oggetto del mio amore interno. Di questo, gran Signor, gli empi nemici saran dispersi con perpetuo danno. Però di novo, anima mia, ti chiamo a dir del tuo Fattor le lodi eterne. ESPOSIZIONE

Sopra il qual Salmo molte cose sarebbono d’avvertire, ma non è ora l’intenzion dell’autore di fare l’esposizione de’ Salmi. Però solamente qui egli noterà alcune cose nelle quali forse potrebbe credere alcuno che egli si fosse con troppa licenza allontanato dall’originale che egli traduce. E questo potrebbe verificarsi di quelle persone che non hanno cognizione delle lingue, e particolarmente della frasi Ebrea. Exstendes coelum sicut pellem. L’autor traduce: Tu le sfere celesti hai steso intorno a gli elementi, come stende e pianta soldato o peregrin l’umile albergo. Sopra di che prima è da sapere che in questo luogo David celebra l’opere fatte da Dio il secondo giorno, nel quale fu fatto il firmamento che dagli Ebrei è chiamato estensione. E, scrivendo David quest’opera poeticamente, entra nelle metafore tanto amiche della poesia e dice che egli ha steso il cielo come un tabernacolo, il quale chiama pelle, perciocché i tabernacoli o padiglioni si facevano di pelli, acciocché potessero difendere dall’acque. Onde è scritto nel Secondo de’ Re, Arca Dei habitat in pellibus; cioè sta sotto a i padiglioni che sono gli alberghi de’ soldati quando si accampano: e nel Salmo, turbabuntur pelles terrae Madian: e Cicerone di Lucullo parlando nelle Quistioni Academiche, ut non multum imperatori sub ipsis pellibus ocii relinquatur. Saturabunt ligna campi et cedros Libani, quas plantavit. L’Ebreo dice ligna Domini e alcuni per questi legni del Signore intendono quei legni che non sono piantati, ma dalla natura prodotti a differenza de’ quali soggiunge cedros libani, quas plantavit. Ma veramente questo è modo di parlar proprio della lingua Ebrea, perciocché una cosa altissima et eccellentissima chiamano gli Ebrei cosa di Dio, sì come gli altissimi monti chiamò il Salmo monti di DIO: iustitia tua, sicut montes Dei; e nel Salmo settuagesimo nono, Operuit montes umbra eius, et arbusta eius cedros Dei. Secondo questa esposizione, conforme alla frasi Ebrea, l’autore ha tradotto queste parole:

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Da queste pioggie tue le illustri piante, e del Libano i cedri alti, e sublimi. Erodii domus dux est eorum. L’Erodio alcuni hanno detto esser quello augello che chiamano Folica et alcuni dicono ch’egli è quello che si chiama Cicogna; altri intendono Erodo, cioè Grifone, perché questo è maggior dell’aquile e per ciò è degno di esser chiamato, come lo chiama David, prencipe degli augelli e, tanto più, perché egli fa il nido ne gli altissimi arbori, cosa che non fa né la Cicogna, né la Folica; et afferma Dionisio Cartusiano che questo nel suo paese è chiamato volgarmente prencipe degli uccelli. L’autore seguita questa esposizione del Certosino Petra refugium Erinaciis. Questa parola Erinaciis nell’Ebreo dice Scefaim, nel greco che, per testimonio di Santes Pagnino, si può interpretar cuniculis et leporibus, perché egli dice che significa il coniglio e la lepre. Essendo adunque tornato bene all’autore il tradurre lepra, non stima che molto importi che si traduca più lepra che coniglio, o riccio, o echino, poi che il principale intento di David è di mostrare che le buche, le quali sono sotto terra, le concavità de’ monti e le grotte, che a molti i quali molto non penetrano con la considerazione nell’opere di Dio, paiono quasi fatte a caso, sono nondimeno dalla sua Maestà fatte con grandissimo giovamento, perché servono alla salute di diversi e vari animali come di cervi, conigli e lepri, o altri simili. E, se pur volesse alcuno tradur la voce stessa Erinacius, potrà così accomodar quel verso: E ne’ sassi le tane hanno gli Echini. Catuli leonum. Platone divise gli animali in quattro maniere: celesti, i quali appresso di lui sono gli angeli ch’ei chiama Dei, volatili, terrestri et acquatili. Aristotele dal modo del viver loro e dalle azioni e da’ costumi variamente li va dividendo. Ma Ovidio li divise con due versi suoi leggiadramente in tre schiere, dicendo: Cesserunt nitidis habitandae piscibus undae: terra feras cepit, volucres habitabilis aër. In questo bellissimo Salmo David tocca tutte tre queste maniere d’animali. De’ terrestri dice, Catuli leonum; e di sopra Montes excelsi cervis, petra refugium Erinaciis. De gli uccelli, Erodii domus, et ancora, De medio petrarum dabunt. De’ pesci dice, Illic reptilia, quorum non est numerus, e usa la Scrittura di chiamar la moltitudine de’ pesci rettile, perché quella voce che val presso a noi rettile presso a gli Ebrei vuol dir sorgere e nascer copiosamente: scaturire diriano i Latini. E secondo David Kimhi, ove dice la nostra traduzione, Producant aquae reptile animae viventis, si potrebbe tradurre anco, scaturiant aquae scaturitionem. I Settanta hanno tradotto , la qual voce, secondo Isichio, significa animali senza piedi, come per lo più sono i pesci. . E lo scoliaste d’Omero dice de’ pesci, Nepodes vocantur, quod iter faciant natando.

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E la balena con l’immensa. La voce Dracone, ove dice il testo Latino, Draco iste, quem formasti ad illudendum ei, secondo diversi espositori è la Balena, overo altro pesce di grandezza mostruosa. Strabone scrive che Nearco diceva d’aver veduto un di questi pesci grandi lungo cinquanta braccia. Giuba, come recita Plinio, scrive ne’ suoi commentarii che in un fiume d’Arabia entrò un pesce lungo seicento piedi, largo trecentosessanta.

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Super flumina Babylonis illic sedimus. Salmo CXXXVI Nel duro esiglio ove n’addusse il fero tiranno che d’aver vinti gli Ebrei e distrutta Sion può gir altero, cara patria, pensando a quel c’or sei, a quel che fosti, ognior facciam col pianto torbide, amare l’acque de’ Caldei. Non s’ode il dilettoso e sacro canto che fea dolce suonar l’aria d’intorno al monte ov’è di Dio l’albergo santo. A quest’arbore, a quel di foglie adorno, ma senza frutto, stan le mute lire e le cetre pendenti e notte e giorno. Il Barbaro inuman ne ’nvita a dire col canto di Sion i dolci versi, mentre l’alme ne strazia empio martire. Come, gente crudel, ne’ casi avversi potrem lieti cantar? Come di Dio direm le lodi a’ cori empi e perversi? Santa città, se mai t’avrò in oblio, si scordi l’arte del suonar la mano e perda i grati accenti il canto mio, s’io non narro il tuo onor chiaro e sovrano, se da te non mi vien la prima gioia, s’io mi conforto mai da te lontano. Ma tu, sommo Signor, fa che non moia senza vendetta la tua cara gente, cui tal porge l’Idume angoscia e noia. Caggian, dicea, nel nostro mal ardente, le belle mura, e posta a ferro a foco tosto sia la città sacra e possente. Andrai, barbara gente, andrai ben poco superba e gonfia d’aver posto in terra di Dio l’albergo e del suo culto il loco. Misera, avrai dal ciel tant’aspra guerra che ben si può chiamar a pien beato chi a’ tuoi danni si move e l’armi afferra. Felice chi potrà torre a l’amato materno seno i suoi diletti pegni

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e farne strazio, di furore armato, lasciando a’ sassi del lor sangue i segni. ESPOSIZIONE

Cui tal porge l’Idume. Molti hanno creduto che l’Ebreo e l’Idumeo sia il medesimo popolo, o almeno hanno mostrato di crederlo, confondendo insieme questi nomi e pigliando l’uno per l’altro. Chiara cosa è che Plinio scrive che l’albero tanto famoso della palma, le foglie della quale erano anticamente, come sono anco oggidì, segno di vittoria, nasce in Giudea. Nondimeno Virgilio chiama le palme Idumee, dicendo: Primus Idumaeas referam tibi, Mantua, palmas. E Silio poeta non so con che spirito andava pronosticando che ’l grande Imperator Vespasiano dovea espugnare e vincer la Giudea, dicendo: Palmiferamque senex bello dormitavit Idumen. Noi sappiamo nondimeno per le sacre lettere che gli Ebrei sono discesi da Giacob e gli Idumei da Esaù, fratelli e figliuoli d’Isaac. Nel tempo che regnava David furono gl’Idumei sottoposti e fatti tributari da gli Ebrei; e da Ircano Asmoneo, sommo sacerdote, dopo molti secoli ne’ quali s’erano ribellati di nuovo, furono vinti e tornati sotto l’istesso imperio, se a Giosefo crediamo, che d’Hircano scrive queste parole: Hircanus vero etiam Idumaeae urbes capit, Adoram, et Marissam. Etiam omnes Idumaeos subditos fecit: permisit tamen, ut in regione manerent, si genitalia circumciderent, et Iudaicis legibus uti vellent. Hi vero, desiderio patrii soli, circumcisionem atque alia, quae apud Iudaeos sacra sunt, susceperunt: et ab illo die Idumaei Iudaei esse coeperunt. Il testo latino dice memor esto, Domine, filiorum Edon, avendo voluto David descrivere il popolo Idumeo col nome d’Esaù, dal quale sono discesi gl’Idumei. Questa voce Edon appresso gli Ebrei vuol dir rosso: e perché Esaù vende la primogenitura per una vivanda di lente rossa, per iscorno fu poi chiamato Edon, cioè rosso. San Gieronimo dice che la regione ove abitava Esaù da lui fu chiamata Edon, ma che al suo tempo si chiamava Gebalena. Servio scrive che in Tracia si trova un monte chiamato Edon dal quale i popoli che sono a lui vicini si chiamano Edoni, de’ quali Orazio: […] non ego sanius bacchabor Edonis: recepto dulce mihi furere est amico. E Virgilio: Ac veluti, Edoni Boreae cum spiritus alto insonat Aegeo. Stazio anco usò di dire, Edonias hiemes, cioè freddi, molto aspri.

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IL PRIMO SALMO DE DAVID Beato l’uom che sdegna il rio voler de gli empi e non segue l’insegna de’ scelerati essempi, né vuole esser amico di quei maligni c’hanno il ciel nimico. Ma il suo sommo disio è di seguir la legge e ’l voler santo e pio di quel che ’l mondo regge, a cui pensando torna, e quando il Sol s’asconde, e quando aggiorna. Questi fia qual oliva di chiare e lucid’onde piantata in verde riva che bea l’amiche sponde col frutto e con le foglie, cui verno i verdi onor giamai non toglie. Tutti i suoi frutti avranno il ciel largo e cortese e da benigna man colti saranno: ché de’ giusti l’imprese illustri e peregrine sempre han felice e fortunato fine. Non fia così di quelli che ’l costume empio e fero seguono, a Dio rubelli: anzi, qual più leggiero peso che ’l vento porti, senz’alcun frutto fien dispersi e morti. Onde l’ultimo giorno saran voti d’ardire, d’ira pieni e di scorno, né si potranno unire al coro eletto e degno de’ giusti, eredi del celeste regno. Perché il Fattor del cielo loda, conosce, et ama de’ giusti l’opre e ’l zelo

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e i rei sprezza e difama che per vie lunghe e torte corrono al varco de l’eterna morte. ESPOSIZIONE

Nel principio di questo bellissimo Salmo s’usano tre voci: Empi, Peccatori e Pestilenti, ovvero Schernitori. Così dice il testo: In consilio impiorum, In via peccatorum, In cathedra pestilentiae; overo, secondo l’Ebreo, In consessu irrisorum. Empi chiama David quei che in ogni tempo fanno male, pur che possano, e sempre sono travagliati dalla mala volontà loro: però egli usa la voce Ebrea Refaim. Peccatori chiama il Salmo quei che non si vergognano di far male, ma con sfacciata fronte scoprono i lor misfatti: però usa la voce Hattaim. Pestilenti, poi, chiama quelli che si fanno scherno delle cose di Dio e della religione. Per tanto l’autore ha tradotto quelle voci che ha il testo Latino, in consilio impiorum: Il rio voler de gli empi. E quell’altre, Et in via peccatorum non stetit, egli ha tradotto così: E non segue l’insegna de’ scelerati essempi. E finalmente l’ultime, ove dice il Latino, In cathedra pestilentiae, egli ha tradotto così: Né vuol esser amico di quei maligni, c’hanno il ciel nimico. Per spiegar più chiaramente che sia possibile nelle prime voci la mala volontà, nelle seconde i mali esempi, nelle terze lo scherno che si fanno i malvagi delle cose di Dio: che sono tre gradi di peccati. Il primo è nel voler nel secreto del cuore, il secondo è nell’opere scandalose, il terzo è nel dispregio di Dio e della propria salute. Ugo Cardinale sopra quelle parole In consilio impiorum, entrando nelle moralità, fa una molto utile considerazione, dicendo che si debbono fuggire i consigli de gli empi, cioè del Mondo, del Diavolo e della Carne. De’ quali la Carne consiglia che si procurino i piaceri secondo il consiglio che dierono i vecchi a Susanna: Commiscere nobiscum; e quell’altro del paggio d’Oloferne a Giudit: Ne vereatur bona puella intrare ad Dominum meum. Il consiglio del Mondo è che si faccia della robba, che si spoglino gli orfani, che si beva il sangue dei poveri. Questo è il consiglio che dierono i giovani al figliuol del Re Salomone contra di cui si può dire quello che disse Giacob: In consilium eorum non intret anima mea. Il consiglio del Diavolo è che si procurino le dignità e gli onori ambiziosamente. Questo è il consiglio che diede Achitofel ad Absalon. Contra questo malissimo consiglio è scritto nell’Ecclesiastico: A consiliario malo serva animam tuam.

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Questi fia qual oliva. Il testo Latino non viene al particolar d’alcuno albero: ma gli espositori intendono quella voce generica lignum specialmente per la palma, o per l’oliva: perciocché altrove è scritto ne’ Salmi: Iustus, ut palma, florebit. Et in Geremia, Olivam uberem speciosam vocavit Deus nomen tuum.

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SALMO TERZODECIMO Sommo Signore e Dio, m’avrai sempre in oblio? Fin quando mi vorrai celar quei del tuo amor cortesi rai? Quando avran fine i tanti miei discorsi noiosi e’ gravi pianti? Andrà sempre sì altero il mio nemico fiero? A me, prego, ti volta, e le mie voci con pietate ascolta. Dammi senno e consiglio, ché fuggir possa ogni mortal periglio. Fa’ che ’l mio duro scempio non faccia lieto l’empio. Ché, se mi desse morte, si terrebbe di te, Signor, più forte: e quei che mi fan guerra andran superbi, s’io men vado a terra. Io da la mia virtute non spero aver salute, ma in queste doglie estreme la tua somma pietate e la mia speme. So che sarò contento, ché già del tuo favor la forza sento. Quando avrà gioia e pace l’alma ch’afflitta giace, al tuo nome gentile e l’ingegno sacrar voglio e lo stile che farà noto altrui il mio stato felice e’ doni tui. ESPOSIZIONE

Era David Profeta, quando fece questo Salmo, in grandissimo pericolo della vita sua, per la persecuzione che gli era fatta dal Re Saul e da’ suoi ministri, onde egli si diede a pregar sua Maestà che gli desse prudenza tale che a bastanza potesse e sapesse fuggire i pericoli della morte da’ quali era sempre circondato. E, perché molti credevano ch’egli da Dio fosse abbandonato, egli comincia a dimandare a Dio fin quando egli voleva differire il

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soccorso ch’egli aspettava sempre, contra l’opinione di quelli che altrimenti si andavano persuadendo. A celar quei del tuo. Quello che nella nostra traduzione dice, Avertis faciem tua, il Caldeo parafraste traduce, Lo splendor del tuo volto; e l’autore: Quei del tuo amor cortesi rai. Ma dicasi o la faccia o lo splendor della faccia o i rai cortesi, in ogni maniera bisogna intendere come se dicesse il Profeta, Fin quando mi vorrai negare il tuo soccorso, la tua misericordia, la tua pietà? Dammi senno e consiglio. Il testo Latino dice, Illumina oculos meos, ne umquam obdormiam in morte, cioè, Dammi tanta prudenza, ch’io possa fuggir le insidie del mio nemico, sì ch’egli non mi levi la vita, come brama e cerca di fare. E spesse volte la Scrittura sacra usa di nominar l’intelletto occhio, perché quello che nel corpo è l’occhio, nell’anima è il discorso e ’l consiglio. Ha dunque l’uomo due occhi, l’interno e l’esterno. L’interno occhio destro è la cognizione, il sinistro è l’affezione; il primo si oscura e si perde per cagione dell’ignoranza, il secondo per cagion della concupiscenza; la luce del primo è la scienza, la luce del secondo è la virtù. Molti hanno manco un occhio perché, se bene hanno il lume della scienza, non hanno quello delle buone opere. Però ognuno deve pregar Dio che non lo lasci divenire orbo o losco, ma che gli conservi l’uno e l’altro occhio; acciocché non sia come Balaam, di cui per iscorno si scrive: Dixit homo, cuius obscuratus est oculus. So che sarò contento. Il testo Latino dice, Exultabit cor meum in salutari tuo. Nelle quali parole David mostra ch’egli non avea dubbio delle promissioni c’aveva ricevute da Dio, se bene aveva detto per grande angustia: Aliquando incidam in manus Saul. Anzi, si fa intender chiaramente ch’egli sperava di tosto uscir d’ogni affanno con l’aiuto del suo Signore. Nel che s’impara che, se ben Dio promette a gli eletti suoi pace e vittoria, essi in tanto non hanno a star sonnacchiosi o negligenti, ma pronti e solleciti a fare orazione e, con ogni suo ingegno e con ogni sua forza, debbono dal canto loro disponersi et aiutarsi, a fine che possano ricever da Dio quello ch’egli promette. Così leggesi c’avendo Dio benignissimo promesso ad Abraam posterità e però potendo Isaac esser sicuro di dovere aver figliuoli, egli nondimeno, vedendo la moglie sterile, non disse tra se stesso, Dio ha promesso a mio padre et a me di moltiplicar la nostra posterità; se ben tarda, ad ogni modo non può mancare: attenderò a vivere et aspettar figliuoli. Né si diede, per la promessa di Dio, alla negligenza, anzi, dice Mosè ch’egli si diede a pregar Dio che facesse grazia alla sua donna di poter aver figliuoli. E ’l Signore udì i suoi preghi e tosto Rebecca si trovò aver concetto; così dice la sacra istoria: Deprecatus est Isaac Dominum pro uxore sua, eo quod sterilis esset; et dedit Dominus conceptum Rebeccae.

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Al tuo nome gentile. Il testo Latino dice: Cantabo Domino, qui bona tribuit mihi; et psallam nomini tuo, altissime. Sopra che mi par d’avvertire che, sì come la Poesia fu ritrovata da principio per lodar Dio e poi da gli uomini mondani è stata posta in uso profano, così anco la Musica si dee credere che fosse trovata per cantar le lodi e gli onori della divina maestà; e poi gli uomini l’hanno voluta porre in usi mondani e lascivi. Il che si può trarre e dalla Scrittura sacra, e da gli scrittori profani. La sacra Scrittura loda maravigliosamente il suono e ’l canto nel culto di Dio, dicendo in più luoghi che si debbono suonar tutti gli strumenti musici in lode et in onor di Dio. Giudit: Incipite Domino in timpanis, psallite Domino in cimbalis, modulamini illi psalmum novum. Esaia: et in timpanis, et in citharis, et in bellis praecipuis expugnabit eos. E David: Laudate Dominum in timpano, et choro; laudate eum in chordis, et organo. Et ancora: In psalterio decem chordarum psallite illi. E molte altre parole e sentenze tali. Dall’altro canto biasima i canti e i suoni profani, dicendo Giobbe: Gaudent ad sonum organi et in puncto ad inferna descendunt. San Gieronimo, scrivendo a Leta gran matrona, insegnandole il modo di ben nutrire in buoni costumi la figliuola, dice: Surda sit ad organa; tibia, lira, cithara ad quid facta sint, nesciat. Omero, per non lasciare i profani scrittori, c’hanno avuto qualche giudizio nelle cose de’ costumi, nell’Iliade introduce Ettore che dice a Pari, per ischerno, ch’egli nell’armi era vile e che s’avea guadagnato l’amor d’Elena col canto lascivo. Et Orazio dice dell’istesso Paride: Nequicquam Veneris praesidio ferox Pectes cesariem, grataque foeminis imbelli cithara carmina divides. Sarà biasimato da tutti gli uomini in tutti i secoli Nerone imperatore che non ebbe vergogna di comparire in scena e cantare e suonare, contra cui scrisse Giuvenale quei versi: Heac opera atque haec sunt generosi principis artes gaudentis foedo peregrina ad pulpita saltu Aristotele dice che l’esercitar la Musica non è cosa degna d’animo nobile ma che il gentiluomo si può prender diletto di udir gli altri che di Musica fanno professione. Tucidide narra che i Lacedemoni usavano nella guerra i suoni delle citare e delle lire, ove ora si suonano le trombe e i tamburi. Aulo Gellio narra il medesimo de’ Candioti. Da tutto ciò che s’è detto mi pare che si possa trar questa conclusione: che la Musica non si deve usar, se non in servizio di Dio e per un alleggiamento dell’animo, acciocché ricreato da lei sia più pronto al servizio del suo Fattore. E non ha dubbio che Dio benignissimo ha caro d’esser servito con allegrezza di core e non con animo doglioso. Onde tante volte le sacre lettere ci lodano l’allegria devota et a lei ci confortano. Si può ancora, da questo e da luoghi simili, pigliare

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occasione di giustamente difender quei che per servizio di Dio si danno a far delle poesie sante, le quali sono atte a destare e nell’autore e ne’ lettori il foco dell’amor di Dio. Sappiamo poi che il Demonio ha in odio l’allegria spirituale: però, mentre David suonava di citara, il Demonio non tormentava Saul. Et i Filistei, ombra e figura degli spiriti maligni, non ebbero mai tanta paura de gli Ebrei, quanta ebbero allor che tutto il campo della gente d’Israelle suonava e cantava e faceva molti segni d’allegrezza, perché era giunta l’arca di Dio ne gli alloggiamenti loro. Onde pieni di spavento diceano quelli Idolatri: Veh nobis non fuit tanta exultatio heri et nudius tertius. Quis nos salvabit de manu Deorum istorum sublimium?

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Salmo centesimo[sesto] di David, che incomincia: Confitemini Domino, quoniam bonus. Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà ch’è sempre accesa. Voi che sottratti ha la sua mano al giogo sotto cui vi premea l’empio tiranno, che in duro essiglio vi mandò dispersi cercando l’altrui terre e gli altrui mari e quel gran Re da tutti quattro i venti v’ha raccolti e condotti al patrio nido. Voi, voi cantate del suo amor la forza. Quanti infelici andaro un tempo errando per luoghi alpestri, inospiti e selvaggi, ove ’l lungo digiun, l’ardente sete ch’ebbero a sostener fe’ lor tal danno che fur sovente per mancar tra via. Alor, gli spirti indeboliti e stanchi raccogliendo, mandaro al ciel devoti preghi: e gli udì chi siede ivi Monarca e diè lor forza per fuggir l’affanno e luce, onde tornaro al dritto calle che fuor di boschi e di solinghe piagge conduce in parte u’ son cittadi e genti, dando a le membra affaticate e lasse cibo, conforto, refrigerio e posa. Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà, l’opre mirande. Molti, posti in prigione oscura e tetra u’ de la morte son gli orror dipinti, carchi di ferro e d’ogni bene ignudi, sol perché acerba lor parve l’eterna legge del Re del ciel, di cui gli avisi, gli amorosi consigli e quei conforti che lor dovean piacer più che la vita, sprezzaro neghitosi, a lui rubelli; onde, confusi et avviliti e pieni di fatica, d’affanno e di paura, passar lunga stagion senza soccorso; al fin, rivolti a Dio con puro zelo, mandaro a lui dal cor preghiere ardenti, qualche pace chiedendo a tanta guerra.

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Mosse quel grido la pietà superna onde, rompendo le catene e i ferri ch’avean lor cinto i piè, le braccia e ’l collo, aprendo la prigion, scacciando l’ombre che di morte parean, con la sua luce fe’ lor di libertà cortese dono. Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà, l’opre mirande. Quanti, senza ragion seguendo i sensi per l’orme della vita ingiusta et empia, caddero infermi; e sì gli oppresse e vinse l’umor maligno ch’ogni cibo eletto, ogni esca parve lor noiosa e schiva, tal che languendo andar fin su le porte di quella ch’ogni cor paventa e teme. Ma non sì tosto a Dio gridar, pregando, che porgesse a quel duol qualche conforto, ché, per voler di lui, per la sua cura, tornar gli umori a le devote tempre, onde l’afflitte membra ebber salute, lo spirto pace; e si può dir ch’usciro alor quegli egri da’ sepolcri loro, perché di lode un sacrificio puro porgano a quel che sana ogni aspra piaga e vadan lieti in queste parti e ’n quelle, narrando quanto ei sia possente e grande. Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà, l’opre mirande. Quei che solcando van l’onda marina e scendon con le navi in quel profondo d’acque per trarre i lor disegni a riva, quei del Sommo Fattor molt’alte e rare maraviglie narrar possono altrui, ché per prova ogni dì ne veggion mille ch’egli opra in mezo a quell’ondoso regno. Poi che, mentre sen’ van con l’aure amiche e col mar queto ov’han di gir desio, al cenno di colui che regge il mondo, or da fronte, or da tergo, or da le sponde, gli urta e gli spigne d’improviso il vento irato e l’onda minacciosa e fiera,

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tal che ’l legno talor s’erge alle stelle e par che voglia dare al ciel l’assalto; talor, cadendo, tanto a basso scende, che par sepolto ne gli oscuri abissi. Alor i naviganti afflitti e mesti con l’alma stanca van crollando intorno, com’ebri, senz’ardir, senza governo, perché la morte, ch’è presente, ogni arte, ogni saver col suo timor divora. E pur, se gli occhi interni alzano a Dio, pregando ch’ei dia fine a quel travaglio, tosto affrena de’ flutti il fiero orgoglio e cangia la procella in queta calma. Onde contenti con l’adunco ferro fermano il legno nel bramato porto, narrando ognior, poi c’han finito il corso, le lodi del Signor che fu lor guida, tra la gente minor, tra’ più pregiati. Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà, l’opre mirande. Quand’ei vuol dimostrar l’immensa forza e ’l pieno arbitrio del suo santo Impero, rende più che deserti, aridi i fiumi che scendean ricchi poco inanzi al mare e toglie a’ frutti il lor perpetuo onore. Talor rende il terren ch’era fecondo, per l’error del padron, pien d’umor salso, onde non può produr fiori, erbe o frutti; talor ne gli assetati aspri deserti fa stagnar l’acque e le più secche vene apre a la terra dianzi asciutta et arsa: onde, non sol torna feconda e sana ma, di liquido argento ornata il manto, fa di sé bella et onorata mostra. Qui conduce il Signor le genti afflitte dal lungo assedio de l’ingorda fame che, vedendo quel sito ameno e pingue, vi fan case e città per lor alberghi. Qui si danno a piantar più d’una vigna, onde si possan trar col vin la sete, e si studian di far con l’arte i campi

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atti a produr i desiati frutti, onde abbian cibo per la vita in copia. E tanto è lor cortese il Re del cielo, che, non sol di figliuoli e di nipoti son ricchi i padri, ma l’armento e ’l gregge, da le fiere campato e da la scabbia, da la furia del ciel, da man rapace, va crescendo: e la mandra è ognior più piena. Ma, se queste sue care amate genti volgon le spalle al suo sereno volto, di lor la maggior parte uccide e pochi vivi ne tien per farli ad altri essempio, onde gli affligge, gli addolora e preme, e gli lascia in poter d’empi tiranni. I regi d’ogn’impero spoglia e gli empie di scorno et ogni lor disegno atterra: onde fuor del sentiero errando vanno in parte ove trovar guida non ponno. Quei poi che sono in basso stato e vile essalta e tosto bea l’inopia loro. E, come il buon Pastor cura il suo gregge, così questo divin Signor governa le persone de’ giusti e le famiglie: opre che i buoni con interna gioia rimiran sempre e i rei, confusi e pieni di duol, senza parlar, pensando vanno. O chi fia mai di tal saver adorno, ch’intender possa del mio canto i sensi e conoscer di Dio l’alta pietate? ESPOSIZIONE

Si può conoscer da gli alti discorsi di questo Salmo la provvidenza di Dio e la prontezza nel dar soccorso a chi ricorre a sua Maestà. Sopra il quale saranno avvertiti i lettori che in questa traduzione, o piuttosto parafrasi, appresso il verso intercalare, che è quel che si replica nel poema come nella Farmaceutria di Virgilio quel verso: Incipe Maenalios mecum, mea tibia, versus, e quel del Sanazaro nell’Arcadia: Incominciate, o Muse, il vostro pianto, il verso adunque intercalare in questo Salmo è quello che nel Latino dice: Confiteantur Domino misericordiae eius, et mirabilia eius filiis hominum, che l’autore ha tradotto al senso, secondo la forza delle parole Ebree, così:

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Cantiam, genti, cantiam del Re superno la bontà, la pietà, l’opre mirande. Avanti adunque a questo verso intercalare sempre l’autore ha posto un verso che nel Salmo Latino è posposto. Come per esempio: exaltent illum in ecclesia plebis et in cathedra seniorum laudent eum. Questo verso nel Latino e nell’Ebreo è posto subito dopo il verso intercalare, e la cagione che l’autore ha preso questa licenza è stata per fare il Salmo chiaro: acciocché subito dopo il verso intercalare, cominciandosi una nuova materia, non s’avesse a farla oscura, mettendo in mezzo una cosa che ha da esser legata con le cose dette avanti la replica del verso intercalare e che non ha che fare con quel che segue. E, s’alcun mi dicesse che David, che fu così gran poeta e profeta, non avrebbe posposti quei versi senza artificio e senza mistero, l’autor risponderebbe ch’egli non è d’altra opinione e che però ha voluto, con l’avvertirne i lettori, dar loro occasione d’andare pensando alla cagione che potesse aver mosso il profeta a far questo legamento a’ suoi versi. E fra tanto ha voluto far più chiaro il sentimento letterale il quale, se si fossero posti quei versetti dopo quell’intercalare che si replica in questa nostra lingua, avrebbe avuto dell’oscuro anzichennò. Perché di lode. Del vero sacrificio della Cristiana religione s’è detto nel sonetto che incomincia: O che santo, o che degno, o che perfetto. Però qui si dirà solamente che Dio, oltre al sacrificio del corpo e del sangue suo che si fa per mano de’ sacerdoti e non d’altri, vuole ancora molti sacrifici da tutti i Cristiani. Vuole il sacrificio del corpo, dell’anima, della roba, della bocca, degli occhi, delle mani, dell’orecchie. Il sacrificio del corpo è il digiuno: Obsecro vos, fratres, ut exhibeatis corpora vostra hostiam sanctam. Il sacrificio dell’anima è la contrizione: Sacrificium Deo spiritus contribulatus. Il sacrificio della roba è l’elemosina: Sacrificium iusti acceptabile est. Il sacrificio della bocca è la lode: Sacrificium laudis honorificabit me. Il sacrificio degli occhi sono le lacrime: Non placebunt Domino sacrificia eius. Il sacrificio delle mani sono le opere buone: Talibus enim hostiis promeretur Deus. Il sacrificio dell’orecchie è l’udir la parola di Dio: Filii, ausculta eloquia mea. Crede l’autore di certo che l’orazione ch’usa di far la santa Chiesa, quando nel santissimo ufficio della Messa prega per gl’infermi, sia stata cavata da queste parole del Salmo: Et sacrificent sacrificium laudis. Come ognuno potrà venir considerando. […] per trar i lor disegni a riva. Con queste parole l’autor traduce quelle del Salmo: Facientes operationem in aquis. Le quali certo non vogliono se non mostrar la temerità e l’ingordigia di quelli che per arricchire si mettono a tanti pericoli quanti sono quei de’ naviganti. E questo a bastanza sia detto d’intorno a questo salmo sopra il quale hanno scritto moltissimi espositori, a’ quali l’autor rimette i suoi lettori.

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Salmo terzo di David Alto Re delle genti, perché tanti guerrieri, sol a’ miei danni intenti, s’armano arditi e fieri? Come scosse faville crescono i miei nemici a mille a mille. Molti, fra lor pensando, voglion che la mia vita sia dal tuo core in bando e che la tua infinita bontà di me non curi, onde già del mio fin vivon sicuri. Ma tu, sommo Signore, sei l’alta mia difesa, la mia speme, il mi’ onore. Per te vedrassi accesa la gloria mia già estinta e lieta l’alma ch’or di doglia è cinta. Mentre cresce il martire a te sospiro e grido e ’l mio prego salire dal tuo terrestre nido al ciel veggio, onde prendo ogni or più ardire, e ’l tuo soccorso attendo. Io senz’alcun sospetto, d’ogni paura sciolto, dono le membra al letto e, ’n queto sonno involto, prendo forza e riposo; di dormir, di vegghiar, di sorger oso. Se innumerabil gente si movesse a’ miei danni, sicura avrei la mente. Da’ tuoi celesti scanni desta la tua virtute, direi, Signor, tu sei la mia salute. So che ’l tuo braccio forte quegli empi ha già percosso che cercan la mia morte. De la mascella ogni osso

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hai lor rotto, onde avranno tosto la pena de l’estremo danno. Tu fuor d’ogni tormento il tuo popolo caro puoi trar salvo e contento, e farlo illustre e chiaro. Dunque sopra lui scenda il tuo favor, che lieto ognior lo renda. ESPOSIZIONE

Questo bellissimo Salmo fu scritto dal Re David quando Absalon suo figliuolo con quella grandissima congiura procurò di levargli il regno e la vita, avendo tirato dalla sua parte Achitofello, e Techone, et altri uomini principali di quel regno, come si legge ne’ libri de’ Re. Allora gl’inimici di David credettero ch’egli fosse da Dio abbandonato, come egli spiega con quelle parole. Molti fra lor pensando e quel che segue. Nondimeno tutti gli espositori dicono, che David non parlò tanto in persona sua, quanto in persona del Salvatore. E si vede che la santa Chiesa espone di Cristo le parole di quel Salmo negli uffizi della Resurrezione. Però sarà avvertito il lettore che l’autore non esce del senso letterale, onde quelle parole Latine, Ego dormivi et somnum coepi et exsurrexi, quoniam suscepit me: l’autore espone così: Io, dopo ch’ho pregato il Signore et a lui mi sono raccomandato, mi vado quietamente a riposare e mi sveglio e, levatomi, vado a fare i miei negozi con animo sicuro. E segue: S’io vedessi anco migliaia di persone aggiunte a quelle ch’ora sono armate contra di me, non temerei, ma tornerei alla difesa dell’orazione. Così giudica l’autore che si debba dichiarar la lettera, lasciando ch’ogni buono spirito possa passare a voglia sua a gli altri sensi mistici, come a lui piacerà. Né biasima l’opinione d’Origene che stima queste parole esser poste dal re David per accusarsi ch’era stato sonnacchioso nel governo del regno, onde per sua negligenza era succeduta questa congiura che l’avea svegliato. Ma l’autore da quelle parole che vanno innanzi, cioè, Voce mea ad Dominum clamavi, e da quelle che seguono, cioè, Non timebo millia populi, stima questo sentimento posto da sé esser molto comodo alla letterale intelligenza del Salmo.

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Oda sopra il secondo Salmo di David che comincia: Quare fremuerunt gentes Perché, Signor, le genti con temerario ardire fatte nel male ardenti mostrano fuor tant’ire? E i popoli inumani pensano a’ lor disegni stolti e vani? Perché i Prencipi ingiusti c’han sì gran forza in terra, d’ira e di rabbia onusti, vogliono a Dio far guerra et a quel Re superno ch’è per voler di lui Monarca eterno? Questi legami fieri, dicono, e questi freni non fien lasciati intieri. Altri popoli affreni l’alto Re, perché noi non vogliam più patir gl’imperi suoi. Ma in Ciel siede e le Stelle calca quel gran Signore di cui l’empie rubelle genti sprezzan l’onore e ride e sdegna i loro stolti consigli da quel santo coro. Ben verrà ’l tempo quando, d’alto furore e d’ira il cor pietoso armando, quei ch’or soffrendo mira con dure voci amare e di dentro e di fuor farà turbare. In tanto ho pur il regno, dice di Dio l’erede, che nel suo monte degno il gran Padre mi diede, quindi le genti chiamo a servar la tua legge ch’io tant’amo. Il gran Signor del mondo a me disse: tu sei

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il mio parto giocondo. Oggi ne’ puri miei spirti t’ho generato et a l’eterna vita oggi t’ho dato. Chiedi, figliuol diletto, chiedi il mio regno intero, ch’ogni popolo eletto sarà sotto al tuo Impero. Voglio che ’l suo confine sia del mondo il principio, il mezo e ’l fine. Questi empi iniqui Regi ch’armati si son mossi per farti onte e dispregi, dal tuo scettro percossi in questa e ’n quella parte, qual vaso fien che fa di terra l’arte. Prencipi, a voi ragiono, ch’or Dio destar vi vuole: udite il grave suono di queste alte parole; da questi avisi chiari qual sia l’obligo suo ciascuno impari. Di voi ciascuno adori questo Signor celeste, ogniun l’ami et onori con voglie al ben far preste e le sue lodi tante canti con l’alma in un lieta e tremante. S’aven che ’l cor v’impiaghe la sua man dolce e pia, care vi sien le piaghe, perch’ira in lui non sia per cui l’alma se’n vada smarrita poi fuor de la buona strada. S’en breve spazio d’ora, qual suol, d’ira s’accende, direte meco alora, quel sol che da Dio pende esser securo e queto e chi sol spera in lui beato e lieto.

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ESPOSIZIONE

Il soprascritto Salmo fu fatto dal Re David nel tempo ch’ei cominciò a regnar sopra la tribù di Giuda quando si levaron i Prencipi de’ Filistei contra di lui, ma non è però alcun Dottor cattolico che non riconosca che si parla di Cristo Salvatore. In tutto questo Salmo sotto la persona di David, che di lui fu tipo somigliantissimo, si ragiona della sua natività eterna e temporale, della sua passione, resurrezione e della sua vittoria. E però, quando resuscitò, disse: Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra. Mostrò ben che di lui parlava David quando in persona dell’eterno Padre gli disse in questo Salmo: Postula a me, et dabo tibi gentem haereditatem tuam, et possessionem tuam terminos terrae. Ma quel che mi pare d’avvertire e che fa molto al proposito nostro è che quelle cose che si fanno contra la Chiesa santa e contra i fedeli, i quali sono il corpo mistico del Salvatore, si ponno dir fatte contra l’istesso Salvatore. Onde disse a Saulo, il quale perseguitava i Cristiani: Saule, Saule, cur me persequeris? Quasi chiaramente dicesse: Tu perseguiti me perseguitando le membra mie, a me tanto care. Però si potrà sempre usare questo Salmo, pregando Dio contra i persecutori di santa Chiesa. È anco da notare come quelle parole, Apprehendite disciplinam, che tanto diversamente hanno interpretato gli espositori, l’autor, seguendo la traduzione comune che si chiama vulgata, accettata dalla santa Chiesa già tanti secoli e dal sacro Concilio di Trento ultimamente autenticata, interpreta prima la parola Ebrea, Disciplinam: e per disciplina, ancorché si potesse espor la dottrina che insegna a gli uomini i costumi, nondimeno l’autor intende la correzione, quasi voglia dire il Profeta: Principi, abbiate prudenza e, se Dio vi flagella, emendatevi e non v’indurate, acciocché non siate in tutto da sua Maestà abbandonati et in eterno castigati.

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Salmo XXII[I] di David. Dominus regit me, nihil mihi deerit. L’eterno alto motore pasce la vita mia. Qual dunque ha il mondo ben che mio non sia? Ei qual saggio pastore m’adduce ove il terreno di varii fiori e di verd’erba è pieno. Là ’ve d’argento i rivi par che chiamin la gente a trarsi al fresco umor la sete ardente, qui mi conforta e quivi ristora a tempo l’alma e sostien questa mia gravosa salma. Voltando a Dio le spalle, lo spirto avea smarrita la strada che conduce a miglior vita. Ma al giusto e dritto calle la sua pietà l’ha scorto e del suo grave error l’ha fatto accorto. Ove stampa il sentiero con l’ombre sue la morte andrò sempre, Signor, sicuro e forte, se m’accompagni; e spero di giunger al tuo Regno, poi ch’or m’abbatti et or mi sei sostegno. Tu mi nudrisci e pasci con larga mano e vuoi che ’l mio nemico veggia i doni tuoi. Dolente non mi lasci, ma così mi governa il tuo amor ch’io son pien di gioia interna. Nel tuo bel vaso augusto almo liquor soave che scaccia ogni pensier molesto e grave et empie l’alma io gusto. Così la tua pietate mi guidi e m’accompagni in ogni etate. Che, se questa m’è duce, sarò sempre felice,

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perché, dove la tua vista beatrice apporta eterna luce ov’or col pensier m’ergo, farammi aver eterno e lieto albergo. ESPOSIZIONE SI vede chiaramente in questo Salmo quanto siano favoriti gli amici di Dio. Può adunque ognuno dal sonetto scritto di sopra e dal presente Salmo pigliare occasione d’esercitar la mente e nel timore e nell’amor di Dio. E questi saranno come due sproni ardenti, da’ quali punto lo spirito farà di molti acquisti nella via del Signore e potrà sperar di fuggire le pene minacciate a’ reprobi e di conseguire anco i favori promessi agli eletti. È da notare che nella voce Pastore si rinchiude non solamente il beneficio che ci fa Dio nel provvedere a’ bisogni della nostra vita col cibo, ma con ogni altra maniera d’aiuto. Perché i pastori non solamente procurano che il gregge abbia buoni pascoli, ma ancora buono albergo, buona servitù, buona difesa. Onde la cura pastorale è la più faticosa che si possa immaginare, essendo necessario che ’l pastor sia sempre vigilante. Per questo finsero i Poeti ch’Argo, a cui fu da Giunone data in governo Io, figliuola d’Inaco da lei convertita in giuvenca, era tutto occhio e sempre era con una parte di loro desto e pronto a far buona guardia al deposito che avea fatto la Dea nelle sue mani. Centum luminibus cinctum caput Argus habebat, inde suis vicibus capiebant bina quietem. Caetera servabant, atque in statione manebant. Giacob Patriarca, quando fu dal suo suocero giunto nel cammino ch’ei faceva per giungere alla patria, venendo a parole fra loro, per mostrar quante fatiche egli avea fatto per lui, dice queste parole: Die noctuque aestu urgebar et gelu; fugiebatque somnus ab oculis meis. Nel qual discorso di Giacob si dipinge la vita de’ veri pastori Ecclesiastici principalmente et anco de’ Prencipi, i quali non senza ragione Omero illustre Poeta chiama pastori. Hanno da patir caldo e freddo e fame e sete e sonno e fatica, onde san Paolo: Usque ad hanc horam esurimus, et sitimus, et nudi sumus, et colafis cedimur. Et a Timoteo pastore: tu vero vigila, in omnibus labore. Scrive Senofonte che l’occhio del padre di famiglia fa che le cose di casa sua si conservano belle e buone. Come adunque potranno i pastori dormir quetamente, sapendo che, quanto più tengono chiusi gli occhi, tanto più levano di bene e di comodità alla sua greggia? Il sonno è necessario per ristorare le membra e farle più gagliarde alle nove fatiche. Però i Poeti celebrano il sonno come dono gratissimo di Dio. Onde Virgilio:

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Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris incipit, et dono divum gratissima serpit. Ma non si può con tutto questo trovar cosa più biasimevole in un uomo ch’abbia cura de’ corpi e dell’anime di molti popoli e voglia tutta la notte giacersi nel letto: perciò che deve esser desto e vigilante sopra il gregge commesso alla cura sua. Il che quanto a Dio sia caro si mostra in questo particolare, ch’egli rivelò la gloria e ’l trionfo del cielo nella natività di Cristo a’ pastori vigilanti, i quali ebbero grazia di vederlo et di adorarlo. E ’l Salvator nostro rassomiglia se stesso al buon pastore, dicendo in san Giovanni: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor animam suam ponit pro ovibus suis. Quando adunque si dice in questo Salmo, Dominus pastor meus, secondo una traduzione o Dominus regit me, secondo la traduzione approvata da santa Chiesa: non s’intende solo, che Dio pasca la carne col cibo; ma che regge, alberga, difende, pasce, cura, visita, ammaestra gli eletti, come vero e perfetto pastore. Or m’affliggi, et or mi sei sostegno. Quello che dice David: Virga et baculus. La verga o la bacchetta percuote. Il baston pastorale è atto a sostentare. Però dice l’autore, che Dio talor lo favorisce, talor lo castiga; e favorendolo, e castigandolo sempre gli fa grazia; perché di sua Maestà è scritto: Castigat omnem filium, quem recipit. Che son pien di gioia. Il testo Latino dice: Impinguasti in oleo caput meum. Il che è detto per metafora, volendo mostrar l’allegrezza della mente, conforme a quell’altro luogo del Salmo: Unxit te Deus oleo laetitiae prae confortibus tuis. Nel tuo bel vaso augusto. Calix meus inebrians, dice il teso Latino. Et anco questo è detto per metafora e parla della contemplazione, di cui san Bonaventura e Riccardo di san Vittore nel suo libro della contemplazione trattano a lungo. Di questo vino parla la sposa nella Cantica, quando dice: Introduxit me Rex in cellaria sua: ordinavit in me charitatem.

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Salmo CXXXII di David, che incomincia: Ecce, quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum. O qual dolcezza apporta, o quai diletti, quel gentil nodo santo che stringe in un voler diversi affetti. Qual di balsamo scende il sacro nembo che i bianchi velli eletti bagna d’Arone e gli empie il seno e ’l lembo, tal, pien di pura gioia, scende amore a le bell’alme in grembo e bea con le sue grazie il nostro core. Come d’erbe e di piante orna la fronte il rugiadoso umore d’Ermone al colle e di Sion al monte, così d’ogni virtù lo spirto veste la carità ch’è fonte de l’opre sante e de le voglie oneste. Ove alberga la pace alma e gradita apporta il Re celeste col suo favor felice eterna vita. ESPOSIZIONE

Questo Salmo è scritto con tanta brevità di parole, che per farlo chiaro l’autore s’allarga alquanto et applica le comparazioni dell’unguento d’Aronne e della rugiada in un modo che si lascia intendere; e fa più tosto l’ufficio di parafraste che di semplice traduttore. Loda questo Salmo l’unità fraterna, la quale, come dice sant’Agostino, è molto convenevole a’ Cristiani, i quali debbono avere una sol mente et una fede sola. Dell’unità della mente scrive san Luca negli Atti Apostolici: Multitudinis credentium erat cor unum et anima una. Dell’unità della fede dice san Paolo: Implete gaudium meum, ut idem sapiatis, eandem charitatem habentes, unanimes id ipsum sentientes. L’unità è cosa sommamente desiderabile et ha molti giovamenti, ma è da sapere che si trovano molte maniere d’unità. Si trova unità carnale, naturale, mentale, morale, spirituale, personale, essenziale. Della carnale dice Mosè: Erunt duo in carne una. Della naturale dice Atanagio: anima rationalis et caro unus est homo. Della mentale dice san Luca: Multitudinis credentium erat cor unum et anima una. Della morale dice David: Deus, qui habitare facit unius moris in domo. Della spirituale dice san Paolo: Qui adhaeret Deo, unius spiritus est. Della personale dice il Simbolo: Deus et

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homo unus est Christus. Della essenziale dice Cristo Signor nostro in san Giovanni: Ego et pater unum sumus. Qui parla David dell’unione corporale in uno albergo e dell’unione mentale in uno amore. Dall’unità corporale e mentale vengono agli uomini molti comodi, come si può trarre dalle sacre Scritture. Prima un amico aiuta l’altro quando è spinto a cadere, onde si sostentano amendue. Così dice l’Ecclesiastico: Melius est duos esse simul quam unum: habent enim emolumentum societatis suae. Appresso hanno questo bene che, seppur cade un di loro, può dall’altro esser aiutato: Vae Soli; quia, cum ceciderit, non habet sublevantem se. Hanno di più questo vantaggio che s’accendono l’un l’altro all’imprese onorate e sante, per questo dice la Scrittura sacra: si dormierint duo simul fovebuntur mutuo. Unus quomodo calefiet? hanno anco maggior forza per resistere a’ nemici, onde è scritto: Frater, qui iuvatur a fratre, quasi civitas fortissima. Aggiungete che lo Spirito santo e Cristo, figliuolo di Dio, è fra loro. Onde, quando scese lo Spirito santo sopra gli Apostoli si legge ch’erano congregati insieme e ’l Salvator disse: Ubi fuerint duo, vel tres congregati, ibi sum in medio eorum. Finalmente, quei che sono così uniti facilmente impetrano da Dio ogni favore et ogni grazia: Dico vobis, si duo ex vobis consenserint super terram, de omni re quancunque petieritis, fiet illis a Patre meo, qui in coelis est. Onde l’autor della giosa nel fin dell’Epistola a’ Romani scrive così: Impossibile est preces multorum non exaudiri. Ideo Iohel, monens Iudaeos ad orandum, dicit: Vocate coetum, congregate populum. Qual di balsamo. Nel principio del Salmo David dice due cose, cioè che l’abitare insieme con amore è giocondo e giovevole: Bonum et iocundum. A provar ch’è giocondo usa la comparazione del prezioso unguento con cui s’ungeva il sommo sacerdote il capo, perché l’unzione è simbolo dell’allegrezza, onde anco dice che si sparge in capo e scende nella barba e nella veste fino all’estremità, al lembo; per mostrar poi ch’è giovevole usa la comparazione della rugiada che feconda il colle e ’l monte e dice l’autore ch’Ermone è colle per quell’altra autorità: Hermoni a monte modico. E veramente Ermone è un monticello che si può chiamar colle in comparazion di Sion.

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Ora, graziosi lettori, essendo giunto l’autore al fine di questa sua fatica, consacrandola a Dio, per gloria del quale egli si è mosso a farla e per cui debbiamo tutti adoprar l’ingegno e lo stile et ogni altra perfezione della vita nostra, ha voluto finirla e suggellarla con quel Salmo di David che incomincia: Benedic, anima mea, Dominum et omnia quae intra me sunt nomini sancto eius. A fin che ch’ognuno sia certo che, se in quest’opera egli ha detto qualche cosa buona e giovevole, egli da Dio e non dalla propria industria la riconosce; e che a lui dona ogni gloria, ogni onore che da questa impresa gli potesse venire. E dall’altro canto, se qualche cosa vi è d’imperfetto o di non bene ordinato e vestito, o finalmente detto con poca felicità, egli umilissimamente vi prega che l’aiutiate con le orazioni a Dio, acciocché, affinando l’ingegno con lo studio e molto più con l’umiltà dello spirito e con la vera bontà, per l’avvenire con questo favor de’ preghi vostri egli possa con più giovamento del mondo e con maggior contento e profitto suo scrivere et impiegarsi tutto in questi sacri studi e in queste sante fatiche. Il Salmo CII[I] di David. Benedic, anima mea, Dominum et omnia quae intra me sunt, nomini sancto eius. Tu più pura e di me parte migliore, con vivo ardente zelo del sommo Re del cielo canta l’alta virtù, l’eterno onore. Interne del mio cor parti secrete, accompagnate il canto che ’l sacro nome e santo orna di lui da cui lo spirto avete. La bontade e ’l valor narra di Dio, anima, e quelle molte grazie c’ha’n te raccolte, ingrata, non voler porre in oblio. Questi salda le piaghe alte e profonde de’ tuoi sì gravi errori. Questi, dentro e di fuori scacciando i morbi, ogni salute infonde. Questi vita e valor t’apporta e dona ne la maggior ruina. Questi con la divina clemenza sua t’illustra e ti corona. Questi le voglie tue col bene appaga e, qual augel di Giove,

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con rare tempre e nove ti ritorna a l’età più bella e vaga. Egli è dolce Signor ch’al nostro affanno con gran pietà soccorre e con giustizia corre contra quel ch’altrui face ingiuria o danno. Molte, spinto d’amor, leggi diverse palesi a Mosè feo et al popolo Ebreo del suo voler le chiuse norme aperse. Ei di benigno core usa pietate e senza far vendetta, ch’a lui ritorni aspetta il peccator fino a l’estrema etate. Non si sdegna per sempre e non s’adira con quei che sono in terra; non minaccia ognior guerra, ma gli occhi al nostro mal cortese gira. A’ nostri falli il guiderdon non rende, né manda a noi mortali quel castigo e quei mali che merta ognun di noi quando l’offende. Quanto sopra il più vil basso elemento s’alzan le sacre sfere, tanto si può vedere alto il suo affetto ch’a giovarne è intento. Non è sì lunge il Sol da l’Occidente, quando è ne’ liti Eoi, quanto ha lunge da noi spinto le colpe il suo gran zelo ardente. Qual più pietoso padre al caro figlio tal’ei sempre si mostra verso la gente nostra, se teme e segue il suo divin consiglio. Perch’ei fa quanto infermo è l’uom mortale che, come polve o feno, tosto cade e vien meno e langue come fior caduco e frale in cui talor, soffiando un debol fiato, in poche ore l’adugge; e così l’arde e strugge, ché non si scorge il loco u’ dianzi è stato.

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Ma del celeste Re l’amore interno sopra chi l’ama e teme fin dopo l’ore estreme si vede acceso e fia vivo in eterno. La sua giustizia sempre aiuta e regge padri, figli e nepoti, se, di perfidia voti, servano il patto e la sua santa legge. Sopra le stelle tien l’eccelsa e degna sede e lo scettro altero del suo divino Impero questo Signor, che sopra ogni altro regna. Portate il suo gran nome, Angeli eletti, col canto fra le genti, voi per virtù possenti di far, quand’ei v’insegna, i suoi precetti. Superne, invitte schiere che veloci seguite i suoi voleri del ciel forti guerrieri, lodate il suo valor con chiare voci. Opre de le sue mani in ogni parte, narrate le sue lodi e tu, con vari modi canta i suoi pregi, o mia più degna parte. ESPOSIZIONE

Perché il vizio dell’ingratitudine per testimonio di tutti i Santi è il più orribile e ’l più spaventoso degli altri, David Profeta desta con questo Salmo tutti gli uomini a render grazie a Dio de’ benefici ricevuti, come fa egli che canta le divine lodi di quella gran maestà che l’avea salvato da mille pericoli e l’avea favorito e difeso in ogni caso; e non solamente egli rende grazie a Dio per li benefici ch’egli ha ricevuti in particolare, ma ancora per quelli che la sua divina bontà avea fatti a tutta la nazione Ebrea; e chiama, non sol gli uomini, ma ancor gli Angeli a far questo grande ufficio di lodar Dio, come si può facilmente intendere da questo Salmo chiaro e pieno di spirito e degno di David, sopra il quale non sarà bisogno di far molte annotazioni per la sua chiarezza e facilità. E di benigno cor. Nel testo Latino vi sono quattro voci, Miserator, Misericors, Longanimis, Multum misericors, le quali così dichiara Nicolao Lirano: Misericors, quanto all’affetto; Miserator quanto all’effetto; Longanimis quanto alla pazienza; Multum misericors quanto alla giustizia ch’egli su-

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pera con la misericordia, secondo quella sentenza: Misericordia superexaltat iudicium. L’autore ha spiegato il concetto del Salmo secondo questa esposizione; però, per esprimer l’affetto dice che Dio è di benigno core; per esprimer l’effetto dice ch’egli usa pietà; per tradur la parola Longanimis dice che aspetta il peccatore a penitenza e quell’altra parola Multum misericors si dichiarò nei seguenti versetti, ove si dice ch’egli non castiga i falli nostri secondo che meritiamo e quello ch’ivi si legge. Quanto sopra il più vil. Sono due lontananze che tocca il Profeta: l’una dalla terra al cielo, l’altra dall’Oriente all’Occidente; la prima è minore, la seconda è maggiore. La terra non è lontana dal cielo quanto è tutto il diametro del mondo, perché dalla superficie della terra fino al centro vi è un buono spazio; ma dall’Oriente all’Occidente vi è tanta lontananza quanto è tutto il diametro del mondo interamente. Per queste due lontananze intendono i sacri Dottori due perdoni che abbiamo da Dio: l’uno della pena, l’altro della colpa; quello della pena è il minore perché la pena ha riguardo al corpo, quello della colpa è maggiore perché ha riguardo all’anima; o, per dir più chiaro, la pena riguarda il ben corporale e la colpa il bene spirituale. Perch’ei sa quanto infermo è l’uomo e frale. Tocca in due versi due calamità degli uomini secondo l’esposizione degli Ebrei. L’una è il fomite e l’inclinazione a far male, di cui dice il testo Latino: Ipse cognovit figmentum nostrum; e l’autor chiama questo fragilità, e infermità, di cui s’è detto altrove. L’altra è corporale, di cui il testo Latino: Recordatus est, quia pulvis sumus; e l’autore: Che, come polve o fieno. Segue il Salmo dicendo: Quoniam spiritus pertransibit in illo et non subsistet et non cognoscet amplius locum suum. Sono due esposizioni su questo versetto: alcuni per lo spirito intendono il vento, alcuni intendono l’anima. E secondo queste esposizioni diversamente si intendono anco quelle parole: Non cognoscet amplius locum suum. Quei che intendono per lo spirito il vento dicono che a pena resta alcuna memoria dell’uomo dopo la morte, onde Stesicoro, antico Poeta greco, lasciò scritto: Memoria omnium post mortem cito evanescit. Quei che per lo spirito intendono l’anima dicono ch’essa anima non tornerà più a riconoscere il suo luogo, cioè il corpo; il che s’intende però fino al giorno del giudizio nel quale tutte l’anime torneranno ne’ loro corpi; ma fino a quel giorno non torneranno l’anime ne’ corpi, come dice Giobbe: Antequam vadam, et non revertar ad terram tenebrosam. Passa poi il Salmo a lodar Dio negli Angeli et in tutte le creature, ma, perché degli Angeli e delle creature s’è detto abbastanza in vari commenti, l’autore, non volendo per ora spendersi più oltre con questi discorsi, lascia che i suoi lettori vadano da loro stessi contemplando la gloria di Dio et esaltando la sua Maestà ora et in tutti i secoli.

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[Gabriele Fiamma], Parafrasi poetica sopra alcuni Salmi di David Profeta. Molto accomodate per render gratie a Dio della Vittoria donata al Christianesimo contra Turchi. Accioché le nostre allegrezze sieno veramente Cristiane e grate a sua Divina Maestà. in Venezia, appresso Giorgio Angelieri, [1571] Parafrasi poetica sopra il Salmo CXLVIII che comincia, Laudate Dominum Caelis. Spirti chiari e felici da più sublimi scanni lodate quel gran Re che ’l Ciel governa. Voi ch’ai diletti amici di Dio, spiegando i vanni, portate indizio de la voglia eterna de la corte superna vittoriose squadre, celesti almi guerrieri, pronti a far’ i voleri di quel ch’a l’universo è Duce e Padre, lodate a tutte l’ore questo sommo Signore. Sereno occhio del Cielo che rendi il mondo chiaro, al cui cenno se ’n fugge in un momento l’ombra infeconda e ’l gelo, tu de la notte raro splendor che sembri schietto e puro argento, fate un lieto concento di lode udir intorno e con voi cantiam quelle vive e chiare fiammelle che fan di notte il Ciel chiaro et adorno e de la vostra loda il Re celeste goda. Alto giro celeste, sovrano a l’altre sfere,

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PARAFRASI POETICA SOPRA ALCUNI SALMI DI DAVID

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e voi che sopra quei cerchi sant’onde, luogo sublime aveste, dite quanto è il sapere che ’l Re de l’universo in sé nasconde. Le sue virtù profonde fate chiare co’l canto, dite come le sole sue voci han fatto il Sole, con quanto ha sopra o sotto in ogni canto, di cui la santa legge il mondo ferma e regge. Fere terrestri, voi che ’n chiusi spechi i vostri ricetti aveste posti e ’n antri occolti, ondoso umor con tuoi ciechi e profondi chiostri, fate che i vostri canti il mondo ascolti. Al Re celeste volti nievi, ghiacci e pruine, lampi e folgori ardenti, rapidi fiati intenti a servar le divine voglie con dolci modi, dite l’alte sue lodi. Fecondi colli e monti, piante di frutti ornate, cedri frondosi, ogni or di Dio gli onori fate palesi e conti. D’ugne e di denti armate fere ch’amate i più riposti orrori, giumenti ch’a sudori de’ contadini avari gran refrigerio sete, voi, ch’a volo correte de l’aria i Campi chiari co’ serpi, il canto mio v’invita a lodar Dio. Voi che l’alto governo del mondo avete in mano, principi con le genti, a voi soggette, del gran Monarca eterno,

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dite l’onor sovrano. Con voi vengan le pure fanciullette, giovani e donne elette, quei che son giunti a sera e quei che son ancora del viver su l’aurora, ché sopra l’alta sfera ogni or poggiando sale il suo nome immortale. Rende sempre Beati i suoi diletti, questo Re possente, però lo dee lodar la santa gente.

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PARAFRASI POETICA SOPRA ALCUNI SALMI DI DAVID

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Parafrasi poetica sopra il Salmo CXLIX che comincia, Cantate Domino Canticum novum: Laus eius in ecclesia sanctorum. Un nuovo canto s’oda a queste rive intorno. Il gran Monarca goda di questi onor adorno. I suoi diletti Santi facciano questi canti. L’Ebrea gente se’n vada lieta nel suo Fattore, gioia celeste cada a far giocondo il core de le donne divote al re de l’alte rote. Facciano insieme un coro e di vari stromenti, con suon lieto e canoro, mandin novi argomenti di lode al Re del Cielo, con puro ardente zelo, poi ch’onora gli amici c’hanno il cor pio, rende grandi e felici; non ha i Santi in oblio, ma gli arma di salute con l’alta sua virtute. Se mostreranno i beni onde son gloriosi, saran di gioia pieni ne’ secreti riposi, quando si chiuderanno, gaudio perfetto avranno. Cantando ogni or con gioia al Re del Sommo Impero non avran tedio o noia, fien con giudicio intero l’acute spade usate da le lor destre armate, onde faran vendetta de le genti straniere:

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porranno arditi in fretta, l’empio turbe a giacere. Trarranno i Regi vinti di ferro intorno cinti, i lor Guerrieri illustri proveran le catene, i Capitani industri de’ nostri avranno piene vittorie; e, come è scritto, fia l’inimico afflitto. Così gli amici vuole bear il Re del Sole.

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PARAFRASI POETICA SOPRA ALCUNI SALMI DI DAVID

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Sopra il Salmo CL che comincia, Laudate Dominum in sanctis eius. La Gloria di colui che ’l mondo regge cantate nel suo illustre e santo albergo, voi che sete il suo caro amato gregge. Salite in Cielo, ove ora il pensier ergo, e da quel seggio ond’ei frena e corregge gli spirti ch’ogni error lasciano a tergo dite la forza sua, la maestade, perché l’inunda la futura etade. Faccia la real tromba intorno udire con grati accenti il suon’alto e canoro di Salteri, di Citare, di Lire. Mandate fuor lo strepito sonoro: il Cielo vadano i timpani a ferire e gli accompagne di più voci un coro. Suonate i lieti Cimbali al Signore, et a lui quanto spira faccia onore.

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Sopra il Salmo XCV che comincia, Cantate Domino cantum novum, cantate Domino omnis terra. Del gran Fattor eterno con non usati accenti dite l’onor eterno, sparse nel mondo genti. Odan le dolci note e le vicine genti e le remote. Fate col chiaro canto, ch’altier se’n vada a volo, il suo bel nome santo, da l’un a l’altro polo. Dite com’ei vi apporta tutto quel che lo spirto erge e conforta. Non fia gente sì strana che gli onor suoi non oda; l’onda Mora e l’Ircana al suon leggiadro goda; e fien noti per voi gli illustri merti e’ chiari gesti suoi. Perch’è grande e maggiore d’ogni maggior pensiero, merta infinito onore, quel Re del sommo Impero cui fur sempre soggetti i falsi Dei da l’empia gente eletti. Quei numi infermi c’hanno solo il nome di Dei nel cieco inferno stanno, ma il gran disio de gli Ebrei intorno al Centro ha steso il Ciel di mille ardenti lumi acceso. La vera gloria ha intorno e le bellezze rare, di mille fregi adorno, con maestate appare ne la sua santa sede, ov’ogni purità splender si vede. Genti liete donate lodi a Dio, mentre di lui cantate

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PARAFRASI POETICA SOPRA ALCUNI SALMI DI DAVID

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con acceso desio; ogni mortale intenda com’è la forza sua grande e stupenda. Con riverenzia degna del suo celeste nume con quel ch’egli v’insegna, cortese e pio costume portate l’ostie e’ voti, entrando al Tempio, e doni a’ Sacerdoti. Adori ogni mortale, in un lieto e tremante, il sacro Re immortale ne le sue mura sante; dite come egli il freno ha in man del mondo e ’l fa sicuro a pieno. Darà il suo arbitrio giusto al mondo, legge e norma; il Ciel, di pace onusto, prenderà lieta forma; farà festa la Terra il falso regno e quel ch’ei chiude e serra. Fiorito e verde il crine gli arbori avranno tutti, le tempeste e le brine non torran loro i frutti, poi ch’ei regnante viene e già del mondo in man lo scettro tiene. Ovunque la terrena gente ha matino e sera farà giustizia piena, con ferma fede intera, populo alcun non fia che così dal Signor retto non sia.

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Sopra il Salmo CXXIII che comincia Nisi quia Dominus erat in nobis. Se quel Signor possente ch’ogni sant’alma adora non fosse amico, casta eletta gente; se quel che ’l Cielo onora con l’alta sua virtute non fosse intento a la nostra salute, mentre di sangue lorde apron le fauci e’ denti per divorarci fere e genti ingorde, con lor morsi pungenti, forse con vivo strazio si farebbe il lor ventre di noi sazio. Quando, rompendo il freno al lor cieco furore, cercan di porne a la ruina in seno, tal avrebbon dolore fatto a l’alma sentire, che l’avria spenta l’onda del martire. Di mille e mille danni torbida aspra procella, a’ scogli de gli affanni aprendo il cor, qual stanca navicella, del duol nel mar profondo già sommersi n’avrebbe e posti al fondo. Sempre sarà il tuo nome da noi, Signor, lodato, che le forze nimiche hai vinte e dome. Direm come n’hai dato così tosto soccorso, c’abbian fuggito de le fere il morso. Come augellin, se preso riman al laccio occolto, d’accorto augellator pur dianzi teso, se ’l nodo è rotto e sciolto, tosto lieto ritorna ove il compagno suo mesto soggiorna; così legata e stretta da l’inimico laccio

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PARAFRASI POETICA SOPRA ALCUNI SALMI DI DAVID

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era Signor la tua gente diletta; ora fuor d’ogni impaccio non è chi più l’annode, ché rotto il laccio in libertà si gode. De le Stelle e de’ campi fioriti unico e solo autor che di pietà mai sempre avampi, d’ogni angoscioso duolo solo campar ne puoi, ché ’l nostro ben vien da’ soccorsi tuoi.

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Sopra il Salmo CXXVIII che comincia Saepe expugnaverunt me etc. Più volte aspri guerrieri m’han dato assalti fieri, fin quando ero nascente: così a cagion può dir l’eletta gente; gran battaglie e molte fin da principio m’han dato più volte, ma pur ancor non m’hanno dato l’estremo danno, se ben come biffolchi di piaghe alle mie spalle han fatto i solchi, tanto che del mio strazio si è questo stuol nemico stanco e sazio. Al fin colmo d’amore il mio giusto Signore, ha rotto de’ tiranni il giogo che m’oppresse già molti anni. Or lascieran l’impresa con scorno quei ch’a santi fanno offesa. Non farà mai radice l’empia gente infelice, ma fia com’esser suole l’erba che nasce ove non scalda il Sole, che, nata a pena, è fieno e non può farsi mai matura a pieno. Erba di cui la mano non empierà il villano quando al tempo più grato taglia le chiome lunghe al verde prato; cui quel che va per via, non dirà, L’opra tua felice sia.

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TIPOGRAFIA VATICANA

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